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pane; un’altra ove ponevasi a fermentare su tavole disposte l’una
sull’altra lungo il muro, e quindi una terza ove riponevasi già cotto.
Presso era la stalla degli asini che giravano le mole, secondo il
metodo più usitato. In questo pistrino si trovarono quattro macine un
po’ più basse delle consuete d’altrove, formate da un cono concavo
che si volge su di un altro convesso, anfore di grano e farina, e sul
muro del Pistrino, vedesi un dipinto che esprimeva un sagrificio alla
Dea Fornace e diversi uccelli. È forse la panatteria migliore che si
scoperse finora.
Un altro forno publico è nel lato sinistro della casa di Fortunata
presso quella di Pansa, con tre mulini, sull’un dei quali leggesi Sex.
Sulla bocca del forno vi era un phallus colorito in rosso ed al di sopra
scritta la leggenda hic habitat felicitas, novella prova che
l’emblema non fosse unicamente a segno di mal costume, ma
piuttosto a felice augurio ed a scongiuro di disgrazia, come già ebbi il
destro di sostenere. Nella bottega attigua di panatteria esisteva una
pittura rappresentante un serpente, simbolo di una divinità custode,
e rimpetto una croce latina in basso rilievo. Sarebbe questo segno
un indizio del sospetto da me già espresso che la religione di Cristo
fosse già penetrata in Pompei? Faccio voti che i futuri scavi abbiano
ad offerire maggiori dati, che il sospetto e l’induzione abbiano a
mutare in certezza assoluta.
Sull’angolo della via del Panatico, un’altra panatteria ha un gran
forno con quattro mulini. Su due d’essi leggonsi le parole sex e
sohal in caratteri rossi e sopra il forno vedevasi una figura
rappresentante evidentemente un magistrato che distribuiva pane al
popolo.
Nella viottola della Fontana del Bue, si è pure trovato un pistrino con
tre macine, un gran forno a corrente d’aria e delle madie foderate di
piombo.
D’un’ultima panatteria terrò conto, scoperta nel 1868 ed
appartenente a Paquio Proculo, al quale apparteneva pure la casa.
Essa è nella Via Stabiana (Regione VII, Isola II). Il chiarissimo
Minervini lesse dipinta sulla parete sinistra della casa la seguente
epigrafe, che oggi è frammentata per la caduta dell’intonaco:
PROCVLE . FRONTONI
TVO . OFFICIVM . COMMODA
e l’altra così:
MARCVM CERRINIVM AEDILEM
POMARII ROGANT
Ciò che vuol essere osservato si è che in queste botteghe, che sono
circostanti al Tempio di Augusto, si sono rinvenuti molti oggetti
preziosi e d’arte, fra quali una statuetta di bronzo rappresentante
una Vittoria con armille d’oro alle braccia; un’altra in marmo; Venere
che si asciuga i capelli, come sorgesse allora dalle spume dell’Ionio
mare, colla parte inferiore velata da un drappo dipinto in rosso; una
bella tazza d’alabastro, anelli d’oro, gemme, sistri isiaci, un vaso di
vaghissimo lavoro, amuleti, strigili e diverse monete.
Sarà negli ulteriori scavi che verrà dato indubbiamente di scoprire
taberne d’altre cose mangerecce, e soprattutto lanienae, o botteghe
da beccai e macelli, la principale opera e materia prima dei quali
veniva somministrata dai templi, per le continue vittime che vi si
immolavano, per lo più in buoi, giovenche e pecore; e se agli Dei si
bruciavano ciocche di lana e qualche inutile interiora, tutt’al più
spruzzate da vino e mescolate di fiori, il meglio veniva accortamente
goduto dai sacerdoti pel loro uso, e venduto nuovamente ai gonzi, di
cui si costituisce la maggior parte del pubblico, che a ragion di
divozione avevano fatto prima l’offerta. I macellai dell’antichità erano
adunque principalmente i sacerdoti.
Della bottega del Chirurgo e del Seplasarius o farmacista e di quella
di prodotti chimici, ho già detto nel Capitolo delle Scuole; di quella
dello scultore mi occuperò nel venturo delle Belle Arti, come anche
del mercante de’ colori; perocchè meglio vi si trovino in essi collocati,
come materia che a que’ capitoli ha tutto il suo riferimento.
Nella stradicciuola di Mercurio, gli scavi trovarono nel 1853 un
Myropolium, o bottega da profumiere, detta anche, come la vediam
nominata in Varrone e Svetonio, unguentaria taberna [290]. Già
superiormente ho toccato dello spreco di profumi, aromi ed unguenti
che si faceva a quei tempi di grande effeminatezza in Roma e in
tutto l’orbe a lei soggetto. Non era soltanto, cioè, del mondo
muliebre; ma pur degli uomini. All’uscire del letto, prima d’entrare nel
bagno, nel bagno e dopo, era costume di ugnersi e di profumarsi;
altrettanto facevasi nelle case prima del pasto e avanti comparire in
pubblico e prima di coricarsi; ogni occasione era buona per
ispargersi il corpo e le vestimenta di odorose essenze, per ungere i
capelli e perfino per profumare camere ed appartamenti. Già abbiam
veduto nel capitolo dell’Anfiteatro come si facesse eziandio all’aperto
assai gitto di croco: si può pertanto argomentare cosa dovesse
essere negli appartamenti chiusi: a suo luogo vedremo,
specialmente nel triclinio e ne’ funerali.
Ma più che tutto, era nell’amore che di profumi si abusava, come
eccitanti e preparatori allo stesso. È noto, scrive Dufour [291], che il
muschio, il zibetto, l’ambra grigia e gli altri odori animali portati nelle
vesti, nei capelli, in tutte le parti del corpo esercitano un’azione
attivissima sul sistema nervoso e sugli organi della generazione. Nè
solo adoperavano esternamente detti profumi, ma non temevano di
far entrare aromi e spezie in quantità nel giornaliero loro alimento;
onde a ciò si voglia ascrivere quell’appetito e prurito continuo che
tormentava la romana società e che la spingeva in tutti gli eccessi
dell’amor fisico.
La lussuria asiatica portò seco tali profumi e d’allora in poi, così
prodigioso fu il consumo delle sostanze aromatiche, che parve non
bastare quanto inviava la Persia, l’Arabia e tutto l’Oriente insieme.
S’era insomma venuto a tal punto, da aver ragione Plauto, quando
nella Mostellaria usciva in questi accenti:
. . . tonstricem Suram
Novisti nostram, quæ modo erga ædes habet [294].