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Il Tesoro Della Baronessa
Il Tesoro Della Baronessa
Il tesoro
della baronessa
© 2023 Erba Moly Editore
Grazie Bruno!
Valeria Corciolani
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manifestarsi.
– Fulvio, puoi venire un momento nel mio ufficio? –
L'agente scelto Fulvio Bonino, secondo il tipico stile
dei nativi valdostani, alle parole era solito prediligere i
fatti. Da persona generosa quale era, non ebbe cuore di
avanzare obiezioni alla richiesta del suo superiore. Seb-
bene fossero molto diversi come carattere, li accomuna-
va, oltre alla giovane età, anche una passione esagerata
per le arrampicate, il rafting e per qualsiasi tipo di attività
sportiva lontana dal convenzionale quanto lo sarebbe un
albero di Natale a Ferragosto.
– Non si preoccupi, ispettore. Se il commissario sarà
d'accordo, mi occuperò volentieri di istruire la recluta. –
– Bravo Fulvio! Era questo che volevo sentirti dire.
– rispose Gianetti, congedando Bonino con una pacca
sulla spalla.
Fulvio Bonino ricordava che, quando più di tre anni
prima, appena arruolato nella Polizia di Stato, venne as-
segnato a quel commissariato, fu proprio l'ispettore Gia-
netti a fargli da “balia” durante le prime settimane.
Questo lo rendeva ancora più orgoglioso dell'incari-
co che Gianetti gli aveva affidato. Lo vedeva quasi come
un premio alla carriera, che, seppur breve, era stata ricca
di esperienze lavorative e di insegnamenti importanti da
parte dei suoi superiori.
Dell'ispettore Gianetti, certamente, ma, in primis e
soprattutto, del commissario Badalotti, verso cui Bonino
nutriva una profonda stima, opportunamente ricambia-
ta.
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tamente distaccato.
Barbara, dal canto suo, aveva subito chiesto del com-
missario Badalotti. Saputo che era al capezzale della
madre, si era mostrata molto rattristata. Molto di più di
quanto lo stesso Bonino, che pure era affezionatissimo al
suo superiore, si sarebbe aspettato da una collega appena
entrata nella squadra.
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la testa sul bordo del piano cucina. Credo sia morta quasi
sul colpo. –
– A che ora potrebbe risalire la morte? – L'ispettore
Gianetti era intervenuto per tentare di dare una brusca
accelerata a quella specie di referto medico “Real Time”
che il dottor Airoldi stava proponendo.
– Non posso ancora dirlo con precisione, ma certa-
mente al tardo pomeriggio. Quando sono arrivato questa
sera l'algor mortis era già in stato avanzato. –
Così dicendo, il dottor Airoldi raccolse da terra la
valigetta medica e si avviò verso la porta del piccolo al-
loggio. – Vi farò avere il rapporto dell'autopsia lunedì.
Almeno la domenica mi lascerete riposare, spero! –
Badalotti lo avrebbe voluto per il giorno successivo,
ma non ebbe cuore di chiederlo.
– D'accordo, dottor Airoldi. Grazie e buona serata. –
– La serata ormai me la sono rovinata venendo qui a
esaminare il cadavere di un'anziana signora, che, proba-
bilmente, da viva doveva essere anche una persona ama-
bile e cordiale. Chissà, forse mi avrebbe anche offerto un
caffè o qualcosa da bere! –
– Un caffè è molto probabile, ma di alcolici non ne
teneva in casa! –
L'agente Rossi si era sentita in dovere di puntualiz-
zare, dato che aveva avuto l'opportunità di ascoltare la
narrazione delle abitudini quotidiane direttamente da
Antonietta Fusco.
– E chissà a quante persone lo aveva davvero offerto
un caffè nei suoi ultimi giorni di vita! – Il pensiero era
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ha visto Antonietta. –
Preso quasi in contropiede dall'affondo della donna
poliziotto e altamente preoccupato dal rischio di dover
saltare il pranzo, Gilberto Caruso decise che gli conveni-
va raccontare ciò che sapeva.
Iniziò col citare le tre persone che, a suo modo di ve-
dere, avevano avuto più a che fare con la vittima.
Mentre Gilberto le elencava, l'agente Nobiltà control-
lava che i nominativi fossero gli stessi presenti nella lista
redatta da don Cremasco.
In effetti, su quell'elenco, oltre ai nomi del magrebi-
no Mohammed e dello strano individuo che avevano di
fronte, ne comparivano altri due, che Gilberto citò, for-
nendone anche una descrizione fisica e comportamen-
tale.
– Come vi dicevo, oltre a quel fiorista, che, se non
fosse un marocchino, sarebbe anche un bravo Cristo,
c'è Gullit. No, non vi sto prendendo in giro, credo che si
chiami Salvatore, ma il cognome non lo so mica. –
– Salvatore Pugliese, soprannominato Gullit, di anni
37 – intervenne Ruggero Nobiltà che teneva sempre sotto
controllo l'elenco preparato da don Lorenzo.
– Lo chiamiamo Gullit perché da ragazzo era tifoso
del Milan e sullo zaino ha appiccicato un sacco di figu-
rine di quel calciatore lì, quello con le treccine in testa.
Ma lui è un po' di giorni che non lo vediamo. Ogni tanto
sparisce per un po'. Secondo me lo mettono in galera,
ma poi puzza così tanto di sudore che lo lasciano subito
libero. –
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capacità professionale.
Primo fra tutti Mario Gianetti, che, pur nell'evidente
conflittualità sottile che perdurava tra loro, sapeva bene
di aver tanto da imparare dal proprio capo e, più di una
volta, si era augurato di poter sviluppare l'acume inve-
stigativo che aveva caratterizzato le decisioni prese dal
commissario nelle indagini vissute fianco a fianco.
I tre agenti, invece, erano accomunati da un'adorazio-
ne incondizionata nei confronti del loro superiore, sia
perché ne riconoscevano l'autorevolezza, sia perché, in
modi e situazioni diverse, ne avevano sperimentato l'u-
manità.
Per Barbara Rossi i pochi giorni trascorsi dall'asse-
gnazione al commissariato di Alessandria erano stati
sufficienti per riconoscere nel commissario quella per-
sona speciale che, ai tempi in cui era bambina, le aveva
fatto quasi da secondo padre, e per mantenere intatta la
devozione alla figura di quel giovane agente che era stato
spesso suo compagno di giochi.
Fulvio Bonino aveva assunto il commissario Badalotti
a modello comportamentale del mestiere di rappresen-
tante delle forze dell'ordine e si augurava di diventare an-
ch'egli, un giorno, in tutto e per tutto simile al suo capo,
anche se un pensierino sulla possibilità di conservare
una forma fisica appena più tonica lo faceva quotidiana-
mente, ma questo non lo avrebbe mai ammesso, neppure
a se stesso.
La figura del commissario Luigi Badalotti rappresen-
tava invece, per l'agente Ruggero Nobiltà, quasi un totem
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grinta mostrata dalla nuova risorsa che gli era stata asse-
gnata. Lo stesso Gianetti era combattuto tra l'irritazione
per essere stato zittito da una che considerava sua sotto-
posta e l'immagine di Barbara che usciva dalla vasca da
bagno che gli si era insinuata nella mente e non sembrava
volersene andare in tempi brevi.
Immagine che, contrariamente a quanto avrebbe po-
tuto credere il commissario, si era insinuata anche nel-
la mente dello smarrito Fulvio Bonino, che, a partire da
quel momento, avrebbe avuto certamente qualche diffi-
coltà in più a concentrarsi su quello che il suo capo si
stava apprestando ad esporre.
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notte. –
– Proprio come sospettavo. Ora manca solo il nome di
questo spacciatore. –
– Non lo so come si chiama veramente. Nel giro lo
chiamano Stecca, perché gli accordi per la roba da pro-
curare li prende nelle sale da biliardo. –
– C'è ancora una cosa che non mi è chiara. Le hanno
chiesto anche di fracassare la vetrina dell'orologiaio? –
Gutierrez negò con un movimento del capo.
– E allora perché lo ha fatto? –
– L'ho fatto per Maria, commissario. –
Vedendo le facce stupite dei presenti, Rodrigo Gutier-
rez capì che doveva argomentare meglio la risposta.
– Maria è una ragazza che ho conosciuto nella comu-
nità di recupero e di cui mi sono innamorato. Volevo far-
le un regalo per Natale, qualcosa d'oro, per fare colpo, ma
con la droga non riuscivo a mettere da parte nemmeno
un euro.
Il mese scorso, passando davanti a quell'orologiaio, è
stata lei a farmi vedere un anello con una pietra preziosa.
Diceva che aveva sempre sognato di portare al dito
una cosa del genere. Non era una pietra di grande valore,
ma a lei piaceva. Io non ho mai rubato in un negozio,
glielo giuro, commissario, ma avendo visto come è facile
rompere una vetrina, non ho resistito. Glielo avrei rega-
lato tra qualche giorno, a Maria... ma ormai... –
Il Pelagatti, emesso un lungo sospiro, estrasse dalla ta-
sca un fazzoletto di carta, si soffiò il naso e proseguì.
– Dopo il primo colpo, ho capito che si trattava di
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qualche investimento. –
– Non mi pare che ci sia nulla di strano nell'aspira-
zione di una persona di condividere una fortuna inattesa
con i propri amici. – Gianetti, avendo percepito dai vari
colloqui che avevano avuto il giorno precedente in via
delle Orfanelle che la vittima era benvoluta un po' da tut-
ti e diversi senzafissadimora la consideravano quasi come
una seconda mamma, non si era mostrato molto sorpre-
so dalle parole del notaio.
– Ispettore, anche per me è comprensibile questo de-
siderio della Fusco. Lo strano viene ora. La signora mi
contattò poi il giorno seguente dicendomi che, dato che il
processo per realizzare ciò che aveva in mente le sembra-
va lungo e complesso, preferiva garantirsi già da subito
che il denaro sarebbe stato comunque utilizzato secondo
i suoi desideri, qualunque cosa fosse accaduta. In poche
parole, mi chiese di fare testamento. –
La frase ebbe l'effetto che il notaio aveva immaginato.
Per un istante, sia Badalotti che Gianetti saltarono sulla
sedia, in questo caso, sulla poltrona di alcantara.
Ripresosi per primo dallo stupore, Badalotti volle ap-
profondire.
– Quindi la Fusco voleva assicurarsi che il denaro
sarebbe arrivato a destinazione. Le ha detto a chi aveva
intenzione di lasciare il tutto? –
– Ha fatto di più, commissario. Dopo un'ora dalla te-
lefonata, si è presentata qui in studio per redigere il testa-
mento e farlo autenticare. –
– E cosa ha chiesto di scrivere sul testamento? –
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ricettatore? –
– Gutierrez ha detto che, appena fracassata la vetri-
na, aveva sentito avvicinarsi qualcuno; per questo aveva
arraffato ciò che poteva e poi era fuggito. Però, dato che
non era in grado di stabilire il valore di quello che aveva
rubato, aveva deciso di lasciare tutto dalla Fusco fino a
quando non avesse trovato qualcuno in grado di valutare
i diversi pezzi della refurtiva. –
Badalotti rimase per alcuni secondi a meditare ciò che
Nobiltà gli aveva riferito. Fu lo stesso agente a rompere
il silenzio.
– Commissario, ma se non è stato Gutierrez a sottrar-
lo, cosa può essere successo? –
– Non so, ma ho la sensazione che questa sia una cosa
di una certa importanza. Segui il mio ragionamento: se
l'orologio è sempre stato nel sacchetto col resto della re-
furtiva, ma noi non l'abbiamo trovato e non è stato Gu-
tierrez a prenderlo... –
– Umh... vuol dire che l'ha preso qualcun altro, com-
missario! –
– Esatto, Ruggero. Quindi possiamo dedurre che Gu-
tierrez non era il solo a sapere della refurtiva. Qualcu-
no deve aver scoperto il sacchetto nascosto nel vano del
contatore del gas. E questo qualcuno può essere soltanto
la signora Fusco o una delle altre persone che frequenta-
vano abitualmente la sua casa. Nessuno che fosse capita-
to lì occasionalmente avrebbe avuto accesso al balcone. –
L'agente Nobiltà aveva seguito la disquisizione del suo
superiore senza fiatare. Aveva addirittura trattenuto il re-
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lita e in ordine.
Non le restava che Poirot. Quel tenero cucciolo avreb-
be di certo ascoltato il suo racconto, magari riempien-
dola di affettuose leccate, perché doveva ammetterlo, era
più lui a colmarla di attenzioni di quanto facesse lei nei
suoi confronti. Sembrava quasi che Poirot avesse intuito
da subito il suo bisogno di sentirsi coccolata, in modo
particolare durante quei giorni in cui tutto era accaduto
così in fretta, dal nuovo lavoro, ai rapporti da costruire
coi nuovi colleghi, alla vicenda tragica di Antonietta.
– Allora Barbara, mi stavi parlando di queste due per-
sone presenti al funerale che, da quello che avete capito
tu e Fulvio, potrebbero fornirci ulteriori informazioni
sulla vita di Antonietta Fusco e sui suoi ultimi giorni di
vita. –
– Al funerale abbiamo notato che, oltre ai poveri che
le erano più affezionati e qualcuno dei volontari, in pri-
ma fila c'era un signore distinto, che don Cremasco ci ha
poi detto trattarsi di Carlo Menapace, professore di liceo,
di cui Antonietta gli aveva parlato come di un amico di
lunga data. Così lo abbiamo avvicinato all'uscita dal ci-
mitero e si è detto disponibile a collaborare con le inda-
gini. Ha confermato che con la vittima erano compagni
di scuola e che avevano ripreso a frequentarsi in modo
amichevole da un po' di anni. Gli abbiamo chiesto di pas-
sare domattina in commissariato. –
– Avete fatto benissimo. E poi mi parlavi anche di una
signora più o meno dell'età della Fusco. –
– Sì, l'ho notata perché era rimasta in fondo alla chie-
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l'indagine in corso.
A proposito, come si chiama questa signora? –
– Adelina, Adelina Serioli. –
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l'appuntamento? –
– Avrei dovuto, ma proprio la sera prima mi ammalai.
Niente di grave, un classico virus influenzale, ma non mi
reggevo in piedi. Così, quando mi citofonò quella matti-
na, le dissi che stavo male e che appena fossi guarito, sarei
passato da lei per farmi raccontare tutto. Antonietta non
possedeva telefoni e quindi non avrei potuto rintracciar-
la in altro modo. Purtroppo, non ho fatto in tempo... –
I presenti videro il professore abbassare il viso verso
terra, per nascondere, con ogni probabilità, gli effetti di
una forte emozione ancora viva.
– Lei si è fatto un'idea di ciò che può essere accaduto
quel tardo pomeriggio in cui la signora Fusco ha perso
la vita? –
Carlo Menapace tornò ad alzare il capo e a guardare
dritto in viso il commissario.
– Commissario, e come faccio ad essermi fatto un'i-
dea? Io so quello che ho letto sui giornali. Parlavano di
una violenta colluttazione. Io le avevo sempre detto di
stare attenta a quelli che frequentava. Lei aveva l'abitudi-
ne di far entrare in casa chiunque. Si fidava troppo degli
altri. –
– Ancora una domanda, professore, non vorrei abusa-
re troppo del suo tempo. –
– Non si preoccupi, dottore, io di tempo ormai ne ho
da vendere. Non sono sposato, vivo da solo e, ormai che
sono in pensione, faccio solo delle attività di volontariato
in parrocchia. –
– La ringrazio. Le volevo chiedere se in questi anni ha
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L'agente Barbara Rossi, prima ancora che l'ispettore Gia-
netti potesse intervenire, si affrettò a confortarlo: – Non ser-
vono le manette, signor Reggiani. Stia tranquillo! –
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SESSANTADUESIMO
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maggior vigore.
– Entri, entri pure, commissario. Grazie per essere ve-
nuto. Mi sono preparato a riceverla, per questo le avevo
lasciato la porta accostata. Mi perdoni se non le vengo
incontro, ma mi sento un po' debilitato oggi... –
Il professor Carlo Menapace aveva fatto accomodare
Luigi Badalotti nell'elegante salotto del suo appartamen-
to di Corso IV Novembre. Appariva molto più pallido ed
emaciato di quando si era presentato in commissariato
qualche giorno prima. Appena varcata la porta, il com-
missario aveva notato sull'attaccapanni ciò che si aspet-
tava di trovare.
– La prego, mi dica subito come avete fatto a capire
che l'ultima persona ad aver visto viva Antonietta sono
io... mi incuriosisce comprendere come funzionano le
menti di voi poliziotti. –
– Professore, in questo caso è stato più semplice di
quanto lei immagini. C'è un testimone che l'ha ricono-
sciuta mentre suonava insistentemente il campanello e
un altro testimone che ha riconosciuto il suo imperme-
abile e il suo cappello appesi nell'ingresso dell'apparta-
mento poco dopo. –
– Commissario, non cerchi di farmi credere che uno
come lei rinuncia a fare delle ipotesi su come si sono
svolti i fatti... che si accontenta di avere dei testimoni che
possano inchiodarmi, suvvia! –
Badalotti non poté fare a meno di notare che il profes-
sore faticava a parlare, ansimando vistosamente.
– Vede, professore, noi possiamo fare tutte le suppo-
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SESSANTACINQUESIMO
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prima di ucciderla. –
– Già, ma forse anche lei ha sbagliato. Erano amici da
lunga data, avrebbe dovuto ascoltarlo. –
– Eh, sì, tanto è sempre colpa delle donne! –
Barbara l'aveva buttata lì tra il serio e il faceto.
– Non volevo dire questo. Ma bisognerebbe sempre
cercare di ascoltare gli altri. È una delle prime cose che
ho imparato dal commissario. Lui dice sempre che anche
nelle indagini la cosa più importante è saper ascoltare
con attenzione. –
– Fulvio, cosa rappresenta per te Badalotti? –
– Domanda di riserva? –
Barbara scoppiò a ridere, avvicinandosi a Fulvio fino
a trovarsi a pochi centimetri dal suo viso.
– Ma dai! Era una domanda seria. –
– Che vuoi che ti dica, gli sono molto affezionato. Non
vorrei sembrarti esagerato, ma per me è quasi come un
padre. –
– Anche per me, sai? Ti ho raccontato di come lui sia
stato uno di famiglia quando ero piccola. Dal giorno in
cui io e mia madre siamo rimaste sole, ci ha quasi adot-
tate. –
Gli si era avvicinata ancora di più, aveva posato le
mani sulle sue spalle e accostato il capo al suo petto. Il
cuore di Fulvio aveva improvvisamente accelerato.
– Così siamo un po' fratello e sorella! –
Una battuta per cercare di sdrammatizzare quella si-
tuazione che iniziava ad imbarazzarlo. Appena detta,
però, si era subito accorto di quanto gli fosse venuta male.
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- L'occhio di drago
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