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Racconto tratto dalla raccolta «Vita dei campi» di Giovanni Verga

(1840-1922). Riscritto in italiano semplificato e adattato a studenti


di livello intermedio (B1-B2)

Malpelo si chiama così perché hai i capelli rossi. Ha i capelli rossi


perché è un ragazzo cattivo e malvagio. Alla cava della rena[1] rossa
lo chiamano tutti Malpelo. Perfino suo madre non ricorda il nome di
battesimo.
Torna a casa solo il sabato sera, con i pochi soldi della settimana.
Sono sempre pochi e sua madre ha paura che Malpelo ne abbia
rubato una parte. Il padrone però dice che i soldi che porta a sua
madre sono giusti. Ma nel dubbio, per non sbagliare, la sorella
maggiore gli fa la ricevuta a scapaccioni[2].
Tutti lo schivano come un cane rognoso e, quando se lo trovano a
tiro[3], lo prendono a calci. È davvero un brutto ceffo[4], torvo[5],
ringhioso e selvatico. A mezzogiorno, quando gli operai mangiano in
gruppo, lui si rannicchia[6] in un angolo da solo, a rosicchiare un pò
di pane scuro, come fanno le bestie simili a lui.
Gli altri lo insultano, gli tirano i sassi, finché il capo lo rimanda al
lavoro con un calcio. Ma i calci non gli fanno niente e si lascia
caricare più dell’asino grigio senza mai lamentarsi.
È sempre cencioso e sporco di rena rossa. Tuttavia lo conoscono per
tutto Monserrato e la Carvana[7], tanto che la cava la chiamano «la
cava di Malpelo». Questo infastidisce molto il padrone, che lo tiene
solo per carità e perché suo padre mastro Misciu è morto in quella
stessa cava.
È morto così.
Un giorno mastro Misciu prende un lavoro a cottimo: togliere la rena
da un pilastro che non serve più. Con il padrone ha calcolato circa
35 o 40 carri di rena. Ma ha sbagliato i conti e il sabato, dopo tre
giorni di lavoro, ancora non ha finito di scavare. Solo uno stupido
come lui può farsi ingannare in quel modo. Gli altri operai lo
chiamano mastro Misciu Bestia e lo considerano l’asino da trasporto
di tutta la cava. Ma lui non bada alle chiacchiere. Pensa solo a
guadagnarsi il pane con la forza delle sue braccia.
Zio Mommu lo sciancato gli ha detto – Io quel pilastro non lo tolgo
neanche per venti onze[8], talmente è pericoloso.
– Qui tutto è pericoloso – ha risposto mastro Misciu – Se uno
ascolta tutte le sciocchezze che si dicono, non deve lavorare nella
cava. Meglio se va a fare l’avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu ancora sta scavando nel
pilastro. I suoi compagni quando tornano a casa gli dicono
scherzando:
– Mastro Misciu, divertiti a scavare la rena per il padrone.
– Mastro Misciu, attento a non fare la morte del sorcio[9].
Ma lui non bada alle beffe, risponde solo con una risata e continua a
dare con forza dei colpi di zappa al pilastro.
Ad ogni colpo di zappa dice fra sè – Questo è per il pane! Questo
per il vino! Questo per la gonna di Nunziata![10] – E così fa i conti di
come spendere i soldi del suo lavoro.
Intanto Malpelo mette a posto il piccone, il sacco vuoto e il fiasco di
vino. Il padre, che gli vuole molto bene, gli raccomanda sempre: –
Figlio mio stai attento! Spostati di là che è meno pericoloso! Se vedi
cascare dei sassolini o della rena grossa, scappa subito.
All’improvviso, punf! Un rumore sordo, come fa la rena traditrice
quando cade in un solo colpo.
L’ingegnere che dirige i lavori della cava è ancora a teatro quando
gli operai vengono per dirgli che mastro Misciu ha fatto la morte del
sorcio. Tutte le donne di Monserrato strillano e si picchiano il petto
per la grande disgrazia arrivata a Santa, la madre di Malpelo. Lei è
l’unica che non piange e non dice niente, ma trema e batte i denti
come se fosse malata di malaria.
Quando l’ingegnere viene a sapere dell’incidente sono passate tre
ore, e Misciu Bestia deve essere già in Paradiso. Solo per scrupolo e
coscienza decide di andare sul luogo della disgrazia con la scala e le
corde.
Quando arriva, lo sciancato dice – Altro che quaranta carri! Qui ci
vuole almeno una settimana. C’è una montagna di rena, e talmente
fine e bruciata che si impasta con le mani. Bell’affare ha fatto
mastro Bestia!
L’ingegnere, vedendo che non c’è più niente da fare, torna di nuovo
a teatro. Gli altri operai stanno per partire quando sentono una voce
che non ha niente di umano: – Scavate! Scavate qui! Presto!
Quando si avvicinano vedono un buco e dentro c’è Malpelo che si
graffia la faccia e urla, proprio come una bestia.
– To’! – dice lo sciancato. – È Malpelo! Da dove è saltato fuori,
adesso?
Un’altro operaio dice – Solo lui poteva salvarsi. Si vede che è amico
del diavolo. Ha la pelle più dura di un gatto.
Malpelo non risponde nulla, non piange nemmeno, scava con le
unghie nella rena, dentro la buca. Quando gli operai scendono nella
buca per tirarlo fuori e si avvicinano col lume, vedono il viso
stravolto, gli occhiacci grigi, e la schiuma alla bocca da far paura; le
unghie sono tutte strappate e gli pendono dalle mani insaguinate.
Toglierlo dalla buca è una faccenda seria. Malpelo non vuole uscire
e, non potendo più graffiare, morde come un cane arrabbiato.
Devono afferrarlo per i capelli e tirarlo via con tutta la forza.
Qualche giorno dopo, Malpelo torna di nuovo alla cava,
accompagnato per mano dalla madre che, piangendo dice di non
sapere come procurarsi il pane.
Da quel momento inizia a lavorare con accanimento. Non esce mai
dalla galleria, e zappa con tanta forza, quasi come se ogni
corbello[11] di rena lo levasse dal petto di suo padre.
Ogni tanto rimane immobile, con la zappa in aria, il viso torvo e gli
occhi stralunati, come se il diavolo gli sussurrasse all’orecchio.
È sempre più crudele e cattivo, non mangia mai e il pane lo butta al
cane. Il cane gli vuole bene, perché i cani guardano solo la mano di
chi gli dà il pane.
Ma l’asino grigio, povera bestia, storto e consumato, deve
sopportare tutta la sua cattiveria. Lo picchia spesso con il manico
della zappa e gli dice – Così crepi prima!
Dopo la morte del padre gli è entrato il diavolo in corpo e lavora
come un bufalo feroce. Ogni volta che accade una disgrazia, o un
operaio perde i ferri, o un asino si rompe una zampa, o crolla un
pezzo di galleria, gli danno sempre la colpa a lui. E lui prende le
botte senza protestare, come le prendono gli asini che piegano la
schiena e continuano a lavorare. Con gli altri ragazzi è diventato
crudele, come a vendicarsi di tutto il male che hanno fatto a lui e
suo padre.
Un giorno arriva alla cava un ragazzetto piccolo e gracile. Ha un
femore lussato a causa di una caduta nel cantiere dove lavorava e
non può più fare il manovale. Ogni volta che trasporta sulla spalla
un corbello pieno di rena, arranca come se ballasse la tarantella. Fa
ridere tutti gli operai che per questo lo chiamano Ranocchio.
Per un crudele scherzo del diavolo, Malpelo prende questo ragazzo
in simpatia. Gli vuole bene a modo suo. Lo tormenta e lo picchia
senza motivo, e se non si difende lo picchia più forte.
– To’ Bestia! Sei una bestia. Se non ti difendi da me che ti voglio
bene, vuol dire che ti lascerai picchiare da chiunque. Quando
Ranocchio si asciuga il sangue che gli esce dalla bocca e dalle narici,
Malpelo gli dice – con il dolore delle botte imparerai anche tu a
picchiare.
Quando l’asino sale carico dal sotterraneo e si ferma esausto,
ansante e con gli occhi spenti, Malpelo lo picchia senza misericordia,
con il manico della zappa. I colpi suonano secchi sugli stinchi e sulle
costole scoperte. – L’asino lo devi picchiare altrimenti ti pesta sotto i
piedi e ti stacca la carne a morsi.
Ogni volta che Ranocchio si lamenta per il lavoro troppo pesante,
Malpelo lo picchia sul dorso e gli dice – Stai zitto, pulcino. – Ma se
Ranocchio continuava a lamentarsi allora lo aiuta dicendo con un
certo orgoglio – Lascia fare a me. Io sono più forte.
Ogni tanto gli regala la sua mezza cipolla e lui mangia solo il pane
dicendo – Io ci sono abituato.
Lui è abituato a tutto: alle sberle, alle pedate, ai colpi di manico di
badile o di cinghia, ad essere ingiuriato e deriso da tutti, a dormire
sui sassi, con le braccia e la schiena rotta da quattordici ore di
lavoro. È abituato anche al digiuno, quando il padrone per punizione
non gli da il pane e la minestra. Si prende i castighi anche quando
non è stato lui. Non si giustifica mai perché sa che è del tutto
inutile.
Qualche volta Ranocchio lo scongiura piangendo di dire la verità, di
discolparsi, ma lui risponde – A che serve? Sono malpelo. – non si
capisce se per orgoglio o per rassegnazione.
Il sabato sera, quando arriva a casa con il viso pieno di lentiggini e
di rena rossa, cencioso e sporco, sua madre non c’è mai, sempre da
qualche vicina, e sua sorella non lo vuole vedere girare in casa in
quelle condizioni. Quindi va a rannicchiarsi nel suo saccone[12] come
un cane malato.
La domenica, quando gli altri ragazzi, con la camicia pulita vanno a
messa o a giocare nel cortile, lui vagabonda per i campi a tirare i
sassi alle lucertole o ai fichi d’india. Non vuole vedere gli altri
fanciulli, che lo deridono e gli tirano i sassi. È come quei cani, che a
furia di prendere calci e sassate, scappano appena vedono un
uomo, e diventano affamati, spelacchiati e selvatici come lupi.
Preferisce lavorare sotto terra, dove nessuno lo vede brutto e
cencioso com’è. Quel lavoro sembra fatto apposta per lui, perfino
nel colore dei capelli e con quegli occhiacci da gatto che non riesce
a tenere aperti quando vede il sole. Come certi asini, che vengono
calati nei sotterranei, e lavorano senza mai uscire all'aperto, finché
muoiono.
Un giorno, mentre riempie i corbelli di rena, trova una scarpa del
padre. Viene preso da una tale paura e una tale tremore di vedere
spuntare dalla rena il piede di suo padre che gli operai devono
tirarlo fuori dalla buca con le funi, proprio come si fa con gli asini.
Da quel momento, Malpelo va a lavorare in un altro punto della
galleria, e pochi giorni dopo trovano il corpo di mastro Misciu.
Lo zio Mommu dice – Poveretto, mastro Misciu ci ha messo molto a
morire. La rena ha fatto un arco e lui è rimasto seppellito vivo. Si
vede che ha scavato a lungo. Ha le mani lacerate e le unghie
strappate. Proprio come suo figlio. Uno scavava da sotto e l’altro da
sopra.
Però non dicono niente a Malpelo, non per compassione, ma per
paura della sua vendetta.
Sua madre gli adatta il vestito e la camicia di mastro Misciu e così
Malpelo si trova con un vestito quasi nuovo. Le scarpe non le può
rimpicciolire e il fidanzato della sorella non le ha volute, perché non
vuole mettere le scarpe di un morto. Per il momento rimangono
appese ad un chiodo per quando Malpelo sarà grande.
Quei calzoni di fustagno[13] sono dolci e lisci come le mani del padre
quando gli accarezzava i capelli. Ogni domenica guarda le scarpe
come fossero le pantofole del papa, le lustra e le prova. Poi le mette
per terra, una accanto all’altra, e le guarda per ore, seduto con i
gomiti sulle ginocchia e il mento nelle palme, pensando chissà a
cosa.
Ha ricevuto in eredità anche il piccone e la zappa del padre. Sono
troppo pesanti per la sua età. Una volta un operaio gli ha chiesto –
Mi vuoi vendere il piccone e la zappa di tuo padre? Te li pago come
nuovi.
– No, non voglio. Dove li trovo io degli attrezzi con manico così
liscio e lucente. Papà ci ha lavorato anni per farli diventare così. Io
non ci riesco neanche in cento anni.
Un giorno l’asino grigio crepa di stenti[14]. Il carrettiere va a buttarlo
lontano nella sciara.[15]
– Così si fa. – brontola Malpelo – gli arnesi che non servono più si
buttano lontano.
Malpelo porta a forza Ranocchio a vedere la carcassa dell’asino in
fondo al burrone.
– A questo mondo bisogna abituarsi a vedere ogni cosa, bella o
brutta.
E guardano i cani che lacerano le carni del povero animale. Quando
Ranocchio tira loro dei sassi, i cani scappano e rimangono a
distanza guaiendo per la fame. Ma un cane non scappa e continua a
mangiare la carne dell’asino.
– Vedi quel cane nero. Non è scappato. Sai perché? Perché ha più
fame degli altri. Vedi le costole che ha.
L’asino grigio non soffre più. Rimane tranquillo con le quattro zampe
distese a farsi mangiare dai cani. Non piega più la schiena sotto il
peso della rena e delle bastonate. La sua bocca spolpata[16] mostra i
lunghi denti che ridono di quei cani che lo divorano.
La sciara si estende deserta e malinconica fin dove arriva lo
sguardo. Sale e scende in picchi e burroni. Nera e rugosa, senza un
grillo che trilla o un uccello che vola.
– Qua sotto è tutta scavata di gallerie. In tutte le direzioni. Una
volta un minatore si è perso. È entrato con i capelli neri ed è uscito
che aveva i capelli bianchi. A un altro gli si è spenta la torcia.
Dicono che ancora grida aiuto nel buio, dove nessuno lo sente. Il
padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri non hanno il
coraggio di andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno
mi cercherà.
Durante le belle notti d’estate, le stelle splendono lucenti anche
sulla sciara. Malpelo, stanco della giornata di lavoro, si sdraia sul
sacco, con il viso verso il cielo a godersi la quiete a tutte quelle luci
dall’alto.
– Sai Ranocchio. Per noi che siamo fatti per vivere sotto terra,
dovrebbe essere sempre buio dappertutto. Senti la civetta come
stride? Si dispera perché sente i morti che sono sotto terra e non
può andare a trovarli.
– Ma io ho paura delle civette. Ho paura anche dei pipistrelli. – dice
Ranocchio.
– Tu eri abituato a lavorare sui tetti come i gatti. Ma adesso ti tocca
vivere sotto terra, come i topi. Non devi aver paura dei topi e
neanche dei pipistrelli, che sono dei topi con le ali. I topi stanno
bene in compagnia dei morti.
– A me piacciono le stelle. Lassù c’è il paradiso. Vanno a stare i
morti che sono stati buoni in vita e non hanno dato dispiaceri ai
genitori.
– Chi te l’ha detto?
– Me l’ha detto la mamma.
Allora Malpelo si gratta il capo e sorridendo gli risponde – Tua
madre ti dice così perché invece di portare i calzoni dovresti portare
la gonna. Mio padre era buono e non faceva male a nessuno. E si
trova sotto terra.
Una sera portano Ranocchio fuori dalla galleria, sul dorso dell’asino
dentro a un corbello[17], tremante come un pulcino bagnato.
– Questo ragazzo non vivrà a lungo. Bisogna nascerci per fare
questo mestiere. – dice un operaio.
Allora Malpelo si prende cura di Ranocchio e ogni sera se lo carica
sulle spalle per portarlo fuori dalla galleria. Cerca di confortarlo a
modo suo, sgridandolo e picchiandolo.
Ma una volta, gli da un colpo sul dorso, e Ranocchio sputa sangue
dalla bocca e dal naso. Malpelo spaventato gli dice: – Non ti ho
colpito tanto forte. Non posso averti fatto così male. – e si da un
gran pugno sul petto. Poi prende una pietra e si colpisce
violentemente una spalla. Un operaio lo vede e gli da un fortissimo
calcio sul dorso, facendolo suonare come un tamburo.
– Visto? Non mi sono fatto niente. E ha picchiato molto più forte di
me. Lo giuro!
Intanto Ranocchio non guarisce e continua a sputare sangue, e ad
avere la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo ruba dei soldi dalla paga
della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e
gli dà i suoi calzoni quasi nuovi per coprirlo meglio. Ma non c’è
modo di vincere i tremori della febbre, né con i sacchi, né
coprendolo di paglia, né mettendolo davanti al fuoco.
Malpelo spesso lo guarda con i suoi occhiacci spalancati e ogni tanto
esclama: – Se devi soffrire in questo modo, è meglio che tu crepi!
Il padrone dice agli operai di controllarlo, perché quella bestia è
capace di schiacciare la testa al povero Ranocchio.
Ma un lunedì il ragazzino non viene più al lavoro e il sabato Malpelo
va a trovarlo a casa.
Il povero Ranocchio è più di là che di qua[18]. Sua madre piange e si
dispera come se suo figlio guadagnasse dieci lire a settimana.
Malpelo proprio non riesce a capire e chiede a Ranocchio:
– Ma perché tua madre strilla tanto, se da due mesi non riesci a
guadagnarti neanche quello che mangi.
Il ragazzino non risponde. Sembra più interessato a contare i
travicelli del tetto.
Alcuni giorni dopo viene a sapere che Ranocchio è morto. Malpelo
torna a visitare la carogna spolpata dell’asino grigio. Adesso ci sono
solo le ossa sgangherate. Così diventerà anche Ranocchio e sua
madre si asciugherà gli occhi. Come ha fatto sua madre quando è
morto mastro Misciu. Si è asciugata gli occhi, si è risposata ed è
andata ad abitare a Cifali[19]. Anche sua sorella si è sposata e
andata via, ed ha chiuso la porta di casa.
Poco tempo dopo viene a lavorare alla cava un nuovo operaio. Gli
altri operai dicono che è un delinquente scappato di prigione.
Malpelo chiede allo sciancato: – Cos’è una prigione? – e questo gli
risponde: – È un posto dove mettono i malvagi e i cenciosi come te
e li tengono chiusi e guardati a vista.
Dopo qualche settimana il fuggitivo dice che è meglio stare in galera
che fare una vita da talpa in quella cava di rena.
– Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno
mettere in prigione? – chiede Malpelo.
– Perché non sono tutti malvagi e cattivi come te. Ma tu ci andrai di
sicuro. Non preoccuparti. E in prigione ci lascerai le ossa. – risponde
lo sciancato.
Invece Malpelo le ossa le lascerà nella cava, come suo padre.
Un giorno il padrone dice di esplorare un passaggio per vedere se
questo comunica con un pozzo grande. Se la cosa è vera, si può
risparmiare molto lavoro. Ma nessuno dei minatori ha il coraggio di
entrarci, neanche per tutto l’oro del mondo, perché c’è il pericolo di
perdersi e di non tornare mai più.
Ma a Malpelo non importa niente, neanche di tutto l’oro del mondo.
Ormai non sa a chi darlo. Suo padre non c’è più. Sua madre e sua
sorella sono andate via. La sua porta di casa è chiusa. Ha solo delle
scarpe appese a un chiodo.
Si ricorda del minatore che si è perso nelle gallerie e da anni grida
aiuto nel buio, dove nessuno lo sente. Ma non dice niente. Prende il
piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane e il fiasco del vino
ed entra nella galleria.
Di lui non si è saputo più niente. Non ci sono neanche le ossa.
I ragazzi della cava, quando parlano di Malpelo, abbassano la voce.
Hanno paura di vederlo comparire all’improvviso con i capelli rossi e
gli occhiacci grigi.

[1] rena: sabbia.


[2] scapaccioni: schiaffi sulla nuca.
[3] quando se lo trovano a tiro: quando è abbastanza vicino.
[4] brutto ceffo: persona che suscita paura.
[5] torvo: con espressione minacciosa.
[6] si rannicchia: si siede per terra portando le ginocchia vicino al
petto.
[7] Monserrato e Carvana: sobborghi della periferia di Catania, in
Sicilia.
[8] Onza: moneta d’oro del Regno delle due Sicilie in corso fino al
1860.
[9] sorcio: topo.
[10] Nunziata: la figlia che si deve sposare.
[11] corbello: cesto di vimini intrecciati.
[12] saccone: sacco pieno di paglia da usare come materasso.
[13] fustagno: stoffa molto resistente, adatta ad abiti da lavoro.
[14] crepa di stenti: muore per la fatica e la sofferenza.
[15] Sciara: terrno nero e desertico, formato dalla lava solidificata
del vulcano Etna.
[16] spolpata: senza più la carne perché è stata mangiata dai cani.
[17] corbello: cesto di vimini intrecciati.
[18] più di là che di qua: più morto che vivo.
[19] Cifali: località vicino Catania.

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