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i Robinson / Letture

Angelo d’Orsi

1917
L’anno della rivoluzione

Editori Laterza
© 2016, Gius. Laterza & Figli

www.laterza.it

Prima edizione novembre 2016

Edizione
1 2 3 4 5 6
Anno
2016 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma

Questo libro è stampato


su carta amica delle foreste

Stampato da
SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-581-2612-7
Indice

Premessa vii

Introduzione 3
1. Gennaio. La guerra sotto i mari 11
2. Febbraio. La terza diserzione 22
3. Marzo. La «potente valanga della rivoluzione» 35
4. Aprile. Tra Russia e America 51
5. Maggio. «Abbiamo visto la Madonna» 71
6. Giugno. Militari e politici 89
7. Luglio. «Il prossimo inverno non più in trincea» 109
8. Agosto. Una «inutile strage» 126
9. Settembre. Stato e rivoluzione 143
10. Ottobre. Italia Caporetta 158
11. Novembre. I “dieci giorni” 186
12. Dicembre. «Noi siamo qui, perché noi siamo qui» 218

Cronologia 239
Bibliografia e sitografia 247
Indice dei nomi 263

­­­­­V
Premessa

Senza neppure esserne cosciente, mi rendo conto, a cose fat-


te, che questo volume conclude una sorta di trilogia, avviata
con il libro sul 1937 (Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la
menzogna, Donzelli, 2007), e proseguita con quello sul 1989
(1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Ponte alle
Grazie, 2009).
Dedicato dunque all’anno 1917, il libro è organizzato co-
me un percorso tra i dodici mesi, disposti in rigoroso ordine
temporale. Per ogni mese ho evidenziato alcuni avvenimenti,
costruendo una narrazione che li connetta, privilegiando na-
turalmente i più rilevanti, ma aprendo squarci su fatti minori,
capaci di farci penetrare l’atmosfera di quell’anno così impor-
tante nella storia non soltanto del secolo XX. Per facilitare
la lettura ho aggiunto, in calce al volume, una pur sintetica
Cronologia, che mette in fila i diversi eventi che nella narra-
zione del testo sono sparsi, annunciati dove si collocano per
la prima volta, ma poi ripresi, a seconda del loro svolgimento,
eventualmente in mesi successivi. Naturalmente in questo li-
bro non si trova di tutto, in quanto non si tratta di un manuale
e le scelte dell’autore sono discutibili, in quanto soggettive, sia
nella selezione dei fatti, sia nel peso attribuito a ciascuno di
essi. La narrazione dei dodici mesi è preceduta da una breve
Introduzione, insieme storica e storiografica, che funge quasi
da campitura ove si poggiano poi i dodici capitoli.
Mi auguro che il risultato sia accettabile, tanto sul pia-
no della comprensione del racconto, quanto su quello della
ricezione del messaggio dell’autore, che sintetizzerò così: la
Grande guerra fu un osceno macello, di cui l’umanità avreb-

­­­­­VII
be potuto e dovuto fare a meno. Le responsabilità sono più
o meno equamente suddivise tra le cancellerie, le corti e le
classi politiche delle diverse nazioni impegnate, via via, nel
conflitto. Il che non toglie che dalla guerra, accanto a tanti
fenomeni deprecabili e movimenti generatori di altre morti,
altra oppressione, altra sofferenza, nacquero fatti importanti,
o addirittura decisivi per cambiare, in meglio, anche soltanto
per un certo tempo, le sorti del mondo. Soprattutto quella
guerra, introducendoci violentemente nel “moderno”, creò
problemi di cui quasi nessuno, all’epoca, si rese conto; pro-
blemi che a distanza di un secolo ci affliggono, e davanti ai
quali i ceti politici, e sovente anche quelli intellettuali, ap-
paiono impotenti o, peggio, colpevolmente irresponsabili. Il
che induce davvero a ritenere che la storia non sia in grado
di insegnare nulla, o al massimo che le sue lezioni non siano
tenute in alcun conto da chi invece, specialmente i governan-
ti, dovrebbe farne tesoro.
Questo libro, steso in un pugno di giorni, è nato da una sug-
gestione di Giovanni Carletti, amico oltre che editor della casa
editrice Laterza, ma non si tratta di una chiamata di correità...
semmai, semplicemente, di un atto di ringraziamento per la
fiducia, mi auguro non del tutto immeritata. Mi sono potuto
avvalere della collaborazione di Cristina Accornero, per le ri-
cerche bibliografiche, la revisione delle bozze e la redazione
della Cronologia e dell’Indice dei nomi. Un piccolo aiuto è
giunto anche da Marina Penasso, per le ricerche in Rete.
Infine, il libro è dedicato a un “vecchio amico”, Angelo
Chiattella, che ha condiviso con me ideali e battaglie; e a co-
loro che come lui, malgrado le continue, durissime repliche
della storia, conservano fede in essa, e si ostinano a credere
nella capacità degli esseri umani di migliorare e che, perciò,
esperti del passato, e consapevoli dei pro e dei contra di cia-
scun evento, serbano, ben celato dentro le profondità della
loro mente, il pensiero che ogni anno possa essere “l’anno
della rivoluzione”.

­­­­­VIII
1917
L’anno della rivoluzione
Introduzione

Nel 1909 il Manifesto futurista, sul quotidiano parigino «Le


Figaro», loda la guerra come «sola igiene del mondo»; nel
1912, uno scrittore nazionalista italiano pubblica un libro che
annuncia come «inevitabile» la guerra, e nello stesso anno, i
giovani rampolli della classe dirigente francese, intervistati
per una inchiesta da due sociologi di orientamento di destra,
Tarde e Massis, la auspicano; l’anno seguente il poeta tedesco
Stefan George predice, attendendola, una «guerra sacra», ca-
pace di rigenerare il mondo e la putrida umanità1.
L’elenco potrebbe continuare, e i prodromi dell’esaltazio-
ne bellica che sfocerà nel conflitto europeo del ’14-’18, diven-
tato via via davvero “mondiale”, si possono rintracciare an-
che prima del peana di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi
sodali, entusiasti laudatori della guerra, come mezzo e luogo
della modernità, della velocità, del progresso2. Il bellicismo
dei poeti e degli artisti troverà notevole credito proprio in
Italia, «l’unico paese in cui, nelle grandi città, si organizzano3
delle manifestazioni popolari al grido di “Viva la guerra”»4.
Ci si riferisce, qui, alla chiassosa e spesso violenta mobilita-
zione interventista tra l’autunno del ’14 e il maggio del ’15,
per portare il paese nella guerra; ma già in precedenza uno
scrittore, al tempo giovane provocatore intellettuale, Giovan-

1
Per approfondimenti e rinvii ai testi, cfr. Calì, Corni e Ferrandi (a cura
di) 2000; d’Orsi 2005.
2
Ho sviluppato il tema in d’Orsi 2009, con scelta di testi.
3
Bosworth 1983, p. 69.
4
Renouvin 1989, p. 21.

3­­­­
ni Papini, invitava ad “amare la guerra”, in un crescendo che
troverà il suo araldo supremo e assai mediatico in Gabriele
d’Annunzio, confermando la tesi di chi ha creduto di vedere
negli intellettuali «i veri leader della causa interventista». L’I-
talia, dunque, entrerà in guerra, benché il Parlamento, nella
sua larga maggioranza, e la gran parte della società siano con-
trari. Sarà una decisione di tre individui, sostanzialmente: il
re Vittorio Emanuele III, il primo ministro Salandra, il mini-
stro degli Affari Esteri Sonnino. Non sbagliando, uno storico
e giornalista come Luigi Salvatorelli parlerà, nel dopoguerra,
di un «colpo di Stato»5: che trascina un paese impreparato,
incerto, in una tragedia i cui effetti, per la storia nazionale,
saranno tra i più gravi della scena internazionale, se è vero,
come è vero, che il fascismo sarà figlio della guerra, e sulla
propaganda bellica costruirà la sua ascesa al potere, il suo
successivo consenso, e, infine, la sua stessa catastrofe in cui
trascinerà un intero popolo.
Naturalmente, il conflitto tra le più potenti nazioni della
scena europea del tempo scoppia non tanto per le invettive
o gli incoraggiamenti degli intellettuali – che pure, tuttavia,
contribuiscono a creare un clima adatto ad accettarla –, ma
per l’urto di interessi economici e di strategie geopolitiche,
tra grandi potenze al tramonto e nuove potenze emergenti.
Ma ci sono in ballo anche altri fattori: la sottovalutazione
delle conseguenze di un gesto, la sprovveduta incoscienza
(rispetto a costi e benefici della guerra) dei leader interna-
zionali, che si lanciano, o si lasciano trascinare, nel gioco di
risiko del 1914 che condurrà ad un conflitto mai visto in pre-
cedenza, di cui pochi, sul momento, comprendono la novità
e la portata, nessuno le conseguenze6. L’ingresso nella guerra
nondimeno serve anche all’Italia, come a diversi altri governi,
a nascondere problemi interni, o a cercare nella proiezione

5
Cfr. Salvatorelli 1950.
6
Cfr. Rusconi 1987 e, per l’Italia, Id. 2005; Becker 2007; Canfora 2006;
Mulligan 2011.

4­­­­
esterna, con tutto quello che ciò significa, la loro soluzione,
economica, sociale, politica7.
Quella guerra – vero incipit del secolo, secondo la celebre
scansione cronologica di Eric Hobsbawm8 – ha indubbia-
mente cambiato la faccia del mondo, e non c’è studioso che
non l’abbia osservato, almeno negli ultimi decenni9. Un cam-
biamento che si ripercuoterà lungo tutto il secolo, a comin-
ciare dall’immediato dopoguerra: ha scritto uno specialista di
storia delle guerre che quel conflitto

generò profonde, e spesso irreversibili, crisi economiche, sociali e


politiche in quasi tutta l’Europa, segnando profondamente e poi
trasformando la coscienza politica di milioni di persone che re-
stavano al di fuori delle strutture organizzative [...], e che erano
in relazione le une con le altre soltanto in quanto masse. Tali folle,
all’inizio relativamente disarticolate, per un breve eppur decisivo
momento storico manifestarono una decisa ostilità a quei gover-
nanti e a quei valori politici che le avevano condotte in un conflitto
costato al vecchio continente così tanto sangue e sofferenza10.

Negli Stati liberali aumenteranno le funzioni direttamente


svolte dai governi nell’economia, con una diffusa ramificazio-
ne nella società, attraverso organi di vario genere, ma con una
parallela crescita della forza di pressione dei ceti imprendito-
riali e finanziari. E non si possono trascurare le modificazio-
ni degli assetti sociali, a cominciare dall’anticipazione di un
“complesso militar-industriale” che si svilupperà pienamente
nel conflitto del ’39-’45, e successivamente; mutano anche i
rapporti tra potere militare e potere politico, a scapito del
secondo, un po’ dappertutto; e si verifica una forte compres-

7
Cfr. Ragionieri 1976, pp. 1973 ss.
8
Cfr. Hobsbawm 1995.
9
Da ultimo, Bertonha 2011. Per una panoramica d’insieme, Audoin-
Rouzeau e Becker (a cura di) 2007; per l’Italia, Labanca (a cura di) 2014. Le
sintesi migliori, nella storiografia italiana, sono Gibelli 2001; Isnenghi e Ro-
chat 2014; ancora valida la vecchia (1969, 1 ed.) opera di Melograni 2015.
a
10
Kolko 2005, pp. 200-201.

5­­­­
sione delle libertà e dei diritti civili e politici nelle società, con
un prevalere dell’Esecutivo sul Legislativo, e l’introduzione
di leggi emergenziali che segneranno tracce profonde nella
cultura giuridica di quasi tutti i paesi.
Dalla guerra, si generano forze politiche nuove, orienta-
menti inediti, orizzonti mentali che danno la misura del cam-
bio di epoca. È significativo che per i contemporanei quella
sia stata subito una “grande” guerra, e poi nel corso del tem-
po, rapidamente, essa fu ed è tuttora per tutti “la Grande
guerra”. Si tratta, in sintesi, di un violento, drammatico in-
gresso nella modernità, testimoniato non soltanto dagli ar-
mamenti, dalle strategie e dalle intenzioni dei contendenti,
unificati nella volontà di una vittoria senza condizioni sul
nemico, da raggiungere con ogni mezzo, calpestando accor-
di, violando convenzioni, ignorando norme morali: dai primi
bombardamenti aerei (già peraltro usati dall’esercito italiano
in Libia nel 1911-12, un conflitto che costituisce l’innesco di
quello del ’14) all’uso di gas tossici o asfissianti, dall’impiego
di sottomarini che lanciano siluri colando a picco navi senza
preoccuparsi se trasportino civili, combattenti, prigionieri,
fino a un massiccio ricorso, inedito in quella misura, alla pro-
paganda come arma fondamentale di guerra11. La modernità
introdotta dalla Grande guerra è l’anticamera della politica
delle masse, di enormi cambiamenti sociali, delle rivoluzioni
e delle controrivoluzioni, del totalitarismo.
È la guerra di trincea, o “guerra di posizione”, che ogni
volta che prova a rovesciarsi in “guerra di movimento” pro-
duce decine, talora centinaia di migliaia di vittime, tra morti
e feriti (sempre feriti gravi, con conseguenze irreversibili nel
fisico, inabilità permanenti) e prigionieri, destinati ad essere
“dimenticati” in veri e propri lager. E in quella guerra, per
la prima volta, si muore non soltanto perché colpiti dalle ar-

11
Rimangono fondamentali le opere innovative Fussell 1984 e Leed
1985, sebbene concentrate sul mondo britannico, con aperture su quello
francese e tedesco. Vedi, per l’Italia, Ventrone 2003.

6­­­­
mi nemiche, ma per la condizione stessa in trincea: ricoveri
scavati nella terra, ove i soldati trascorrono settimane, mesi,
anni, ammalandosi, e spessissimo morendo, di tifo, tuberco-
losi, polmonite, dissenteria, denutrizione, colera, disidrata-
zione; per non parlare delle forzose convivenze oltre che con
umani, in spazi angusti e insalubri, con ratti e con insetti mi-
cidiali, come le cimici e i pidocchi, e con innumerevoli specie
di parassiti. Nelle lettere dei soldati sono proprio questi i
protagonisti veri: i pidocchi. E ci sono poi gli effetti mentali,
i turbamenti della psiche dei combattenti, che soltanto negli
ultimi anni sono stati studiati, con risultati inquietanti. La
Grande guerra è una fabbrica di follia12.
Una guerra in cui il potere, in ogni nazione, manifesta da
una parte il totale disprezzo della vita dei soldati, e dall’altra
delle popolazioni civili, obbligando gli uni a immolarsi per
conquistare una collinetta di sabbia e sassi, e affamando le
altre, in particolare gli abitanti delle città.
In questa guerra di trincea, i comportamenti dei comandi
sono gli stessi, grosso modo, nelle diverse nazioni belligeran-
ti: ci si batte per conquistare metri di terreno, in insensati as-
salti in cui gli uomini, uscendo dalle trincee, si lanciano scon-
sideratamente contro il nemico, che li falcidia. Nel 1914-16
si svolgono battaglie senza fine, ma con centinaia di migliaia
di cadaveri lasciati a marcire nella “terra di nessuno”, quegli
spazi che separano le contrapposte zone nemiche. Una serie
di battaglie, fin dai primi di agosto del 1914, vedono prota-
gonista la Germania che deve però lottare sul fronte Ovest,
cercando di invadere la Francia, anche a costo di passare
attraverso il Belgio neutrale, ma anche su quello Est, dove
deve difendersi dall’attacco russo. La Marna, Tannenberg,
Gallipoli, Ypres, la Somme, Verdun, lo Jutland...: altrettanti
cimiteri, di terra, e talora di mare, che non segnano alcun
cambiamento nei rapporti di forza, e mostrano il pervicace

12
Cfr. Gibelli 2009.

7­­­­
disinteresse per la vita oltre che per le condizioni dei soldati,
vittime e carnefici, vicendevolmente, in una estenuante danza
macabra. Nella battaglia della Somme i caduti sono oltre un
milione, a Verdun 600.000, e via seguitando.
All’impreparazione politica e psicologica delle leadership
politiche, corrisponde una incapacità delle gerarchie militari
di cogliere la novità anche tecnologica di quella guerra. Si
crede, cocciutamente, che si debba semplicemente intensifi-
care la produzione di armi. «Il loro ingenuo attaccamento a
una strategia offensiva, prima che fosse stata trovata un’ade-
guata risposta tecnologica alla guerra di posizione, richiese
materiale bellico e munizioni in quantità inaudite»13. Quelle
battaglie-carneficine sono anche il momento per la sperimen-
tazione di nuovi mezzi tecnologici e risorse belliche, oltre che
di tattiche più o meno innovative, quasi sempre fallimentari,
a spese delle truppe, in particolare della fanteria, che è la
protagonista, tragica, della Grande guerra. A Verdun si usano
per la prima volta i lanciafiamme, uno strumento fra i più
devastanti anche per il terrore che suscita nei soldati; alla
Somme vengono adoperati i chars d’assaut, rudimentali carri
armati che tuttavia avranno un ruolo decisivo; a Caporetto
gli austro-germanici impiegano una soluzione chimica miste-
riosa che uccide in pochi istanti i fanti italiani, lasciandoli
pietrificati; a Ypres si fa ricorso per la prima volta a miscele
di gas asfissiante che verranno poi chiamate, in modo gene-
rico, appunto “iprite” (analogamente, nella Seconda guerra
mondiale, dal bombardamento a tappeto sulla città inglese
di Coventry si conierà il neologismo “coventrizzare”, per di-
re distruggere completamente un centro urbano). Il cinismo
dei fatti si riproduce in quello delle parole. Soprattutto la
seconda metà del conflitto è contrassegnata dalla pratica del
bombardamento delle città, che sarà perfezionata fino a di-
ventare genocidaria nel Secondo conflitto, quando verrà por-

13
Hallgarten 1972, p. 81.

8­­­­
tato alle estreme conseguenze il carattere di “guerra totale”
avviato appunto nel 1914: come è stato osservato ormai da
larga parte della storiografia, più che dell’inizio della Prima
guerra, si tratta di una sola nuova “guerra dei trent’anni” che
durerà fino al 1945.
Pur in un tripudio di tecnologia, comunque, alla fine si
ritorna sempre all’arma bianca: la baionetta sarà impiegata
con grande disinvoltura su tutti i fronti. Moderno e antico si
affiancano in questo conflitto, che dal cuore dell’Europa, tra
Balcani, Mitteleuropa e area mediterranea, si estende a Ovest
verso Stati Uniti, Messico, Brasile, e a Est, verso l’immenso
Impero degli zar sul punto di crollare, fino al Giappone e
alla Cina, toccando i vasti territori di un altro Impero in de-
cadenza, quello ottomano, destinato anch’esso a frantumarsi.
In queste condizioni si arriva al 1917, «l’anno impos­
sibile»14, quando tutti i popoli d’Europa ormai «stanchi de-
gli immensi sacrifici e sofferenze di questa guerra, applau-
dirono i rivoluzionari russi, i quali sembravano proclamare
il verbo liberatore»15. È, o appare, come il momento della
riscossa dei subalterni, ma anche dell’attesa di una rinascita,
della salvezza, dopo gli anni dell’inferno bellico.
A dispetto, però, delle attese dei combattenti e dei civili,
degli auspici del papa, delle speranze di socialisti, special-
mente italiani, rimasti fedeli all’internazionalismo proletario,
la guerra non cesserà affatto, anzi continuerà, come «una
macabra routine»; ma anche nell’abitudine e nella routine
v’è un punto di rottura, ed esso è precisamente il 191716; un
anno che, lungi dal porre fine al conflitto, si rivelerà il più
duro e tragico, ma avvierà processi nuovi, in seno al conflit-
to stesso e intorno ad esso. Grandi, imprevisti rivolgimenti,
specialmente nell’immensa Russia degli zar, complicheran-
no il quadro, dando nel contempo una svolta alla guerra, in

14
Cfr. Becker 1997.
15
Ritter 1973, p. 532.
16
Giuliano Procacci 2000, p. 10.

9­­­­
parallelo all’intervento degli Usa, che rompono l’isolamento
e fanno ingresso nella storia d’Europa, e del mondo intero,
con conseguenze che pochi allora immaginano. La guerra, in
sostanza, modifica radicalmente la carta topografica del mon-
do, e cambia gli equilibri geopolitici: l’abusato detto “nulla
sarà più come prima” si attaglia perfettamente alle conse-
guenze della Grande guerra. All’interno delle società, essa, se
produce danni economici per le moltitudini, impoverendole,
e comprimendone i diritti, arricchisce in misura sproposita-
ta alcune fasce di classi medie e altoborghesi: commercian-
ti, imprenditori dei settori coinvolti nelle forniture belliche
o di materiali e derrate alimentari per l’esercito, banchieri.
L’aumento delle disuguaglianze economiche sarà fattore sca-
tenante di altre guerre, sociali, invece che nazionali.
Perciò il 1917, a fronte di un conflitto che si mostra co-
me un’ininterrotta serie di grandi e piccole stragi, studiate a
tavolino, è anche l’anno delle sommosse e degli ammutina-
menti, dei tumulti e delle rivolte: di donne, soldati, operai...
È l’anno della rivoluzione.
1.
Gennaio
La guerra sotto i mari

Il mese e l’anno, il terzo di guerra, iniziano con una con-


ferenza interalleata a Roma, ai massimi livelli, che vede la
partecipazione, oltre che degli italiani, dei rappresentanti
di Francia e Gran Bretagna, dove David Lloyd George ha
appena preso il posto, nel dicembre, come nuovo primo
ministro, di Herbert Asquith, dando una decisa svolta alla
conduzione inglese della guerra. Lloyd George è un indi-
pendente che viene da un passato radicale; nel 1909 e nel
1911, si è visto bocciare il suo bilancio, denominato “the
people budget”, perché introduceva un sistema di assicu-
razione sociale per le fasce più deboli della popolazione,
da finanziarsi con aumento delle tasse e tramite la rendita
fondiaria; in precedenza si era messo in luce per la sua
opposizione alle logoranti guerre contro i boeri che ave-
vano impegnato il Regno Unito dagli anni Ottanta fino
ai primi del nuovo secolo. Appoggiato dalla destra, che
giudica debole il suo predecessore, Lloyd George se ne
farà condizionare; del resto egli stesso lungo l’anno pre-
cedente non ha perso occasione per attaccare il capo del
governo di cui egli stesso faceva parte, prima come cancel-
liere dello Scacchiere, poi come ministro delle Munizioni,
quindi della Guerra. La sua ascesa al governo è comunque
un fatto inatteso, che procurerà effetti di lungo periodo,
ben oltre la guerra, segnando, per esempio, l’avvio di uno
spostamento dell’asse dei poteri dal Legislativo all’Esecu-
tivo, e nel suo ambito aumentando decisamente i poteri
del primo ministro, anche se poi, in una politica dei “due

11­­­­
forni”, egli porterà avanti la riforma elettorale, allargando
il corpo dei votanti da 7,9 milioni a 21,4, di cui il 40% di
genere femminile1.
A Roma, egli esordisce con un promemoria che spiega il
senso dell’incontro: «vedere se non ci sia qualche metodo per
collegare e fondere gli sforzi degli alleati in maniera tale che
durante il 1917 il nemico possa essere battuto»2. A fine mese
un nuovo summit degli alleati si svolge a Pietrogrado, spe-
cificamente dedicato alla Russia, che, come avrà a osservare
uno dei diplomatici inglesi, Lord Alfred Milner, è «sull’orlo
del precipizio». E lo stesso andamento del convegno finirà
per confermare i peggiori timori degli ospiti. La Russia, come
dirà senza peli sulla lingua l’ambasciatore britannico, George
William Buchanan, allo zar Nicola II, è a rischio rivoluzione3.
Ma durante l’incontro, che si protrarrà per giorni e al quale i
diplomatici stranieri sono giunti al termine di un lungo per-
corso attraverso il Mare Artico, trovando ad accoglierli una
disorganizzazione paurosa, emerge altresì una serie di diffi-
denze incrociate e talora di antipatie personali. L’Inghilterra
ha già da tempo inviato ben cinquecento cannoni all’esercito
russo, che tuttavia, scoprono i delegati britannici, non so-
no stati neppure utilizzati. L’Italia, a sua volta, ha rifiutato
l’aiuto offerto, in uomini e mezzi, dal primo ministro Lloyd
George. Lo zar Nicola, da parte sua, nutre evidente antipatia
per l’ambasciatore Buchanan. E così via. Viene sì approva-
ta la costituzione di un Comitato permanente dei delegati
dei quattro governi alleati, ma viene bocciata, innanzi tutto
per l’opposizione del capo della delegazione italiana Vittorio
Scialoja, la proposta del delegato francese Gaston Doumer-
gue di allargare i poteri e le competenze del Comitato. Si pro-
cederà ciascuno per proprio conto, fino a quando, soltanto

1
Cfr. Pugh 2007, pp. 186 ss; in generale Id. 1988; Suttle 2005.
2
Cit. in Veneruso 1996, p. 172.
3
Cfr. ivi, pp. 177 ss.

12­­­­
nel mese di novembre, alla Conferenza di Rapallo sarà creato
il Consiglio supremo interalleato, con sede a Versailles.
Intanto, però, sul finire del mese, si avvia in totale segretez-
za una difficile trattativa di pace, a Neuchâtel, nella neutrale
e accogliente terra elvetica. Protagonisti, due rappresentanti
della casata Borbone-Parma, con coinvolgimento della Santa
Sede, che invia a Berlino monsignor Eugenio Pacelli (futuro
pontefice Pio XII) per sondare le autorità tedesche sulla loro
disponibilità a cedere su alcuni punti di contrasto, e avvia-
re l’Europa verso una “pace giusta”. La trattativa, che pure
sembrerà avviata verso un esito fausto, si trascinerà per mesi,
tra richieste, offerte, contro-offerte, dinieghi e un vano gio-
co diplomatico, fino a giugno, quando verrà definitivamente
a cadere4. La guerra continuerà in quella terza annata, che
stando a tutte le testimonianze, e alla ricostruzione storica, è
la più terribile5. E continuerà nella folle idea della vittoria
totale, in fondo coerente con la prassi che il conflitto ha inau-
gurato appunto di guerra totale, che non risparmia monu-
menti, civili e religiosi, infrastrutture, popolazioni civili. Ben
diversamente dalla politica ufficiale, negli umori popolari, sia
dei combattenti, sia dei civili, avanza un rifiuto sotterraneo
del massacro di massa perpetrato dall’estate ’14, che via via
nel corso dei mesi verrà a galla, in modi più o meno clamoro-
si, talora violenti. Nella forza distruttrice del conflitto vanno
compresi gli elementi propagandistici, simbolici, che sfocia-
no in un abbondante ricorso al soprannaturale, al religioso,
al magico. Lo vedremo.
Fallita la trattativa, la Germania, sia pure con molte esitazioni
da parte del Kaiser Guglielmo e dello stesso capo del governo,
Bethmann-Hollweg, che arriva a minacciare le dimissioni, su
pressione delle gerarchie militari, a partire dal feldmaresciallo
Paul von Hindenburg, comandante in capo delle Forze armate
(colui che, da presidente della Repubblica, consegnerà la Ger-

4
Cfr. Charles-Roux 1947, pp. 149 ss.
5
Rinvio ai contributi raccolti in Roulet 1993.

13­­­­
mania a Hitler), e dal generale Erich Ludendorff, capo di stato
maggiore, e fa un annuncio choc, proprio nel giorno che chiude
il mese, anche se la decisione ai vertici risale all’8-9 gennaio. Si
tratta della guerra sottomarina, che Berlino annuncia il 31 gen-
naio, e ipso facto scatena, non soltanto contro i navigli alleati,
specialmente britannici, ma anche contro le navi di paesi terzi,
neutrali, in quanto sospettate di effettuare trasporti per conto
degli Stati membri dell’Intesa.
Anche nell’alleato austriaco la decisione tedesca susci-
ta perplessità. Il paese è passato rapidamente dal delirio di
guerra al desiderio di pace, passaggio segnato, il 21 ottobre
1916, dall’assassinio del conte Karl von Stürgkh, presidente
del Consiglio, esponente dell’ala intransigente del nazionali-
smo austriaco, che aveva governato con pugno di ferro, pa-
ralizzando il Parlamento e imbavagliando la stampa. L’autore
dell’omicidio era il figlio del noto politico e pensatore mar-
xista Victor Adler, Friedrich, che in qualche modo con quel
gesto estremo aveva dato voce al diffuso scontento verso la
guerra, tanto è vero che invece di esecrazione egli raccolse
simpatia, al punto che l’imperatore Carlo dovette trasformare
la condanna a morte in ergastolo6.
La Germania non era nuova a questo tipo di guerra. A
conflitto appena iniziato, nel settembre del ’14, il sommergi-
bile U-21 (la U allude a quelli che verranno chiamati U-Boo-
te, ossia Unterwasser-Boote, navi sottomarine: oltre cento in
forza alla Marina militare germanica) silura, affondandolo,
il Pathfinder, esploratore della Marina di Sua Maestà Bri-
tannica, la prima nave a godere di tale “privilegio”. Sono
i mesi delle polemiche sulle “atrocità germaniche” (vere o
presunte, dalle uccisioni di massa in Belgio alla distruzione
della cattedrale di Reims7), e in fondo l’evento passa quasi

6
Cfr. H. Maimann, Fra delirio di guerra e desiderio di pace. La vita quoti-
diana in Austria, in Leoni e Zadra (a cura di) 1986, pp. 245 ss.
7
Su tali polemiche, tra false notizie e verità, realtà e rappresentazione
propagandistica, cfr. Prochasson 2008, pp. 97 ss.

14­­­­
inosservato dato anche il carattere militare della nave in-
glese. Non passerà sotto silenzio invece l’affondamento del
Lusitania, lussuoso transatlantico privato britannico, da par-
te dell’U-20 tedesco a Sud delle isole irlandesi, il 7 maggio
1915. Oltre mille “dispersi” (1198) saranno contati fra i pas-
seggeri di cui ben 129 con passaporto Usa. L’evento finì sulle
prime pagine di tutti i quotidiani e settimanali del mondo.
Nella copertina della popolarissima «Domenica del Corrie-
re», sotto una tavola al solito molto efficace del disegnatore
Beltrame, la didascalia recita: «La strage degli innocenti. I
tedeschi affondano il Lusitania che trasportava quasi 2000
persone». Ancora oggi v’è chi al nome Lusitania sobbalza,
essendosi quell’evento tramandato nella memoria collettiva
come uno dei più tremendi della guerra, non solo dunque
nell’ambito delle “tragedie del mare”. Nelle proteste, vibrate
e generali contro la Germania, ci si dimenticherà che gior-
ni prima l’ambasciata di Berlino a Washington aveva fatto
pubblicare, a proprie spese, su decine di giornali, l’annuncio
che la nave sarebbe stata silurata appena avesse varcato le ac-
que territoriali britanniche. E verrà anche taciuto l’accordo
stipulato al varo del transatlantico, e cioè che esso, sebbe-
ne adibito a trasporto passeggeri, avrebbe potuto ospitare
armamenti, su richiesta del governo di Sua Maestà, e ciò
in cambio di cospicui contributi finanziari. Sebbene questo
atto, come il precedente e i successivi, fosse giustificato dai
tedeschi come rappresaglia al blocco marittimo imposto fin
dall’inizio delle ostilità alla Germania (blocco che colpiva in-
discriminatamente civili e militari, industria bellica e no, con
gravi danni per il popolo tedesco, al quale non giungevano
più numerose derrate alimentari), una ondata di indignazio-
ne si era levata contro i “crucchi”. E, alla fine dei conti, la
vicenda rappresentò un formidabile atout per la propaganda
britannica, e in generale dell’Intesa, toccando profondamen-
te l’opinione pubblica statunitense, nella quale si fece strada
la persuasione che la Germania era “emissaria delle forze
del male”. I tedeschi sembrarono rendersi conto dell’errore

15­­­­
e infatti da allora la guerra sottomarina venne relegata fra le
possibili opzioni militari.
L’annuncio del 31 gennaio suona dunque come partico-
larmente inquietante, per i belligeranti tutti, non solo per la
parte nemica, e per l’opinione pubblica. Ci si rende conto
del salto di qualità che la guerra va a compiere. La “moder-
nità” irrompe in maniera devastante, aprendo un percorso
dal quale non si sarebbe fatto ritorno. Vengono spazzate via
le perplessità sia dell’imperatore Guglielmo, sia del cancel-
liere Bethmann-Hollweg, il quale alla fine «si piegò alla vo-
lontà della Marina», come scrive nelle sue memorie lo storico
Friedrich Meinecke, allora sotto le armi; egli ricorda anche,
in contemporanea, gli sforzi degli apparati politico-militari
per portare avanti la polemica contro il regime parlamenta-
re, considerato pericoloso ai fini della buona condotta della
guerra e dell’efficacia dei suoi risultati8. I militari, in defini-
tiva, insieme agli ambienti politici della destra nazionalista,
hanno ormai la piena egemonia in Germania, rendendola
cieca rispetto agli esiti possibili di quel passo, a cui applaude
forsennatamente, irresponsabilmente, la stampa “annessioni-
sta”, ossia espressione di quegli ambienti economico-militari
che vedono nella guerra una meravigliosa opportunità per
ampliare il territorio tedesco. «Hindenburg era il loro dio e
Ludendorff il suo profeta». L’esercito ha ormai asservito la
politica9.
Il siluramento da parte degli U-Boote di navi anche di pae­
si neutrali, piroscafi di linea, deciso il giorno 9, annunciato
il 31, e cominciato, implacabilmente, l’indomani, con preci-
sione “tedesca”, viene presentato e accettato come “norma-
le atto di guerra”; per l’autorevole quotidiano «Frankfurter
Zeitung» la guerra sottomarina è espressione della volontà
del popolo, e persino l’organo del Partito socialdemocrati-
co (Spd), il glorioso «Vorvärts», concorda; si schierano nello

8
Cfr. Meinecke 1990, pp. 333 ss.
9
Frölich 2009, p. 224.

16­­­­
stesso senso anche la Chiesa tedesca, sia cattolica, sia pro-
testante. A quel punto le ultime remore morali di una parte
dell’opinione pubblica tedesca vengono a cadere, mentre nel-
le altre nazioni si diffondono sentimenti di paura e insieme di
astio verso la Germania10. Contro il naviglio commerciale gli
U-Boote costituiscono una forza micidiale che inizialmente
apparirà inarrestabile: nei primi sei mesi dell’anno il tonnel-
laggio colpito e affondato, come in una simpatica battaglia
navale, dai sottomarini tedeschi raggiungerà la cifra di circa
3.300.000.
Le conseguenze saranno drammatiche, sul piano economi-
co, prima ancora che su quello militare. Nessuna nave vorrà
più avventurarsi per i mari, nel Mediterraneo e nell’Atlantico.
A quel punto il primo ministro britannico correrà ai ripari,
organizzando i viaggi in convogli protetti da navi militari; e
sarà così che nel volgere di qualche settimana i sottomari-
ni da cacciatori diverranno prede11. I siluramenti di navi si
ridurranno rapidamente in modo drastico. La Germania è
affranta dalla delusione per l’esito finale di una decisione che
era stata annunciata come fondamentale per concludere ra-
pidamente e vittoriosamente il conflitto, e che invece si risol-
verà in un boomerang. Il governo dovrà subire interpellanze
al Reichstag, e le autorità si spingeranno a diffondere statisti-
che false, per convincere una opinione pubblica disorientata.
Come è stato notato, proprio da quello stato d’animo saranno
colpiti, direttamente o indirettamente, operai e marinai che
prenderanno parte a scioperi e tumulti nel paese, nella stessa
flotta militare. Il che non toglie che i risultati raggiunti con
la guerra sotto i mari siano stati, nell’insieme, non trascura-
bili, con 9,5 milioni di tonnellate colate a picco nel 1917-18.
Anche se nella somma algebrica tra perdite inflitte e perdite
subite la Germania avrà la peggio (178 sottomarini distrutti

10
Cfr. P. Masson, La guerra sottomarina, in Audoin-Rouzeau e Becker (a
cura di) 2007, pp. 469-80 (specie p. 476).
11
Cfr. Becker 1997, pp. 29 ss.

17­­­­
sui 345 in servizio), la decisione tedesca del gennaio ’17 con-
durrà all’inserimento del sottomarino da guerra tra le armi
stabili dei diversi Stati, come emergerà nel Secondo conflitto
mondiale, procedendo nel perfezionamento tecnico dei mez-
zi, con il rafforzamento enorme della capacità offensiva, ma
anche con l’aumento decisivo della resistenza sott’acqua, per
durata e per profondità. Nel contempo, si sarebbe perfezio-
nata anche la tecnica e la tattica delle navi cacciasommergi-
bili e posamine: la forza distruggitrice della guerra avrebbe,
insomma, compiuto un passo avanti decisivo, a partire da
quella data. Nondimeno, come era accaduto nel maggio del
’15 con l’affondamento del Lusitania, alla resa dei conti, la
guerra sottomarina si rivelerà, per l’Impero guglielmino, e
per la causa della Triplice Alleanza, un atto che produrrà più
danni che vantaggi, anche e soprattutto sul piano politico e
della pubblica opinione, e che contribuirà in modo decisivo
all’intervento di Washington nel conflitto12.
Il terzo anno del conflitto, apertosi con i falliti accordi di
pace e con il ferale annuncio della guerra sottomarina sen-
za limiti, a dispetto dell’orientamento delle classi dirigenti
delle nazioni belligeranti, decise a proseguire a oltranza fino
alla vittoria, segna l’affiorare o l’intensificarsi del dubbio,
se non del rifiuto della guerra, del suo significato, dei suoi
possibili esiti. Si tratta di una fetta pur minoritaria dell’opi-
nione pubblica, non del tutto omologata dalla propaganda
bellica, e anche in settori di quella ufficialità di complemento
composta da uomini delle classi medie che si era perlopiù
lanciata con entusiasmo nella fornace, per poi scoprire assai
presto che quella guerra sarebbe stata «lunga, dura, fero-
ce», come scrisse uno di loro, interventista, fin dal settem-
bre 191513. Gli entusiasmi dei volontari sono scomparsi da
tempo; il 1917 è l’anno della stanchezza e della rivolta. Lo
testimoniano gli episodi di ammutinamento al fronte, e lo

12
Cfr. Masson, La guerra sottomarina cit., pp. 478 ss.
13
In Omodeo 1968, p. 281.

18­­­­
conferma una significativa ripresa, almeno in alcuni paesi,
come Francia e Italia, dell’attività rivendicativa delle mae-
stranze lavorative, e in generale di masse proletarie che il
perdurare della guerra ha messo in ginocchio, in particolare
con un significativo protagonismo femminile. A Parigi, l’8
gennaio, le operaie di due fabbriche tessili entrano in sciope-
ro: le cousettes (cucitrici) reclamano un miserabile franco di
aumento del salario giornaliero. Azioni energiche delle mae-
stranze vengono poste in essere in altre fabbriche, comprese
quelle di guerra: come in Italia, a Genova, dove entrano in
sciopero gli operai dell’Allestimento Navi, e più tardi quelli
dell’Ansaldo; mentre una spontanea, ma vivacissima mani-
festazione di donne, anziani e ragazzi di famiglie bracciantili
si svolge in provincia di Pisa, a Montecalvoli: la protesta è
per le difficili condizioni delle campagne, abbandonate dagli
uomini richiamati alle armi.
Sebbene di modesta entità, queste manifestazioni sor-
prendono, specie quelle di fabbrica: è la prima volta che
gli operai trasgrediscono «quella sorta di interdizione mo-
rale di fare sciopero in tempo di guerra»14. E una sorta di
misterioso tam tam sembrerà connettere sotterraneamente
in luoghi distanti, in paesi diversi, le lotte, a partire dalla
Francia. Fino a quel momento nazione-guida dell’Intesa,
anche per la dislocazione geografica centrale in Europa (e
comunque sarà la nazione con il maggior numero di morti, il
doppio dell’Italia15), la Francia attraversa, a partire almeno
dal dicembre 1916, una crisi politico-militare, con convulsi
avvicendamenti di ministri e generali. Alla fine di quell’an-
no in sostanza verranno giubilati il maresciallo Foch e il
generale Joffre; il primo però destinato a riprendere presto
un ruolo centrale, che gli garantirà fama anche oltre confi-

14
Becker e Bernstein 1990, p. 110.
15
Per i dati su perdite, distruzioni, cambiamenti sociali ed economici,
rinvio a Gide e Oualid 1931; vi si conteggiano 1.300.000 morti (più 68.000
nelle colonie) e 1.700.000 feriti e infermi.

19­­­­
ne, diventando, negli ultimi mesi del conflitto, addirittura il
comandante in capo di tutte le truppe dell’Intesa; mentre il
secondo, Joffre, sarà oggetto, per dirla con una battuta sar-
castica di Clemenceau, di una «apoteosi maresciallesca»16,
ricevendo l’onorifico titolo di maréchal de France. Inaspet-
tatamente, nel passaggio d’anno, entra in scena un giovane
generale, Robert-Georges Nivelle, nel ruolo di comandante
delle armate del Nord e Nord-Est, le più importanti, quelle
che hanno il compito di fronteggiare la Germania del Kai-
ser. Sarà lo stesso Nivelle il primo a stupirsi della nomina
al ruolo di “generalissimo” che nondimeno ricoprirà per
meno di quattro mesi17.
Anche in Italia, l’anno inizia con forti preoccupazioni e
tensioni interne alla classe politica e agli Alti comandi mi-
litari. V’è chi, naturalmente, soffia sul fuoco, avviando una
doppia polemica per contrastare in qualche modo i troppo
scarsi successi, ossia la mancata avanzata dell’esercito italia-
no: da una parte la polemica verso la politica, incerta e in
generale troppo arrendevole alla richiesta di pace di una lar-
ga fetta dell’opinione pubblica; dall’altra la polemica verso
i socialisti, accusati, ancor prima che giungano notizie dalla
Russia in fermento, di disfattismo, o addirittura di propa-
ganda sovversiva fra i combattenti. In questo mese, nel suo
diario, Benito Mussolini parla di «governo dell’impotenza
nazionale»18. Del resto lo stesso Mussolini, tra la fine del
’16 e l’inizio del ’17, si illude, come tanti, che la guerra stia
giungendo al termine19. Il governo, in verità, fa quel che
può, in una situazione inedita, davanti alla quale tutte le
istituzioni si rivelano manifestamente inadeguate. Ubaldo
Comandini, ministro senza portafogli del gabinetto Boselli,

16
Porte 2014, p. 336.
17
Cfr. Rolland 2012, specie pp. 81 ss.
18
B. Mussolini, Il diario di guerra (1915-1917), cit. in Ventrone 2003,
p. 229.
19
Cfr. De Felice 1965, p. 345.

20­­­­
e successivamente commissario all’Assistenza col governo
Orlando, sottopone all’Esecutivo un progetto: utilizzare a
fini di propaganda un certo numero di deputati, insigniti
del ruolo di emissari del governo, in zone lontane dai loro
collegi elettorali, per rendersi conto personalmente della si-
tuazione dell’Assistenza civile (organizzata in Comitati loca-
li), fare opera di convinzione per “disciplinare” i consumi e,
infine, propagandare l’adesione al Prestito nazionale: insom-
ma, mentre ai soldati si chiede il sangue, alle loro famiglie si
chiede il denaro20. Intanto i socialisti, sempre più tentati di
dare un sostegno indiretto se non alla guerra, al paese, così
duramente provato dal conflitto, approvano un ordine del
giorno, nella riunione del Gruppo parlamentare del 31 gen-
naio, in cui inneggiano al presidente statunitense Thomas
Woodrow Wilson e alla sua reiterata proposta di «una pace
ragionevole e vantaggiosa per tutti», e chiedono al governo
italiano di accogliere «per conto proprio» quella proposta21:
inutile dire che dal governo non giungerà alcun riscontro.
La sordità che la classe governativa, non soltanto italiana
beninteso, dimostra verso le sofferenze dei popoli è assoluta.
E la guerra europea, che nel corso dell’anno si allarga ad altri
continenti, continuerà fino alla sua inutile “pace”, foriera di
altra e ben più terribile guerra.

20
Cfr. A. Fava, Assistenza e propaganda nel regime di guerra (1915-1918),
in Isnenghi (a cura di) 1982, pp. 174-212.
21
Il documento è in Malatesta 1935, pp. 264-65.
2.
Febbraio
La terza diserzione

Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho


approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di
grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente pas-
sati per le armi.

Così recita una circolare del 1° novembre 1916 diramata


da Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, generale e coman-
dante della III Armata (detto poi “il duca invitto”). Siamo
un anno prima della rotta di Caporetto. E si comprende che
le truppe sono stanche, se si verificano episodi di diserzione
o tentativi di sottrarsi alla prima linea. «Colpevoli o non»,
sarà la linea di condotta di tutta la guerra, almeno in Italia,
anzi, con un progressivo ulteriore aggravamento, all’inse-
gna di una sorta di cieco furore verso quelle masse di poveri
contadini analfabeti che morivano sul Carso e sull’Isonzo in
nome di una “patria” di cui non conoscevano il significato,
costretti in una situazione tremenda, tra il fuoco del nemico
e quello italiano. La scelta era come morire, insomma, non
come salvarsi. Con il 1917 la situazione, su tutti i fronti, e in
tutte le retrovie, nelle città, nelle campagne, si fa insosteni-
bile. La guerra sembra non finire mai, e la insopportabilità
della vita da topi in trincea, l’insensatezza dei massacri per
conquistare una collina o espugnare un villaggio, appariran-
no lampanti anche agli occhi dei più obbedienti tra i fanti.
Al peggioramento delle condizioni del conflitto corrisponde,
però, non un tentativo di alleviare la vita dei soldati, ma un
aggravamento del controllo e della repressione.

22­­­­
Il primo atto di rilievo è del governo italiano, che emana
un decreto (4 febbraio, n. 187) che estende la possibilità di
infliggere la pena di morte a coloro che disertano per la terza
volta. Si tratta di un modello giudiziario che troviamo oggi
nella legislazione di alcuni Stati degli Usa, come la “progres-
sista” California, sulla base del principio che sembra richia-
mare il mottetto familiare, di derivazione fumettistica: alla
terza che mi fai... In realtà la legge sulla recidiva detta “third
strike”, approvata con referendum popolare, è tratta da una
regola del gioco del baseball, “third strike and you are out”
(“al terzo strike sei fuori”)1.
Tornando all’Italia del ’17, quel decreto del governo Boselli
segna l’avvio di un draconiano irrigidimento della legislazione
di guerra, che proseguirà con una serie di altri atti giuridici e
amministrativi che faranno della conduzione italiana del con-
flitto la più dura verso la truppa tra quelle dell’Intesa. Nep-
pure il cambio di governo, con Orlando al posto di Boselli, e
la sostituzione di Luigi Cadorna, nel rango di comandante in
capo delle Forze armate, con Armando Diaz, dopo la crisi di
Caporetto, indurrà le autorità a un ripensamento, pure in pre-
senza di una politica che cercherà di accentuare gli aspetti di
persuasione, specialmente grazie all’istituzione del Servizio P,
che vedrà una formidabile mobilitazione di intellettuali; senza
tuttavia rinunciare a una durissima, sovente feroce repressio-
ne, che accompagna tutta la guerra, e si intensifica precisa-
mente nel 1917. Un esempio, fra gli innumerevoli, scelto quasi
a caso: l’11 febbraio, tre soldati del 38° Fanteria, di stanza a
Merna, nei pressi di Gorizia, non si presentano all’appello del
mattino, né a quello della sera. Vengono arrestati dieci giorni
più tardi dai carabinieri, poco lontano. Tutti e tre sono di Bari,
e nella vita civile risultano muratori, ammogliati, analfabeti,
come si legge nella sentenza del Tribunale militare. Hanno tra
i 25 e i 32 anni. Come aggravante c’è la comune provenienza

1
Cfr. Grande 2007.

23­­­­
geografica e quella di reparto. Tanto basta ai giudici militari
per parlare di “complotto”: a uno dei tre, incensurato, si ri-
conoscono circostanze che ne riducono la colpa, per il fatto
che egli ha già perso un fratello in guerra, un paio d’anni pri-
ma, e un altro, ferito, è in via di ospedalizzazione; mentre la
madre è sola, «in miserrime condizioni». Sicché gli si accorda
il beneficio delle attenuanti, comminandogli “soltanto” la pe-
na dell’ergastolo. Insomma, la patria con la famiglia di quel
disgraziato ha già avuto il suo tributo di sangue; mentre per
i suoi due compagni non ci sarà pietà; del resto essi hanno
entrambi piccoli precedenti (furto, oltraggio a pubblico uf-
ficiale, inosservanza della pena). Non valgono, per uno dei
due, le considerazioni sulla madre ammalata, peraltro non «in
condizioni gravi» al momento della diserzione; per cui addur-
re come «scusa» il movente affettivo (visitare la madre) non
produce remissione o attenuazione della pena. Possibilità teo-
rica che, peraltro, per il più giovane non viene neppure presa
in considerazione: non è figlio unico, e altri soccorreranno
la famiglia. Dunque, la sentenza, emessa rapidamente da un
Tribunale che ostenta sicurezza, è di «fucilazione alla schiena
previa degradazione»2.
Madre di dolore, generatrice di lutti, miseria e sofferenze,
la guerra, tuttavia, produce nuove ricchezze. A Milano, l’an-
tica Ditta Borletti, che ha avuto fortuna nel settore tessile, e
quindi in quello dell’orologeria, si ricicla come industria di
guerra, producendo spolette per proiettili e bombe: le azioni
salgono rapidamente, i profitti crescono a dismisura, l’impe-
ro familiare cresce (nel ’18 si inaugurano i Grandi Magazzini
detti poi, da un suggerimento dannunziano, “La Rinascen-
te”), a dispetto delle polemiche che cominceranno a svilup-
parsi contro i “pescecani di guerra”, ossia i capitalisti che
hanno incrementato i profitti grazie al conflitto, in regime di
oligopolio quando non addirittura di monopolio. A Venezia,

2
In Forcella e Monticone 1972, pp. 114-16.

24­­­­
nasce il Sindacato di studi per imprese elettro-metallurgiche-
navali del porto di Venezia (più tardi Società Anonima Porto
Industriale di Venezia), alle origini del plesso industriale di
Porto Marghera, che tante catastrofi procurerà alla Laguna
e alla città; ne è animatore Giuseppe Volpi, destinato a un
futuro eccellente sotto il fascismo: verrà nominato “conte di
Misurata”, rivestendo cariche diplomatiche, imprenditoriali
e direttamente politiche, si farà anche imprenditore cinema-
tografico e organizzatore culturale, con rapporti importanti
con la Biennale d’Arte e con la Esposizione di Arte cinema-
tografica, poi Mostra del Cinema, di cui sarà il principale
promotore. Sarà “salvato” dall’amnistia Togliatti, avendo
cominciato a prendere le distanze dal regime mussoliniano
nel ’43, oltre che per i meriti culturali e industriali. Non sap-
piamo se i proletari in divisa e le loro famiglie lo avrebbero
perdonato. Come Volpi e Borletti, anche i fratelli Perrone
(ossia i proprietari dell’Ansaldo, principali finanziatori di
Mussolini), Agnelli e altri grandi capitalisti faranno grandi
affari, finendo nelle polemiche per i sovraprofitti di guerra,
che la stampa socialista cerca di tenere vive per far compren-
dere ai suoi lettori che la ragione dell’opposizione alla guerra
è sociale, innanzi tutto, e che la patria di cui parlano i padroni
non è quella degli operai e dei contadini.
In verità, una parte sempre più ampia di socialisti, il vasto
campo riformista, nel partito e nel sindacato, è sensibile alle
ragioni del patriottismo, anche in nome dell’irredentismo e
della tradizione risorgimentale antiaustriaca. A fine mese, a
Roma, si tiene la Conferenza nazionale del Psi che mette in
luce, se ve ne fosse bisogno, il solco che divide i riformisti
dagli intransigenti. La mediazione del vecchio leader, il pre-
stigioso Costantino Lazzari, evita, faticosamente, la rottura.
Ormai sono due partiti, quelli che convivono con difficoltà
sotto lo stesso tetto. I riformisti, naturalmente, non possono
lasciar cadere la condanna di principio della guerra, ma con
la nomina di Vittorio Emanuele Orlando a ministro dell’In-
terno accettano la collaborazione con lo Stato in ambito

25­­­­
assistenziale al fine, quanto meno, di tutelare le condizioni
materiali e morali dei lavoratori. Una linea che trova contrari
gli esponenti della corrente intransigente, ormai frequente-
mente designata come “massimalista”, in quanto pretende
l’attuazione del programma “massimo”, respingendo il gra-
dualismo dei Turati, dei Treves, dei D’Aragona, dei Rigola.
Principali leader dei massimalisti sono Giacinto Menotti Ser-
rati, direttore dell’«Avanti!», il torinese Francesco Barberis e
il napoletano Amadeo Bordiga, tutti esponenti di un rifiuto
assoluto, categorico della guerra e delle sue logiche. Bordiga
sarà, nel gennaio 1921, la figura di spicco nel gruppo fonda-
tore del Partito comunista d’Italia, nato dalla scissione del
Psi, a Livorno.
Non è un leader Antonio Gramsci, giunto al socialismo
soltanto qualche anno prima, il quale si dedica, mentre è an-
cora studente nell’Università di Torino, alla militanza giorna-
listica. L’11 febbraio fa uscire un foglietto a stampa, intitolato
La città futura: viene presentato come “Numero unico a cura
della Federazione giovanile socialista”. Lo ha compilato tutto
da solo, inserendo testi di pensatori contemporanei, Croce in
testa, e riempiendo il resto con testi propri. L’editoriale si in-
titola Indifferenti, e comincia con un vero e proprio annuncio
di guerra: «Odio gli indifferenti», incipit di un articolo dive-
nuto, negli ultimi anni, il più celebre tra le molte centinaia
di quelli scritti, e quasi mai firmati, dal giovane sardo che
aveva scelto Torino. Nello stesso giorno, sia sul quotidiano
socialista «Avanti!», sia sul settimanale piemontese del par-
tito «Il Grido del Popolo», esce un annuncio (sempre opera
di Gramsci) in cui si legge:

La guerra ha falciato i giovani, ha specialmente tolto alle loro


fatiche, alle loro battaglie, ai loro sogni splendidi di utopia, che non
era poi tale perché diventata stimolo di azione, di realizzazione, i
giovani. Ma l’organizzazione giovanile socialista non ne ha in verità
troppo sofferto in sé e per sé. Le migliaia di giovani strappati alle
sue lotte, sono stati sostituiti subito. Il fatto della guerra ha scosso
come una ventata gli indifferenti, i giovani che fino a ieri si infi-

26­­­­
schiavano di tutto ciò che era solidarietà e disciplina politica. [...]
I giovani sono come i veliti leggeri e animosi dell’armata proletaria
che muove all’assalto della vecchia città infracidita e traballante per
far sorgere dalle sue rovine la propria città3.

La forza della volontà, la necessità dell’organizzazione, e


una rinnovata energia dei proletari che vogliono spezzare le
proprie catene, sono conseguenze della guerra, di cui questo
attento osservatore assume ormai anche il lessico, facendolo
diventare compiutamente teorico-politico4. La guerra, colon-
na sonora del tempo, non è solo distruzione e morte, né il
mero istinto di conservazione che reagisce; la guerra è anche
una grande, imprevista occasione per mettere alla prova quel
movimento che dell’internazionalismo ha fatto la sua ban-
diera, occasione di organizzazione e di riscatto per i proletari
in divisa.
Gramsci non conosce Lenin, all’epoca, se non per averlo
sentito nominare da qualche compagno anziano del partito.
Ma sussiste una qualche convergenza interessante tra le loro
posizioni, pur collocati l’uno e l’altro in ben diverse tradizioni
culturali, portatori di forme di pensiero per altri aspetti assai
distanti, e, ovviamente, gravati da responsabilità di peso dif-
ferente, già notevole quella di Lenin, modestissima quella di
Gramsci. Nel mese di febbraio, Lenin – che ha alle spalle una
produzione cospicua, cominciata quando Gramsci è in fasce,
negli anni Novanta del secolo XIX – conclude la stesura di un
testo avviato nel dicembre del 1916, l’anno in cui ha dato alle
stampe L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, opera di
capitale importanza che arricchisce enormemente il bagaglio
dei socialisti rivoluzionari, ma, soprattutto, fa compiere un
passo avanti decisivo nella teoria dell’imperialismo. Non v’è
dubbio che Lenin abbia dato un contributo essenziale alla

3
I testi della Città futura si leggono in varie raccolte; a cominciare da
Gramsci 1980 e Gramsci 2012.
4
Cfr. d’Orsi 2015, cap. 4.

27­­­­
teoria economica e specialmente politica, non solo intrinseca
al marxismo, andando oltre autori ai quali pure ha attinto o
con i quali si è confrontato, e si confronterà, come Hobson,
Hilferding, Kautsky, Luxemburg. Certo Lenin sopravvaluta
gli aspetti che condurranno a suo dire alla inevitabile “putre-
fazione” del capitalismo, sottovalutandone la capacità di resi-
stenza e di adattamento. Ma quell’opera, specie nella capacità
di mostrare la genesi della guerra nelle dinamiche interimpe-
rialistiche, ha «una validità destinata a durare [...] fino alla
seconda guerra mondiale e, per vari aspetti, anche dopo»5.
Lenin, insomma, non è semplicemente un politico, un or-
ganizzatore, un agitatore: Lenin è innanzi tutto un teorico che
sta cercando di dare continuità e sviluppi al marxismo, inteso
come pensiero di Marx ed Engels, sia pure irrigidendolo in
una dogmatica che poi giungerà a esiti grotteschi sotto Sta-
lin. Ma non v’è dubbio che Lenin ora si appresti a mettere a
frutto una enorme preparazione teorica, oltre che esperien-
ze di lotta. Poco dopo aver pubblicato L’imperialismo, dun-
que, anticipando ciò che scriverà nelle Lettere da lontano,
del marzo seguente, e nelle Tesi d’aprile, e, infine, molti dei
contenuti di Stato e rivoluzione, scritto nell’agosto-settembre
e interrotto per gli svolgimenti della rivoluzione, Lenin nel
“quaderno azzurro” intitolato Il marxismo e lo Stato affronta
il tema dei Soviet, richiamando la fallita rivoluzione russa del
1905, quando essi compaiono per la prima volta, ma anche
collegandoli all’esperienza storica della Comune di Parigi, e
vedendo in essi «la forma positiva della Repubblica proleta-
rio-socialista». Il dato più interessante è che egli in questo
breve testo contrappone i Soviet ai Parlamenti: sono i primi
la forma organizzativa dello Stato proletario, come i secondi
lo sono dello Stato borghese. «Per una coincidenza storica
che ha quasi del miracoloso, a questa “rivoluzione” teorica

5
Carocci 1979, p. 257. Rinvio, per una più ampia rassegna delle teorie
dell’imperialismo, a Kemp 1969. Il testo di Lenin è in Lenin 1955-1970, vol.
XXII (1966), pp. 187-303.

28­­­­
sarebbe seguito, nel giro di poche settimane, il riaffermarsi
spontaneo del soviet in una forma più potente e diffusa che
nel 1905»6: e sarà la rivoluzione di marzo. Dunque il punto
d’arrivo dell’azione volta a sovvertire l’Impero zarista non
sarà la Repubblica parlamentare («ritornare ad essa dopo i
soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro», chio-
sa), ma la «Repubblica dei soviet di deputati degli operai, dei
salariati agricoli e dei contadini, in tutto il paese, dal basso in
alto». Il Soviet gli appare il luogo e insieme la forma migliore
per sviluppare l’iniziativa autonoma del proletariato, stru-
mento di educazione e auto-educazione delle masse, le quali,
al contrario, in seno alla Repubblica borghese, parlamenta-
re, “democratica”, vengono soffocate, tacitate, spente. Non
basta, secondo Lenin, «indicare, sulla base della coscienza
dell’avanguardia rivoluzionaria, gli obiettivi alle masse», ma
occorre «elevarle gradatamente alla coscienza di essi»7.
Mentre in Europa si crepa nelle trincee e ci si dilania in
scontri che non cambiano il corso della guerra, e i governi
belligeranti non sono in grado di trovare una via d’uscita dal
vicolo cieco in cui hanno cacciato le proprie nazioni, gli Stati
Uniti mandano un messaggio chiaro e forte al Reich germa-
nico, con il ritiro dell’ambasciatore e la rottura delle relazioni
diplomatiche: la dichiarazione di guerra è pronta per essere
servita, anche se giungerà due mesi dopo... Dopo l’affonda-
mento del Lusitania, nel ’15, la Germania offre un nuovo
“pretesto”, come sarà definito dai tedeschi, agli Usa, con il
siluramento della nave traghetto francese Sussex, in servizio
nel canale della Manica, che non venne affondata ma solo
danneggiata, con numerosi feriti, tra cui cittadini degli Stati
Uniti, che protestano mentre riaffermano i principi del dirit-
to internazionale sulla libertà di movimento delle imbarca-
zioni civili. La Germania replicherà parlando di trasporto di

6
M. Johnstone, Lenin e la rivoluzione, in Storia del marxismo 1980, pp.
97-98. Cfr. Lenin 1972, p. 206; vol. XXIV (1966), p. 13.
7
Gruppi 1970, p. 184.

29­­­­
armi per conto dell’Intesa. Soltanto tre mesi più tardi, però,
dovrà ammettere essersi trattato di un errore, accettando di
farsi carico del risarcimento.
Scendendo a Sud, nel continente, troviamo il Messico im-
merso in una rivoluzione che dura dal 1910, con alterne vicen-
de e protagonisti in contrasto fra loro: un processo insomma,
«contrastato e lungo»8, nel quale va considerato anche un inter-
vento esterno da parte degli Usa, convinti già allora di poter e
di dover intervenire, sia con la moral suasion, sia con pressioni
economiche, sia, infine, con il ricorso alle armi, nel “giardino di
casa” latinoamericano. La rivoluzione messicana, nel decennio
1910-20, costerà, tirando le somme, oltre un milione di morti, e
nel 1917 incomincia la sua quarta e ultima fase che durerà fino
al 1920, caratterizzata da un programma robustamente rifor-
matore, ora applicato, ovvero lasciato cadere, oppure corrotto
via via, nei decenni successivi. E quel programma ha inizio, nel
febbraio ’17, con l’approvazione di una Costituzione di gran-
dissima rilevanza. Anche se le lotte intestine proseguiranno
per tutti gli anni Venti, il febbraio 1917 rappresenta una data
epocale proprio per l’approvazione della carta costituzionale,
la prima al mondo a riconoscere le garanzie sociali e i diritti ai
lavoratori, compresi tutti i diritti sindacali (a cominciare dal-
la libertà di sciopero), qualcosa dunque che, al tempo, appare
un risultato grandioso, ma oggi in via di scomparsa nei paesi a
regime “democratico”. La Costituzione nasce dalla modifica
del precedente testo approvato sessant’anni prima, nel 1857:
insomma, si tratta di un testo nato da un processo di “revisione
costituzionale”, deciso nel settembre 1916 da Venustiano Car-
ranza – capo dell’esercito “costituzionalista”, incaricato del po-
tere esecutivo, che il 1° maggio 1917 diverrà capo dello Stato –,
anch’egli probabilmente colpito, sia pure in ritardo, da quella
ottocentesca «frenesia per la redazione di testi costituzionali»
che, perlopiù, erano «cattivi adattamenti della costituzione

8
Carocci 1979, p. 227.

30­­­­
degli Stati Uniti e dell’Europa»: questi nuovi spesso improv-
visati statisti erano sovente in buona fede, del resto, convinti
«che la legge in se stessa potesse cambiare la realtà»9. Lo stesso
Carranza sottoporrà all’assemblea, un Congresso costituente
(come si fa o si dovrebbe fare quando si decide di revisionare
la legge fondamentale di uno Stato), un proprio testo, che non-
dimeno l’assemblea – nella quale è rappresentata anche la più
giovane generazione dei rivoluzionari, che sono decisamente
più a sinistra del governo e del presidente – giudicherà troppo
arretrato, provvedendo a robusti miglioramenti, con un netto
spostamento dell’asse verso la democrazia avanzata, sia pur di
stampo liberale. Entrata in vigore il giorno 5 febbraio, la Co-
stituzione messicana del ’17, tuttora in vigore, con i suoi cento
anni di vita, è frutto di un incontro fra i rivoluzionari sconfitti e
i restauratori-modernizzatori guidati da Carranza, il vincitore,
prima di essere assassinato nel 1920, e proclama la tendenziale
soppressione dei privilegi del clero, la spartizione del latifon-
do e una serie di altre misure sociali di grande impatto. In un
dibattito storiografico mai cessato, tra chi ne parla come di un
testo radicale o addirittura socialista e chi lo nega radicalmente,
la possiamo giudicare essenzialmente una Costituzione liberal-
democratica10; o, come ha scritto un grande storico italiano,

un originale e anticipatore tentativo di regime borghese avanzato,


nel quale i gruppi dirigenti affidavano la formazione del consenso
non solo alle libertà formali, ma anche all’intervento diretto dello
stato in senso riformatore contro la chiesa (insegnamento laico),
contro l’imperialismo straniero (nazionalizzazione del suolo e del-
le miniere), in difesa degli operai e dei contadini (legislazione del
lavoro e riforma agraria)11.

9
G. Beyhaut, America centrale e meridionale II. Dall’indipendenza alla
crisi attuale, in Storia Universale Feltrinelli 1968, vol. 23, p. 130.
10
È la tesi, convincente, di hernández chávez 2005. Ma vedi la sintetica
ricostruzione e il giudizio, analogo, di S. De Santis, La rivoluzione messicana,
in Bonchio (a cura di) 1966, III, pp. 1252 ss.
11
Carocci 1979, p. 230.

31­­­­
In particolare, rivestono importanza tre articoli: il 27, che
stabilisce che la proprietà della terra appartiene allo Stato, il
quale, però, ha il diritto di cederla ai privati; il 123, che fissa le
norme-base di una complessa legislazione del lavoro, con tutta
una serie di garanzie per i lavoratori e le lavoratrici, comprese
quelle relative al diffuso lavoro minorile; e il 115, che proclama
l’istruzione obbligatoria. Si tratta di norme che esprimono, in
forma giuridica, le richieste avanzate lungo un paio di decenni
dalle classi subalterne, rielaborate entro una cornice di federa-
lismo cooperativo (il Messico era stato proclamato Repubblica
federale nel 1824). Nondimeno, come spesso accadrà anche
in seguito, fino ai nostri giorni, quel testo importante e inno-
vativo rimarrà perlopiù lettera morta, almeno sino alla metà
degli anni Trenta e all’arrivo al potere di Lázaro Cárdenas, un
autentico progressista, nel 1934.
In ogni caso, la Costituzione del febbraio ’17, nell’insieme,
sancisce sul piano istituzionale la fine del potere dei latifondi-
sti – caso unico in America Latina – e della classe mercantile,
e la nascita di un nuovo Stato fondato sul potere della bor-
ghesia industriale, spesso nata per trasformazione dalla stessa
classe latifondista12. La Costituzione darà vita a una sorta di
Stato bonapartista, una Repubblica presidenziale, con gover-
no forte e Parlamento debole, in qualche modo dando forma
giuridica a una prassi politica già in essere, ma che non ave-
va la copertura della carta fondamentale dello Stato, il quale
diventerà anche soggetto di politica economica per favorire
il decollo del paese13. Al di là dei suoi limiti, la Costituzio-
ne, precedendo quella sovietica del 1918 e quella tedesca di
Weimar del 1919, avrà un ruolo fondamentale nella storia del
costituzionalismo detto “sociale”, ossia in grado non soltanto

12
Cfr. A. Gilly, La guerra de clases en la revolución mexicana (Revolución
permanente y auto-organización de las masas), in Interpretaciones de la Revo-
lución mexicana 1980, pp. 21-53.
13
Cfr. A. Córdova, México. Revolución burguesa y política de masas, ivi,
pp. 55-89.

32­­­­
di correggere il mero liberalismo, in senso democratico, ma
di dargli un contenuto in grado di recepire istanze dal basso,
limitando i diritti individuali (ossia delle classi alte) in nome
di quelle stesse istanze (delle classi umili). In particolare le
lotte sociali latinoamericane del secolo XX, e anche del XXI,
avranno come riferimento, espresso o meno, quella Costitu-
zione, ancorché quale punto di partenza e non di arrivo14.
La questione della distribuzione della terra in Messico, e
nell’intero subcontinente, è ancora oggi centrale e attualissima.
La Costituzione del febbraio ’17 rimarrà una sorta di spina nel
fianco in ristrette ma potenti fasce di popolazione, avendo con-
cesso un respiro giuridico nuovo alla classe contadina, specie
con il citato articolo 27, ampiamente disatteso e duramente
contestato dai ceti abbienti fino a che si giungerà, nel 1992,
alla sua abrogazione, avviando così un nuovo ciclo di aspre e
sanguinose lotte per la terra, tuttora in corso, e ripetute, con
modalità diverse, pressoché in tutti i paesi latinoamericani15.
Analogamente, a dimostrazione che, con gli accennati limi-
ti, la Costituzione del ’17 ha avuto un valore enorme, gli am-
bienti conservatori, nel caso quelli ecclesiali, interni ed esterni,
hanno preso di mira l’articolo 24, e alcuni altri del dettato, per
le barriere che ponevano alla possibilità delle istituzioni reli-
giose, segnatamente alla Chiesa cattolica, di debordare inva-
dendo spazi non propri all’esercizio del culto. Quell’articolo,
in specie, verrà considerato immediatamente “anticlericale”, e
susciterà forti e immediate reazioni che perdureranno fino agli
anni Novanta, con interventi di pontefici (Wojtyla e Ratzinger),
fino a quando, nel 2012, una legge di riforma costituzionale (la
grande tentazione post-democratica: “riformare” le Costitu-
zioni giudicate troppo avanzate sul piano sociale e politico) ha
modificato in senso favorevole alla Chiesa cattolica quell’arti-
colo, e altre modifiche si preannunciano nella stessa direzione.
Che cosa dunque pretendeva quel famigerato articolo, tanto

14
Cfr. Míguez Núñez 2013.
15
Cfr. Ciaghi 2014.

33­­­­
inviso alle autorità locali e curiali di Santa Romana Chiesa cat-
tolica? Esso affermava la libertà di professare il proprio credo
religioso purché non costituisse un reato punibile dalla legge,
e proibiva lo svolgimento di qualsiasi celebrazione al di fuori
dei luoghi di culto, attribuendo comunque alle autorità civili
il diritto di vigilare in merito. Questo ovviamente metteva in
questione cerimonie religiose all’esterno degli edifici di culto.
Per di più, altri articoli toglievano potere alla Chiesa, come il 3,
frutto di grande civiltà, che stabiliva la libertà di insegnamento,
specificandone la laicità, e negando alle agenzie religiose o a
loro singoli rappresentanti il diritto a istituire o dirigere scuole
di istruzione primaria. Ancora più interessante e innovativo
l’articolo 5, che negava l’efficacia di ogni patto che avesse come
oggetto la perdita della libertà personale, anche con motiva-
zioni di tipo religioso, e dunque proibiva l’istituzione di ordini
monastici. L’articolo 27, inoltre, negava alle chiese la capacità
giuridica per acquistare, possedere o amministrare beni immo-
bili, e stabiliva la nazionalizzazione di quelli posseduti in quel
momento dalle medesime.
Si trattava di disposizioni improntate a un forte laicismo che
oggi studiosi cattolici giudicano «vessatorie» nei riguardi della
Chiesa, in particolare quelle contenute nell’art. 130, che nega-
va personalità giuridica alle «associazioni religiose denominate
chiese»: come dire che i “ministri di culto” vengono equiparati
a professionisti, negando loro l’elettorato attivo e passivo, fis-
sando persino delle quote massime di sacerdoti che le autorità
federali di ciascuno Stato della Repubblica messicana possono
stabilire. Se applicate alla lettera (il che mai avverrà dopo il
febbraio 1917), queste disposizioni avevano almeno in teoria
la possibilità di cancellare la presenza della Chiesa cattolica
in interi Stati della Repubblica federale16. E di scardinarne, in
sostanza, l’immenso potere.

16
Cfr. Valvo 2012.

34­­­­
3.
Marzo
La «potente valanga della rivoluzione»

Il 22 gennaio 1905, la cosiddetta “domenica di sangue”, con le


sue migliaia di morti, feriti e arrestati davanti al palazzo dello
zar a Pietroburgo, fu l’inizio della rivoluzione russa, sconfitta,
ma scossa salutare per un popolo schiacciato da tre secoli di
autocrazia. Ai sudditi che pacificamente, supplichevolmente,
avevano tentato di rivolgersi al padre-zar, risposero i soldati
con una strage. Un’osservatrice esterna, acuta e partecipe co-
me Rosa Luxemburg, militante e pensatrice, aveva salutato con
entusiasmo gli avvenimenti, pur nello sdegno per il massacro e
la stoltezza dell’autocrazia, ed esprimendo il proprio sconcerto
per l’ingenuità di quel popolo che, semplicemente, chiedeva
allo zar di rinunciare ad essere ciò che era1. Nei giorni di marzo
del 1917, ancora una volta il popolo si troverà davanti i soldati,
che, però, questa volta si rifiuteranno di aprire il fuoco, e sarà
l’inizio della fine per gli zar. La fallita rivoluzione di dodici anni
prima, oltre che per gli insegnamenti forniti per la vittoriosa
rivoluzione del marzo ’17, è importante anche per i dibattiti
scoppiati in seno al movimento socialista russo, che in qualche
modo anticiperanno quelli del 1917-20. Lenin, fin dal 1903,
con il II Congresso (Londra-Bruxelles) del Partito operaio
socialdemocratico russo, Posdr (nato nel 1898 per opera di
Georgij Plechanov e Pavel Aksel’rod), era entrato in contra-
sto con i suoi compagni sulla natura del partito, sulle regole
e sulle condizioni per l’ammissione. Il contrasto si ripercosse
all’esterno, arrivando a coinvolgere la Luxemburg, che rispose
al libretto di Lenin Un passo avanti e due indietro, in cui questi

1
R. Luxemburg, La rivoluzione in Russia, in Luxemburg 1975, pp. 235 ss.

35­­­­
difendeva la propria concezione centralistica e intransigente-
mente dirigistica del partito2.
Ancora più rilevante fu il contrasto tra menscevichi e bol-
scevichi nel 1905 e ora riproposto: i primi ritenevano che, da-
ta l’arretratezza russa, dovesse essere la borghesia a guidare
il moto rivoluzionario; i secondi invece pensavano che quel
ruolo spettasse alla classe operaia, in alleanza con i contadini.
Va ricordato, ad esempio, che un uomo di intelligenza e di
cultura, oltre che di coraggio, e grande figura spirituale del
socialismo internazionale come Jean Jaurès, assassinato nel
luglio ’14, aveva annotato, sul giornale da lui stesso fondato
e diretto, «L’Humanité», che il popolo russo non avrebbe
potuto basarsi – nella sua azione volta a scalzare il vecchio
potere zarista – sulle ambigue classi medie, ma avrebbe po-
tuto rompere le proprie catene soltanto facendo ricorso al-
l’«energia indomita del proletariato delle officine, e all’im-
mensa riserva di forze dei contadini spogliati ed esasperati»3.
Anche da questo punto di vista, la rivoluzione del marzo ’17
riprende e continua quella del gennaio 1905.
I primi tre anni di guerra erano stati gravidi di insuccessi
per l’esercito russo, e la situazione andava peggiorando, su-
scitando in una parte della classe dirigente la convinzione che
il regime zarista fosse da abbattere prima che si giungesse al
crollo generale del paese, i cui destini, nelle mani di Nicola II
e della sua corte, parevano segnati irrimediabilmente. Si trat-
tava di porre termine a una lenta agonia, e negli stessi ambien-
ti conservatori vicini allo zar si rendevano conto che il rischio
era quello che l’intero sistema di potere, di cui erano parte
integrante, venisse travolto. Perciò loro esponenti avevano
cominciato a lavorare segretamente, fin dal 1916, per giun-
gere alla pace separata con l’Impero germanico, puntando
anche su relazioni di parentela tra le due famiglie imperiali.

2
Cfr. Lenin 1955-1970, vol. VII (1959), pp. 297-412.
3
J. Jaurès, La révolution russe, in «L’Humanité», 1° luglio 1905, cit. in
Aunoble 2016, p. 28.

36­­­­
Un’altra fetta della classe dirigente, quella costituita essen-
zialmente dalla borghesia di orientamento liberale e occiden-
talizzante per cultura, intendeva invece proseguire la guerra,
ma, appunto, anch’essa si rendeva conto che ciò non sarebbe
stato possibile sotto la guida stanca dello zar Nicola con il
contorno della corte corrotta e dei governi inefficienti. Tanto
più sarebbe stato necessario liberarsi dello zar e della zavorra
al suo fianco, se era vero, come si sospettava, che tramava per
una pace che veniva vista come un vero e proprio tradimento
del paese. Quella borghesia, industriale, mercantile, intellet-
tuale, aspirava per i propri interessi, imprenditoriali e anche
culturali, allo sbocco sul Mediterraneo e magari a giungere a
Costantinopoli. Una posizione evidentemente sostenuta dal
corpo diplomatico dell’Intesa; anzi, le democratiche Francia
e Gran Bretagna in fondo si sarebbero così liberate dalla im-
barazzante alleanza con un regime autocratico.
La spontanea sommossa popolare dunque si incontra e si
fonde, alla velocità del baleno, con l’ammutinamento della
guarnigione militare della capitale: a quel punto il movimen-
to dilaga rapidamente in tutto il paese, raggiungendo il fronte
e le armate composte prevalentemente da contadini. Sono
dunque i soldati e gli operai coloro che abbattono la pluri-
secolare tirannia zarista, ma, come nella Rivoluzione france-
se, sarà la borghesia di orientamento liberale a prendere il
governo. Anche il Parlamento nazionale, la Duma, concessa
dallo zar proprio dopo i fatti del 1905, prodotto di un com-
plicato, «raffinato sistema elettorale reazionario»4, era desti-
nata a soccombere in seguito a una generalizzazione della
lotta e alla pace con la Germania, perciò i deputati liberali
costituiscono un comitato che diventa il «centro di resistenza
della borghesia», mentre operai e soldati si riconnettono alla
affascinante tradizione dei Soviet avviata nel 1905, facendo
così del «Soviet il centro di resistenza dei democratici e dei

4
Cfr. Rosenberg 1969, p. 95, e cfr. pp. 93 ss. per la ricostruzione com-
plessiva.

37­­­­
socialisti». Sono due centri potenzialmente avversari che sol-
tanto le circostanze hanno costretto ad agire insieme. E il
contrasto tra le due forze si tramuterà ben presto in scontro.
Fra loro ci sono i “socialrivoluzionari” (che sono il partito
dei narodniki, i populisti), raggruppamento maggioritario, a
sinistra del quale stanno i socialdemocratici, divisi in bolsce-
vichi e menscevichi, rispetto ai quali gli operai dell’industria
sono piuttosto equamente divisi, non comprendendo né dan-
do peso alle differenze teoriche, a loro avviso probabilmente
astratte, tra le due correnti.
Un corrispondente d’eccezione, dagli Stati Uniti dove si
trova, scrive per il giornale russo «Novyj Mir» il 13 marzo:

Le strade di Pietrogrado parlano di nuovo il linguaggio del


1905. Come ai tempi della guerra russo-giapponese, i lavoratori
reclamano pane, pace e libertà. Come nel 1905, i tram non cam-
minano e i giornali non escono. Il governo invia i suoi cosacchi. E
di nuovo nelle strade della capitale non si vedono che queste due
forze: gli operai rivoluzionari e le truppe zariste. Il movimento è
stato provocato dalla penuria di pane. Evidentemente non è un mo-
tivo fortuito. In tutti i paesi belligeranti, le restrizioni nei prodotti
alimentari sono la causa del malcontento delle masse. Tutta l’in-
sensatezza della guerra viene alla luce tramite questo fatto brutale:
non si produce più ciò che è indispensabile alla vita perché bisogna
fabbricare ordigni di morte.

Chi scrive è Lev Davidovič Trockij, più giovane di Lenin


di nove anni (era nato da un’agiata famiglia ebraica nella pro-
vincia ucraina dell’Impero russo), con una intensa attività di
cospiratore alle spalle che lo ha condotto al carcere e all’e-
silio in Siberia, da dove, con una fuga, era andato ramingo,
giungendo a Londra dove aveva incontrato Lenin avviando
la collaborazione al giornale «Iskra» (fondato nel 1900), che
da tempo era trasmigrato nella capitale inglese, dopo varie
peripezie. I rapporti tra i due erano stati inizialmente buoni,
ma si erano deteriorati con l’accostarsi di Trockij alla cor-
rente menscevica, mentre Lenin capeggiava quella bolscevica

38­­­­
del Posdr. Trockij era finito a gennaio negli Usa, inserendosi
nella variegata e un po’ bizzarra comunità di esuli russi, e di
là mandava articoli. In uno di poco successivo, con la felice
enfasi che sempre ne caratterizzerà la scrittura, darà il sonoro
annuncio della rivoluzione vittoriosa:

Ciò che si svolge attualmente in Russia entrerà nella sua storia


come uno dei suoi più grandi avvenimenti. I suoi figli, i nostri nipoti
e i nostri pronipoti ne parleranno come dell’inizio di una nuova era
nella storia dell’umanità. Il proletariato russo si è sollevato contro il
più criminale dei regimi, la negazione stessa del governo. Il popolo
di Pietrogrado si è sollevato contro la più vergognosa e sanguinaria
delle guerre. La guarnigione della capitale ha issato la bandiera rossa
della rivolta e della libertà. [...] La potente valanga della rivoluzione
è in pieno slancio. Nessuna forza umana potrà fermarla5.

Tra l’8 e il 12 marzo Pietrogrado vive, dunque, la rivolu-


zione, la prima vittoriosa, che cambierà il volto della Russia. I
soldati si ribellano agli ordini di sparare sulla folla e aprono il
fuoco sui loro ufficiali. Il 15 marzo lo zar Nicola II Romanov
abdica in favore del fratello Michele, che, cosciente della si-
tuazione disperata, rinuncia. Viene proclamata la Repubblica,
con il governo moderato del principe Georgij Evgen’evič L’vov
che, di fatto impossibilitato o incapace di esercitare qualsivo-
glia autorità, si trascinerà fino a luglio. Una volta scoppiata la
rivoluzione, gli episodi di fraternizzazione fra le truppe e le
folle in sommossa saranno all’ordine del giorno, praticamente
inevitabili, e su ciò si impegnano la Germania e i suoi alleati,
facendo opera di propaganda con volantini e giornali nell’e-
sercito russo al fronte: secondo dati della stessa intelligence
militare germanica, su 214 divisioni impegnate al fronte, al-
meno 107 verranno toccate dall’azione di propaganda. Su 220
divisioni dell’esercito, ben 165 fraternizzeranno e almeno 38
dichiareranno che non avrebbero più attaccato unità militari

5
I due articoli, entrambi per «Novyj Mir», 8 e 13 marzo 1917, sono in
Trotsky 1998, pp. 41-43 e 43-44.

39­­­­
tedesche o austriache6. Gli echi internazionali degli avveni-
menti nell’immensa Russia sono fortissimi: nel mondo mar-
xista ferve il dibattito: fermarsi allo stadio democratico? O
portare avanti la rivoluzione? E trattasi davvero di rivoluzione
marxista? O è una rivoluzione borghese, e tale non può che
essere? Intanto i moti si propagano nelle città russe, a partire
da Pietrogrado, raggiungendo Mosca. Le parole “bolscevico”
e “menscevico” diventano popolari nel mondo.
La guerra, certamente, aveva cambiato «la struttura del
movimento socialista russo»7. Georgij Valentinovič Plecha-
nov, il patriarca del marxismo russo, per esempio, all’inizio
era stato interventista, dalla parte delle democrazie; in segui-
to cambiò idea e dichiarò di sostenere semplicemente «il mio
Paese». Le varie correnti del socialismo avevano posizioni
differenziate, anche nel loro seno, dall’appoggio condiziona-
to al rifiuto incondizionato; quello, per esempio, che dall’e-
silio svizzero Lenin aveva espresso con nettezza nelle parole
d’ordine «trasformare la guerra imperialista in guerra rivolu-
zionaria». Si trattava delle due figure più eminenti, separate
da un quarto di secolo (Plechanov del 1856, Ul’janov-Lenin
del 1870): il vecchio, ancora provvisto di un’autorità intel-
lettuale e morale assai forte, e il giovane, che, senza timori
reverenziali, costruiva da anni una linea intransigente che lo
avrebbe messo via via in contrasto con l’intera nomenclatura
del marxismo dopo la morte (nel 1895) di Engels, colui che,
scomparso Marx (nel 1883), aveva assunto il ruolo di inter-
prete “ufficioso” del pensiero del fondatore, vero e proprio
“papa del marxismo”, come venne etichettato. Plechanov e
Lenin si trovarono dunque a dover convivere nel Posdr, che,
come l’italiano Psi, si era diviso in due frazioni, la menscevica
e la bolscevica. Sarà la prima, inizialmente, la beneficiaria

6
Cfr. B. Kolonitskii, War as legitimisation of Revolution, Revolution as
justification of war. Political mobilisation in Russia, 1914-1917, in Afflerbach
2015, p. 75.
7
Ivi, pp. 61-78 (64).

40­­­­
principale della rivoluzione di marzo, che ancora in una parte
della letteratura viene chiamata di febbraio: all’epoca in Rus-
sia era infatti impiegato il calendario gregoriano, che ha 13
giorni di anticipo rispetto a quello giuliano, entrato in vigore
nel 1918 dopo l’avvento al potere dei bolscevichi, uniforman-
dosi così al calendario del resto del mondo occidentale.
La prima rivoluzione vittoriosa in Russia, tuttavia, non
nasce dai “rivoluzionari di professione” (secondo la teoria
leniniana), né da nessuna formazione organizzata. In realtà
si tratta di due distinte ondate rivoluzionarie che si incrocia-
no, senza fondersi, ma sommandosi fanno massa critica: «dal
basso il moto dei contadini, dei soldati e degli operai, che
chiedeva pace e pane; dall’alto quello della borghesia libe-
rale, che voleva la guerra e la conquista»8. Come ha scritto il
più autorevole degli storici di quell’evento, la rivoluzione che
mise fine allo zarismo rovesciando la dinastia dei Romanov

fu l’esplosione spontanea del malcontento di una moltitudine esa-


sperata dalle privazioni della guerra e dalla patente disparità nella
distribuzione dei pesi sociali. Essa fu salutata con gioia e sfruttata
da una larga parte della borghesia e della classe dei funzionari sta-
tali che non credeva più nella bontà dell’autocrazia come forma di
governo e che, soprattutto, non aveva più stima dello zar e dei suoi
consiglieri [...]9.

Sono queste classi a dar vita al primo governo provvisorio,


davanti al quale, però, sorge immediatamente intorno ai Soviet
un potere alternativo, che diverrà presto quasi un “governo-
ombra”. Il Soviet di Pietrogrado, detto “dei deputati degli ope-
rai”, richiama alla memoria il glorioso Soviet di Pietroburgo
nella rivoluzione del 1905: organizzazioni, entrambe, nate al di
fuori dei partiti politici, espressioni dirette della classe operaia,
nel cui seno, peraltro, sono presenti menscevichi (la maggio-

8
Rosenberg 1969, p. 94.
9
Carr 1964, p. 72.

41­­­­
ranza), bolscevichi e una terza forza, i socialisti rivoluzionari.
Questo contropotere, rispetto al potere governativo, svolge
un ruolo che ora è di cooperazione, ora di antagonismo. Per
imitazione di quello di Pietrogrado, altri Soviet si costituiran-
no rapidamente a Mosca e altrove, prima nelle città maggiori,
poi nei centri minori e nelle campagne. A fine mese, perciò, si
convocherà la prima Conferenza panrussa dei Soviet. Ma la
lotta in seno al Soviet di Pietrogrado, che rimane di gran lunga
il più importante, è già in corso fin dalla sua stessa nascita, fra
una maggioranza favorevole al sostegno al governo provvisorio
(menscevichi e loro alleati) e una minoranza (i bolscevichi) che
invitano a lottare – come fa uno dei primi leader del tempo,
Vjačeslav Michajlovič Molotov, destinato a un futuro ragguar-
devole nell’Urss staliniana – contro il «governo controrivo-
luzionario», espressione «di capitalisti e proprietari terrieri».
Molotov scrive sul giornale di cui ha assunto, il 5 marzo, la
direzione, alla testa di un comitato che comprende due mo-
destissime figure quali Kalinin e Eremeev. L’arrivo dall’esilio
siberiano di Kamenev, Stalin e Muranov (il primo dopo aver
cambiato più volte alleanze finirà giustiziato nel ’36, mentre
il terzo condurrà una esistenza di ligio bolscevico) comporte-
rà un immediato rimescolamento delle carte, con cambio del
comitato e del direttore: il giornale è la «Pravda», fondata nel
1912, poi chiusa e rinata proprio nel mese della rivoluzione.
Ma la sua, per ora, è voce isolata: gli altri, tra incertezze per-
sonali e la generale confusione, sembrano piuttosto essere a
favore del governo, almeno fin tanto che agisca in modo da
sostenere le rivendicazioni proletarie (formula evidentemente
ambigua), e la prosecuzione della guerra10.
Lenin, come già ricordato, vive in Svizzera, dove si è rifu-
giato dalla fine del 1907 dopo un’esistenza raminga, inseguito
da polizie, passando da un carcere a un’assemblea, dallo studio
dei classici (da Hegel a Engels, oltre naturalmente a Marx)

10
Cfr. ivi, pp. 75 ss.

42­­­­
alle vivaci, spesso feroci polemiche con socialisti di varia na-
zionalità e corrente. E dal suo esilio, l’ultimo della sua non
lunga ma intensissima esistenza, invia alcuni scritti, le quattro
Lettere da lontano ai compagni in Russia; superata la sorpresa
per gli eventi inaspettati (anche Lenin sarà sorpreso dalla ri-
voluzione, insomma), egli si rivela concreto fino alla durezza,
decisionista fino all’autoritarismo. Ma si rende conto che la
situazione è favorevole. Occorre far presto: fermare la guerra,
e avviare subito la trasformazione della rivoluzione, passando
all’atto secondo: la rivoluzione dei Soviet. I bolscevichi debbo-
no saper approfittare del momento di sbandamento del paese,
e contrastare duramente il governo provvisorio, espressione di
interessi borghesi interni o della «ditta finanziaria “Inghilterra
e Francia”», dando il colpo di grazia alla monarchia zarista,
sconfitta ma ancora persistente in tanti gangli e apparati dello
Stato; soprattutto il proletariato non deve lasciarsi ingannare
dalle promesse del governo, costruendo, invece, il potere dei
Soviet, il solo che possa fare gli interessi delle masse piagate
dalla guerra imperialista, dopo avere subìto per secoli l’oppres-
sione zarista11. Bisognerà però attendere il ritorno di Lenin in
Russia, perché, non senza contrasti, la linea dei bolscevichi di-
venti quella da lui disegnata già dalla Svizzera.
Non v’è dubbio, nell’insieme, che lo scoppio della rivo-
luzione in uno dei pilastri dell’alleanza antitedesca cambi ra-
dicalmente il quadro complessivo della guerra, con pesanti
influssi sulle nazioni alleate che saranno costrette a rivedere i
piani strategici; ma gli effetti saranno notevoli anche nei bel-
ligeranti del fronte opposto, a cominciare dal Reich tedesco,
dove si diffonde la convinzione che la vittoria sia a portata di
mano, e in tal senso gli eventi russi sono salutati con favore12.
Il 23 marzo, il leader socialista italiano Turati parla alla Ca-
mera dei Deputati:

11
Cfr. Lenin 1955-1970, vol. XXIII (1965), pp. 290 ss.
12
Un quadro generale, in chiave politico-diplomatica, è in Petracchi
1974.

43­­­­
Auguriamo che la rivoluzione russa, il cui slancio appare co-
sì formidabile da ricordarci la grande rivoluzione francese, anzi
da farci sperare superate in un sol colpo le fasi dell’89 e del ’93,
abbatta rapidamente tutti gli ostacoli e trionfi senza ritorni o rap-
presaglie. Inneggiando alla libera Russia, noi diciamo evviva alla
liberazione del mondo.

Pur cogliendo l’epocalità dell’evento, Turati non richiama,


forse per prudenza tattica, il proletariato, né il socialismo. E
il presidente del Consiglio Boselli, dando voce a una idea
diffusa, associa al saluto del leader socialista quello del go-
verno, spingendosi ad affermare che «gli avvenimenti che si
compiono in Russia accrescono forza alla nostra guerra». Al
che tutta l’Assemblea, compresi i rappresentanti del governo,
in piedi inneggiano alla Russia, con un imprudente «Viva la
Russia!», un grido che di lì a poco assumerà, echeggiando dai
campi alle officine, tutt’altro significato13.
Gran parte degli osservatori internazionali in Europa oc-
cidentale interpreta gli avvenimenti russi come un aiuto alla
causa degli Alleati; più precisamente, sono gli ambienti bel-
licisti di ogni paese a leggere la rivoluzione come prodotto
di un’azione filo-occidentale, intervenuta contro congiure
interne alla corte volte a intese con la Germania. Qui, in ef-
fetti, il debole cancelliere Bethmann-Hollweg è costretto ad
annunciare, attraverso il «messaggio pasquale» dell’impera-
tore, l’attesa riforma della legge elettorale, in discussione da
tempo al Consiglio dei ministri di Prussia. La riforma, come
tutte le altre di cui si comincia a vociferare, in realtà ha un
significato di prevenzione della temuta, e qua e là annuncia-
ta da manifestazioni spontanee di proletari, radicalizzazione
della socialdemocrazia. Il timore governativo di agitazioni è
legittimo e fondato: in questo mese vengono proclamate nuo-
ve riduzioni alimentari, ossia la medesima causa scatenante,
in sostanza, della vittoriosa rivoluzione avvenuta in Russia. E

13
Cfr. Malatesta 1935, pp. 138-39; Giovanna Procacci 1999, p. 269.

44­­­­
in effetti, pur senza assumere i tratti della Russia, gli scioperi
contro la penuria di alimenti si verificheranno puntualmente,
come temuto. Analogamente, nell’Impero austro-ungarico,
alleato di quello guglielmino in Germania, in marzo il go-
verno di Vienna è costretto a fare concessioni all’agitazione
popolare: la prima sarà di carattere istituzionale, con la con-
vocazione del Consiglio imperiale dell’Austria propriamente
detta (esclusa dunque l’Ungheria), che dalla primavera 1914
non si era più riunito14.
Intanto il presidente Wilson sembra soffiare sul fuoco,
con dichiarazioni solenni di lotta all’«autocrazia» e inni alla
«libertà dei popoli». Le preoccupazioni si accrescono quan-
do, a fine mese, un proclama del Soviet di Pietrogrado ai
«proletari di tutto il mondo», in particolare a quelli dei paesi
in guerra con la Russia, li invita a seguire l’esempio russo,
ribellandosi ai propri governi imperialistici, abbattendone «il
giogo tirannico», rifiutando di combattere «per i re, i pro-
prietari terrieri e i banchieri» e mettendo la parola fine «a
questa guerra mostruosa». Parole incendiarie, che suscitano
l’intervento della censura militare germanica per impedirne
la pubblicazione e la diffusione15.
In Gran Bretagna, il Partito laburista, benché diviso sul
problema della pace, isola i pacifisti laburisti seguaci di
Ramsay MacDonald e Philip Snowden, i quali mirano ad ot-
tenere dalla Camera bassa un voto favorevole alla stessa pace
senza annessioni a cui si ispirano i rivoluzionari russi, e ag-
giungono l’irrealistico obiettivo della revisione degli obiettivi
bellici annunziati in gennaio, non ottenendo in entrambi i
casi alcun esito. Ciò può lasciar credere che il paese sia una-
nime e concorde nella volontà di portare avanti la guerra, a
prescindere da tutto quel che sta accadendo nel mondo. È
precisamente dal mese di marzo che hanno inizio scioperi,
e conseguenti disordini, tra gli operai delle industrie belli-

14
Cfr. Ritter 1973, pp. 521 ss.
15
Cfr. ivi, p. 525.

45­­­­
che. Il primo ministro Lloyd George comincia ad avere serie
preoc­cupazioni, e mette a fuoco l’idea che si tratti di ripercus-
sioni degli avvenimenti di Russia. Ma si tende a sottovalutare
l’effetto-stanchezza dei popoli, che appare la linea rossa di
tutto l’anno 1917.
In Italia, gli echi russi saranno ancora più forti: in parti-
colare negli ambienti del socialismo non interventista (anche
all’estero, ma in Italia maggiormente) si sottolinea, talora non
senza timore, il carattere rivoluzionario di quei fatti, met-
tendoli in relazione all’oppressione secolare e alla protesta
contro la guerra. Gli stessi russi si accorgono che proprio in
Italia la rivoluzione di marzo ha incontrato le simpatie più
fervide, e gli entusiasmi più forti; al punto che il mito sovie-
tico nasce allora, ossia non attende la vittoria bolscevica di
novembre per imporsi e propagarsi. E non saranno soltanto i
socialisti fedeli all’internazionalismo a entusiasmarsi, sia pure
con timori di contraccolpi di politica interna16; ma anche gli
interventisti democratici e quelli “rivoluzionari”; persino il
giornale di Mussolini «Il Popolo d’Italia», fondato dopo il
suo tradimento della causa socialista, ne scriverà in termini
elogiativi, traendo conferma della vecchia tesi che la guerra
era la rivoluzione, e la rivoluzione era la guerra17.
In breve, la rivoluzione di marzo diventa strumento di lotta
politica e di propaganda per la destra nazionalista antigover-
nativa e antisocialista, dai nazionalisti ai mussoliniani. Uno dei
fedelissimi del futuro duce, anch’egli transfuga dal Psi, Fran-
cesco Paoloni18, pubblica un instant-book di pesante polemica
antisocialista. Un altro pamphlet polemizza, invece, proprio
con «Il Popolo d’Italia», giudicato «fogliaccio lurido e bla-

16
Su questo rinvio all’opera innovativa di Cortesi 1999, ancora oggi
fondamentale per la storia del socialismo.
17
Per esempio Le Réfractaire [B. Mussolini], Guerra rivoluzionaria. Alla
signora Anna Kuliscioff, 18 marzo; Id., Bandiera stinta, 20 marzo; Jean-Jac-
ques [O. Dinale], Filosofia rivoluzionaria, 17 marzo; Nar [G. Poverelli], L’89
in Russia, 19 marzo, tutti su «Il Popolo d’Italia»; cfr. d’Orsi 1985, pp. 32-33.
18
Paoloni 1917.

46­­­­
sfemo» per il suo anticlericalismo e per il suo occhieggiare, in
effetti, ai rivoluzionari russi; opera di un sacerdote (tale Anto-
nio Oldrà), il libro si colloca sul fronte opposto, nel timore che
il contagio varchi i confini della Russia e raggiunga il mondo
cattolico-occidentale: non esiste un «diritto alla rivoluzione»,
che equivarrebbe al diritto a «disfare colla violenza brutale l’e-
dificio della società, che Dio stesso ha stabilito, per voce della
natura, in mezzo agli uomini»19. Un commediografo assai in
voga, Sem Benelli, divenuto celebre con un’opera ancora oggi
citatissima, La cena delle beffe del 1909, tiene addirittura in
un teatro romano una conferenza sulla rivoluzione, che capita
all’indomani della conclusione degli eventi di Pietrogrado20.
Ma a parte eccezioni, anche alcune estreme come quella del re-
verendo, la prima rivoluzione suscita un po’ dappertutto giu-
dizi prevalentemente favorevoli, anche se con cautela e, specie
nei documenti privati (come corrispondenze e diari), qualche
preoccupazione. Sicché il grido “fare come la Russia”, che tra
poco, e specialmente dopo l’avvento dei bolscevichi al potere,
suonerà come un avviso di rivoluzione da parte socialista, ora,
dopo il mese di marzo, sarà una minaccia di golpe proveniente
dalla destra contro il governo giudicato attendista ed esitante
nella conduzione delle operazioni belliche, troppo corrivo ai
“diktat” del Parlamento, a sua volta posto sotto accusa come
impaccio alla sana condotta della guerra, e troppo proclive ad
“ascoltare” i socialisti21.
Dal canto suo, Lenin, dall’esilio svizzero, ritiene che la
rivoluzione sia stata favorita dagli ambasciatori di Francia
e Inghilterra, per portare al potere una classe più affidabi-
le della decrepita aristocrazia zarista. In ogni caso la parola
d’ordine dominante è quella della prosecuzione della guerra
contro la Germania. I socialisti francesi, che a differenza di
quelli italiani erano entrati nell’Union Sacrée condividendo la

19
Oldrà 1917, p. 13.
20
Cfr. d’Orsi 1985, p. 36.
21
Cfr. Giovanna Procacci 1999, pp. 263 ss.

47­­­­
scelta della guerra del governo nazionale, non si differenzia-
no dal coro della stampa borghese internazionale, sia inter-
pretando, in maniera davvero poco rispondente alla verità, la
rivoluzione come opera congiunta di popolo, Parlamento ed
esercito, sia polemizzando con i Soviet, bollati di anarchismo.
E, naturalmente, schierandosi contro Lenin e i bolscevichi,
sospettati di essere al soldo della Germania, mentre il resto
dell’avanguardia rivoluzionaria viene vista benevolmente co-
me intenzionata a portare avanti la guerra contro Berlino22.
Del resto, di lì a poco, grazie alla rete di relazioni dei so-
cialisti, e a pochi giornalisti capaci di raccontare i fatti, co-
minceranno a filtrare, oltre la censura e i comunicati ufficiali,
notizie dall’immenso paese immerso nella crisi rivoluziona-
ria, da cui si desume che lo spirito che anima gli eventi rus-
si è tutt’altro che favorevole alla prosecuzione della guerra.
Quello che comunque si conosce poco in tutto l’Occidente
è la situazione di caos generata dalla prima rivoluzione in
Russia. I soldati si sbandano, ritenendosi ormai esentati da
ogni disciplina, i contadini si aspettano la terra e cominciano
ad occuparne fette, nelle città si verificano aggressioni e furti.
Il vecchio ordine è di colpo sgretolato, ma il nuovo non è
nato, e il governo “democratico” appare del tutto inadegua-
to a fronteggiare la situazione, sia interna, restaurando una
qualche forma di organizzazione istituzionale accettabile, sia
esterna, nella sua volontà reiteratamente dichiarata di conti-
nuare la guerra, con successi sempre più scarsi, e con rovesci
sempre più frequenti. Intanto, cominciano a rientrare nella
capitale Pietroburgo i capi bolscevichi esiliati in Siberia dal
regime zarista: tra loro ci sono Stalin e Kamenev, come già
ricordato. I bolscevichi cominciano così ad acquistare un pe-
so nella compagine governativa, ma la linea anche tra loro è
diversa da quella di Lenin: ossia, continuare la guerra contro
la Germania, per sconfiggere quello che viene considerato il

22
Cfr. Aunoble 2016, pp. 28 ss.

48­­­­
più pericoloso degli imperialismi23. Lenin, con assoluta in-
transigenza, predica invece la fine immediata della guerra,
attraverso la pace separata con gli Imperi centrali. Ed è esat-
tamente ciò che comincia a preoccupare le classi dirigenti
delle altre potenze belligeranti dalla stessa parte della Russia.
Nel contempo le notizie russe, confuse e malcerte, produco-
no una scossa nell’umore delle masse, combattenti e no. Grandi,
contrapposte speranze, e altrettanto grandi timori. I governi na-
zionali cominciano a preoccuparsi della possibile propagazione
dello spirito di rivolta, ma nel contempo anche della possibilità
di defezione dell’“orso russo”. Anche il governo italiano, fino
ad allora poco o nient’affatto propenso ad ascoltare i brontolii
del suo popolo, e a dar loro ascolto, viene toccato dalla nuova
situazione determinata dalla rivoluzione in Russia. A distanza
di un paio d’anni dalla richiesta inviata ai prefetti di condurre
una indagine sullo stato d’animo della popolazione, viene ri-
petuta l’operazione: in vero, la preoccupazione delle autorità
non riguarda tanto le condizioni di vita in quel frangente nelle
campagne e nelle città, ma, piuttosto, la situazione dell’ordine
pubblico nelle diverse province, per predisporre adeguati stru-
menti di prevenzione oltre che di repressione.
Tocca al ministro dell’Interno Orlando (destinato a suben-
trare a Boselli, dopo Caporetto) ordinare quella nuova inda-
gine. In effetti si stanno verificando agitazioni a catena nelle
campagne, e le nuove maestranze di fabbrica (subentrate alle
precedenti, precettate per il fronte o finite sotto terra), soprat-
tutto donne e ragazzi ma con la progressiva adesione degli uo-
mini, vanno mostrando un inedito protagonismo con scioperi
qua e là. L’introduzione del razionamento del pane, alimento
base per i nove decimi della popolazione, sarà la causa prima
dello scoppio delle rivolte nelle città. L’autorità di polizia non
può che ammettere, a denti stretti, che il malessere è diffuso,
tanto per il prolungarsi della guerra, quanto per le condizioni

23
Cfr. Shukman 1977, pp. 173 ss.

49­­­­
di vita sempre più dure; è soprattutto lo spirito pubblico nelle
città a impensierire, con i continui riferimenti alla Russia24. Pic-
coli, ma reiterati episodi testimoniano un malcontento ormai
endemico, che le notizie provenienti dall’Est europeo fanno
fibrillare, producendo esplosioni, anche se sempre, appunto,
di contenuta entità. Il primo giorno di primavera dell’anno,
reparti del 38° Fanteria esprimono il malcontento sparando a
casaccio contro il ritorno in prima linea, dopo una serie di ope-
razioni che hanno falcidiato la Brigata. Si tratta di uno di quegli
eventi qualificati nelle carte militari come «tumulto», che viene
sedato rapidamente e facilmente, non senza uno strascico di
vendetta: fucilazioni sommarie, estraendo a sorte soldati, man-
dati ipso facto davanti al plotone di esecuzione25.
Nel mese della rivoluzione in Russia e del complessivo
peggioramento della situazione bellica e dei civili, il pacifi-
sta italiano con le armi in mano, Ernesto Teodoro Moneta
(Nobel per la Pace nel 1907!), già favorevole alla guerra di
Libia e poi accanito interventista, vero propagatore dell’odio
antitedesco, lancia un appello in cui propone la «Federazione
Europea», unico mezzo, a suo avviso, per evitare il ripetersi
di una catastrofe come quella in corso, «la più spaventosa
delle guerre che la storia ricordi». Ma nella futura organiz-
zazione non avrebbe potuto essere accolta la Germania, che
anzi avrebbe dovuto, almeno per un periodo iniziale (non
precisato), essere tenuta fuori «da ogni legge civile», e pensar
il contrario sarebbe solo «follia di visionario»26. L’Europa non
sembra affatto intenzionata a pacificarsi, e gli sviluppi non
soltanto del biennio che la separa dalla pace, ma del venten-
nio successivo che la condurrà, praticamente senza soluzione
di continuità, a un’altra grande, spaventosa guerra totale, lo
dimostrano tragicamente.

24
Cfr. De Felice 1963.
25
Cfr. Forcella e Monticone 1972, p. 119.
26
Cfr. D’Angelo 2016, pp. 159 ss. Su Moneta, la voce di Fulvio Conti
in DBI, vol. 75 (2011).

50­­­­
4.
Aprile
Tra Russia e America

Sul quotidiano «Pravda», organo dei bolscevichi russi, il 7


aprile (il 20 secondo il nostro calendario) appare un testo
intitolato Sui compiti attuali del proletariato rivoluzionario,
ben presto conosciuto, anche per la forma, come Tesi d’apri-
le. Le firma colui che solo pochi giorni prima, esattamente
la notte del 3, è rientrato, insieme a un manipolo di com-
pagni, dall’esilio svizzero, dove ha lavorato molto negli anni
precedenti sia sul piano teorico sia su quello organizzativo.
Vladimir Il’ič Ul’janov (da tempo noto con lo pseudonimo
di Nikolaj Lenin), che all’epoca sta per compiere 47 anni, ha
alle spalle una storia familiare terribile, con l’impiccagione
del fratello maggiore Aleksej, militante tra i narodniki (po-
pulisti) che aveva partecipato alla cospirazione per uccidere
lo zar Alessandro III, nel 1887. Un episodio che lo convinse
a prendere una strada diversa da quella dei populisti: «la fer-
rea logica e la vasta cultura scientifica che egli fin da giovane
possedeva, non gli permettevano di correr dietro alla loro
confusa sentimentalità»1. Per rientrare in patria, ha potuto
contare sul favore dei tedeschi, attraversando la frontiera
russo-germanica in un vagone ferroviario sigillato; ha funto
da mediatore nella trattativa il vecchio marxista Aleksandr
Parvus, fuggito in Germania dall’esilio in Siberia, dove erano
collocati sempre tutti i condannati politici. Parvus svolgerà
poi un ruolo negli avvenimenti rivoluzionari.

1
Rosenberg 1969, p. 29.

51­­­­
Del resto, a Berlino, sono ben lieti di far giungere a
Pietrogrado colui che unanimemente è considerato il più
autorevole e capace dei dirigenti bolscevichi, il più forte
tra i leader della socialdemocrazia russa, unita nel Posdr, il
partito che nel suo II Congresso (Londra-Bruxelles, 1903)
si era diviso nelle due frazioni bolscevica (maggioritaria) e
menscevica (minoritaria). La linea di questi ultimi è quella
indicata da Lenin nel libro, apparso in quello stesso anno,
ma scritto tra il 1901 e il 1902, specialmente contro le in-
terpretazioni “economicistiche” del marxismo. Se Martov
– uno dei principali capi menscevichi – pensa a un partito
aperto, intorno al cui nucleo di attivisti c’è una larga cerchia
di simpatizzanti, sul modello delle socialdemocrazie (che
allora stava per “socialismi”) dell’Europa occidentale, Le-
nin mira a una organizzazione rigida, fatta dai soli militanti.
Ed esclude, allora, un ruolo attivo delle masse, che invece
Martov accoglie. Come Martov la pensa Trockij, che allora
è assai più vicino ai menscevichi che a Lenin, il quale pensa
che partito e masse siano due distinte entità, la prima fun-
gendo da guida e da strumento organizzativo delle secon-
de, mentre Trockij, come diversi altri nel Posdr, ritiene che
le masse possano e debbano svolgere un ruolo attivo. Va
tuttavia precisato che la posizione di Lenin è determinata
anche dalla constatazione che, in condizioni nelle quali di-
stinguere il rivoluzionario autentico dal «parolaio ozioso»
non era sempre agevole, Martov rischiava di accogliere nel
partito (dove una terza parte era composta da «intriganti»)
«avventurieri» e «opportunisti». Lenin pensa specialmente
agli intellettuali che, fin dall’inizio del secolo, avevano co-
minciato ad orientarsi “a sinistra”, spesso mossi da ambi-
zioni personali.
In Un passo avanti e due indietro (1904) Lenin, commen-
tando il Congresso, poté meglio definire la teoria del partito,
che i menscevichi e Rosa Luxemburg, militante e teorica della
Socialdemocrazia tedesca (Spd), tacciavano di essere «autori-
taria» e «burocratica»; Lenin, in replica, satireggiava «con la

52­­­­
loro tendenza ad andare dal basso in alto, dando a qualsiasi
professore, a qualsiasi studente di ginnasio, a ogni scioperante
la possibilità di annoverarsi tra i membri del partito». Il loro
privilegiare la spontaneità e il movimento contro la coscienza
critica e l’organizzazione avrebbe comportato «diminuire il
valore dell’iniziativa politica», abbandonandosi nello stesso
tempo «alla politica del contingente, del caso per caso, nella
rinuncia all’autonomia della classe operaia»2. Qualche anno
dopo, nel 1906, al III Congresso del Posdr, successivo agli
eventi rivoluzionari finiti tragicamente, la Luxemburg tutta-
via dichiarò a un certo punto: «Lo so che anche i bolscevichi
hanno parecchi difetti, stranezze, sono eccessivamente rigidi,
ma li comprendo e li giustifico pienamente; non si può non
essere rigidi di fronte alla massa amorfa, gelatinosa dell’op-
portunismo menscevico»3.
Queste parole non elimineranno comunque il contrasto
sul tema del rapporto partito-masse tra Lenin e la Luxem-
burg, la quale non solo attribuirà alle masse un ruolo attivo,
ma respingerà il principio leniniano che debba essere l’avan-
guardia formata dal partito a immettere in esse una autentica
coscienza politica rivoluzionaria alla quale sono incapaci di
giungere, arrestandosi naturalmente al livello della coscienza
«tradunionistica», ossia sindacale. Si tratta di un tema cen-
trale, che attraversa l’intero svolgimento del II Congresso, e
le differenze apparentemente minime tra i due schieramenti
interni sono in realtà rilevanti, tanto da farle apparire due ani-
me difficilmente conciliabili: «due mondi diversi», ha scritto
Rosenberg (storico tedesco marxista), aggiungendo però an-
che che Lenin era abbastanza empirico per adattare la teoria
alle svolte della storia, insistendo su una sorta di permanente
contraddizione tra la teoria ortodossa – rispetto a Marx – e
la pratica eterodossa, secondo una linea interpretativa che

2
Cfr. Gruppi 1970, pp. 52-53.
3
Cit. in una delle Note introduttive di Lelio Basso a Luxemburg 2012,
I, pp. 430-31.

53­­­­
gli giunge da un grande pensatore della tradizione marxista
radicale, Karl Korsch, più tardi espulso per “idealismo” e
“revisionismo” dal Partito comunista tedesco4. All’arrivo alla
stazione “Finlandia” di Pietrogrado, Lenin trova con grande
sorpresa due reggimenti di soldati guidati dai bolscevichi5 e
una piccola folla ad attenderlo, alla quale il rivoluzionario
rientrato in patria si rivolge, incoraggiandola a portare avan-
ti la «vittoriosa rivoluzione russa» che ha spalancato le por-
te a un’era nuova, preannuncio della rivoluzione socialista
mondiale, favorita dalla rivolta dei popoli contro «la sporca
guerra imperialista». Poi, sulla piazza antistante la stazione,
la folla si moltiplica, e Lenin, arrampicato su un carro ar-
mato, in piedi, la arringa, ripetendo i concetti espressi poco
prima6. È un’autocandidatura alla leadership della fase due
della rivoluzione. Un compagno che lo incontra in quei giorni
scriverà: «non dimenticherò l’impressione che mi fece. Avevo
davanti a me la più geniale guida del proletariato»7.
Il testo delle Tesi, dunque, è stato da lui redatto o subito
prima o durante il viaggio verso la Grande Madre Russia,
e viene letto dall’autore stesso, per due volte consecutive
(«molto lentamente», preciserà egli stesso, pubblicandole),
in due distinte riunioni, una dei bolscevichi, un’altra comune
di bolscevichi e menscevichi, delegati alla Conferenza dei So-
viet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia, al Palazzo
di Tauride, nel cuore di Pietrogrado, sede dei Soviet. Eccole
ridotte all’essenziale.

1. Nel nostro atteggiamento verso la guerra, [...] non è ammissi-


bile la benché minima concessione al “difensismo rivoluzionario”.
[...]

4
Cfr. Rosenberg 1969, pp. 33 ss. Per i rilievi all’autore, si veda l’Introdu-
zione di Ernesto Ragionieri, pp. vii-xxxviii.
5
Cfr. Graziosi 2007, p. 85.
6
Cfr. Carr 1964, pp. 79-80.
7
F. Makharadze, Gli avvenimenti rivoluzionari del 1919 nella Transcau-
casia, in La Rivoluzione d’Ottobre 1967, pp. 130-34 (131).

54­­­­
2. L’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel pas-
saggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla
borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza e di orga-
nizzazione del proletariato, alla sua seconda fase, che deve dare il
potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini. [...]
3. Non appoggiare in alcun modo il Governo provvisorio [...].
4. Riconoscere che il nostro partito è in minoranza [...]. Spie-
gare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono l’unica forma
possibile di governo rivoluzionario [...].
5. Niente repubblica parlamentare – ritornare ad essa dopo i
Soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro – ma Repub-
blica dei Soviet di deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei
contadini in tutto il paese, dal basso in alto. Sopprimere la polizia,
l’esercito [ossia sostituirlo con la milizia popolare] e il corpo dei
funzionari. Lo stipendio dei funzionari – tutti eleggibili e revocabili
in qualsiasi momento – non deve superare il salario medio di un
buon operaio.
6. [...] Confiscare tutte le grandi proprietà fondiarie. Naziona-
lizzare tutte le terre del paese e metterle a disposizione di Soviet
locali di deputati dei salariati agricoli e dei contadini. [...]
7. Fusione immediata di tutte le banche del paese in un’unica
banca nazionale, posta sotto il controllo dei Soviet dei deputati
operai.
8. Il nostro compito immediato non è l’“instaurazione” del so-
cialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della pro-
duzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet
dei deputati operai.
9. Compiti del partito:
a. convocare immediatamente il congresso del partito;
b. modificare il programma del partito, principalmente, [...];
c. cambiare il nome del partito.
10. Rinnovare l’Internazionale. [...]8

Sono tre i punti qualificanti: il rifiuto di continuare la guerra


accanto alle forze dell’Intesa; la volontà di proseguire il cammi-
no della rivoluzione, portandola alla fase due; fare del partito,

8
Lenin 1955-1970, vol. XXIV (1966), pp. 11-15.

55­­­­
che si chiamerà “comunista”, la forza guida della nuova Russia,
in un disegno che prevede anche una nuova “casa madre” di
tutti i comunisti, che nascerà, nel 1919, sotto la denominazio-
ne di Terza Internazionale (o Internazionale Comunista, detta
Comintern). Il modello cui guarda, esplicitamente, Lenin è la
Comune di Parigi, segnatamente per la forma di Stato, per l’a-
bolizione dell’esercito permanente e della polizia, per la eleg-
gibilità e revocabilità dei funzionari e così via.
Le tesi lasciano sconcertati molti compagni, sia mensce-
vichi sia bolscevichi, che soprattutto non condividono l’idea
di chiudere la pagina bellica, convinti di dover continuare
la guerra contro gli Imperi centrali rinviando a “dopo” la
eventuale trasformazione della rivoluzione borghese in rivo-
luzione proletaria; così come sono perplessi sulla possibilità
che i Soviet esercitino il potere da subito, facendo diventare
un contropotere potenziale un vero potere effettuale. L’idea
della ripresa immediata della lotta interna, subito dopo aver
raggiunto la pace, appare a molti follia. Uno dei compagni
lo interrompe, gridando che quello è il «delirio di un paz-
zo», altri lo accuseranno (lo aveva già fatto Rosa Luxemburg
nel 1905) di blanquismo (ossia di una linea cospirazionista e
insurrezionalista, tipica del rivoluzionario francese Auguste
Blanqui), altri ancora di bakuninismo (ossia anarchicheg-
giante, alla Bakunin). Ma su quella follia, Lenin condurrà i
bolscevichi alla vittoria9. La stessa Luxemburg, in carcere, si
schiera ora decisamente a favore dei bolscevichi e di Lenin,
mentre il suo partito, la Spd, si spacca, perdendo la sinistra.
Al Congresso svolto a Gotha (luogo che evocava i fantasmi
di quello celebre del 1875, che aveva dato vita al Partito dei
lavoratori, antesignano della Spd, suscitando la beffarda criti-
ca di Karl Marx), questa si costituisce in Uspd (Unabhängige
Sozialdemokratische Partei Deutschlands, Partito socialde-
mocratico indipendente della Germania), separato dalla so-

9
Cfr. Carr 1964, pp. 81-82; Tonini 1967, pp. 105 ss.

56­­­­
cialdemocrazia d’ispirazione più moderata, mentre la frangia
estrema, pacifista e internazionalista, si costituisce in Lega di
Spartaco, che aderisce al partito ma conservando una propria
autonomia. È l’avvio della gloriosa e tragica vicenda degli
spartachisti, che condurrà alla morte violenta di Rosa e del
suo compagno di lotte Karl Liebknecht, i più strenui opposi-
tori della guerra in seno al socialismo europeo.
Dopo la rivoluzione di marzo, la Russia dunque si trova a vi-
vere una situazione peculiarissima, con un dualismo di gover-
no, quello borghese e quello dei Soviet: a differenza della gran
parte dei compagni, anche bolscevichi, propensi ad attendere,
insomma, Lenin decide che occorre operare fin da subito per
cancellare quel dualismo, e mettere fine al potere borghese,
prima che esso sconfigga i Soviet. Due dittature sono a con-
fronto, diverse e contrastanti: l’obiettivo è arrivare ad instau-
rare quella del proletariato, attraverso i Soviet degli operai dei
contadini poveri e dei soldati, prima che la borghesia trasfor-
mi la situazione provvisoria in dominio di classe irreversibile.
«Non c’è il minimo dubbio che questa “combinazione” non
può durare lungamente», scrive Lenin. «Non vi possono essere
due poteri in uno Stato. L’uno dei due deve scomparire»10. La
borghesia, osserva, è già al lavoro per sconfiggere i Soviet e far
scomparire il loro potere; aspettare significa darle la possibilità
di ottenere questa vittoria, che taglierebbe le gambe per sem-
pre, o quanto meno per decenni, ai Soviet. Dunque sussiste
anche una necessità tattica, per passare alla fase due. Essa è
inevitabile, oltre che necessaria, per i socialisti. Lo vede anche
un osservatore lontano come Gramsci, giornalista e militante
del Psi, nella Torino che di lì a poco definirà, efficacemente ma
con eccesso di ottimismo, “Pietrogrado d’Italia”. Scrive: «noi
siamo persuasi che la rivoluzione russa è, oltre che un fatto,
un atto proletario, e che essa naturalmente deve sfociare nel
regime socialista». E dà una lettura spiritualistico-libertaria di

10
Lenin 1955-1970, vol. XXIV (1966), pp. 9-15. Cfr. anche l’analisi di
Gruppi 1970, pp. 179 ss.

57­­­­
quello che gli appare un fenomeno grandioso, che non può ba-
nalmente essere paragonato alla Rivoluzione del 1789, perché i
bolscevichi non sono giacobini, e non intendono sostituire alla
dittatura di un uomo quella di una «minoranza audace e de-
cisa», a «un regime autoritario» un altro «regime autoritario»,
alla potenza un’altra potenza. Perciò, quell’evento produce
conseguenze straordinarie:

È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova co-


scienza morale che queste piccole notizie ci rivelano. È l’avvento di
un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci
avevano insegnato. E ancora una volta: la luce viene dall’oriente e
irradia il vecchio mondo occidentale, che ne rimane stupito e non sa
opporgli che la banale e sciocca barzelletta dei suoi pennivendoli11.

I pennivendoli di cui parla si trovano in vari paesi d’Euro-


pa, i più interessati non a comprendere gli eventi ma a usarli
a fini politici, essenzialmente per la guerra, o insistendo sulla
necessaria fedeltà della Russia alla causa “democratica”, ov-
vero cominciando a identificare nei bolscevichi e nei loro am-
miratori o “imitatori” un nuovo nemico. Nessuno, a parte po-
chissime eccezioni (oltre Gramsci, in Italia, Arturo Labriola,
già sindacalista rivoluzionario), viene sfiorato dal dubbio che
la rivoluzione di marzo sia stata soltanto un primo atto, come
va dicendo Lenin12. Il quale, va ricordato, non è soltanto un
politico, un organizzatore, un agitatore: è innanzi tutto un
teo­rico che sta cercando di dare continuità al marxismo, inte-
so come pensiero di Marx ed Engels, sia pure irrigidendolo in
una dogmatica che poi giungerà a esiti grotteschi sotto Stalin.
La rivoluzione, insomma, ha trovato un vero «capo», come
scriverà Gramsci nel necrologio del gennaio ’24, paragonando
Lenin a un finto capo come Benito Mussolini. Un vero capo si

11
A. Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, in «Il Grido del Popolo», 29
aprile 1917; ora in Gramsci 1982, pp. 138-41 e Gramsci 2012, pp. 214-17.
12
Cfr. Giovanna Procacci 1999, p. 262.

58­­­­
riconosce non soltanto dalle qualità personali, ma dal contesto
storico che in certo senso lo produce, e dalla forza sociale di
cui è espressione. «Il compagno Lenin», scriverà Gramsci,

è stato l’iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia,


ma lo è stato perché egli era anche l’esponente e l’ultimo più indi-
vidualizzato momento di tutto un processo di sviluppo della storia
passata, non solo della Russia, ma del mondo intero.

Lenin diventa un capo non per caso, insomma, espri-


mendo un punto d’arrivo storico, attraverso una selezione
trentennale, sia esterna ai bolscevichi, sia nel loro seno, al
confronto con la civiltà capitalistica avanzata da un lato, con
il socialismo internazionale dall’altro.

Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi,


è stata lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arre-
sti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggia-
mento e contro l’orgoglio, ha voluto dire soffrire la fame avendo a
disposizione dei milioni d’oro, ha voluto dire conservare lo spirito
di un semplice operaio sul trono degli zar, non disperare anche se
tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con te-
nacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra
quando gli altri perdevano la testa.

Ora Lenin sta giungendo al punto terminale di questo pro-


cesso così bene descritto dal giovane leader comunista italiano,
enfasi compresa. Lenin, con le Tesi di aprile, diventando capo
dei bolscevichi inaugura l’ultimo tratto del difficile sentiero
che lo porterà a sedersi «sul trono degli zar»13. Con quel ca-
po, la Russia si appresta a diventare protagonista assoluta della
storia euroasiatica e una dei maggiori protagonisti di quella
mondiale. Contemporaneamente, in quel medesimo aprile, un

13
A. Gramsci, Capo, in «L’Ordine Nuovo», III, n. 1, marzo 1924, poi
in «l’Unità», 6 novembre 1924, col titolo Lenin, capo rivoluzionario; ora in
Gramsci 2012, pp. 483-87.

59­­­­
altro gigante si affaccia al mondo rompendo l’antico isolamen-
to, gli Stati Uniti d’America. Il presidente Wood­row Wilson
chiede formalmente al Congresso, il 2 aprile, di riconoscere
che è già in atto uno stato di guerra tra Usa e Germania, a
partire almeno da febbraio. L’assenso è scontato. Fra il giorno
4 e il 6 Camera dei Rappresentanti e Senato danno il via libera
alla guerra. Eppure Wilson nel suo messaggio fa risuonare note
cupe, che trasmettono alle assemblee il senso di una decisione
non facile: fino al termine del 1916, egli forse ha sperato di
poter guidare un percorso di pace fra i belligeranti, ponendo-
si nelle vesti di mediatore, come “terzo”, convinto di riuscire
nell’intento. All’affondamento della Sussex, la posizione wil-
soniana diventa di «neutralità armata», cominciando a predi-
sporre l’intervento, ma continuando a sperare di evitarlo, tanto
da confermare quella posizione in un discorso al Congresso il
5 marzo14. Ma pochi giorni prima la stampa aveva pubblicato,
con gran clamore, il testo di un telegramma, cifrato ma inter-
cettato e decrittato dai servizi statunitensi, inviato dal ministro
degli Esteri tedesco Arthur Zimmermann al suo ambasciatore
in Messico, in cui suggeriva le linee per un accordo segreto con
quel paese, per portarlo dalla parte della Triplice, prometten-
do, in cambio, di consentirgli di riprendersi i territori perduti
a vantaggio degli Usa in Texas, New Mexico e Arizona. «La
risonanza nell’opinione pubblica statunitense, soprattutto in
quella texana, fu fortissima. I giornali texani affermarono che,
se un esercito tedesco-messicano-giapponese avesse invaso il
Texas, i suoi abitanti lo avrebbero difeso fino alla morte»15.
L’annuncio di aprile viene, comunque, fatto da Wilson
con ostentato, forse sincero, «profondo senso del solenne e
anche tragico carattere del passo». Alla cerchia degli intimi
confida il proprio dolore, consapevole che quel passo non è
altro che una sentenza di morte per migliaia di giovani con-
nazionali. Wilson è convinto, come altri leader e intellettuali

14
Cfr. Tucker 2007, pp. 188 ss.
15
Lepre 2005, p. 93.

60­­­­
europei, che questa guerra «porrà fine a tutte le guerre» (lo
ha dichiarato al Senato, il 22 gennaio); anche se ha preferito
fino ad allora tenerne fuori il suo paese. Spiega con tono gra-
ve che, giunti a quel punto, non ci sono «altri mezzi per far
valere i nostri diritti». Ma spiega di aver nondimeno paura
che la guerra possa sviluppare istinti militaristici, e insiste sul-
la nuova governance del mondo contro le diplomazie segrete,
contro lo stesso egoistico principio della difesa dell’interesse
nazionale. Il «nuovo ordine mondiale», che dovrà scaturire
dal conflitto a cui gli States si accingono a prendere parte,
non ha nulla a che spartire con quello disegnato dai think
tank di Washington, New York e Chicago con i presidenti
Reagan, Bush padre e figlio. Si fonda sul rifiuto della violenza
nelle relazioni fra gli Stati, richiede lo statuto democratico
per ciascuno di essi, e sostiene l’importanza decisiva della co-
stituenda Società delle Nazioni, assegnando agli Usa un ruolo
fondamentale16. Dopo anni di una storiografia tutto sommato
apologetica, si è giunti dagli anni Novanta a riconsiderare
criticamente la figura e il pensiero di Wilson, collocandola,
correttamente, in un filone di nazionalismo, sebbene diverso
e distante dai diversi ma simili movimenti contemporanei in
Europa, ma altrettanto significativo. In Wilson c’è una visione
gerarchica delle relazioni internazionali, una assoluta fiducia
negli Stati Uniti, ”grande nazione” destinata a sopravanzare
tutte le altre e a guidarle, e, almeno in certe fasi, un’avver-
sione al cambiamento sociale radicale17. Quello che, intanto,
a partire dal mese prima, e vieppiù nei mesi successivi, è in
atto e in potenza nella Russia che sta per diventare di Lenin.
V’è chi, in sede di riflessione storico-filosofica, in modo cer-
tamente accattivante, anche se non proprio convincente, ha
contrapposto nella storia successiva del secolo un (ipocrita,

16
Cfr. K. Schwabe, President Wilson and the War Aims of the United
States, in Afflerbach 2015, pp. 209-34 (209-11).
17
Cfr. M. Mariano, Grandezza nazionale e gerarchie razziali. Il nazionali-
smo nascosto di Woodrow Wilson, in Scavino (a cura di) 2015, pp. 189-201.

61­­­­
imperialista e razzista) “partito di Wilson” a un “partito di
Lenin”, ovviamente orientato in senso opposto18.
E tuttavia, a distanza di un quindicennio circa, il Senato
scoprirà che la “sofferta” decisione di entrare in guerra non era
stata estranea a pressioni delle industrie degli armamenti, e in
particolare delle ditte produttrici di proiettili e munizioni. Era
una sconfessione plateale dell’idealismo di Wilson. Ne nascerà
una Commissione di inchiesta, la Commissione Nye (dal suo
presidente, Gerald Nye), per indagare appunto su quella deci-
sione, ma accadrà che il Partito democratico, quello di Wilson
(ormai defunto, nel 1924, non prima di esser stato insignito
di un Nobel per la Pace, anticipando altri inquilini della Casa
Bianca nel palmares del premio), farà mancare i fondi, e dun-
que in pratica affosserà l’inchiesta, evidentemente scomoda.
In realtà ormai la communis opinio era segnata dallo sconcer-
to: erano usciti libri e articoli nel periodo precedente, finita la
guerra, che denunciavano in modo fermissimo la commistione
tra industriali delle armi, delle munizioni soprattutto, ma più
in generale tra i profitti di guerra e gli “sporchi affari” della
politica, e la decisione Usa di intervenire in una guerra che l’o-
pinione pubblica faticherà sempre a far sua. Anzi, le risultanze
dell’inchiesta, sebbene bloccata nel ’36, saranno comunque fo-
riere di un senso di disillusione in molti sinceri democratici che
avevano creduto a quella scelta in nome di nobili, altruistici
ideali. In particolare sarebbe stato un generale, il militare for-
se più decorato della storia statunitense, Smedley Darlington
Butler, con un libro coraggioso fino alla temerarietà, War is a
racket (1935), e con innumerevoli conferenze, a contribuire
in modo decisivo alla denuncia della commistione industria-
militari-politica che verrà poi ripresa, in forma assai più timida,
da Eisenhower parecchi anni più tardi.
A prescindere da come siano andate le cose, e anche se
vogliamo far salve le buone intenzioni di Wilson, si scorge

18
Cfr. Losurdo 2016, pp. 229 ss.

62­­­­
comunque l’aspirazione al primato americano che dominerà
il secolo successivo. Ha inizio allora, per gli Stati Uniti, «un
futuro radicalmente diverso»19. Ma è un futuro diverso an-
che per il mondo. Allora come oggi, accanto alle petizioni di
principio e alle parole roboanti, vi sono interessi economici
in gioco: le industrie degli armamenti spingono per un inter-
vento militare. Del resto gli Stati Uniti negli anni precedenti,
al di là delle posizioni ufficiali sostenute vigorosamente dal
presidente, si erano esposti accanto agli Alleati, con i quali
il commercio era aumentato del 300%, mentre si era quasi
spento quello con gli Imperi centrali. E se è vero che la neutra-
lità poteva essere benefica, nello stesso tempo una eventuale
disfatta dei paesi alleati avrebbe potuto avere conseguenze
assai negative per l’economia degli Usa. Ad ogni modo, l’en-
tusiasmo interno per l’entrata in una guerra percepita come
lontana, “europea”, risulta modesto. Inizialmente si pensa di
fare a meno della leva, e si lanciano bandi di arruolamento
di volontari: ma sui 700.000 attesi se ne presentano 4355.
E si deve fare proprio ricorso alla leva, il che comporterà
un allungamento dei tempi: i primi contingenti sbarcheran-
no soltanto a fine giugno in Francia20. Da quel momento, la
guerra cambia verso, e la perdita di un alleato imponente
come la Russia, a partire dai primi del ’18, viene compensata
ampiamente dall’ingresso della potenza americana.
Certo, per la Germania l’entrata in guerra degli Stati Uniti
avrà conseguenze disastrose, equivalendo a un aiuto finanzia-
rio praticamente illimitato per i nemici del Reich. L’interven-
to produrrà anche un rafforzamento del blocco commerciale
ai danni degli Imperi centrali, e l’adozione di rigidi contin-
gentamenti per i paesi neutrali, ai quali Washington non sarà
più disposta a dare fiducia. Infine, la partecipazione statuni-
tense si tradurrà in una notevolissima forza armata, che sarà
dispiegata soltanto un anno più tardi. In definitiva, l’enorme

19
Tucker 2007, p. 214.
20
Cfr. Becker 1997, pp. 35 ss.

63­­­­
potenziale economico e militare degli Stati Uniti darà un for-
midabile assist ai governi e ai comandi militari degli Alleati,
i quali, d’ora in avanti, potranno guardare al prosieguo della
guerra in modo più sereno, sottovalutando però i costi umani
ed economici che ancora attendono le loro popolazioni e le
loro economie. Aprile, con i suoi tanti avvenimenti cruciali,
segna irrevocabilmente il destino della guerra, con la sconfit-
ta ormai certa degli Imperi centrali.
Quasi nelle stesse ore in cui Lenin legge le sue Tesi, entra
in azione, sul fronte francese, il generale Nivelle, che pochi
mesi prima ha sostituito Joffre alla testa dell’armata, dopo
un complesso gioco politico di cui sarà vittima lo stesso
primo ministro Aristide Briand, sottoposto ad attacchi cre-
scenti, proprio come Joffre e Foch, da parte di un ampio
schieramento parlamentare e giornalistico guidato da Geor-
ges Clemenceau. In marzo si era formato un nuovo governo,
presieduto da Alexandre Ribot, personaggio eminente del
Parlamento, schierato nell’area di centrodestra; ma ormai i
riferimenti politici consueti hanno perso di significato21. Ni-
velle, preferito per la sua tendenza all’attacco ai suoi conten-
denti, in particolare Philippe Pétain, considerato un attendi-
sta, dopo aver sparso ottimismo sia con le autorità francesi
sia con quelle britanniche, lancia dunque un’offensiva che
dovrebbe risultare decisiva. Sulla pianura di Craonne, verso
la cresta del Chemin des Dames, non lontano da Reims, par-
te un attacco “alla Cadorna”, con i fanti scagliati contro le
mitragliatrici tedesche. L’azione era stata preparata con una
sicumera priva di fondamento, essendo convinti i comandi
francesi che un’arma nuova, i “carri d’assalto” tenuti nasco-
sti nelle retrovie, avrebbe sfondato le linee del nemico: quei
carri avrebbero portato «il terrore e la morte» nelle isole di
resistenza, fino ad allora risparmiate, delle trincee nemiche22.
Ma il maltempo e la forza dei tedeschi, tutt’altro che domata,

21
Cfr. ivi, p. 70.
22
Bataille e Paul 1965, p. 155.

64­­­­
riserveranno amarissime sorprese agli attaccanti. La guerra
di posizione prenderà, inesorabile, il sopravvento sulla guer-
ra di movimento. Certo, l’offensiva era stata richiesta anche
dal governo britannico di Lloyd George, il quale insisteva
che ai tedeschi non dovesse essere consentito di riordinare
le truppe, e che l’esercito francese non poteva languire nelle
retrovie mentre arrivavano corpi mutilati, offesi: «guardare in
faccia la guerra la rende insopportabile»23 e, in fondo, meglio
era andare silenziosi e obbedienti a morire, senza aspettare il
ritorno dei cadaveri dei compagni.
Dopo dieci giorni di azione offensiva delle truppe britan-
niche (un grosso contingente, 62 divisioni, per un totale di un
milione e mezzo di uomini, inviato in continente, posto sotto
il comando di Nivelle) che produce risultati modestissimi,
partono i cannoneggiamenti francesi che precedono l’assalto
delle fanterie, il 16 aprile. A fine giornata, il 60% delle truppe
è annientato, fra morti, feriti e prigionieri. Il bilancio finale
sarà pesantissimo: per le prime due settimane, circa 38.000
tra morti e dispersi e 66.000 feriti. Certo nella battaglia della
Somme o in quella di Verdun i caduti erano stati ben più
numerosi; ma l’impressione, sia tra i combattenti sia nel pae­
se, della giornata del 16 aprile sarà disastrosa, ben al di là
delle statistiche. E provocherà, nelle settimane seguenti, un
sommovimento generale negli Alti comandi, con la defene-
strazione di Nivelle e molto altro ancora. A seguito di que-
sta mancata vittoria, che è in realtà uno scacco (uno storico
odierno parla di «échec général»24), invano nascosto o edul-
corato dai comunicati ufficiali e dalla stampa nazionalista,
l’opinione pubblica francese comincia a perdere la confiance
a cui ha invitato Nivelle lanciando l’offensiva: accanto alle
perdite di tonnellaggio marittimo per la guerra sottomarina
dei tedeschi, alle difficoltà della Gran Bretagna e dell’Italia,
e, soprattutto, alle notizie dalla Russia, che fanno temere una

23
Rolland 2012, p. 181.
24
Becker 1997, p. 72.

65­­­­
probabile se non imminente pace separata con gli Imperi
centrali, nella Francia del 1917 si comincia a diffondere a
vari livelli – da quello politico a quello militare, e in larghi
settori dell’opinione pubblica – l’idea che sia inevitabile ab-
bandonare la prospettiva cui fino a quel momento si è ispirata
la guerra: la vittoria totale, con una resa senza condizioni del
nemico, e ripiegare su altre opzioni, magari a prezzo della
rinuncia all’Alsazia25.
Dopo una serie di incontri, dispacci, telegrammi, interpel-
lanze, consigli di gabinetto, ordini e contrordini, il governo
arriva alla decisione, a fine mese, di sostituire Nivelle con
Pétain, assai più noto e amato dalle truppe. È in qualche mo-
do la sua rivincita. In effetti, Pétain, che fino a tre anni prima
non era che un modesto colonnello che comandava, ad inte-
rim, una brigata, era stato decisivo nella resistenza ai tedeschi
a Verdun, la più lunga e terribile battaglia della Grande guer-
ra: al comando c’era Joffre, che chiamò inopinatamente, in
luogo di Pétain, proprio il generale Nivelle, il quale si sarebbe
intestato in qualche modo il successo pur dolorosissimo per
i francesi. Eppure era stato Pétain, giunto a Verdun da quasi
perfetto sconosciuto, a riorganizzare le truppe dopo i pri-
mi devastanti attacchi germanici, diventando per tutti l’eroe
della resistenza: acquistò di colpo popolarità e prestigio, e da
allora (1916) Pétain si identificò in Verdun e viceversa. Nac-
que là, a dispetto di Joffre, che non lo amava, e di Nivelle, il
mito di quel generale26, che, paradossalmente, nella Francia
occupata ancora dai tedeschi nel giugno 1940, sarebbe diven-
tato il capo del collaborazionismo con l’odiato nemico, fino
a farsene vassallo27.
Sulla scorta di quell’indelebile precedente, la resistenza di
Verdun, il 27 aprile viene creato per Pétain il ruolo di capo di
stato maggiore generale: il suo compito è in realtà controllare

25
Cfr. Pedroncini 1998, pp. 140 ss.
26
Cfr. Servent 1992.
27
Sul Pétain della Seconda guerra mondiale, cfr. Ferro 1987.

66­­­­
Nivelle, e in qualche modo tenerlo a bada fin tanto che eser-
citi un ruolo formale. Per uscire in modo onorevole dall’im-
passe, tanto per il governo quanto per Nivelle, gli si chiede
di presentare le dimissioni “per motivi di salute”. Il generale
rifiuta, sdegnato, più volte. Soltanto due settimane più avanti
si arriverà a formalizzare la sua uscita di scena28. Un colon-
nello suo subordinato, la prima volta che lo incontra, sul suo
diario etichetta Pétain come «un vero Signore della guerra»29;
e lo scrive con la “S” maiuscola. Probabilmente la ragione
principale del richiamo di Pétain è di carattere mediatico,
per così dire: egli è l’ultima spiaggia, l’uomo «che, solo, può
ridare la speranza e la volontà di vittoria ai francesi»; e, per
quanto riguarda l’esercito stesso, Pétain, aureolato dalla fama
di Verdun, è non soltanto l’eroe di ogni battaglia, ma l’uomo
dei miracoli, il solo in grado di restituire fiducia e orgoglio ai
poilus, frustrati e scoraggiati, e, soprattutto, mettere fine alle
rivolte; per i soldati, è il capo prestigioso, amato, soprattutto
temuto: è il buon padre severo, irremovibile, ma pronto a
rialzare il figliolo caduto, e a punire quello che si sottrae al
dovere30. «Vederlo, è sentirsi comandati», scrive il popolare
«L’Écho de Paris»31.
In effetti, lo stesso giorno di inizio dell’offensiva, cinque
soldati e un graduato del 151° Fanteria si rifiutano di andare
all’attacco. Il 17, ossia il giorno dopo, sette uomini del 108°
seguono l’esempio. Comincia di qua la «crisi d’indisciplina»32,
il periodo degli ammutinamenti, con interi reggimenti che
si rifiutano di eseguire gli ordini. Pesa anche l’effetto delle
notizie dalla Russia. Nelle file della fanteria si diffondono vo-
lantini e giornali pacifisti. «Si canta l’Internazionale, si rifiuta

28
Cfr. Pedroncini 1998, pp. 215 ss. L’autore tende a ridimensionare il
bilancio, e nell’insieme rivaluta Nivelle.
29
Cit. ivi, p. 114.
30
Cfr. Fischer 2002, pp. 78 ss.
31
Ivi, p. 85.
32
Pedroncini 1967, p. 58.

67­­­­
di andare all’attacco, ci si spinge fino all’uccisione di qual-
che graduato»33. Nella notte del 21 aprile le truppe della 1a
Divisione coloniale lanciano grida di pace, manifestando la
propria stanchezza con lo slogan: «Ne abbiamo abbastanza
di uccidere»34. E così via. La catena del rifiuto si allungherà
nelle settimane seguenti finendo per essere una delle cause
principali della rimozione del generale Nivelle. Ma a sua volta
proprio i suoi insuccessi, gli eventi russi, la crisi politica, la
svalutazione dell’autorità degli Alti comandi sono all’origine
della crisi in seno alle forze francesi, sostanzialmente nella
fanteria, nelle quali le mutineries si vanno estendendo geo-
graficamente.
E in Italia? Come in Francia, si assiste nell’esercito a epi-
sodi di insubordinazione collettiva. Uno dei più notevoli
accade il 21 aprile, in una caserma di Fano, nelle Marche,
d’improvviso, senza apparente regia. Dai 410 militari adunati
in partenza per i reparti di prima linea, si fanno strada delle
grida: «Non vogliamo partire, abbasso la guerra, vogliamo la
pace...». L’intervento dei “superiori” a nulla vale, ma dopo
l’arrivo di alti ufficiali la situazione si tranquillizza e il primo
provvedimento che viene preso dalle autorità è togliere ai
soldati la dotazione di cartucce. Dopo di che, partiti i soldati,
la giustizia militare si dedicherà a rintracciare i “caporioni”,
veri o presunti, portarli davanti al Tribunale militare, e op-
portunamente condannarli35.
Il decreto firmato da Boselli nel febbraio consentirà lungo
tutto il 1917 e nell’anno successivo di inasprire le sanzioni
ai danni di disertori, o tentati disertori, renitenti, fuggiaschi,
e soldati accusati di autolesionismo. Tuttavia la repressione
cieca, furibonda, non servirà a mitigare il malcontento, tanto
della truppa, quanto delle famiglie: esso viene a galla nella
corrispondenza, nella semplicità di una scrittura spesso rozza

33
Plumyène 1964, p. 41.
34
Williams 2005, pp. 149 ss.
35
Cfr. Forcella e Monticone 1972, pp. 128-31.

68­­­­
e primitiva, da persone appena in grado di tenere la penna tra
le dita; eppure, in quelle lettere emerge un prezioso regesto
dell’italiano popolare. Una semplicità che si rivela anche nel
non tener conto di un dato: la corrispondenza è soggetta a
censura, e sono numerosi i militari che si mettono nei guai
per qualche frase giudicata, dall’autorità competente, peri-
colosamente “disfattista”. Tratto comune, forse dominante,
è l’attesa della pace, che in questo anno si fa spasmodica: e il
desiderio diventa sovente «padre del pensiero», come osser-
vò Leo Spitzer, censore per l’esercito austro-ungarico della
corrispondenza dei soldati italiani prigionieri36.
I socialisti riformisti, intanto, provano la carta della pro-
messa: il II Congresso del Psri (gli ultrariformisti espulsi dal
Psi nel 1912) lancia la parola d’ordine “La terra ai contadini”,
per rimotivare i fanti-contadini a combattere, e morire. Una
parola d’ordine che diventerà celebre soprattutto dopo Capo-
retto, tenendo campo lungo tutto il “biennio rosso”. Mentre i
socialisti tedeschi e austro-ungarici (guidati da Victor Adler,
leader dei socialdemocratici dell’Austra-Ungheria e direttore
del giornale «Arbeiter-Zeitung»), quelli che avevano appro-
vato senza colpo ferire i crediti di guerra ai rispettivi governi
nel 1914, quelli che avevano «esultato a ogni vittoria» degli
Imperi centrali37, si riuniscono, il giorno 19, e approvano una
mozione in cui mentre si saluta «con appassionata partecipa-
zione» la rivoluzione vittoriosa in Russia, chiedono una «pace
senza annessioni e senza risarcimenti di guerra, sulla base del
libero sviluppo nazionale di tutti i popoli». Sarebbe bastato
questo per far infuriare gli ambienti militari: Hindenburg,
Ludendorff e il ministro della Guerra von Stein chiederanno
le immediate dimissioni del cancelliere Bethmann-Hollweg.
Resisterà ancora qualche tempo, grazie alla mediazione del
potente capo di gabinetto, Rudolf von Valentini, ma il suo

36
Spitzer 1976, p. 82.
37
Frölich 2009, p. 230.

69­­­­
destino è segnato38. La politica è sconfitta dai militari, che vo-
gliono testardamente la guerra fino a quella “vittoria totale”
che continuano a dare per certa, e comunque obiettivo irri-
nunciabile, anche per ragioni di “prestigio”, più personale,
probabilmente, che nazionale.

38
Cfr. Ritter 1973, pp. 532-33.
5.
Maggio
«Abbiamo visto la Madonna»

Maggio è un mese di gravissime tensioni sociali e di stan-


chezza su tutti i fronti di guerra, di crescente indisciplina fra
le truppe dei due schieramenti, a cominciare, naturalmente,
dalla Russia, dove i bolscevichi sono all’attacco del governo
L’vov sotto la guida inflessibile di Lenin, il quale ha ormai co-
me obiettivo fondamentale l’uscita dalla guerra. I moti anti-
governativi, e per la pace, del 4 maggio, benché repressi, sono
la evidente testimonianza di una situazione che si va aggra-
vando rapidamente. Il 24, giorno anniversario dell’ingresso
italiano nel conflitto, come ricorderanno numerose manife-
stazioni, viene resa nota la Dichiarazione dei diritti del soldato,
che sarà un potente acceleratore della crisi dell’esercito russo,
sterminato, di cui tuttavia solo una parte degli effettivi viene
utilizzata a causa della carenza di mezzi e di quadri.
Anche altrove si producono eventi di grande portata,
che sono accomunati, negli eserciti, dal manifesto rischio di
rottura dell’ordine gerarchico, della catena di comando, che
cresce con il perdurare del conflitto, e con il conseguente
sbriciolarsi del consenso1.
Quanto all’Italia, il 1° maggio ritorna ad essere giornata di
lotta, con manifestazioni di protesta contro la guerra e contro
il carovita che si protrarranno lungo l’intero mese. Una setti-

1
Cfr. E. Saint-Fuscien, Forcer l’obéissance: intentions, formes et effets
d’une pratique militaire dans l’activité combattante de la Grande Guerre, in
Loez e Mariot 2008, pp. 33-46 (44). La spiegazione in chiave di “sobillatori”
esterni ha avuto successo, se ancora negli anni Sessanta essa prosperava: cfr.
Bataille e Paul 1965.

71­­­­
mana più tardi, a Milano, nella riunione congiunta delle dire-
zioni del Psi, della Confederazione generale del lavoro (Cgdl)
e del Gruppo parlamentare socialista, si approva un lungo,
articolatissimo documento – che è una sorta di programma
di governo per il dopoguerra – in cui s’invitano i lavoratori a
non intraprendere lotte «isolate e frammentarie»2. Il contra-
sto tra la base e i vertici sarà la cifra delle lotte del successivo
“biennio rosso”. Un contrasto che almeno in parte si ripro-
duce in seno all’organizzazione, tra Gruppo parlamentare
e Direzione del partito, tra Federterra e Cgdl, tra dirigenza
politica centrale e amministrazioni locali, sempre disposte, in
non pochi casi in qualche modo obbligate, a collaborare con
le prefetture e lo Stato centrale3.
Pochi giorni dopo, il 12, il generale Cadorna lancia una
nuova offensiva sull’Isonzo, inutile e dispendiosa di uomini e
mezzi. La sua continua ad essere una guerra all’attacco, senza
tregua e senza successi. Anche in Francia, le Forze armate
appaiono in difficoltà. Il paese, il cui territorio è da tempo in
zone non piccolissime occupato dalle armate tedesche, accet-
ta di buon grado l’invio di 62 divisioni da parte di una Gran
Bretagna a sua volta in condizioni economiche e di efficienza
militare non certo ottimali; a dispetto dell’andamento poco
incoraggiante della guerra, le sue autorità, a cominciare da
Lloyd George fino al comandante in capo (peraltro in urto
con il primo ministro, come già ricordato), generale Douglas
Haig, sembrano convinte che la vittoria non possa che giunge-
re dall’offensiva generale a oltranza, su tutte le linee del fron-
te4. Il Regno Unito sta comunque meglio della Francia, che si
dibatte in una serie di crisi politiche con cambi di governo,
rinnovamento parziale del Parlamento, avvicendamenti negli
Alti comandi militari. Si va palesando una rottura della Union
Sacrée, che viene allo scoperto con il rifiuto dei socialisti di

2
Il documento è in Ambrosoli 1961, pp. 353-57.
3
Sul tema rinvio a Cortesi 1999; sempre valido Candeloro 1978.
4
Cfr. Becker 1997, pp. 141 ss.

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Briand di rientrare nel ministero presieduto da marzo da Ale-
xandre Ribot. La politica sembra riprendere i suoi diritti, con
le sue differenze, e i suoi contrasti, rispetto al falso unanimi-
smo di guerra. E intanto crescono i dissensi interni al paese,
che, va detto, è quello che sopporta il maggior sforzo bellico
sul fronte occidentale, il più gravoso da difendere, con la for-
midabile macchina militare germanica che preme.
Dopo la catastrofe dell’esercito di aprile, un “raddrizza-
mento” (questa è la parola che viene usata, e che ritroviamo
oggi nella memorialistica e nella storiografia) della situazio-
ne militare sembra imporsi: e in parte almeno si otterrà con
l’arrivo del maresciallo Pétain, nominato in luogo di Nivelle
comandante in capo dell’armata francese dal ministro della
Guerra Painlevé. Egli sarà per l’esercito ciò che Clemenceau
è per il paese: il salvatore5. Ma contestualmente a Pétain, che
per la prima volta sale al rango di capo delle due armate del
Nord e Nord-Est, è il maresciallo Foch a riemergere, dopo
un trimestre di allontanamento dai servizi operativi, con la
nomina a capo di stato maggiore generale dell’esercito fran-
cese, passando dal ruolo puramente militare a quello di col-
legamento tra i due ambiti – politico e militare – che a partire
dal tardo 1916 non riescono più a trovare una linea di intesa,
con tentativi costanti di prevaricazione dei militari sul potere
civile, e interventi spesso poco ortodossi del presidente della
Repubblica Poincaré. Il dualismo tra i due poteri, costante
del quadriennio bellico, emerge ovunque con maggior forza
in questo anno fatidico. Ma Foch diventa anche il punto di
collegamento tra i diversi eserciti dell’Intesa e, ora, anche con
i last comers, gli americani: è lui a dialogare con il comando
Usa, e sarà lui ad accogliere a Parigi il generale John J. Per-
shing il 13 giugno6.
Le prime operazioni di Pétain, divenuto comandante, so-
no volte a reprimere le rivolte interne, velocizzando i processi

5
Plumyène 1964, p. 44.
6
Cfr. Greenhalg 2013, pp. 273 ss.

73­­­­
a disertori e ammutinati, riducendo le garanzie per gli impu-
tati, forzando la mano a Poincaré che invita alla moderazione:
il problema è per il militare “dare l’esempio”, colpire i reg-
gimenti ammutinati, non concedendo grazia a nessuno. Nel
contempo egli dà il via a un’azione volta a ridurre i fattori
di scontento nelle truppe, rinuncia alla tattica suicida degli
assalti frontali ad ogni costo, migliora il rancio e aumenta le
razioni; mentre si pone il problema del generale venir meno
dell’entusiasmo della popolazione nelle città7. Per tali ragio-
ni, forse, egli più che il boia viene considerato il guaritore di
un esercito malato8. In realtà, le condanne a morte saranno,
alla fine dei conti, meno numerose e più attentamente emes-
se, dopo indagini, che nell’esercito italiano. Pétain mette a
punto una macchina propagandistica che comprende la cen-
sura, la quale peraltro è già stata istituita, all’inizio dell’anno,
in forma nuova rispetto a una vecchia legge risalente al 1884,
e che riguarda anche gli spettacoli, a cominciare dal cinema9.
Pétain affronta anche il “problema russo”, in maggio dive-
nuto evidente, ossia quali possibilità sussistano che l’esercito
post-zarista rimanga nel campo degli Alleati, o comunque
quali siano le sue residue capacità offensive: si tratta, natural-
mente, non di uno specifico interesse per la situazione russa,
bensì della preoccupazione che il venir meno di una forza
militare sul fronte orientale liberi un’enorme quantità di uo-
mini e mezzi tedeschi, pronti a dislocarsi sul fronte franco-
germanico, dove appunto il futuro leader della Francia di
Vichy esercita il ruolo di “generalissimo”10.
In realtà, sono tutt’altro che superati gli effetti della ba-
tosta di Chemin des Dames ad aprile: fin dal giorno 2 hanno
inizio ammutinamenti, qua e là, con decine, in qualche caso
centinaia di soldati che non si presentano all’appello, o addi-

7
Cfr. Pedroncini 1977, pp. 28 ss.
8
Cfr. Plumyène 1964, p. 45.
9
Cfr. Prédal 1972, pp. 37 ss., 52 ss.
10
Cfr. ivi, pp. 112 ss.

74­­­­
rittura si allontanano dagli accasermamenti. Sono, di regola,
i reparti scelti il giorno prima per un’azione di attacco. In
alcuni casi, le compagnie partono regolarmente dirette alla
prima linea, ma giungono falcidiate: soldati che si “perdono”
nei sentieri delle foreste, nelle viuzze dei villaggi, nei campi
di granturco. Non si tratta solo di depressione dell’umore
dei combattenti, causata dallo scacco di una operazione che
era stata presentata come destinata a sicuro successo, e che
invece si va palesando come quasi impossibile, stante la re-
sistenza bene organizzata dei tedeschi; si tratta anche di una
presa d’atto della impreparazione francese, che, giorno dopo
giorno, appare clamorosa. Accade in effetti che le artiglierie
francesi colpiscano, regolarmente, le prime e seconde linee
del proprio esercito11.
Il giorno 19 il 3° Battaglione del 66° Fanteria oppone un
rifiuto collettivo, disperdendosi per il villaggio vicino e nei
boschi. E l’indomani nessuno si presenterà all’adunata. Un
fatto inaudito, che genererà imitazioni. La ventata di indisci-
plina, che ha cominciato a farsi avvertire dalla fine di aprile, si
diffonde rapidamente e toccherà ben 68 divisioni. Negli ulti-
mi giorni del mese di maggio, uno dei reparti che si ribella si
impadronisce di alcuni camion, vi installa delle mitragliatrici
e li pavesa con bandiere rosse, poi cerca di saltare su un tre-
no per raggiungere Parigi, non senza avere prima impiccato
alcuni gendarmi, cantando l’Internazionale. E via seguitando
anche nel mese successivo, in uno stillicidio sempre più in-
quietante per le autorità militari e politiche12. La loro reazione
appare all’inizio sconcertata, e si risolve nell’accusa ad agenti
esterni che sobillerebbero i combattenti, in particolare quel-
li che rientrano da una licenza. Si legge nel rapporto di un
comandante di Corpo d’Armata: «Al loro passaggio a Parigi,
essi sono stati quasi certamente lavorati [sic] da un’organizza-
zione occulta. Delle donne, certamente “allegre”, avrebbero

11
Cfr. Rolland 2012, pp. 36 ss.
12
Cfr. Bataille e Paul 1965, pp. 101 ss.

75­­­­
intrattenuto i soldati in licenza a casa loro. Un opuscoletto
di colore rosso sarebbe stato loro distribuito»13. Non manca
nulla: la femmina, gli agenti clandestini, l’opuscolo sovversi-
vo, ovviamente rosso. Spiegazione, per quanto risibile, non
del tutto priva di fondamento, se ci si riferisce non a pretesi
sobillatori, di genere maschile o femminile che siano, bensì
all’“effetto Russia”, preso sul serio anche dal nuovo coman-
dante in capo il quale parla di «contagio» grave, con esplicito
riferimento a quanto accade in Russia14. Ma le mutineries si
susseguono, a macchia di leopardo: il mese finisce con ma-
nifestazioni di soldati che marciano al grido «Vogliamo la
pace». Si tratta di una vera e propria defezione di massa, ma
sia per la paura delle punizioni, sia per la difficoltà di rimane-
re nascosti a lungo, sia, infine, perché alla fin fine si sentono
soldati francesi, i disertori rientrano nei reparti, a dimostrare
che, più che la loro condizione militare, essi contestano il
modo in cui sono comandati: la defezione «è la loro risposta
a un attacco suicida volto al fallimento»15.
La strategia per evitare il contagio pacifista-internaziona-
lista è generalmente di tipo medicale: isolare i corpi infetti,
quindi dividerli, e inviare a gruppetti i soldati in altri reparti,
dopo di che dare inizio alla repressione vera e propria perse-
guendo i “colpevoli”, o meglio coloro che vengono indicati
come tali. Non a caso Pétain si presenta e viene presentato
come «il medico dell’esercito», e la sola notizia del suo arrivo
suscita un moto «di fiducia e di speranza»16. Il marescial-
lo dovrà interrogarsi sulla natura di ciò che sta accadendo
e sulle cause. Ma deve prendere atto soprattutto di un da-
to: un esercito di oltre un milione di uomini impantanato in
una situazione che avrebbe dovuto risolversi in una battaglia

13
Cit. in A. Bach, La gestion des mutineries par le Commandement mili-
taire, in Loez e Mariot 2008, pp. 210-15 (201).
14
Cit. ivi, p. 212.
15
Ivi, pp. 202-203
16
Cfr. Bataille e Paul 1965, p. 189.

76­­­­
decisiva, e si sta invece rovesciando nel suo opposto, ossia
un’eterna attesa di morte, uno stillicidio di cadaveri, in una
zona di confine, in cui si muore senza vedere il nemico17. Si
tratta dunque di una crisi rivoluzionaria, del tipo russo? O
invece del rifiuto di continuare a combattere in uno schema
folle? Uno schema che, ripetuto senza tregua, non potrà che
condurre alla scomparsa fisica di tutti i soldati, prima che la
Francia si liberi dai tedeschi18. In realtà, benché si sia parlato
sempre di tali ammutinamenti e diserzioni nei termini di vere
e proprie ribellioni, forse si tratta di atti «di disperazione, più
che di rivolta»19. V’è chi, in epoca più recente, ha fatto ricorso
al termine “scioperi”20. In effetti, la forma tipica degli am-
mutinamenti francesi è precisamente il rifiuto del lavoro del
soldato, ossia combattere. Ci sono cortei, elezioni di delegati
che hanno il compito di presentare le richieste dei reparti ai
comandanti, canti sovversivi, volantini, defezioni, e, infine,
sul finire del mese, la più clamorosa di queste manifestazioni
di dissenso, operata dal 129° Fanteria, che medita una marcia
su Parigi per far sentire le ragioni dei poilus. La vicenda si
protrarrà nel mese di giugno, ma non sembra ci sia nulla di
simile, malgrado i richiami espliciti, ai moti che hanno por-
tato alla rivoluzione in Russia: là i contadini in uniforme non
sentono “la patria”; qua, in Francia, è esattamente il contra-
rio. I soldati si sentono comunque cittadini della République,
che essi considerano un valore, un insieme di istituzioni a
cui mostrano rispetto e nelle quali, tutto sommato, credono:
perciò, in definitiva, mai questi moti assumeranno un tratto
rivoluzionario21.
Prima di accingersi alla repressione, Pétain opera un cam-
biamento radicale sul piano squisitamente militare: non più

17
Cfr. Rolland 2012, pp. 362 ss.
18
Pedroncini 1998, p. 117.
19
Bataille e Paul 1965, p. 169.
20
Cfr. Rolland 2012.
21
Cfr. ivi, pp. 356 ss.

77­­­­
attacchi frontali con l’impiego di enormi raggruppamenti di
uomini e mezzi, bensì una tattica mobile, con un numero ri-
dotto di uomini, ma con una forte concentrazione di fuoco
d’artiglieria in grado di aprire varchi, sgominando, una per
una, le postazioni tedesche. Insomma, non grandi offensive,
ma attacchi contro obiettivi limitati, e con limitato impiego di
combattenti. Quasi una guerriglia nella guerra. Ciò risponde
a suo avviso anche all’esigenza di liberare i poilus dalla “pri-
gionia” della trincea, ma nel contempo di non mandarli al
massacro. Certo, moriranno ancora, e moriranno in molti, lo
sa il generale, lo sanno i soldati, anche se ignorano che il loro
comandante supremo ha calcolato come “ragionevole” un
numero di caduti per mese oscillante fra i 61.000 e gli 82.000;
ma almeno potranno morire dando un senso alla morte. Le
esecuzioni capitali degli ammutinati, in tale quadro, ma an-
che gli anni di prigionia comminati, vengono presentati non
come una vendetta della nazione, ma piuttosto come un sa-
crificio che vale a evitare ben maggiori sofferenze. E si tratta
di condanne frutto di procedure tutto sommato misurate, os-
sia deliberate a seguito di indagini rigorose, anche se rapide:
memori dei clamorosi errori commessi negli anni precedenti
a danno di soldati poi risultati innocenti, gli Alti comandi
vogliono procedere con cautela prima di emanare sentenze
di morte, o alla prigionia dura, raccogliendo testimonianze
incrociate22.
In verità giocano fattori imponderabili tanto nella sop-
portazione della fatica e della pena della trincea, quanto nel
suo rifiuto. L’attesa della salvezza individuale si mescola con
quella della nazione tutta, l’odio per il nemico di colpo si
tramuta in moti di solidarietà con quei soldati che indossano
una divisa di altro colore. Lo smarrimento, la paura, la spe-
ranza, la disperazione, si intrecciano in una situazione che
ormai, a metà dell’anno, appare apocalittica. Forse anche per

22
A. Loez, Éléments pour une sociologie des mutins de 1917, in Loez e
Mariot 2008, pp. 312-28.

78­­­­
questo, nell’ultimo periodo del conflitto si assiste alla ripresa
dell’irrazionale, della tradizione apocalittica, delle profezie e
del rapporto magico. L’etnoantropologo Ernesto De Marti-
no, tenendo conto degli eventi russi, ma facendo riferimen-
to ad autori coevi (Spengler e Freud, in primo luogo) che
hanno riflettuto sui grandi temi della finis Europae, ha visto
«il vero e proprio inizio di rivalutazione esistenziale della re-
ligione e del mito» in una serie di episodi che richiamano
il soprannaturale tra fine del conflitto e primo dopoguerra,
e in particolare indica il 1917 come «una data decisiva del
nuovo corso»23. L’attesa della pace, della “santa pace”, ossia
la speranza che la guerra cessi, a prescindere dai suoi esiti
politici, si fa strada seguendo le vie più impensate, dal so-
gno alle apparizioni, che vengono raccontate nelle lettere dei
combattenti sui diversi fronti o in quelle dei loro familiari.
In particolare si diffonde fra gli italiani la convinzione che
il maggio che ha visto l’inizio del grande massacro nel ’15,
ne vedrà la fine nel ’17. Scrivono a un soldato prigioniero in
Austria, nel campo di Mauthausen:

Sapessi che miracolo ha avuto luogo [...]. Una gallina ha fatto


un uovo che nell’interno ha una scritta: «1917, 26 maggio, pace».
Non ridere di me. È la pura verità. Tutti vengono a vederlo: ricchi e
poveri da tutte le città e i paesi; e tutti dicono che non è un inganno.
Lo hanno fatto esaminare e tutti affermano che è proprio un vero
uovo e che nessun essere umano sarebbe in grado di fare qualcosa
di simile. Ah, che miracolo! Speriamo che si avveri; ne siamo tutti
persuasi e aspettiamo a braccia aperte il 26 maggio24.

Il soprannaturale domina, insomma; come nota Anto-


nio Gramsci, che mette in luce la tendenza a rivolgersi al
soprannaturale da parte di tutti gli umani, non soltanto dei

23
De Martino 1980; cfr. anche G. Procacci, Aspetti della mentalità col-
lettiva durante la guerra. L’Italia dopo Caporetto, in Leoni e Zadra (a cura di)
1986, pp. 288-89.
24
In Spitzer 1976, p. 96.

79­­­­
combattenti; è allora che essi si sentono «sballottati da forze
che non conoscono», e ancor più che nella religione, in sen-
so alto, filosofico, trovano rifugio nella superstizione, nella
«ciarlataneria»; sicché invece che confrontarsi col grande
mistero della fede cadono preda di cose deteriori: «il for-
mulario magico, il latino del breviario, l’incenso, il fumo
delle erbe aromatiche». In tempo di guerra, invece di capire
«che volontà umane possano creare così enormi catastrofi»,
uomini e donne ricorrono «allo stregone, al sacerdote»25. Si
moltiplicano infatti nel quadriennio bellico le apparizioni di
madonne, le esperienze miracolistiche, gli annunci di tempi
nuovi, nel bene e nel male. La religione riemerge potente-
mente come strumento di autoconsolazione. La più celebre
di tali apparizioni, delle “mariofanie”, avviene in Portogallo,
nei pressi della città di Fátima, esattamente in località Cova
da Iria, il giorno 13: là, “tre pastorelli”, come d’allora sa-
ranno chiamati, annunciano che una signora biancovestita si
sarebbe palesata dinanzi ai loro occhi increduli e innocenti,
confidando loro tre importanti “segreti”. Per poi invitarli a
costruire una cappella in suo onore e a recitare, e far recitare,
incessantemente il “santo rosario”. Non è la prima appari-
zione; almeno a partire da Lourdes, anno 1858, il culto di
Maria ha trovato in Europa eco in innumerevoli apparizioni
“miracolose”. Fátima si riaggancia, per così dire, a Lourdes,
e si ricongiungerà idealmente, e non solo, alla Madonna di
Medjugorje, in fondo tutte apparizioni accomunate da fini
politici e culturali: anticomunismo, ricristianizzazione del
mondo, rifiuto dei portati della modernità.
Chi sono i pastorelli? Lúcia Dos Santos, nata nel 1907,
poi qualificata come “veggente”, avrà una vita lunghissima,
morendo nel 2005, mentre gli altri due, fratelli tra di loro
e cugini di Lúcia, sono Francisco e Jacinta Marto (nati nel
1908 e nel 1910, morti entrambi di “spagnola” nel 1919 e nel

25
A. Gramsci, Stregoneria, in «Avanti!», 4 marzo 1916; in Gramsci 1980,
pp. 174-75.

80­­­­
1920). I tre, stando alla narrazione che se ne fa tuttora in se-
de ecclesiale, l’anno prima avevano già avuto la ventura, per
ben tre volte, di imbattersi in una figura “sfavillante di luce”,
presentatasi come “l’Angelo della Pace” e che li invitò alla
preghiera; le apparizioni furono in tutto tre. Poi incomince-
ranno le apparizioni della Madonna, di nuovo tre, consecuti-
ve, a partire dalla prima, domenica 13 maggio, quando essa
compare, tra lampi, pur nel sereno. (Per una bizzarra coin-
cidenza, il 13 maggio 1917 viene ordinato cardinale mons.
Eugenio Pacelli, destinato a salire sul trono di Pietro come
Pio XII, che tanto credito darà a Fátima.) Le successive appa-
rizioni si verificheranno sempre il giorno 13, a distanza esatta
di un mese, in giugno e in luglio, ma con una esponenziale
crescita di pubblico, da qualche decina di persone in giugno a
qualche migliaio in luglio. Il mese seguente, il giorno 13, pun-
tualmente si radunano i fedeli che intendono chiedere grazie
per sé e per i propri cari: ma i pastorelli non si presentano, e
dunque neppure la signora in bianco. Come mai? Era entrato
in scena “il cattivo”, sindaco di un paese vicino, massone,
che ha rapito e chiuso in cella i tre ragazzi per estorcere loro
la verità, dubitando delle apparizioni. Nel racconto tuttora
reperibile su siti ufficiosi della Chiesa cattolica, si legge che il
13 agosto una folla contata intorno ai 18-20.000 fedeli prega
nella vana attesa dei fanciulli, e quando giunge la notizia del
rapimento ecco che la Madonna rivela la sua invisibile pre-
senza, con nuvole, lampi e tuoni. Liberati a furor di popolo
i preziosi ragazzi si manifestano altre apparizioni, la prima il
19 agosto, non più alla Cova da Iria, dove invece si verificano
le successive, ristabilendo la sequenza del 13 fino ad ottobre,
con il moltiplicarsi degli astanti che attendono la misteriosa,
diafana signora.
Nella costruzione del miracolo svolgono un ruolo alcuni
personaggi esterni, a cominciare dal parroco del paese, don
Manuel Marques, che avrà immediati, ripetuti colloqui con i
tre pastorelli, con la caratteristica però che a parlare è sempre
Lúcia, la maggiore d’età, donnina intraprendente e fantasiosa.

81­­­­
Nel suo racconto al prete, fatto la prima volta il 27 maggio, è
lei, in esclusiva, a dialogare con la Madonna. E soltanto lei, a
domanda risponderà, in vero ha avuto il privilegio della vi-
sione: fratello e cugina si sono dovuti accontentare del bene-
ficio dell’audio: hanno udito la voce della Signora. Sicché è
lei, Lúcia, a descrivere la Madonna e il modo in cui si è pale-
sata: dopo un improvviso bagliore, i tre impauriti radunano il
gregge e si apprestano ad allontanarsi ma sono fermati da un
secondo lampo, e quindi, in cima ad un albero, ecco la Don-
na, di bianco vestita, comprese le calze e il manto sulla giacca
sempre bianca, con una gonna bianca, con dorature, e una cin-
tura sempre dorata passata dentro piccoli anelli. Tiene le mani
levate in alto, e parlando allarga le braccia, con le palme delle
mani rivolte al cielo. La ragazza è talmente intraprendente che
avvia in prima persona la conversazione (non si comprende
perché gli altri due non riescano a vedere l’interlocutrice, ma
ne odano la voce), e ottiene di sapere dalla Donna che il suo
posto è il cielo, e che ritornerà, mensilmente, per sei mesi, in
quello stesso luogo. Alla fine del ciclo semestrale, annuncia la
Madonna, comunicherà i desideri che vuole che i tre rendano
noti. Una sintetica, efficace interpretazione scientifica di un
teologo e sacerdote cattolico che ha dedicato, laicamente e in
modo approfondito, studi alla vicenda, ci aiuta a comprendere:

La fenomenologia della visione è quella classica di forme lu-


minose dopo bagliori di uno stato alterato di coscienza con ovvie
e concomitanti esperienze di tipo allucinatorio. La donna rappre-
senta l’immaginifico delle ragazze povere di campagna: una figura
femminile con indumenti splendenti di biancore e dorati26.

Interessante la precisazione della ragazza che avrebbe


chiesto, senza timidezza, alla Signora notizie della guerra:
finirà? Durerà ancora? L’interrogata non risponde, annun-
ciando che dirà tutto al termine dei sei mesi. Nel successivo

26
Gramaglia 2012, pp. 8-9.

82­­­­
interrogatorio, seguito alla seconda apparizione, in giugno,
Lúcia fornisce dettagli ulteriori sugli abiti: bianchi con lembi
e strisce dorate, calze bianche, senza scarpe, e al collo, novi-
tà, una catenina d’oro con una medaglia (non precisa l’effi-
gie). La Madonna chiede alla ragazza soltanto di imparare a
leggere, per meglio comprendere quello che essa le dirà nei
prossimi incontri. Commenta il nostro studioso:

I desideri di Lúcia si precisano sempre meglio: all’estasi per


abiti desiderati, splendenti e dorati, si unisce ora il desiderio di
alfabetazione in una condizione generalizzata di analfabetismo:
emerge cioè nella visione allucinatoria tutto ciò che costituiva le
caratteristiche delle classi meno povere, alle quali anche una bam-
bina, povera pastorella, guardava con incanto e desiderio27.

Nel terzo incontro, a luglio, la ragazza racconta a don Ma-


nuel che la Signora ha chiesto la recita di un rosario (richiesta,
en passant, fatta già il 13 maggio), allo scopo di addolcire il
conflitto, renderlo insomma meno sanguinoso. Ed è Lúcia a
chiedere a Maria di fare dei miracoli, la conversione di un paio
di donne del villaggio, e la guarigione di un bimbo malato.
La Madonna promette che entro l’anno tutto questo accadrà.
Null’altro. Non v’è accenno alcuno a pretesi “segreti”. Il par-
roco procede a interrogare l’altra ragazzetta, Jacinta, di soli
sette anni, la quale si contraddice, e tra una cosa e l’altra spiega
di aver visto la donna, una donna “piccola”, di statura e di età
(quindicenne, suppone), altre volte, da sola. E aggiunge det-
tagli fantasiosi, che non compaiono nel racconto della cugina,
come un’ascensione della Signora al cielo, con piedi sgam-
bettanti fra le nuvole. Analogamente negli incontri successivi,
sempre a Cova da Iria tranne quello di agosto – spostato in
località vicina per ragioni che vengono raccontate con il “ra-
pimento” dei pastorelli –, la Madonna non si sbilancia con gli
annunci e resta vaga sulle promesse di miracoli che la ragazza

27
Ivi, p. 9.

83­­­­
le chiede. Sulla guerra, se la cava con un “sta per finire”, che
resta imprecisato. In ogni caso non parla di comunismo, di
Russia, e non vengono mai proferite la parola “profezia” o la
parola “segreto”. La realtà è che una ragazza, Lúcia, tra allu-
cinazioni e probabile ricorso a invenzioni deliberate, creerà
la montatura della “Madonna di Fátima”; sua cugina ripete
grosso modo le frasi di lei, e il fratellino tacerà perché non ha
visto né udito nulla. Quanto alle folle, esse “credono” di ve-
dere, imbeccate e insieme in qualche modo circuite da Lúcia,
che incessantemente nei giorni delle “apparizioni” incita, in-
vita, quasi ordina, in un turbinio di spostamenti di teste che
inseguono i bagliori della Signora biancovestita28.
Il tutto sembra svolgersi secondo una regia accorta, lungo
cinque mesi esatti, dal giorno 13 al giorno 13, quando l’esi-
to della guerra è incerto e la Chiesa cattolica sta compiendo
sforzi, con scarso successo davanti ai nazionalismi scatenati,
per porre fine al conflitto: l’atto principale avverrà qualche
mese dopo, con una Nota del papa Benedetto XV, in agosto.
La Madonna, per bocca dei bimbetti, o meglio nel racconto
dei tre di cui è unica artefice la maggiore tra loro, preannuncia
dunque l’imminente fine della guerra: siccome non si verifi-
cherà, anche se rimandata di settimana in settimana, gli astuti
pastorelli, opportunamente istruiti (si segnalano in tal senso
un vescovo, Manuel Nunes Formigão, e il suo consigliere,
il professore universitario Gonçalo Xavier de Almeida Gar-
rett, gli inventori del culto di Fátima, in sostanza), cambiano
le loro versioni, dando loro un orientamento squisitamen-
te politico, ostile al governo portoghese del tempo, laico e
tendenzialmente anticlericale. Il sopraggiungere delle notizie
dalla Russia, naturalmente, costituirà un ghiotto boccone per
la simpatica équipe di pastori, vescovi, professori. Ed ecco
che, dalla bocca naturalmente di Lúcia, esce una profezia del
tutto inventata, assente nei documenti dei primi interrogatori
a caldo fatti dal parroco, una profezia ad hoc:

28
Cfr. ivi, pp. 11-15.

84­­­­
La consacrazione della Russia al mio cuore immacolato [...] se
si darà ascolto alle mie domande, la Russia si convertirà e si avrà
pace. Altrimenti diffonderà nel mondo i suoi errori. Il Santo Padre
mi consacrerà la Russia. Questa si convertirà ed una pausa di pace
verrà concessa al mondo29.

L’ansia per il perdurare della guerra e l’attesa per la sua


fine si fondono e confondono con la speranza della resipi-
scenza dei rivoluzionari russi (e ancora non è giunto al potere
Vladimir Il’ič Ul’janov, il senza dio!), e soprattutto il tema
è come evitare il contagio russo nel cattolico Portogallo, in
mano ai massoni “mangiapreti”.
Le rivelazioni dei cosiddetti segreti di Fátima saranno pro-
gressive, per accentuare il carattere profetico, e in qualche
modo per derubricare il messaggio dal regno della certezza
a quello del sogno, che implica la speranza o al contrario la
paura. E l’elemento di segretezza non soltanto alimenterà la
fede, ma incentiverà il culto mariano e in particolare quello
relativo a quella Madonna. Il contenuto dei segreti rivelati ai
veggenti, componente essenziale di tutte le mariofanie, ha un
posto speciale in quella di Fátima, per gli aspetti esoterici,
apocalittici, catastrofici che vi sarebbero racchiusi30. Soprat-
tutto riguardo al misterioso contenuto del terzo segreto, sul
quale la Santa Sede ha richiamato sempre alla cautela, cercan-
do di frenare le fantasie millenaristiche della pietà popolare.
La quale nondimeno verrà indirizzata sempre più in un senso
politico dopo l’avvento della dittatura militare (1926), e an-
cor più dopo l’ascesa al potere di Oliveira Salazar (1932)31.

29
In L.G. da Fonseca, Le meraviglie di Fàtima. Apparizioni, culto, mira-
coli, ed. riveduta e aggiornata, a cura di J.M. Alonso, Edizioni Paoline, Cini-
sello Balsamo 1991, cit. in Fattorini 1999, p. 68. Ma si leggano soprattutto
le illuminanti pagine di Gramaglia 2012, l’intero cap. 1, pp. 5-31. E anche il
precedente Gramaglia 2003.
30
É. Dhanis, Sguardo su Fàtima e bilancio di una discussione, «Civiltà
Cattolica», II, 1953, pp. 403 ss., cit. in Fattorini 1999, p. 68.
31
Cfr. Gramaglia 2012, pp. 46 ss.

85­­­­
Fátima diventa l’icona religiosa di quel Portogallo, come nel-
la Spagna che sta per cadere in mano a Francisco Franco lo
sarà Santa Teresa d’Ávila.
Nel maggio del 1997, in occasione dell’ottantesimo anni-
versario della prima apparizione, il cardinale Joseph Ratzin-
ger, futuro papa Benedetto XVI, dichiarò che il mitico terzo
segreto altro non sarebbe che un caldo invito alla preghiera
e alla conversione dei cuori32. Era un primo ritorno, dopo
gli anni post-Concilio Vaticano II, quando il culto di Fáti-
ma venne considerato troppo intransigente e tradizionalista:
penitenza, peccato, inferno, pratiche riparatrici, rosario era-
no poco in sintonia con la Chiesa nuova che papa Giovanni
XXIII aveva provato a disegnare. Con papa Wojtyla, il Gran-
de Restauratore, la Madonna di Fátima divenne la madre di
tutte le apparizioni di Maria. Si delineò una continuità con la
più importante mariofania contemporanea, quella di Medju-
gorje, un paesino nella Bosnia-Erzegovina dove la Madonna
“appare” ininterrottamente dal 1981. Un culto in cui si ri-
presentano i caratteri fortemente apocalittici e millenaristici:
anche questa Madonna si è imbattuta in grandi eventi storici
come il crollo del comunismo e le guerre jugoslave. Essa pe-
rò non esprime messaggi punitivi e minacciosi come quelli
di Fátima, né sembra così risentita e offesa dalle bruttezze
del mondo. Fátima combatte il diffondersi di nuove religio-
ni eretiche, il comunismo ateo, in specie, che seduce masse
sempre più vaste, mentre Medjugorje vuole battersi contro
lo scetticismo e il disincanto dei nostri tempi, seguiti a quelli
delle “grandi illusioni”. Entrambi i culti vogliono incarna-
re i valori della tradizione: il primo lo aveva fatto contro la
minacciosa avanzata del materialismo, e il secondo in ripara-
zione delle macerie da esso lasciate. Nel periodo della guerra
nell’ex Jugoslavia, il culto di Medjugorje ha catalizzato l’odio
per il comunismo e il panslavismo, galvanizzando i cattolici

32
Cfr. Fattorini 1999, p. 68.

86­­­­
croati contro la Serbia, considerata ultimo avamposto della fu
Unione Sovietica, dunque da considerarsi, a dispetto del cri-
stianesimo (di rito ortodosso) ivi diffuso e praticato in modo
intenso, pericolosa centrale di scristianizzazione del mondo.
Ma anche luogo simbolico, in quanto ostentatamente “socia-
lista”, del “regno del male” in Terra.
Il contenuto misteriosamente tenuto nascosto del “terzo
segreto”, il dire e il non dire, aveva creato molte aspettative
ed esercitato una grande forza attrattiva, al punto che perio-
dicamente la gerarchia ecclesiastica ha dovuto rassicurare i
fedeli sul contenuto non così apocalittico e minaccioso del
segreto, ma sul suo significato di fede, sul richiamo alla pre-
ghiera e alla conversione che vi sarebbe racchiuso. A mante-
nere vivo l’interesse erano le possibili rivelazioni sensaziona-
li: la segretezza ha funzionato come forma di comunicazione
attraverso altre figure di mediazione, come il caso di Padre
Pio, presunto depositario e custode dell’ultimo e misterioso
segreto33. Le sue stimmate sopraggiungono poco dopo, nel
1918, sempre nell’angosciosa attesa della fine della guerra,
«una guerra ormai così insopportabile da diffondere per
ogni provincia d’Italia le voci più incontrollate sui misteriosi
poteri di fanciulli in grado di propiziare la fine del conflitto
o sulla miracolosa apparizione di Madonne messaggere di
pace»34.
Il rilancio del culto mariano avviene periodicamente, dal-
la Rivoluzione francese ai nostri giorni, innanzi tutto come
risposta al bisogno della cattolicità di rinsaldare le proprie
fila, in particolare in alcuni pontificati a cominciare da quello
di Pio XII, per il quale quel culto ha una forte caratteriz-
zazione anticomunista che si accompagna a una spiritualità
rigenerativa: la “madre del Signore” è invocata per purifica-
re le coscienze dopo la catastrofe bellica e al fine di trovare

33
Cfr. L. Bianchi, Il segreto di Fatima, tra fantasia e speranza, 2a ed.,
Stampa grafica Marelli, Gera Lario 1986, cit. in Fattorini 1999, p. 84.
34
Luzzatto 2007, p. 7.

87­­­­
energie per superare la desolazione lasciata dai totalitarismi
in Europa35. Dopo una relativa pausa, Giovanni Paolo II, il
quale dichiarerà solennemente di dovere a Fátima la salvezza
dopo i colpi di pistola che lo avevano centrato in piazza San
Pietro il 13 maggio del 1981, non soltanto si recherà l’anno
successivo in Portogallo per ringraziare della sua guarigio-
ne precisamente la Madonna di Fátima, ma promuoverà un
complesso di culti e devozioni alla Madonna, usando anche
come “intermediario” il popolarissimo Padre Pio – almeno
in Italia, dove, secondo ricerche antropologiche e studi terri-
toriali, è ben più celebre e diffuso in icone, figurative o pla-
stiche, di qualunque altra figura del firmamento cattolico –,
e ai santi che si possono leggere non solo come argine a una
generica scristianizzazione, ma come volontà del pontefice
di rinvigorire l’identità cattolica, in funzione sempre antico-
munista e antirussa36. Fátima, Medjugorje e, dietro, l’ombra
ingombrante della signora di Lourdes sono altrettante icone
della reazione cattolica alla modernità, sia nei suoi aspetti
deteriori, sia in quelli positivi. La pallottola estratta dal cor-
po ferito del papa nel 1981, e incastonata nella corona della
statua della Madonna a Fátima, pare essere il simbolo di un
vero e proprio ritorno al premoderno37.

35
Cfr. Fattorini 1999, p. 101.
36
Cfr. Gramaglia 2012, pp. 210-11.
37
Ovviamente pubblicistica e (pseudo)storiografia si sono accodate
prontamente: vedi per esempio Zampetti 1990.
6.
Giugno
Militari e politici

All’inizio del mese, il giorno 3, il comandante delle truppe ita-


liane di stanza in Albania, generale Giacinto Ferrero, emet-
te un proclama al popolo approvato dal ministro degli Esteri
Sonnino (uno dei tre responsabili dell’intervento dell’Italia nel
maggio del ’15, accanto a Salandra e al re Vittorio Emanuele
III) in cui si promette unità e indipendenza, ma «sotto l’egida
e la protezione dell’Italia». Il Patto di Londra tra la Triplice
Intesa e l’Italia, patto ancora tenuto segreto, stabiliva che in
caso di vittoria alleata all’Italia sarebbe stata concessa la piena
sovranità su Valona, sull’isola di Saseno e su «un territorio suf-
ficientemente esteso per assicurare la difesa di questi punti».
Il resto dell’Albania sarebbe stato destinato alla costituzione
di uno Stato autonomo neutrale ma sotto protettorato italiano.
Il gesto di Sonnino, improvvido e compromettente per
il governo, non reso noto al Consiglio né al suo presidente,
Paolo Boselli, provocherà le dimissioni dei ministri della “si-
nistra”, ossia i riformisti Bissolati e Bonomi e il repubblicano
Comandini, dimissioni presto rientrate su pressione di Bosel-
li, il quale sarà comunque costretto a un rimpasto. Il nuovo
governo otterrà la fiducia a fine mese. Una classica tempesta
nel bicchiere d’acqua che nondimeno mostra le crepe nella
compagine, con un contrasto crescente fra gli interventisti-
nazionalisti e gli altri ministri, accusati di mollezza verso il
nemico interno, di gestione troppo debole della guerra e così
via, a cominciare da Orlando, bersaglio di feroci quanto dif-
fuse critiche e visto quasi come un nemico interno in seno al
governo, a dispetto della posizione, tutt’altro che morbida,

89­­­­
da lui tenuta come ministro dell’Interno. Nel novembre del
’16, per esempio, aveva indirizzato ai prefetti una circolare
in cui segnalava l’azione dei «partiti sovversivi» i quali «non
lasciano intentato alcun mezzo per la criminosa propaganda
contro la guerra e le istituzioni». A dire del ministro, sulla
base di non specificate segnalazioni, tali partiti intendevano
intensificare la propaganda estendendola direttamente all’e-
sercito, approfittando delle licenze invernali dei soldati.

Pare che gli elementi rivoluzionari si propongano, avvicinando


i nostri soldati di esplicare subdolamente l’opera loro sobillatrice,
per deprimerne lo spirito, istillare nei loro animi l’avversione alla
guerra ed al militarismo, e istigare alla diserzione ed alla rivolta1.

Ciononostante, Orlando veniva considerato troppo “tene-


ro” con i socialisti, ed era fortemente osteggiato nel ministero
dal potente responsabile degli Esteri, Sonnino, e dietro lui
da uno schieramento che rinviava all’emarginato ma tuttora
attivo Salandra. Lo stesso Boselli, del resto, è tacciato di pigri-
zia, di lentezza, di indecisione: le forze interventiste, dentro
e fuori il suo ministero, sono sempre mobilitate, e costitui­
scono una lobby che interferisce in ogni ambito della vita
nazionale, grazie ai forti agganci con la stampa da un lato, con
gli ambienti militari dall’altro, e, di conseguenza, ai grandi
gruppi industriali e finanziari interessati alla continuazione
ad oltranza della guerra, generatrice di extra-profitti. Orlan-
do, passata l’estate, e con il pretesto di Caporetto, riceverà dal
re le redini del ministero: come dire che è in atto da tempo il
declino del governo Boselli, e la sua fine è nell’aria, e sarebbe
avvenuta, sicuramente, anche senza quell’evento tragico di
fine ottobre2. Si tratta comunque di situazioni generalmen-
te comuni anche agli altri Stati liberali dell’Intesa: le unioni
nazionali in nome dell’obiettivo – fare la guerra e vincerla

1
In Melograni 2015, p. 243.
2
Si veda l’analitica, puntuale ricostruzione di Veneruso 1996, pp. 298
ss., e la sintesi di Candeloro 1978, pp. 179 ss.

90­­­­
– si rivelano costruzioni artificiose, che si limitano a sopire
i contrasti inevitabili tra forze politiche avverse. Guardando
alla vicenda del ministero Boselli, poi, si constata che, anche
in questo caso come altrove, lo Stato accresce enormemente
le proprie funzioni, e ciò vale non soltanto per l’Italia: nella
liberale e liberista Inghilterra, per esempio, ancor prima del
passaggio di governo da Asquith, liberale, a Lloyd George, un
“senza tessera” spregiudicato, si assiste a un ingresso, diretto
e indiretto, o a un aumento della presenza dello Stato nell’e-
conomia del paese, mentre, col crescere formidabile dello
sforzo bellico – che porterà sul campo, complessivamente,
cinque milioni di soldati dell’esercito inglese e delle colonie,
un numero senza precedenti nella storia britannica –, cresce
anche in proporzione la richiesta di forniture militari o di
beni e servizi per le Forze armate3.
In Italia, il governo comincia presto a intervenire sia nella
gestione delle cose economiche, mettendo al proprio servizio
le imprese di interesse bellico, il cui numero tende a crescere
nel corso del tempo, sia dando vita, o comunque sostenen-
do, una congerie di comitati istituti associazioni uffici legati
alla organizzazione della vita sociale in tempo di guerra, alla
produzione di beni, alla distribuzione e gestione delle scorte
alimentari, alla propaganda e al sostegno al morale del fronte
e della popolazione civile4. L’uno e l’altra, però, chiedono, e
anzi ormai reclamano con forza, ben altro che le chiacchiere
dei conferenzieri o le omelie dei sacerdoti. Dal canto suo, il
comandante in capo Cadorna, giunto a Roma nello stesso
giorno del proclama “albanese” per abboccamenti col gover-
no, si concede in una intervista a un prestigioso giornalista
e politico, Olindo Malagodi, sul quotidiano da lui diretto,
«La Tribuna». Il generalissimo vanta i successi dell’esercito
italiano. Rientrato in zona di guerra, non può che constatare
di persona che le cose vanno altrimenti. Gli austriaci hanno

3
Cfr. Pugh 2007, pp. 181 ss.
4
Cfr. Ragionieri 1976, pp. 1999 ss.

91­­­­
messo in atto una pesante offensiva, e pare che tre interi reg-
gimenti italiani si siano arresi a loro. Cadorna, ancor prima
di controllare le notizie, scrive al presidente del Consiglio
riferendo dei tre reggimenti, e affermando che essi sarebbero
in massima parte composti di siciliani:

le defezioni non potrebbero essere che nuovo frutto della propa-


ganda contro la guerra, che si svolge in Sicilia [...] Ma non soltanto
la Sicilia è fomite di velenosa propaganda contro la guerra e contro
il dovere militare; anche altrove (in Toscana, in Emilia, in Roma-
gna, nella stessa Lombardia) si seminano con arte malvagia le teorie
antipatriottiche5.

Cadorna avverte inoltre del «pericolo» rappresentato, a


suo dire, da circoli giovanili socialisti e anarchici i quali stan-
no reclutando adepti fra i militari, sollecitando la formazione
al fronte dei Comitati rivoluzionari: lo scopo sarebbe diffon-
dere documenti contro la guerra, raccogliere denaro a favore
dei giornali “sovversivi” e, infine, eccitare alla “rivolta” le
proprie famiglie servendosi all’uopo della corrispondenza.
Cadorna si spinge ad affermare che tutto ciò nasconde un
progetto preciso e agghiacciante: preparare il paese a uno
scoppio insurrezionale6. L’interpretazione di Cadorna appare
fuorviante, giacché, pur non mancando tentativi, sporadici e
limitati, di penetrazione propagandistica nelle file dei com-
battenti da parte socialista, si tratterà sempre di cosa modesta,
non rivelandosi i socialisti in grado, né forse desiderosi, di av-
viare una seria contestazione della guerra e men che meno di
contrastarla dall’interno, trasformando, secondo il dettame
leninista, «la guerra imperialista in guerra civile»7. Il generale
Angelo Gatti, degli Alti comandi, nel diario appunta compli-

5
Cit. in Silvestri 1984, p. 31.
6
Cfr. Ventrone 2003, p. 222.
7
Cfr. P. Melograni, Documenti sul “morale delle truppe” dopo Caporetto e
considerazioni sulla propaganda socialista, in Il PSI e la Grande Guerra 1967,
pp. 217-25.

92­­­­
menti a Cadorna, riferisce anche della sua rivendicazione del-
la facoltà della decimazione – su cui evidentemente qualche
membro del governo ha espresso contrarietà o quanto meno
perplessità – e afferma che egli la applicherà lo stesso. Non
risulta una reazione governativa a tanta arroganza8.
In lettere successive sempre al capo del governo, Cador-
na non riprende il tema delle accuse indefinite a non meglio
precisati complotti nella truppa, né risulta che Boselli abbia
chiesto conto di quelle gravissime affermazioni: un episodio
che dimostra, ad abundantiam, la pochezza della guida poli-
tica del paese e la nevrastenia della guida militare, peraltro
già invisa a larga parte del ceto politico per il suo stolto au-
toritarismo e la sua inconcludenza strategica. In particolare,
sono i rappresentanti dell’area socialista, nella stampa e nel
Parlamento (ma le loro preoccupazioni emergono fortissime
nei documenti interni e nella corrispondenza privata), a met-
tere in guardia contro Cadorna, sospettato di voler arriva-
re a imporre una dittatura militare nel paese. Una lettera di
Filippo Turati alla sua compagna, e preziosa interlocutrice/
suggeritrice, Anna Kuliscioff, del 12 giugno, fa un quadro a
tinte assai fosche:

il comando supremo avrebbe istituito a Roma a Milano e in altre


sedi uffici speciali di polizia contro il nemico interno, all’infuori
della polizia regolare, anzi, come si vede, contro la polizia gover-
nativa. [...]. È il colpo di stato in permanenza. Il codice penale per
l’esercito [...], lo statuto e le leggi di procedura sono tutte abolite9.

Si tratta molto probabilmente di un quadro non risponden-


te alla situazione, alle intenzioni di Cadorna e alla sua stessa
forza, basato su dicerie parlamentari e paure diffuse nel perso-
nale politico; paure alimentate dal clima generale con la mobi-
litazione permanente degli ambienti della destra nazionalista,

8
Cfr. Gatti 1964, p. 87.
9
Cit. in Veneruso 1996, pp. 310-11.

93­­­­
che trovano espressione tuttavia non solo nei fogli di partito
come «L’Idea Nazionale», organo dell’Associazione naziona-
lista italiana (Ani), o fiancheggiatori come il mussoliniano «Il
Popolo d’Italia», ma anche nel maggiore quotidiano italiano,
il «Corriere della Sera», grazie anche alla stretta amicizia tra il
proprietario-direttore Luigi Albertini e il comandante in capo
Cadorna. De resto, né il re, né il capo del governo hanno, in
quella fase politica, alcuna tentazione di tipo “golpista”. E lo
stesso Cadorna, «arcigno, conservatore, duro, severo, per nul-
la comprensivo delle esigenze delle truppe e, in genere, della
politica di massa», non appartiene al sovversivismo di destra,
secondo una interpretazione forse troppo benevola, anche se
nella sua visione, in tempo di guerra, sono i militari a dover
comandare, in ultima analisi, sui politici10.
È evidente che una politica siffatta aumenta lo spirito di
defezione, demotiva i combattenti, esaspera le popolazioni
sottoposte al giogo delle restrizioni alimentari. La capitale
industriale d’Italia, Torino, sembra essere all’avanguardia. Il
giorno 9 l’assemblea del Partito socialista respinge la mozione
degli “intransigenti” (d’ora in poi si chiameranno i “rigidi”)
che chiede la proclamazione dello «sciopero insurrezionale»,
ma costituisce un segnale d’allarme per la Prefettura, che,
sulla base di rapporti di polizia, mette a punto un dettagliato
resoconto che sembra esprimere timori piuttosto che realtà
effettive. Si parla di comitati insurrezionali in tutto il Pie-
monte, con collegamenti nazionali, e di intese tra socialisti e
anarchici, capaci di «travolgere le esitazioni dei dirigenti»11.
Si mobilita il ministero dell’Interno, il cui funzionario in visi-
ta nel capoluogo piemontese nota:

In Torino l’opinione pubblica fu sempre in tutte le classi, gene-


ralmente, avversa alla attuale nostra guerra e tale si mantenne. È

10
Cfr. ivi, pp. 300-301.
11
Cfr. Ambrosoli 1961, pp. 206-207. Il testo della relazione è già in Mon-
ticone 1972, p. 65.

94­­­­
ben naturale adunque che ivi più che altrove trovi il terreno atto a
germogliare il seme della pace, anche se prematura12.

Il fatto che il funzionario parli di pace prematura a metà


del ’17 è indicativo non soltanto della insensibilità del potere,
ma della sua incapacità di cogliere i segnali di stanchezza,
forieri di protesta, che proprio a Torino, di lì a poco, si mani-
festeranno in modo clamoroso. Il paese reale e il paese legale
sono, ormai, lontani sideralmente. E non si tratta soltanto
del caso torinese; a Roma, per esempio, i rapporti di polizia
notano una simile, diffusa insofferenza che può esplodere da
un momento all’altro13.
Se l’autorità civile appare restia a comprendere, se non nei
termini di una repressione di polizia, i segnali che il paese man-
da, l’autorità militare sembra non soltanto muta verso l’auto-
rità civile a cui di norma neppure si perita di comunicare le
proprie mosse, ma cieca e sorda verso la massa sofferente dei
combattenti. In effetti, pochi giorni dopo, il “generalissimo”
Cadorna ordina un’altra, vana offensiva, quella del Monte Or-
tigara, che si protrarrà dal 10 fino al 25 giugno, ossia due intere
settimane: la montagna sarà alla fine “conquistata” dagli Alpini
il 19 giugno, ma si tratta, come in ogni altra precedente e suc-
cessiva occasione, di una conquista effimera. L’altura, infatti,
viene riconquistata dagli austriaci il giorno 25, e la battaglia si
conclude con gravissime perdite per l’esercito italiano.
Vale la pena soffermarsi un momento su questo ennesimo
bagno di sangue dei soldati, in specie del corpo degli Alpini.
Si tratta di una classica offensiva “alla Cadorna”, un attacco
privo di qualunque ragionevole possibilità di essere concluso
con successo. Cadorna ha in mente di riprendersi le terre
perse dopo la cosiddetta “spedizione punitiva” di Conrad
von Hötzendorf, capo di stato maggiore austriaco, del 1916
su quell’altopiano. La guerra è per lui un gioco, e come un

12
Cit. in Monticone 1972, p. 102, e Ambrosoli 1961, p. 208.
13
Cfr. Ambrosoli 1961, p. 211.

95­­­­
ragazzo testardo non vuole cedere anche un solo centimetro
di terra al contendente. L’arretramento delle truppe italiane
impose una controffensiva per evitare che il nemico assestas-
se un altro colpo, ma da posizioni più avanzate, col rischio di
giungere all’Isonzo e persino di cogliere l’esercito italiano alle
spalle. Sarebbe stato indispensabile procedere sfruttando al
massimo il fattore sorpresa, ma pare che i servizi informativi
italiani non fossero in grado di tenere segreti, e gli austriaci
vennero subito a sapere dell’“Operazione K”, come era stata
designata dagli Alti comandi, costringendoli in qualche mo-
do a procrastinarla. Intanto arrivò l’inverno (un inverno che
le cronache racconteranno tra i più rigidi di tutto il secolo),
e Cadorna, sempre più indispettito e impotente, dovette rin-
viare l’azione alla primavera dell’anno seguente; dopo un ul-
teriore rinvio, si arriva dunque al giugno ’17, mentre intanto
gli austriaci fortificavano le loro postazioni e, scavando rifugi,
li inzeppavano di mitragliatrici. Sempre nel silenzio dei servi-
zi informativi italiani. Ma nel contempo la follia di Cadorna
lo induce a perseverare in un’altra azione offensiva, la decima
consecutiva, sul fiume Isonzo, pur mentre ha inizio la nuo-
va azione in Trentino, incuranti, i comandi italiani, del fatto
che l’intero percorso d’attacco era sotto il tiro della possente
artiglieria austriaca. Nella sconsideratezza degli strateghi di
Cadorna, il punto più incredibile è il fatto che in un breve
tratto di fronte si sarebbero concentrate decine di migliaia di
soldati, esposti – quelli scampati ai colpi di cannone – a un
vero tiro al bersaglio da parte degli austriaci, e specialmente
delle loro implacabili mitragliatrici.
L’offensiva passerà alla storia come una delle più stolte di
una stolta, e in sostanza criminale, conduzione della guerra
da parte di Cadorna e dei suoi collaboratori e subordinati.
L’Ortigara viene conquistato per essere nuovamente perso a
distanza di un pugno di giorni. Un tenente degli Alpini, poi
eccellente scrittore e giornalista, Paolo Monelli, in quello che
è uno dei più bei libri di memorialistica sulla guerra, Le scarpe
al sole, scrive:

96­­­­
I soldati s’allineano lungo la strada, contro la roccia. Non guar-
do che facce abbiano: ma sento al di là la tranquilla rassegnazione
all’inevitabile. Da quindici giorni si assiste allo stesso spettacolo:
escono battaglioni, rientrano barelle e morti, e dopo qualche gior-
no o qualche ora, i pochi superstiti. [...] Tutta la costa della Cal-
diera che si deve discendere è vulcanelli di granate; ma sembrano
peggio le mitragliatrici cecchine che aspettano ai passaggi obbligati
e fregano quasi sempre. [...]. E poi, via per il Vallone dell’Agnel-
lizza, colmo di morti, gli scheletri delle battaglie dell’anno passato,
i cadaveri gonfi della battaglia di quest’anno che dura da quindici
giorni. E un teschio sghignazza, lucido, accanto alla larva livida di
un morto di ieri14.

Il massacro sembra non essere sufficiente per chi imparti-


sce gli ordini. Sicché, subito dopo, agli Alpini, ai bersaglieri,
ai fanti viene ordinato di tornare all’attacco. Sarà l’ultimo atto
del massacro. La battaglia porterà alla morte di oltre 20.000
soldati, numerosissimi ufficiali e sottufficiali, e alla cattura
di interi battaglioni, i cui membri verranno inviati ai lager
austriaci. L’esito sarà un forte scoraggiamento delle truppe,
e un’accelerazione del passaggio dalla rassegnazione alla ri-
volta, o almeno al pensiero della rivolta, cominciando in ogni
caso a manifestare lo scontento in misura e in forme nuove15.
L’episodio ovviamente non farà piacere alle autorità di
governo, che nondimeno, nel silenzio inerte del re, in teoria
capo delle Forze armate, non hanno la forza di rimuovere Ca-
dorna, a sua volta sempre abile a scaricare sui suoi subordina-
ti, fino all’ultimo fante, le responsabilità di ogni sconfitta, di
ogni arretramento. Il generale Gatti, nel suo diario, rifletten-
do su quella battaglia, ma riferendosi all’intera gestione della
guerra fino a quel momento, parlerà di «carneficine senza
effetto»16. Eppure sarà proprio questa tragedia, con le evi-

14
Cit. in http://www.lagrandeguerra.net/ggbattagliaortigara.html che
ricostruisce in modo accurato questa e le altre battaglie della guerra.
15
Cfr. Melograni 2015, pp. 262 ss.
16
Gatti 1964, p. 145.

97­­­­
denti responsabilità degli Alti comandi, a innescare la crisi
dell’esercito italiano, riconosciuta oggi da tutti gli studiosi e
ammessa, allora, anche dai più avveduti ufficiali, sia pure in
forma celata, soltanto nelle conversazioni private, nei diari.
La crisi, in sostanza, che condurrà a Caporetto17. Tra maggio
e agosto, l’esercito italiano, tenuto sotto costante pressione
da Cadorna, si estenua in battaglie logoranti che producono
perdite di uomini e mezzi, senza nessun guadagno effettivo,
mentre il morale dei soldati e degli stessi ufficiali precipita. E
naturalmente si registrerà uno «scadimento disciplinare [...]
indicato dal moltiplicarsi di numerosi reati», il che compor-
terà un incremento del lavoro dei Tribunali militari e delle
pene, comprese le fucilazioni, che, peraltro, sono il solo mes-
saggio che arriva ai soldati, in qualche modo costringendoli a
“marciare”, ma senza entusiasmo, scomparso ormai da molto
tempo, e senza più convinzione18.
D’altra parte, i rapporti tra comando militare e direzione
politica appaiono il punto debole di tutta la conduzione della
guerra nei regimi liberali; lo sono nell’Italia di Boselli e Ca-
dorna, lo sono nella Gran Bretagna di Lloyd George (e prima
di lui di Lord Herbert Henry Asquith, defenestrato, come
già ricordato, e senza tanti complimenti nel dicembre ’16) e
del comandante in capo delle Forze armate, Douglas Haig,
che di fatto procede autonomamente rispetto al suo capo di
governo19; lo sono in Francia, dove la situazione appare parti-
colarmente confusa. Il mese vi si è aperto con un episodio su
cui verrà costruita una narrazione a dir poco leggendaria, su
cui non è facile districarsi tra verità, “abbellimento”, o inven-
zione pura e semplice. Certo il fatto accade; e si tratta sempli-
cemente di un convoglio di autocarri che attraversa il villaggio
di Coeuvres, con i soldati che cantano l’Internazionale mentre
agitano rossi stendardi e urlano: «À bas la guerre!», invitando

17
Cfr. Pieri 1951.
18
Cfr. Melograni 2015, pp. 263 ss.
19
Cfr. Pugh 2007, p. 187.

98­­­­
i camerati a seguire il loro esempio. Sarà l’innesco di una ri-
volta che toccherà alcune compagnie stanziate in zona, con un
rimbalzare degli echi, tra militari e civili; un’intera compagnia,
la 23a, viene coinvolta. Il giorno 3, gli ammutinati si fermano
al villaggio di Missy-aux-Bois, forse perché sono costretti a ri-
nunciare alla destinazione Parigi. Si installano in una fattoria,
ai confini del villaggio, dove l’indomani sono raggiunti da un
emissario governativo al quale dichiarano, però, di non essere
dei rivoluzionari, e che sono pronti a rientrare al fronte, ma
che non intendono più fare azioni di attacco. Naturalmente il
potere non può accettare questa condizione: la fattoria viene
circondata da truppe di cavalleria, e i rivoltosi annunciano di
essere pronti a sottomettersi se non vi saranno sanzioni nei
loro confronti. La risposta sarà sempre: resa senza condizio-
ni. Così sarà, poco dopo, l’8 giugno; 400 soldati sfileranno in
perfetto ordine, condotti verso i campi di prigionia. Seguirà
un’inchiesta volta a stabilire “i più colpevoli”, perché vengano
puniti esemplarmente: saranno 17 le condanne alla pena ca-
pitale, poi commutate in pene detentive, anche con la buona
volontà di Pétain; solo un soldato sarà fucilato, non perché
fosse più colpevole dei suoi compagni, ma perché non aveva
famiglia, come fu osservato da più parti. Sulla sua tomba al
cimitero militare di Vauxbuin, peraltro, «per errore», come si
affretta a precisare lo studioso francese che se n’è occupato, si
erge, sotto il nome, la scritta «Mort pour la France»20.
Il giorno 5 Pétain, divenuto comandante in capo in aprile,
emana una direttiva a tutti gli ufficiali dell’esercito france-
se: l’inerzia, scrive, è equivalente di complicità col nemico.
Quattro giorni più tardi chiede e ottiene dal ministro della
Guerra Painlevé di abolire il diritto di revisione della sen-
tenza di condanna in caso di disobbedienza collettiva. Dopo
di che invia un truce messaggio ai comandanti e a tutti gli
ufficiali che esercitano un comando, dal plotone al Corpo

20
Cfr. Rolland 2012, pp. 197-215.

99­­­­
d’Armata, in cui ordina loro di non deflettere dal senso del
dovere. Il 10 giugno avranno luogo le prime esecuzioni capi-
tali: tre settimane dopo la presa formale ed effettiva insieme
del Comando supremo, Pétain ha debellato tutti i focolai di
rivolta. Eppure, nel giudizio di storici forse compiacenti, egli
non ha fatto ricorso a una repressione di massa, e ha mirato
soprattutto a recuperare il morale dei combattenti, non solo
migliorandone le condizioni, ma dando loro uno scopo, e
facendo apparire del tutto raggiungibile la vittoria21.
In quelle giornate, in Belgio, si verifica una delle più orribi-
li stragi della guerra, che si potrebbe definire, nel suo orrore,
“cinematografica”. Il comandante in capo della Bef (British
Expeditionary Force), sir Douglas Haig, ordina l’inizio dell’o-
perazione volta a liberare il crinale di Messines, a Sud di Ypres,
che dall’ottobre 1914 è sotto solido controllo dei tedeschi, i
quali da lì possono dominare il teatro di guerra, in particolare
tenendo sotto mira le trincee e le postazioni di artiglieria ingle-
si. L’azione è guidata da un generale considerato “prudente”,
Herbert Plumer. Improvvisamente, nel cuore della notte del
7 giugno, gli inglesi cessano il martellamento delle linee nemi-
che da parte dell’artiglieria, iniziato il 21 maggio. Pochi minuti
dopo (alle ore 3,10), una esplosione sconvolgente, talmente
violenta che il rumore raggiunge le coste inglesi: vengono fatte
brillare le potentissime mine (ne scoppiano simultaneamente
17 su 19, con un potenziale esplosivo pari a 500 tonnellate)
che erano state, nei mesi precedenti, pazientemente collocate
da minatori ingaggiati alla bisogna, inglesi, canadesi e austra-
liani, i quali avevano dovuto scavare lunghi e profondi tunnel
per giungere alla meta, molti metri al di sotto della linea su cui
poggiano le trincee tedesche. Gli effetti saranno adeguati alla
potenzialità distruttiva degli ordigni. Ben 10.000 (dicasi die-
cimila) militari tedeschi muoiono subitaneamente o vengono
condannati a morire soffocati in poche ore sotto i cumuli di

21
Cfr. Pedroncini 1998, pp. 121 ss.

100­­­­
terra e detriti. Moltissimi altri saranno tramortiti dall’esplosio-
ne. Un terremoto artificiale, in sintesi.
Ma la strage non finisce: e a quel punto, per sfruttare il
momento di défaillance del nemico, il disorientamento per un
evento di cui inizialmente neppure si comprende la dinamica,
scatta l’attacco della fanteria inglese, che porterà alla cattura
di 7000 soldati germanici. Un successivo tentativo tedesco di
riprendere le colline di Messines fallirà. Il tutto è costato ai
due schieramenti, in pochi giorni, oltre 40.000 morti, senza
aver fatto compiere seri passi avanti verso la fine del grande
massacro.
Il 13, intanto, è arrivato a Parigi il comandante genera-
le del corpo di spedizione statunitense, il generale John J.
Pershing, il quale incontra il maresciallo Foch. Poco prima,
giunto in Inghilterra, Pershing viene ricevuto dal re Giorgio
V, che, in un infiammato discorso alla Camera alla presenza
del generale americano, afferma che «la razza anglosassone
deve salvare la civiltà»22. Un inquietante impiego della paro-
la “civiltà” che, in contrapposizione speculare a “barbarie”,
era stata protagonista della guerra fin dai suoi esordi, con
reciproci, grotteschi scambi di accuse tra i contendenti: “noi
siamo la civiltà, voi la barbarie”. Pare incredibile che dopo tre
anni di atrocità reciproche, di massacro infinito quanto inuti-
le, un’autorità, una testa coronata, usi questa parola. Questa
guerra è davvero “grande” anche da tale punto di vista, per
lo straordinario salto di qualità, e di quantità, nell’uso della
propaganda: ossia menzogne verosimili, ribaltamenti di fatti
accaduti, invenzione di fatti, false notizie, nascondimenti di
notizie, enfatizzazioni fino al ridicolo delle vittorie, sempre
parziali e provvisorie, e riduzione di peso delle sconfitte, de-
rubricate in ogni caso ad arretramenti tattici; e se sconfitte
appaiono indubitabilmente, allora si preferisce, con disone-
stà e cinismo, incolpare i subordinati, scaricando in definitiva

22
Williams 2005, pp. 160 ss.

101­­­­
sulla massa combattente, dopo la sofferenza, anche la colpa.
Così accadrà per Caporetto.
Al di là della retorica, peraltro, il peso maggiore della
guerra non sarà mai degli anglosassoni, ma dei francesi e dei
tedeschi, e in secondo luogo degli austriaci, degli italiani e
dei russi. Gli statunitensi, dal canto loro, inviano inizialmente
solo truppe scelte, i marines, che comunque non hanno espe-
rienza di quel tipo di guerra; solo mesi dopo essi divideranno
il peso con una parte di truppe di fanteria. In ogni caso si
dovrà attendere novembre per un vero primo impiego dei
soldati a stelle e strisce sul terreno. E si tratterà sempre di un
impegno limitato, concesso con una progressione lenta che
farà infuriare gli alleati europei, i quali, sbagliando, si aspet-
tavano tutt’altro. Gli americani però si sono premuniti: il loro
intervento nella guerra avviene nella forma dell’associazione
alla Triplice Intesa, con il diritto di abbandonare la causa
comune in qualsiasi momento, oltre che quello di condurre
le operazioni in modo libero e indipendente dagli altri.
Tuttavia, sarà la capitale inglese a subire uno dei più mas-
sicci bombardamenti di tutta la guerra, il 13 giugno. I tede-
schi fin dal 1914 hanno avviato la pratica del bombardamen-
to delle città nemiche, ma un po’ in tutti gli eserciti si discute
dell’«arma aerea», teorizzata e categorizzata per primo da un
colonnello italiano in alcune conferenze, poi confluite in un
volume pubblicato nei primi anni Venti che viene ancora og-
gi ristampato e che ha ricevuto traduzioni in molte lingue23.
Giulio Douhet, questo il suo nome, cerca invano di convince-
re Cadorna, che lo ha in cordiale antipatia, da lui ricambiata,
dell’importanza del bombardamento aereo; ma altri intanto
si erano attrezzati in tal senso, mentre l’Italia appariva più in
ritardo su questo mezzo che, con tragica esattezza, Douhet
prevedeva sarebbe stata l’arma del futuro. Le Forze arma-
te italiane, dall’esordio della guerra, e senza alcuna modifi-

23
Cfr. Douhet 1921.

102­­­­
ca strategica fino a Caporetto – quando le cose dovranno,
almeno in parte, cambiare –, sono bloccate sull’ossessione
dell’“avanzata” della fanteria imposta da Cadorna a truppe
sempre più stanche e demotivate, l’avanzata su terra “ad ogni
costo”. Ma va detto che, pur partito in ritardo, sul finire del
conflitto, il ricorso all’arma aerea diventerà massiccio, e ad-
dirittura risulterà «determinante per la vittoria»24.
Sono dunque i tedeschi i primi a servirsi del bombarda-
mento aereo, come sono stati i primi a usare massicciamente i
sommergibili per silurare navi. Hanno cominciato a colpire, in
modo artigianale, Parigi nell’agosto 1914, ossia poche settima-
ne dopo l’inizio del conflitto. E la stessa Londra era già stata
oggetto, a partire dal 1915, di incursioni notturne dei famosi
dirigibili Zeppelin (dal nome del loro inventore, Ferdinand
von Zeppelin, tenente generale delle Forze armate tedesche,
che muore nel marzo del ’17); soltanto nel 1916 il Kaiser diede
il via libera ai bombardamenti delle città, e dunque sui civili:
benché fossero facilmente contrastati e bersagliati dalla con-
traerea di terra e di cielo, quegli «ingombranti mostri lunghi
più di centocinquanta metri, con un diametro di diciotto me-
tri e un’altezza di ventiquattro»25, riempiti di gas, uccisero ol-
tre cinquecento persone. La situazione cambia precisamente
nell’estate del ’17, quando il pallone-dirigibile viene sostituito
da aeromobili ancora più grossi, ma più protetti.
Londra viene colpita, piuttosto duramente, il 13 giugno,
non dagli Zeppelin bensì dai bombardieri chiamati Gotha
dal nome della ditta produttrice, la Gothaer, che però in-
tanto, visto il successo del prodotto, aveva dato la licenza
di costruzione alla Ssw, ossia la Siemens-Schuckert Werke.
Le forniture giungono copiose nella primavera del ’17, e i
Gotha vengono felicemente impiegati sulla popolazione lon-
dinese nella cosiddetta “Operazione Türkenkreuz”. Si tratta

24
F. Caffarena, La guerra aerea, in Labanca (a cura di) 2014, p. 115 (ma
vedi l’intero contributo).
25
Hallgarten 1972, p. 95.

103­­­­
di una delle prime incursioni lunghe e sistematiche su un
centro urbano, per giunta su una delle più importanti città
del mondo: la cosa non manca di suscitare, accanto a panico
e choc, anche fascinazione. Così viene descritta da un testi-
mone: «aeroplani nemici viaggiavano verso le nuvole simili a
piccoli uccelli d’argento e il viaggio era osservato da migliaia
di uomini e di donne [...] Era stupefacente perché era così
bello»26. Quello spettacolo causerà molti morti (162) e feriti
(426), distruggendo abitazioni, ponti, edifici pubblici, mon-
dani e religiosi, e, appunto, procurando un terribile choc alla
cittadinanza, che, tutto sommato, aveva vissuto fino ad allora
la guerra come qualcosa di relativamente estraneo, anche se i
ragazzi e gli uomini del Regno Unito andavano a morire, ma
fuori, appunto; gli inglesi non avevano avuto, né avranno,
a parte questi modesti episodi, “la guerra in casa”. Tra giu-
gno 1917 e maggio 1918, la campagna aerea germanica sulla
Gran Bretagna, condotta con i bombardieri Gotha ai quali
si aggiungerà un altro tipo di velivolo da guerra, il Riesen-
flugzeug, provocherà 4743 vittime (1394 morti e 3349 feriti),
di cui più della metà a Londra, producendo danni materiali
per poco meno di tre milioni di sterline, di cui oltre due nella
capitale. Si discute oggi in sede storiografica dell’efficacia di
quelle azioni: non sarà stata enorme in termini economici e
militari, ma è stata significativa sul piano psicologico, in ri-
ferimento alle popolazioni urbane, ottenendo però, sovente,
in un certo senso, come per la guerra sottomarina, un effet-
to opposto a quello preventivato dalle autorità germaniche.
La popolazione londinese, prima stupefatta, poi inferocita,
accrescerà la volontà di resistenza piuttosto che affievolirla.
Inoltre quelle azioni indurranno le autorità inglesi a munirsi
di un efficiente servizio di difesa aerea, che tornerà utilissimo
nel 1940 per contrastare la nuova, stavolta davvero micidia-
le campagna di bombardamenti su Londra da parte ancora

26
Kern 1988, p. 394.

104­­­­
dell’aviazione tedesca, in quell’occasione recante la svastica
sui velivoli27.
Mentre la Germania porta avanti la sua guerra, facendo il
muso duro ma spesso ottenendo effetti paradossalmente op-
posti a quelli perseguiti, il palcoscenico bellico rimane fermo
nei risultati: la Russia, persino la Russia in fibrillazione da
marzo, con il suo governo provvisorio, respinge la proposta
di armistizio che le era stata avanzata dalla Germania in mag-
gio. Si sente più forte ora, in effetti, perché Aleksandr Ke-
renskij, che nel governo L’vov è ministro della Guerra (dopo
aver annunciato che non saranno più accolte le dimissioni di
alti ufficiali e che i disertori saranno puniti, trattandosi ormai
di una cifra preoccupante, ossia oltre due milioni), ha sosti-
tuito il generale Alekseev che non ha dato buona prova, no-
minando a capo delle Forze armate russe il generale Aleksej
Brusilov. Costui invece ha alle spalle un ciclo di notevolissime
offensive contro i tedeschi nell’anno precedente, e diventerà
poco dopo una delle grandi figure dell’Armata Rossa. L’e-
sercito russo ne trae subito beneficio, ma le nuove offensive,
o meglio controffensive decise da Kerenskij non avranno il
successo sperato, cosa che finirà per favorire ulteriormente lo
sviluppo dei Soviet che intanto, a Pietrogrado e in altri centri,
aumentano di numero e ampliano la loro sfera di potere.
Guerra immobile, ma guerra che da territoriale si fa com-
piutamente europea. Mentre la Romania, alleata dell’Intesa,
comincia a sentirsi schiacciata dalla pressione bulgaro-tede-
sca, all’interno dello stesso, difficile e perennemente agitato
scacchiere balcanico ecco arrivare un nuovo soggetto, la Gre-
cia, che dichiara guerra a tutti gli attori del fronte triplicista28.
È chiaro che il piccolo Stato, all’epoca un regno, pensa di
cogliere l’occasione per strappare qualche lembo di terra, e

27
I. Castle, London, Bombing of, in http://encyclopedia.1914-1918-onli-
ne.net.
28
Cfr. M. Dogo, Gli ingressi in guerra dei paesi balcanici. 1914-1917.
Irredentismi, scommesse e costrizioni, in Scavino (a cura di) 2015, pp. 15-31.

105­­­­
di storia, al suo nemico di sempre, la Turchia, schierata a
fianco delle potenze centrali (in realtà nei trattati di pace la
Grecia otterrà sì qualcosa, ma non dalla Turchia, bensì dal-
la Bulgaria, appartenente anch’essa al fronte degli sconfitti).
Al di là dei lontani precedenti, il contrasto risale agli anni
Novanta del secolo XIX, e proseguirà, in varia forma, lungo
tutto il secolo XX e oltre, arrivando ai nostri giorni, sia pure
in forme ora acute ora sopite da intese parziali, imposte da
potenti vicini o dalla cosiddetta “comunità internazionale”,
dominata da pochi attori, in testa, allora, Gran Bretagna e
Francia (ma gli Usa proprio con l’intervento cominceranno a
scalzare quel predominio).
Anche sull’intervento della Grecia nel conflitto si registra-
no pressioni e condizionamenti, dopo che gli Alleati hanno
bloccato le coste e costretto re Costantino (che va in esilio
in Svizzera) e anche l’arciduca Giorgio ad abdicare qualche
settimana prima, con la proclamazione forzata del secondo
figlio, il principe Alessandro, al soglio regale. Le potenze
alleate si sono spinte ben oltre le minacce, addirittura sbar-
cando dei marines ad Atene, bombardando la capitale greca,
e imponendo un blocco navale che colpirà tutto il Sud del
paese, aggravando la situazione delle popolazioni civili. Sono
pressioni indebite e forme gravi di limitazione della sovrani-
tà nazionale; esse hanno un appoggio interno in Eleuthérios
Venizélos, il vincitore delle guerre balcaniche, portatore del
sogno della “Grande Grecia”. Venizélos diventa primo mi-
nistro di un governo provvisorio già nell’agosto del ’16, so-
stenuto da Gran Bretagna e Francia, che di fatto si affianca
e si contrappone al governo legittimo avallato dal re. Dopo
l’abdicazione di quest’ultimo, Venizélos si affretterà, appun-
to in giugno, a dichiarare guerra agli Imperi centrali e a quel-
lo ottomano. Gli Alleati, insomma, vellicano il sogno pur di
portare il paese in guerra al loro fianco. Il risultato sarà alla
fine del conflitto la cessione di Smirne e dell’entroterra alla
Grecia, sulla base di un trattato (Sèvres, 1919) che Kemal
Atatürk, giunto al potere nel maggio 1920 – nello stesso anno

106­­­­
in cui il sovrano greco Alessandro decedeva improvvisamen-
te e prematuramente per il morso di una scimmia (esempio,
secondo Winston Churchill, del ruolo imprevedibile del ca-
so nella storia!), favorendo così il ritorno di Costantino29 –,
straccerà, riprendendosi Smirne dopo una nuova guerra sta-
volta limitata a greci e turchi, che finirà con la rinuncia for-
male della Grecia in un successivo trattato (Losanna, 1923).
L’odio greco-turco, che gazzettieri superficiali pretendono
sia atavico, è stato piuttosto costruito e fomentato opportu-
namente, e se ne vedono tuttora gli effetti. Le potenze impe-
rialiste, insomma, decidevano i destini dei popoli e dei loro
governi, esattamente come oggi.
All’interno degli Stati belligeranti, le forze alle quali com-
peterebbe la mission di tutelare i più deboli, i subalterni,
appaiono ridotte a emettere auspici, a esprimere speranze,
tutt’al più a deplorare e a condannare con vibranti discorsi
destinati ad arricchire il catalogo dell’impotenza delle sinistre
europee. Ad esempio, il 30 giugno, la Direzione del Partito
socialista italiano, unitamente alla dirigenza del sindacato di
riferimento, la Cgdl, approva un documento in cui afferma
«non essere tollerabile per il popolo italiano la previsione di
un terzo inverno in trincea». Il testo, bloccato dalla censura,
sarà poi espresso dal deputato Treves, pochi giorni più tardi,
nell’esercizio delle sue funzioni alla Camera, in un discorso
che diverrà, come vedremo, uno dei più efficaci slogan con-
tro la guerra30. E, alla ripresa dei lavori parlamentari, con il
nuovo governo Boselli appena insediato, il leader socialista, il
più autorevole dei leader, Filippo Turati, chiederà al governo
di affrettare la conclusione del conflitto, auspicando la pace,
anche se, si sentirà in dovere di precisare, non una pace ad
ogni costo, ma una pace giusta e onorevole. In fondo le po-
sizioni socialiste sono non troppo lontane da quelle espresse
dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino, due giorni prima,

29
Cfr. Ferguson 2008, p. 194.
30
Cfr. Malatesta 1935, p. 147.

107­­­­
in seduta ristretta; se nelle relazioni tra autorità politica e au-
torità militare è la seconda a prevalere, nel confronto/scon-
tro politico fra destra e sinistra è la seconda a soccombere,
accodandosi alla prima. È significativo che il nuovo governo
approvi i “Provvedimenti contro i disertori”, proposti dal
ministro della Guerra, generale Gaetano Giardino, che se-
guono la scia del decreto Boselli e anticipano lo spirito del
successivo decreto Sacchi dell’ottobre: ai soldati viene data
una sola alternativa, morire maciullati dalle bombe del nemi-
co, o morire freddati dalle scariche di fucili dei commilitoni.
Morire (nobilmente) per la patria, recita la retorica nel primo
caso, sottolineando trattarsi di un “privilegio”; ricevere dalla
patria la (giusta) punizione per aver cercato di sottrarsi (igno-
bilmente) a quel privilegio, nel secondo.
7.
Luglio
«Il prossimo inverno non più in trincea»

Signori del mio governo e di tutti i governi d’Europa, udite la voce


che sale da tutte le trincee in cui è squarciato il seno della madre
terra; essa detta l’ultimatum della vita alla morte: il prossimo inver-
no non più in trincea.

È il 12 luglio 1917 e la scena è la Camera dei Deputati, a Ro-


ma; chi proferisce tali parole è Claudio Treves, una delle figure
storiche del movimento socialista italiano, personaggio fra i più
autorevoli della scena politica nazionale, ben noto anche oltre
frontiera, nell’ambito di quella che è stata fino a tre anni prima
la koinè della Internazionale, seppellita dal voto della Spd – il
partito guida del socialismo – il 4 agosto 1914, al Reichstag
di Berlino, a favore dei crediti di guerra. La frase conclusiva
del discorso, destinata a diventare un simbolo, ma anche se-
gnale della impotenza delle forze di opposizione, e della loro
sudditanza alle scelte governative, è un appello, un invito, un
monito, che, ovviamente, non sarà tenuto in alcun conto. Del
resto nel suo discorso Treves ribadisce l’ambigua formula del
«Né aderire, né sabotare» escogitata nel 1915 dal patriarca del
Psi, Lazzari, ripetendo le consuete parole sul diritto dei popoli
e sul rifiuto delle annessioni (discorso che evidentemente non
vale per le ambizioni italiane sul Sud Tirolo!)1.
Né si comporteranno diversamente i governi delle altre
nazioni impegnate in un conflitto del quale non si vede via
d’uscita, mentre i cadaveri dei soldati continuano a nutrire

1
Cfr. Malatesta 1935, p. 147; Ambrosoli 1961, pp. 211-12.

109­­­­
la terra d’Europa. I socialisti sono in un vicolo cieco, a loro
volta: coloro che si sono schierati, a partire dai tedeschi e dai
francesi, per la collaborazione con le rispettive classi dirigen-
ti, giorno dopo giorno stanno constatando la crudele immo-
bilità di quella guerra, i cui danni ricadono precisamente,
soprattutto, su quel popolo proletario di cui essi dovrebbe-
ro essere i rappresentanti. Quanto ai socialisti italiani, divisi
nelle loro due anime, i rigidi e i riformisti, dibattono e si di-
battono nel recinto in cui sostanzialmente sono confinati, in
maniera inconcludente. Poco prima che il mese finisca, tra il
23 e il 27 luglio, la Direzione del partito, riunita a Firenze,
decide subito la partecipazione di una sua delegazione all’in-
contro di coloro che si riconoscono ancora nel Manifesto di
Zimmerwald, contro la guerra, del settembre 1915, incon-
tro annunciato per il mese seguente a Stoccolma. Lo spirito
dell’internazionalismo proletario sopravvive, dunque, sia pur
in sordina, in qualche frammento delle sparse membra del
socialismo europeo. La Conferenza di Stoccolma non si terrà
per le difficoltà di varia natura che la situazione logistica e i
governi nazionali le opporranno; ma le parole d’ordine uffi-
ciali dei socialisti italiani, riaffermate nel discorso di Treves,
avranno una buona presa sulle masse popolari2. In realtà una
parte minoritaria, anche se non minuscola, del partito respin-
gerà come troppo timide quelle parole d’ordine: in margine
alla riunione di Firenze, i rappresentanti della frazione in-
transigente rendono noto un testo nel quale si invita il partito
a metter da parte ogni forma di collaborazionismo, lasciando
cadere il concetto «patria borghese», e ad adottare una tatti-
ca «strettamente e sinceramente rivoluzionaria», aderendo a
eventuali moti popolari contro la guerra3. Ma così non sarà
e i moti, che pure stanno per palesarsi in forma violenta a
Torino, il mese dopo, saranno del tutto indipendenti dalle
iniziative del partito e del sindacato socialista.

2
Cfr. Candeloro 1978, pp. 177-78.
3
Rinvio per i documenti a Caretti 1974.

110­­­­
Il monito di Treves, dunque, non verrà raccolto, né in pa-
tria, né nelle altre patrie. Nella sua, anzi, imperversa la repres-
sione: i soldati possono scegliere il nemico, in fondo: possono
scegliere se farsi ammazzare o essere fatti prigionieri dagli
austriaci, o dagli italiani, mediante fucilazioni o lunghe pri-
gionie, facilmente l’ergastolo. Sempre più si colpisce soltanto
per “ammonire”, per “dare degli esempi”, insomma per per-
petuare il clima di terrore che Cadorna ha instaurato nei re-
parti alla caccia di sovversivi, disfattisti, traditori. L’esempio
più clamoroso è il processo che si avvia verso fine mese in una
località della Venezia Giulia, Pradamano, oggi in provincia di
Udine. Il processo era stato voluto fortemente dalle autorità
militari, Cadorna in testa, e da ambienti politici nazionalisti
estremi, anche se è un processo fondato su elementi quasi
impalpabili, un processo politico che pretendeva di mettere
in luce una trama sovversiva in seno all’esercito per minar-
ne il morale e indebolirne la compattezza contro il nemico.
Si tratta in realtà, essenzialmente, di una iniziativa contro i
socialisti, e in generale contro coloro che si erano da sempre
espressi in senso favorevole alla pace e al non intervento ita-
liano nel conflitto; rappresenta quindi l’avvio, ben prima di
Caporetto, di un’azione concentrica che cercherà di mettere
fuori gioco, se non fuori legge, il Psi.
L’impianto del processo è indiziario, e costruito su fram-
menti che il Tribunale militare cerca di mettere uno accan-
to all’altro per dimostrare la tesi del complotto sovversivo,
e per puntare l’indice accusatorio contro i socialisti, den-
tro e fuori le Forze armate. Indubbiamente, lungo i mesi
precedenti e in parte anche prima, vi erano stati sporadici
tentativi di infiltrazione e atti volti a costruire, in seno ai
reparti, una contronarrazione della guerra: in sostanza, una
contropropaganda rispetto a quella martellante e ossessiva
del nazionalismo, che aveva costruito, fin dal 1911, con la
campagna per andare a Tripoli, una robusta egemonia in
campo ideologico. Uno degli imputati aveva accennato in
una lettera a un commilitone: «non tralascio di fare della

111­­­­
buona e sana propaganda»4. L’uso delle lettere come capi
d’accusa, in una totale assenza di elementi fattuali, a dispetto
dell’apparato propagandistico dispiegato contro il nemico
interno, e la sovversione anarco-socialista non forniranno
materiale sufficiente per accogliere le tesi accusatorie che
pretendevano di dimostrare il tradimento degli imputati, i
quali, in realtà, come nella stragrande maggioranza dei ca-
si, si limitavano a deplorare, esecrare, sperare, auspicare. Il
rifiuto della guerra era, fin dal ’15, non una intenzione di
lottare contro la guerra, ma semplicemente, perlopiù, paura,
stanchezza e incomprensione. Perché si combattesse, nessu-
no di quelle centinaia di migliaia di uomini, ragazzi, adulti lo
sapeva, e morì senza saperlo. Le sentenze, emesse all’inizio
di agosto, saranno inusualmente moderate, a dimostrazione
della inconsistenza delle accuse5.
In realtà il processo di Pradamano viene montato dalla
propaganda nazionalista e interventista anche come risposta
a uno dei fatti più gravi di quell’anno, nell’ambito degli am-
mutinamenti al fronte: quello concernente la Brigata Catan-
zaro, che avviene nello stesso mese, nella notte tra il 15 e il
16, in località Santa Maria La Longa. Si tratta di una vera e
propria rivolta, una «gravissima rivolta», si legge nella sen-
tenza, con uso delle armi da parte di numerosi soldati sempli-
ci contro gli ufficiali e i carabinieri. La rivolta in realtà viene
sedata rapidamente con esecuzioni sommarie, immediate, di
“colpevoli”, con decimazioni casuali, e con rinvii a giudizio
finiti con condanne che andranno da decine di anni di reclu-
sione alla fucilazione al petto o alla schiena. Già al mattino
del 16 vengono immediatamente “passati per le armi” ben
16 soldati trovati «colle arme cariche, le canne ancora scot-
tanti» e altri 12 della «compagnia ammutinatasi», secondo il
principio, orribile e illegale, ma ribadito dallo stesso Cadorna

4
In Forcella e Monticone 1972, p. 217.
5
Cfr. A. Monticone, Introduzione a Forcella e Monticone 1972, pp.
xciv-xcv; la sentenza è ivi, pp. 192 ss.

112­­­­
come necessario in una circolare del 1° novembre ’16, della
decimazione. I 12, va precisato, vengono estratti a sorte. E il
generale Tettoni, comandante del VII Corpo d’Armata, nel
suo rapporto scriverà ancora, con marziale orgoglio e consa-
pevolezza del proprio ruolo, che la decimazione è stata da lui
ordinata, sulla base della circolare del Comando supremo,
«sia per il reato di cui collettivamente eransi resi colpevoli,
sia per salutare esempio sugli elementi deboli, inerti e pusil-
lanimi che col loro contegno passivo avevano favorito l’opera
dei facinorosi». Parole che saranno più tardi ripetute davanti
alla Commissione di inchiesta su Caporetto, nell’aprile 19186.
I morti saranno alla fine una trentina, di mano italiana, get-
tati in fosse comuni. Un esempio per chi avesse in animo
di sottrarsi al “dovere”. Assisterà alla fucilazione Gabriele
d’Annunzio, poeta-aviatore, instancabile lirico della guerra,
il cui campo volo è nei paraggi, e che un gruppo dei rivoltosi
ha cercato di assaltare: egli scriverà, con ipocrita compassio-
ne, un testo su quei morti, ostentando comprensione per le
ragioni del tumulto così tragicamente finito:

Dissanguata da troppi combattimenti, consunta in troppe trin-


cee, stremata di forze, non restaurata dal troppo breve riposo, co-
stretta a ritornare nella linea del fuoco, già sovversa dai sobillatori
come quel battaglione della Quota 28 che aveva gridato di non
voler più essere spinto al macello, l’eroica Brigata “Catanzaro” una
notte, a Santa Maria la Longa, presso il mio campo d’aviazione si
ammutinò. [...] La sedizione fu doma con le bocche delle armi
corazzate. Il fragore sinistro dei carri d’acciaio nella notte e nel mat-
tino lacerava il cuore del Friuli carico di presagi. Una parola spa-
ventevole correva coi mulinelli di polvere, arrossava la carrareccia,
per la via battuta: «La decimazione! La decimazione!». L’imminen-
za del castigo incrudeliva l’arsura [...]. Di schiena al muro grigio
furono messi i fanti condannati alla fucilazione, tratti a sorte nel

6
La sentenza è ivi, pp. 186-87. Sulla vicenda, si veda l’accurata e accorata
ricostruzione di Pluviano e Guerrini 2007. La relazione del generale è citata
in Monticone 1972, pp. 227-28.

113­­­­
mucchio dei sediziosi. Ce n’erano della Campania e della Puglia,
di Calabria e di Sicilia: quasi tutti di bassa statura, scarni, bruni,
adusti come i mietitori delle belle messi ov’erano nati. Il resto dei
corpi nei poveri panni grigi pareva confondersi con la calcina, quasi
intridersi con la calcina come i ciottoli. E da quello scoloramento
e agguagliamento dei corpi mi pareva l’umanità dei volti farsi più
espressiva, quasi più avvicinarmisi, per non so qual rilievo terribile
che quasi mi ferisse con gli spigoli dell’osso. I fucilieri del drappello
allineati attendevano il comando, tenendo gli occhi bassi, fissando i
piedi degli infelici, fissando le grosse scarpe deformi che s’appiglia-
vano al terreno come radici maestre. Io traversavo il muro col mio
penoso occhio di linee; e scoprivo i seppellitori anch’essi allineati
dall’altra parte con le vanghe e con le zappe pronti a scavare la
fossa vasta e profonda. Non mi facevano male come gli sguardi
dei condannati alla fossa. I morituri mi guardavano. I loro sguardi
smarriti non più erravano ma si fermavano su me che dovevo essere
pallido come se la vita mi avesse abbandonato prima di abbando-
narli. Gli orecchi mi sibilavano come nell’inizio della vertigine, ma
era il ronzio delle mosche immonde7.

In realtà, a dispetto della propaganda della destra, nelle


rivolte del ’17 – l’anno in cui questi episodi saranno più gra-
vi e numerosi – l’azione socialista risulterà tutto sommato
modesta, per incapacità della leadership e difficoltà di di-
rigere masse contadine, analfabete, spoliticizzate e animate
perlopiù da sentimenti ostili verso le masse operaie, bacino
sociale del partito, composte da “imboscati”, privilegiati nei
salari e nelle garanzie8. La realtà era piuttosto diversa, con
una forbice tra prezzi e salari che ha toccato nel tardo 1916 il
suo picco massimo, e «quello che per alcune ristrette isole del
paese è potuto apparire come un miglioramento del tenore
di vita delle famiglie operaie fu in realtà il frutto della immis-
sione massiccia sul mercato [...] di manodopera femminile

7
Lo si legge in http://www.ilportaledelsud.org/brigata_catanzaro.htm.
8
Cfr. P. Melograni, Documenti sul “morale delle truppe”, in Il PSI e la Gran-
de Guerra 1967, pp. 217 ss. Si tratta comunque di un articolo dalle conclusioni
discutibili, che vengono riprese ampiamente in Melograni 2015, passim.

114­­­­
e minorile, sottoposta a condizioni di sfruttamento partico-
larmente gravose»9. Questa era la propaganda, di fatto, a cui
facilmente finivano per credere gli strati contadini, accettan-
do inconsapevolmente la politica della divisione/contrap-
posizione. In realtà, i proletari impegnati nelle lavorazioni
belliche, in officina, devono lottare, e lo fanno specialmente
in questo anno, per difendere la quota fissa di salario che il
padronato invece deprime a vantaggio della quota legata alla
produzione, e le azioni rivendicative avviate davanti ai Comi-
tati regionali per la mobilitazione saranno numerosissime. Si
registrano inoltre, in quest’epoca, forme di protesta illegali,
con tutti i rischi che ciò comporta, conseguenze non piccole
per quegli operai e le loro famiglie10.
Sarà anche per effetto della notizia, per quanto soffocata,
della rivolta della Catanzaro, che qualcuno provvede a redi-
gere un volantino da affiggere ai cantoni delle strade di Mi-
lano, un vero e proprio appello a ribellarsi contro la guerra,
e a imporre la pace: «Codesta guerra è una strage di poveri
cristi», vi si afferma senza giri di parole, e si denunciano i
ricchi che ne traggono benefici mentre il popolo muore senza
cibo, senza possibilità di condurre una esistenza accettabile,
vedendo i propri cari morire al fronte. E si invoca «una for-
ca rizzata su ogni piazza». Non sappiamo se si sia riusciti a
stampare e diffondere il volantino, annunciato in una lettera
al re11, ma v’è fondato motivo di dubitarne; vale la pena però
di segnalarlo come una delle innumerevoli testimonianze del-
la stanchezza e della opposizione, disorganizzata ma diffusa,
alla prosecuzione della carneficina.
Continuare la guerra: il refrain che si suona nelle diverse
cancellerie è questo. In Russia, l’offensiva a Ovest, in Galizia,
decisa a fine giugno dal governo provvisorio su spinta del
ministro della Guerra Kerenskij, e affidata al grande Brusi-

9
Ragionieri 1976, p. 2029.
10
Cfr. Camarda e Peli 1980, pp. 161 ss.
11
In Monteleone 1973, p. 137.

115­­­­
lov, viene avviata il giorno 1° del mese. Il governo non pare
preoccupato della situazione di un paese al collasso, incuran-
te dei crescenti episodi di fraternizzazione tra popolazione e
soldati: come lo stesso Kerenskij ammetterà, la ragione prima
(o seconda) era precisamente volta a riportare la disciplina
nell’esercito. Invece accadrà l’opposto, in un generale venir
meno della disciplina militare12. In effetti, l’offensiva, molto
ben congegnata e condotta, procurerà tuttavia un avanza-
mento di non oltre una ventina di chilometri, e sarà costret-
ta a fermarsi proprio dal rifiuto delle truppe di combattere.
Kerenskij ha commesso un grave errore di sottovalutazione
al riguardo. A quel punto, agli eserciti austro-germanici non
rimarrà che contrattaccare: troppo ghiotta è l’occasione di
procedere contro un esercito allo sbando, e di occupare ter-
ritorio nemico. Cosa che riesce facilmente, nella seconda me-
tà del mese, per una profondità di ben 130 chilometri. La
catastrofe russa è alle porte. Ora la situazione si complica a
seguito della crisi di governo, con la fuoriuscita del partito
dei Cadetti e la successiva nascita, il 21 luglio, dell’Esecu-
tivo guidato da Kerenskij, già di fatto capo del governo, in
certo modo, con L’vov. Il nuovo governo affida il comando
delle truppe al generale Lavr Georgievič Kornilov, che sosti-
tuisce Brusilov, per ristabilire l’ordine nell’esercito e la pace
nel paese, ma il generale intende il compito a modo proprio,
marciando sulla capitale con un proclama in cui si propone
quello che tutti i golpisti, di ogni epoca e nazione, dichiara-
no: “salvare il paese”. Risultato: lo stesso primo ministro lo
fa mettere agli arresti, anche se poco dopo il generale riesce
a fuggire, generando il sospetto, non peregrino, di una com-
bine con il politico. Ma il fatto, di modestissima importanza
militare (Kornilov pensa di prendersi la Russia con un solo
corpo di Cavalleria!), avrà conseguenze importantissime. I
bolscevichi, per protesta contro l’inutile e sanguinosa (per

12
Cfr. Kolonitskii, War as legitimisation of Revolution cit., in Afflerbach
2015, p. 75.

116­­­­
i russi) offensiva galiziana, il giorno 16 scendono in piazza a
Pietrogrado in una gigantesca manifestazione probabilmente
spontanea, che essi stessi, stando alle dichiarazioni dei lo-
ro capi, faticano a controllare, e dalla quale comunque non
avrebbero potuto esentarsi. Scriverà Trockij, al riguardo:

Era davvero evidente, essendo dato per certo l’intervento di


bande controrivoluzionarie, che si sarebbero prodotti degli avveni-
menti sanguinosi. Sarebbe stato possibile, è vero, privare le masse
di ogni direzione politica, decapitarle, per così dire politicamente,
rifiutando di dirigerle, abbandonarle al proprio destino. Ma non
potevamo né volevamo, in quanto partito operaio, adottare questa
tattica di Ponzio Pilato: avevamo deciso di unirci alle masse e di
fare corpo con loro, per introdurre nella loro agitazione elementare
il più alto grado di organizzazione possibile viste le circostanze, e di
ridurre così al minimo il numero delle vittime probabili.

Le vittime invece ci saranno e, come nota sempre Trockij,


la stampa borghese e gli ambienti governativi danno ogni
colpa ai bolscevichi, che da elementi d’ordine e disciplina
vengono invece additati come istigatori e sobillatori. Una in-
terpretazione che ancora oggi possiamo leggere in serie pon-
derose opere storiografiche. Quello che è comunque certo
è che, a seguito di tali eventi, il governo emetterà mandati
di cattura per i leader della frazione bolscevica del Posdr. E
sarà, quindi, questo luglio un momento spartiacque: i bol-
scevichi o i loro avversari, Lenin o Kerenskij, tertium non
datur. Da adesso la lotta diventa senza quartiere. Questo è
un primo round, e Trockij, come Lenin, ne è pienamente
consapevole. Il rimpasto di governo non è nulla, e non risol-
verà nulla. «Occorre un cambio radicale di tutto il sistema.
Ci vuole un potere rivoluzionario». Cercare di fermare la
marcia delle masse verso il cambiamento rivoluzionario è
inutile. Né risolve la situazione della repressione. E se per
avventura Kerenskij e il suo ministro di polizia, Cereteli,
dovessero riuscire a fermare questo processo, a bloccare la
marcia rivoluzionaria, a ristabilire l’“ordine”, essi «saranno

117­­­­
i primi, dopo di noi, ovviamente, a cadere vittime di questo
“ordine”»13.
Il fatto offre a Kerenskij un magnifico pretesto per avvia-
re una repressione che vorrebbe “risolvere” una volta per
tutte la “questione bolscevica”. Viene chiusa e soppressa per
decreto la «Pravda», si fanno affluire in città truppe fedeli,
ed è ordinato l’arresto di Kamenev, Zinov’ev e Lenin, ma
solo il primo viene preso, mentre gli altri due riescono a
rifugiarsi in Finlandia, che intanto si è distaccata dall’Im-
pero. Successivamente vengono imprigionati anche Trockij,
che era rientrato nel maggio, Anatolij Lunačarskij (prossimo
ministro dell’Istruzione) e Alexandra Kollontaj (anch’essa,
studiosa, militante femminista e marxista, destinata a gui-
dare un ministero dopo l’avvento di Lenin al potere, quello
dell’Assistenza sociale; prima donna al mondo a esser tito-
lare di un dicastero). La repressione è dura, e sarà l’ultima,
costituendo uno stimolo forte per convincere Lenin che si
tratta, d’ora in avanti, di un aut aut: o i bolscevichi si impa-
droniscono del potere, o saranno schiacciati per sempre. A
fine mese, in assenza degli arrestati e degli esuli, si tiene il VI
Congresso del Posdr, il primo dopo quello di Londra di ben
dieci anni avanti. Saranno Stalin e Bucharin (futuri alleati
nella lotta contro la sinistra bolscevica, e poi nemici, con la
defenestrazione e l’uccisione del secondo) a presentare le
relazioni principali sia pure sulla base di un opuscolo buttato
giù da Lenin nel suo rifugio finlandese. La parola d’ordi-
ne non è più “Tutto il potere ai Soviet”, in quanto quella
espressione indicava un passaggio pacifico di consegne, cosa
che con lo scontro in atto non era più possibile. Insomma,
con la borghesia e i suoi rappresentanti non si va a patti, e
dunque la sola strada percorribile è quella immediata verso il
socialismo. Alle perplessità di alcuni presenti, dubbiosi che
si possa instaurare il socialismo nell’arretrato paese rimasto

13
L. Trockij, Le giornate di luglio, in «Vpëred», luglio 1917, ora in
Trotsky 1998, pp. 77-78.

118­­­­
inchiodato per secoli dallo zarismo, sarà lo stesso Stalin a ri-
spondere, sornione: «sarebbe una indegna pedanteria chie-
der che la Russia debba “aspettare” a trasformarsi in senso
socialista fino a quando l’Europa non “abbia cominciato”».
E aggiungerà parole che hanno il sapore di una profezia:
«non è da escludere che la Russia sia il paese che mostra la
strada verso il socialismo»14. Uno Stalin che sembra ripren-
dere le vecchie tesi di colui che ne sarà di lì a poco il suo più
acerrimo nemico, fino a che non sarà eliminato da un sicario
in Messico nel 1940, Lev Trockij.
Con il deterioramento della situazione politico-militare in
Russia, si avrà uno spostamento di truppe tedesche dall’Est
all’Ovest, ossia verso la Francia: proprio ciò che il comandan-
te Pétain temeva15. Nella Francia dove Pétain è ormai sovrano
militare, e “il Tigre” Clemenceau impera sulla vita politica,
grazie anche alla enorme popolarità acquistata, pur al di fuori
dei governi, e non ha esitazioni a soffiare sul fuoco: disfattisti
e pacifisti sono la stessa cosa, nel suo discorso politico, gli uni
e gli altri nemici della Francia. Un suo intervento memorabi-
le, anche per la forza retorica, al Senato del 22 luglio costrin-
gerà alle dimissioni il ministro dell’Interno Louis-Jean Malvy,
“colpevole” di aver coccolato i pacifisti: «Io vi accuso di tra-
dire gli interessi della Francia», suonerà l’enfatica chiusa del
discorso16, che fa comprendere come ormai il clima politico
sia avvelenato e la caccia al “nemico interno” stia diventando
altrettanto importante quanto la lotta al nemico esterno.

Il mese si chiude con l’avvio di una delle battaglie più


lunghe, disastrose e inutili dell’intero conflitto, detta di
Passchendaele, nelle Fiandre, o terza battaglia d’Ypres, di cui

14
Cfr. Carr 1964, pp. 93-94. Per le vicende di luglio vedi anche Graziosi
2007, pp. 89-90, ben diversamente orientato, convinto invece che la repres-
sione di Kerenskij sia una risposta al colpo tentato dai bolscevichi.
15
Cfr. Pedroncini 1977, pp. 112 ss.
16
Cit. in Becker 2005, p. 31.

119­­­­
sono protagoniste le truppe britanniche, dislocate sul territo-
rio in appoggio a quelle francesi, contro quelle germaniche.
Preparata dall’esplosione delle mine disposte sotto le linee
tedesche intorno alla cittadina di Messines (lo abbiamo già
visto nel mese di giugno), la battaglia, considerata nel suo
corso lungo, durerà fino a ottobre inoltrato, producendo
340.000 morti fra i britannici e 202.000 fra i tedeschi: il ge-
nerale britannico, nobile e figlio di generale, Hubert Gough
ne parlerà come della «più insoddisfacente delle maggiori
operazioni britanniche in Francia»17. Eppure egli stesso farà
come Cadorna, accusando i soldati che manda a morire senza
alcun vero scopo strategico di essere stati inadatti al compi-
to, in quanto irlandesi. Per la sua crudezza, per la insensata
devastazione della zona (a cominciare proprio dalla esplosio-
ne delle mine che devastò il sistema dei canali, provocando
danni enormi alle colture, e trasformando l’intera zona in una
palude fangosa in cui i soldati morivano soffocati dalla mota,
o annegati), per l’uso dell’arma aerea e dei gas asfissianti,
Passchendaele entrerà di diritto nei momenti dell’Armaged-
don della guerra18.
La battaglia sarà definita, anche grazie alle testimonian-
ze agghiaccianti dei soldati, «un monumento di inutilità», e
messa in tal senso accanto a Caporetto19. E come per Capo-
retto, per questa battaglia tanto sanguinosa quanto priva di
risultati vi sono dei responsabili, che ancora una volta sono
i vertici delle Forze armate, dal comandante in capo, qui il
generale Haig, a chi ordina concretamente ai suoi uomini di
andare a morire contro i reticolati e le mitragliatrici del ne-
mico, qui Gough: nessuno, si può dire, tra di loro ha colto le
novità assolute di quella guerra. Eppure anche in questa vi-
cenda non si può svalutare il ruolo della classe politica: Lloyd

17
Cit. in Newman e Evans (a cura di) 1989, p. 268.
18
Si vedano i testi (testimonianze di combattenti) raccolti ivi, pp. 268 ss.
19
J. Winter, Passendaele et Caporetto, deux vains combats, in 14-18. La
très grande guerre 1994, p. 196.

120­­­­
­ eorge, in effetti, che pure ha in antipatia Haig, come ha po-
G
tuto lasciar massacrare, per la “conquista” di poche centinaia
di metri, l’esercito di Sua Maestà? Un esercito, ricordiamo, di
cui fanno parte, sebbene recalcitranti, sudditi delle colonie o
del Commonwealth, come Australia, Nuova Zelanda, Cana-
da, India, che non è facile convincere o portare in Europa20.
Eppure nel mese di giugno in Gran Bretagna è stata creata
una sorta di cabina di regia, il War Policy Committee, per evi-
tare contrapposizioni e sovrapposizioni tra comandi militari
e autorità politica. In altri termini, sebbene la responsabilità
apparentemente più grave ricade sui militari, ossia su Haig
in Gran Bretagna come su Cadorna in Italia, sono le loro
classi politiche ad essere chiamate in causa, per inettitudine
e irresponsabilità. Cionondimeno, il Regno Unito è la sola
delle potenze belligeranti che conservi una supremazia degli
elementi civili sui militari, e in cui il sistema parlamentare
continui a funzionare più o meno regolarmente, anche se la
forma prevale sulla sostanza21.
Sono gli inglesi, d’altro canto, a organizzare nel modo più
lucido e cinico, non da ora, una geopolitica non soltanto per
l’Europa ma anche per il Vicino Oriente, sulla base del patto
segreto Sykes-Picot del 1916, reso noto coraggiosamente da
Lenin alla fine dell’anno ’17 in quanto l’accordo spartitorio
prevedeva compensi anche per la Russia zarista, mentre l’I-
talia era stata deliberatamente esclusa dalla sua conoscenza.
Quel documento segnava il destino dei popoli della regione,
avviando un processo pericolosissimo di destabilizzazione e
lo smembramento dell’Impero ottomano, caratterizzato da
pluralismo religioso e convivenza di etnie22. In tale direzione,

20
Cfr. Robbins 1987, pp. 152 ss.
21
Cfr. F. Bock, Parlamenti, potere civile e potere militare: Germania, Fran-
cia, Italia e Regno Unito, in Audoin-Rouzeau e Becker (a cura di) 2007, pp.
523-35.
22
Una eccellente ricostruzione in chiave di storia diplomatica è Barr
2011.

121­­­­
gli inglesi da tempo addestravano e armavano forze arabe di
emiri ambiziosi interessati, più che ad abbattere il dominio
dei turchi, a costruire personali posizioni di potere, per sé e
per le proprie comunità etnico-religiose. I britannici avevano
altresì dato il via libera anche al saccheggio sistematico di
treni turchi, coinvolgendo le tribù beduine. Sarà un giovane
ufficiale, con una eccellente formazione culturale e un buon
bagaglio diplomatico (lavorava da tempo per l’intelligence del
suo pae­se), il capitano Thomas Edward Lawrence, a fare da
efficace mediatore con le autorità arabe, a cominciare dall’e-
miro Faisal. Lawrence, dal canto suo, sarà protagonista anche
di una serie di azioni di guerriglia, con assalti improvvisi. Il 6
luglio è proprio lui, alla testa di milizie arabe, a conquistare
la città di Aqaba dove si sono asserragliati i turchi, resistendo
a precedenti tentativi della Marina britannica, protetti da una
fortezza imprendibile. Lawrence, però, arriva all’obiettivo at-
traverso il deserto del Nefud, impresa giudicata impossibile
fino ad allora, e cogliendo di sorpresa i difensori di Aqaba, la
cui conquista sarà decisiva per poter poi controllare il mare
e aprendo così la strada per Gerusalemme, che sarà “libera-
ta” a fine anno dalle truppe regolari del generale britannico
Edmund Allenby.
Ma proprio la conquista di Aqaba attraverso l’azione di
Lawrence, e più in generale l’opera degli inglesi, porranno le
premesse per la destabilizzazione dell’intero Medio Oriente,
con conseguenze che sono oggi drammaticamente evidenti.
Howard Brenton, autore della più recente sceneggiatura su
Lawrence – personaggio che ha eccitato la fantasia di scrittori,
drammaturghi e cineasti –, ha osservato con amarezza: «Vi-
viamo nel caos che hanno lasciato»23. Ma lo stesso Lawrence,
deluso dalla “sistemazione” data alla regione dalla Gran Bre-
tagna, ne diverrà critico, allontanandosi dall’azione politica e
diplomatica e dedicandosi alla scrittura, con lavori di pregio,

23
Cit. in [The Economist] 2016. Ma vedi soprattutto Amodeo e Cere-
ghino 2016.

122­­­­
finendo per morire, nel 1935, in un incidente stradale giudi-
cato da qualcuno “misterioso”.
La guerra ad ogni modo produce uno scombussolamento
complessivo del sistema internazionale, e un ridisegno del-
la cartografia, ma sempre sotto l’egida, poco disinteressata,
delle grandi potenze. Si prenda il mondo slavo, in particolare
quello degli slavi del Sud, sottomessi all’Impero austro-unga-
rico, che già nel 1914 hanno dato vita, clandestinamente, a
una organizzazione chiamata Comitato jugoslavo (o Comitato
degli Slavi del Sud) creata da esuli austro-ungarici di origine
serba, croata, macedone, montenegrina. Il 20 luglio, sponsor
Francia e Gran Bretagna, il Comitato si riunisce a Corfù, iso-
la che è parte del Regno di Grecia, da pochi giorni entrato
nella guerra accanto all’Intesa. Al termine dell’incontro i rap-
presentanti di Serbia, Croazia e Montenegro proclamano la
futura costituzione del Regno dei Serbi, dei Croati e degli
Sloveni: è la cosiddetta Dichiarazione di Corfù, documento
fondativo della Jugoslavia, che nondimeno rivela apertamen-
te nel finale la presenza franco-britannica: «Questo Stato sarà
garante delle indipendenze nazionali, del progresso e della
civilizzazione ed un potente baluardo contro la pressione dei
Tedeschi». L’Europa che viene prefigurata per il dopoguerra
è un continente diviso, lacerato da odi profondi. La Jugosla-
via nascerà il 1° dicembre 1918, per essere dissolta, sempre
con la regia di grandi potenze, e a suon di bombe, alcuni
decenni più tardi, quando ormai costituiva una realtà signifi-
cativa, salvo dare poi, nel discorso corrente, la colpa a odi ata-
vici e tribali di serbi, croati, sloveni, montenegrini, macedoni
e, last comers, kosovari. Nel ’18, a conflitto mondiale appena
archiviato, le prospettive internazionali sono tutt’altro che
rasserenanti, e a quel tempo, mentre centinaia di migliaia di
soldati giacevano prigionieri in campi disseminati nel territo-
rio europeo, altrettanti uomini avevano appena avviato il loro
penoso viaggio di ritorno alle loro dimore, offesi nel corpo
e nell’anima, dopo quattro anni di una esperienza che non
avrebbero immaginato neppure nei peggiori incubi.

123­­­­
Eppure la guerra che porta con sé lutti e rivolte, non cessa
di produrre ricchezza e non soltanto grazie alla produzione
e al commercio delle armi. Prendiamo il caso di due emi-
nenti personaggi dell’imprenditoria e della finanza italiana,
entrambi collocati a Torino, capitale industriale d’Italia. Gio-
vanni Agnelli, all’epoca cinquantenne, e Riccardo Gualino,
che di anni ne ha 38: due personalità assai diverse, che fini-
ranno per confliggere, segnando il trionfo del primo e la rovi-
na del secondo, il quale nondimeno saprà rinascere dalle sue
stesse ceneri in altro settore (la cinematografia). Il 18 luglio
1917 viene registrata a Torino la Società di navigazione ita-
lo-americana (Snia): al capitale iniziale di 5 milioni Gualino
contribuisce con 4, di cui 2,5 attraverso la Società marittima
e commerciale italiana. Gli altri soci sono Giovanni Agnelli
(0,5 milioni), Alfredo Angeli (0,3 milioni) e Carlo De Fer-
nex (0,2 milioni). Il fine societario dichiarato è la fornitura di
carbone all’Italia dagli Stati Uniti d’America. Tra i principali
fornitori ci sarà la Fiat, di cui Agnelli è stato il cofondatore
nel 1899 diventandone ben presto, con abilità e con raggiri
dei soci, proprietario unico e deus ex machina. Il rapporto
fra i due imprenditori, pregresso, si spiega con l’inesauribile
creatività, spesso spericolata, di Gualino, ricco di idee più
che di fondi, e la necessità di Agnelli, sempre all’insegna di
una piemontesissima prudenza, di investire quei profitti che
la guerra fin dal suo inizio gli sta offrendo. Lo stesso Gualino,
mentre la guerra sui mari è generatrice di morte e distruzione,
è fra i primissimi a cogliere un dato, ossia che grazie al con-
flitto i trasporti marittimi sono destinati a svolgere un ruolo
crescente e decisivo, in quanto l’accaparramento di materie
prime, sempre più necessarie e sempre più scarse e difficili
da reperire e far giungere a destinazione, non potrà che pro-
durre un rialzo dei noli marittimi: come dire, una formida-
bile occasione di alti profitti per chi fosse stato in grado di
organizzare il trasporto. Che è esattamente quello che egli fa,
procacciandosi delle navi piuttosto vecchiotte, ma ancora in
grado di effettuare il servizio, con contratti di affitto, e poi av-

124­­­­
viando la costruzione di nuovi battelli, convincendo Agnelli
a gettarsi nell’impresa.
Nei primi mesi la Snia sarà accompagnata dalla fortuna,
grazie anche alle forniture comandate dal ministero dei Tra-
sporti, e soprattutto a una legislazione ultrafavorevole24. In ef-
fetti, il governo italiano ha stabilito condizioni assai vantaggio-
se per gli imprenditori che si dedichino al commercio navale
nella guerra, in pratica azzerando il normale prelievo fiscale
e riducendo drasticamente quello relativo ai sovrapprofitti25.
Dopo ottimi ricavi e un rapido sviluppo, presto sopraggiun-
geranno difficoltà determinate anche dalla legislazione degli
Stati Uniti, e con la fine della guerra le cose cambieranno,
mentre il rapporto fra i due imprenditori andrà rapidamente
deteriorandosi provocando lo scioglimento del sodalizio, con
il ritiro di Agnelli dalla Snia e quello contestuale di Gualino
dalla Fiat. I due sono troppo diversi e distanti, per carattere
e per modi di fare; due esempi, però, di un’unica linea, che è
quella, già all’epoca, volta a compiere operazioni finanziarie
prima che investimenti industriali. Sono speculatori, piuttosto
che imprenditori. La guerra è il loro mare più pescoso.

24
Cfr., per tutto, Gualino 2007 e De Ianni 1998; Bermond 2007.
25
Cfr. Spadoni 2003.
8.
Agosto
Una «inutile strage»

Il mese si apre con la diramazione di un piccolo testo desti-


nato alla fama, nella storia, ma privo di qualsivoglia efficacia,
nella politica. Papa Benedetto XV fa recapitare una Nota ai
«capi dei popoli belligeranti», chiedendo che si ponga al più
presto termine a quella che definisce, coraggiosamente, «inu-
tile strage». Non otterrà risposta. V’è chi sostiene che quella
iniziativa, mentre sorprenderà i governi dell’Intesa, non giun-
gerà altrettanto inaspettata a quelli della Triplice, in qualche
modo preparati dalla intensa azione diplomatica, tra Austria
e Germania, del nunzio pontificio a Monaco, Eugenio Pacel-
li, futuro Pio XII1. Ma è altrettanto vero che neppure a Vien-
na e Berlino il documento verrà accolto bene: in sostanza,
entrambe le parti leggono nel testo, come minimo, aperture
e concessioni alla parte avversa, come massimo addirittura un
espediente escogitato proprio dal nemico, di cui il Vaticano si
rende interprete sciocco o in malafede. Il problema diventa
però come comportarsi verso il pontefice, senza arroganza,
ma con fermezza: nessuno vuole dare l’impressione di porre
ostacoli sulla via della pace, nessuno è disposto a cedere di
un metro2. La follia dell’estate ’14, quel gioco di risiko da cui
era scaturita la più immane catastrofe dell’umanità3, non si
ferma, non può essere fermata.

1
Cfr. Charles-Roux 1947, pp. 179 ss.
2
Cfr. ivi, pp. 189 ss.
3
Rinvio sul tema a Rusconi 1987, poi ripreso in Id., L’Italia e i dilemmi
dell’intervento. L’azzardo del 1915, in Audoin-Rouzeau e Becker (a cura di)
2007, I, pp. 167-83.

126­­­­
Il pontefice cattolico si era già posto in luce su posizioni pa-
cifiste nel maggio 1915, deplorando la guerra. È il primo papa
“pacifista”, e inaugura un cammino ripreso, decenni più tardi,
da Giovanni XXIII con la Pacem in terris, quindi da Giovanni
Paolo II e da Francesco, con vari interventi. Anche le prese di
posizione dei suoi successori saranno prive di effetti pratici,
ma il silenzio in cui cade la Nota papale dell’agosto 1917 è
inquietante; si tratta, per Benedetto, di un vero scacco, dimo-
strato, ad abundantiam, dalla freddezza con cui il testo viene
commentato dal principale foglio cattolico francese, uno dei
più importanti a livello continentale, «La Croix», di stretta
osservanza vaticana. Il giornale, dopo aver esitato, finisce ad-
dirittura per giustificare il niet delle potenze belligeranti, so-
stenendo che accogliere l’invito del pontefice significherebbe
per gli Alleati sminuire una vittoria che viene data per sicura.
E gli Alleati, naturalmente, rappresentano la parte giusta4.
Va ricordato che l’entrata in guerra dell’Italia – che la San-
ta Sede aveva cercato di scongiurare – ha concesso un nuovo
ruolo alla Chiesa cattolica e al pontefice, che si esprime a
favore della pace in ciascuna delle sue encicliche, il che non
manca di produrre serie frizioni col governo e, nel suo stesso
seno, tensioni tra i laici (il leader social-riformista Leonida
Bissolati in primis) e i cattolici (Filippo Meda): una crisi che
provocherà la dura replica al papa del ministro degli Esteri
Sonnino in Parlamento5. Nei diari, Sonnino rincara la dose,
definendo la Nota «una macchinazione preordinata per di-
sgregare e scuotere l’opinione pubblica nei paesi alleati in un
momento difficile e critico»6.
La Nota peraltro, al di là del suo effetto pratico, quasi
nullo, introdurrà un elemento di profonda novità nella dog-

4
Cfr. C. Monsch, «La Croix» et le nationalisme (1883-1927), in Rémond
e Poulat (diretto da) 1988, pp. 215-26 (225-26); e, analitico e documenta-
tissimo, Fontana 1990.
5
Cfr. Margiotta Broglio 1966, pp. 21 ss.
6
Cit. in Sonnino 1972, pp. 181-82.

127­­­­
matica cattolica, incrinando una delle strutture portanti della
teoria della «guerra giusta». Se infatti in quel conflitto – la
prima guerra moderna – si era palesata una tale capacità di-
struttiva che faceva cadere la proporzionalità tra il mezzo (il
ricorso alle armi) e il fine che ad esso era tradizionalmente
assegnato dalla teologia morale (conseguire il ristabilimento
di un giusto ordine nei rapporti tra gli uomini), era ancora
possibile fornire una giustificazione etica alla pratica bellica?
Si inizia così un accidentato cammino che troverà infine esito
nelle ripetute prese di posizione con cui Giovanni Paolo II,
davanti alle guerre dell’ultimo scorcio del secolo XX, asseri-
rà l’inammissibilità del ricorso alla religione per giustificare
l’impiego delle armi7. Ma va pure aggiunto che quello stesso
pontefice, il “papa polacco”, che emetterà così ferme prote-
ste contro la guerra certamente animate da sincero spirito di
compassione e di condivisione della sofferenza delle vittime,
sarà non senza responsabilità dinanzi a taluni di quei conflitti,
a cominciare da quello, durato un decennio, in Jugoslavia,
con l’immediato riconoscimento diplomatico della secessio-
ne di Croazia e Slovenia, avvio della frantumazione dolorosa
di quel capolavoro di unità con conseguenze terribili, tuttora
elemento di destabilizzazione geopolitica non soltanto locale.
Ritornando alla Nota dell’agosto ’17, si tratta di un testo
tormentato, che, dopo una prima stesura più convenziona-
le, giunge alla sua forma pubblica forse sotto l’influenza del
commento («inutile carneficina») con cui il vescovo di Pado-
va, Luigi Pellizzo, descriveva nelle lettere al papa nel luglio
la drammatica situazione del fronte italo-austriaco: nel testo
finale, dunque, compare la “scandalosa” affermazione che la
guerra «si dimostra ormai inutile strage»8. Diversi testimoni
ricordano la determinazione del papa nel mantenere quella
espressione, resistendo alle insistenze dei collaboratori che

7
Cfr. Menozzi 2008, pp. 9-10.
8
Ivi, p. 41.

128­­­­
ne sollecitavano la cancellazione9. Il testo si articola in tre par-
ti che affrontano i precedenti appelli alla pace, gli strumenti
come disarmo e arbitrato imprescindibili per garantire una
pace duratura (compreso un cenno significativo alle questio-
ni territoriali pendenti tra Francia e Germania e tra Austria e
Italia), e comprende, nella parte terza, l’accorato appello ad
accogliere il suo invito, ove si legge la celebre, quanto con-
testata, frase sull’inutilità della guerra. Le diplomazie euro-
pee, alla cui scuola peraltro si era formato Giacomo Della
Chiesa, il futuro pontefice Benedetto XV, interpreteranno
la Nota come un tentativo di Roma di affermare il proprio
ruolo di mediazione sulla scena internazionale e rafforzare
così la presenza vaticana sul piano mondiale, e dunque ri-
marranno fredde o addirittura ostili. In particolare la frase
contestata può sembrare un avvertimento: Roma cala nello
scacchiere diplomatico la sua carta: la velata minaccia della
delegittimazione morale della guerra al fine di ottenere quel
supremo ruolo arbitrale cui da tempo aspira10; ruolo che, in
qualche modo, il presidente statunitense Wilson, che pure è
parte belligerante da qualche mese, ormai tende a ricoprire.
Il fatto è che, al di là delle personali intenzioni e dei pur
sinceri aneliti di pace del pontefice, gli esiti pratici non sono
neppure forse presi in considerazione dallo stesso Benedetto.
Il suo messaggio di riconciliazione non riesce «a tradursi in
un’effettiva incrinatura della dottrina della guerra giusta» e
la denuncia dell’«inutile strage» rimane tutta interna al gioco
politico-diplomatico, e non si indirizza «all’unico destinata-
rio – i cattolici impegnati nel conflitto – in grado di renderla
capace di erodere la concezione tradizionale»11. In altri ter-
mini, al di là delle intenzioni anche sincere di Benedetto, il
suo intervento può rappresentare un tentativo di riproporre
il ruolo del papato come suprema autorità morale del mon-

9
Cfr. Scottà 2009, p. 211.
10
Cfr. Menozzi 2008, p. 45.
11
Ivi, p. 46.

129­­­­
do dopo che l’entrata in guerra degli Stati Uniti, in aprile,
era stata connotata da una sorta di messianismo politico che
faceva del presidente Wilson il punto di riferimento ideale
per il futuro assetto di un pianeta pacificato in quanto demo-
craticamente organizzato12. L’ideale, a noi contemporanei tri-
stemente noto, della “esportazione della democrazia”, nella
convinzione ideologica che gli Stati democratici non fanno le
guerre, se non a quelle nazioni “arretrate” ove i benefici della
democrazia non sono giunti. In ogni caso, il documento ac-
cresce il prestigio morale del pontefice, rendendolo quasi un
«campione dell’umanità tanto gravemente offesa dagli orrori
del conflitto in corso»13.
Rimane l’importanza del gesto e del documento, la denun-
cia della follia di una qualsivoglia vittoria militare, che avreb-
be significato «una pace cartaginese, una pace imposta sul
filo della spada», invece che «fondata su valori di convivenza
internazionali concordati e condivisi con il riconoscimento di
alcuni principi internazionali», ancora oggi disattesi, se non
in tutto, almeno in larga parte (libertà dei mari, disarmo, arbi-
trato, rispetto della nazionalità, risoluzione concordata delle
questioni territoriali ecc.)14. A maggior ragione la presa di po-
sizione del papa appare, allora, fuori del tempo, irrealistica e
decisamente utopistica al di là dei retropensieri che le si pos-
sono attribuire. I contendenti sono, in quell’anno terribile,
incastrati nella logica della resistenza ad oltranza: resistere un
giorno più del nemico, nello sfibrante logorio della trincea,
nelle ecatombi dei combattenti dei due fronti, nel patimento
sempre più insopportabile delle popolazioni civili.
Davanti alla insensibilità delle classi dirigenti, che deci-
dono, concordemente o ciascuna per suo conto, di non dare
alcun riscontro alla Nota, va segnalato, a dispetto dell’ostraci-
smo che ne ridurrà la diffusione, l’effetto enorme avuto sulle

12
Cfr. ivi, p. 42.
13
Cit. in Candeloro 1978, p. 179.
14
Cfr. Scottà 2009, p. 210.

130­­­­
popolazioni civili e sui combattenti, almeno su coloro che
ne potranno avere cognizione, sia pur indiretta e parziale.
Addirittura si sosterrà, nella Relazione della Commissione di
inchiesta su Caporetto, che quel testo, accanto alla frase del
leader socialista Claudio Treves pronunciata alla Camera il
12 luglio («il prossimo inverno non più in trincea»), sarebbe
stato tra i fattori debilitanti il fronte italiano, favorendo la
rotta del 24 ottobre nella piana di Caporetto15. In tutt’altra
direzione vanno i governi nazionali, a cominciare dall’Italia,
dove la repressione di ogni forma di disubbidienza tra i mili-
tari, o di stanchezza nella stessa popolazione civile, viene re-
pressa e punita in forme draconiane. Alla vigilia di ferragosto
un bando prevede la pena di morte per i militari che avessero
abbandonato «unità o reparti diretti alla prima linea ovvero
che [fossero] in procinto di partire per la prima linea». Il re
riceve lettere di ingiuria e minacce di morte se non porrà fine
a «questa orribile guerra», «questo macello inutile», come si
legge in una di esse, firmata “La Congiura”, che annuncia, se
la guerra non finisse, un evento epocale: «immancabilmente
nascerà dal proletariato la rivoluzione»16. Gli echi degli avve-
nimenti russi sono sempre più potenti.
Che le concause siano Treves, il papa o la Russia, l’insod-
disfazione del paese, in buona sostanza, nasce da stanchezza:
stanchezza del perdurare del conflitto, delle sue conseguen-
ze sulla vita dei civili, oltre che su quella dei combattenti al
fronte. Una insoddisfazione che si presenta alla ribalta nelle
forme più varie e diffuse. Un dirigente della ditta Laneros-
si di Schio, costernato per l’incessante ondata di scioperi e
interruzioni del lavoro in zona, scrive in una lettera confi-
denziale diretta alla sede milanese dell’azienda: «mi pare di
essere in Russia senza esserci mai stato»17. In vero, benché la

15
Cfr. Relazione della Commissione d’Inchiesta 1919, pp. 464 ss.
16
Cit. in Monteleone 1973, pp. 142-43.
17
Cit. in E. Franzina, Lettere contadine e diari di parroci di fronte alla
prima guerra mondiale, in Isnenghi (a cura di) 1982, pp. 104-54 (131).

131­­­­
situazione fosse in essere fin dall’anno precedente, e si ma-
nifestasse in un crescendo notevole in quell’area industriale
– la principale del Veneto e una delle più produttive a livello
nazionale –, non sarà mai preoccupante, sia per la debolezza
e l’inconcludenza dei socialisti, peraltro divisi tra loro, sia
per l’impreparazione delle masse operaie18. Il che non toglie
che nei commenti della stampa padronale Russia e socialisti
vengano regolarmente additati alla pubblica ignominia come
ostili alla guerra. L’arrivo in Italia, fin dal giorno 5 del mese,
di una delegazione russa impegnata in un “tour propagan-
distico” europeo iniziato a luglio, avrà grande rilievo sulla
stampa. Il 7 agosto i delegati del Soviet di Pietrogrado incon-
trano i dirigenti del Partito socialista a Roma, e ne nasce un
comunicato congiunto: il punto cruciale è quello in cui essi
si dicono

Convinti che la violenza armata degli Stati non può risolvere


convenientemente alcuno dei problemi che la guerra ha posto e che
solo l’opera proletaria internazionale – non l’azione diplomatica –
varrà a porre fine alla conflagrazione mondiale19.

In realtà, un po’ tutto il ceto politico vuole rendere omag-


gio ai delegati della Russia, paese nel quale ciascuno vede
quel che desidera o gli può essere utile politicamente, in po-
sitivo o in negativo. E lasciare che i socialisti monopolizzino,
attraverso la gestione dei delegati, la rivoluzione di Pietro-
grado, appare un errore da evitare. Per i socialisti, però, si
tratta di una occasione particolarmente importante per uscire
dall’isolamento in cui leggi di guerra e una opinione pubblica
fortemente orientata in senso ostile dai principali giornali li
hanno confinati. E in effetti, per timore di un’eco negativa,
da parte del governo e delle prefetture vi sarà una notevo-

18
Cfr. G. Roverato, Il polo laniero vicentino nella Grande Guerra: alcuni
problemi di storia industriale, in Isnenghi (a cura di) 1982, pp. 213-61.
19
Cit. in Malatesta 1935, pp. 153-54.

132­­­­
le tolleranza in quei giorni, con libertà di movimento e di
riunione. Anzi, secondo qualcuno, come il leader socialista
Serrati, la liberalità governativa – contrastata peraltro da altri
come il ministro Sonnino, rappresentante dell’ala oltranzista
di destra nella compagine ministeriale – si sarebbe spiegata
con il segreto pensiero di diffuse manifestazioni pacifiste che
avrebbero dovuto inquietare gli Alleati, inducendoli a conce-
dere aiuti all’Italia in difficoltà20.
I delegati, dunque, arrivano a Torino, nella Torino socia-
lista, completamente mobilitata per accogliere i “compagni
russi” con una grande manifestazione serale prevista nel
palazzo di corso Siccardi dove sono collocati la sezione del
partito, la Camera del lavoro e i giornali socialisti: manifesta-
zione talmente grande che i delegati dovranno prendere la
parola dal balcone, essendo gli spazi interni troppo angusti
per ospitare migliaia di compagni e compagne torinesi. I di-
scorsi dei russi vengono tradotti dal francese da dirigenti ita-
liani, i quali ne danno talora una interpretazione soggettiva,
che incita comunque alla rivoluzione, pur se questo non cor-
risponde a quanto detto veramente... In ogni caso, la serata e
la mattinata successiva, con visita alla Fiat, saranno costellate
da incitamenti alla mobilitazione antiguerra e alla sovversio-
ne, prendendo esempio da Lenin, il cui nome viene conti-
nuamente evocato interrompendo gli oratori21. Si conferma
così quanto era già stato notato dai contemporanei, e ribadito
in sede storica, ossia la enorme popolarità della rivoluzione
russa, e dei suoi capi, in Italia, a cominciare ovviamente da
Lenin, divenuto prima del fatidico ottobre (in realtà novem-
bre) una autentica icona della Rivoluzione, in senso proprio e
assoluto22. L’eccitazione degli animi è forte: rendere omaggio
ai russi significa innanzi tutto chiedere, anzi pretendere la

20
Cfr. M. Degl’Innocenti, I socialisti e la grande guerra (1914-1918), in
Sabbatucci (diretta da) 1980, p. 89.
21
Cfr. Monticone 1972, pp. 110 ss.
22
Cfr. Degl’Innocenti, I socialisti e la grande guerra cit., pp. 88 ss. Ma vedi

133­­­­
cessazione del conflitto che insanguina il mondo, e che tan-
te sofferenze porta anche alle popolazioni, compresa quella
di una città moderna e industrializzata come Torino. Dove,
come già altre volte nel corso dell’anno, ma stavolta in modo
più grave, viene a mancare l’alimento base della popolazione,
almeno dei ceti meno abbienti, il pane, a cui addirittura un
poeta docente nell’ateneo cittadino, Pastonchi, collocabile
nel movimento detto del “socialismo dei professori”, dedica
un componimento che così inizia: «Pane, ti spezzan gli umili
ogni giorno, / Lieti se già non manchi alla dispensa».
Invece il pane, in agosto, mancherà, e le conseguenze co-
glieranno di sorpresa le autorità, la popolazione, la classe po-
litica, compresi i dirigenti socialisti. Dopo un primo momento
di disagio per la penuria dei rifornimenti di farine e di con-
seguenza di difficoltà della panificazione e della vendita del
pane nella prima decina del mese, il problema si ripropone,
aggravato, dopo il 20 agosto. Le rivendite, nella loro maggio-
ranza, rimangono chiuse, ovvero chi ne cerca si trova davanti
le serrande abbassate e la scritta “Pane esaurito”. Saranno le
donne proletarie, quelle che “fanno la spesa”, quelle che ge-
stiscono la casa, la famiglia, oltre, talora, a essere impiegate
in fabbrica come i loro uomini, i primi soggetti a scatenare la
protesta, e ad esse, però, si aggiungeranno mariti, fratelli, ge-
nitori, padri. E una marcia spontanea verso il centro cittadino,
il luogo fisico e simbolico del potere, diventerà immediata-
mente una rivolta; la protesta per il pane che manca rivelerà la
sua enorme potenzialità, legata ancora una volta alla stanchez-
za per una situazione di disagio e sofferenza provocata dalla
guerra, ma che ha per responsabili gli stessi che gestiscono il
governo e l’amministrazione comunale, e che sono i padroni
dei giornali che si affretteranno a incolpare i socialisti. Le don-
ne, gli uomini, i ragazzi cui viene negato il pane non possono
non notare che le pasticcerie offrono biscotti e dolci costosi e

la raccolta di scritti Lenin 1962, con la preziosa introduzione del curatore


Spriano, poi in Spriano 1976, pp. 23-43.

134­­­­
prelibati, riservati alle bocche e agli stomaci dei “signori”. Lo
spettacolo della disuguaglianza, come aveva ammonito Toc-
queville, è ciò che più offende, più della stessa povertà. Natu-
ralmente le proletarie e i proletari che danno l’assalto ai forni
e alle panetterie non hanno letto La democrazia in America,
ma danno libero corso alla loro rabbia. Certo, la presenza dei
delegati russi in città pochi giorni prima è stata un ulteriore
detonatore degli eventi, accanto alle prese di posizione di Be-
nedetto XV e di Treves: tutte però soltanto cause aggiuntive
della sommossa popolare che travolge l’intero capoluogo pie-
montese, prima capitale d’Italia, tra il 22 e il 26 agosto; perché
la causa scatenante, e decisiva, è, come si diceva, la mancanza
di pane. La “rivolta di Torino”, ossia i fatti di agosto 1917, va
letta innanzi tutto come la rivolta del pane, e mostra la verità
dell’osservazione di Gramsci su Torino come luogo ove la lot-
ta di classe si vede nella sua essenza, borghesi contro proletari,
classi dominanti contro classi subalterne, e dalla parte delle
prime l’intero apparato dello Stato23.
Uno storico socialista di orientamento riformista, Luigi
Ambrosoli, che per primo studiò quella che chiamava «l’in-
surrezione torinese», lo giudicò «l’episodio più saliente della
storia del movimento operaio italiano» nel periodo della guer-
ra24. Sebbene il suo orientamento ideale lo schierasse più con
Turati che con Gramsci, lo studioso aveva ragione ad osservare
che, come accadrà poi nel “biennio rosso”, il socialismo (tori-
nese e italiano) si mostrò indeciso fra l’iniziativa rivoluzionaria
e l’iniziativa “legalitaria”, «senza che nessuna potesse essere
condotta a fondo». Del resto egli non fatica a sottolineare il
carattere spontaneo, improvvisato dell’insurrezione «sorta da
un momento di esasperazione e di ribellione, ma non guidata
da una “scientifica” volontà rivoluzionaria»25. Il che non toglie

23
Leggi per esempio Voci d’oltretomba, in «Avanti!», 10 aprile 1916, ora
in Gramsci 1980, pp. 248-49 e Gramsci 2012, pp. 149-50.
24
Cfr. Ambrosoli 1961, p. 228 (anche la successiva citazione).
25
Ivi, p. 229.

135­­­­
che i dirigenti socialisti cerchino, a rivolta in corso, vuoi per
non farsi tagliar fuori dal movimento, di gestirla, vuoi per ten-
tare in qualche modo di guidarlo, per controllarlo, sia pure in
una linea ondivaga, tra rivendicazionismo e rivoluzionarismo:
ma, alla fin dei conti, a prevalere sarà la linea della prudenza,
o forse della paura, e della collaborazione con l’autorità, che
dopo un primo momento di repressione antisocialista prova a
venire a patto con la dirigenza.
Quello che è lampante è che il moto è assolutamente spon-
taneo e non organizzato, proviene dal basso e dalla periferia
operaia, ed è animato innanzi tutto da donne, le donne dei
proletari al fronte o nelle officine militarizzate; ma ciò non
impedisce affatto che esso assuma immediatamente una va-
lenza politica, con un messaggio complessivo che connette
guerra e rivoluzione26. Non già nel senso in cui i Corridoni
e i Mussolini facevano questo accostamento, che finiva per
identificare, discutibilmente, i due termini; qui invece, all’op-
posto, si grida rivoluzione per dire pace. E rispetto all’altro
modo con cui quegli interventisti si proclamavano rivoluzio-
nari, ossia la rivoluzione come alternativa alla guerra, le masse
torinesi vedono invece nella rivoluzione non l’alternativa alla
guerra, bensì alla pace. Questo non significa affatto dar ragio-
ne alla stampa e al ceto politico conservatore, che parleranno
di sobillazione socialista e di strumentalità. Sicuramente, To-
rino è teatro della più significativa protesta urbana durante
la guerra a livello europeo, se si escludono ovviamente i fatti
della Russia. Dalla protesta al saccheggio il passo è breve, e
da quel momento la situazione diventa ingovernabile. Dal-
la periferia operaia i cortei si dirigono verso il centro città,
mentre le vie più larghe del tessuto urbano si costellano di
improvvisate ma efficaci barricate, per impedire il passaggio

26
Cfr. Spriano 1972, p. 420, ma tutta la ricostruzione analitica che fa
della sommossa è fondamentale (pp. 416-50); vedi anche, però, sebbene più
prudente e critico verso i rivoluzionari, Monticone 1972, pp. 89-144 (si tratta
tuttavia di un saggio pioneristico, che risale al 1958).

136­­­­
delle truppe. L’amministrazione cittadina, sorpresa quanto la
dirigenza socialista, mostra una totale incapacità di cogliere il
senso degli eventi. Il sindaco, vecchio aristocratico piemonte-
se, diffonde un suo proclama che, dietro la retorica roboante
che vorrebbe rassicurare, rivela «insipienza» (questa la pa-
rola ricorrente nei manifesti della Camera del lavoro, o della
sezione del Partito socialista, di polemica verso le autorità27)
e arroganza. Siamo all’indomani dello scoppio della rivolta.
La farina stenta a giungere ai forni e il pane alle rivendite. Ma
il sindaco afferma il contrario, e aggiunge:

Ogni ragione di ansietà, e molto meno, qualsiasi motivo di pub-


blici sconvolgimenti manca adunque di ogni base nelle condizioni
economiche e amministrative odierne della nostra Città. / Un cieco
impulso anarchico di odii sociali, uno spirito criminoso di rivolta
e di devastazione agita una parte inconsapevole della popolazione.
Perciò tutti i laboratori [sic] coscienti dei loro diritti e dei loro
doveri e delle necessità delle loro famiglie debbono, solidali colle
Autorità, fare argine a questo insano travolgimento28.

E i socialisti non rivelano una maggiore comprensione degli


eventi: quella di Torino è proprio la rivolta del ceto proletario
urbano, che, tuttavia, negli assalti e nei saccheggi non esprime
soltanto una torbida jacquerie, ma un profondo bisogno di
cambio delle classi dirigenti, e una richiesta di svolta storica
che potrebbe iniziare soltanto con la fine della guerra. Un gio-
vane socialista, Mario Montagnana (che seguirà poi Gramsci
nel Partito comunista), onestamente dirà nelle sue memorie:
«Nessuno, né i riformisti, né i rivoluzionari (io compreso, na-
turalmente), sapeva che fare»29. Eppure tra loro vi sono alcuni
dei migliori organizzatori del socialismo italiano (Gramsci è

27
Il primo manifesto è del 24 agosto, il secondo del 25 agosto; in Spriano
1972, p. 423, p. 429.
28
Il documento (23 agosto 1917) è in Archivio Storico del Comune di
Torino, Gabinetto del Sindaco, c. 434, fasc. 18.
29
Montagnana 1952, p. 72.

137­­­­
solo un giovinetto che ha scarsa audience nel partito); ricor-
diamo almeno uno straordinario uomo di “fede proletaria”
come Bruno Buozzi, che nel ’44 nella Roma occupata finirà
vittima della ferocia nazifascista. Ma appunto evocare questi
due nomi – Buozzi e Gramsci –, di un grande riformista e di
un grande rivoluzionario, fa comprendere come il socialismo
italiano, e torinese in specie, sia diviso, e lo sia in modo irrime-
diabile. La corrente dei “rigidi”, nata in seno al Psi nel mese
di giugno, al di là delle parole che, più che accompagnare o
precedere, seguono i fatti, non è in grado di gestire la situa-
zione, men che meno di indirizzarla in senso rivoluzionario.
In altri termini, si potrebbe concludere, un po’ semplicisti-
camente: nella Torino dell’agosto 1917, a differenza che nella
Pietrogrado del novembre, manca un Lenin. Ma guardando
più da vicino, alla domanda: perché, dunque, fallisce la rivol-
ta?, possiamo dare due ragioni principali, e le si possono rica-
vare entrambe, e contrario, dall’esempio russo, cominciando
dalla grande manifestazione di luglio a Pietrogrado di cui ab-
biamo parlato: non è ancora lo scoppio che incendia tutto l’e-
dificio, ma è importante ricordare che anche là l’insurrezione
ha un carattere spontaneo, di massa, dal basso, e però, anche
se non vince, quella manifestazione induce immediatamente
i bolscevichi a entrarvi, a darle un segno politico forte, e a
farsi comunque conoscere da quella massa come dirigenti in
grado di dirigere pur quando il primo input non proviene da
loro. A Torino, accanto all’incertezza e all’indecisione, emer-
ge invece persino una presa di distanza, come se, dopo aver
lanciato il sasso verso le masse con slogan eversivi (si pone in
luce in modo particolare Maria Giudice, direttora del «Grido
del Popolo», che in effetti dovrà lasciare l’incarico a seguito
dell’arresto per quegli avvenimenti), i leader socialisti ritiras-
sero la mano. Serrati si spingerà a dire, al processo in cui verrà
trascinato con altri dirigenti: «non è un movimento nostro»30.

30
Cit. in Spriano 1972, p. 438.

138­­­­
Se poi vogliamo, come dobbiamo, far riferimento agli eventi
russi successivi di novembre, là la rivolta vince, e diventa rivo-
luzione, perché le truppe fraternizzano con le masse in lotta; a
Torino, questo, salvo casi sporadici, non accade31. E Gramsci
sarà il primo a notarlo e a metterlo per iscritto, qualche anno
dopo32. La rivolta, senza guida e nell’incertezza socialista, si
spegne – spontaneamente come è iniziata – nell’arco di sei
giorni. Il pericolo è stato grande. In sede locale si correrà ai ri-
pari con la costituzione dell’Alleanza Nazionale, che qualche
mese più tardi elaborerà delle proposte per regolamentare
i contatti tra popolazione e soldati nel timore di episodi di
fraternizzazione “alla russa”33.
Su quegli avvenimenti affrontati da cronista militante,
Gramsci ritornerà da storico, nei Quaderni del carcere. E ne
fornirà una interpretazione originale, anche se priva di ri-
scontro oggettivo. Lo farà in prima persona, ponendosi la
domanda: perché si giunse a far mancare il pane a una città
come Torino? Una città diventata «una grande officina di
guerra, con una popolazione accresciuta di più di 100.000
lavoratori per le munizioni», una città, per di più, «la cui pro-
vincia è scarsamente coltivata a grano»? Gramsci porta an-
che una testimonianza personale dell’«assoluta deficienza di
vettovaglie». Dunque: «nella casa dove abitavo io, ed era una
casa del centro, si erano saltati tre pasti di fila, dopo un mese
in cui i pasti saltati erano andati crescendo». L’accusa del pre-
fetto agli operai «è una cosa inetta», smentita addirittura dal

31
Cfr. Monticone 1972, pp. 129-30; Ambrosoli 1961, p. 235; Spriano
1972, pp. 428-29.
32
Cfr. Il movimento torinese dei Consigli di fabbrica, in «L’Ordine nuo-
vo», 14 marzo 1921, ora in Gramsci 1955, pp. 176-86 (testo già apparso
anonimo nel 1920 in russo, francese e tedesco).
33
Per gli sviluppi politici locali e nazionali, dopo la rivolta, e la repres-
sione giudiziaria, Spriano 1972, pp. 432 ss.; per il contesto politico, Cande-
loro 1978, pp. 163 ss., attento anche al quadro europeo; per quello sociale,
Ragionieri 1976, pp. 2027 ss.; e, in relazione alla guerra, Melograni 2015,
pp. 307 ss.

139­­­­
giornale reazionario cittadino, la «Gazzetta del Popolo», che
avvertiva da tempo che la situazione poteva degenerare, sal-
vo cambiare linea all’indomani della rivolta. Perché Torino,
dunque? La risposta non può che risiedere nei caratteri della
città, neutralista, con la colpa di aver scioperato nel 1915 e
in ogni caso «perché i fatti avevano importanza specialmente
a Torino»34.
La rivolta, sedata o spenta che sia a Torino, si ripropone
un po’ dappertutto, in tutti i paesi coinvolti dalla guerra. Ma
v’è qualche iniziativa volta a mitigare le sofferenze, o a pro-
mettere premi ai combattenti a guerra finita. Sicché, in Italia,
da una parte troviamo il solito Cadorna che lancia a metà ago-
sto una nuova massiccia offensiva sull’Isonzo che durerà un
mese, con scarsi risultati e oltre 160.000 vittime italiane, tra
morti e feriti. D’altra parte, a Roma, in un convegno, Feder-
terra, Cgdl e altre organizzazioni affermano l’intenzione di
lavorare per l’esproprio delle terre incolte. A Cuneo, Giolitti,
la più autorevole voce politica contraria all’intervento, in un
discorso del giorno 13 denuncia le «diseguaglianze dei sacri-
fici» nella guerra, e chiede una nuova politica estera e riforme
sociali per il dopo conflitto. E ancora nell’agosto si chiude il
cosiddetto “processo Pradamano” (dal nome della località
sede del Tribunale militare), che ha avuto come oggetto la
diffusione al fronte del materiale “disfattista” socialista e co-
me base giuridico-politica la lettera di Cadorna dell’aprile in
cui annunciava il pericolo di insurrezioni anarco-socialiste35.
Anche in una nazione meno toccata dalle rivolte, come la
Germania del Kaiser, si fanno sentire gli effetti congiunti del-
le parole del papa, gli echi della lotta dei rivoluzionari russi,
i pentimenti di una parte dei socialisti che avevano sostenuto
i loro governi. Il ministro della Marina scoprirà e denuncerà

34
Cit. in Gramsci 1975 (Quaderno 1), pp. 107 ss.; ma cfr. anche Quaderno
8, ivi, pp. 987 ss.
35
Una ricostruzione della vicenda e del processo è in De Clara e Ca-
deddu 2001.

140­­­­
una organizzazione clandestina di tipo socialista o addirittura
sovietico tra i marinai. Due condanne a morte, ergastoli e
decine di anni di reclusione a carico di una cinquantina di
imputati saranno il risultato, nel processo sommario presso il
Tribunale della Marina, secondo la sentenza emessa il 20 ago-
sto ed eseguita, per quanto concerne la pena capitale, ai primi
di settembre. Gli scissionisti della Spd, facenti capo all’Uspd,
daranno la notizia della sentenza che era stata secretata, e ne
faranno un valido argomento di propaganda contro la guerra
e il governo, ma per ora senza apparenti risultati36.
Repressione che continua, mentre si accentua lo sforzo vol-
to a recuperare consenso tra i soldati e nelle loro famiglie. In
Francia, il giorno 23, il generale Pétain propone un insieme di
direttive ai giornali con gli orientamenti generali sui temi da
trattare, in particolare quelli utilizzabili a fini di propaganda.
Come sul piano squisitamente militare, così su quello civile,
non v’è dubbio che Pétain dia un contributo determinan-
te alla svolta nella politica francese37. Del resto, nello stesso
mese si rompe l’Union sacrée, e i socialisti abbandonano la
coalizione governativa, mentre la destra dell’Action Française
guida un movimento di opinione contro disfattisti, pacifisti
e persino traditori. La semplificazione avanza e ne faranno
le spese anche personalità eminenti dell’area radicale oltre
che socialista. Georges Clemenceau, preso dal sacro fuoco
patriottico, nella sua tarda età (ha ormai 75 anni) alimenta
con la sua autorevolezza la campagna di ostracismo, prepa-
randosi a una rentrée nell’agone politico, cosa che avverrà
pochi mesi dopo; la sua azione si svolge in Parlamento, dove
occupa la poltrona della principale commissione, quella degli
Affari Esteri, ma anche, e soprattutto, come editorialista del
giornale «L’Homme enchaîné», nuovo titolo dall’autunno del
’14 dell’«Homme libre» fondato nel 191338. Con intellettuali-

36
Cfr. Frölich 2009, p. 236.
37
Cfr. Pedroncini 1977, pp. 28 ss.
38
Cfr. Bock 2002, pp. 276 ss.

141­­­­
politici di estrema destra quali Charles Maurras e Léon Dau-
det, l’ex radicale Clemenceau anima una polemica di giorno
in giorno più aspra verso tutti coloro che sono sospettati di
accontentarsi di qualcosa di meno che della vittoria totale sul
nemico.
La cecità di politici e militari, nella quarta estate di guerra,
davanti alle sue tragedie di cui fanno le spese interi popoli,
sembra essere assoluta. E la guerra, come un’onda malefica,
continua ad estendersi, a invadere altre regioni della terra. A
metà agosto è la Cina, in una situazione di «precarietà isti-
tuzionale», a dichiarare lo stato di ostilità alla Germania e
all’Austria-Ungheria. La Cina tuttavia non invierà suoi uomi-
ni sulla scena di guerra europea, sia per la distanza e le diffi-
coltà oggettive, sia per la probabile opposizione del Giappo-
ne, fin dall’inizio schierato a fianco della Intesa ma geloso e
preoccupato della Cina, che evidentemente i governanti nip-
ponici preferiscono tenere il più possibile à l’écart, mentre la
Cina vuol essere della partita proprio per poter partecipare
alla probabile spartizione del dopoguerra39. La guerra funge
in molti casi come magnifica occasione per regolamenti di
conto tra potenze, anche alleate.

39
Cfr. M. De Togni, La Cina e la Grande Guerra, tra nazionalismo popo-
lare e accordi segreti, in Scavino (a cura di) 2015, pp. 49-59.
9.
Settembre
Stato e rivoluzione

All’inizio del mese, il giorno 3, truppe germaniche sconfig-


gono quelle russe nella battaglia di Jugla sul fronte orienta-
le. I russi devono abbandonare Riga, capitale della Lettonia
e parte dell’Impero zarista, che verrà occupata nell’arco dei
due giorni seguenti dai tedeschi, vittoriosi anche grazie a un
impiego su larghissima scala di granate con il gas (si parlò di
oltre 100.000 vittime); le perdite tedesche sono insignificanti
rispetto a quelle russe, in morti, feriti e prigionieri. La per-
dita del porto di Riga, tra i più importanti sul mar Baltico,
costituisce un colpo assai grave per la Russia, e un bottino
assai prezioso per la Germania. Da Riga, per le truppe del
Kaiser la strada è virtualmente aperta verso la capitale russa,
dove si diffonde il panico. In Germania si respira di nuovo
un’aria di soddisfazione per i successi a Est, che indurranno
gli stati maggiori a concentrarsi sulla preda russa, pensando
a mirabolanti acquisizioni territoriali. Inoltre, nel paese, sem-
bra raggiunto un clima di pace interna, essendo stata appena
rinnovata, dopo una crisi di governo, la “unione sacra” con i
socialdemocratici che, dopo aver minacciato di abbandonare
la maggioranza, si sono piegati accettando di rifinanziare i cre-
diti di guerra per un importo enorme (15 miliardi di marchi).
La pace interna, tuttavia, non piace alla destra naziona-
lista, che in effetti, per tutta risposta, dà vita a una nuova
formazione politica, la Deutsche Vaterlandspartei (Dvp, Par-
tito patriottico tedesco), che, in verità, malgrado si chiami
“partito”, è piuttosto un rassemblement di forze sociali, po-
litiche, culturali, religiose unite dall’empito “patriottico”. Il
Dvp ha la sua roccaforte in Prussia, in particolare la Prussia

143­­­­
di confessione evangelica, e specificamente fa riferimento alla
borghesia colta e impiegatizia, da un lato, e alla proprietà
terriera, dall’altro. Peraltro a capo della Dvp c’è un membro
della casa regnante, il granduca Albrecht del Meclemburgo,
e, accanto a lui, l’ex segretario di Stato alla Marina imperiale,
il celebre ammiraglio Alfred von Tirpitz. Sempre a dispetto
del nome, questa formazione non rientra nel novero di quelle
populiste. Certamente si tratta di una forza antidemocratica,
nazionalista e bellicista. Nella dichiarazione programmatica
si leggono frasi inquietanti, anche per il volto politico che
assumerà la Germania dopo la caduta della Repubblica di
Weimar. Ad esempio:

La libertà tedesca sta ad altezze supreme rispetto alle inique


democrazie con tutti i loro presunti benefici, con cui l’ipocrisia
inglese e quel Wilson vogliono irretire il popolo tedesco, per an-
nientare la Germania che con le sue armi è invincibile.

La loro visione del futuro della guerra in corso è una e una


sola: la «pace di Hindenburg», che comprende non solo la
vittoria totale su tutti i nemici, ma vaste annessioni territoriali
a spese di Belgio, Francia, Germania e, persino oltremare,
Inghilterra1.
La conquista di Riga, sembra dare un primo riscontro po-
sitivo in tale direzione, con la Russia vista come vittima sacri-
ficale del vorace appetito germanico. Ma, come si sa, spesso le
cose, nella storia, vanno diversamente dai desideri degli uma-
ni. Sarà precisamente così. Nello stesso giorno della caduta
della capitale lettone – per la Germania un colpo positivo,
per la Russia ovviamente il contrario –, una seduta della fra-
zione bolscevica del Soviet di Pietrogrado denuncia in modo
forte le intenzioni del governo Kerenskij, come espresse nella
Conferenza di Mosca, per concludere un accordo con pro-
prietari terrieri, banchieri e imprenditori, preoccupati per gli

1
Cfr. Winkler 2004, pp. 384-85.

144­­­­
svolgimenti della situazione sociale; il governo provvisorio li
ha tranquillizzati, respingendo ogni ipotesi di riforma sociale,
e in specie agraria, mettendo in guardia contro ogni attentato
alla proprietà privata da parte di gruppi o di strati sociali. Nel
verbale della riunione si parla di «programma della contro-
rivoluzione borghese», a dispetto della fraseologia impiegata
dal governo che presenta la linea governativa come quella
di una «democrazia rivoluzionaria». Il documento, in modo
netto e con una aspra retorica, afferma che «non si può salva-
re la rivoluzione se non dopo aver liquidato la dittatura della
borghesia controrivoluzionaria e aver concentrato il potere
nelle mani degli operai e dei contadini più poveri»2.
È il preannuncio della Rivoluzione bolscevica. Che tut-
tavia ha ancora molti ostacoli davanti a sé. La ribellione già
ricordata tra fine agosto e metà settembre del generale Korni-
lov, comandante in capo dell’esercito russo, è stata un avviso
eloquente, anche se fallita «ignominiosamente, senza che si
sparasse un colpo»3. La strada per la conquista del potere,
obiettivo chiarissimo nella mente di Lenin, e quella per le tap-
pe successive – per la costruzione di uno Stato nuovo, forte,
degli operai e dei contadini poveri, uno Stato che avvii subito
la propria auto-eliminazione nel passaggio che conduce ad
una società senza Stato – è davvero impegnativa, lastricata di
ostacoli; in generale il tentato colpo di Stato militare mette
sul chi vive tutte le formazioni di sinistra, tra le quali, però,
sono i bolscevichi a conquistare consenso giorno dopo gior-
no4. Coscienti di ciò, essi, nella risoluzione del 13 settembre,
presentano il conto al governo provvisorio, chiedendo la fine
dei pieni poteri, la proclamazione della Repubblica demo-
cratica, l’abolizione senza indennità della grande proprietà
terriera, con distribuzione di terre ai contadini più poveri, la
nazionalizzazione dei settori strategici, l’«inaugurazione su

2
Cit. in Boffa (a cura di) 1964, pp. 71-73.
3
Carr 1964, p. 94.
4
Cfr. ibidem.

145­­­­
scala nazionale del controllo operaio sulla produzione e la
ripartizione», la denuncia dei trattati segreti e la «proposta
immediata a tutti i popoli degli Stati in guerra di una pace
generale democratica»5.
Siamo agli antipodi concettuali e linguistici, prima anco-
ra che politici, di una tradizione universale delle relazioni
internazionali fondata sulla diplomazia segreta, tradizione
che viene smantellata da Lenin, all’indomani dell’ascesa al
potere, in un colpo solo: la rivelazione del già citato patto
Sykes-Picot è uno dei primi esempi in tal senso, e tra i più
clamorosi, mettendo a nudo la cinica ipocrisia delle grandi
potenze. Vladimir Il’ič Ul’janov ha, all’epoca, già un chia-
rissimo disegno che non è soltanto di conquista ma anche di
gestione del potere, di un potere che «abolisce lo stato di cose
presenti»6, come insegnavano Marx ed Engels, di cui Lenin
si sente interprete, continuatore e, soprattutto, vivificatore. E
in tale direzione va il libro che egli scrive in questa fase, Stato
e rivoluzione, tentativo di riprendere gli sparsi e non sempre
coerenti frammenti dei “padri fondatori” per dar vita a una
vera dottrina marxista dello Stato, non tanto innovando la
teo­ria, quanto ristabilendo la verità, sulla base dei testi auten-
tici, liberati dalle superfetazioni e dalle incrostazioni secondo-
internazionaliste7. A Lenin interessa soprattutto sottolineare
il carattere di classe dello Stato, strumento di cui una classe o
un gruppo di classe si serve per esercitare il dominio su altre
classi sociali; gli interessa combattere la diffusa opinione se-
condo cui lo Stato sarebbe un organo neutro, al di sopra delle
classi, e che, in particolare, non sarebbe dunque necessario
abbatterne gli apparati istituzionali, ma semplicemente farne
un uso socialista, o democratico, secondo l’interpretazione
gradualista di Karl Kautsky. Quest’ultimo ha preso il posto
di Engels, dopo la morte di questi nel 1895, come “papa del

5
Cit. in Boffa (a cura di) 1964, pp. 83-84.
6
Marx e Engels 1972, pp. 24-25.
7
Cfr. Gruppi 1970, p. 201.

146­­­­
marxismo”, ma ha assunto posizioni che in realtà si sono di
molto allontanate dalla linea marx-engelsiana, diventando,
di fatto, il grande teorico del riformismo socialista anche se
inizialmente, rispetto alle tesi dirompenti di Bernstein, inven-
tore del “revisionismo” marxista, egli tutto sommato recita,
allora, la parte dell’ortodosso.
Non esisteva, prima di quest’opera scritta nell’esilio finlan-
dese, una teoria marxista dello Stato, ed è ciò che l’autore si
prefigge raccogliendo, con grande cura, gli sparsi frammenti
di Marx, pochi, e di Engels, più numerosi. È stato rilevato
che per compiere questo lavoro «era necessario il vigore di
uno spirito lucido come quello di Lenin»8. Come se costruis-
se un puzzle, l’autore, zelantemente, delinea l’abbozzo di tale
dottrina, sottolineando già in esordio l’importanza del tema
“Stato” nel tempo presente. Ma esordisce ricordando, non
senza una buona dose di indignazione, che è tipico dei modi
di fare delle borghesie al potere prima osteggiare con ogni
mezzo «con implacabili persecuzioni» i «grandi rivoluziona-
ri», salvo, post mortem, «trasformarli in icone inoffensive, di
canonizzarli», mentre «si svuota del contenuto la loro dottrina
rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si svilisce»9. Insomma,
Lenin ricorda ai suoi compagni, ma anche ai suoi avversari,
che i due sono stati, sì, due geni della teoria, ma sono stati
anche due militanti della causa proletaria, due organizzatori
del movimento socialista, in sintesi, appunto, due rivoluziona-
ri, due «grandi rivoluzionari». Ossia, tutta la loro gigantesca
opera non è stata una mera elaborazione, bensì una poderosa
macchina al servizio del proletariato, e il loro obiettivo finale
è sempre stata la liberazione dell’uomo dalle catene in cui le
strutture sociali, dall’antichità in poi, lo hanno ristretto.
Consapevole, a propria volta, di star scrivendo un testo
che avrà anche un valore pratico, Lenin vuole innanzi tutto
sgomberare il campo dall’idea, diffusissima tra i socialisti –

8
Chevallier 1998, p. 403.
9
Lenin 1955-1970, vol. XXV (1967), p. 365.

147­­­­
anche tra i socialisti che si richiamano variamente al marxi-
smo –, che lo Stato sia una sorta di ente eterno, perciò ente
neutro, una sorta di camera di compensazione tra forze diver-
se, un regolatore dei contrasti fra le classi. No, lo Stato non è
neutro, non è l’arbitro fra i duellanti, lo Stato è semplicemen-
te l’espressione istituzionale dei rapporti di forza, ossia l’or-
gano del dominio di classe. E pensare di fare la rivoluzione,
rovesciando i ruoli tra oppressi e oppressori, ricorrendo alla
inevitabile violenza rivoluzionaria e accontentandosi di rag-
giungere, per tal via, il livello sociale, trascurando quello isti-
tuzionale, è non soltanto un errore teorico e pratico, ma una
colpa politica. Giacché, appunto, lo Stato va abolito insieme
al dominio di classe di cui è espressione e strumento. Lenin
insiste, in previsione della “scalata al cielo” che egli stesso e
i suoi compagni potranno e vorranno tentare, su un elemen-
to, ossia che andare al potere e servirsi degli apparati dello
Stato così come sono, magari migliorandoli, perfezionandoli,
sarebbe esiziale per la causa rivoluzionaria; invece la mac-
china statale «bisogna spezzarla, demolirla»10 e ricostruirla
in tutt’altro orientamento, proprio come hanno fatto i Co-
munardi nel 1871. Nel contempo, d’altro canto, i bolscevichi
non dovranno commettere gli errori della Comune, sottova-
lutando il pericolo del ritorno al potere delle vecchie classi
dominanti sconfitte. Occorrerà esercitare la ferrea dittatura
del proletariato, che, nondimeno, sarà una forma di demo-
crazia, perché a differenza di quella borghese sarà l’autentica
dittatura della maggioranza sulla minoranza, e non l’opposto
come nello Stato borghese. Lenin insiste, però, sul fatto che
«lo Stato della dittatura del proletariato tende ad unificarsi
con la società, dà subito avvio alla propria estinzione e mette
in atto forme di autogoverno sociale»11.
Insomma, prima ancora di giungere al soglio del potere,
Lenin delinea un profilo dello Stato proletario e cerca di far

10
Ivi, p. 384.
11
Cfr. Gruppi 1970, p. 203.

148­­­­
comprendere ai suoi compagni e seguaci che è necessario ser-
virsi di strumenti nuovi, e di guidarli nella costruzione della
nuova società; i Soviet sono questi strumenti. La Rivoluzione
bolscevica deve essere e sarà la rivoluzione dei Soviet, lo Stato
che ne nascerà sarà uno Stato “sovietico”, e la sua edificazio-
ne non può essere rinviata al “dopo”, ma va avviata subito,
attraverso la destrutturazione delle forme istituzionali prece-
denti, le quali, a ben vedere, concernono anche aspetti sociali
ed economici come i salari, per i quali si stabilisce un metro di
paragone in quello di un “buon operaio”. Ma Lenin fornisce
anche importanti elementi di carattere etico-politico di gran-
de interesse oggi, come la immediata revocabilità dei funzio-
nari e così via, in una sorta di recupero anche di tradizioni di
pensiero diverse, come quella russoiana, sempre, però, con la
testa volta alla traducibilità pratica di quanto scrive, sia pure
alla luce dei “sacri testi” del marxismo canonico.
In definitiva, nell’opera, secondo una celebre analisi “or-
todossa” del filosofo György Lukács, l’autore non si limita a
«una ricostruzione filosofica della dottrina originaria», né a
«una sistemazione filosofica dei suoi puri principî», ma opera
anche una «sua prosecuzione nel concreto, la sua concretiz-
zazione nella sfera pratico-attuale»12. Detto in modo forse
meno alto, ma più laico e distaccato, Stato e rivoluzione oggi
ci appare un’associazione non sempre riuscita tra apporto
teo­rico e manuale pratico, ma che alla stregua dei fatti si ri-
velerà un formidabile strumento di lotta politica, interna ed
esterna, divenuto immediatamente un breviario del rivoluzio-
nario comunista, e dopo la morte dell’autore verrà trasforma-
to in uno dei capitoli della dogmatica “marxista-leninista” in
chiave staliniana. Il che non toglie che Stato e rivoluzione – su
cui in tempi non lontani si facevano formidabili discussioni
scientifiche e interminabili dibattiti politici13, mentre oggi v’è

12
Cit. in Lukács 1970, pp. 74-75.
13
Un esempio italiano in Dibattito 1970, con contributi fra gli altri di
Lelio Basso e Lucio Colletti.

149­­­­
chi liquida il libro come «visionario»14 – sia considerato, giu-
stamente, nella storiografia specifica, una delle «grandi opere
del pensiero politico», ossia di quelle opere che hanno avuto
un potente effetto pratico nella storia15.
Mentre Lenin è intento alla stesura dell’opera, la situazione
russa si complica, e si accavallano notizie di ammutinamenti
e diserzioni in tutti gli eserciti impegnati nei teatri di guerra
europei. Fermenti di ribellione attraversano le città, stanche e
affamate dal prolungarsi del conflitto. E soprattutto in Russia
si è al bivio, secondo Lenin: o rivoluzione, che riprenda e porti
all’obiettivo socialista gli eventi di marzo, o la controrivoluzio-
ne delle classi borghesi e aristocratiche, che cancellerà quello
che si è ottenuto allora impedendo ogni sviluppo progressivo.
Perciò interrompe la stesura di Stato e rivoluzione prima di
completare l’ultimo capitolo. In calce al testo annota, beffar-
do: «è più piacevole e utile fare “l’esperienza di una rivoluzio-
ne”, che non scrivere su di essa»16. E sul finire del mese invia
una lettera al Comitato centrale del Posdr in cui enuncia, con
spietata lucidità, i prossimi passi da compiere. Coerentemen-
te con la teoria elaborata in Stato e rivoluzione, Lenin ritiene
che tentare di raggiungere l’obiettivo da parte dei bolscevi-
chi sia cosa non solo necessaria, ma giusta, e che sia questo il
momento per farlo, perché «la maggioranza operativa degli
elementi rivoluzionari del popolo delle due capitali basta per
trasportare le masse, per vincere le resistenze dell’avversario,
per annientarlo, per conquistare il potere e conservarlo». Ma,
spiega, non intende affermare che “l’ora X” sia giunta. «Non
si tratta né del “giorno” né del “momento” dell’insurrezione,
nel senso stretto dei termini. Quello che deciderà, è soltanto
la voce unanime di coloro che sono in contatto con gli operai
e i soldati, con le masse». Nello stesso tempo, Lenin precisa

14
Graziosi 2007, p. 88.
15
Cfr. Chevallier 1998, in particolare il capitolo su Stato e rivoluzione,
pp. 395-419.
16
Lenin 1955-1970, vol. XXV (1967), p. 463.

150­­­­
che attendere di avere una maggioranza formale sarebbe inge-
nuo: «nessuna rivoluzione l’attende». E neppure gli avversari
attenderanno di avere quella maggioranza. Essi stanno prepa-
rando la resa. La situazione è dunque chiarissima: «La storia
non ci perdonerà se noi non prendiamo il potere adesso»17.
La guerra della Russia di Kerenskij – che a metà del mese,
intanto, ha proclamato la nascita della Repubblica – contro
gli Imperi centrali tuttavia prosegue, anche se con un esercito
ormai a brandelli, ridotto a uno stato di semi-impotenza da-
vanti alla possente macchina bellica austro-germanica. Prima
ragione per cui, per esempio, Alfredo Rocco, illustre giurista
ed economista nazionalista, futuro edificatore dello Stato to-
talitario mussoliniano, si lascia andare, in quelle stesse gior-
nate, a una profluvie denigratoria che merita di essere citata:

La rivoluzione russa prosegue il suo ciclo fatale. Rivoluzione


paralitica ed impotente, incapace di fare la guerra, incapace di or-
ganizzarsi, incapace di difendersi, senza volontà, senza forza, sen-
za coraggio, essa sta precipitando nel disfacimento totale. Mai la
storia vide esempio più tipico di un sommovimento, come questo,
non sorretto da alcuna forza morale, e per ciò stesso, così totalmen-
te privo di ogni virtù rinnovatrice e creatrice. [...] La rivoluzione
russa ha distrutto lo Stato, ha annichilito ogni organizzazione ci-
vile, ha trasformato un esercito valoroso in una massa imbelle di
fuggiaschi, e, per compenso, ha creato il «Soviet», cioè il comizio
permanente, aperto a tutte le spie e a tutti i traditori, assunto ad
organo direttivo del Governo.

Esempio notevole di ideologia che vela gli occhi, e im-


pedisce non di comprendere, ma neppure di guardare con
attenzione agli eventi in corso. E con una certa impudicizia
e molta superficialità, Rocco, mentre ne auspica la vittoria,
tesse un panegirico di Kornilov (in realtà già sostanzialmente
sconfitto), il quale «in ogni occasione [...] si è sempre mo-
strato convinto della necessità di por termine all’anarchia, di

17
Cit. in Boffa (a cura di) 1964, pp. 104-106.

151­­­­
eliminare dalla vita russa l’influenza nefasta del “Soviet”, di
instaurare, nell’interno e sul fronte, la più rigida disciplina»18.
Quella disciplina, “sole degli eserciti” secondo un detto all’e-
poca assai diffuso, che tuttavia non è sufficiente a fare da
collante a soldati sempre meno motivati, un po’ ovunque,
non soltanto in Russia. E appare bizzarro che Rocco, dal can-
to suo, non si accorga della situazione poco felice al fronte
italiano, e in costante deterioramento, in primo luogo per la
caparbia testardaggine di Cadorna.
La guerra continua, dunque, su tutti gli altri fronti, senza che
cambino le sue dinamiche, e soprattutto senza che si riduca-
no i numeri delle vittime, mentre non cessano ammutinamenti
e piccole rivolte tra i soldati, e turbolenze e agitazioni nelle
popolazioni civili, specie nelle classi operaie. I tentativi, nelle
varie situazioni nazionali, di combinare repressione e ricerca
di un rinnovato consenso con dispositivi di legge e messaggi
della propaganda sortiscono effetti modesti, ma si percepisce,
sempre più forte, il desiderio diffuso, che esprime un bisogno
concreto, di voltare pagina, in una parola di porre fine alla
guerra. Qualche timido, mai palese tentativo di riaprire cana-
li negoziali si va tuttavia facendo, per esempio nella Francia
in cui il ministro della Guerra Paul Painlevé, un matematico
(noti i suoi studi sulle equazioni differenziali) che dai primi
del secolo si era dato alla politica professionale, ascende alla
presidenza del Consiglio: non sono chiari i dettagli, ma par-
rebbe che anche per la sua relazione con una donna di origine
austriaca Painlevé sondi la Germania per mostrare apertura,
salvo non concedere che promesse di compensi commerciali,
ma recuperando subito Alsazia e Lorena, l’eterno oggetto del
contendere tra le due nazioni, e la piena sovranità territoriale
del Belgio. D’altro canto, egli deve vigilare a che la Gran Breta-
gna da una parte – con un Lloyd George poco sensibile al con-
tenzioso territoriale franco-tedesco – e la Germana dall’altra,

18
A. Rocco, Lo sfacelo della rivoluzione russa, in «L’Idea Nazionale», 13
settembre 1917, ora in d’Orsi 2007, pp. 380-82.

152­­­­
emergendo come dominatrici dell’Europa del dopo-conflitto,
non costringano la Francia in una posizione di subalternità.
Le prospettive, in sostanza, non appaiono rosee. E il quadro
generale si fa sempre più confuso19.
E l’Italia? In Italia va peggio che altrove, sia al fronte, sia
nelle città. Al fronte italiano i soldati conducono una esisten-
za sempre più penosa. Scrive uno di loro al fratello:

Dai nostri diletti genitori ricevetti lettera ieri e mi dissero che


godono buona salute. Ma da ciò che potei rilevare anche loro sono
molto afflitti a mio riguardo. [...]. Cosa vuoi, se dovessi spiegargli
tutto diventano pazzi con questa vita barbara che faccio. Che a dirti
il vero sono stanchissimo. Pensare a casa il mio letto di piume e qui
dormire per terra come una bestia senza neppure un franco di pa-
glia, ormai sono più di quattro mesi. Carico di pidocchi. E questo
non è niente. Il pericolo della vita, quello è il più. Pensare quanto
hanno tribulato i miei genitori per allevarmi fino a vent’anni e qui
con una indifferenza ti mandano al macello. [...]. Sono ormai 11
mesi che più non vi vedo e mi sembra un’eternità tanto sono lunghi
e penosi. Quando ci penso il mio cuore freme dal gran dolore. Mai
in vita mia ebbe a soffrire così. Anche per questa benedetta licenza
che non viene più20.

Cadorna, come la gran parte dei suoi colleghi generali di


tutti gli eserciti, ignora deliberatamente la vita reale dei soldati.
Il capo militare pensa all’avanzata, agli assalti, alla conquista
anche soltanto del classico fazzoletto di terra. La famosa o fa-
migerata XI battaglia dell’Isonzo (o della Bansizza), avviata a
metà agosto con una sensibile avanzata delle truppe italiane,
subisce una micidiale, potentissima controffensiva austriaca.
Piogge di proiettili, uso di gas asfissianti, bombe di ogni di-
mensione, impiego di lanciafiamme producono in pochi giorni

19
Cfr. Robbins 1987, pp. 126 ss.
20
Cit. in http://www.grandeguerra.ccm.it/files/grandeguerra_archi-
vio_it_931_file_pdf_orig.pdf. Il link rinvia al bel diario dell’autore: Baratto
1989.

153­­­­
una terribile carneficina tra gli italiani: in tutto oltre 160.000
tra morti, feriti (quasi sempre destinati alla mutilazione: un
occhio, un braccio, un piede, una gamba) e ammalati, che
morranno mesi dopo, o porteranno per sempre nei corpi e
nelle menti l’orrore subìto e visto. A loro si aggiungono alcu-
ne migliaia di prigionieri, dei quali i governanti italiani mai
si prenderanno cura, a differenza di quelli delle altre nazioni
belligeranti. Si conclude così, ingloriosamente, tragicamente,
una battaglia durata un mese, che non produrrà alcun effetto
sul piano strategico per nessuna delle due parti, ma contribuirà
ad abbattere il morale degli italiani, la cui guerra, doppiato il
capo dell’estate, e specialmente dopo l’XI dell’Isonzo, sem-
pre più spesso appare condotta in una completa disorganiz-
zazione, con ordini contrastanti, con soldati ormai demotivati
e stanchi fisicamente per la durata troppo lunga dei turni in
prima linea (la più lunga di tutti gli eserciti combattenti), per
le licenze poche e brevi, per il rancio pessimo e scarso, per gli
indumenti, specie le calzature, inadeguati e insufficienti. Le
grandi battaglie, nella narrazione complessiva, nascondono gli
innumerevoli episodi minori come quello di Carzano, dove, a
seguito della delazione di un soldato boemo consegnatosi agli
italiani, dopo un tira e molla tra comandi minori e maggiori, si
decide di attaccare il nemico approfittando del vantaggio delle
informazioni fornite dal soldato. Si legge su una fonte:

L’attacco indeciso e mal organizzato si trasformò in pochissimo


tempo in una tragedia. Superata la linea austroungarica la notte del
18 settembre, i primi Bersaglieri del 72° Battaglione entrarono in
Carzano senza il sostegno della fanteria che aveva sbagliato strada.
Anziché avanzare il Brigadiere Attilio Zincone, preso dal panico per
l’assenza di rinforzi, ordinò la ritirata per i troppi contrattempi. Un
primo gruppo però aveva già attraversato il ponte sopra il torrente
Maso e si ritrovò bloccato dal fuoco nemico: 900 uomini vennero
fatti prigionieri e 360 morirono mentre cercavano di ripiegare21.

21
M. Fert, in http://www.tuttostoria.net/storia-contemporanea.aspx?
code=1019.

154­­­­
Se non fosse la descrizione di una tragedia parrebbe una
scena da film di Mario Monicelli. Impegnato in elucubrate
riflessioni, sempre cariche di acrimonia oltre che di una spro-
positata autoconsiderazione, convinto di essere a un passo
dall’essere collocato nel Gotha dei Grandi come “colui che
ha restituito all’Italia Trento e Trieste”, Cadorna, reso edotto
di movimenti di truppe austriache e prevedendo un’offen-
siva nemica, invita i comandi a prepararsi. Soprattutto, in
una nuova lettera al presidente Boselli22, datata 26 settem-
bre, scrive: «Il male peggiora con un crescendo che è pieno
di oscuri pericoli». Sembra una sorta di excusatio non petita
(o forse piuttosto una profezia destinata ad auto-avverarsi),
quasi a preparare il terreno a una sconfitta, che puntualmente
arriverà meno di un mese più tardi. Eppure, nel ’17, l’esercito
italiano appare quasi più possente di quello austriaco, che pe-
rò appunto si appresenta a un’offensiva “di alleggerimento”,
per servirsi del lessico militare. Offensiva che otterrà, come è
noto, un successo che va oltre ogni aspettativa, da un lato, e
oltre ogni timore, dall’altro.
Nel paese, d’altro canto, il clima sociale e politico non
appare certo migliore. La rivolta di Torino del mese prima
ha gettato un’ombra in più su un panorama già abbastanza
fosco. Nelle città il razionamento viene esteso dal pane a tut-
ti i principali generi alimentari. Numerose province italiane
sono dichiarate zone di guerra, pur essendo estranee ai com-
battimenti, soltanto per facilitare la repressione delle rivolte
contro la carenza dei viveri e l’aumento dei prezzi. Nel perdu-
rare della chiusura estiva del Parlamento italiano, il Gruppo
parlamentare del Psi, partito oggetto di attacchi di stampa e
politici sempre più gravi e insistiti, si riunisce nel giorno 21 e,
mentre chiede con forza la riapertura dell’Assemblea, appare
combattuto tra l’orgogliosa rivendicazione della “diversità”
socialista davanti al conflitto che insanguina il mondo, e la
conferma di essere comunque un partito italiano, non dimen-

22
Cit. in Tranfaglia 1995, p. 96.

155­­­­
tico della patria, anche se cosciente dell’esistenza di un’altra,
seconda patria, quella dei proletari di tutti i paesi, secondo
il dettato dell’appello finale del Manifesto comunista. Stretto
fra la rivolta di Torino del mese precedente e la grave crisi
dell’esercito che sfocerà, un mese dopo, nella catastrofe di
Caporetto, il governo italiano non sa andare oltre l’aggrava-
mento delle misure di censura sulla stampa, di controllo e
limitazione degli altri diritti politici garantiti dallo Statuto,
mentre cerca di mettere in mora il Parlamento come organo
di controllo del proprio operato. I socialisti, coraggiosamen-
te, denunciano la manovra, come denunciano anche la cam-
pagna di una stampa «finanziata dai fornitori della guerra»
davanti alla quale si cerca di ridurli al silenzio, ricorrendo
alla censura e alle più varie misure di polizia. La lotta non è
soltanto per fermare la guerra, dunque, bensì per salvare lo
Stato di diritto: una costante della storia nazionale, quella per
cui è toccato alla sinistra rivestire i panni dei difensori delle
guarentigie liberali23.
Come abbiamo visto, guerra e dolore da un canto, guerra
e ricchezza dall’altro, sono due accoppiate che si tengono
insieme. A Milano, Senatore Borletti, dopo aver ereditato
l’azienda di famiglia che ha fatto fortuna nel settore tessile,
passa alla meccanica di precisione, specializzandosi in stru-
menti di misurazione e orologi anche col marchio Veglia, ma
moltiplicando il giro d’affari; quando poi allarga gli interessi
verso l’industria di guerra, producendo spolette per proiettili
e bombe, le azioni salgono rapidamente, i profitti aumentano
a dismisura, pur tra qualche polemica politico-giornalistica,
e l’impero familiare cresce al punto che Borletti diversifica
ulteriormente. È così che, con la collaborazione di un co-
gnato, fonda il 27 settembre a Milano la Società Anonima La
Rinascente, dalla fusione dei Magazzini Vittoria e dell’azien-
da “Alle città d’Italia” dei fratelli Bocconi fondata nel 1877,
il primo esempio di “grande magazzino” in Italia. Il nome,

23
Il documento è in Malatesta 1935, pp. 269-71.

156­­­­
frutto di un suggerimento di Gabriele d’Annunzio, si rivelerà
azzeccatissimo non foss’altro che per la rapidissima ricostru-
zione dei locali di piazza Duomo, distrutti da un incendio la
notte di Natale del 1918. Anzi proprio quella “rinascita” sarà
foriera di una eccezionale fortuna dell’impresa di Borletti,
a dispetto delle polemiche che cominceranno a svilupparsi
negli ultimi mesi di guerra e lungo il biennio seguente contro
i “pescecani di guerra”, ossia i capitalisti che hanno incre-
mentato i profitti grazie al conflitto, in regime di oligopolio
quando non addirittura di monopolio: testimonianza clamo-
rosa della estrema disuguaglianza sociale che, mentre produ-
ce disgregazione della comunità nazionale, scava un baratro
tra classe politica e paese reale.
10.
Ottobre
Italia Caporetta

Nella Hofburg, palazzo imperiale di Vienna, siede dal novem-


bre 1916 Carlo I, erede al trono dopo l’uccisione di France-
sco Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno 1914 – l’evento che
come sappiamo scatenò il conflitto, o meglio che ne fornì
il pretesto –; incoronato imperatore d’Austria-Ungheria alla
morte del prozio Francesco Giuseppe, Carlo sarà beatificato
nel 2004 da papa Giovanni Paolo II, in omaggio all’impegno
per la pace che quel regnante avrebbe profuso fin dall’in-
sediamento. Eppure, agli inizi di questo mese, dagli uffici
imperiali esce una Nota di assoluto diniego a ogni proposta di
accomodamenti, in particolare per quanto concerne la fron-
tiera con l’Italia: tutt’al più modeste rettifiche del confine, ma
senza cedere un palmo di terra agli italiani, e in ogni caso pre-
tendendo “compensazioni” ai danni della Serbia e del Mon-
tenegro1. Guardando le cose con il senno di poi, che in questo
caso ha il nome di Caporetto, non si faticherà a dare ragione
all’imperatore, anche se, sul lungo periodo, quella vittoria
non sarà coronata dal favorevole esito finale della guerra. E
alla rotta nelle pianure venete mancano solo tre settimane.
Gli austriaci stanno preparando l’assalto in grande stile, ma
gli italiani, come vedremo, se ne avvedranno troppo tardi.
Negli stessi giorni, il governo italiano emana un decre-
to (d.lt. n. 1562) – che reca il nome del ministro di Grazia
e Giustizia e Affari di culto, il radicale cremonese Ettore
Sacchi, già noto come avvocato dei contadini e degli operai

1
Cfr. Charles-Roux 1947, pp. 195 ss.

158­­­­
– sulle «manifestazioni ostili alla guerra o lesive di interessi
connessi (disfattismo)», che colpisce chiunque «contribuisca
con qualsiasi mezzo, commette o istiga a commettere un fatto
che può deprimere lo spirito pubblico o altrimenti diminui­
re la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi
connessi con la guerra [...]». Il decreto, già nell’analisi di un
importante giurista, Vincenzo Manzini, a guerra appena fini-
ta, risulta improntato a criteri «degni del più tirannico Stato
assoluto»: con un simile strumento legislativo, «qualunque
sopraffazione, qualunque infamia rimane legittimata, purché
sia ammantata col pretesto della guerra o del patriottismo»2.
In effetti, il decreto porterà all’arresto e alla condanna di di-
versi dirigenti del Psi, fra i quali Costantino Lazzari, segre-
tario del partito, e del suo vice, Nicola Bombacci. Il decreto
colpisce in generale quella vaga categoria costituita appunto
dal disfattismo, parola entrata in circolazione dalla Francia
(défaitiste, da défaite) specialmente in quell’anno: disfattista
è colui che si augura la disfatta della sua patria, dunque un
traditore anche se non in atto, in potenza.
In altri termini, il decreto, che avrà un peso enorme nei
mesi successivi, allarga la sfera del “delitto”, riguardando i
giudizi e commenti espressi da cittadini (per esempio in una
trattoria, in un pubblico ritrovo, su di un treno o un tram),
ma anche la semplice diffusione di notizie false, diffuse con
dolo, oltre che l’espressione di auspici (che arrivi la pace,
comunque al più presto) o paure (che la guerra duri ancora
a lungo). Si sa che in tempo di guerra le notizie false si con-
fondono con quelle vere, e comunque era ben difficile dimo-
strare che vi fosse dolo, e dunque le condanne cominciano a
fioccare: tanto più che i processi, in applicazione del decreto,
non si svolgeranno davanti alla magistratura ordinaria, bensì
nei Tribunali militari. In sostanza, con quel decreto si opera
una ulteriore, drastica riduzione e quasi nullificazione dei di-

2
V. Manzini, Legislazione penale di guerra (1918), cit. in Giovanna Pro-
cacci 1999, p. 155.

159­­­­
ritti politici, sancendo l’accettazione da parte delle autorità
politiche dei desiderata delle forze militari e dell’interventi-
smo più fanatico, che premono da tempo per una più decisa
azione repressiva contro il «disfattismo»3. È evidente che il
decreto ha nel suo retroterra il processo di Pradamano e i
fatti di Torino, e per la sua genericità si presta pericolosamen-
te alle interpretazioni più arbitrarie, inteso a soffocare ogni
pur minimo cenno di dissenso. Nell’applicazione del decre-
to Sacchi, si giungerà a ritenere non necessaria la presenza
del dolo perché si configuri il reato; in altri termini, più che
un crimine è importante perseguire la pericolosità del suo
autore. Addirittura in alcuni processi ai cosiddetti disfattisti
saranno applicati gli articoli del Codice penale militare che
prevedevano il reato di tradimento indiretto o colposo, anche
in assenza, cioè, di una specifica volontà di tradire4.
Il decreto nasce dalla paura degli Alti comandi, e del ce-
to politico di governo, davanti al moltiplicarsi di episodi di
diserzione, di cedimenti al nemico giudicati volontari, e di
espressioni, nelle lettere ai familiari, appunto di “propaganda
disfattista”. Caporetto, la “disfatta” che si materializza cruda-
mente venti giorni più tardi, lungi dall’essere generata da tale
propaganda, tutto sommato assai contenuta per numero e per
qualità, nasce dalla stanchezza che quegli episodi vanno pro-
ducendo soprattutto in questa terza annata di guerra, per l’Ita-
lia. Dopo Caporetto, il decreto Sacchi sarà utilizzato anche per
colpire con condanne pesanti, fucilazione compresa, i militari
accusati di aver pronunciato frasi disfattiste o pacifiste, o di
aver cantato inni sovversivi, pur se in stato di ubriachezza. Aver
manifestato in passato simpatie «clerico-neutraliste» o, peggio,
socialiste, era spesso considerato dai Tribunali un’aggravante5.

3
Cfr. Giovanna Procacci 1999, pp. 154 ss.
4
Cfr. Ventrone 2003, p. 228.
5
Cfr. Monticone 1972, pp. 300 ss. (il saggio Il regime penale nell’esercito
italiano durante la prima guerra mondiale, incluso nel volume ma già apparso
in Forcella e Monticone 1972, è fondamentale sul tema).

160­­­­
E infatti le pene comminate ai “disfattisti” socialisti (o anarchi-
ci) saranno sempre più pesanti delle altre. La giustizia, come
la politica, si piega ai militari, che accrescono col passare degli
anni il loro ruolo nella vita pubblica, interferendo pesantemen-
te nella gestione della quotidianità nazionale. Detto altrimen-
ti, come noterà un deputato socialista, Giuseppe Emanuele
Modigliani, intervenendo alla Camera, è «l’impossessarsi della
direzione della cosa pubblica da parte del Comando militare»6
che ha favorito (e favorirà) le diverse sconfitte, specialmente
Caporetto.
Proprio Caporetto, sull’onda della “spiegazione” fornita dal
suo primo responsabile, Cadorna, che colpevolizza i suoi stessi
soldati, non varrà a mitigare questa politica, anzi, i provvedi-
menti che maggiormente inaspriranno la “giustizia” militare
nei confronti dei disertori saranno adottati precisamente tra
la fine del 1917 e l’aprile 19187. In base a queste disposizioni
vengono colpiti anche i congiunti: una logica di tipo mafioso,
che oggi vediamo per esempio applicare dagli israeliani contro
i palestinesi con la persecuzione dei parenti di “terroristi” (che
per i palestinesi sono patrioti che lottano per la liberazione
della loro terra), la distruzione delle abitazioni, e così via.
Che cosa accade dunque nella microscopica cittadina che
è diventata un nome simbolo di disfatta? Situata nella valle
dell’Isonzo, essa è al tempo ancora parte dell’Austria imperia-
le, poi attribuita all’Italia nel 1919, sotto la provincia di Gori-
zia, e quindi, dopo la sconfitta italiana nella Seconda guerra
mondiale, ceduta col nome di Kobarid dal trattato di pace del
1947 alla Repubblica Federale di Jugoslava (oggi nel frammen-

6
G. Procacci, La società come una caserma. La svolta repressiva degli anni
di guerra, in Bianchi (a cura di) 2006, pp. 283-304 (283).
7
Il d.lt. n. 187 del 2 novembre 1917 impone agli sbandati di presen-
tarsi all’autorità militare entro cinque giorni, pena la fucilazione; termine
successivamente prorogato al 18 e al 30 novembre. Quindi il d.lt. n. 1952
del 10 dicembre concede il perdono giudiziario a quanti si presentino entro
il 29 dicembre, prevedendo però un aggravamento delle pene per i «favo-
reggiatori».

161­­­­
to della Repubblica di Slovenia). Là, alle ore 2, in una notte
nebbiosa del 24 ottobre, le truppe austro-ungariche, rinforzate
da alcune divisioni germaniche e comandate da un generale
tedesco, Otto von Below, lanciano una possente offensiva, ar-
rivando, entro la giornata, a sfondare la linea tenuta dagli ita-
liani, in particolare quella sotto il comando del generale Luigi
Capello, posto a capo della II Armata, alle cui dipendenze, tra
gli altri, vi è Pietro Badoglio. Solo tre-quattro giorni prima le
voci di un imminente attacco in grande stile del nemico che
corrono per le trincee sono state respinte dagli Alti comandi,
Cadorna in testa8. Le fanterie nemiche, che hanno fatto uso
preliminare nel fuoco di mille tubi elettricamente comandati,
spediscono verso le trincee italiane altrettanti cilindri ripieni
di un gas asfissiante, di natura ignota. In pratica un intero reg-
gimento italiano viene annientato così, con la morte invisibile
che giunge dal cielo. I soldati muoiono senza capire neppure
che cosa stia accadendo. Quattro ore dopo nei bollettini ita-
liani si afferma che i danni sono stati contenuti, e che il gas ha
fatto pochi danni9. Nel caso specifico, non si tratta di cinismo,
ma di pressappochismo. In realtà un ufficiale inviato sulle linee
dove si è verificata la pioggia di cilindri – è lo scrittore Giovan-
ni Comisso che presta servizio in zona a raccontare – riferirà
che i soldati sono tutti al loro posto, col fucile tra le mani e la
maschera al volto. Comisso chiosa: «Quei soldati erano fermi,
impietriti dalla morte che la piccola e miserabile maschera non
aveva servito a impedire»10. Non si è mai appurato che tipo di
gas sia stato impiegato, forse a titolo di experimentum in cor-
pore vili. Probabilmente acido cianidrico, che uccide in modo

8
Cfr. le pagine soggettive, ma sostanzialmente fedeli alla realtà, del ge-
nerale Gatti dello stato maggiore: Gatti 1964, pp. 253 ss. Si legga anche
l’attenta ed equilibrata ricostruzione di Melograni 2015, pp. 354-419.
9
Cfr. Silvestri 1984, p. 162. Ma si veda il recente bilancio di N. Laban-
ca, La guerra sul fronte italiano e Caporetto, in Audoin-Rouzeau e Becker (a
cura di) 2007, I, pp. 444-60. Per una rassegna sintetica: O. Lepick, Le armi
chimiche, ivi, pp. 261-71.
10
Ivi, p. 180.

162­­­­
silenzioso quanto istantaneo: chi ne è colpito non riesce nep-
pure a emettere un gemito, in quanto l’acido paralizza il centro
respiratorio cerebrale. L’acido cianidrico può essere conside-
rato un antenato della famiglia tutta letale del gas nervino11,
che tanto ha popolato di sé le guerre moderne, e in specie le
new wars, ma viene usato anche in operazioni di terrorismo, o
all’opposto di polizia o di intelligence.
Basti questo esordio per far capire che l’offensiva austro-
tedesca ha successo: le truppe di von Below procedono con
una rapidità inaspettata, guidate da un certo Rommel, che
darà filo da torcere agli inglesi in Africa nella Seconda guer-
ra mondiale, diventando personaggio leggendario come «la
volpe del deserto». I tedeschi applicano una nuova tattica,
la guerra statica diventa guerra dinamica, fatta di infiltra-
zione e aggiramento, la stessa strategia che è stata messa a
punto un anno prima, proprio in Italia, da un comandante
del campo avverso, ossia dell’Intesa, il russo Aleksej Brusi-
lov: Rommel ne ha fatto tesoro e la applica al contrario12. I
comandi italiani, sorpresi e impacciati, appaiono inadeguati
davanti alla situazione, che va peggiorando di ora in ora sen-
za che essi se ne rendano conto, anche per le difficoltà di co-
municazione e gli equivoci tra reparti, battaglioni, divisioni,
sicché la stessa disorganizzazione delle truppe italiane, che
vanno subito in confusione, finisce per favorire ulterior-
mente l’avanzata austro-germanica. Un ruolo fondamentale
a svantaggio degli italiani e a vantaggio dei loro avversari
è svolto dalle comunicazioni telefoniche: efficienti quelle
tedesche, inefficienti quelle italiane, spesso saltate ai primi
colpi di artiglieria, essendo i cavi non protetti, come si usa
(o come si dovrebbe usare nelle linee del fuoco); addirittura
i cavi telefonici spesso neppure esistono. Un elemento che,
aggiunto agli innumerevoli altri di analogo segno, fa capire
come avessero ragione Giovanni Giolitti, sul piano politico,

11
Ibidem.
12
Cfr. Ragionieri 1976, p. 2039.

163­­­­
e Benedetto Croce, su quello intellettuale, a ritenere che
l’Italia non avesse le spalle abbastanza solide per reggere il
peso di una guerra siffatta.
La sconfitta provocherà lo sbandamento dell’intero fron-
te, dall’altopiano della Bainsizza al Carso: centinaia di mi-
gliaia di soldati appartenenti alle divisioni della II Armata
abbandoneranno le armi in preda alla confusione e al panico
e si dirigeranno verso la pianura veneta, convinti, o sperando,
che la guerra sia finita. È l’atteso “Tutti a casa”, che si rivelerà
un tragico autoinganno. La guerra non finisce invece, e chi
fugge dall’orrore o vi sarà ricondotto con la forza o dovrà su-
bire i rigori impietosi fino all’atrocità della “giustizia” militare
e cattolica. “Insipienza”, “arroganza” sono ancora le parole
chiave per descrivere i comandi italiani, aggiungendo pres-
sappochismo, disorganizzazione e uno spirito di arrivismo
individualistico che sembra unificare tutti gli alti papaveri, da
Cadorna a Badoglio. Si pensi che alle 19,30 del 24, quando
ormai la situazione è praticamente perduta, l’Alto comando
emana un bollettino in cui si afferma: «Vengano pure [gli
austro-tedeschi], noi li attendiamo saldi e ben preparati»13.
La mattina dopo, a colloquio con il generale Gatti, che è un
militare che scrive regolarmente sui giornali ed è stato chia-
mato presso lo stato maggiore a farne il cronista o lo storico in
presa diretta, Cadorna si lascia andare alle prime gravissime
affermazioni: «il segno di questo disastro è la stanchezza. L’e-
sercito, inquinato dalla propaganda dall’interno, contro cui io
ho sempre invano lottato, è sfasciato nell’anima. Tutto, pur di
non combattere. Questo è il terribile di questa situazione»14.
Lo stesso Gatti annoterà, tre giorni dopo: «La verità pare
che non si possa dire»15. Un’affermazione che, per esempio,
ritroviamo in uno dei tanti testi generati dalla battaglia e dalla
ritirata di Caporetto, Trincee di Carlo Salsa, dove emerge il

13
Gatti 1964, p. 260.
14
Ivi, p. 264.
15
Ivi, p. 275.

164­­­­
volto vero della guerra degli italiani, e la ragione prima della
sconfitta; ecco il frammento del dialogo, svolto poco prima di
Caporetto, con altri ufficiali come lui prigionieri in un campo
austriaco:

– I soldati sono stanchi. Non marciano più.


– Io li ho perduti tutti per la strada. Si rintanano, si nascondono,
non vogliono più saperne.
– E dalli e dalli, con queste offensive a scadenza fissa, siamo
giunti a questo.
– Una volta si facevano ammazzare allegramente, a reggimenti
interi. Ora non vogliono più arrischiare la pelle [...]
– Io ho sparato nelle gambe a due soldati per dare l’esempio:
non è valso a nulla.
– A me ne sono scappati di qua diciannove l’altra notte quando
cominciò il bombardamento. Bisognerebbe che fossero tenuti da
una disciplina feroce, come gli austriaci.
– Ma loro i soldati li cambiano: hanno i loro turni fissi e le trup-
pe fresche per gli attacchi. Noi invece ci buttiamo in una offensiva
con un mese di trincea nelle ossa o due anni di anzianità al fronte.
[...]
– Ma i comandi non le vengono a sapere tutte queste cose?
– [...]
– Chi s’arrischia ad affermare che i soldati sono stanchi va a
finire sotto processo [...].
– Nessuno ha il coraggio di dire la verità!
– La verità, in guerra, è stata imbalsamata16.

Del resto, lungo tutto il suo diario, Salsa denuncia ricor-


rentemente lo stato di impreparazione in cui versa l’esercito
italiano, come, in sede di letteratura critica, ribadirà Mario
Silvestri, autore di un’appassionata e informatissima mono-
grafia17. Proprio suo è il lapidario giudizio di sintesi con cui
parla di «simbiosi fra l’incapacità dei comandi, lo scarso ed

16
C. Salsa, Trincee (1924), in Isnenghi 1967, pp. 125-27.
17
Cfr. Silvestri 1984. Vedi in particolare quel che scrive su Gatti (pp.
99 ss.).

165­­­­
errato addestramento al combattimento delle truppe e la dia-
bolica sorpresa di mortiferi gas [...]»18.
Superate le incertezze, tra mille difficoltà di collegamen-
to e ordini poco chiari, alla fine giunge da Cadorna l’atteso
ordine della ritirata, per attestarsi sul fiume Tagliamento. Si
tratterà di una scelta obbligata, ma che giungerà tardiva, es-
sendosi Cadorna illuso sulla possibilità di fermare il nemico
prima; e, altro grave errore, di fermarlo su linee come quella
sulla riva destra del fiume Isonzo, dove decide di attestarsi
spostando le divisioni fino ad allora sulla Bainsizza. Un errore
perché quelle linee non erano state predisposte, e quindi non
saranno in grado di reggere la micidiale onda d’urto tedesca19.
La ritirata dunque viene ordinata il 27 ottobre: gli austro-
tedeschi occupano Cividale, in provincia di Udine, per rag-
giungere subito dopo il capoluogo, sede del quartier generale
italiano, che si trasferisce a Padova. Intanto la ritirata diventa
«una corsa affannosa verso il fiume e i suoi ponti», prima che
vi giunga il nemico20. La corsa però dovrà riprendere subi-
to dopo, perché appunto la linea di difesa del Tagliamento
non è sufficientemente guarnita e appare ben presto indi-
fendibile. La ritirata verrà riproposta, stavolta sulla più forte
linea rappresentata da un altro fiume, il Piave. Ma non sarà
una ritirata, sarà una rotta, con la totale perdita di controllo
da parte delle autorità militari sulla situazione che, complici
anche le condizioni atmosferiche – quasi sempre piogge e
freddo e nebbia –, a coloro che sono sul posto in quei giorni
e ne hanno lasciato testimonianza, appare infernale.
Si ritirano i soldati, e fuggono gli abitanti delle terre italiane
invase: 270.000 persone, e moltissime altre verranno fermate
dalla impossibilità della fuga, data la distruzione sistematica
dei ponti, e spesso anche dall’arrivo delle truppe straniere.
Immaginando di guardare la scena dall’alto, si vedrebbero

18
Ivi, p. 176.
19
Cfr. Candeloro 1978, pp. 189-90.
20
Cfr. Silvestri 1984, p. 204.

166­­­­
due colonne che procedono in senso opposto: soldati italia-
ni fatti prigionieri che vanno verso l’Austria, dove saranno
internati, e civili che cercano di fuggire verso le zone venete
non occupate. Nella stessa direzione dei civili in fuga, talvolta
confusi con essi, troviamo i soldati disarmati, perlopiù anche
senza le mostrine che si sono strappati per non farsi identi-
ficare. E le armi? Che fine fecero le armi, questione su cui si
accentrerà la polemica di Cadorna e di una parte dei com-
mentatori? Come spiega Mario Silvestri, intanto vanno consi-
derati i soldati dell’Artiglieria e del Genio che non sono indi-
vidualmente armati; poi, certo, vi sono i soldati delle truppe
complementari, «truppe per definizione non completamente
addestrate, e che talvolta vennero mandate allo sbaraglio e
quindi si unirono agli sbandati probabilmente gettando le
armi, perché al combattimento non si sentivano pronti». E
infine, il grosso: i fanti, che sono senz’armi, o perché le han-
no perdute nella ritirata, o perché le hanno gettate vedendo
gruppi di ufficiali che pretendevano di «improvvisare reparti
da combattimento con uomini racimolati da ogni dove, con
poche munizioni e privi di servizi logistici»21.
Buttare le armi, nascondere i segni del reparto, “travestir-
si” da civili, del resto, sono modalità normali per sottrarsi alle
pesantissime punizioni (fucilazione immediata e durissime
varie forme repressive) annunciate nei proclami dell’eserci-
to. Sta di fatto che dal primo attacco del 24 ottobre fino a
quando si giungerà al Piave, all’inizio di novembre, l’esercito
italiano pare dissolversi, una sorta di anticipazione e prefigu-
razione di quel che accadrà l’8 settembre del ’43 quando un
altro “Tutti a casa” farà sperare in una pace invece lontana. E
di nuovo troveremo Pietro Badoglio, ai massimi vertici, a dar
prova di incapacità e supponenza. La vicenda delle armi but-
tate via dai soldati viene interpretata subito polemicamente
come “sciopero militare”, forse anche per assonanza con una

21
Silvestri 1984, p. 208.

167­­­­
situazione sociale a livello internazionale ormai in gravissima
fibrillazione, e dalla quale anche gli eserciti combattenti erano
stati contaminati sin dall’inizio dell’anno. Si tratta di una tesi
non rispondente al vero, pur se è stata ripresa e rilanciata dalla
pubblicistica e anche da certa storiografia “di sinistra”; nulla
vi è di organizzato tra quei soldati che si ritirano, o fuggono,
lasciando le armi e nascondendo i segni della propria apparte-
nenza militare; vi è invece la stanchezza, e un senso di estranei-
tà a quella guerra che finalmente, nel parapiglia di Caporetto,
può essere in qualche modo esplicitato. Gettare il fucile è il
gesto esemplare di chi non vuole saperne più di combattere,
di uccidere e farsi uccidere. Certo, tuttavia, benché i socialisti
non abbiano né in quella circostanza, né in altre, operato per
indurre i soldati alla diserzione, cionondimeno essi «erano di-
ventati ormai il principale punto di riferimento e di attrazione
per quel consenso popolare che era sempre mancato alla guer-
ra nazionale e che una disastrosa e ottusa direzione politica
e militare aveva finito con l’alienare del tutto»22. È in questi
frangenti che, per farsi coraggio, i soldati cantano canzoni di
rifiuto, talora “sovversive”, spesso sull’aria di note canzoni
popolari. Lo “sciopero militare”, il cosiddetto sciopero mi-
litare di Caporetto, si esprime perfettamente in questi versi:

Prendi il fucile e gettalo per terra


Vogliam la pace vogliam la pace
Vogliam la pace e non vogliam più la guerra

Prendi lo zaino e gettalo par terra


Siam fratelli siam fratelli
Siam fratelli non vogliam più la guerra.

Di cui si conosce anche una versione più dirompente:

Prendi le giberne e gettale per terra

22
Ragionieri 1976, p. 2040.

168­­­­
Vogliam la pace vogliam la pace
Vogliam la pace e non vogliam più la guerra

O se avessi in mano una rivoltella


Vorrei sparare, vorrei sparare,
Vorrei sparare in fronte a questa guerra23.

La versione “ortodossa” di questa canzone, che addirittu-


ra si rivolge in esordio al «Gran Dio del cielo», è ben diversa:

Prendi il fucile
E vattene alla frontiera,
Là c’è il nemico, là c’è il nemico
Là c’è il nemico che alla frontiera aspetta24.

Intanto a ritirata in corso, il giorno 28, Cadorna, non pa-


go di tutti gli errori suoi e dei suoi collaboratori, in un co-
municato ufficiale trasmesso dalla stazione radiotelegrafica
del Comando supremo attribuisce la disfatta alla «mancata
resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza
combattere o ignominiosamente arresisi al nemico». Il comu-
nicato, conosciuto all’estero nella sua formulazione originale,
sarà invece mitigato per ragioni di opportunità politica dal
governo italiano prima di farlo diramare dalla stampa25. Co-
me già accaduto nella routine delle altre battaglie, ai soldati, i
poveri fanti gettati in modo sconsiderato contro le mitraglia-
trici tedesche, non viene riconosciuto il diritto alla sopravvi-
venza, neppure quando ormai la battaglia è perduta. Il loro
dovere è, in fondo, cercare la morte, di fronte, oppure rice-
veranno la morte alle spalle. Non è casuale che la gran par-
te delle numerosissime fucilazioni avvenga alla schiena, per

23
Si trovano entrambe, per esempio, in http://www.antiwarsongs.org.
24
La si legge in Ridolfi (a cura di) 2014, pp. 89-90, che è un repertorio,
in odore di ufficialità, di canti e poesie.
25
Il comunicato si legge in diverse opere, oltre che su molti siti: cfr. per
esempio Labanca 1997, p. 38 (ottima sintesi divulgativa).

169­­­­
mostrare l’indegnità di servire la patria, per segnalare che si
sta punendo non un italiano, ma un traditore, un nemico in-
terno. Il primo ministro inglese, nelle sue memorie, espresse
turbamento pensando a quei soldati: «uomini valorosi erano
stati mandati allo sbaraglio per mancanza di organizzazione e
di direzione»26. Lloyd George scrive queste osservazioni, e al-
tre simili, sulla base del summit svoltosi a Rapallo all’inizio di
novembre con gli alleati di Italia e Francia, il cui comandante
supremo, Ferdinand Foch, giunge a Treviso già il 30 ottobre
per discutere con Cadorna della situazione sul fronte italiano.
A suo nome, il comando francese s’impegna a inviare rinforzi
all’Italia. Lo stesso impegno prenderà il giorno seguente per
l’Inghilterra il generale William Robert Robertson. L’impe-
gno verrà onorato, anche se non con la tempestività richie-
sta dagli italiani in difficoltà: gli Alleati faranno confluire sei
divisioni francesi e quattro inglesi a Mantova e Brescia per
essere pronti a fronteggiare una temuta invasione austriaca
dal Trentino, ovvero un’avanzata degli austro-tedeschi fino
al Mincio. Sarà anche grazie a questo aiuto che l’Italia si ri-
solleverà dopo la rovinosa caduta, anche se Cadorna, invece
di assumersi le proprie responsabilità e confessare i propri
errori, protesterà con il suo amico Luigi Albertini, direttore-
proprietario del «Corriere della Sera», di essere stato egli
stesso l’organizzatore della resistenza sul Piave, senza aver
ricevuto l’imbeccata dai francesi27.
Nondimeno, Caporetto avrà anche effetti positivi; ha
scritto un grande storico:

Ci volle la disfatta di Caporetto, con il carattere di riconquista


del territorio nazionale che essa impresse alla guerra, ci volle l’im-
provvisa, drammatica sensazione di trovarsi al limite di una svolta
senza ritorno perché la classe dirigente italiana trovasse la forza e la

26
Ragionieri 1976, p. 2039.
27
Cfr. la lettera di Cadorna ad Albertini del 3 dicembre 1917, in Guiso
(a cura di) 2014, pp. 107-108.

170­­­­
capacità di risalire la china e di avviare un processo di riorganizza-
zione e ricomposizione che si sarebbe rivelato decisivo nell’ultimo
anno di guerra [...]28.

Il bilancio finale sarà pesante per l’Italia: le truppe austro-


germaniche sono avanzate per circa 150 km sul territorio ita-
liano, facendo oltre 250.000 prigionieri, e 40.000 tra morti
e feriti, senza parlare del fiume di profughi che si abbatte
sul Veneto e altre zone confinanti. In definitiva, a che cosa è
dovuta la “rotta di Caporetto”? A due fattori fondamentali:
la stanchezza delle truppe e gli errori strategici e tattici degli
Alti comandi, a cominciare dalla linea decisa e portata avanti
con protervia dal generalissimo Cadorna. In realtà le due cose
vanno tenute insieme: esiste una stanchezza oggettiva dei sol-
dati, data non solo dalla durata della guerra, ma soprattutto
dalle condizioni nelle quali sono costretti a tentare di soprav-
vivere. Condizioni di assoluta, estrema difficoltà, a loro volta
causa scatenante degli ammutinamenti, delle diserzioni, degli
episodi di autolesionismo: spararsi a una gamba per essere
inviati in ospedale, ecco la più facile delle vie di fuga dalla pri-
ma linea, che nondimeno sovente finisce per essere scoperta
dalla polizia militare, o dagli stessi superiori della catena di
comando, con le conseguenti draconiane punizioni che con
facilità giungono alla fucilazione.
Al sostanziale disinteresse governativo per le condizioni fi-
siche e psicologiche dei combattenti (come delle popolazioni,
del resto) corrisponde un atteggiamento di totale compressio-
ne di diritti, di brutale imposizione della “disciplina” da parte
dei comandi militari verso la truppa, trattata alla stregua di
materiale da foggiare, usare, e, all’occorrenza, sacrificare. La
legislazione emanata fin dall’entrata in guerra, un insieme di
decreti che limitavano la sfera dei diritti di libertà dei cittadini,
subirà una serie di implementazioni e di aggravamenti. Alla
vigilia immediata di Caporetto, un cittadino siciliano scrive a

28
Ragionieri 1976, pp. 2040-41.

171­­­­
Sua Maestà il re Vittorio Emanuele: «finalmente siamo stanchi
di questa vita. Stanchi di guerra, e stanchi di fame [...]»29. Sa-
rebbe bastato dare un po’ di ascolto a questa stanchezza, per
evitare Caporetto? Forse no, ma il prezzo pagato sarebbe stato
di sicuro meno elevato. Ribadisco che alla luce di quanto si sa,
in termini oggettivi, il responsabile della rotta, oltre ovviamen-
te a Luigi Cadorna, che rimane il n. 1 in questa classifica di
nefandezze, è il generale Luigi Capello, diviso da Cadorna da
profondi dissidi di strategia, di tattica, oltre che di ambizione
personale; e, infine, va ricordato almeno il generale Badoglio,
poi fascistissimo, massacratore di africani in Libia e in Etiopia,
infine primo ministro dopo Mussolini a seguito della fatale
notte tra il 25 e il 26 luglio ’43, graziato, per così dire, non si sa
perché, dalla Commissione di inchiesta governativa: un caso
incredibile di sopravvalutazione di un personaggio tra i meno
gloriosi e più ambigui del Novecento italiano. Un generale che
si era comportato in modo errato, nel frangente più grave del-
la guerra, viene premiato già nel dopo-Caporetto, diventando
da comandante di battaglione a comandante di divisione, e
avviando così un incredibile percorso che lo condurrà, dopo i
massacri in Africa, alla presidenza del Consiglio come primo
capo della transizione al post-fascismo.
Nel clima surriscaldato che si genera dopo il 24 ottobre,
non si affievolisce affatto la repressione in seno alle Forze ar-
mate: come in un film dell’orrore, e lo vedremo nel prossimo
capitolo. Vanno ricordati i processi sommari, che si infittisco-
no a partire dall’estate – forse potremmo usare il caso della
rivolta della Brigata Catanzaro, ricordata nel mese di luglio,
come termine a quo –, e che troveranno nuova linfa nella
rotta del 24 ottobre, anche sulla base delle parole scomposte
del comandante in capo Cadorna di accuse alla truppa. Sono
delle vere cronache della paura, i verbali dei processi, dove
emerge la spietatezza del sistema, e, dietro, la paura di chi ha

29
Lettera da Catania, 23 ottobre 1917, in Monteleone 1973, pp. 151-52.

172­­­­
tra le mani leve di comando che mostra di non saper usare,
se non per colpire quasi alla cieca. Soltanto successivamente,
lentamente, si avrà una modesta e assai relativa mitigazione,
ad anno 1918 inoltrato; per ora i soldati sono “carn’e maciel-
lo”, come scriverà qualcuno tra loro, di origine meridionale.
C’è il veneto ventunenne, analfabeta, che si rifiuta di montare
di guardia per la terza notte consecutiva, il 19 ottobre, fuci-
lato al petto; o, in altro punto del fronte, il ventenne roma-
gnolo, contadino, fucilato alla schiena dopo essere stato sor-
preso a tagliare i reticolati per «consegnarsi al nemico» con
un commilitone, ucciso subito dal sergente che li ha sorpresi;
o ancora, nello stesso giorno di Caporetto, il ventiduenne,
sempre veneto, condannato all’ergastolo per latitanza; e, tre
giorni più tardi, un trentottenne siciliano, allontanatosi dal
servizio di guardia a un magazzino, nel tentativo di dirigersi
“a casa”. Il suo viaggio, a piedi o con mezzi di fortuna, viene
interrotto dai Reali Carabinieri a Palmi, in Calabria, due mesi
più tardi, e viene fucilato alla schiena...30 Una catena di cri-
mini di Stato, compiuti sotto l’ombrello della legge di guerra.
La ritirata dei soldati italiani, pressati dagli austriaci e dai
tedeschi, come già ricordato si manifesta presto come una
«fiumana umana»31, disordinata, confusa, nella quale si me-
scolano uomini e bestie, civili e militari, disertori e fuggiaschi,
e la nuova categoria dei «profughi» che cercheranno rifugio
nel territorio rimasto sotto controllo italiano. Si tratta di una
fuga di massa, alla “si salvi chi può”, che comprende anche le
autorità civili oltre che quelle militari, e persino autorità reli-
giose, nell’inadempienza dei comandanti al massimo livello,
salvo poi esercitare punizioni sui soldati sbandati, scampati
al piombo nemico ma non a quello italiano. In fondo, rimarrà
valido per tutta la durata del conflitto il principio che l’u-
nico soldato buono, se non ha conquistato una vetta o una
trincea nemica, è il soldato morto. Benché la sconfitta fosse

30
Cfr. Forcella e Monticone 1972, pp. 239-43.
31
Silvestri 1984, p. 209.

173­­­­
stata preannunciata, o quanto meno temuta, a vari livelli della
catena di comando nella crisi incominciata a giugno, sarà la
“sventura” – il termine ricorre nella stampa e nella memo-
rialistica – inspiegabile, l’evento traumatico che risveglierà
paure antiche, e farà crollare solide certezze.
La letteratura di guerra, che ha uno sviluppo enorme con
questa guerra, si dedicherà con particolare enfasi, naturalmen-
te, a Caporetto: si può dire che non ci sia diario, o memoria, o
racconto che non si soffermi su quelle tragiche giornate, o le
rivisiti con umore ora cupo, ora sarcastico, ora semplicemen-
te angosciato. Una antologia divenuta celebre, apparsa non
per caso alla vigilia dei sommovimenti del ’68-’69, ne fa una
ricognizione preziosa, e dissacrante. Emergono tutti gli aspetti
della tragedia, che talora si rovescia in farsa grottesca. Sono gli
intellettuali, ufficiali di complemento nel Regio Esercito, che
rivelano gli umori della loro categoria verso il crollo della trup-
pa. Comprensione in qualcuno, malvagità in altri, disprezzo
più o meno generalizzato verso quella massa dolente, sconfit-
ta, che cerca di sottrarsi alla morte e alla prigionia allontanan-
dosi dal fronte con ogni mezzo di fortuna, ma perlopiù a piedi:
sono uomini «laceri, affaticati, interroriti»32. Paolo Monelli,
che fa parte di una colonna che procede in senso inverso, in
quanto diretta verso i campi di prigionia, non trova di meglio
che chiedersi, davanti all’«orda» di soldati italiani prigionieri,
«quanti sono che alzaron le mani senza combattimento?»33. E
non mancano coloro che riprendono, convintamente, il mes-
saggio propagandistico della pugnalata alla schiena, come Al-
fredo Panzini, che addirittura parlerà di «mille pugnali alla
schiena»34. Anche Carlo Emilio Gadda, che ricorda di non
aver voluto la guerra e di esservi rimasto intimamente con-
trario, davanti allo sbandamento della truppa si lascia andare
a veri moti di odio, un «odio livido, immoderato, senza fine

32
M. Puccini, Dal Carso al Piave (1918), in Isnenghi 1967, p. 202.
33
P. Monelli, Le scarpe al sole (1921), ivi, p. 210.
34
A. Panzini, Diario sentimentale della guerra (1923), ivi, p. 214.

174­­­­
in eterno», non per i soldati che si ritirano disordinatamente,
ma per i loro “sobillatori”, «i cani assassini che hanno conse-
gnato al nemico tanta parte della patria»; e si spinge al punto
di scrivere (e poi ripubblicare, tranquillamente, quasi fosse
mera letteratura) «se li vedessi morire riderei di gioia. Li odio
ben più dei tedeschi; vorrei essere un dittatore per mandarli
al patibolo»35. Infine, v’è invece chi mostra almeno una umana
pietas, ed è singolare che tra costoro vi sia Ardengo Soffici, che
era stato, con il suo sodale Giovanni Papini, tra i più furiosi e
scalmanati interventisti sulla rivista «Lacerba». Soffici, a dif-
ferenza della gran parte degli intellettuali-ufficialetti, invece di
recriminare, si interroga sulle cause, e non liquida il discorso
appioppando ai fanti le colpe; si rende conto che è in gioco
una molteplicità di fattori. E alla comprensione per quei fanti
che tutto sono fuorché dei «vigliacchi» o dei «traditori», ma
piuttosto «delle vittime», fa da contraltare l’accusa di cialtro-
neria rivolta agli Alti comandi36.
Controcorrente l’interpretazione dello scrittore Curzio
Malaparte, che, in modo ambiguo, in un libro peraltro assai
suggestivo che esce nel 1921 e sarà poi ampiamente censu-
rato, subendo rimaneggiamenti pesanti, ne avrebbe parlato
come di una rivoluzione, spontanea, violenta, indisciplinata:

Il fenomeno di Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale.


È una rivoluzione. È la rivolta di una classe, di una mentalità, di
uno stato d’animo, contro un’altra classe, un’altra mentalità, un
altro stato d’animo. È una forma di lotta di classe. I sintomi che
l’hanno preceduto e accompagnato sono quelli di un perturbamen-
to sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e accompagnato tutti
i perturbamenti sociali.
Dopo le prime violenze, dopo l’orgia di sangue e di saccheggio,
le moltitudini in rivolta si arrestano spaurite, ubbriache di vino e

35
C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia (1965, ma sono note del
1918), ivi, p. 245.
36
A. Soffici, La ritirata del Friuli (1919), ivi, pp. 231-37.

175­­­­
di canzoni, sbigottite dal vuoto e dal silenzio che pesano su di loro.
Questo è il momento degli uomini forti. [...]
Durante le giornate di Caporetto nessun uomo era uscito dalla
folla dei senza-fucile, a capeggiare il movimento di rivolta. La ri-
voluzione era scoppiata come un tumore maturo. Nessuno l’aveva
preparata, nessuno l’aveva diretta. Compiuta da un popolo di fanti,
da un umilissimo popolo di paria e di disperati, schiacciati a uno
stesso livello di miseria e di disperazione dalla sofferenza sociale del-
la guerra, essa si era svolta all’infuori dal cerchio di una determinata
volontà, come tutti i movimenti di plebi che hanno origine da un’an-
goscia comune, da una sofferenza egualmente sentita. Quando la
plebe degli insorti, sbigottita dal vuoto e dal silenzio che pesavano
su di lei, si arrestò, indecisa, per fissare un termine, per scegliere una
strada, quando la magnifica belva, assetata ed arsa dalla fatica, si
curvò sull’acqua del fiume, – subito la mano pesante della reazione
la ghermì, la inchiodò sulla riva, la rintanò nella terra37.

Al di là degli aspetti letterari e del gusto del paradosso, che


caratterizzano questo scrittore originale ma sempre sopra le
righe, è indubbio che, come è stato osservato, le sue parole
abbiano un effetto dissacratore rispetto a quello che appare
«l’uniforme grigiore di tanti rispettabili commenti». Soprat-
tutto mette conto sottolineare la comprensione, da parte dello
scrittore, di Caporetto «come fatto sociale, luogo d’incontro
dei contrasti di classi acuiti e resi coscienti dalla guerra»38;
dunque egli, consapevole di ciò, ne rende edotto il suo pub-
blico con un effetto di denuncia assai forte, forse persino al di
là delle sue intenzioni. Il brano di Malaparte si conclude poi
in modo inquietante, con una frase che suona come una sen-
tenza: «Una feroce volontà di ordine e di disciplina la piegò [la
plebe degli insorti] nuovamente alla legge». Sarà quella fero-
cia delle punizioni che a partire dall’indomani e nelle settima-

37
C. Malaparte, La rivolta dei santi maledetti (1921; poi, conservando nel
sottotitolo il titolo originale, Viva Caporetto!, 1923), ivi, p. 263.
38
Mario Isnenghi, nella Nota di presentazione del brano, ivi, pp. 262-63.
Si leggano anche le osservazioni di Serra 2012, pp. 307 ss.

176­­­­
ne e nei mesi seguenti colpirà spesso a casaccio i poveri «santi
maledetti», sulle linee del fronte o nelle immediate retrovie, o
anche inseguendo i fuggiaschi come una biblica maledizione a
cui è impossibile sottrarsi, nei luoghi più impensati e lontani,
vicino ai loro villaggi di origine, dove tentano di arrivare.
Contemporaneamente, nel paese, con Caporetto si scate-
nerà una parallela, violenta campagna denigratoria contro i
socialisti, tradizionali oppositori della guerra, da parte non
soltanto delle correnti estreme dell’interventismo, ma da un
ampio schieramento liberal-nazionale; dall’altra parte, pro-
prio a dimostrazione di quanto fossero menzognere le accuse
lanciate verso il “disfattismo” socialista, nell’ala riformista del
partito e del sindacato fa breccia un nuovo patriottismo, pro-
dotto appunto dalla rotta del 24. Il segretario della Cgdl Ri-
naldo Rigola, sulle «Battaglie del Lavoro», organo del sinda-
cato, e Filippo Turati e Claudio Treves, su «Critica Sociale», si
pronunciano in modo esplicito in tal senso, sia pur ribadendo
la contrarietà di fondo del partito alla guerra. Il primo scrive:

ad onta degli errori e delle colpe del Governo, il popolo italiano


deve raccogliersi in un supremo sforzo di volontà per respingere
l’assalitore. Possiamo filosofeggiare finché vogliamo sulla stoltezza
della guerra, possiamo respingere ogni e qualunque solidarietà con
coloro che l’hanno voluta; ma quando il nemico calpesta il nostro
suolo, abbiamo un solo dovere, quello di resistergli.

Non diversamente i due leader più autorevoli del sociali-


smo italiano, Turati e Treves, scrivono:

quando la patria è oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di


chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la
ridussero a tale, sembrano passare in seconda linea, per lasciar cam-
peggiare nell’anima soltanto l’atroce dolore per il danno e il lutto e
la ferma volontà di combattere e di resistere fino all’estremo39.

39
Le citazioni sono tratte da Malatesta 1935, pp. 160-61.

177­­­­
A tali prese di posizione fa riscontro, in senso opposto,
l’«Avanti!», che conferma, in modo pacato e senza polemi-
ca, la linea neutralista, anzi “internazionalista” del partito40,
in linea con i deliberati assunti in quei giorni dalla Direzione,
mentre il Gruppo parlamentare vota un ordine del giorno in
cui afferma il proposito di «intensificare e di estendere [...]
l’opera di assistenza e di soccorso, convinto che essa costitui­
sca il mezzo meglio idoneo a diffondere nelle popolazioni la
calma necessaria a superare quest’ora angosciosa», e nella Cgdl
e nell’ala riformista del partito crescono le voci che provano a
dialogare con il governo in spirito di collaborazione per supe-
rare l’ora «angosciosa». Dall’altra ala del socialismo invece si
ribadisce la linea, e Lazzari, leader degli intransigenti e segre-
tario del partito, autore dell’ambigua formula «Né aderire, né
sabotare», è costretto a ribadire l’orientamento del Psi, anche
in coerenza con le deliberazioni di quel che rimane del socia-
lismo internazionale41. Tali prese di posizione, espresse in vari
documenti interni e in articoli tra novembre ’17 e gennaio ’18,
saranno di lì a poco, nel febbraio 1918, altrettanti capi d’accusa
nel processo che verrà intentato a lui e all’allora vicesegretario
Bombacci, destinato a diventare fascista e a finire sotto il plo-
tone d’esecuzione il 28 aprile del ’45 accanto al duce. In verità,
come avrebbe notato uno studioso sotto il fascismo, si trattava
non di un processo a degli individui ma al partito, «per il suo
atteggiamento e la sua azione contro la guerra»42.
Mussolini, leader degli interventisti “rivoluzionari”, sarà
fra i commentatori più attenti e soprattutto fra gli utilizzatori
più scaltri della sconfitta di Caporetto. Ma gli occorre una
sorta di infortunio giornalistico, pubblicando, il 25 ottobre,
dunque l’indomani della rotta, un articolo che commemo-
rando Filippo Corridoni esalta la guerra e l’esercito: è chiaro
che l’articolo è stato scritto il 24, dunque a battaglia in corso,

40
L’articolo è in Isnenghi 1967, pp. 271-72.
41
Cfr. ivi, pp. 161 ss.
42
Malatesta 1935, p. 108.

178­­­­
di cui naturalmente Mussolini nulla sa. Ma la pubblicazio-
ne di un testo apologetico del bellicismo, in sostanza, risulta
francamente spiazzante per il lettore in quelle giornate. L’ar-
ticolo è una rivendicazione dei meriti dell’interventismo rivo-
luzionario di cui Corridoni fu il primo leader, lasciando invo-
lontariamente, dopo la morte sul campo, il posto allo stesso
Mussolini, che non teme il ridicolo evocando le giornate del
maggio 1915 «che videro nelle strade di Milano le moltitudini
immense acclamare alla necessità del sacrificio più grande»,
ossia la guerra: la stessa guerra che in quelle ore sta falciando
migliaia di giovani vite di ragazzi del «popolo» e che, stando
a Mussolini, dopo cinquant’anni di assenza, «s’inserisce nel
corpo vivo della storia d’Italia». Non manca un affondo an-
tiparlamentaristico, con la contrapposizione tra quelle folle
tripudianti che inneggiano alla guerra, e Montecitorio «e i
suoi ciarlatori molesti». Né rinuncia, Mussolini, a polemiz-
zare con i «negatori» della patria, «in nome delle ideologie
di ieri», e con «i pusillanimi che sono contrari alla guerra,
perché la guerra interrompe o turba le loro abitudini, o do-
cumenta la loro infinita vigliaccheria»43. Ma le ideologie (ov-
viamente quelle di stampo marxistico) non sono così vecchie
se in quelle stesse settimane stanno animando un movimento
politico-sociale che porterà alla creazione del primo Stato
socialista della storia umana. E i «pusillanimi, contrari alla
guerra», a Caporetto, mentre Mussolini scrive il suo articolo,
vengono gasati, fucilati, mitragliati, bombardati: erano con-
trari semplicemente perché non ne potevano più di morire
senza ragione, di avanzare senza scopo, di combattere senza
senso alcuno. Finalmente, raggiunto dalle notizie dal fronte,
il direttore del «Popolo d’Italia» affronta il tema Caporetto
in un altro editoriale, su cui il suo biografo De Felice ha atti-
rato piuttosto enfaticamente, e discutibilmente, l’attenzione.
L’articolo, in realtà, merita di essere segnalato per lo spirito

43
B. Mussolini, Intermezzo, in «Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1917, ora
in De Felice (a cura di) 1995, pp. 190-92.

179­­­­
contraddittorio: da una parte invoca «unità di animi», come
si intitola, ma dall’altro, in una cascata di retorica patriottica,
riprende la polemica verso i neutralisti che si sarebbero anni-
dati nel corpo dell’esercito per fiaccarlo; non si fa cenno alle
ragioni della disfatta in corso; lo farà l’indomani, interpretan-
do, banalmente a fini in tutta evidenza giustificazionistici, il
successo austro-tedesco come «esito dell’inazione russa»44.
In definitiva, aveva ragione, nella sua retorica un po’ ro-
boante, Gioacchino Volpe, uno dei grandi della storiografia
italiana del secolo scorso, a sentenziare in un bel libro su Ca-
poretto, sebbene in chiave ormai condizionata dal fascismo:
«Anno grave, anno centrale e culminante, nella storia della
grande guerra, il 1917! Per tutti!»45.
In quelle giornate drammatiche che lasciano presagire un
crollo totale del fronte italiano, ingenerando fortissimi timori
in Gran Bretagna e Francia, giunge, a piccolo conforto della
causa dell’Intesa, la dichiarazione di guerra alla Germania da
parte del Brasile, dopo un intenso e a volte aspro dibattito
che vi si era svolto, e che richiamava il contrasto interventisti/
neutralisti nell’Italia del ’14-’15: non a caso ne saranno prota-
gonisti, accanto ai giornali brasiliani, quelli della numerosis-
sima comunità italiana46. Dibattito che anche un altro grande
paese latinoamericano, l’Argentina, vive in contemporanea,
come e più che in Brasile nell’anno 1917. Ma in Argentina la
corrente germanofila era forte, per una serie di legami antichi
specialmente in ambito militare e universitario, e non vi era
stato alcun casus belli che potesse giustificare lo schieramento
accanto agli Alleati; sicché, pur nell’asprezza di un dibattito
che sarà riproposto nel 1939-40, il paese rimarrà neutrale47.

44
B. Mussolini, Unità di animi, in «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1917,
ora ivi, pp. 201-204; e cfr. De Felice 1965, pp. 395-96.
45
Volpe 1930, p. 13.
46
Cfr. J.F. Bertonha, Una “guerra di carta”. Giornali italiani e austro-
ungarici di lingua italiana in Brasile durante la Prima guerra mondiale, in
Ferraro (a cura di) 2015, pp. 13-34.
47
Cfr. Tato 2008.

180­­­­
In Brasile il dibattito va di pari passo con gli sviluppi delle
relazioni con la Germania; si era avviato in aprile, con la rot-
tura diplomatica, e proseguirà nei mesi successivi, con il peg-
gioramento progressivo dei rapporti fra i due paesi. Anche se
la partecipazione al conflitto sarà di modesto peso (una sola
spedizione militare e invio di medici e di aviatori), fu comun-
que una conferma che la guerra sottomarina aveva provocato
assai più danno che vantaggio ai tedeschi: il Brasile rompe gli
indugi, arrivando alla dichiarazione di guerra, dopo il silura-
mento di navi battenti bandiera brasiliana.
In Europa, intanto, il giorno 24, mentre gli austriaci
rompono le linee difensive italiane nella piana di Caporet-
to, nell’alleata Francia il generale Pétain lancia, nella zona di
Malmaison, la terza offensiva “di precisione”, dopo quelle,
minori, di luglio e di agosto. Si tratta per lui non solo, e
forse non tanto, di un’azione con scopi militari, ma anche
e soprattutto di un’azione con fini politici (togliersi di dos-
so la nomea della difesa ad oltranza) e con fini psicologici:
cancellare ed esorcizzare il ricordo recentissimo, e gravoso,
della tragedia dello Chemin des Dames. L’offensiva sarà co-
ronata da successo a spese dei tedeschi, che tra morti, feriti
e prigionieri registrano una perdita di 50.000 uomini, oltre
ad armi tra cui 200 cannoni e 720 mitragliatrici. I soldati
francesi verranno rianimati da questa vittoria, proprio come
quelli italiani invece saranno prostrati dalla sconfitta pra-
ticamente nelle stesse ore48. Pétain, che ambisce ad essere
insignito del ruolo che sarà invece di lì a pochi mesi attribui­
to a Foch, ossia di “generalissimo”, comandante di tutte le
armate alleate, è tentato di andare personalmente in Italia
per constatare la situazione militare. Sarà invece, appunto,
Foch, per volere del capo del governo Painlevé, a recarsi
dagli alleati in difficoltà, e la Francia mette a disposizione
dell’Italia alcune divisioni49.

48
Cfr. Duroselle 1988, p. 660.
49
Cfr. Pedroncini 1998, pp. 150 ss.

181­­­­
In quello stesso mese un avvenimento di nessuna im-
portanza sul piano militare e politico, ma di enorme carica
emotiva e psicologica, si produce in Francia: alle ore 6,15 del
mattino del giorno 15, nel bosco di Vincennes, alle porte di
Parigi, un plotone di dodici soldati spara su una donna pochi
giorni prima dichiarata spia al soldo del nemico. Il suo nome è
Margaretha Geertruida Zelle, nome d’arte Mata Hari: d’arte,
in quanto Margaretha è danzatrice, fotomodella, potremmo
dire, avendo posato nel 1913 per la prestigiosa copertina di
«Vogue». È una donna bella, spregiudicata, che ha bazzicato
ambienti dello snobismo internazionale, divenendone parte
integrante. Nel secondo decennio del secolo è diventata una
«star dell’erotismo mondano» francese50. Nata il 7 agosto
1876 a Leeuwarden, nella Frisia olandese, Margaretha è dal
1895 al 1902 l’infelice moglie di un ufficiale che ha vent’anni
più di lei, con cui trascorre alcuni anni in Indonesia prima di
rientrare in Olanda con la famiglia. Trasferitasi a Parigi dopo
il divorzio, comincia a esibirsi in un locale non certo raffinato
e di classe come il Salon Kireevsky, proponendo danze dal
sapore orientaleggiante, rievocanti un clima mistico e sacrale,
apprese durante il suo soggiorno a Giava; il tutto condito con
forti dosi di “spezie” dal sapore erotico. Più che naturale che il
mondo dell’epoca non potesse non accorgersi di lei. Infatti, in
poco tempo la donna diviene un “caso” e il suo nome comin-
cia a circolare nei salotti più “pettegoli” della città. Intrapresa
una tournée per saggiare il livello di popolarità, viene accolta
trionfalmente ovunque si esibisca. Per rendere più esotico e
misterioso il suo personaggio, cambia il suo nome in Mata
Hari, che in lingua malese significa “occhio del giorno”. Inol-
tre, se prima era il suo nome che circolava nei salotti, ora vi
è invitata di persona così come, poco dopo, lo è nelle camere
da letto di tutte le principali metropoli europee come Parigi,
Milano (dove si esibisce alla Scala, e avrà fra i suoi ammiratori
Giacomo Puccini) e Berlino51.

50
Kupferman 1982, p. 6.
51
Cfr. la scheda sul sito http://www.lagrandeguerra.net/ggmatahari.html.

182­­­­
Cambia tutto con la guerra, quando diventa, un po’ per
scelta, un po’ per caso, un po’ per necessità, spia doppiogio-
chista per i tedeschi e per l’Intesa. Malgrado la leggenda nera
l’abbia trasformata in un genio dello spionaggio professiona-
le, Margaretha è soltanto una donna che sa mentire, e lo fa
per sopravvivere in un contesto difficilissimo, ma prendendo
gusto oltre che traendo vantaggio dalle menzogne che ella
distribuisce a tedeschi e francesi, irretiti dalla bellezza e da
quella che appare una totale disponibilità della donna. Che
in effetti sembra provare un gran piacere in quel gioco, pe-
ricoloso quant’altri mai in tempi di guerra, della spia, anzi
della doppia spia. Finisce per lavorare per i tedeschi (nome
in codice Agente H 21) e contemporaneamente per il Vème
Bureau, i Servizi di informazione dei francesi: insomma, la
sua spregiudicatezza e una certa superficialità la portano a
sdoppiarsi su entrambi i campi: la sua caduta sarà inevita-
bile. Eppure accanto a lei, a un certo punto, opera un’altra
agente doppia, Marthe Richer, che a differenza della “colle-
ga” sopravviverà alla guerra. Margaretha sa tenere testa agli
interrogatori: in realtà non ci sono prove contro di lei, che
viene sottoposta a sorveglianza speciale, notte e dì. E ven-
gono messe nella sua cella detenute civetta che dovrebbero
estorcerle parole compromettenti, che non giungeranno. Ar-
riverà invece la confessione quando la polizia viene in pos-
sesso di dispacci delle autorità tedesche che inchiodano colei
che in prigione chiamano ormai «la bochesse». In maggio
confessa, ritratta, ammette, nega, cercando tuttavia di sal-
varsi: ai tedeschi non ha fornito che informazioni superflue
relative a fatti noti, mentre ai francesi ha dato notizie impor-
tanti e decisive. Il che sembra corrispondere al vero, alme-
no parzialmente. Ma l’orientamento della giustizia militare,
come della politica e dell’opinione pubblica, non favorisce i
distinguo. E davanti ai disastri militari e alla inefficienza del
controspionaggio, additare un capro espiatorio è occasione
imperdibile.
Dall’inizio dell’anno, del resto, sono cominciate fucila-

183­­­­
zioni di donne accusate di spionaggio, messe a morte anche
senza prove o con prove modeste, fragili indizi, relativi a
“crimini” ancor più modesti. Clemenceau il 22 luglio, in un
già richiamato celebre discorso in Senato col quale in pratica
apre la strada al suo rientro al potere, incita alla durezza,
all’azione contro tutti i nemici, esterni e interni. Due giorni
dopo si apre il processo a Margaretha Zelle. Arrestata il 13
febbraio dal controspionaggio francese, era finita in una cel-
la della prigione di St. Lazare, accanto a detenute comuni e
prostitute. Viene guardata con curiosità e invidia ma anche
con disprezzo. La sua bellezza è svanita. È una donna stanca
e prostrata, in ogni senso. E così arriva al processo: nel quale
si proclamerà sempre innocente pur ammettendo di aver fre-
quentato numerose alcove di ufficiali di molti paesi stranieri,
belligeranti e no. Viene condannata a morte per tradimento.
Il 15 ottobre, nei pressi di Parigi, alle ore 6,15, nel buio, viene
fucilata. Anche quell’ultimo atto è circonfuso di leggenda:
lei che manda baci ai soldati, che esitano, sbagliano la mira e
così via. In realtà il corpo della donna, legato a un palo, cade
sul terreno alla prima scarica di fucileria, e un maresciallo
dell’esercito francese si avvicina e spara, a distanza ravvici-
nata, un colpo di pistola nell’orecchio. Mata Hari, la donna
irresistibile, è un cadavere che, peraltro, nessuno reclamerà,
né il suo ex marito, John Rudolph MacLeod, né alcuno dei
suoi amanti trascorsi, o dei suoi amici.
La morte non porrà fine alle leggende. Come quella che
vorrebbe che quel corpo, sepolto nel nuovo cimitero di Vin-
cennes in una fossa comune, sarebbe finito sotto le mani di
studenti di Medicina per le loro esercitazioni52. Pare invece
che la testa, recisa dal collo, sia stata conservata e trafugata
negli anni Cinquanta. Nel 2001, inoltre, il paese natale di
Margaretha ha chiesto ufficialmente al governo francese la
sua riabilitazione, nella convinzione che sia stata condannata
senza prove, convinzione riaffermata anche in studi recen-

52
Cfr. Kupferman 1982, pp. 122-23.

184­­­­
ti53. Dalla sua vicenda, ricostruita e narrata in forma più o
meno romanzata in un’abbondante produzione saggistica,
sono stati tratti film, a partire da quello con Greta Garbo (di
George Fitzmaurice, del 1931). «Potente icona culturale»54,
il suo nome è entrato nel lessico, sinonimo di intrigo, fascino,
pericolo mortale; ma in fondo la sua condanna ha a che fare
con la damnatio di una donna indipendente e spregiudicata,
in un’epoca in cui questo costituiva non soltanto uno scan-
dalo, ma un crimine.

53
Cfr. Wheelwright 1992. Ma si vedano anche, per le vicende e le inter-
pretazioni, Grillandi 1982; Kupferman 1982; Warren Howe 1996; e, per la
morte, Scaraffia 2015.
54
Wheelwright 1992, p. 154.
11.
Novembre
I “dieci giorni”

Il cambio di governo in Italia – con Orlando presidente in


luogo di Boselli – non ha comportato la sostituzione del co-
mandante militare, ed è ancora Cadorna, dopo un inutile
tentativo di tenere la linea difensiva sul fiume Tagliamento,
spazzata via dagli austriaci, a ordinare un nuovo arretramen-
to delle truppe su un altro fiume, il Piave, ma con la protezio-
ne, sull’altro fianco, del Monte Grappa. Là davvero ha inizio
un’altra guerra1. La ritirata durerà una intera settimana, con
quei caratteri di esodo dei civili e fuga dei militari già evidenti
nella prima ritirata. Soltanto il 9 novembre, con l’attestazione
sulla linea del fiume, si può dire che si chiuda la tragedia di
Caporetto. Da quel momento il fiume diventa una bandiera,
un simbolo, e un nome da far passare di bocca in bocca, per
riscuotere gli animi, per far rinascere la speranza: E.A. Mario,
il noto pseudonimo del compositore Ermete Giovanni Gae-
ta, comporrà, qualche mese più tardi, una canzone destinata
alla celebrità che ha il Piave nel titolo e nel testo come ele-
mento centrale, appunto, La leggenda del Piave (più pedisse-
quamente detta anche La canzone del Piave). Si tratta di una
sorta di abrégé della guerra, dall’intervento alla linea di difesa
del Piave, il testo è accompagnato da una facile melodia che
assomiglia più a una marcia militare che ad un canto, e sarà
addirittura scelta come inno nazionale italiano tra il ’43 e il
’46. Vale la pena di sottolineare che nel periodo fascista si

1
Cfr. A. Nataloni, La battaglia di Caporetto e la testimonianza del fante
bolognese Luigi Melloni, http://www.arsmilitaris.org/pubblicazioni/Capo-
retto%20Melloni.pdf.

186­­­­
cambierà un verso, quello dove, in riferimento a Caporetto,
affiora l’accusa infamante: tradimento!

Ma in una notte trista si parlò di tradimento,


e il Piave udiva l’ira a lo sgomento.
Ah, quanta gente ha vista
venir giù, lasciare il tetto
per l’onta consumata a Caporetto...
Profughi ovunque dai lontani monti
venivano a gremir tutti i suoi ponti...
S’udiva, allor, dalle violate sponde
sommesso e triste il mormorio dell’onde:
come un singhiozzo, in quell’autunno nero
il Piave mormorò:
“Ritorna lo straniero!”.

Nella strofa finale, ovviamente, il nemico indietreggia e


la Vittoria scioglie le ali al vento. Ma nella strofa citata, la
parola «tradimento» verrà cassata e il verso che la contiene
diventa: «Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento».
Il fiume Piave diventerà, con le sue tre battaglie (Caporetto
è soltanto la prima, a cui seguiranno quella detta “del solsti-
zio” di giugno ’18 e quella finale di ottobre-novembre che
porterà a Vittorio Veneto e alla vittoria sull’Austria) e grazie
anche a questa canzone, un simbolo di riscossa, il momento
del passaggio dalla guerra nazionalista e stolta alla Cadorna,
alla guerra “democratica”, patriottica, dell’interventismo alla
Salvemini, Bissolati, Bonomi al punto che lo si è voluto vede-
re oggi persino, in modo forse discutibile, come uno dei topos
della “identità italiana”2.
Nel corso della medesima giornata del 9 novembre, Ca-
dorna viene sostituito da Armando Diaz nel ruolo di capo del
Comando supremo delle Forze armate italiane. Insieme con
Diaz, un semisconosciuto generale che, prima della nomina a
capo di stato maggiore generale avvenuta solo il giorno prima,

2
Cfr. Minniti 2000.

187­­­­
comandava il XXIII Corpo della III Armata, vengono nomi-
nati sottocapi il generale ed ex ministro della guerra Gaetano
Giardino (sostituito dal generale Alfieri) e Pietro Badoglio,
incredibilmente miracolato, dopo gli errori rovinosi da lui
compiuti nella battaglia di Caporetto. Su consiglio inglese
Cadorna viene nominato, dopo il convegno di Rapallo del 5-6
novembre, nel nuovo comitato militare interalleato di Versail-
les, dal quale sarà poi rimosso, essendo stato “posto a disposi-
zione” nelle more della Commissione di inchiesta parlamenta-
re su Caporetto. Come noterà il generale Gatti, l’eredità che
lascia Cadorna è gravissima, ma lo stesso generale lamenta che
«la parte politica ha quasi soverchiato [...] la militare. Da tre
giorni qui si fa più politica che emanazione di ordini»3.
Sono trascorsi sedici giorni dal 24 ottobre, sedici giorni di
passione, di fuoco, di depressione degli animi e di sofferenza
dei corpi, in una situazione climatica che continua ad essere
implacabilmente ostile. Sono cominciate con l’inizio del mese
le “punizioni esemplari” dei poveracci che hanno avuto la
malasorte di non morire né rimanere feriti gravemente da-
vanti alla travolgente avanzata austro-germanica. Addirittura
si crea il 2 novembre un ruolo ad hoc, “Ispettore generale del
Movimento di sgombero”, in sostanza una specie di mastino
della ritirata, che entra in servizio subito e deve controllare
che tutti procedano diritti, seguendo gli ordini, e che a nessu-
no venga in mente di tentare una fuga approfittando del caos.
Si individua nel generale Andrea Graziani la figura adatta a
interpretare il mastino e gli si dà via libera. Il generale pren-
de il compito molto sul serio, e avendo o meglio essendosi
concessa motu proprio la licenza di uccidere, quando chi e
come gli paia, come una sorta di pistolero del Vecchio West
comincia ad aggirarsi sinistramente per le retrovie avendo
un potere illimitato, che concerne non soltanto i militari ma
anche i civili in zona di guerra, che è ormai estesissima. Uno

3
Gatti 1964, p. 356.

188­­­­
studioso che ha ricostruito la sua carriera di assassino al soldo
del Regio Governo, scrive:

Il generale non perde tempo: nel pomeriggio del 3, a Noven-


ta Padovana, Graziani fa fucilare contro il muro di una casa un
artigliere, che sfilava con il suo plotone, reo a suo dire di averlo
guardato con atteggiamento di sfida e di avere il sigaro in bocca. Il
10 novembre ordina la fucilazione nella schiena di diciotto soldati
e di tre civili a S. Pelagio di Treviso; il 13 e il 16 a Padova altri tren-
tadue militari e tre “borghesi” sono messi al muro per suo ordine:
cinquantasette fucilazioni sommarie in dodici giorni, delle quali
trentasei eseguite nel Padovano.

È a Graziani, in particolare, che si riferisce Malaparte


quando parla della «feroce volontà di ordine e di disciplina»
che si abbatte come una mannaia sui «vinti di Caporetto»4; ed
esplicitamente, ecco che scrive: «L’ombra del generale Gra-
ziani, vestito da Carabiniere, si allungò sulle rive del Piave»5.
E così via, in un orrorifico percorso di morte, al punto che
la stampa socialista darà via a una campagna di denuncia, es-
sendo venuta a conoscenza di taluno di questi fatti. I quali sa-
ranno più tardi messi in luce dalla Commissione di inchiesta
su Caporetto, accertando responsabilità precise di Graziani
che tuttavia non subirà conseguenze, anzi farà carriera sot-
to il regime, diventando luogotenente generale della Milizia
volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn, le ex squadre
d’azione fasciste, insomma); almeno fino a quando rimane
vittima di un misterioso “incidente” ferroviario, che molto
probabilmente è una vera e propria esecuzione, davanti alla
quale la magistratura chiuse un occhio stante le troppe stra-
nezze di quella morte. La vedova dello scrittore Ugo Ojet-
ti, annotando le lettere da lui indirizzatele in quei giorni dal
fronte, alla frase «quel pazzo del generale [...] destinato alla

4
Cfr. cap. 10, pp. 158-80.
5
In Isnenghi (a cura di) 1982, p. 265.

189­­­­
pulizia e fucilazione delle retrovie», annota: «Nel 1917 do-
po Caporetto chiamato “il generale delle fucilazioni”. Argi-
nò così lo sbandamento. Comandò le truppe cecoslovacche.
Dopo molti anni, una notte cadde dal treno e morì. La morte
fu attribuita ad una possibile vendetta»6.
Mentre i militari sono riportati sotto la ferula dei loro co-
mandanti in linea, e ci vanno solo per le minacce degli innu-
merevoli Graziani ad ogni livello, viene il turno della soffe-
renza dei civili, ridotti a profughi o schiacciati dall’occupante,
soprattutto quello tedesco che, forse anche per una sorta di
idiosincrasia di popoli, sembra, stando ai documenti pubblici
e privati, avere un comportamento particolarmente aggressi-
vo e spesso brutale verso le popolazioni. Ne faranno le spese
le donne, in primo luogo, che vengono sottoposte a violenze
di ogni genere, a cominciare da quelle sessuali, soprattutto
nelle campagne. Si tratta di casi numerosi, che come sempre,
anche oggi, sovente le donne non denunciano, per timore di
non essere credute o della riprovazione morale, dell’esclu-
sione sociale. Nacquero così, a seguito di stupro, “i figli del
nemico”, ovvero, come si scrive in un documento dell’Opera
di assistenza per i figli della guerra, gli «incolpevoli figli della
colpa», condannati, come le loro mamme, a una penosa di-
scriminazione, quando non addirittura alla morte se le madri
decidevano di sopprimerli, facendone scomparire i corpicini.
La situazione assumerà proporzioni pesanti, tanto da indurre
le autorità, civili, militari e religiose, a intervenire con varie
misure, anche creando appositi istituti dedicati appunto ai
“figli della guerra”7.
Altra situazione penosa determinata dalla rotta di Capo-
retto, in Italia, è rappresentata dalle decine di migliaia di pro-
fughi, che stime attendibili contano in oltre un quarto di mi-

6
Tutte le notizie da Loverre 2001.
7
Cfr. D. Ceschin, «L’estremo oltraggio»: la violenza alle donne in Friuli e
in Veneto durante l’occupazione austro-germanica (1917-1918), in Bianchi (a
cura di) 2006, pp. 165-84.

190­­­­
lione di persone. Se ne è già fatto cenno, ma è soprattutto nei
mesi a partire da novembre che il fenomeno si materializza, e
in modo macroscopico, sconvolgendo un paio di regioni ita-
liane, sia per coloro che partivano sia per coloro che doveva-
no in qualche modo accoglierli, le popolazioni residenti, ma
anche le strutture pubbliche, le istituzioni. Non si mostrerà
gran senso di accoglienza, specie da parte di queste ultime,
anzi i profughi, cittadini e cittadine di nazionalità italiana,
costretti a lasciare le loro case, saranno visti innanzi tutto
come un problema di ordine pubblico, e addirittura una po-
tenziale minaccia allo spirito patriottico, in quanto sospettati,
in partenza, di essere portatori di “disfattismo”, o persino
spie al soldo del nemico: insomma, degli austriaci travestiti
da italiani! Al punto che, anche quando il governo deciderà
di dedicare al problema un’attenzione non soltanto in termini
di sicurezza, ma di benessere, farà gestire la situazione dal
ministero dell’Interno, ossia il “ministero di polizia”: dopo la
tragedia di Caporetto e il conseguente esodo di massa, infatti,
verrà creata una istituzione ad hoc, l’Alto Commissariato per
i profughi di guerra (presieduto dall’onorevole Luigi Luz-
zatti). Oggi, più correttamente, guardando agli svolgimenti
del mondo contemporaneo, dovremmo parlare di “rifugiati”,
invece che di “profughi”8: rifugiati che, come quelli dei nostri
giorni, vengono, a partire dall’inizio di novembre, sottoposti
a vessazioni, controlli esagerati, misure che ne limitano la li-
bertà di movimento, e così via. Si arriva a infiltrare sui treni
degli agenti per scovare i soggetti pericolosi, ossia possibili
portatori del virus disfattista. Si guardano con sospetto anche
i sacerdoti, talora, possibili propalatori del verbo pacifista.
Si paventa, proprio come ai nostri giorni, l’ondata migrato-
ria, l’immigrazione «irregolare», che si teme possa mettere in
crisi le strutture istituzionali e deprimere lo spirito pubblico.
Ciò che è nel 1917 il timore ossessivo della spia, del disfatti-

8
Cfr. D. Ceschin, I profughi in Italia dopo Caporetto: marginalità, pregiu-
dizio, controllo sociale, ivi, pp. 259-79, e più distesamente Id. 2006.

191­­­­
sta, del sabotatore della patria, è oggi l’ossessione del terro-
rista: e procedendo, allora come oggi, verso una sostituzione
delle misure di “prevenzione” a quelle di “repressione”, si
finisce per perdere di vista lo Stato liberale e le sue garanzie
essenziali.
In ogni caso, pur in un quadro di italianità depressa, di
sospetti, di accuse reciproche, di timori diffusi e di stanchez-
za generale, la guerra italiana svolta. Caporetto che cosa ha
comportato? Che cosa ha mostrato? Lascio la parola a uno
storico liberale, Adolfo Omodeo, uno dei primissimi a pensa-
re di raccogliere testi (lettere e diari) di combattenti, nel caso
perlopiù di ufficiali, nell’ottica dell’interventismo democrati-
co che lo contraddistinse. Caporetto manifesta dunque la fine
(ma c’era mai stata? Forse solo nella mente di Omodeo e di
pochi intellettuali interventisti) di

quel quid che sorpassa il puro vincolo di disciplina definito dai


regolamenti militari e lo trasforma in vincolo morale in collabora-
zione intelligente ed entusiastica; quell’unisono fra chi comanda
e chi ubbidisce, che nasce per vie impreviste, non dalle parole,
ma dagl’inconsci atteggiamenti, dalla fiducia, dalla speranza in un
meglio conseguibile per uno sforzo comune: il patto della vittoria,
su cui, in ultima analisi, poggia ogni esercito.

Ebbene Caporetto mostra che quell’elemento, «quel


quid» si è disgregato, ormai:

Ora la guerra cronica era la guerra spogliata della vittoria. Il


disperato martellamento imposto all’esercito italiano per spezzare
di colpo tutta la linea austriaca rivelava un’impulsività cieca e in-
concludente nel comando. Il sacrificio spaventoso per la conquista
d’una linea, moltiplicato per tutte le linee successive pareva portare
al deficit conclusivo. [...]. L’autorità e l’imperio non restituivano il
«morale». Animo del 19179.

9
Omodeo 1968, pp. 208-209.

192­­­­
Quell’«animo del 1917» trova nella disfatta di ottobre il
suo punto culminante, e da novembre, faticosamente, pur
con tutti i problemi suaccennati, comincia la curva ascenden-
te della parabola, fermo restando che i “poveri cristi” con-
tinueranno a reggere quasi per intero il peso immane della
guerra, sia al fronte, sia nelle città e nelle campagne. La pur
contenuta collaborazione dei socialisti, nella fase post-Ca-
poretto, è un segno importante del cambiamento. Dirigenti
nazionali del partito e del sindacato, deputati, amministratori
locali, a dispetto della campagna di odio antisocialista, e in
parte anche per rintuzzarla, mostrando la propria disponibi-
lità alla causa patriottica si spendono in ogni modo, cercando
comunque di salvaguardare una differenza da tutte le altre
forze politiche orientate in senso “patriottico”, ma egemoniz-
zate da un approccio di tipo nazionalistico, e spesso bellicisti-
co. Fra tutte le prese di posizione, la più rilevante, anche per
la sede, è l’articolo sintomaticamente intitolato Proletariato
e resistenza, scritto a quattro mani dalle due personalità più
eminenti del Psi, Turati e Treves, e pubblicato sull’autorevole
«Critica Sociale». La tesi di fondo era chiara: non c’è interna-
zionalismo che tenga quando la patria è invasa e in pericolo.
E davanti a una situazione come la presente, neppure i so-
cialisti possono rimanere aggrappati all’ideologia, sulla quale
deve prevalere il sentimento. Nel caso, l’antico, irredimibile
amor di patria:

Gli stessi estremisti della pace pensano che quando la libera


patria è invasa e cadono sotto i colpi del nemico tutti i suoi istituti,
precipita la stessa tribuna parlamentare da cui il socialismo parlava
al nostro governo e a tutti i governi, dicendo le aspettazioni, le sup-
plicazioni, di tutti i popoli che soffrono ugualmente della guerra!
L’invasione, se si compie, soffoca anche quella voce sotto l’unico
strepito trionfante delle armi, soggiogatrici feroci10.

10
Proletariato e resistenza, in «Critica Sociale», XXVII (1917), n. 21, cit.
anche in Ambrosoli 1961, p. 252.

193­­­­
Commenterà uno studioso, nei primi anni Sessanta: «Uno
schiaffo dato al socialismo scientifico; ma quanti, in un simile
frangente, con il nemico alle porte di casa, sarebbero stati in
grado di assumere il volto e la fisionomia del rivoluzionario
freddo e razionalista?»11.
Sarà un’altra figura eminente del socialismo, il vecchio
Giacomo Prampolini, pure esponente della corrente mode-
rata, a mettere i puntini sulle i, non distanziandosi troppo
dai due compagni, se non nel tono e nella misura, assai più
prudente. In una «storica dichiarazione»12 per illustrare la
posizione ufficiale del Gruppo parlamentare socialista alla
Camera, il 1° novembre, egli fa notare che, più che mai in
una situazione come quella che il paese sta vivendo, il Psi non
intende cedere alle sirene del patriottismo, se è anticamera
del nazionalismo. Si tratta di marcare la distanza, rifiutan-
do equivoci e tardivi embrassons-nous. Mentre respinge ogni
accusa ai socialisti di aver depresso lo spirito nazionale, et
similia, non rifiuta in termini generali il concetto di difesa ter-
ritoriale, ma, con lucidità, argomenta che nel caso specifico
esso non può essere tirato in ballo:

Oggi infatti la difesa territoriale è talmente innestata e fusa en-


tro il tutto complesso della guerra europea che l’intenderla come
voi vorreste ci trascinerebbe logicamente a rinnegare o postergare
tutta l’opposizione di tre lunghi anni, ci imporrebbe di dividere tut-
te le responsabilità e di accogliere tutte le situazioni che in questa
guerra si profilano, di accettarne le finalità, i modi, gli sviluppi13.

Patriottismo, sì, quando la patria è in pericolo, ma mai


nazionalismo, in sintesi. Nella sua posizione in qualche mo-
do mediana tra i Turati e i Treves – che in sostanza si sono
riavvicinati all’ala dei “social-riformisti”, espulsa dal Psi nel

11
Ambrosoli 1961, p. 252.
12
S. Caretti, I socialisti e la grande guerra (1914-1918), in Sabbatucci
(diretta da) 1980, p. 95.
13
Cit. in Ambrosoli 1961, p. 255.

194­­­­
1912 e capitanata da Bissolati e Bonomi – e la sinistra inter-
na, guidata da Giacinto Menotti Serrati, la linea espressa da
Prampolini troverà opposizioni su entrambi i fronti, anche se
è assai più vicina al fronte social-patriottico14.
Quando si svolge la seduta parlamentare in cui Prampo-
lini fa tali dichiarazioni, sono fortissimi gli echi degli eventi
russi. Sono, infatti, già in corso I dieci giorni che sconvolsero
il mondo, per servirsi della celeberrima formula di John Reed,
il giornalista statunitense che prende parte agli avvenimenti
e che ne farà un disegno di eccezionale vivezza, divenuto poi
un classico della storia in diretta, ma anche un’efficace narra-
zione che sembra in sé una sceneggiatura cinematografica (e
infatti Warren Beatty ne trarrà un bel filmone)15. Giornalista
con forti ambizioni politiche, segue tutta la guerra con diversi
viaggi sui luoghi dei combattimenti in Europa e, infine, va
come inviato in Russia grazie a Max Eastman, direttore della
rivista socialista «The Masses», di cui è redattore capo, dopo
aver vissuto una intensa esperienza in Messico, seguendo in
particolare la rivoluzione di Pancho Villa e dandone un bel
resoconto16; e prima ancora le lotte dei minatori a Chicago
e quelle dei tessili a Paterson, nel New Jersey una delle ca-
pitali della rivoluzione industriale americana. Ha la ventu-
ra, insomma, di essere testimone diretto della Rivoluzione
di Lenin, giungendo a Pietrogrado nel settembre. Come ha
scritto Theodore Draper: «Era arrivato in Russia come gior-
nalista, ma non era un semplice giornalista: in lui la tendenza
a identificarsi con gli oppressi era irresistibile, specialmen-
te se erano guidati da capi forti e decisi»17. E in Russia ne
troverà uno in particolare, chiamato Vladimir Il’ič, nome di

14
Caretti giudica la posizione di Prampolini «coincidente sostanzial-
mente» con quella di Turati e Treves (in Sabbatucci [diretta da] 1980, p. 96).
15
Reds (1981), vincitore di tre Premi Oscar, soggetto e sceneggiatura
dello stesso Beatty e di Trevor Griffiths.
16
Cfr. Reed 1979.
17
In Reed 1971, pp. xiii-xiv (ma si tratta di un capitolo tratto dal libro
di T. Draper, The roots of american communism, Viking, New York 1957).

195­­­­
battaglia Nikolaj Lenin. Il quale sul finire del 1919, avendo
letto il libro di Reed, nella Premessa per l’edizione americana
avrebbe scritto:

Lo raccomando senza riserve agli operai di tutto il mondo. Ecco


un libro che vorrei veder diffuso in milioni di copie e tradotto in tutte
le lingue. Esso dà un quadro esatto e straordinariamente vivo di fatti
che hanno un’estrema importanza per la comprensione di ciò che so-
no realmente la rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato18.

I fatti si svolgono in un’accelerazione formidabile, nella


prima decina di giorni del mese, in contemporanea con la
ritirata italiana sul Piave, il che darà un argomento in più alla
propaganda della destra nazionalista e liberale per stabilire
una connessione non meramente temporale, ma causale, tra
la disfatta dei fanti in Italia e la vittoria dei bolscevichi in
Russia, non soltanto nel senso, che abbiamo visto esposto da
Mussolini, dell’indebolimento del fronte russo come spiega-
zione dell’avanzata austro-germanica a Ovest, ma nel senso
specifico di una pretesa azione dei socialisti italiani (d’ora
in poi battezzati come “bolscevichi”) di carattere disfattista:
la famosa “pugnalata alla schiena” che sarebbe stata infer-
ta dal bolscevico – la nuova, definitiva rappresentazione del
“nemico interno” – al fante italiano. E Reed ne fornisce una
ricostruzione in tempo reale, giorno per giorno, dandoci un
prezioso documento che ancora oggi risulta imprescindibi-
le. Ne emerge, in modo irrefutabile, la grandezza di Lenin,
la sua distanza da tutti gli altri personaggi che troviamo sul
proscenio, che, al suo confronto, appaiono dei comprimari,
più o meno valorosi, più o meno in grado di fornire un con-
tributo rilevante alla causa comune. Rivoluzionario di pro-
fessione e di vocazione, Vladimir Il’ič Ul’janov ha, come si è
visto, uno straordinario bagaglio teorico. Il suo contributo al
marxismo, dato in migliaia di pagine negli anni precedenti,

18
In Reed 1971, p. xxxvii.

196­­­­
non riguarda soltanto il tema dell’imperialismo, su cui alla
vigilia della rivoluzione ha pubblicato un libro fondamentale
qui già citato, ma la teoria delle classi sociali e soprattutto la
teoria della rivoluzione, come si è detto parlando dell’opera
Stato e rivoluzione, scritta nei mesi precedenti, interrotta per
lo sviluppo degli eventi e pubblicata poi nel ’18. Lo sforzo
di Lenin è quello di adattare la teoria marxiana allo specifico
russo, e, diversamente da Marx, egli si dedica non all’analisi
del capitalismo, bensì a quella del processo rivoluzionario in
tutte le sue fasi, dalla costruzione del partito come strumento
per organizzare le masse, alla conquista del potere e alla crea­
zione dello Stato proletario, ossia il proletariato organizzato
come classe dominante, e, ancora, alla teoria dell’assopimen-
to dello Stato, fino alla sua scomparsa, nella transizione alla
società comunista, ossia la società senza classi. Mostra insie-
me intransigenza teorica e pragmatismo pratico. Soprattutto
è veloce nel cogliere le situazioni e nell’assumere decisioni:
due requisiti essenziali per chi voglia fare una rivoluzione e
costruire uno Stato. In tal senso, la Rivoluzione bolscevica
è soprattutto la Rivoluzione di Lenin. E non ha ecceduto
Edward Carr, storico di quella vicenda, a parlarne come del
«maggiore rivoluzionario di ogni tempo», anche se ha pre-
messo a quest’affermazione, per prudenza, un «forse»19.
Davanti al precipitare della situazione, che sta sfuggendo
completamente di mano, il giorno 6 Kerenskij nella sede del
governo provvisorio, l’ottocentesco, imponente Palazzo Ma-
riinskij, tiene un discorso che passerà alla storia per essere
il suo ultimo. Reed riesce ad ascoltare la parte conclusiva,
in cui il presidente del Consiglio, ancora per poco, «tentava
insieme di giustificarsi e di colpire i suoi avversari»20, citando
brani di articoli del «criminale di stato Ul’janov-Lenin che
attualmente si nasconde e che noi ci sforziamo di scoprire», e
denunciando anche «l’opera del presidente attuale del soviet

19
Carr 1964, p. 26.
20
Reed 1971, p. 63.

197­­­­
di Pietrogrado, Bronštein-Trockij». Essi, e le forze che sono
dietro di loro, praticano

uno sfruttamento sistematico dell’ignoranza, della ingenuità o de-


gli istinti criminali della popolazione, per creare ad ogni costo in
Russia un’atmosfera di pogrom, per scatenarvi la follia della distru-
zione e del saccheggio; perché, dato l’attuale stato d’animo delle
masse, a Pietrogrado ogni movimento sarà inevitabilmente accom-
pagnato dai più terribili massacri che copriranno di vergogna per
sempre il nome della libera Russia [...]21.

Le cose andranno in tutt’altro modo, smentendo le fo-


sche profezie kerenskiane. La Rivoluzione di Lenin, la Ri-
voluzione bolscevica, sarà praticamente senza spargimento
di sangue, senza saccheggi, senza devastazioni. E la «pleba-
glia», che Kerenskij nel discorso menziona con disprezzo,
prenderà il potere, quasi senza colpo ferire, esprimendo una
volontà diffusa, certo non “maggioritaria” (secondo il signi-
ficato del termine russo) in termini assoluti, ma sicuramente
in grado più delle altre forze politiche di sintonizzarsi sugli
umori delle masse, almeno quelle più consapevoli e attive.
A Kerenskij risponde Martov, capo menscevico che vanta
un antico sodalizio rivoluzionario con Lenin e membro del
governo provvisorio, criticando il presidente che «si è per-
messo di usare il termine di plebaglia, quando si tratta del
movimento di una parte importante del proletariato e dell’e-
sercito», parole, continua, che «sono un vero incitamento
alla guerra civile»22.
La guerra civile verrà dopo, una volta che i bolscevichi sa-
ranno ascesi al governo dell’immenso paese, e sarà fomentata
e sostenuta anche dall’esterno, dalle stesse potenze imperia-
liste che avevano voluto la guerra mondiale. Per ora, come
si diceva, si tratta di un cambio di potere quasi pacifico, sia

21
Cit. ibidem.
22
Cit. ivi, p. 66.

198­­­­
pure nell’eccitazione e nella comprensibile confusione di un
momento storico straordinario. Visto in altra ottica si tratta di
«un colpo di mano» che, tuttavia – lo ammette anche chi lo
qualifica in questi termini –, ha avuto una importanza estre-
ma, e che vince, aggiungo, non solo per un complesso fortuito
di circostanze e la ferrea volontà di Lenin, bensì perché esso
godrà del sostegno (almeno) «di una parte importante del
paese»23. Nella stessa giornata del 6 novembre Kerenskij, che
ha annunciato a destra e manca che il governo provvisorio re-
sisterà, e che sono in arrivo truppe da varie zone della Russia,
si dilegua. Da Palazzo Mariinskij si reca al Palazzo d’Inverno,
sentendosi più protetto, ma di là non tarderà a fuggire, nella
stessa mattina che vedrà l’avvio della insurrezione, il 7 novem-
bre24; l’Ambasciata degli Stati Uniti gli mette a disposizione
un’automobile con la quale raggiunge Pskov, la città dove lo
zar ha abdicato nel marzo. Seguirà un suo malaccorto tentati-
vo di colpo reazionario antibolscevico finito malamente, dopo
di che emigrerà in Francia e poi negli Usa, dove terminerà la
sua esistenza insegnando e scrivendo sulla storia russa.
Intanto l’incrociatore Aurora, che nel dicembre 1908 era
stato la prima nave a portare soccorso ai terremotati di Mes-
sina, passato nelle mani dei marinai, a favore dei bolscevichi,
si presenta oltre il ponte Nikolaevskij, sulla Neva, con i can-
noni puntati sul Palazzo d’Inverno, sede ufficiale del governo
provvisorio dalle cui finestre, racconterà un ministro, si guar-
da con preoccupazione verso la nave, come, sul lato opposto,
con altrettanta inquietudine si leva lo sguardo verso la fortez-
za Pietro e Paolo, già passata spontaneamente dalla parte dei
rivoluzionari. È una «grigia giornata senza sole», quella in cui
si consuma l’atto finale della Russia “democratica”25.

23
Graziosi 2007, p. 93.
24
Cfr. G. Boffa, La rivoluzione russa, in Bonchio (a cura di) 1966, I, pp.
381-83.
25
P. Maliantovič, L’ultimo giorno, in La Rivoluzione d’Ottobre 1967, pp.
245-60.

199­­­­
Nella notte del 7 novembre, a partire dalle ore 2 circa,
prende il via l’insurrezione, per mettere fine all’agonia di uno
Stato ormai senza poteri e soprattutto privo di autorità. In
realtà l’insurrezione sarà (o sarà presentata come) una risposta
alle misure prese dal governo provvisorio, volte a bloccare
ogni azione dei bolscevichi, chiudendo il loro giornale, arre-
stare i loro capi e cancellare i poteri dei Soviet, far presidiare
tutti i punti cruciali di Pietrogrado da truppe fedeli. Questo
indurrà Lenin a dare l’ordine dell’insurrezione, o gli varrà da
ulteriore giustificazione. In precedenza, il “Congresso dei So-
viet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia” ha emesso
due consecutivi ultimatum, uno alle 6, l’altro due ore dopo, al
governo provvisorio: una scelta criticata da alcuni. Uno dei ca-
pi militari della rivoluzione, evocando quei giorni, risponderà:

valeva la pena di versare anche una sola goccia di sangue dei difen-
sori della rivoluzione se vi era la possibilità di obbligare il nemico
a cedere lo stesso le armi, se ogni minuto sempre maggiori repar-
ti militari abbandonavano il Palazzo d’Inverno comprendendo la
propria posizione senza vie d’uscita?26

In realtà tra i bolscevichi non tutti concordano con la po-


sizione di Lenin che ritiene necessaria, indifferibile l’insur-
rezione, e che sarà comunque la linea vincente. La condivide
e la sostiene vigorosamente, invece, Trockij, che ha avuto in
passato un rapporto difficile con Lenin, entrando nelle file
dei bolscevichi soltanto a maggio, dopo esserne stato a lungo
avversario, accolto subito nella più alta dirigenza. Diventa
presidente del Soviet di Pietrogrado, acquisendo immediata
popolarità per le sue doti oratorie, per la brillantezza dei
suoi articoli giornalistici, ma nessuno sospettava in lui un
sagace organizzatore politico e un grande stratega militare.
In realtà sembrerebbe che egli, dietro le attività legali, negli
ultimi giorni, tra fine ottobre e inizio novembre, predispo-

26
N. Podvoiski, La conquista del Palazzo d’Inverno, ivi, pp. 81-88 (83).

200­­­­
nesse tutti i passi necessari per una presa del potere attra-
verso truppe scelte composte di uomini fidati, bolscevichi di
sicura fede. L’accusa di blanquismo, che in passato era stata
scambiata fra Lenin e Rosa Luxemburg, poi tra Lenin e Tro-
ckij, ora sono Zinov’ev e Kamenev – contrari all’insurrezione
– a usarla contro Trockij, il quale, scegliendo la scorciatoia
insurrezionalistica, finisce per tradire o capovolgere alcuni
suoi convincimenti passati sul ruolo attivo delle masse, sulla
loro spontaneità cosciente, e così via: oggi, 7 novembre, le
masse, invece, vengono escluse. I bolscevichi, se vogliono
arrivare alla presa del potere, non possono permettersi una
mobilitazione di massa. Trockij e Lenin sanno che il bolsce-
vismo è ancora minoranza nel paese, e anche tra gli stessi
operai, che peraltro costituiscono una percentuale ridottis-
sima del popolo russo. Anche Lenin ha cambiato linea, in
vero: dopo aver sempre respinto l’etichetta di “blanquista”
e aver variamente spiegato che al potere si va quando si è
maggioranza, ora, a distanza di sette mesi circa, rovescia il
principio e sostiene che «la presa del potere deve precedere
il congresso dei Soviet». La consapevolezza di essere mino-
ranza numerica, e il timore (fondato?) che dall’altra parte
si stia preparando un analogo colpo, ma in senso opposto e
contrario, spiegano questo rovesciamento prospettico27. La
sera del 6 novembre egli indirizza una lettera ai membri del
Comitato centrale del Posdr:

Compagni, [...]. La situazione è estremamente critica. È chiaris-


simo che ora ogni ritardo nell’insurrezione è veramente uguale alla
morte. | Voglio convincere con tutte le mie forze i compagni che
ora tutto è legato a un filo, che sono all’ordine del giorno questio-
ni che non si risolvono con le conferenze né con i congressi [...],
ma esclusivamente dai popoli, dalle masse, dalla lotta delle masse

27
Cfr. Abosch 1977, pp. 41 ss. L’autore dà un giudizio molto severo,
forse troppo, su Trockij. A differenza di Carr 1964, che certifica la decisione
dell’insurrezione come preventiva rispetto al golpe di Kerenskij, Abosch non
ci crede, e ritiene essersi trattato sostanzialmente di un pretesto.

201­­­­
armate. [...] | Non bisogna attendere!! Si può perdere tutto!! [...]
La storia non perdonerà gli indugi ai rivoluzionari che potrebbero
vincere oggi (e che quasi certamente vinceranno oggi), rischiando
di perdere molto domani, rischiando di perdere tutto28.

Che tema davvero un’azione controrivoluzionaria pre-


ventiva o no, Lenin intende cogliere l’occasione; e adatta la
sua posizione teorica agli sviluppi della situazione pratica.
Si tratta, insomma, di un’“ora o mai più”. Contraddicendo
se stesso, contravvenendo alla teoria marxiana, rischiando
di essere bollato come anarco-insurrezionalista o “blanqui-
sta”, Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, accetta la sfida, e a
sua volta la lancia: contro una parte dei suoi stessi compagni
della frazione bolscevica, a cominciare da Kamenev, il quale
pochi giorni prima ha annunciato di ritenere l’insurrezione
un atto assurdo e sbagliato nella situazione presente, e che
sarebbe votata comunque alla sconfitta, con «conseguenze
mortali per il partito, per il proletariato e per le sorti della
rivoluzione»29; ma anche, ovviamente, contro Kerenskij, e,
in sostanza, contro il mondo che, inquieto, guarderà alla ca-
pitale russa.
Un colpo di cannone dell’Aurora segna l’inizio dell’azione
rivoluzionaria, mentre il Soviet lancia il primo e poi il secon-
do proclama. Vi si enuncia la convinzione

che il governo sovietico operaio e contadino che sarà creato dalla


rivoluzione e che assicurerà al proletariato di città l’appoggio di
tutta la massa dei contadini poveri, marcerà con fermezza verso
il socialismo, solo mezzo per evitare le miserie e gli orrori inauditi
della guerra30.

28
Lenin 1955-1970, vol. XXVI (1966), pp. 220-21. Il resoconto della riunio-
ne (in francese) del Comitato centrale è in Boffa (a cura di) 1964, pp. 178-80.
29
La dichiarazione di Kamenev al giornale «Novaia Jizn», del 31 ottobre,
è ivi, pp. 174-75.
30
Il comunicato è in Reed 1971, p. 84.

202­­­­
Dall’Istituto Smol’nyj, quartier generale bolscevico, si di-
ramano gli ordini. Scaduto il secondo ultimatum, marinai,
soldati, guardie rosse bolsceviche si lanceranno verso gli ac-
cessi al Palazzo d’Inverno: le barricate di soldati che lo di-
fendono sono travolte così come le guarnigioni interne. «In
nome del Comitato militare rivoluzionario del Soviet di Pie-
trogrado dichiaro il Governo Provvisorio rovesciato», decla-
ma il bolscevico Antonov Ovseenko, penetrato nella stanza
dove siedono i membri residui del governo provvisorio. Alle
grida di «Fucilazione... Morte... Morte...» che si propagano
nelle scale e per i corridoi del Palazzo, e poi nella piazza,
rispondono i capi bolscevichi in modo fermo: non ci saranno
fucilazioni. «Le guardie rosse circondano come un anello l’ex
Governo». Analoga dialettica si verifica davanti al saccheg-
gio, subito cominciato, del Palazzo.

I preziosi del Palazzo fanno gola. Dalla camera di Nicola Roma-


nov portano via i libri stranieri con le rilegature costose. I perqui-
sitori del cortile capitano nelle cantine del Palazzo. Gli affamati si
gettano sulle riserve di alimentari: i prosciutti e le bottiglie vengono
portati sulla piazza, nelle caserme. Tuttavia la parte più cosciente
dei soldati ricorda loro la disciplina rivoluzionaria. Viene subito
organizzata una guardia al Palazzo31.

La stessa scena viene raccontata con grande vividezza da


Reed, forte della sua capacità narrativa; dopo la descrizione
dei saccheggi bloccati, egli racconta anche il seguito, con fe-
lice penna:

«Sgombrate il palazzo! – urlava una guardia rossa. – Via, com-


pagni, dimostriamo che non siamo ladri né banditi! Tutti fuori del
palazzo, meno i commissari, finché non ci saranno le sentinelle».
| Due guardie rosse, un ufficiale ed un soldato, stavano in piedi
con il revolver in pugno; un altro soldato era seduto ad un tavolo,
con penna e carta. Ovunque risonava il grido: «Fuori tutti! Fuori

31
Podvoiski, La conquista del Palazzo d’Inverno cit., p. 88.

203­­­­
tutti!» e, a poco a poco, la truppa cominciò a uscire urtandosi,
borbottando, protestando. Ogni soldato era afferrato e frugato, gli
si vuotavano le tasche, gli si guardava sotto il cappotto. Tutto ciò
che non era manifestamente di sua proprietà veniva sequestrato:
il segretario prendeva nota e l’oggetto era portato in una piccola
stanza vicina. | Si sequestrò così un assortimento straordinario di
oggetti: statuette, bottiglie di inchiostro, copriletto ricamati con le
cifre imperiali, candelieri una piccola scatola di colori, cartelle, spa-
de con l’impugnatura d’oro, pezzi di sapone, vestiti di ogni genere,
coperte. [...] I colpevoli o restituivano malcontenti o si difendevano
come fanciulli. I membri della commissione di visita, parlando tutti
insieme, spiegavano che rubare era indegno per i campioni del po-
polo. Spesso coloro che erano stati sorpresi in fallo si fermavano e
aiutavano a frugare i loro compagni32.

Si tratta nell’insieme di azioni violente, illegali, ma in-


cruente. Alle ore 10 del 7 novembre (25 ottobre secondo il
calendario allora ancora in uso in Russia) il Soviet lancia il suo
bollettino di vittoria, steso da Lenin, di suo pugno, indirizza-
to «Ai cittadini di Russia»:

Il governo provvisorio è stato abbattuto. Il potere statale è pas-


sato nelle mani dell’organo del Soviet dei deputati operai e soldati
di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario, che è alla testa
del proletariato e della guarnigione di Pietrogrado. | La causa per
la quale il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace de-
mocratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il control-
lo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico,
questa causa è assicurata. | Viva la rivoluzione degli operai, dei
soldati e dei contadini!33

A sera – una sera «scura e fredda»34 – si riunisce a Smol’nyj


il II Congresso panrusso del Soviet, ma Lenin non vi prende

32
Reed 1971, p. 100.
33
Lenin 1955-1970, vol. XXVI (1966), p. 22.
34
A. Andreev, Lenin al secondo congresso dei Soviet, in La Rivoluzione
d’Ottobre 1967, pp. 89-93 (89).

204­­­­
parte, impegnato a dirigere l’insurrezione da un appartamen-
to in città dove è nascosto, ricercato dal governo provvisorio
da quando, pochi giorni prima, è rientrato dalla Finlandia
dove era riparato a luglio, inseguito da un mandato di cattura
governativo. Parteciperà l’indomani alla seconda riunione. È
l’8 novembre, e il giorno si leva «su una città al colmo dell’ec-
citazione e dello smarrimento, su una nazione tutta agitata da
una formidabile tempesta»35. Movimenti di truppe, soldati
governativi sbandati, marinai sopra l’incrociatore e altri che
ne sono discesi a fare pattugliamento, guardie rosse, junker
e gente comune, in un andirivieni forsennato che sembra
non avere termine, mentre le notizie vere si incrociano con
le false, le dicerie con i comunicati, gli annunci con i contro-
annunci. La seconda riunione del Soviet sarà decisiva: essa
è dedicata, specificamente, al tema della guerra/pace, ma in
realtà è l’assemblea che deve ratificare l’insurrezione in atto.
Ecco la descrizione di John Reed:

La sala era riscaldata solo dal calore soffocante dei corpi umani
non lavati. Una spessa nuvola azzurra di fumo di sigarette si levava
da quella folla e restava sospesa nell’aria pesante. Ogni tanto qual-
cuno montava alla tribuna e pregava i compagni di non fumare.
Allora tutti, compresi i fumatori, gridavano: «Non fumate, compa-
gni!» e poi tutti continuavano36.

Non mancheranno le voci critiche verso l’insurrezione,


voci che invitano a evitare scontri intestini nella sinistra delle
forze che a marzo avevano cancellato il dominio degli zar.
Una delle più accorate è la voce di Martov, autorevole leader
menscevico, che invita a riflettere: «Sta cominciando la guerra
civile, compagni. La prima questione deve essere la soluzione
pacifica della crisi». Riproduce, forse inconsapevolmente, la
posizione di Kerenskij, e soprattutto non si rende conto che

35
Reed 1971, p. 111.
36
Ivi, p. 86.

205­­­­
ormai la situazione allo stadio in cui è giunta non consente
alcuna soluzione pacifica37.

In effetti, intanto, si ode il cannone tuonare, e la sala è in pre-


da al caos. «Fu così, tra il rombo dell’artiglieria, nell’oscurità, fra
gli odî, la paura e l’audacia più temeraria, che nacque la nuova
Russia»38.

All’assemblea è atteso Lenin. Quando appare nella sala,


alla tribuna della presidenza, è accolto «da una possente
ovazione»39.

Egli non poté incominciare il suo discorso per molto tempo a


causa degli interminabili applausi e delle esclamazioni di «Viva Le-
nin!». | Nella sala delle sedute stava avvenendo qualcosa di inimma-
ginabile. Gli applausi si mischiavano alle grida gioiose. [...] Le per-
sone salivano sui davanzali, sui basamenti delle colonne, sulle sedie,
solo per vedere Lenin che stava alla tribuna. In aria volavano capelli,
berretti, i berretti dei marinai, balenavano i fucili sollevati in alto40.

Lenin, dunque: Reed lo vede da vicino, in azione, per la


prima volta.

Erano esattamente le otto e quaranta quando una tempesta di


applausi annunciò l’entrata della presidenza, con Lenin, il grande
Lenin. Piccolo di statura, raccolto, la grande testa rotonda e calva
infossata nelle spalle, gli occhi piccoli, il naso camuso, la bocca gran-
de e generosa, il mento pesante. Era completamente sbarbato, ma la
barba così conosciuta e che d’ora innanzi gli sarebbe sempre rima-
sta, cominciava già a rispuntargli sul viso. Il vestito era consunto, i
pantaloni troppo lunghi. Inadatto, fisicamente, ad essere l’idolo del-
la folla, egli fu amato e venerato come pochi capi nella storia. Uno
strano capo popolare, capo per la sola forza della intelligenza. Egli

37
Cit. ivi, p. 88.
38
Ivi, p. 89.
39
Ivi, p. 85.
40
Andreev, Lenin al secondo congresso cit., p. 91.

206­­­­
non era brillante, non aveva spirito, era intransigente e appartato,
senza alcuna particolarità pittoresca, ma aveva il potere di spiegare
le idee profonde in termini semplici, di analizzare concretamente le
situazioni e possedeva la più grande audacia intellettuale41.

Vengono annunciati i primi provvedimenti che si intendo-


no assumere: abolizione della pena di morte, libertà di stam-
pa e propaganda, liberazione dei prigionieri politici, arresto
di Kerenskij, confisca delle provviste di viveri nei magazzini
privati. Toccherà allo stesso Lenin, interrotto da applausi fre-
netici, spiegare la linea di politica estera che la nuova Russia
assumerà. Ossia, pace proposta a tutti i popoli belligeranti,
una pace «democratica e giusta», ossia immediata, senza an-
nessioni e senza indennità, quella pace «ardentemente desi-
derata dall’immensa maggioranza degli operai e delle classi
lavoratrici, spossate dalla guerra»42. Messo ai voti il proclama
sulla guerra secondo le linee esposte da Lenin, viene approva-
to all’unanimità. Sono le dieci e trentacinque della sera dell’8
novembre. E, senza che nessuno lo proponga, senza un co-
mando dall’alto, improvvisamente tutti si alzano in piedi e un
canto sgorga dai loro petti, quasi si trattasse di una sceneg-
giatura: è la melodia dell’Internazionale, che copre ogni altro
suono interno e ogni rumore esterno, in un crescendo che fa
salire le lacrime agli occhi alla gran parte dei presenti.
Ritornati al lavoro, sarà ancora Lenin a proporre il decreto
sulla terra, che recita al primo punto, stentoreamente: «La
grande proprietà fondiaria è abolita immediatamente senza
alcun indennizzo». Al punto 2 si decreta che le terre apparte-
nenti alla corona, le tenute dei monasteri, della Chiesa, com-
presi il bestiame, il materiale e gli edifici sono messi a disposi-
zione dei comitati agrari e dei Soviet contadini, in attesa della
convocazione dell’Assemblea costituente. Al punto 5 si pre-
cisa: «Le terre dei semplici contadini e dei semplici cosacchi

41
Reed 1971, p. 123.
42
Cit. ivi, p. 125.

207­­­­
non vengono confiscate»43. Sono ormai le 2 del 9 novembre,
e il decreto viene approvato all’unanimità con un voto contra-
rio. Poco dopo, tocca a Kamenev leggere l’organigramma del
nuovo governo nato dalla insurrezione. Si chiamerà, precisa,
«Consiglio dei Commissari del Popolo», sul quale il Congres-
so panrusso dei Soviet ha il diritto/dovere di esercitare un fer-
reo controllo, attraverso il diritto di revoca. La lettura avviene
in un silenzio teso, ma via via, come alla fine di un concerto
quando il leader della band recita i nomi dei singoli musicisti
che ricevono ciascuno la propria dose di applausi, così per
ogni nome di commissario del popolo la sala applaude, spe-
cialmente quando si legge il nome di Trockij, commissario agli
Esteri, e di Lenin, presidente del Consiglio44.
La vittoria porrà i bolscevichi, semplice frazione di un
partito politico (il Posdr), un soggetto politico assai poco
noto fino ad allora, al centro dell’attenzione mondiale; e il
pensiero della rivoluzione possibile, sulla base del successo
raggiunto in Russia, diventerà presto diffuso anche se tutti,
a cominciare dallo stesso Lenin, si rendono conto che si trat-
ta di una rivoluzione che in un certo senso tradisce Marx,
in quanto privilegia il momento politico (e, aggiungo, la vo-
lontà) sulle condizioni strutturali, ossia socio-economiche.
Anche per la consapevolezza di questa differenza dal pen-
siero del fondatore della dottrina e del movimento, Lenin e
almeno una parte consistente dei bolscevichi sosterranno la
propria posizione, nella ipotesi, per taluno necessaria, per
altri persino imminente, di un analogo sommovimento nelle
società del capitalismo avanzato45. Ma a differenza dell’altro

43
Il testo, come quello del decreto sulla pace e tutti gli altri, si legge in
Lenin 1955-1970, vol. XXVI (1966), pp. 231 ss. Mette conto notare che Reed,
pubblicando anch’egli quei testi, incorre in una grave inesattezza, proponendo
il punto 1 del decreto sulla terra in questa formulazione: «La proprietà privata
della terra è abolita immediatamente, senza indennizzo» (1971, p. 131).
44
Cfr. Reed 1971, p. 137; Boffa, La rivoluzione russa cit., pp. 400-401.
45
Cfr. M. Reiman, I bolscevichi dalla guerra mondiale all’Ottobre, in Sto-
ria del marxismo 1980, pp. 83 ss.

208­­­­
grande personaggio che vediamo in azione in quelle giorna-
te, Lev Trockij, Lenin si rende conto che la presa del potere
è avvenuta grazie a circostanze favorevoli, interne e inter-
nazionali, «di estrema rarità e precarietà»46. Il paradigma
di Trockij, in generale, si manifesta come stabile al punto
da apparire rigido, quello di Lenin invece è mobile, fino a
diventare elastico, con, ovviamente, degli elementi portanti
di assoluta coerenza47.
In ogni caso, tutte le testimonianze riconoscono il ruolo
importantissimo di Trockij nella rivoluzione. «Ma la strategia
più alta della rivoluzione era stata di Lenin». La vittoria del
7 novembre è

il trionfo non solo dei Soviet, ma anche di Lenin e dei bolscevichi.


Lenin e il partito, l’uomo e lo strumento, erano adesso una cosa
sola. Era chiaro a tutti che il trionfo del partito era dipeso quasi
esclusivamente dal pieno successo che Lenin aveva avuto nell’im-
primere ad esso la sua volontà personale e nel trascinare i suoi
colleghi spesso riluttanti. Il prestigio di Lenin s’era saldamente
affermato; erano state poste le basi che avrebbero reso possibile
l’ascesa, all’interno del partito, dell’unico capo48.

Il mondo, a cui Lenin ha lanciato la sfida, per ora è at-


tonito, sospeso, diviso tra sentimenti che vanno dalla paura
alla gioia, e si lancia in previsioni contrastanti, quasi mai
confermate dagli svolgimenti reali. A titolo d’esempio, in
Francia, paese che riceverà più tempestivamente di altri le
notizie russe, «Le Matin», dopo aver via via aggiornato le
edizioni del 9 novembre, nell’ultima della sera prevede con
assoluta certezza che «gli elementi d’ordine abbiano il so-
pravvento, in un conflitto che sarà inevitabilmente sangui-
noso»; e aggiunge:

46
V. Strada, Lenin e Trockij, ivi, p. 126.
47
Cfr. ivi, p. 128.
48
Carr 1964, p. 101.

209­­­­
Sarebbe sorprendente che il colpo di mano appena riuscito a
Pietrogrado e che è opera di una minoranza audace modifichi defi-
nitivamente i destini della Russia. È più probabile che una potente
reazione seguirà questa crisi e che da qui a pochi giorni Lenin e
i suoi amici andranno a rimpiazzare i ministri di ieri che vi sono
attualmente detenuti49.

E ancora nei giorni seguenti, il quotidiano inventerà una


riscossa di Kerenskij, la disfatta dei “massimalisti”, e così via.
Analogamente, un diffuso settimanale come «L’Illustration»
darà “notizie” sull’azione di Kerenskij che mette in fuga Le-
nin. Ma v’è anche chi, come il giornale socialdemocratico di
Stoccolma, scrive con buon senso che la vittoria di Lenin è la
vittoria dei russi stanchi di guerra: anche se giudica «falsa» la
sua teoria politica, la stanchezza della guerra è un fatto di cui
non si può non tener conto.
Il mese che porta un simile sconvolgimento nella geopo-
litica mondiale, e una così grandiosa novità nella storia, si
è aperto però, su un altro scacchiere, con la poi celebratis-
sima, discussa, esecrata Dichiarazione Balfour, che pur non
essendo un evento di rilievo risulterà, per le sue conseguenze,
sicuramente uno dei grandi fatti storici dell’anno: se accet-
tiamo il principio che un fatto storico si definisca e si misuri
non per ciò che è, ma per ciò che produce. Va tenuto conto
che nei primi del secolo si assiste a una rinascita del nazio-
nalismo arabo, che tocca ogni aspetto, dalla lingua (negletta
da tempo) alla politica (genesi di patriottismo anticoloniali-
stico); nel 1904 un intellettuale libanese pubblica un libro
“rivoluzionario”, Il risveglio della nazione araba, e fonda la
Lega della Patria araba: il suo nome è Negib Azoury, e nel
libro sostiene la necessità di un impero arabo dal Mediter-
raneo al Golfo Persico, inglobando l’Arabia, la Siria, le terre
del Tigri e dell’Eufrate, il Libano e la Palestina. Ma nel 1916
il già richiamato accordo Sykes-Picot divide tutti quegli im-

49
In Duclos 1967, pp. 105-106.

210­­­­
mensi territori in zone di influenza anglo-francese, traccian-
do linee colorate a distinguerle, rosse per l’Inghilterra, blu
per la Francia. In teoria anche la Russia doveva partecipare
alla spartizione, ma la crisi dello zarismo prima, e la vittoria
bolscevica dopo, la misero fuori questione. Le potenze co-
loniali mostravano totale disprezzo verso le popolazioni di
quelle regioni, in qualche modo preparando il terreno alla
“cessione” della Palestina agli ebrei in cerca di uno Stato; in
realtà nell’intesa per la Palestina si proponeva un destino di
internazionalizzazione, in quanto contesa tra le due grandi
potenze, ma il Regno Unito seppe, nel volgere di pochi mesi,
grazie all’alibi del sionismo, sottrarre la Palestina alla Francia,
che pure aspirava al suo controllo.
Contemporaneamente il sionismo, nato nel secolo pre-
cedente, sembra assumere caratteri militari, dispiegandosi
in modo aggressivo anche contro le opinioni del fondatore
del movimento, Theodor Herzl, mentre emerge la figura di
Chaïm Weizmann. Ebreo russo di famiglia agiata emigrato
in Inghilterra, egli riesce a irretire il capo dei conservatori
di Manchester che lo presenta ad Arthur Balfour – già pri-
mo ministro, il quale gli darà un pieno appoggio – e con-
temporaneamente “seduce” l’editorialista del «Manchester
Guardian», il quale non solo gli offre il sostegno potente del
giornale, ma lo mette in contatto con Lloyd George, come
sappiamo primo ministro dalla fine del ’16. Arriva poi ad
entrare in contatto, attraverso la famiglia Rothschild, con l’a-
ristocrazia, specie israelitica, britannica. E un Rothschild era
a capo della comunità ebraica inglese50. Dall’attivismo spre-
giudicato di Weizmann, e dal cinismo britannico, scaturirà
la Dichiarazione Balfour. Si tratta del non lungo dispaccio
indirizzato a Lord Rothschild, capo della comunità israeli-
tica britannica, da parte del ministro degli Esteri britanni-
co Balfour che dichiara essere il suo governo a favore della

50
Cfr. Alem 1982, pp. 177 ss., 28 ss.

211­­­­
costituzione di un ”focolare ebraico” in Palestina, occupato
già a partire da gennaio da truppe di Sua Maestà, dove verrà
poi stabilito, il 25 aprile 1920, il protettorato britannico sulla
Palestina, anche grazie alle imprese del colonnello Lawrence.
Ma formalmente la Palestina è un territorio parte dell’Impero
ottomano, ed è illuminante dello “spirito del colonialismo” il
fatto che una grande potenza decida della sorte di un territo-
rio prescindendo completamente sia dalla volontà dello Stato
di cui è parte, sia soprattutto dalla volontà dei residenti. L’a-
zione britannica del resto corrisponde a una accelerazione, in
ragione dei timori che la Palestina possa finire sotto controllo
francese o della Germania, che pure sta mostrando un forte
attivismo perché quelle terre rimangano sotto il controllo dei
turchi (alleati degli Imperi centrali).
In vero la Dichiarazione Balfour non è che la risposta,
per così dire, alle richieste che sono giunte al ministro de-
gli Esteri (in un documento datato 18 luglio) da parte di
Rothschild, in accordo con altri maggiorenti dell’ebraismo
inglese, ossia: 1. La ricostituzione statuale della Palestina
come Stato degli ebrei. 2. Il diritto incondizionato degli
ebrei a trasferirvisi, da ogni parte del mondo. 3. L’autono-
mia interna ebraica. In realtà rispetto a tali richieste il go-
verno britannico ebbe molte riserve, e le lasciò cadere quasi
interamente, concedendo solo «the establishment in Palesti-
ne of a national home for the Jewish people»51. Il progetto nei
termini concessi dai britannici, approvato bon gré mal gré
dai rappresentanti israeliti, ottiene l’assenso del presidente
Wilson, e il 31 ottobre il gabinetto del Regno Unito autoriz-
za la trasmissione della lettera firmata Balfour a Rothschild.
Il national home, tradotto foyer national in francese e “fo-
colare nazionale” in italiano, è una strana definizione che
vuol dire poco in sé, ma lascia porte aperte per tutte le in-
terpretazioni e per tutti gli svolgimenti, come accadrà in

51
Cfr. Johnson 1987, pp. 439 ss.

212­­­­
effetti. Sicché si può dare ragione allo scrittore Max Nordau
che ebbe a sentenziare: «Se il sionismo non fosse esistito,
gli inglesi lo avrebbero inventato»52. Si ricordi infine che
nel 1917 la Palestina conta 640.000 abitanti, di cui 580.000
arabi e 60.000 ebrei, e, se si guarda alla religione, gli isla-
mici sono 515.000, i cristiani 60.000, 5000 “altri”, e sempre
60.000 israeliti: insomma, sia dal punto di vista etnico, sia
da quello religioso, gli ebrei sono una piccola minoranza
(circa il 9%) della popolazione totale53. Era il 2 novembre:
di là ha inizio la strada che condurrà alla costituzione, il 14
maggio 1948, dello Stato di Israele. Il “risarcimento” per la
Shoah, che l’Europa avrebbe dato agli ebrei donando loro
una patria sottratta ad altro popolo, non è dunque all’ori-
gine di Israele, figlio invece dei giochi delle grandi potenze
che per interesse lasciano spazio al sionismo. L’Olocausto
verrà dopo, a dare una legittimazione ulteriore, pesante, a
quello Stato, facendo passare in secondo piano i diritti dei
palestinesi estromessi.
Il giorno 16 intanto, in Francia, torna alla guida del pae-
se Georges Clemenceau, che in realtà ha lavorato come una
eminenza grigia negli anni precedenti, forte di un prestigio
che nessun altro politico ha al tempo, e ora, in un momento
di particolare angoscia del paese, da tanta parte viene recla-
mato come salvatore della patria: l’uomo della Provvidenza.
Egli ha guidato tra il 1906 e il 1909 uno dei ministeri più
lunghi della storia della Terza Repubblica. Dreyfusardo (a lui
il merito politico della riabilitazione di Dreyfus, come quello
culturale va a Zola), radicale vicino ai socialisti che si è fatto
odiare dai socialisti per la repressione degli scioperi operai,
democratico che ha modi autoritari (e che, a dispetto degli
appelli pacificatori, non arretrerà nel ’18-’19, davanti alle sen-

52
Cfr. Derogy e Carmel 1994, pp. 188 ss. (a p. 188 la citazione di Nor-
dau). Ma per una minuziosa esegesi del testo, e la genesi del documento,
indispensabile Stein 1961.
53
Cfr. Alem 1982, p. 43.

213­­­­
tenze di morte comminate a politici e giornalisti accusati di
intelligenza col nemico), egli è soprattutto un “repubblica-
no”, ossia un francese orgoglioso della sua patria, delle sue
tradizioni laiche e rivoluzionarie54; come ha confessato a un
amico, «ama la Francia gelosamente, come un’amante»55. E
l’esercito ne è l’espressione più viva. La guerre, rien que la
guerre, è il suo motto nel ritorno al governo, e Pétain sarà
l’interprete perfetto dell’assioma, anche se l’uno, Clemence-
au, non ha una grande considerazione dell’altro: «un ammi-
nistratore, piuttosto che un capo»56. Non a caso entrambi
mostreranno una peculiare cura del benessere non solo ma-
teriale dei poilus: se per il comandante in capo è abbastanza
normale che si rechi in visita alle trincee, non lo è altrettanto
per il presidente del Consiglio, che in effetti occuperà ben
90 giorni, tra il 16 novembre ’17 e l’11 novembre del ’18, in
questa «faticosa attività»57.
Nel suo primo discorso all’Assemblea Nazionale nei pan-
ni, per la seconda volta, di presidente del Consiglio, lodato
da un amplissimo schieramento politico a cominciare dai
nazionalisti ai quali egli ormai è vicino, “il Tigre” – che sul
suo giornale «L’Homme enchaîné» (da quel momento tor-
nato ad avere il vecchio titolo «L’Homme libre») negli anni
precedenti non ha fatto altro che fustigare i diversi governi
per la «mollezza» con cui hanno condotto le ostilità – si
presenta come portatore di un unico pensiero: la «guerra
integrale»58. Non a caso conserva per sé il ministero della
Guerra. Ma egli, non diversamente da quanto accade nell’I-
talia post-Caporetto, si dedica innanzi tutto a sgominare il
“nemico interno”, con una serie di misure draconiane che

54
Cfr. Winock 2007. Si tratta di una tardiva apologia di Clemenceau, con
la pretesa di fornire insegnamenti alla sinistra.
55
Cit. in Greenhalg 2013, p. 238.
56
Cit. in Duroselle 1988, p. 660.
57
Ivi, p. 655.
58
Winock 2007, p. 427; Guieu 2015, p. 146.

214­­­­
impediscono ogni manifestazione (e ogni notizia) di dissen-
so, con la sostituzione di tutto il personale politico-ammi-
nistrativo non considerato di provata fede governativa, e
l’arresto di potenziali leader antagonisti, radicali e socialisti,
come Joseph Caillaux e Louis Malvy. Comincia l’epoca della
dittatura «clémenciste»: se difende il Parlamento, egli cri-
tica i parlamentari, salvando, nel suo giudizio, pochissimi
tra essi59. Relativamente alla guerra, comincia l’epoca del
jusqu’au boutisme: occorre andare fino in fondo, subordi-
nando tutto, sacrificando diritti e principi, allo scopo finale,
schiacciare il nemico, raggiungere la vittoria. L’eliminazio-
ne, in qualsiasi modo, dall’agone pubblico di disfattisti, im-
boscati e traditori diventa il porro unum et necessarium, base
preliminare, per Clemenceau, della rinascita morale e mili-
tare della Francia, sotto la guida di questo nuovo e vecchio
uomo forte che mette in chiaro fin dal suo insediamento
che non tollererà “invasioni di campo” da parte dello stesso
presidente della Repubblica Poincaré60. La guerra favorisce,
in Francia come altrove, le tentazioni autoritarie. Ma lo stes-
so Clemenceau sembrerà rendersi conto, come confiderà
a Poincaré alla fine del conflitto, che la sua amata Francia
aveva fatto i sacrifici che aveva fatto, non tanto per il nemico
tedesco, ma per i suoi stessi alleati61. La Francia, insomma,
con il 1917, ancora prima della pace, è ormai una nazione di
secondo piano, sia al cospetto della sconfitta Germania, sia
davanti al debordante alleato statunitense. Coerentemente,
Clemenceau pone fine alle trattative segrete avviate dal suo
predecessore Painlevé con il governo britannico e l’ammi-
nistrazione tedesca del Belgio occupato. Per Clemenceau
non v’è che la guerra e null’altro che la guerra, che non può
concludersi se non con la vittoria e il “recupero” delle ter-
re finite al Reich dopo la disfatta del 1870, le contesissime

59
Cfr. Bock 2002, pp. 280 ss.
60
Ivi, pp. 286 ss.
61
Adamthwaite 1995, pp. 38-39.

215­­­­
Alsazia e Lorena, divisando anche l’annessione della Saar e
una occupazione (temporanea, ma nel suo intento tenden-
zialmente definitiva) della Renania62.
A fine mese un memorandum degli Alti comandi francesi,
ammettendo la superiorità militare della Germania davanti
all’affondamento dell’armata russa, rileva tuttavia che gli Al-
leati hanno dalla loro parte l’arma economica, dati i pesanti
effetti del blocco commerciale imposto al nemico. Nondime-
no avanzano l’idea di una pace da gestire a spese della Russia,
ossia spartendosene i territori63.
In Germania, nel frattempo, si è verificata una nuova
crisi di governo; dopo quella di luglio, con la caduta impo-
sta dai militari di Bethmann-Hollweg e la sua provvisoria
sostituzione con l’inerte giurista Georg Michaelis, è diven-
tato cancelliere dell’Impero e primo ministro di Prussia il
conte Georg von Hertling, un cattolico militante, nell’anno
delle grandi celebrazioni della Riforma luterana (quattro
secoli dopo l’affissione delle Tesi, a Wittenberg): una sorta
di provocazione per gli ambienti della destra evangelica.
Il susseguirsi delle notizie dalla Russia, sempre più preoc­
cupanti, dopo un primo momento di simpatia diffusa e
generalizzata per i rivoluzionari, genererà timori per i bol-
scevichi vittoriosi e per la violenza messa in atto o annun-
ciata64. Sul piano militare, la Germania soffre in realtà di
un handicap importante sul piano tecnologico, ossia l’uso
da parte degli eserciti alleati, soprattutto quello francese,
del carro cingolato al quale, proprio in questo mese, si fa
un ricorso massiccio: pur se ancora assai primitivi, fanno
la loro comparsa sui diversi teatri bellici poco meno di 400
carri, uno strumento sottovalutato da Ludendorff. Sotto-
valutazione che risulterà fatale per il suo esercito e la sua

62
Cfr. G.-H. Soutou, French war aims and strategy, in Afflerbach (a cura
di) 2015, pp. 29-44 (specie pp. 36 ss.).
63
Cfr. Pedroncini 1977, p. 235.
64
Cfr. Winkler 2004, pp. 388 ss.

216­­­­
nazione65. E tuttavia, ancora nel marzo del 1918, uno stu-
dio riservato del controspionaggio francese afferma che,
comunque vadano le cose, sarà la Germania a vincere la
guerra diventando «la dominatrice del vecchio mondo»66.
Una profezia destinata ad avverarsi.

65
Cfr. Hallgarten 1972, pp. 97 ss.
66
Cit. ivi, p. 236.
12.
Dicembre
«Noi siamo qui, perché noi siamo qui»

L’anno finisce in una generale, diffusa stanchezza. La guerra ha


generato mille problemi, ha creato situazioni inedite, ha speri-
mentato nuovi modi dell’uccidere, ha suscitato scontento, ha
dato vita a nuove avanguardie pronte ad entrare in azione e a
ideologie contrastanti, ha abituato alla violenza, ha eccitato le
masse forti dell’esperienza del fuoco, ha preoccupato i governi,
ha creato problemi inediti, che ancor prima che la guerra si
concluda tormentano le classi politiche. Uno tra i tanti è l’enor-
me numero di prigionieri delle due parti: un problema anche
per le nazioni che, in teoria secondo le norme dei trattati inter-
nazionali, devono provvedere al mantenimento di centinaia di
migliaia di uomini, spesso in pessime condizioni fisiche, non
pochi dei quali non si salveranno, per denutrizione, malattie,
debilitazione o per le conseguenze delle ferite. Fin dall’aprile
la Croce Rossa Internazionale ha lanciato un appello ai paesi
belligeranti affinché affrontino la situazione con degli accordi
facilitanti gli scambi. Infine, nell’ultimo mese dell’anno, au-
spice la Svizzera, si tiene un primo incontro a Berna tra rap-
presentanti tedeschi e francesi. Al governo francese ritornato
saldamente nelle ruvide mani di Georges Clemenceau poco
importa la sorte dei prigionieri, in verità; e questo è un dato che
accomuna tutte le nazioni belligeranti; la sola preoccupazione
è portare avanti la guerra fino alla vittoria; e nondimeno una
prima intesa, sia pur difficoltosamente, si raggiunge, e sarà la
premessa all’accordo stilato nell’aprile del 19181.

1
Cfr. Abbal 2001, pp. 112 ss.

218­­­­
Ma la preoccupazione principale ora, in Europa e non sol-
tanto, è lo sviluppo della situazione russa. Giunti al potere
con l’insurrezione del 7-8 novembre, costituito il primo go-
verno socialista della storia, Lenin e i suoi devono affrontare
una mole di problemi che per quantità e natura sono da far
tremare le vene ai polsi. Lenin, però, non si scompone e va
avanti, seguendo la linea dura, già impostata, decisa e attuata.
Si tratta di una linea insieme di attacco, ma anche di difesa,
dai tentativi che già si manifestano di reazione da parte delle
forze sociali sconfitte, e di frammenti consistenti del regime
zarista, in particolare di ambienti militari. Intanto si va verso
l’annunciata, promessa Assemblea costituente da cui dovrà
nascere nelle sue interne articolazioni il nuovo Stato dei So-
viet. Sulla «Pravda», il 26 dicembre, vengono pubblicate le
Tesi sull’Assemblea costituente di Lenin che sono, insieme,
una spiegazione dello spirito della Rivoluzione sovietica e un
indirizzo di governo.
In sintesi, Lenin ritiene che non vi sia più spazio per la ri-
voluzione borghese, in Russia, e per la sua forma istituziona-
le, secondo il modello democratico, e che dunque, imboccato
il cammino della illegalità rispetto alla legalità liberale, non si
possa che proseguire. Dunque, l’Assemblea costituente è si-
curamente una forma avanzata, la più avanzata possibile, del-
le istituzioni in una repubblica borghese: «la forma più alta di
democrazia», scrive Lenin. Perciò, non v’è dubbio che la sua
rivendicazione sia stata giusta e opportuna nei mesi che vanno
da marzo in avanti, e ancora nelle settimane immediatamente
precedenti. Oggi, tuttavia, quella parola d’ordine appare non
soltanto sorpassata ma addirittura controrivoluzionaria, sia
perché corre sulle bocche di coloro che vogliono affossare i
Soviet, sia perché, per come è stato concepito il meccanismo
elettorale, essa non interpreta più lo spirito politico e la realtà
sociale della nuova Russia, privilegiando la rappresentanza
sociale dei ceti borghesi e piccolo-borghesi, mentre oggi la
Repubblica che sta nascendo dalla rivoluzione del 7-8 no-
vembre (Lenin, naturalmente, scrive 24-25 ottobre) è e vuol

219­­­­
essere la Repubblica del proletariato e dei contadini poveri,
di cui i bolscevichi sono l’avanguardia cosciente. A questo
punto, dati i movimenti controrivoluzionari in atto o minac-
ciati ai confini della Russia, che Lenin non esita a chiamare
«guerra civile», l’Assemblea costituente risulta inadeguata e
del tutto attardata su situazioni che non sono più in essere.
Anzi essa appare un soggetto potenzialmente pericoloso, in
grado cioè di innescare uno scontro sociale gravissimo, in una
fase resa pericolosa specie dall’azione dei Cadetti e di Aleksej
M. Kaledin (già fatto arrestare dal governo Kerenskij per il
sostegno dato al generale Kornilov, nell’agosto, e poi rimesso
in libertà), che ha animato una controinsurrezione antibol-
scevica nella regione del Don che fallirà nel volgere di qual-
che settimana, inducendo Kaledin al suicidio nel gennaio ’18.
Ebbene, secondo il leader bolscevico, oggi la situazione
«ha eliminato ogni possibilità di risolvere, per una via formal-
mente democratica, i problemi più acuti posti dalla storia ai
popoli della Russia e in primo luogo davanti alla sua classe
operaia e ai suoi contadini». Invita dunque tutti, compresi i
bolscevichi, a non considerare la questione dell’Assemblea
«dal lato formale, giuridico, nel quadro della comune de-
mocrazia borghese», perché ciò significherebbe «tradire la
causa del proletariato, passare alle posizioni della borghe-
sia». Perciò è necessario convocare nuove elezioni, perché le
precedenti «non corrispondono più alla volontà del popolo
e agli interessi delle classi lavoratrici e sfruttate». In effetti le
elezioni, svoltesi il 25 novembre, negano l’attesa maggioranza
ai bolscevichi, che su 707 eletti ne registrano soltanto 175
contro i 410 dei socialisti rivoluzionari, ma con la presenza
anche di menscevichi, di Cadetti (ultimo partito borghese) e
di gruppi nazionali (sostanzialmente antibolscevichi). Il pa-
ragrafo finale rappresenta una esplicita minaccia:

Senza queste condizioni la crisi dovuta alla questione dell’As-


semblea costituente può essere risolta soltanto per via rivoluzio-
naria, soltanto con l’applicazione delle misure rivoluzionarie più

220­­­­
energiche, rapide, ferme e risolute da parte del potere sovietico
nei confronti della controrivoluzione cadetta e kalediniana, indi-
pendentemente dalle parole d’ordine e dalle istituzioni (e anche
dall’appartenenza all’Assemblea costituente) dietro le quali essa
può nascondersi2.

Di fatti le elezioni non si rifaranno. L’Assemblea si convo-


cherà a gennaio, ma malgrado l’espulsione dei Cadetti e della
destra dei socialisti rivoluzionari essa, invece di obbedire agli
imperativi leniniani, sembrerà voler procedere autonoma-
mente. La Dichiarazione dei diritti del popolo oppresso e sfrut-
tato, proposta dai bolscevichi come documento iniziale della
nuova era sovietica, sul modello della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino approvata nella Francia rivoluziona-
ria, non riceverà i voti della maggioranza dell’Assemblea il 18
gennaio del ’18. A quel punto, il comandante della guardia
militare dell’Assemblea, un marinaio, annuncia di aver rice-
vuto dal Comitato l’ordine di chiudere la seduta: la motiva-
zione? «La guardia è stanca»! La seduta viene aggiornata, ma
l’Assemblea non sarà mai più convocata, e il giorno dopo il
Comitato esecutivo centrale panrusso (Vcik), dopo un lungo
discorso di Lenin, decreta lo scioglimento dell’Assemblea. Il
III Congresso panrusso dei Soviet, apertosi pochi giorni più
tardi, sostituirà anche formalmente l’Assemblea costituente.
E non a caso esso approverà quella Dichiarazione dei diritti
del popolo oppresso e sfruttato che l’altro organismo aveva
respinto3.
Finisce così, con un nuovo atto di forza, la prima fase della
Rivoluzione di Vladimir Il’ič; eppure, anche se i suoi attori,
i bolscevichi, non rappresentano la maggioranza formale del
popolo russo, essi sono gli esponenti, in quella precisa fase
storica, di una immensa massa di diseredati ai quali, con tutte

2
Lenin 1955-1970, vol. XXVI (1966), pp. 361-65, e cfr. l’analisi puntuale
di Carr 1964, pp. 113 ss.
3
Cfr. Carr 1964, pp. 115 ss.

221­­­­
le spaventose difficoltà che si troveranno dinnanzi, prove-
ranno a dare risposte, a soddisfarne i bisogni. Che non sono
soltanto di natura materiale, come dimostra la designazione
alla Istruzione pubblica, nel primo Consiglio dei Commissari
del Popolo, di una figura quale Anatolij Lunačarskij, scritto-
re, commediografo, teorico, critico d’arte e di letteratura e,
infine, organizzatore culturale. A lui Lenin affida il compito
mastodontico di portare immense masse di proletari e conta-
dini dall’analfabetismo e dall’abbrutimento alla cultura. Sarà
lo stesso “commissario” Lunačarskij a evocare il colloquio
in cui il presidente del Consiglio gli indica, sommariamente,
alcune linee guida su cui orientarsi. Lenin gli dice:

Io attribuisco una grande importanza alle biblioteche. Voi stes-


so dovrete pensarci sopra. Convocate gli specialisti in materia. In
America fanno molte cose buone in questo campo. Il libro è una
forza enorme. L’attrazione verso di esso aumenterà di gran lunga
in seguito alla rivoluzione. Bisogna assicurare al lettore sia grandi
sale di lettura, che la mobilità del libro, il quale dovrà raggiungere
il lettore. [...] Data l’enorme quantità del nostro popolo nel quale
diminuirà il numero degli analfabeti, probabilmente non avremo
libri a sufficienza, e se non renderemo il libro potente e non aumen-
teremo la sua circolazione di molte volte, scoppierà la fame di libri4.

La fame di libri non scoppierà, forse anche perché il gi-


gantesco territorio russo sarà gravato, a lungo, quasi peren-
nemente dalla fame fisica. Ma il fatto che nei primi giorni
del dopo-rivoluzione Lenin pensi a rendere potente il libro
e a diffonderlo è di straordinario interesse. Chiudendo l’in-
contro con il suo ministro, Lenin gli dice: «La prima vittoria
l’abbiamo ottenuta, ma se noi non otterremo ancora – dopo
di questa – tutta una serie di vittorie, allora sarà un disastro.
La lotta, certamente, non è finita, ma è appena all’inizio»5.

4
A. Lunačarski, Dai ricordi dell’Ottobre, in La Rivoluzione d’Ottobre
1967, pp. 201-204.
5
Ivi, p. 203.

222­­­­
Nondimeno questi aspetti, benché centrali e di grande
modernità, non trovano spazio nel dibattito internazionale,
anzi, soprattutto nelle polemiche che si levano tra favorevoli
e contrari a proposito dei bolscevichi, nelle diverse realtà na-
zionali. Il paese in cui l’eco dei “fatti di Russia” è più forte,
come già ricordato, è probabilmente l’Italia: la presenza di
un movimento socialista, partito e sindacato, che, sebbene
con incertezze e ambiguità, ha retto all’ondata nazionalista
e bellicista è una valida spiegazione, ancorché forse non suf-
ficiente. Il “fare come la Russia”, che si era già udito e letto
dopo la prima rivoluzione di marzo, si moltiplica per forza
e frequenza dopo quella di novembre. E si associa diretta-
mente da un canto alla richiesta di metter fine alla guerra,
dall’altro alle battaglie più propriamente sociali: il lavoro in
fabbrica e la distribuzione della terra, innanzi tutto. V’è an-
che, nondimeno, un versante di dibattito teorico di notevole
interesse, che ha una dimensione almeno europea, e serve a
rivitalizzare il marxismo internazionale traendolo fuori dal-
le secche dell’evoluzionismo della Seconda Internazionale.
Non soltanto, dunque, i bolscevichi hanno provato, vitto-
riosamente, a rompere lo schema marxiano secondo cui la
rivoluzione proletaria dovrebbe succedere al pieno sviluppo
del capitalismo nel regime borghese, ma altresì essi hanno
privilegiato i fattori soggettivi, la volontà dell’individuo, sui
fattori strutturali, che nella lunga stagione del positivismo
imperante erano interpretati meccanicisticamente, finendo
addirittura, talora, per cancellare l’iniziativa umana, riducen-
do l’azione politica a una certificazione dello sviluppo delle
forze produttive fino alla loro entrata in rotta di collisione
con i modi di produzione, secondo la lezione marxiana inter-
pretata in modo pedissequo.
A tale interpretazione, rotta nella pratica da Lenin, si op-
pone vigorosamente, fra gli altri, un giovane militante socia-
lista che ha scelto il giornalismo come mezzo di lotta politica
e culturale. Si tratta di Antonio Gramsci, che alterna i suoi
scritti di attualità politica, di analisi sociale, di costume, di cri-

223­­­­
tica letteraria e teatrale, sui fogli socialisti «Avanti!» e «Il Gri-
do del Popolo». Proprio sull’ultimo numero del settimanale
dei socialisti piemontesi, Gramsci – che ne è diventato diret-
tore dopo l’arresto nell’agosto, per i fatti di Torino, di Maria
Giudice – ne fa un bilancio nel 1918, e, per la prima volta, usa
il termine «bolscevismo», accompagnato dall’aggettivo «fre-
netico», per alludere alle polemiche politiche verso il giorna-
le o agli attacchi della censura; e il “redattore responsabile”
rivendica un fatto, che a dispetto della censura «è riuscito
tuttavia a pubblicare sulla rivoluzione russa e sui problemi
ideologici e tattici da essa generati, articoli discussi, citati,
vilipesi»6. La parola maledetta «bolscevismo» ritorna in uno
degli esempi più clamorosi di testi che hanno combattuto con
la censura: il 1° dicembre 1917, il settimanale «Il Grido del
Popolo» esce con due colonne “imbiancate”. Dopo circa un
mese Gramsci ripubblica sull’«Avanti!» uno dei primi e più
originali tentativi di analisi della Rivoluzione bolscevica, qua-
le Rivoluzione contro il Capitale: dove Il Capitale è l’opera di
Marx. Ossia Lenin, pensa Gramsci, più che voltare le spalle
a Marx, gli ha forzato la mano. Egli e i suoi compagni non
hanno aspettato che le condizioni fossero «mature» per la
rivoluzione; e, contraddicendo ogni aspettativa e previsione,
a cominciare da quelle fondate sulla rigida interpretazione
dei testi marxiani, sono passati all’azione diretta. Del resto,

Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la


guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guer-
ra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva
prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, di
miserie indicibili, avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva
popolare che ha suscitata7.

6
Il Grido del Popolo, in «Il Grido del Popolo», 19 ottobre 1918: Gramsci
1984, pp. 340-41.
7
A. Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, in «Avanti!», 24 dicem-
bre 1917: in Gramsci 1980, pp. 513-17, e Gramsci 2012, pp. 244-47. Per
il significato di questo articolo nello sviluppo del pensiero gramsciano,

224­­­­
L’articolo susciterà risposte, anche aspre, tanto a destra,
nell’ala riformista, quanto a sinistra, in particolare da parte
di Amadeo Bordiga, che attaccherà sia i riformisti del partito
sia Gramsci stesso, per il tratto “idealistico”, volontaristico
e soggettivistico del pensiero dispiegato nell’analisi della Ri-
voluzione di Lenin che, in tal modo, non veniva compreso.
Per Bordiga, un po’ banalmente, la vittoria stessa della ri-
voluzione ne testimoniava la validità e dunque certificava la
maturità della situazione storica per tentarla8. Altri esponenti
del partito intervengono a sostegno di questa o quella tesi,
da Treves a Serrati, insistendo sul rapporto con il pensiero
di Marx, per sottolineare ora la coerenza di Lenin ora il suo
opposto. Merita un cenno particolare Rodolfo Mondolfo,
l’unico, all’epoca, in quel dibattito, a professare il marxismo
ex cathedra, prima a Torino, poi a Bologna: Mondolfo è as-
sai netto nel suo giudizio, arrivando a contrapporre Marx a
Lenin, derubricando il secondo a pura «praxis», e riservan-
do al primo la dignità della teoria. E spiegherà il «regime di
terrore» instaurato in Russia precisamente con l’immaturità
della situazione, la sua arretratezza, ribadendo pressoché alla
lettera la dottrina marxiana: «Una formazione sociale non pe-
risce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a
cui può dare corso; e nuovi superiori rapporti di produzione
non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla
vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza».
Mondolfo crede profondamente a questa sua analisi, al punto
che raccoglierà gli articoli del dibattito in un’opera in due
volumi, che segnerà una tappa notevole negli studi su Marx
anche fuori dei confini italiani9.
Sono comunque le polemiche politiche a prevalere sulle
analisi, in Italia come altrove. A Roma si riapre il Parlamento,

d’Orsi 2015, pp. 119 ss., e per il dibattito più ampio, con riferimenti ai testi,
Degl’Innocenti, I socialisti e la grande guerra cit., pp. 112 ss.
8
Gli interventi sono raccolti in Bordiga 1991.
9
Cfr. Mondolfo 1923-1924.

225­­­­
riunito in seduta pubblica per affrontare il tema Caporetto. I
socialisti, per bocca di Modigliani, chiedono con vigore che
il governo si attivi per arrivare alla pace, a costo che sia una
pace separata; dal canto suo Turati punta l’indice accusatore
verso il ministro Sonnino, primo artefice di tutte le scelte
sciagurate della politica estera della nazione, riproponendo
il tema di una pace immediata. Sono posizioni tanto isolate,
quelle socialiste in seno al Parlamento, quanto invece rispon-
denti a una volontà popolare che è ormai generale, quasi to-
talitaria. Caporetto, mostrando gli errori macroscopici delle
élites militari e di quelle politiche, è stata una dolorosa sveglia
per il paese, ma ne ha anche intensificato il desiderio di porre
la parola fine al grande massacro della “povera gente”. In
tutt’altra direzione si muovono governo e Parlamento, dove
quasi duecento deputati danno vita al Fascio parlamentare
per la difesa nazionale, che si costituisce per contrastare i
deputati di orientamento giolittiano, aderenti all’Unione par-
lamentare.
Va segnalato che l’iniziativa parte da un non deputato, l’eco-
nomista e pubblicista Maffeo Pantaleoni, schierato sull’estre-
ma destra del nazionalismo italiano, che in questi anni (morirà
nel 1924) va pubblicando numerosissimi articoli, poi raccolti
in volume, aggressivamente antisocialisti e poi antibolscevichi,
identificando pienamente i socialisti italiani come i “nostri”
bolscevichi. Nel ’17 pubblica ben due volumi sulla guerra che
rappresentano il retroterra “teorico” dell’azione pratica, seguiti
da altrettante raccolte nel 1918-19, fino alla “summa” della sua
ossessione antisocialista raccolta nell’opera Bolcevismo italiano
(scrive sempre bolcevismo senza la “s”), che appare, per una
coincidenza in fondo non casuale, nell’anno stesso dell’ascesa
al potere di Mussolini. Nelle sue intenzioni il Fascio, che viene
dopo i Fasci interventisti di azione rivoluzionaria del 1915, e
anticipa di poco i Fasci mussoliniani del 1919, dovrà opporsi a
neutralisti, disfattisti, giolittiani e, ovviamente, socialisti, ossia
i colpevoli in atto o potenziali del «sabotaggio» della guerra.
Insomma, si tratta di una iniziativa che ha un chiaro intento in-

226­­­­
timidatorio verso quanti tentano di non lasciarsi catturare dalle
maglie di un patriottismo sempre più intriso di nazionalismo.
Egemonizzato dai nazionalisti – instancabile è in questo tempo
il fondatore del movimento, Enrico Corradini, che in questo
anno 1917 raccoglie una serie di interventi sotto il titolo signi-
ficativo di Discorsi nazionali –, dentro e fuori il Parlamento, il
Fascio è un mezzo per spostare ulteriormente a destra l’asse
politico italiano10. Nella battaglia antisabotatori vi è la figura
di Cadorna, che la destra cerca in ogni modo di difendere, pur
se ormai è indicato universalmente, anche fra gli Alleati, come
il grande responsabile non solo della disfatta di ottobre, ma di
una conduzione sciagurata delle operazioni belliche fin dagli
inizi, i cui esiti finali si erano materializzati a Caporetto con la
clamorosa rottura del fronte italiano. Anche uno studioso pa-
cato come Francesco Ruffini, autorevole senatore del Regno,
che sarà nel ’31 fra i non giuranti fedeltà al regime mussolinia-
no, si fa coinvolgere nella miope difesa di Cadorna: scrivendo
a Luigi Albertini, l’onnipotente direttore del «Corriere della
Sera», in relazione all’attività del Senato, gli confida: «Io, nel
gruppo, ho battuto e ribattuto per dar rilievo al carattere po-
litico del disastro. Ma prevale – anche qui – la fissazione della
responsabilità militare. Anche i migliori hanno la fissazione di
tutti gli esagerati: cercare un capro espiatorio: Cadorna!»11.
In questo clima, il governo non esita a raccogliere gli umo-
ri più ostili al socialismo, per convogliare contro di esso le
tante insoddisfazioni sulla guerra. Vengono aggravate le pene
per i disertori. Sono arrestati alcuni deputati socialisti con
grottesche accuse di spionaggio, accuse dalle quali saranno
naturalmente prosciolti. Una circolare alle sezioni del Psi del

10
Cfr. De Felice 1965, pp. 371 ss.; Roccucci 2001, pp. 280 ss. Su Panta-
leoni nel nazionalismo italiano, d’Orsi 2007, ad indicem.
11
Francesco Ruffini a Luigi Albertini, s.d. (ma dicembre 1917), in Mar-
giotta Broglio (a cura di) 2011; corsivi nell’originale. Si veda per una rico-
struzione complessiva A. Moroni, Il “Corriere della Sera” alla guerra. Propa-
ganda e informazione tra il 1914 e il 1918, in Lucchini e Santagata (a cura
di) 2015, pp. 77-143.

227­­­­
segretario Lazzari, a fine dicembre, denuncia con forza, ma
ancora una volta implicitamente confessando una condizione
di impotenza, la vera e propria persecuzione a cui il partito è
sottoposto. Nel documento, il segretario invita i compagni a

seguire attentamente e con simpatia gli avvenimenti di Russia do-


ve per merito di quei compagni si sta realizzando la pace e il so-
cialismo. La stampa borghese tenta diffamare quel meraviglioso
movimento falsandone il carattere profondamente e apertamen-
te internazionale [...]. Noi che fummo a Zimmerwald solidali coi
compagni di Russia, dobbiamo dare con entusiasmo i nostri voti
perché la Repubblica proletaria debba trionfare contro tutti i suoi
nemici12.

È evidente che messaggi come questo non trovino citta-


dinanza pubblica, a livello di stampa e di discorso politico,
in un paese in cui Lenin, a cui tutti dopo il 7 novembre
riconoscono gigantesche qualità e straordinarie capacità,
può essere definito da un Corradini qualunque «l’immen-
so omiciattolo», «il novissimo Terrore, il novissimo Zar», il
«fanatico omicida», e via seguitando13. Un asfissiante clima
di isteria, di paura, di sospetto si diffonde tra le istituzio-
ni e nella società, clima che sembra anticipare altre vicende
successive, tra le meno encomiabili della storia di un’Italia
che ora, dopo Caporetto, appare piegata e piagata; mai nella
storia nazionale il paese ha vissuto una esperienza parago-
nabile a questa.
L’avanzata austro-germanica ha sottratto ingenti scorte di
viveri (prima di tutto di cereali depositati in magazzini nel Ve-
neto finiti nelle mani degli invasori), di armi e di munizioni.
La continuazione della guerra, adesso e per molti mesi, di-
penderà dagli aiuti alleati, essenzialmente Inghilterra e Stati
Uniti, le uniche potenze in grado non soltanto di mettere a

12
La circolare è in Malatesta 1935, p. 166, e in Ambrosoli 1961, p. 264.
13
Sono articoli raccolti in Corradini 1920, pp. 11, 24.

228­­­­
disposizione le merci ma di farle giungere via mare ai por-
ti italiani concedendo crediti e dilazioni di pagamento (ov-
viamente non si trattava di doni...). Il sostegno economico,
esattamente come accadrà dopo la fine della Seconda grande
guerra, tra il 1945 e il 1948, comporta un condizionamen-
to politico: le scelte decisive d’ora in poi saranno prese dal
governo nazionale, ma sulla base di contrattazioni, perlopiù
non alla luce del sole, con gli Alleati14. In tal senso il governo
Orlando, insediato da fine ottobre, deve essere conciliante
ma nel contempo subisce pressioni interne da parte di forze
politiche e di correnti di opinione che insistono sulla guerra
ad oltranza, e spingono per una stretta nel regime di libertà
politiche nella società. Il presidente del Consiglio nell’ultimo
intervento alla Camera, il 22 dicembre, darà fiato alle trombe
della retorica, per rincuorare il paese, con un appello che
è quasi una invocazione destinata ad essere ripresa, testual-
mente, molti decenni più tardi, in tutt’altro contesto storico
e politico, da un valoroso magistrato. Dice dunque Orlando:
«La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell’onore e
la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivol-
gono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola
via di salvezza: resistere! resistere! resistere!»15.
Se il paese è prostrato, le Forze armate non stanno me-
glio, anzi, sono in condizioni che non è esagerato definire
disastrose, sia per l’organizzazione interna, sia per la volontà
stessa dei militari. Si richiama alle armi la leva del 1899, os-
sia ragazzi di 17 anni, che dovranno salvare “l’onore nazio-
nale”. L’opinione pubblica è sconcertata, raggiunta da una
miriade di messaggi contrastanti, tra i quali prevalgono però
quelli che, sommando Caporetto e la Russia, scaricano ogni

14
Per un quadro sintetico, Candeloro 1978, pp. 194 ss.
15
Il discorso di Orlando (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Di-
scussioni, sess. 1913-17, vol. XIV, p. 15.454) è raccolto in Orlando 2002; la
ripresa della frase è di Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno
giudiziario, Milano, 12 gennaio 2002.

229­­­­
responsabilità dello stato in cui versa il paese sui socialisti,
ormai divenuti “i bolscevichi” (al termine viene talora ag-
giunto “russi”, magari associato a “tedeschi”). E cresce, in
parallelo, per infamare gli italiani, il repertorio di accuse a
Lenin e compagni, a cui vengono attribuite tutte le nefan-
dezze possibili con pseudo-reportage giornalistici, mentre
cominciano a comparire instant book sul “Paese dei Soviety”.
Gli “interventisti intervenuti” stringono le fila: l’onta della
sconfitta bellica insieme all’ombra minacciosa, transazionale,
del bolscevismo spingono verso il tentativo di una nuova mo-
bilitazione patriottica delle masse, sia di quelle combattenti,
sia della popolazione nelle campagne e nei centri urbani.
Il quotidiano di Benito Mussolini, «Il Popolo d’Italia»,
ritorna ad essere la voce più stentorea di un coro già cono-
sciuto nei dieci mesi della neutralità, tra l’estate del ’14 e la
primavera del ’15. In una serie di articoli egli, mentre au-
menta la potenza di fuoco verso gli ex compagni socialisti,
avvia un’operazione politico-ideologica che porterà avanti
nel dopoguerra: sconnettere la base sociale dalle organizza-
zioni, i contadini dalla Federazione dei lavoratori della terra
(Flt, o Federterra) e gli operai dalla Cgdl. E dunque si co-
mincia a lodare operai e contadini, ricordando comunque i
loro doveri per la patria: combattere e produrre, produrre
e combattere. E poi, alla fine, a guerra conclusa (e vinta),
essi riceveranno quelle remunerazioni che non il partito o il
sindacato “rossi” potranno loro offrire, ma soltanto la patria
“immortale”. In un articolo di metà mese Mussolini conia
un neologismo, «trincerocrazia», ossia, spiega, «l’aristocrazia
della trincea», che sarà «l’aristocrazia di domani», un’aristo-
crazia in potenza che, finita la guerra, lo sarà in atto, forte del
«rude e sanguinoso tirocinio delle trincee». E non rinuncia a
un affondo contro i socialisti, «uomini vecchi». Non esclude
il socialismo, per il futuro, ma saranno i reduci a dare un si-
gnificato nuovo a quella parola. «Potrà essere un socialismo
antimarxista, ad esempio, e nazionale. I milioni di lavoratori
che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei sol-

230­­­­
chi delle trincee realizzeranno la sintesi dell’antitesi: classe e
nazione». E il leader interventista si candida esplicitamente:
«Noi raccoglieremo la passione dei combattenti e saremo con
loro domani per il compimento delle supreme giustizie»16. I
Fasci di combattimento, che Mussolini fonderà nel marzo
’19, sono in nuce qui. La guerra mondiale, indubitabilmente,
è la madre del fascismo. La genesi del movimento va, in certo
senso, retrodatata al 1917, al dopo-Caporetto e al dopo-Ri-
voluzione bolscevica: il fascismo si presenta come nemico del
bolscevismo, ma nel contempo come rivoluzionario. Quella
mussoliniana vorrà essere la rivoluzione antibolscevica17.
Le trattative avviate a partire dal 2 dicembre tra i fiducia-
ri del neogoverno sovietico e, sull’altro fronte, quelli della
Germania imperiale e dell’Austria-Ungheria nella fortezza
di Brest-Litovsk (nell’attuale Bielorussia), acuiscono l’odio
antisocialista, e insieme la paura che l’esito della guerra non
possa essere favorevole all’Intesa, nelle cui nazioni si molti-
plicano le polemiche antirusse e antibolsceviche. In realtà è
dall’indomani dell’avvento di Lenin che si comincia a inta-
volare il discorso della sospensione delle ostilità, sempre in
modo palese: il nuovo stile di governo sovietico respinge la
diplomazia segreta, anzi da parte dei bolscevichi i messaggi
che vengono indirizzati agli altri governi dell’Intesa sono di
guardare alla loro trattativa come a un’occasione per tutti
per porre fine all’«inutile strage». In realtà, i russi mirano ad
allargare il negoziato, inducendo gli altri belligeranti a sedersi
allo stesso tavolo, per arrivare a quella agognata e tante volte
teorizzata «pace democratica», cioè senza annessioni e senza
indennità. «Per quanto concerne il popolo francese, il popolo
italiano, il popolo inglese, la nostra coscienza è pura», scrive-

16
B. Mussolini, Trincerocrazia, in «Il Popolo d’Italia», 15 dicembre 1917:
lo si legge nell’antologia di Santarelli (a cura di) 1979, pp. 171-73, e in quella
di De Felice (a cura di) 1995, pp. 216-18; per un’analisi complessiva rinvio
a d’Orsi 1985, pp. 41 ss., e Id. 2007, pp. 95 ss.
17
Ho argomentato questa tesi in d’Orsi 1985.

231­­­­
rà Trockij, responsabile della politica estera sovietica18. Non
altrettanto pura è, all’epoca, la coscienza degli altri governi,
ancora tutti intenti a portare avanti, testardamente, il prin-
cipio della guerra ad oltranza, ciascuno per ottenere quella
vittoria totale che dovrebbe accrescere le rispettive sfere di
dominio e di influenza.
Dalla lunga trattativa alla pace, che sarà siglata nel mar-
zo 1918, in realtà la Russia dovrà più che accogliere, subire:
sarà un piegare il collo davanti alla mannaia di Ludendorff
e soci. Ma Lenin e il gruppo dirigente, anche se non una-
nime, si rendono conto che nelle condizioni in cui versa il
paese, con le Forze armate disgregate, con quattro milioni
di soldati prigionieri del nemico e con gli annunci (e anche
le concrete avvisaglie) di guerra civile interna, la paura che
i tedeschi si spingano a Mosca è assai forte19. La paura del
resto condiziona fortemente gli atti e gli indirizzi del governo
bolscevico, paura della controrivoluzione, paura dell’attac-
co dell’invasione, prima della Germania, poi, a guerra finita,
delle potenze ex alleate. Ciò sarà la base di quel “comunismo
di guerra” che corrisponde a un indurimento delle pratiche
del bolscevismo: nel dicembre, ed è un sintomo chiaro, viene
costituita la Včk (polizia politica), i cui metodi brutali solle-
veranno, già poche settimane dopo, critiche persino nel suo
stesso seno20. L’Urss non è ancora nata ma le difficoltà che
sul lungo periodo la condurranno alla morte stanno già emer-
gendo. Eppure allora, e fino alla morte di Lenin, prevarranno
gli entusiasmi, e alla gioia dello statu nascenti, in coloro che
hanno fatto la rivoluzione, corrisponde l’autentica felicità di
milioni di socialisti di tutto il mondo che cominceranno a
guardare a Pietrogrado e a Mosca come fari della nuova fase
della storia umana.

18
L. Trockij, Dalla Rivoluzione d’Ottobre al Trattato di pace di Brest
Litovsk (febbraio 1918), in Id. 1998, p. 187.
19
Cfr. Rosenberg 1969, pp. 127 ss.
20
Cfr. Graziosi 2007, p. 100.

232­­­­
In Italia più che altrove la corrente di simpatia è fortissima;
il bolscevismo appare il “vero socialismo”; canzoni e slogan na-
scono spontaneamente e si diffondono ovunque, inneggianti ai
compagni russi, ai Soviet, a Trockij e, soprattutto, a Lenin, che
diventa popolarissimo, tanto che non pochi socialisti chiame-
ranno così, “Lenin”, i loro figli maschi21. Riguardo alla Russia,
in realtà, come ebbe a dire Mario Montagnana,

eravamo con Lenin e con i bolscevichi. Non conoscevamo le loro


dottrine la loro ideologia [...] Eravamo con loro, ad ogni modo,
perché essi erano contro la continuazione della guerra e, forse, più
ancora perché erano attaccati, insultati da tutti i guerrafondai, da
tutti i borghesi d’Italia22.

La speranza che la guerra finisca è il sentimento, che si


fa pensiero politico, dominante. Accanto ai meri polemisti,
agli ideologi nazionalisti, ai bellicisti incalliti, vi sono tuttavia
coloro che provano a non farsi obnubilare del tutto le men-
ti. In Italia, pochi spiriti illuminati reggono nella tempesta,
alcuni come Benedetto Croce che a quella guerra mai credé
(ma che dopo Caporetto si piega al dovere patriottico), altri
che a quella guerra hanno creduto, e ora forse sono colpiti da
un vago senso di colpa per essere stati così ingenui, quanto
accaniti, sostenitori della guerra “democratica”, nell’autun-
no ’14 fino al maggio ’15. Sono costoro che si cominciano a
porre interrogativi sul dopo, mentre Croce gli interrogativi se
li poneva già nel 1914, esprimendo contrarietà all’interven-
to. Si stagliano, nel panorama italiano, figure nobili, che gli
svolgimenti storici hanno mostrato nella loro drammatica ir-
responsabilità, come Bissolati e Salvemini, capifila dell’inter-
ventismo democratico che ha mostrato tutti i suoi incredibili
limiti e che ora appare smarrito davanti agli sviluppi interni
e internazionali del conflitto.

21
Cfr. Degl’Innocenti, I socialisti e la Grande Guerra cit., pp. 101 ss.
22
Montagnana 1952, p. 64.

233­­­­
Entrambi, in realtà, essenzialmente dopo Caporetto e in
contemporanea grazie agli eventi della Russia, anche se non
rinnegano le loro rispettive posizioni, cominciano a porsi dei
dubbi presentendo in qualche modo la crisi del dopoguerra,
che «smentirà implacabilmente ogni illusione di utopismo
democratico piccolo-borghese»23. Se non altro cominciano
a rendersi conto che, come essi hanno sostenuto vigorosa-
mente il “ritorno” di Trento e Trieste all’Italia, occorre ora
venire a patti con le “nazionalità oppresse” dall’Impero au-
stro-ungarico che si affacciano sull’Adriatico, e che stanno
giungendo a dar vita allo Stato degli Slavi del Sud: esso nasce-
rà esattamente un anno più tardi come Regno dei Serbi, dei
Croati e degli Sloveni, per poi cambiare denominazione e in
parte struttura organizzativa nel 1929 con re Alessandro I as-
sumendo il nome di Regno di Jugoslavia, abolito nel 1945 con
la nascita della Repubblica Federativa Popolare (poi Repub-
blica Socialista Federale) dopo la lotta antifascista guidata da
Josip Broz Tito. Ebbene l’Italia, attraverso personalità quali
appunto Bissolati, Salvemini e il direttore del «Corriere della
Sera» Luigi Albertini, è particolarmente sensibile alla que-
stione, cercando di tener conto dei diritti e delle aspirazio-
ni di quelle nazionalità, a differenza di un personaggio che,
ormai da quasi un ventennio, svolge la parte del “cattivo”
nella politica italiana, il barone Sonnino, il quale invece punta
sull’osservanza del Patto (segreto) di Londra che attribuisce
sovranità italiana su terre dalmate, oltre che sul Sud Tirolo,
ma non comprende Fiume24. Sovranità, ovviamente, in oppo-
sizione alle richieste degli Slavi del Sud. In sintesi, la guerra
non è ancora finita, ma il dopoguerra è già cominciato, con
la sua messe enorme di difficoltà e scosse telluriche. E l’Italia
sarà la prima ad esserne investita e travolta, mentre, al contra-
rio, gli Slavi del Sud daranno vita al loro Stato plurinazionale.

23
Salvadori 1963, p. 96; ma per una critica degli interventismi democra-
tici, rinvio a d’Orsi 2005, pp. 135-50.
24
Un quadro sintetico, ma come sempre chiaro, è in Candeloro 1978,
pp. 203 ss.

234­­­­
La plurinazionalità, la multietnicità, la multireligiosità e
la multiculturalità sono già invece elementi costitutivi della
Palestina, che con la “liberazione” di Gerusalemme da parte
delle truppe regolari del generale britannico Edmund Allen-
by avvierà questa storica e simbolica città-mondo verso un
ben diverso destino. I cristiani esulteranno per motivazioni
simboliche, gli arabi per ragioni di nazionalismo, gli ebrei
perché cominceranno a pensare alla concreta possibilità di
costruire un proprio Stato, anche considerando la Dichia-
razione Balfour del mese precedente. In realtà la Palestina,
Gerusalemme compresa, ha goduto fino ad allora sotto i tur-
chi di una enorme tolleranza. Ora avrà inizio un’altra storia,
che in tempi recenti ha subìto una violenta accelerazione che
ne sta drammaticamente cambiando la fisionomia urbana, la
memoria, l’identità. Quando si dice i lasciti della storia.
Altri eventi importanti sul piano politico, militare e di-
plomatico costellano quest’ultimo mese dell’anno, dalla re-
sa della Romania alle potenze centrali alla secessione della
Finlandia dalla Russia, al fallimento dell’attacco austriaco
sul Monte Grappa, alla dichiarazione di guerra degli Stati
Uniti all’Austria, alla fine della lunga battaglia di Cambrai,
in Francia, dove truppe tedesche si sono confrontate con
quelle anglo-francesi supportate da canadesi, lasciando
complessivamente circa 100.000 morti sul terreno. Quando
i due schieramenti si ritirano, ritornano esattamente sulle
posizioni antecedenti: una ultima, ennesima prova dell’as-
surdità della guerra e dei suoi meccanismi. Ma l’evento più
clamoroso, e tragico, è un fatto che in apparenza non è le-
gato alla guerra, e invece ne è figlio: l’incidente del porto
di Halifax, in Canada, dove all’alba del giorno 6 un cargo
militare norvegese va a urtare una nave da carico francese, la
Mont Blanc, proveniente da New York, che avrebbe dovuto
unirsi a un convoglio diretto in Europa per portare armi
e munizioni alle forze alleate. Per evitare di essere colpi-
ta dagli U-Boote tedeschi, la Mont Blanc ha ammainato le
bandiere segnalanti la presenza di esplosivi a bordo. Un pri-

235­­­­
mo scoppio, seguito da un incendio, indurrà l’equipaggio a
mettersi in salvo. Racconteranno le cronache che la nave co-
mincia ad andare alla deriva, trasportata però dalle correnti
verso il cuore del porto che si protende dalla città, andando
a urtare uno dei moli. Tre ore dopo il primo impatto delle
due imbarcazioni, l’incendio raggiunge il carico in stiva e si
determina una esplosione terrificante, la più grande esplo-
sione prima di Hiroshima, con una potenza complessiva di
circa un terzo di quella della bomba atomica. Le conseguen-
ze saranno disastrose: 2000 morti, 9000 feriti, la città semi-
distrutta. Un altro frutto avvelenato della guerra. Eppure
il “sistema” ha trovato il modo di commercializzarlo con
una miniserie tv canadese, notevole anche per le distorsio-
ni storiche finalizzate ad “abbellire” i fatti, introducendo
menzogne quali spie tedesche, uno tsunami conseguente
all’esplosione, una cospirazione, oltre ai soliti condimenti
amorosi. Né peraltro si può dare la colpa al cinema, alla tv
o alla letteratura se siamo abituati a considerare in fondo
normali eventi come quello di Halifax, che si succedono
oggi con grande frequenza, anche se non di quella dimen-
sione. Anche allora il fatto, pur enorme, non susciterà gli
echi che avrebbe potuto e dovuto avere: il mondo, nell’anno
1917, tanto più verso la sua conclusione, sopporta ormai dal
1914 talmente tanta violenza, tanto orrore, tanta sofferenza
nella quotidianità del grande macello, e dei suoi annessi e
connessi, che i 2000 morti di Halifax sono piccola cosa. E
comunque l’umanità sembra soltanto aggrappata al filo esile
della speranza che quell’incubo finisca.
Una sua sospensione imprevista, ma che donerà attimi
di gioia ai combattenti, è quella della notte di Natale, ma
si tratta di una tessera, sebbene non isolata, di un mosaico
gigantesco. Siamo ritornati in Italia, al fronte del Piave, su
cui occorre “resistere” ad ogni costo. Un soldato, Antonio
Rotunno, acquattato in trincea con i suoi compagni nei pressi
della sponda del fiume, racconta quella notte a Sant’Andrea
di Barbarana, nel Trevisano.

236­­­­
Ad un tratto, quando l’ora della notte è già inoltrata e quando
tutti noi siamo seduti accanto al focolare su cui divampa vivida e
grande una fiamma che benevolmente ci riscalda e ci illumina, ecco
che tra il cupo e fitto silenzio giunge fino a noi l’allegro schiamazza-
re dei nostri nemici austriaci. Costoro, avendo trasformato le loro
trincee in luoghi di divertimento, con chitarre, violini, mandolini,
flauti e tamburi fanno un chiasso da baccanale, divertendosi a più
non posso, come se si trovassero nelle proprie famiglie o nel pro-
prio paese e non nel luogo terribile e pericoloso in cui si trovano.
Si divertono, si divertono come se la guerra fosse già finita da un
lungo periodo di tempo. | Il loro divertimento, il loro strepito giun-
ge sempre più distinto, sempre più preciso fino a noi, tanto che
incuriositi usciamo dai nostri covi e [...], assistiamo alla scena che
i nostri nemici austriaci svolgono tra la più matta e la più sfrenata
allegria nelle loro trincee [...] | Essi ci dicono: – O buoni italiani,
lasciateci divertire tranquillamente in questa sera della vigilia di
Natale! Non tirate! Non tirate alla nostra volta! Vedete? Anche le
nostre batterie non tirano mica e da parecchie ore sono diventate
mute! Divertitevi anche voi e buona notte! | E come per incanto, su
tutta l’estensione del fronte del Piave sembra che regni la calma ed
il silenzio, come se la guerra fosse cessata da lungo tempo o come se
le trincee fossero vuotate o disertate dai due eserciti combattenti25.

V’era di che sperare, insomma, in nome anche della comu-


ne fede non solo cristiana, tra italiani e austriaci, ma cattolica,
apostolica, romana. È una illusione sciocca. Appena avviato il
1918, quinta annata del conflitto, l’autorevole settimanale del
cattolicesimo francese «La Croix» saluterà l’anno nuovo con
l’auspicio, anzi la certezza che sarà «l’anno della pace nella
vittoria»26. Pace, sì, ma nella vittoria. Certo v’è anche chi,
nello stesso momento, come l’intellettuale spagnolo Tomás
Giménez Valdivieso, pubblica un libro per contribuire «a dis-
sipare l’atmosfera di prestigio e di gloria creata in favore della

25
http://espresso.repubblica.it/grandeguerra/index.php?page=estratto
&id=786&refresh_ce.
26
Cit. in Fontana 1990, p. 381.

237­­­­
guerra da scrittori smarriti»27. Ma si tratta di voce isolata,
nel panorama internazionale, come isolate erano state le voci
che, sulla scia di Romain Rolland, avevano invitato il mondo
della cultura, almeno esso, a non cadere nelle trappole del
nazionalismo e del bellicismo, attirandosi così ire e sarcasmi
di entrambi i fronti. A differenza dei cittadini comuni, donne
e uomini di tutte le nazioni, prostrati, disperati, affamati, che
anelano alla pace “costi quel che costi”, la grande massa degli
intellettuali continua, pur con qualche resipiscenza, a credere
al mito bellico. O mostra di credervi, in Germania come in
Francia, come in Italia, come in Inghilterra. Qui, un anonimo
compone una canzonetta disperata, O Jesus, make it stop (O
Gesù, fa’ che finisca), il cui ritornello suona:

«We’re here because we’re here | Because we’re here, be-


cause we’re here; | We’re here because we’re here | Because
we’re here, because we’re here»28 («Noi siamo qui perché
noi siamo qui | Perché noi siamo qui, perché noi siamo qui; |
Noi siamo qui perché noi siamo qui | Perché noi siamo qui,
perché noi siamo qui»). Le domande sono diventate consta-
tazioni. Gli uomini schierati sulla linea della morte, in attesa
di raggiungere i loro compagni nell’aldilà, o negli ospedali
da campo, hanno perduto anche la voglia di interrogarsi sul
senso di una guerra che senso non ha.

27
Giménez Valdivieso 1920, p. 8.
28
In Gardner 1964, p. 127.
Cronologia*

GENNAIO
8 Francia. Parigi. Le operaie di due fabbriche tessili entrano in sciopero.
31 Germania. Berlino. Il governo tedesco annuncia l’avvio della guerra
sottomarina totale.
31 Italia. Roma. Ordine del giorno del Gruppo parlamentare socialista in
cui si inneggia al presidente statunitense Wilson e alla sua proposta di
«una pace ragionevole e vantaggiosa per tutti», e si chiede al governo
italiano di accogliere «per conto proprio» quella proposta.

FEBBRAIO
3 Il governo americano interrompe i rapporti diplomatici con la Germa-
nia.
4 Italia. Roma. Decreto n. 187 che estende la possibilità di infliggere la
pena di morte a coloro che disertano per la terza volta.
5 Messico. Approvazione della nuova Costituzione.
15 Francia. Parigi. Margaretha Geertruida Zelle (Mata Hari) viene arre-
stata per spionaggio.
24 Stati Uniti. Viene intercettato un telegramma di Arthur Zimmermann,
ambasciatore tedesco in Messico, in cui la Germania promette grandi
vantaggi territoriali a quel paese a spese degli Usa, in cambio della di-
chiarazione di guerra agli Stati Uniti.

MARZO
5 Russia. Pietrogrado. Ripresa della pubblicazione della «Pravda» sotto
una direzione collegiale che cambierà nei giorni successivi.
8-12 Russia. Pietrogrado. Rivolta spontanea contro la guerra e lo zar. I soldati
si ribellano agli ordini e sparano sui loro ufficiali: inizio della prima
rivoluzione.

* La Cronologia si limita a segnalare gli avvenimenti più significativi


richiamati nel testo; non è una cronologia generale dell’anno.

239­­­­
13 Russia. Pietrogrado. Rientro dalla Siberia di Lev Borisovič Kamenev,
Stalin (pseudonimo di Iosif Vissarionovič Džugašvili) e Matvei Kon-
stantinovich Muranov.
15 Russia. Pietrogrado. Lo zar Nicola II Romanov abdica in favore del
fratello Michele, che però rinuncia. Si instaura un governo provvisorio
sotto la guida del principe Georgij Evgen’evič L’vov.
15 Russia. Pietrogrado. Il quotidiano «Pravda» annuncia che Muranov as-
sume la direzione del giornale e che Stalin e Kamenev entrano a far parte
del comitato direttivo.
23 Italia. Roma. Discorso alla Camera di Filippo Turati che saluta la rivo-
luzione russa come «liberazione del mondo».

APRILE
6 Stati Uniti. Washington. Dopo un breve dibattito al Congresso e al Sena-
to, il presidente Wilson annuncia l’entrata in guerra contro la Germania.
15-16 Il II Congresso del Psri (gli ultrariformisti espulsi dal Psi nel 1912) lan-
cia la parola d’ordine “La terra ai contadini”.
16 Francia. Reims. Battaglia di Chemin des Dames (Craonne). Sfortunato
attacco dei francesi sotto il comando di Robert-Georges Nivelle contro
le truppe tedesche, con numerosi caduti.
16 Russia. Pietrogrado. Nikolaj Lenin (pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’ja-
nov) rientra in patria dall’esilio svizzero, attraversando Germania e Fin-
landia in un vagone piombato.
17-21 Francia. Si registrano numerosi e diffusi ammutinamenti fra le truppe
francesi.
20 Russia. Pietrogrado. Pubblicazione delle Tesi di aprile (Sui compiti at-
tuali del proletariato rivoluzionario) di Lenin sul quotidiano «Pravda».
21 Francia. Parigi. Philippe Pétain è nominato capo di stato maggiore ge-
nerale in luogo di Nivelle.
27 Italia. Fano. In una caserma 410 militari adunati in partenza per i reparti
di prima linea si rifiutano di partire.

MAGGIO
4 Russia. Pietrogrado. Moti antigovernativi e per la pace duramente re-
pressi.
8 Italia. Milano. Riunione congiunta della Direzione del Psi, dei vertici
della Cgdl e del Gruppo parlamentare socialista per affrontare la situa-
zione politica in ottica comune.
12 Italia. Fronte alpino. Il generale Cadorna, comandante in capo, lancia
una nuova offensiva sull’Isonzo.
13 Portogallo. In una località nei pressi della città di Fátima viene resa nota
“l’apparizione” della Madonna.
19 Francia. Il 3° Battaglione del 66° Fanteria oppone un rifiuto collettivo,
disperdendosi per il villaggio vicino e nei boschi.
24 Russia. Pietrogrado. Dichiarazione dei diritti del soldato, che sarà un
potente acceleratore della crisi dell’esercito russo.

240­­­­
GIUGNO
1-8 Francia. Soldati su un convoglio che attraversa il villaggio di Coeuvres
cantano l’Internazionale e agitano bandiere rosse. È l’innesco di una ri-
volta che toccherà alcune compagnie stanziate in zona. A seguito dell’e-
pisodio la 23a compagnia si installa in una fattoria, ai confini del borgo
di Missy-aux-Bois, e viene assediata dalle truppe fino alla resa.
3 Albania. Argirocastro. Proclama del comandante delle truppe italiane,
generale Ferrero, in cui si promette unità e indipendenza al paese, ma
«sotto l’egida e la protezione dell’Italia».
5 Francia. Parigi. Pétain emana una direttiva a tutti gli ufficiali: l’inerzia è
equivalente di complicità col nemico.
8 Regno Unito. Londra. Nasce il War Policy Committee, per meglio coor-
dinare le azioni politico-militari.
9 Francia. Parigi. Su richiesta di Pétain, il ministro della Guerra Painlevé
abolisce il diritto di revisione della sentenza di condanna in caso di
disobbedienza collettiva.
9 Italia. Torino. Assemblea del Psi in cui si respinge la mozione degli
“intransigenti” (d’ora in poi si chiameranno i “rigidi”) che chiede la
proclamazione dello «sciopero insurrezionale».
10 Francia. Hanno luogo le prime esecuzioni capitali dei militari rivoltosi.
10 Italia. Fronte alpino. Il generale Luigi Cadorna ordina un’offensiva sul
Monte Ortigara.
11 Grecia. Atene. Re Costantino (neutralista) costretto ad abdicare dalle
pressioni di Francia e Regno Unito, gli succede il secondogenito Ales-
sandro.
11 Regno Unito. Londra. Il comandante del corpo di spedizione statuni-
tense, generale Pershing, viene ricevuto dal re Giorgio V.
13 Portogallo. Nei pressi di Fátima, seconda “apparizione” della Madonna.
13 Francia. Parigi. Foch accoglie il generale Pershing.
13 Inghilterra. Londra. Un bombardamento tedesco causa 162 morti e 426
feriti.
16 Italia. Roma. Nasce il nuovo governo Boselli, che succede al secondo
governo Salandra. Vittorio Emanuele Orlando è ministro dell’Interno,
Ettore Sacchi è ministro di Grazia e Giustizia, il generale Gaetano Giar-
dino è ministro della Guerra e fa approvare i “Provvedimenti contro i
disertori”.
19 Italia. Fronte alpino. Gli Alpini conquistano il Monte Ortigara.
25 Italia. Fronte alpino. L’esercito austriaco riconquista il Monte Ortigara
con gravissime perdite per l’esercito italiano.
29 Grecia. Atene. Il primo ministro Eleuthérios Venizélos dichiara guerra
agli Imperi centrali.

LUGLIO
1-4 Austria-Ungheria. Galizia orientale. Il generale Aleksej Brusilov dà av-
vio a una poderosa offensiva russa. Episodi di diserzione e di rifiuto di
combattere tra le fila dell’esercito la bloccano.

241­­­­
6 Medio Oriente. Aqaba. Conquista della città, dove si sono asserragliati
i turchi, da parte del capitano Thomas Edward Lawrence (Lawrence
d’Arabia), alla testa di milizie arabe.
12 Italia. Roma. Discorso di Claudio Treves alla Camera dei Deputati nella
cui chiusa pronuncia la frase: «il prossimo inverno non più in trincea».
13 Portogallo. Fátima (pressi). Terza “apparizione” della Madonna.
15-16 Italia. Santa Maria La Longa (Udine). Rivolta della Brigata Catanzaro,
estinta con una immediata, ferocissima repressione.
18 Italia. Torino. Giovanni Agnelli e Riccardo Gualino fondano la Società
di Navigazione Italo-Americana (Snia).
19 Austria-Ungheria. Galizia orientale. Gli eserciti austro-germanici con-
trattaccano le armate russe allo sbando e occupano i territori della Rus-
sia per una profondità di ben 130 chilometri.
20 Grecia. Corfù. Il Comitato jugoslavo (o degli Slavi del Sud) si riunisce
e i rappresentanti di Serbia, Croazia e Montenegro annunciano la fu-
tura costituzione del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni: è la
cosiddetta Dichiarazione di Corfù, documento fondativo della futura
Jugoslavia.
21 Russia. Pietrogrado. Nasce il secondo governo provvisorio, guidato da
Aleksandr F. Kerenskij, che è stato finora ministro della Giustizia nel
primo governo provvisorio del principe L’vov.
22 Francia. Parigi. Intervento di Georges Clemenceau all’Assemblea Na-
zionale che costringerà alle dimissioni il ministro dell’Interno Louis
Malvy.
23-27 Italia. Firenze. La Direzione del Psi decide la partecipazione di una
delegazione all’incontro di coloro che si riconoscono nel Manifesto di
Zimmerwald (1915) contro la guerra a Stoccolma, che, dopo vari rinvii,
non si terrà.
31 Belgio. Passchendaele (Fiandre). Battaglia detta di Passchendaele o ter-
za battaglia d’Ypres, fra le truppe britanniche, dislocate sul territorio in
appoggio a quelle francesi, e quelle germaniche.

AGOSTO
1 Italia. Roma. Papa Benedetto XV fa recapitare una Nota ai «capi dei
popoli belligeranti», chiedendo che si ponga al più presto termine alla
«inutile strage». La Nota verrà resa pubblica soltanto due settimane
più tardi.
2 Italia. Pradamano (Udine). Si conclude il processo, celebrato alla fine
di luglio, a carico di 19 imputati militari e civili, accusati di aver diffuso
idee e principi contro la guerra.
5-14 Italia. Torino. Arrivo di una delegazione russa dei Soviet di Pietrogrado
e Mosca, che da fine luglio sta compiendo un giro europeo; il 25 luglio a
Londra, il 5 a Parigi. Il 7 a Roma incontro tra la delegazione e i dirigenti
socialisti: comunicato congiunto contro la guerra. Ritornerà a Torino
il 13, passando per altre città (Firenze, Bologna, Milano), ripartendo
l’indomani per Parigi.

242­­­­
13 Italia. Cuneo. Discorso di Giolitti in cui denuncia le «diseguaglianze
dei sacrifici» nella guerra, e chiede una nuova politica estera e riforme
sociali per il dopo-conflitto.
14 Cina. Dichiarazione di guerra agli Imperi di Germania e d’Austria-
Ungheria.
18 Italia. Fronte alpino. Il generale Cadorna lancia un’offensiva. È la XI
battaglia dell’Isonzo.
19 Portogallo. Valinhos. Quarta “apparizione” della Madonna.
20 Germania. Berlino. Il Tribunale della Marina emette pesanti condanne
(morte e reclusione) a carico di una cinquantina di imputati, accusati di
far parte di una organizzazione clandestina socialista.
22-26 Italia. Torino. Sommossa popolare a causa della mancanza di pane. I
tumulti si chiudono con una dura repressione con una cinquantina di
morti (quasi tutti fra i rivoltosi) e centinaia di feriti e arrestati tra operai
e dirigenti socialisti.
23 Francia. Parigi. Il generale Pétain propone direttive ai giornali sui temi
da trattare, in particolare quelli utilizzabili a fini di propaganda.
23 Italia. Roma. Convegno di Federterra, Cgdl e altre organizzazioni che
affermano l’intenzione di lavorare per l’esproprio delle terre incolte.

SETTEMBRE
Russia. Lenin scrive Stato e rivoluzione.
2 Germania. Nasce il Deutsche Vaterlandspartei (Dvp, Partito patriottico
tedesco), una sorta di associazione di forze “patriottiche”.
3 Lettonia. Riga. Le truppe germaniche sconfiggono quelle russe nella
battaglia di Jugla sul fronte orientale. I russi devono abbandonare Riga,
capitale della Lettonia, che fa parte del territorio dello Stato russo.
3 Russia. Pietrogrado. La frazione bolscevica del Soviet di Pietrogrado de-
nuncia le intenzioni del governo Kerenskij di accordarsi con proprietari
terrieri, banchieri e imprenditori.
12 Italia. Fronte alpino. Si conclude la XI battaglia dell’Isonzo. Risultato:
oltre 160.000 vittime tra morti e feriti.
13 Portogallo. Fátima (pressi). Quinta “apparizione” della Madonna.
21 Italia. Roma. Si riunisce il Gruppo parlamentare del Psi per chiedere la
riapertura della Camera.
27 Italia. Milano. Senatore Borletti fonda la Società Anonima La Rinascente.

OTTOBRE
4 Austria. Vienna. Gli uffici imperiali di Carlo I emettono una Nota di
diniego a proposte di accomodamenti, in particolare sulla frontiera con
l’Italia.
4 Italia. Roma. Decreto Sacchi (d.lt. n. 1562) sulle «manifestazioni ostili
alla guerra o lesive di interessi connessi (disfattismo)».
13 Portogallo. Fátima (pressi). Sesta “apparizione” della Madonna.

243­­­­
15 Francia. Parigi. Fucilazione di Mata Hari, condannata a morte per spio-
naggio.
24 Italia. Fronte alpino. XII battaglia dell’Isonzo, o battaglia di Caporetto.
Le truppe austro-ungariche, rinforzate da divisioni germaniche coman-
date dal generale Otto von Below, lanciano un’offensiva sfondando le
linee degli italiani.
24 Francia. Malmaison. Il maresciallo Pétain lancia la terza offensiva “di
precisione” contro i tedeschi, ottenendo la vittoria.
26 Brasile. Rio de Janeiro. Il Brasile dichiara guerra alla Germania.
27 Italia. Fronte alpino. Gli austro-tedeschi occupano Cividale (Udine),
per raggiungere subito dopo il capoluogo, sede del quartier generale
italiano, che si trasferisce a Padova.
28 Italia. Fronte alpino. Cadorna fa trasmettere un comunicato ufficiale
attribuendo la disfatta alla «mancata resistenza di reparti della II Ar-
mata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi
al nemico».
30 Italia. Fronte alpino. Ritirata dei soldati e fuga degli abitanti delle terre
italiane invase: 270.000 persone.
30 Italia. Treviso. Il comandante supremo francese, Ferdinand Foch, in-
contra Cadorna per discutere della situazione del fronte italiano.
30 Italia. Roma. Nasce il governo Orlando, che succede al governo Boselli.
Sidney Sonnino rimane agli Esteri, Ettore Sacchi alla Giustizia.
31 Italia. Il generale inglese William Robert Robertson si impegna ad aiu-
tare gli italiani e a far confluire sei divisioni francesi e quattro inglesi a
Mantova e Brescia.

NOVEMBRE
2 Italia. Roma. Il d.lt. n. 187 impone agli sbandati di presentarsi all’auto-
rità militare entro cinque giorni, pena la fucilazione; termine successi-
vamente prorogato al 18 e al 30 novembre.
2 Regno Unito. Londra. Dichiarazione Balfour (dal nome del ministro
degli Esteri britannico) che apre alla possibilità della creazione di un
”focolare ebraico” in Palestina.
5-6 Italia. Rapallo. Vertice sulla situazione della guerra degli Alleati (Inghil-
terra, Francia, Italia).
6 Russia. Pietrogrado. Ultimo discorso di Kerenskij nella sede del governo
provvisorio. Poco dopo fugge. L’Ambasciata degli Stati Uniti gli mette
a disposizione un’automobile con la quale raggiunge Pskov. Lenin invia
una lettera ai membri del Comitato centrale del Posdr.
7 Russia. Pietrogrado. Prende il via l’insurrezione diretta da Lenin contro
il governo provvisorio. È la Rivoluzione bolscevica.
8 Russia. Pietrogrado. Assemblea dei Soviet. Lenin presidente del Consi-
glio dei Commissari del Popolo.
9 Italia. Fronte alpino. Ritirata sul Piave dell’esercito italiano. Si conclude
la battaglia di Caporetto.

244­­­­
9 Italia. Cadorna sostituito da Armando Diaz al Comando supremo delle
Forze armate italiane. Nominati sottocapi il generale ed ex ministro
della guerra Giardino (sostituito dal generale Alfieri) e Pietro Badoglio.
16 Francia. Parigi. Dimessosi il governo Painlevé, il presidente della Re-
pubblica Raymond Poincaré dà l’incarico a Georges Clemenceau.

DICEMBRE
2 Russia. Brest-Litovsk (Bielorussia). Si avviano le trattative tra i fiduciari
del neogoverno sovietico e, sull’altro fronte, quelli della Germania im-
periale e dell’Austria-Ungheria; si concluderanno il 3 marzo 1918, con
la sconfitta della Russia e il riconoscimento, secondo i principi da sem-
pre enunciati dai bolscevichi, della pace “giusta” e dell’indipendenza
di Finlandia, Polonia, Ucraina, Lettonia, Estonia, Lituania e appunto
Bielorussia.
4 Francia. Cambrai. Fine della battaglia fra le truppe tedesche e quelle
anglo-francesi supportate da canadesi: circa 100.000 morti.
6 Canada. Halifax. Grave incidente nel porto dove un cargo militare nor-
vegese urta una nave da carico francese, la Mont Blanc, con a bordo
armi e munizioni da portare in Europa. Il cargo, incendiatosi, impatta
i moli provocando un’esplosione con 2000 morti, 9000 feriti e la città
semidistrutta.
6 Romania. Sconfitta e resa della Romania agli Imperi centrali.
6 Finlandia. Helsinki. Dichiarazione di indipendenza della Finlandia
dall’Impero russo.
7 Stati Uniti. Washington. Dichiarazione di guerra degli Stati Uniti all’Au-
stria-Ungheria.
9 Palestina. Gerusalemme. Truppe britanniche guidate dal generale
Edmund Allenby entrano a Gerusalemme, ponendo fine al dominio
turco dopo quattrocento anni.
10 Italia. Roma. Il d.lt. n. 1952 concede il perdono giudiziario a quanti
si presentino entro il 29 dicembre, prevedendo però un aggravamento
delle pene per i «favoreggiatori».
15 Italia. Milano. Benito Mussolini pubblica l’articolo Trincerocrazia su «Il
Popolo d’Italia».
21 Italia. Fronte alpino. Fallimento dell’attacco austriaco sul Monte Grap-
pa.
22 Italia. Roma. Dibattito parlamentare sulla disfatta di Caporetto. Discor-
so del presidente del Consiglio Orlando alla Camera di incitamento a
«resistere! resistere! resistere!».
26 Russia. Pietrogrado. Sulla «Pravda» pubblicate le Tesi sull’Assemblea
costituente di Lenin.
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Abbal, Odon, 218n. Bach, André, 76n.


Abosch, Heinz, 201n. Badoglio, Pietro, 162, 167, 172, 188,
Accornero, Cristina, viii. 245.
Adamthwaite, Anthony, 215n. Bakunin, Michail Aleksandrovič, 56.
Adler, Friedrich, 14. Balfour, Arthur James, 210-212, 235,
Adler, Victor, 14, 69. 244.
Afflerbach, Holger, 40n, 61n, 116n, Baratto, Michele, 153n.
216n. Barberis, Francesco, 26.
Agnelli, Giovanni, 25, 124-125, 242. Barr, James, 121n.
Aksel’rod, Pavel Borisovič (pseud. di Basso, Lelio, 53n, 149n.
Pinchus Boruch), 35. Bataille, Victor, 64n, 71n, 75n, 76n,
Albertini, Luigi, 94, 170 e n, 227 e n, 77n.
234. Beatty, Warren, 195 e n.
Albrecht, granduca del Meclembur- Becker, Jean-Jacques, 4n, 5n, 9n, 17n,
go, 144. 19n, 63n, 65n, 72n, 119n, 121n,
Alekseev, Michail Vasil’evič, 105. 126n, 162n.
Alem, Jean-Pierre, 211n, 213n. Below, Otto von, 162-163, 244.
Alessandro I, re di Grecia, 106-107,
Beltrame, Achille, 15.
241.
Benedetto XV (Giacomo Della Chie-
Alessandro I di Jugoslavia (Alessan-
sa), papa, 84, 126-127, 129, 135, 242.
dro Karađorđević), 234.
Alessandro III Romanov, zar di Rus- Benedetto XVI (Joseph Aloysius
sia, 51. Ratzinger), papa, 33, 86.
Alfieri, Vittorio, 188, 245. Benelli, Sem, 47.
Allenby, Edmund, 122, 235, 245. Bermond, Claudio, 125n.
Alonso, Joaquín María, 85n. Bernstein, Eduard, 19n, 147.
Ambrosoli, Luigi, 72n, 94n, 95n, 109n, Bertonha, João Fábio, 5n, 180n.
135 e n, 139n, 193n, 194n, 228n. Bethmann-Hollweg, Theobald von,
Amodeo, Fabio, 122n. 13, 16, 44, 69, 216.
Andreev, Andrei, 204n, 206n. Beyhaut, Gustavo, 31n.
Angeli, Alfredo, 124. Bianchi, Bruna, 161n, 190n.
Asquith, Herbert Henry, 11, 91, 98. Bianchi, Luigi, 87n.
Atatürk, Mustafa Kemal, 106. Bissolati, Leonida, 89, 127, 187, 195,
Audoin-Rouzeau, Stéphane, 5n, 17n, 233-234.
121n, 126n, 162n. Blanqui, Louis-Auguste, 56.
Aunoble, Éric, 36n, 48n. Bocconi, fratelli, 156.
Azoury, Negib, 210. Bock, Fabienne, 121n, 141n, 215n.

263
Boffa, Giuseppe, 145n, 146n, 151n, Cereghino, Mario José, 122n.
199n, 202n, 208n. Cereteli, Iraklij Georgevič, 117.
Bombacci, Nicola, 159, 178. Ceschin, Daniele, 190n, 191n.
Bonchio, Roberto, 31n, 199n. Charles-Roux, François, 13n, 126n,
Bonomi, Ivanoe, 89, 187, 195. 158n.
Bordiga, Amadeo, 26, 225 e n. Chevallier, Jean-Jacques, 147n, 150n.
Borletti, Senatore, 25, 156-157, 243. Churchill, Winston, 107.
Borrelli, Francesco Saverio, 229n. Ciaghi, Giulia, 33n.
Boselli, Paolo, 21, 23, 44, 49, 68, 89- Clemenceau, Georges Benjamin, 20,
91, 93, 98, 107-108, 155, 186, 241, 64, 73, 119, 141-142, 184, 213, 214
244. e n, 215, 218, 242, 245.
Bosworth, Richard, 3n. Colletti, Lucio, 149n.
Brenton, Howard, 122. Comandini, Ubaldo, 20-21, 89.
Briand, Aristide, 64, 73. Comisso, Giovanni, 162.
Broz, Josip, detto Tito, 234. Conti, Fulvio, 50n.
Brusilov, Aleksej, 105, 115-116, 163, Córdova, Arnaldo, 32n.
241. Corni, Gustavo, 3n.
Buchanan, George William, 12. Corradini, Enrico, 227, 228 e n.
Bucharin, Nikolaj Ivanovič, 118. Corridoni, Filippo, 136, 178-179.
Buozzi, Bruno, 138. Cortesi, Luigi, 46n, 72n.
Bush, famiglia, 61. Costantino I, re di Grecia, 106-107,
Butler, Darlington Smedley, 62. 241.
Croce, Benedetto, 26, 164, 233.
Cadeddu, Lorenzo, 140n.
Cadorna, Luigi, 23, 72, 91-98, 102- D’Angelo, Lucio, 50n.
103, 111-112, 120-121, 140, 152- d’Annunzio, Gabriele, 4, 113, 157.
153, 155, 161-162, 164, 166-167, D’Aragona, Ludovico, 26.
169, 170 e n, 171-172, 186-188, 227, Daudet, Léon, 142.
240-241, 243, 245. de Almeida Garrett, Gonçalo Xavier,
Caffarena, Fabio, 103n. 84.
Caillaux, Joseph, 215. De Clara, Luca, 140n.
Calì, Vincenzo, 3n. De Felice, Renzo, 20n, 50n, 179 e n,
Camarda, Alessandro, 115n. 180n, 227n, 231n.
Candeloro, Giorgio, 72n, 90n, 110n, De Fernex, Carlo, 124.
130n, 139n, 166n, 229n, 234n. Degl’Innocenti, Maurizio, 133n,
Canfora, Luciano, 4n. 225n, 233n.
Capello, Luigi, 162, 172. De Ianni, Nicola, 125n.
Cárdenas, Lázaro, 32. Della Chiesa (Giacomo Paolo Gio-
Caretti, Stefano, 110n, 194n. vanni Battista), vedi Benedetto XV.
Carletti, Giovanni, viii. De Martino, Ernesto, 79 e n.
Carlo I, imperatore d’Austria, 14, 158, Derogy, Jacques, 213n.
243. De Santis, Sergio, 31n.
Carmel, Hesi, 213n. De Togni, Monica, 142n.
Carocci, Giampiero, 28n, 30n, 31n. Dhanis, Édouard, 85n.
Carr, Edward Hallet, 41n, 54n, 56n, Diaz, Armando, 23, 187, 245.
119n, 145n, 197 e n, 201n, 209n, Dinale, Ottavio, 46n.
221n. Dogo, Marco, 105n.
Carranza, Venustiano, 30-31. d’Orsi, Angelo, 3n, 27n, 46n, 47n,
Castle, Ian, 105n. 152n, 225n, 227n, 231n, 234n.

264
Dos Santos, Lucia, 80-84. Garbo, Greta (pseud. di Greta Lovisa
Douhet, Giulio, 102 e n. Gustafsson), 185.
Doumergue, Gaston, 12. Gardner, Brian, 238n.
Draper, Theodore, 195 e n. Gatti, Angelo, 92, 93n, 97 e n, 162n,
Dreyfus, Alfred, 213. 164 e n, 165n, 188 e n.
Duclos, Jacques, 210n. George, Stefan, 3.
Duroselle, Jean-Baptiste, 181n, 214n. Giardino, Gaetano, 108, 188, 241, 245.
Gibelli, Antonio, 5n, 7n.
Eastman, Max, 195. Gide, Charles, 19n.
Eisenhower, Dwight David, 62. Gilly, Adolfo, 32n.
Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, Giménez Valdivieso, Tomás, 237,
22. 238n.
Engels, Friedrich, 28, 40, 42, 58, 146 Giolitti, Giovanni, 140, 163, 243.
e n, 147. Giorgio di Grecia (fratello di Costan-
Eremeev, Konstantin Stepanovič, 42. tino I di Grecia), 106.
Evans, Idrisyn Oliver, 120n. Giorgio V, re del Regno Unito, 101,
241.
Faisal I, re d’Iraq (Fayṣal ibn al- Giovanni XXIII (Giuseppe Angelo
Ḥusayn ibn ʿAlī), 122. Roncalli), papa, 86, 127.
Fattorini, Emma, 85n, 86n, 87n, 88n. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła),
Fava, Andrea, 21n. papa, 33, 86, 88, 127-128, 158.
Ferguson, Niall, 107n. Giudice, Maria, 138, 224.
Ferrandi, Giuseppe, 3n. Gough, Hubert, 120.
Ferraro, Giuseppe, 180n. Gramaglia, Angelo, 82n, 85n, 86n,
Ferrero, Giacinto, 89, 241. 88n.
Ferro, Marc, 66n. Gramsci, Antonio, 26, 27 e n, 57, 58 e
Fert, Maury, 154n. n, 59 e n, 79, 80n, 135 e n, 137-138,
139 e n, 140n, 223, 224 e n, 225.
Fischer, Didier, 67n.
Grande, Elisabetta, 23n.
Fitzmaurice, George, 185.
Graziani, Andrea, 188-190.
Foch, Ferdinand, 19, 64, 73, 101, 170,
Graziosi, Andrea, 54n, 119n, 150n,
181, 241, 244. 199n, 232n.
Fonseca, Luis Gonzaga da, 85n. Greenhalg, Elizabeth, 73n, 214n.
Fontana, Jacques, 127n, 237n. Griffiths, Trevor, 195n.
Forcella, Enzo, 24n, 50n, 68n, 112n, Grillandi, Massimo, 185n.
160n, 173n. Gruppi, Luciano, 29n, 53n, 57n,
Formigão, Manuel Nunes, 84. 146n, 148n.
Francesco (Jorge Mario Bergoglio), Gualino, Riccardo, 124, 125 e n, 242.
papa, 127. Guerrini, Irene, 113n.
Francesco Ferdinando d’Asburgo, 158. Guglielmo II, imperatore di Germa-
Francesco Giuseppe I, imperatore nia e re di Prussia, 13, 16.
d’Austria, 158. Guieu, Jean-Michel, 214n.
Franco, Francisco, 86. Guiso, Andrea, 170n.
Franzina, Emilio, 131n.
Freud, Sigmund, 79. Haig, Douglas, 72, 98, 100, 120-121.
Frölich, Paul, 16n, 69n, 141n. Hallgarten, George W.F., 8n, 103n,
Fussell, Paul, 6n. 217n.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 42.
Gadda, Carlo Emilio, 174, 175n. Hernández Chávez, Alicia, 31n.

265
Hertling, Georg von, 216. 36n, 38, 40, 42, 43 e n, 47-49, 51-54,
Herzl, Theodor, 211. 55n, 56, 57 e n, 58-59, 61, 64, 71, 85,
Hilferding, Rudolf, 28. 117-118, 121, 133 e n, 138, 145-146,
Hindenburg, Paul Ludwig von Beneck­ 147 e n, 148-149, 150 e n, 195-201,
endorff, 13, 16, 69. 202 e n, 204 e n, 206-207, 208 e n,
Hitler, Adolf, 14. 209-210, 219-220, 221 e n, 222-225,
Hobsbawm, Eric J., 5 e n. 228, 230-233, 240, 243-244.
Hobson, John Atkinson, 28. Leoni, Diego, 14n, 79n.
Hötzendorf, Conrad von, 95. Lepick, Olivier, 162n.
Lepre, Aurelio, 60n.
Isnenghi, Mario, 5n, 21n, 131n, 132n, Liebchnekt, Karl, 57.
165n, 174n, 176n, 178n, 189n. Lloyd George, David, 11-12, 46, 65,
72, 91, 98, 120-121, 152, 170, 211.
Jaurès, Jean, 36 e n. Loez, André, 71n, 76n, 78n.
Joffre, César Joseph Jacques, 19-20, Losurdo, Domenico, 62n.
64, 66. Loverre, Cesare Alberto, 190n.
Johnson, Paul, 212n. Ludendorff, Erich Friedrich Wilhelm,
Johnstone, Monty, 29n. 14, 16, 69, 216, 232.
Lukács, György, 149 e n.
Kaledin, Aleksej Maksimovič, 220. Lunačarski, Anatolij Vasil’evič, 118,
Kalinin, Michail Ivanovič, 42. 222 e n.
Kamenev, Lev Borisovič (pseud. di Luxemburg, Rosa, 28, 35 e n, 52, 53 e
Rozenfel’d), 42, 48, 118, 201, 202 n, 56-57, 201.
e n, 208, 240. Luzzatti, Luigi, 191.
Kautsky, Karl, 28, 146. Luzzatto, Sergio, 87n.
Kemp, Tom, 28n. L’vov, Georgij Evgen’evič, 39, 105,
Kerenskij, Aleksandr Fëdorovič, 105, 116, 240, 242.
115-118, 119n, 144, 151, 197-199,
201n, 202, 205, 207, 210, 220, 242- MacDonald, Ramsay James, 45.
244. MacLeod, John Rudolph, 184.
Kern, Stephen, 104n. Maimann, Helene, 14n.
Kolko, Gabriel, 5n. Makharadze, Filipp, 54n.
Kollontaj, Alexandra, 118. Malagodi, Olindo, 91.
Kolonitskii, Boris, 40n, 116n. Malaparte, Curzio (pseud. di Kurt
Kornilov, Lavr Georgievič, 116, 145, Erich Suckert), 175, 176 e n, 189.
151, 220. Malatesta, Alberto, 21n, 44n, 107n,
Korsch, Karl, 54. 109n, 132n, 156n, 177n, 178n, 228n.
Kuliscioff, Anna, 93. Maliantovič, Pavel, 199n.
Kupferman, Fred, 182n, 184n, 185n. Malvy, Louis-Jean, 119, 215, 242.
Manzini, Vincenzo, 159 e n.
Labanca, Nicola, 5n, 103n, 162n, 169n. Margiotta Broglio, Francesco, 127n,
Labriola, Arturo, 58. 227n.
Lawrence, Thomas Edward, 122, 212, Mariano, Marco, 61n.
242. Marinetti, Filippo Tommaso, 3.
Lazzari, Costantino, 25, 109, 159, 178, Mario, E.A. (pseud. di Ermete Gio-
228. vanni Gaeta), 186.
Leed, Eric J., 6n. Mariot, Nicolas, 71n, 76n, 78n.
Lenin, Nikolaj (pseud. di Vladimir Marques, Manuel, 81, 83.
Il’ič Ul’janov), 27, 28 e n, 29 e n, 35, Marto, Francisco, 80.

266
Marto, Jacinta, 80, 83. Nye, Gerard, 62.
Martov, Julij (pseud. di Julij Osipovič
Zederbaum), 52, 198, 205. Ojetti, Ugo, 189.
Marx, Karl, 28, 40, 42, 53, 56, 58, 146 Oldrà, Antonio, 47 e n.
e n, 147, 197, 208, 224-225. Omodeo, Adolfo, 18n, 192 e n.
Massis, Henri, 3. Orlando, Vittorio Emanuele, 21, 23,
Masson, Philippe, 17n, 18n. 25, 49, 89-90, 172, 186, 229 e n, 241,
Maurras, Charles, 142. 244-245.
Meda, Filippo, 127. Oualid, William, 19n.
Meinecke, Friedrich, 16 e n. Ovseenko, Vladimir Aleksandrovič
Melograni, Piero, 5n, 90n, 92n, 97n, Antonov, 203.
98n, 114n, 139n, 162n.
Menozzi, Daniele, 128n, 129n. Pacelli, Eugenio, vedi Pio XII.
Michaelis, Georg, 216. Painlevé, Paul, 73, 99, 152, 181, 215,
Michele II Romanov, granduca di 241, 245.
Russia, 39, 240. Pantaleoni, Maffeo, 226, 227n.
Míguez Núñez, Rodrigo, 33n. Panzini, Alfredo, 174 e n.
Milner, Alfred, 12. Paoloni, Francesco, 46 e n.
Minniti, Fortunato, 187n. Papini, Giovanni, 3, 175.
Modigliani, Giuseppe Emanuele, 161, Parvus, Aleksandr L’vovič (pseud. di
226. Izrail’Lazarevič Gel’fand), 51.
Molotov, Vjačeslav Michajlovič, 42. Pastonchi, Francesco, 134.
Mondolfo, Rodolfo, 225 e n. Paul, Pierre, 64n, 71n, 75n, 76n, 77n.
Monelli, Paolo, 96, 174 e n. Pedroncini, Guy, 66n, 67n, 74n, 77n,
Moneta, Ernesto Teodoro, 50 e n. 100n, 119n, 141n, 181n, 216n.
Monicelli, Mario, 155. Peli, Santo, 115n.
Monsch, Charles, 127n. Pellizzo, Luigi, 128.
Montagnana, Mario, 137 e n, 233 e n. Penasso, Marina, viii.
Monteleone, Renato, 115n, 131n, Perrone, fratelli, 25.
172n. Pershing, John Joseph, 73, 101, 241.
Monticone, Alberto, 24n, 50n, 68n, Pétain, Philippe, 64, 66 e n, 67, 73-77,
94n, 95n, 112n, 113n, 133n, 136n, 99-100, 119, 141, 181, 214, 240-
139n, 160n, 173n. 241, 243-244.
Moroni, Andrea, 227. Petracchi, Giorgio, 43n.
Mulligan, William, 4n. Picot, François Georges, 121, 146,
Muranov, Matvei Konstantinovich, 210.
42, 240. Pieri, Piero, 98n.
Mussolini, Benito, 20 e n, 25, 46 e n, Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 13,
58, 136, 172, 178, 179 e n, 180n, 81, 87, 126.
196, 226, 230, 231 e n, 245. Pio da Pietrelcina, santo, detto Padre
Pio (Francesco Forgione), 87-88.
Nataloni, Angelo, 186n. Plechanov, Georgij Valentinovič, 35,
Newman, Bernard, 120n. 40.
Nicola II Romanov, zar di Russia Plumer, Herbert, 100.
(Nikolaj Aleksandrovič), 12, 36-37, Plumyène, Jean, 68n, 73n, 74n.
39, 203, 240. Pluviano, Marco, 113n.
Nivelle, Robert-Georges, 20, 64-66, Podvoiski, Nikolai, 200n, 203n.
67 e n, 68, 73, 240. Poincaré, Raymond, 73-74, 215, 245.
Nordau, Max, 213 e n. Porte, Rémy, 20n.

267
Poulat, Émile, 127n. Sacchi, Ettore, 158, 160, 241, 243-
Poverelli, G., 46n. 244.
Prampolini, Giacomo, 194, 195 e n. Saint-Fuscien, Emmanuel, 71n.
Prédal, René, 74n. Salandra, Antonio, 4, 89-90, 241.
Procacci, Giovanna, 44n, 47n, 58n, Salazar, António de Oliveira, 85.
79n, 159n, 160n, 161n. Salsa, Carlo, 164, 165 e n.
Procacci, Giuliano, 9n. Salvadori, Massimo L., 234n.
Prochasson, Christophe, 14n. Salvatorelli, Luigi, 4 e n.
Puccini, Giacomo, 182. Salvemini, Gaetano, 187, 233-234.
Puccini, Mario, 174n. Santarelli, Enzo, 231n.
Pugh, Martin D., 12n, 91n, 98n. Scaraffia, Giuseppe, 185n.
Scavino, Marco, 61n, 105n, 142n.
Ragionieri, Ernesto, 5n, 54n, 91n, Schwave, Klaus, 61n.
115n, 139n, 163n, 168n, 170n, 171n. Scialoja, Vittorio, 12.
Ratzinger, Joseph Aloysius, vedi Bene- Scottà, Antonio, 129n, 130n.
detto XVI. Serra, Maurizio, 176n.
Reagan, Ronald Wilson, 61. Serrati, Giacinto Menotti, 26, 133,
Reed, John, 195 e n, 196 e n, 197 e n, 138, 195, 225.
202n, 203, 204n, 205 e n, 206, 207n, Servent, Pierre, 66n.
208n. Shukman, Harold, 49n.
Reiman, Michal, 208n. Silvestri, Mario, 92n, 162n, 165 e n,
Rémond, René, 127n. 166n, 167 e n, 173n.
Renouvin, Pierre, 3n. Snowden, Philip, 45.
Ribot, Alexandre, 64, 73. Soffici, Ardengo, 175 e n.
Richer, Marthe, 183. Sonnino, Sidney, 4, 89-90, 107, 127 e
Ridolfi, Pierluigi, 169n. n, 133, 226, 234, 244.
Rigola, Rinaldo, 26, 177. Soutou, Georges-Henri, 216n.
Ritter, Gerhard, 9n, 45n, 70n. Spadoni, Marcella, 125n.
Robbins, Keith, 121n, 153n. Spengler, Oswald, 79.
Robertson, William Robert, 170, 244. Spitzer, Leo, 69 e n, 79n.
Rocco, Alfredo, 151, 152 e n. Spriano, Paolo, 133n, 136n, 137n,
Roccucci, Adriano, 227n. 138n, 139n.
Rochat, Giorgio, 5n. Stalin, Iosif (pseud. di Iosif Vissa­rio­
Rolland, Denis, 20n, 65n, 75n, 77n, novič Džugašvili), 28, 42, 48, 58,
99n. 118-119, 240.
Rolland, Romain, 238. Stein, Hermann von, 69.
Romanov, dinastia, 41. Stein, Leonard, 213n.
Rommel, Erwin Johannes Eugen, 163. Strada, Vittorio, 209n.
Rosenberg, Arthur, 37n, 41n, 51n, 53, Stürgkh, Karl von, 14.
54n, 232n. Sykes, Mark, 121, 146, 210.
Rothschild, famiglia, 211-212.
Rotunno, Antonio, 236. Tarde, Alfred de, 3.
Roulet, Louis-Édouard, 13n. Tato, María Inés, 180n.
Roverato, Giorgio, 132n. Teresa d’Ávila, santa, 86.
Ruffini, Francesco, 227 e n. Tettoni, Adolfo, 113.
Rusconi, Gian Enrico, 4n, 126n. Tirpitz, Alfred von, 144.
Tocqueville, Charles-Alexis-Henri de
Sabbatucci, Giovanni, 133n, 194n, Clérel de, 135.
195n. Togliatti, Palmiro, 25.

268
Tonini, Valerio, 56n. Volpe, Gioacchino, 180 e n.
Tranfaglia, Nicola, 155n. Volpi, Giuseppe, conte di Misurata,
Treves, Claudio, 26, 107, 109-111, 131, 25.
135, 177, 193-194, 195n, 225, 242.
Trockij, Lev Davidovič (pseud. di Warren Howe, Russell, 185n.
Lejba Bronštein), 38, 39 e n, 52, Weizmann, Chaïm, 211.
117, 118 e n, 119, 198, 200, 201 e n, Wheelwright, Julie, 185n.
208-209, 232 e n, 233. Williams, Charles, 68n, 101n.
Trotsky, vedi Trockij. Wilson, Thomas Woodrow, 21, 45,
Tucker, Robert W., 60n, 63n. 60-62, 129-130, 144, 212, 239-240.
Turati, Filippo, 26, 43-44, 93, 107, Winkler, Heinrich August, 144n,
177, 193-194, 195n, 226, 240. 216n.
Winock, Michel, 214n.
Ul’janov, Aleksej, 51.
Winter, Jay, 120n.
Ul’janov, Vladimir Il’ič, vedi Lenin,
Nikolaj. Wojtyła, Karol, vedi Giovanni Paolo
II.
Valentini, Rudolf von, 69.
Valvo, Paolo, 34n. Zadra, Camillo, 14n, 79n.
Veneruso, Danilo, 12n, 90n, 93n. Zampetti, Pier Luigi, 88n.
Venizélos, Eleuthérios, 106, 241. Zelle, Margaretha Geertruida, detta
Ventrone, Angelo, 6n, 20n, 92n, 160n. Mata Hari, 182-184, 239, 244.
Villa, Francisco, detto Pancho (pseud. Zeppelin, Ferdinand von, 103.
di Doroteo Arango Arámbula), Zimmermann, Arthur, 60, 239.
195. Zincone, Attilio, 154.
Vittorio Emanuele III di Savoia, re Zinov’ev, Grigorij Evseevič, 118, 201.
d’Italia, 4, 89. Zola, Émile, 213.

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