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Federico De Roberto, I viceré (1894)

[Il parto di Chiara e l’elezione del Duca d’Oragua]

La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori […]
Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei,
trovarono Federico che faceva come un pazzo, dall’ansietà […]. Il principe restò con lui e la
principessa entrò nella camera di Chiara. Nonostante il travaglio del parto, questa aveva un’aria
beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero suo marito.
«Ditegli che non soffro… Va’ tu stessa, Margherita… Ah!… Poveretto… è sulle spine…»
Il suo desiderio di tanti anni, il suo voto più ardente, era dunque sul punto d’esser
conseguito! I dolori s’attutivano, a quest’idea; ella non soffriva quasi più pensando all’ambascia del
marito… Quando la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava: «Ci siamo!… Ci siamo!…»
«Presenta la testa?» domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa in preda
all’ultima crisi.
«Non so… Coraggio, signora marchesa… Che è?…»
A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo
sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un
uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor
vivo.
«Gesù! Gesù! Gesù!»
Chiara, per fortuna, aveva perduto i sensi appena liberata, la principessa che s’era aggirata
per la camera senza toccar nulla, incapace di dare aiuto alla partoriente, voltava adesso il capo, dal
disgusto prodottole da quella vista; e le levatrici, la cugina, la cameriera si guardavano costernate,
esclamando:
«E chi vuol dare la notizia al marito!»
Giusto il marchese, non udendo più nulla, chiamava:
«Cugina!… Donn’Agata!… Come va?… Cugina!… Non viene nessuno?»
Fu donna Graziella quella che dovette andargli incontro e prepararlo al brutto colpo:
«Cugino, di buon’animo!… Chiara è liberata…»
«È maschio ?… È femmina?… Cugina!… Perché non parlate»
«Fatevi animo!… Il Signore non ha voluto… Chiara sta bene; questo è l’importante…»
Il principe, entrato a vedere l’aborto il cui unico occhio erasi spento, tentò impedire al
cognato smaniante l’entrata nella camera della moglie; ma non vi riuscì. Dinanzi al mostro che le
levatrici costernate avevano deposto sopra un mucchio di panni, il marchese restò di sasso,
portando le mani ai capelli. Frattanto sua moglie tornava in sensi, guardava in giro gli astanti.
«Federico!… È maschio?…» furon le prime parole che spiccicò.
«Sst!… Sst!…» ingiunsero a una voce le donne, mettendosi dinanzi all’aborto perché ella
non lo scorgesse. «Non le dite nulla per ora…»
«Federico!» chiamava ancora la puerpera.
«Chiara!… Come stai?» esclamò il marchese, accorrendo. «Hai sofferto molto? Soffri
ancora?»
«No, nulla… nostro figlio?»
«Chiara, confortati! È una femminetta…» annunziò la cugina, accorrendo. «Che importa!…
È tanto bellina!»
«Peccato!…» sospirò ella. «Sei dolente per questo?» domandò poi al marito, vedendogli la
ciera buia.
«Ma no, no!… Tutti i figliuoli sono cari lo stesso…»
«E dov’è?… Portatela qui…» fece ella, con un nuovo sospiro.
In quello stesso punto la cameriera, dietro ordine della principessa, portava via il feto
avvolto in un panno, cercando di non farsi accorgere.
«È lì!…» esclamò Chiara. «Voglio vederla…»
Allora una grande confusione ammutolì tutti quanti. Federico, accarezzandole le mani,
baciandola in fronte, le disse:
«Coraggio, figlia mia!… Fàtti coraggio… Vedi che anch’io mi rassegno! Il Signore non
volle…»
«È morta?» domandò ella, impallidendo.
«No… è nata morta… Coraggio, poveretta!… Purché tu stia bene… il resto è nulla: sia fatta
la volontà di Dio.»
«Voglio vederla.»
Tutti la circondarono, insistendo per dissuaderla da quel proposito: giacché era morta!
perché angustiarsi a quella vista? bisognava che ella s’avesse riguardo; l’importante adesso era la
salute di lei!
«Voglio vederla» ripeté seccamente.
Bisognò contentarla. Non pianse, non provò raccapriccio nell’esaminare quell’abominio;
disse al marito:
«Era tuo figlio!…»
[…]
Il domani […] in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell’ultima pazzia del
duca, s’erano riuniti tutti gli Uzeda borbonici […]. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando, e
lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano,
lungamente. Poi chiamò la cameriera, e cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glie lo
diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione:
«Sai la boccia dello strutto, nel riposto?… la grande?… Prendila, vuotala e nettala bene…
Ma bene, mi raccomando! Se c’è acqua calda è meglio.»
«Va bene» disse; «adesso ci vuole lo spirito.»
La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti
stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella
boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo.
«C’è un po’ di sego?… di creta?…»
«Ho il mio cerotto, se ti serve…» disse il marchese.
E del cerotto che appestava la camera, Ferdinando spalmò l’incastratura del tappo, perché
non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l’operazione; Consalvo, con gli
occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don
Lodovico:
«Zio, non pare la capra del Museo?»
Al Museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le
zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile […]. Anche gli
altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel
pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré.
Premeva al principe di tornare dallo zio duca, per fargli cosa grata, prese con sé il figliuolo,
quantunque fosse l’ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata
a palazzo, che s’udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi di gran
cassa. Una dimostrazione di cittadini d’ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente,
veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l’insigne patriotta. Il portinaio, vedendo
arrivare quella turba vociferante, fece per chiudere il portone; ma Baldassarre, mandato giù dal
duca, gl’ingiunse di lasciarlo spalancato. La folla gridava: “Viva il duca d’Oragua! Viva il nostro
deputato!” mentre la banda sonava l’inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica,
facevano capriole […].
«Viva Oragua!… Fuori il duca!… Viva il deputato!» urlavano giù.
[…] Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire
finalmente il becco, dire qualcosa. Afferratosi a Benedetto, balbettava:
«Che cosa?… Che debbo dire?… Aiutami tu, mi confondo…»
«Dica che ringrazia il popolo della lusinghiera dimostrazione… che sente la responsabilità
del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo… animato dalla fiducia,
sorretto…» Ma poiché le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone.
Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di teste;
salutavano coi cappelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: Evviva! Evviva!… Giallo come un
morto, afferrato alla ringhiera con tutte e due le mani, con la vista ottenebrata, immobile in tutta
la persona, l’onorevole cominciò:
«Cittadini…»
Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel corso assordante degli applausi;
l’attitudine del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere. Benedetto alzò un braccio;
come per incanto ottenne silenzio.
«Cittadini!» cominciò il giovanotto; «in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho
comunicato all’illustre patriotta…» “Evviva Oracqua!… Evviva il Duca!…” «la splendida, l’unanime
affermazione dell’intero collegio… […].
«Lo slancio da cui vi vedo animati» egli proseguiva «è la più bella conferma del responso
dell’urna… di quell’urna donde ancora una volta esce la libera… la sovrana volontà d’un popolo
divenuto padrone di sé… Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta
noi avremo la somma ventura di veder sedere il duca d’Oragua. Viva il nostro deputato!… Viva
l’Italia!…»
Uno scroscio finale d’applausi rintronò e la folla cominciò a rimescolarsi. Una seconda
volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato: «Cittadini…»;
ma giù non udivano, non comprendevano ch’egli fosse per parlare. Allora, voltatosi verso le
persone che gremivano il balcone, egli disse:
«Volevo aggiungere due parole… ma se ne vanno… Possiamo rientrare…»
Sorrideva, traendo liberamente il respiro, come liberato da un incubo, stringendo la mano
a tutti, ma più forte a Benedetto, quasi volesse spezzargliela.
«Grazie!… Grazie!… Non dimenticherò mai questo giorno…»
Guidò il giovane nella stanza attigua perché prendesse congedo dalle signore, accompagnò
tutti fino alla scala. Quando rientrò, il principe, liberato anche lui dall’incubo della jettatura,
ricominciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliuolo:
«Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?»
Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò:
«Che cosa vuol dire deputato?»
«Deputati» spiegò il padre «sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.»
«Non le fa il re?»
«Il re e i deputati insieme. Il re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla
famiglia: quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è
deputato!…»

[Dialogo finale tra Consalvo e la zia Ferdinanda]

Un nuovo scoppio di tosse fece soffiare la vecchia come un mantice. Quando calmossi, ella
disse con voce affannata, ma con accento di amaro disprezzo: «Tempi obbrobriosi!... Razza
degenere!». La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un
sorriso di beffa sulle labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con tono
d'umiltà, riprese: «Forse Vostra Eccellenza l'ha anche con me... Se ho fatto qualcosa che le è
dispiaciuta, gliene chiedo perdono... Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla... Vostra
Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese... Forse le duole
il mezzo col quale questo risultato s'è raggiunto... Creda che duole a me prima che a lei... Ma noi
non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com'è, e com'è dobbiamo
accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d'incanto?»
Non una sillaba di risposta. «Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l'età nostra, né io le
dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è
passato... L'importante è non lasciarsi sopraffare... Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo
zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: "Vedi? Quando c'erano i Viceré, gli
Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento." Vostra Eccellenza sa
che io non andai molto d'accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m'è
parsa e mi pare molto giusta... Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene
dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è
piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo […].
Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle proprie
vedute; ma, poiché la vecchia non si muoveva, pensò che forse s'era assopita e che egli parlava al
muro. S'alzò, quindi, per vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi spalancati. Egli continuò,
passeggiando per la camera: «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e
saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta,
ancora quasi feudale, e questa d'oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il
primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un
democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e
non può essere spento […]. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni
repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male […]. No, la nostra razza non è degenerata: è
sempre la stessa».

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