Sei sulla pagina 1di 12

INFORMAZIONI CARLO MAGNO TRATTE DALLA BIOGRAFIA DI EGINARDO

CAPITOLO VI LA FAMIGLIA: PARTE 18 A 27 DA EGINARDO

La vita privata di Carlo. Mogli e concubine; figli e figlie, e loro istruzione; la madre e le sorelle

Quando, morto il padre, Carlo divise il regno col fratello, sopportò con tanta pazienza le simulazioni e
l’invidia di quest’ultimo, che tutti si meravigliarono altamente nel constatare come quegli non fosse mai
riuscito a farlo irritare. Trascorso alcun tempo, dopo aver sposato, per consiglio della madre, la figlia di
Desiderio, re dei Longobardi, non si sa per quale causa, dopo un anno appena di convivenza, la ripudiò, e
sposò Ildegarda, una donna che apparteneva all’alta nobiltà sveva. Ne ebbe tre figli: Carlo, Pipino e Ludovico
ed un egual numero di figlie, Rotruda, Berta e Gisla. Ebbe, inoltre, tre altre figlie: Teodrada, Hiltrude e
Ruodaida, due dalla moglie Fastrada, appartenente alla razza dei Franchi orientali, ossia Germani, e la terza
da una concubina della quale non ricordo il nome. Quando anche Fastrada venne a morte, sposò l’alemanna
Liutgarda, che non gli diede prole. Morta che fu quest’ultima, tenne con sé quattro concubine, Madelgarda,
dalla quale ebbe una figlia a nome Ruotilde, la sassone Gervinda, che gli diede un’altra figlia, a nome
Adaltruda, Regina, che gli procreò Drogone e Ugo, e Adalinda dalla quale nacque il figlio Teoderico.

La madre di lui, Bertrada, gli invecchiò accanto, circondata da grande onore. Carlo le professava ogni
reverenza, tanto che non vi fu mai tra loro due il più piccolo malinteso, salvo quando divorziò dalla figlia di
Desiderio che aveva tolto in moglie proprio per consiglio di lei. Ella uscì di vita dopo la morte di Ildegarda, e
dopo aver visto nella casa del proprio figlio tre nipoti maschi e tre femmine. Re Carlo la fece seppellire, con
grande onore, nella stessa basilica di San Dionigi in cui già riposava il proprio padre.

Aveva una sola sorella, a nome Gisla, datasi alla vita religiosa dalla più tenera età. Carlo la circondò della
stessa affettuosa premura che aveva professato alla propria madre. Morì, pochi anni prima di lui, in quello
stesso convento nel quale aveva preso il velo.

Torna su ↑

→ Latino19

[Educazione dei figli e delle figlie]

Volle il re che i propri figli, maschi e femmine, fossero, prima di tutto, iniziati in quelle arti liberali che egli
stesso professava. Fece poi esercitare i maschi, non appena l’età lo consentì, secondo il costume dei Franchi,
nel cavalcare, nel maneggio delle armi e nella caccia: in quanto alle figlie, volle che non si intorpidissero
nell’ozio, ma si impratichissero, invece, a tessere la lana, al fuso ed alla spola. Tutto quanto concorre a
formare un onesto abito morale, stabilì fosse loro insegnato.

→ LatinoI figli morti prima di lui; cura nell’educazione dei figli e delle figlie di Pipino e dei suoi

Perse due figli ed una figlia: Carlo, il maggiore di tutti, Pipino, che aveva già creato re d’Italia, e Rotruda, la
primogenita delle figlie femmine, già fidanzata a Costantino, l’imperatore dei Greci. Di essi, Pipino lasciò un
figlio, Bernardo e cinque figlie: Adelaide, Atula, Gondrada, Bertaida e Teodora. A tutti re Carlo mostrò
chiaramente il proprio affetto, sia stabilendo, dopo la morte del figlio, che il nipote succedesse al padre, sia
facendo educare le nipoti tra le proprie figlie. Sopportò egli queste morti con minore fermezza di quel che
avrebbe fatto supporre la sua forza d’animo; lo costrinse a piangere, la tenerezza, che aveva pari a quella.

Similmente, quando gli fu annunciato il decesso del pontefice Adriano, che annoverava tra gli amici suoi più
cari, pianse come se avesse perduto un fratello o un figlio carissimo. Carlo dimostrava un magnifico
equilibrio anche nelle relazioni: facilmente stringeva amicizia con la gente; conservava poi con grande
costanza tale sentimento e votava un affetto quasi sacro a quanti s’era unito con simile legame.

Tanto ebbe a cuore l’educazione dei figli, che non pranzò mai senza di loro quando era nella propria casa e
non si pose mai in viaggio senza la loro compagnia. I figli gli cavalcavano accanto e le figlie lo seguivano nella
retroguardia; un certo numero di guardie del corpo, a ciò espressamente comandate, vegliava su di esse.
Dato che queste figlie erano bellissime e che molto egli le amava, non ne volle dare nessuna in moglie
(stranissima cosa) né ad alcuno dei suoi, né a qualche straniero. Le tenne, invece, presso di sé, nella sua
casa, fino alla morte, dicendo che non poteva fare a meno della loro compagnia. Ma, a questo riguardo, se
fu felice da un lato, dovette anche provare, dall’altro, la malignità della avversa fortuna. Dissimulò, però, le
proprie pene tanto che parve non avesse avuto mai sentore di alcun suo disonore.

Torna su ↑

→ Latino20

Due congiure fatte contro di lui rapidamente e felicemente sedate

Gli era nato da una concubina un figlio, a nome Pipino, bello di faccia ma gobbo, che ho dimenticato di
ricordare tra i suoi nati. Questi, mentre il padre, in guerra con gli Unni, svernava in Baviera, simulando una
malattia, congiurò contro di lui insieme con alcuni nobili Franchi che lo avevano sedotto con la vana
promessa della corona. Quando la trama fu scoperta e furono condannati gli altri congiurati, il padre
permise a lui di ricevere la tonsura nel convento di Prüm, e di consacrarsi, cosa che quegli già desiderava,
alla vita religiosa.

Un’altra pericolosa congiura era stata organizzata, prima di questa, in Germania, contro re Carlo. Di essa gli
attori parte furono accecati, parte non ebbero pene corporali, ma vennero inviati in esilio. Nessuno, però,
venne condannato a morte, fatta eccezione di tre che si difesero con la spada per non essere presi e fecero
anche qualche vittima. Questi ultimi furono uccisi, perché non era possibile in nessuna maniera catturarli.

Pare che causa ed origine di tali sedizioni sia stata, tutte e due le volte, la crudeltà della regina Fastrada. La
congiura contro il re venne, infatti, ordita perché sembrò che Carlo, per soddisfare la malvagità della moglie
avesse ripudiato decisamente la propria natura benigna e la propria mansuetudine.

A parte tale episodio, Carlo seppe vivere, per tutto il resto di sua vita, circondato da tale amore e da tale
consenso generale, in casa e fuori, che mai nessuno poté imputargli la più piccola ed ingiusta crudeltà.
Torna su ↑

→ Latino21

[Amore per gli stranieri]

Amava egli i pellegrini e poneva molta cura nel riceverli, tanto che, ad un certo punto, quella folla parve di
peso non solo al palazzo del sovrano, ma all’intero regno. Pur tuttavia, nella sua grandezza d’animo,
mostrava di sentire molto poco questo gravame e trovava un compenso agli enormi scomodi che
sopportava nella lode che riceveva la sua liberalità, e nella fama che acquistava il suo buon nome.

Torna su ↑

→ Latino22

Il suo aspetto fisico

Era, re Carlo, di corporatura massiccia e robusta, di statura alta che, pur tuttavia, non eccedeva una giusta
misura, dato che misurava sette volte la lunghezza del suo piede. Aveva testa tonda, occhi grandissimi e
vivaci, il naso un po’ più lungo del normale, bei capelli bianchi, volto sereno e gioviale che gli conferiva,
seduto che fosse o dritto in piedi, una grandissima autorità e pari dignità di aspetto. Quantunque avesse un
collo grasso e troppo corto ed il ventre un po’ sporgente, purtuttavia l’armoniosità delle altre membra
celava questi difetti. Sicuro nell’incedere, emanava da tutto il corpo un fascino virile: aveva una voce chiara
che non aderiva, pur tuttavia, al suo corpo. La salute era eccellente ma, negli ultimi quattro anni di vita,
andò frequentemente soggetto alle febbri, ed infine finì con lo zoppicare da un piede. Ma faceva a testa sua
e non si curava del parere dei medici che aveva preso in grande uggia, perché gli consigliavano di
abbandonare, per le carni lesse, gli arrosti ai quali era, invece, abituato.

→ LatinoI suoi svaghi

Si esercitava di frequente all’equitazione ed alla caccia, ed era questa una passione che aveva fin dalla
nascita, perchè non è possibile trovare al mondo chi possa paragonarsi ai Franchi in tali esercizi fisici. Amava
anche molto i bagni minerali e spesso si esercitava al nuoto. Eccelleva talmente in quest’esercizio che
nessuno riusciva a sorpassarlo. Per tale ragione costruì una reggia in Aquisgrana: ivi trascorse gli ultimi anni
di sua vita abitandovi in permanenza. Invitava al bagno con lui non solo i figli, ma anche i grandi del regno e
gli amici e talora persino tutte le proprie guardie del corpo. Avveniva cosi che, qualche volta, scendessero in
acqua con lui oltre cento uomini.

Torna su ↑

→ Latino23

I suoi abiti
Vestiva sempre col costume nazionale dei Franchi: sul corpo indossava una camicia ed un paio di mutande
di lino; su di esse poneva una tunica orlata di seta e i pantaloni. Portava fascie alle gambe e calzari ai piedi:
d’inverno proteggeva le spalle ed il petto con un indumento confezionato in pelli di lontra o di topo.
S’avviluppava in un mantello color verdognolo e portava sempre al fianco una spada con il pomo ed il fodero
d’oro o di argento. Qualche volta faceva uso di un’altra spada dall’elsa gemmata, ma l’adoperava solo nelle
grandi festività o quando riceveva gli ambasciatori stranieri. Rifuggiva dai costumi d’altri paesi, ancorché
bellissimi, e non amò mai indossarli, meno che a Roma, una prima volta su richiesta di papa Adriano ed una
seconda per preghiera del successore di lui, Leone. Allora acconsenti a portare una lunga tunica e la clamide
ed i sandali alla moda dei Romani. Nelle festività incedeva in una veste tessuta d’oro, con calzature decorate
di gemme; una fibbia d’oro gli fermava il mantello, e s’ornava di una corona anch’essa d’oro e sfolgorante di
gemme. Negli altri giorni, invece, il suo abito differiva poco da quello che usava il popolo.

Torna su ↑

→ Latino24

Come si regolava col mangiare, il bere, il dormire, e di cosa si occupava a pranzo

Era assai sobrio nel mangiare e nel bere; nel bere soprattutto. Detestava l’ubbriachezza in qualsiasi uomo e
massimamente in sé e nei suoi. Del cibo, però, faceva poco volentieri a meno e spesso si lagnava dicendo
che il suo corpo sopportava male i digiuni. Banchettava molto di rado e solo nelle grandi festività; ma allora
con numerosi convitati. Il suo pranzo quotidiano si componeva di sole quattro portate, non contando
l’arrosto che i cacciatori solevano presentargli sugli spiedi e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro
cibo. Mentre cenava gli piaceva udire qualche musico o qualche lettore. Gli leggevano le storie degli antichi,
ma amava ascoltare anche le opere di Sant’Agostino e specie quella intitolata «De civitate Dei». Era
talmente sobrio di vino e di qualsiasi altra bevanda che raramente, mentre pranzava, beveva più di tre volte.
D’estate, dopo il pasto del mezzodì, mangiava qualche mela e beveva una sola volta; dopo di che si toglieva
vesti e calzature, cosi come era solito fare la notte, e riposava due o tre ore. Di notte, durante il sonno, si
svegliava dalle quattro alle cinque volte, non solo, ma si levava anche in piedi. Mentre si vestiva e si calzava,
riceveva, d’abitudine, i propri amici; ma se il conte palatino gli riferiva che v’era una lite impossibile a
comporre, ordinava di introdurre subito i litiganti e, come se fosse stato in tribunale, ascoltava le parti e
pronunciava la sentenza. Né si limitava a questo: ma in quelle ore regolava tutto il lavoro che nel giorno
dovevano esplicare i vari uffici ed ordinava a ciascun ministro cosa dovesse fare.

Torna su ↑

→ Latino25

L’ammirevole interesse per gli studi

Aveva facile e copioso l’eloquio e sapeva esprimere con molta chiarezza il suo pensiero. Non contento di
conoscere la sola lingua patria, si diede ad apprendere anche le straniere, e tra queste imparò tanto bene il
latino che era solito esprimersi in quell’idioma con la stessa facilità che nel proprio; il greco lo comprendeva
meglio di quanto non lo parlasse; tutto sommato, era tanto facondo da sembrare persino prolisso. Coltivò
con ogni cura le arti liberali e, pieno di rispetto per quelli che le insegnavano, li colmò di onori. Per imparare
la grammatica ascoltò le lezioni del vecchio diacono Pietro Pisano: nelle altre discipline ebbe a maestro
Alcuino, detto Al bino (diacono anche egli), un britanno di origine sassone, l’uomo più dotto che allora ci
fosse. Presso di lui dedicò molto tempo e molta fatica ad imparare la rettorica, la dialettica e,
principalmente, l’astronomia. Apprese il calcolo e si applicò con attenzione sagace e con ogni interesse a
studiare il cammino degli astri. Tentò anche di scrivere, e, a questo scopo, aveva l’abitudine di tenere sotto i
cuscini del letto alcune tavolette e alcuni fogli di pergamena, per esercitarsi, quando ne aveva il tempo, a
tracciare, di propria mano, varie lettere. Ma poco gli fruttò questo lavoro disordinato e iniziato troppo tardi.

Torna su ↑

→ Latino26

Come arricchì il decoro delle chiese

Praticò sempre, e con ogni reverente devozione, quella religione cristiana nella quale era stato allevato sin
dall’infanzia. Essa lo indusse a costruire la basilica di Aquisgrana, opera di stupenda bellezza, ad ornarla
d’oro, di argento, di candelabri, di cancelli e di porte forgiate in bronzo massiccio. E, dato che non era
possibile ricevere da altra parte le colonne e i marmi necessari alla costruzione, li fece venire da Ravenna e
da Roma.

Frequentava assiduamente la chiesa al mattino, alla sera, ed anche di notte, finché glielo permise la salute,
per assistere alle funzioni divine. Vegliava, inoltre, con ogni zelo, a che tutte le funzioni si svolgessero con la
maggiore dignità possibile e molto spesso ammoniva i custodi dei templi di non permettere che si portasse
in essi cosa alcuna non adatta o sudicia e che vi rimanesse. Fornì le chiese di vasi sacri di oro e di argento e
di una tal quantità di paramenti sacerdotali che nemmeno gli ostiarii, gli ultimi della gerarchia ecclesiastica,
furono mai costretti a celebrare gli uffici divini con i propri abiti privati. Si occupò anche moltissimo di
correggere la maniera di leggere e di salmodiare. Era molto esperto in ambedue le cose, quantunque non
leggesse in pubblico e non cantasse se non a bassa voce e in coro con gli altri.

Torna su ↑

→ Latino27

La sua generosità nelle elemosine

Soccorse molto i poveri ed esercitò quella disinteressata liberalità che i Greci chiamano «elemosina»,
agendo in siffatta maniera non soltanto nella propria patria e nel proprio regno. Soleva, infatti, mandare
soccorsi in denaro anche oltremare, in Siria, in Egitto, in Africa, a Gerusalemme, ad Alessandria, a Cartagine,
dovunque veniva a conoscere che vivevano in povertà alcuni cristiani, tanto aveva pietà della miseria loro.
Fu per questa considerazione, più che per altre, che ricercò l’amicizia dei re d’oltremare; proprio perché
venisse qualche conforto e qualche sollievo ai correligionari che stavano in sudditanza di quelli.

→ LatinoIl suo amore per la chiesa romana, e l’elevazione alla dignità imperiale
Faceva oggetto di particolare considerazione, fra tutti i luoghi sacri e venerabili, la chiesa del beato Pietro
apostolo, presso Roma. Le fece ricchissime offerte d’oro, d’argento e di gemme; mandò innumerevoli doni ai
pontefici e, durante tutto il suo regno, di niente si occupò più alacremente che di ridare, con tutti i mezzi a
sua disposizione e con tutte le sue forze, l’antica autorità alla città di Roma e di rendere la chiesa di san
Pietro non solo sicura e ben difesa, ma altresì la più in vista fra tutte le chiese, per gli ornamenti e le
ricchezze. Purtuttavia, quantunque la venerasse tanto, in quarantasette anni di regno non la visitò che
quattro volte solo per assolvere qualche voto o impetrare qualche grazia.

La riforma delle leggi

Dopo aver assunto la dignità imperiale, pose mente alla circostanza che i suoi popoli difettavano di leggi (i
Franchi avevano, infatti, due sole leggi e molto differenti in vari passi) e pensò di aggiungere quelle che
mancavano, di renderle omogenee e di correggere quelle disposizioni che erano errate o malamente
esposte. Ma di tale opera sono rimasti solo pochi articoli, e per di più imperfetti, aggiunti da lui. Però ebbe
cura di ordinare a tutte le nazioni venute in suo dominio di raccogliere le leggi non scritte e di tramandarle
per iscritto. Inoltre trascrisse, perché ne rimanesse memoria, quei poemi barbari e antichissimi che
cantavano la storia e le guerre degli antichi re ed iniziò anche una grammatica della lingua nazionale.

→ LatinoI nuovi nomi dei mesi e dei dodici venti

Diede, inoltre, ai vari mesi nominativi diversi nella propria lingua, laddove, per l’innanzi, presso i Franchi,
essi erano designati parte con la denominazione latina, parte con nomi barbarici. Anche per i dodici venti
scelse nomi appropriati; prima di lui, infatti, appena quattro di essi erano designati con i loro appellativi. Li
chiamò con i seguenti nomi: gennaio, wintarmanoth; febbraio, hornung; marzo, lentzinmanoth; aprile,
ostarmanoth; maggio, winnemanoth; giugno, brachmanoth; luglio, heuvimanoth; agosto, aranmanoth;
settembre, witumanoth; ottobre, windumemanoth; novembre, herbistmanoth; dicembre, heìlagmanoth. Ai
venti diede questi altri nomi: il levante lo chiamò estroniwint; l’euro, ostsundroni; l’ostro-scirocco,
sundostroni; l’austro, sundrom; l’austro-africano, sundwestroni; l’africo, westsundroni; lo zefiro, westroni; il
nord-ovest, westnordroni; il maestrale, nordwestroni; la tramontana, nordroni; l’aquilone, nordostroni; il
greco, ostnordroni.

Torna su ↑

→ Latino30

La nomina del figlio Ludovico a Imperatore e suo erede

Negli ultimi tempi di sua vita, già oppresso dalla malattia e della vecchiaia, chiamò a sé il figlio Ludovico, re
d’Aquitania, l’unico che gli fosse rimasto dei figli di Ildegarda. Radunò solennemente i grandi del regno dei
Franchi, associò al governo il figlio, col parere favorevole di tutti, lo nominò erede della dignità imperiale, e,
dopo avergli posto sul capo la corona, ordinò che lo si chiamasse imperatore e augusto.

Questa sua decisione fu accolta da tutti con gran trasporto, che ognuno la ritenne ispirata da Dio per il bene
della nazione. Il suo splendore fu accresciuto e le nazioni straniere ne provarono un gran terrore. Dopo tale
cerimonia, rimandò il figlio in Aquitania, ed egli, secondo il costume e nonostante la vecchiaia, se ne andò a
caccia, non lontano dalla reggia di Aix. In siffatto modo passò il resto dell’autunno, e, verso le calende di
novembre, ritornò ad Aquisgrana.
→ LatinoMorte e sepoltura dell'Imperatore Carlo Magno

Mentre vi svernava, nel gennaio dovette porsi a letto, assalito da una forte febbre. Allora, come soleva fare
quando era ammalato, si mise a dieta, credendo di poter cosi debellare la malattia o, per lo meno, mitigarla.
Alla febbre segui quel dolore ad un fianco che i Greci chiamano pleurite, ma il re continuò ad osservare la
dieta e non sosteneva il corpo altro che con qualche rara bevanda. Trascorsi sette giorni da quando s’era
messo a letto, dopo aver ricevuto la sacra comunione, venne a morte. Aveva settantadue anni di età e si
iniziava il quarantasettesimo del suo regno. Mancavano cinque giorni alle calende di febbraio ed era la terza
ora del giorno.

Le febvre saggio europa

“L’Europa, così come noi la definiamo, come la studiamo, è una creazione del Medio Evo, una unità storica
che, come tutte le altre unità storiche, è fatta di diversità, di pezzi, di cocci strappati da unità storiche
anteriori, a loro volta fatte di pezzi, di cocci, di frammenti di unità precedenti” (Febvre, pag.3). L’IMPERO
ROMANO SI SPEZZA E L’OCCIDENTE SI FRANTUMA Due vicende storiche spezzarono in tre parti l’Impero
Romano e con esso quell’unione di popoli e quella civiltà che aveva per centro il Mediterraneo: 1) La
germanizzazione dell’Impero Romano d’Occidente conseguente alle invasioni barbarariche (V-VI sec. d.C.)
staccò l’Europa occidentale dall’Europa orientale. Un tentativo dell’imperatore d’Oriente Giustiniano (prima
metà del V sec) di ricostituire l’unità territoriale, giurica (Corpus Juris Civilis), amministrativa e civile del
Mediterraneo ebbe successo, ma fu effimero. Giustiniano fu dunque l’ultimo imperatore di un impero
romano unito, come anche Dante sottolinea chiamando proprio Giustiniano a narrare la storia dell’aquila
romana (VI canto del Paradiso). Di queste due Europe la più popolosa, brulicante di grandi città e di attività
artigianali e commerciali, traboccante di merci, di arte, di lusso e di ricchezza, l’erede delle arti e del
pensiero razionale ellenistici è quella orientale. l’Europa occidentale è poco urbanizzata, è fatta di contrade
agricole e di “castra” (villaggi fortificati di origine militare), di grandi spazi rurali, di artigianato povero… 2) La
conquista araba del Vicino Oriente e della costa africana (VII sec.) staccò la sponda sud e fece del
Mediterraneo un confine, quasi invalicabile per un Occidente ormai ancorato alla terraferma e privo di
capacità marinare. Non solo, questa sponda sud, che trovava ormai impossibili i rapporti con il nord
attraverso le acque, scoprì con il cammello la facilità dei rapporti con l’Africa subsahariana. Dunque l’Africa
del nord si saldò facilmente al blocco africano e si separò radicalmente dall’Europa. Non solo, proprio la
sponda sud, l’ “Africa Minore” come la chiamavano i Romani, l’ “isola del Maghreb” come la ribattezzeranno
gli Arabi, “ha tradito la sua civiltà, e se così si può dire il suo continente. La defezione del Maghreb […] è una
defezione molto grave. Il Mediterraneo, in quanto mondo unito, non si è mai risollevato da questo
voltafaccia dell’”Africa Minore” […] Ora, questo paese latinizzato a fondo, cristianizzato a fondo, si è
islamizzato a fondo” (Febvre, pagg. 52-53). Annota Febvre: “è un caso particolare, che vale la pena di
esaminare da vicino e che finisce col dimostrare che la civiltà non è una fatalità di contesto, non è una
fatalità di razza. La civiltà è un volere umano” Sempre in conseguenza delle invasioni germaniche L’Europa
occidentale si frantumò in tanti regni romano-barbarici (secc. V-VIII). Essa “è già il feudo degli invasori
germanici, in attesa di divenire, domani, la loro patria” (Febvre, pag.63). Tuttavia questa Europa occidentale
non tradì mai del tutto le sue radici romane. IL SACRO ROMANO IMPERO DI CARLO MAGNO  “L’Europa è
sorta esattamente quando l’Impero romano è crollato” (Marc Bloch) , ache se la sua genesi fu “lunga, lenta,
progressiva” (L. Febvre, pag. 57). Dopo la frammentazione, alcuni cocci strappati alla precedente unità
storica romana e altri strappati all’unità germanica si ricomposero nel Sacro Romano Impero di Carlo Magno
(Natale dell’800). Tra VIII e IX secolo Carlo, re dei Franchi (popolo di origine germanica) unificò un territorio
che andava dai Pirenei (marca di Spagna) al fiume Elba (ma lasciando escluse Bretagna e Gran Bretagna),
dalla Toscana all’OstMark (Austria), e sottomise rendendola vassalla e tributaria la media valle del Danubio
(dall’Elba alla 4 Giuseppe Testolin - EUROPA tra passato e presente Boemia alla Croazia) dopo avere
sterminato gli Avari che la dominavano. Le radici più profonde dell’Europa sono nel Sacro Romano Impero,
che sviluppò nell’Occidente la coscienza di un’identità geografico-culturale fondata sulla centralità
continentale e sulle eredità romana e cristiana. 1) La “centralità continentale” fissò l’asse dell’Europa nel
nord del continente: la sede dell’imperatore negli ultimi anni della sua vita fu Acquisgrana, tra i fiumi Reno e
Weser; i Pirenei divennero il confine occidentale; quello orientale si spostò dal Reno all’Elba. Se la
continentalità è un’eredità trasmessa alla nostra Europa, tuttavia l’Europa carolingia non è esattamente la
nostra Europa: ne sono escluse la Spagna, il mondo anglo-sassone, la Scandinavia, le regioni slave dal
Baltico ai Balcani, il mondo ellenizzato. L’Europa carolingia è piuttosto l’Europa che riconosce la Chiesa di
Roma. E però l’Europa carolingia è il cuore attorno a cui si è costruita la nostra Europa. 2) Il Sacro Romano
Impero fu debitore più alla civiltà germanica che a quella romana. Esso segnò “l’integrazione dell’elemento
nordico nella storia d’Europa, non come un elemento secondario, ma come un elemento di importanza
capitale, come un elemento determinante e direttivo" (Febvre, pag. 75): - le istituzioni politico-
amministrative erano fondate sui vincoli personali di fedeltà (vassallaggio, comitato), anziché sull’”officium”
(funzione pubblica, servizio, incarico); - i veri poteri erano quelli locali; - il diritto non conosceva l’uniformità
e l’uguaglianza della legge, ma le differenza regionali/etniche e la diversità dei diritti e delle pene in base
allo status sociale; - l’esercizio delle armi era un dovere di fedeltà personale e non un dovere patrio; - la
base economica era agro-silvo-pastorale, gli scambi ridotti a poca cosa e le città in rovina; - lo stesso
cristianesimo aveva dovuto scendere a patti (compromessi?) con la civiltà dei “pagi”, gli insediamenti rurali,
inglobandone tradizioni, culti agrari, feste, riti, sortilegi, divinità e personaggi… 3) Ma, più di tutto questo,
pesò il fatto che l’Impero fu considerato da Carlo, secondo la consuetudine germanica, un patrimonio
personale, da spartire tra i figli. Così alla sua morte la grande costruzione imperiale si sfaldò, divisa tra i tre
figli, originando il nocciolo di tre monarchie Francia, Germania, Italia. L’Impero universale (che ingloba
l’intero Occidente europeo) resterà un’idea che echeggerà di tanto in tanto nei progetti/ideali di “Impero
universale” (dagli Ottoni ai due Federichi, da Dante a Carlo V). L’Occidente europeo sarà politicamente
l’Europa delle monarchie, degli stati, delle patrie. 4) Quanto all’ “eredità romana”, essa si era conservata
come un balbettìo linguistico in mezzo ad un vociare germanico. Ci vorrà un cammino faticoso e lungo secoli
per recuperare diritto, istituzioni, cultura, filosofia, arte, tecnica della civiltà romana e soppiantare in parte
gli elementi germanici. * Avviò questo lento percorso proprio Carlo con la creazione della schola palatina,
tesa a recuperare la lingua e la letteratura latina e, soprattutto, a raccogliere, trascrivere e correggere i testi
sacri del cristianesimo e le opere dei padri della chiesa e dei grandi papi. * Proseguirà la Scuola bolognese
dei glossatori (secc.XI-XII) che recuperò il diritto romano (il “Corpus Juris Civilis” di Giustiniano): un lavoro
fondamentale per l’opera di governo di Federico I (sec XII). * Ma il più ampio recupero della “romanità” sarà
opera dell’Umanesimo e del Rinascimento. Solo allora la romanità con i suoi valori tornerà ad essere un
carattere peculiare distintivo di questa Europa occidentale: centralità dell’uomo nel cosmo e nella storia ed
esaltazione della sua dignità e libertà, coscienza, autonomia del sapere umano e dell’operare terreno,
importanza del conoscere la natura 5) Dopo la frantumazione dell’Impero carolingio ed in attesa di
recuperare la “romanità”, a dare unità all’Europa occidentale, un’unità spirituale, rimase il cristianesimo
romano. L’Europa proseguì nell'ideale di "societas christiana” della Chiesa di Roma, anche in considerazione
del fatto che l’Europa carolingia era proprio e solo l’Europa che riconosceva l’autorità della Chiesa romana,
contrapposta al mondo degli infedeli (islam), alle regioni pagane degli Slavi, alla grecità della Chiesa
ortodossa. 5 Giuseppe Testolin – EU

Le istituzioni civili: https://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/storia/?unita=01.02


Comitati e marche

Superata la fase di conquista del regno longobardo, emerse l'esigenza di dare un assetto amministrativo ai
territori di cui i franchi avevano assunto il controllo. Vennero così istituiti anche in Italia i comitati e le
marche, a capo dei quali furono preposti funzionari pubblici denominati rispettivamente conti e marchesi.
Questi rappresentanti in sede locale del potere centrale furono quasi sempre legati a Carlo Magno, e ai suoi
successori, da un rapporto di fedeltà vassallatica. Solitamente i comitati in Italia rispecchiarono l'antica
distrettuazione di impronta romana, che già aveva condizionato quella diocesana, mentre le marche furono
più estese, in quanto risultanti dall'insieme coordinato di più comitati situati in aree strategiche di frontiera
e di forte connotazione militare. I franchi non riuscirono però ad estendere l'istituto comitale a tutte le
regioni del regno italico. In Friuli, nella Tuscia, a Spoleto ad esempio sopravvissero le organizzazioni
amministrative dei ducati già longobardi, simili per estensione e funzioni alle marche. Conti e marchesi non
venivano retribuiti in denaro: in cambio del loro servizio e della loro lealtà essi ricevevano un appannaggio,
che inizialmente consisteva in terre, tratte per lo più dai patrimoni fiscali ed ecclesiastici. In un secondo
momento la stessa carica pubblica, l'«onore» comitale, dal momento che apportava numerosi vantaggi e
privilegi anche economici a chi la deteneva, venne essa stessa considerata alla stregua di un beneficio. I
pubblici ufficiali potevano infatti trattenere una parte dei proventi derivanti dall'esercizio delle loro funzioni
sotto forma di ammende, pedaggi, gabelle. Compito di questi funzionari era soprattutto mantenere la pace
e l'ordine, amministrare la giustizia, e arruolare i liberi atti a portare le armi. Il conte era assistito da ufficiali
inferiori, visconti e sculdasci, dagli scabini, esperti di diritto, e nelle assemblee giudiziarie anche dai boni
homines. Nei primi decenni del IX secolo l'operato di conti e marchesi venne sottoposto al controllo di
speciali inviati del potere centrale, i missi dominici, scelti fra i grandi del regno, che assunsero anche il
compito di farsi portavoci dell'autorità del sovrano, proclamando nei luoghi pubblici le nuove leggi (i
capitolari, così detti perché composti da molti capitoli) imperiali. I missi dominici agivano nei distretti
pubblici solitamente in coppia: un laico, spesso funzionario della corte imperiale, e un ecclesiastico, il
vescovo della diocesi coincidente con il comitato, a conferma della compenetrazione realizzata dai Carolingi
tra l'ordinamento ecclesiastico e quello del regno. Ricordiamo che non bisogna confondere i comitati con le
contee, o le marche con i marchesati. I termini non sono infatti sinonimi. Per marca e comitato si intende la
circoscrizione di origine carolingia i cui titolari avevano un rapporto di tipo funzionariale, più o meno intenso
a seconda dei periodi, con i sovrani, mentre nella contea e nel marchesato la storiografia aggiornata vede
quelle formazioni territoriali signorili, posteriori al secolo XI, che prescindevano dai confini delle
circoscrizioni pubbliche carolinge: nelle contee e nei marchesati il potere esercitato da conti e marchesi (che
non necessariamente discendevano da antiche famiglie comitali e marchionali) dipendeva ormai non tanto
dal rivestimento di un ufficio, quanto dal potere effettivamente esercitato sul territorio e sugli uomini, un
potere appunto signorile.

Le istituzioni religiose

Vescovi e politiche ecclesiastiche

Tratto distintivo della dominazione franca, sia nelle terre di origine sia in quelle di conquista, fu lo stretto
nesso instaurato fra il ceto dominante militare e il ceto ecclesiastico. Questo nesso, che permise ai tempi
dell'affermazione dei franchi nella Gallia romana (V-VI secolo) di operare una sinergia tra le forze
germaniche e quelle di origini e tradizioni latine, fu perpetuato in maniera feconda anche nell'età successiva
(VII-VIII secolo), quando lo stesso ceto ecclesiastico cominciò ad essere per lo più reclutato all'interno dei
ranghi dell'aristocrazia militare-fondiaria germanica. Anche vescovi e abati erano infatti tenuti al servitium
regis, il servizio a favore del re, che prevedeva un obbligatorio contributo militare. La protezione accordata
alle chiese del regno permise inoltre ai Pipinidi/Carolingi di sfruttare il patrimonio di queste a fini politici-
militari, concedendo alle proprie clientele le terre ecclesiastiche. A fondamento dell'affermazione dei
Carolingi stette dunque la commistione tra istituzioni religiose e ordinamento secolare: fondamentale in ciò
fu il legame che essi riuscirono a creare anche con la chiesa di Roma (che allora aveva solo un primato
d'onore su tutte le altre chiese) grazie a un'alleanza in funzione antimerovingia e antilongobarda. Dopo la
conquista carolingia, si estese alle terre longobarde il tradizionale connubio tra chiese potenti e potere
politico. Fin dall'inizio, infatti, i Carolingi concessero importanti privilegi, immunità giurisdizionali, beni e
proventi fiscali a chiese vescovili e ad abbazie, in particolare se collocate lungo importanti vie di
comunicazione terrestre e fluviale dell'Italia settentrionale, onde garantirsi - tra il resto - il loro appoggio
durante le spedizioni militari. Nel 781 Carlo Magno tenne a Mantova un'assemblea in occasione della quale
estese al regno italico una riforma approvata due anni prima a Heristal relativa all'assetto ecclesiastico e
amministrativo del dominio franco. In base a questa riforma, veniva confermata e rafforzata la suddivisione
del regno in province ecclesiastiche, rette da metropoliti, che avrebbero vigilato sulle gerarchie
ecclesiastiche, sulla corretta riscossione delle decime, sulla condotta dei fedeli, sul patrimonio di chiese e
monasteri. Il re assumeva dunque un ruolo centrale nel garantire la disciplina delle chiese e nell'assicurare
loro il controllo sui beni e sulla popolazione. Sebbene rimanesse in vigore l'antica norma canonica che
voleva l'elezione del vescovo da parte del popolo e del clero, i Carolingi intervennero pesantemente nella
scelta dei vescovi, imponendo ad esempio personaggi di origine franca a Novara e a Piacenza. Ciò non
escluse che tradizioni ed elementi italico-longobardi potessero mantenere il loro peso. Lo dimostra la
presenza di presuli di origini longobarde in sedi prestigiose, come Milano, Bergamo, Verona, Lucca, e lo
sviluppo del culto di s. Ambrogio a Milano durante l'episcopato di Angilberto II (824-859), pur di origini
transalpine. Il ricorso a prelati franchi, sulla fedeltà dei quali si poteva maggiormente contare, fu infatti con il
passare del tempo sempre meno necessario. Nell'Italia carolingia, mediatori tra la popolazione e i poteri
ufficiali furono dunque tanto i conti quanto i vescovi, spesso vicini ai re franchi per l'instaurazione di legami
vassallatico- beneficiari. Un capitolare, ovvero una legge, emanato da re Pipino stabilì che conti e vescovi
dovessero reciprocamente aiutarsi nell'espletare i propri compiti, agendo con «concordia ed affetto». I due
poteri, secolare ed ecclesiastico, avrebbero dovuto funzionare paralleli ma uniti da un comune progetto di
pace, giustizia, e salvezza religiosa. La crescente potenza politica dell'episcopato e il ruolo di chierici e
monaci colti presso i centri del potere secolare fece sì che vescovadi e abbaziati aprissero la via alla
promozione individuale e parentale. In età carolingia le principali sedi metropolitane del regnum Italiae,
escludendo Tuscia e Spoleto che avevano un status particolare, furono Milano, Aquileia, Grado (sorta nel VII
secolo in contrapposizione ad Aquileia). Ma fu Milano a premere per assicurarsi il primato della propria
sede arcivescovile nel contesto politico-ecclesiastico del regno, facendo in modo che vi fossero sepolti i re
d'Italia Pipino e Bernardo e l'imperatore Ludovico II, contendendo la salma di quest'ultimo al vescovo di
Brescia e traslandola solennemente in S. Ambrogio.

Pievi e decime

Fin dal V secolo prese avvio in Italia la territorializzazione delle strutture ecclesiastiche. Tale processo, che si
perfezionò in età carolingia, venne imperniato sulle pievi. Il termine pieve deriva dal latino plebs, ovvero
popolo, e infatti indica contemporaneamente sia la popolazione dei fedeli, sia la circoscrizione ecclesiastica
in cui i fedeli vivono, sia la chiesa che è perno di questa circoscrizione. Il clero plebano, che provvedeva alla
cura d'anime, all'amministrazione dei sacramenti, alla celebrazione delle messe, era composto da un
arciprete e da una comunità di presbiteri, diaconi e chierici a lui sottoposti. Le pievi erano distribuite nelle
città (dove vi era una pieve unica, costituita dalla cattedrale) e nelle campagne, ma è soprattutto in queste
ultime che assunsero un ruolo importante nell'organizzazione del territorio. Le pievi svolsero infatti un ruolo
importante nella penetrazione del cristianesimo fra le comunità di rustici, presso le quali sopravvisse a
lungo il paganesimo; incisero inoltre in maniera fondamentale nell'amalgamarsi delle strutture
ecclesiastiche alle maglie delle istituzioni rurali e degli assetti amministrativi civili. In età carolingia
l'organizzazione ecclesiastica del territorio si perfezionò con la gerarchizzazione delle chiese rurali: nacque la
figura giuridica della plebs cum capellis, dove la pieve era la chiesa matrice e le cappelle i centri minori
religiosi da questa dipendenti. La chiesa plebana si distingueva dunque dai semplici oratori che erano
spesso chiese private. I Carolingi furono molto attenti, almeno in Italia, a evitare che le pievi finissero in
mano ai laici, mantenendo il loro carettere pubblico e la soggezione al vescovo. Le pievi erano difatti
intermediarie tra le popolazioni locali e l'autorità vescovile. Nel regnum Langobardorum le pievi erano il
centro di raccolta delle decime. Così fu stabilito nel capitolare generale mantovano dell'813, che imponeva
inoltre l'obbligatorietà del loro pagamento. La decima era un'imposta, corrispondente a una quota del
raccolto e dei prodotti dell'allevamento indicativamente attestata sulla decima parte di questi, che le
popolazioni pagavano alla chiesa matrice. La tassa intendeva essere un compenso per le attività
sacramentali svolte dal clero plebano e, suddivisa in quattro quote così come voleva un'antica norma
canonica, veniva destinata al sostentamento dei chierici, alla manutenzione dell'edificio ecclesiastico rurale,
all'aiuto dei più deboli, e al sostegno della chiesa matrice diocesana, ovvero della cattedrale cittadina. Si
trattava di una fonte di reddito molto cospicua: di qui i tentativi dei fedeli di sottrarsi a tale obbligo, ma
soprattutto gli interessi anche da parte dei laici alla riscossione delle decime. A questa ingerenza laica si
tentò di porre rimedio: ad esempio, nell'898 re Lamberto vietò che le pievi e le loro decime fossero date in
beneficio a conti, a vassalli di vescovi o di altri signori laici. Il potere del vescovo sulle pievi, e quindi sul
territorio rurale, venne in linea di principio fatto salvo, anche se occorre osservare che si sottraevano alla
sua giurisdizione le comunità dei grandi monasteri, le loro chiese e le loro terre, qualora avessero ricevuto
privilegi di immunità come, nel caso lombardo, i grandi cenobi di S. Ambrogio di Milano, S. Giulia di Brescia,
S. Benedetto di Leno, S. Pietro in Ciel d'Oro di Pavia. Un ulteriore allentamento del controllo vescovile sulle
chiese rurali si determinò, in area lombarda, quando nel 983 l'arcivescovo milanese Landolfo II da Carcano,
in un momento critico per il suo episcopato, concesse in beneficio i proventi delle decime delle pievi, delle
chiese e degli ospedali ai milites, ovvero ai suoi vassalli, per garantirsi il loro sostegno. Tale disposizione fu
presto imitata dai vescovi di altre diocesi lombarde - Cremona, Bergamo, Brescia, Novara - comportando
l'indebolimento economico del clero rurale che si vedeva sottratto, a vantaggio delle clientele militari
vescovili, la principale fonte del proprio sostentamento. L'usurpazione delle decime da parte dei laici fu un
fenomeno difficile da arginare, nonostante gli interventi in merito presi durante la riforma della chiesa che
fu avviata nell'XI secolo.

Monasteri in età carolingia

Nei primi tempi della dominazione franca in Italia i monasteri, per la maggior parte di fondazione
longobarda, costituirono centri di resistenza al nuovo sistema di governo. Tale opposizione fu presto
superata con il massiccio ingresso nelle comunità monastiche di religiosi provenienti d'oltralpe. Monasteri e
chiese erano d'altronde il fulcro di una complessa e ambiziosa politica culturale di cui i Carolingi si fecero
promotori, destinata a creare quadri dirigenti e intellettuali preparati, a dotarsi di strumenti uniformatori e
di controllo delle terre imperiali, a suggellare l'allenza tra franchi e chiesa di Roma. Numerosi furono i
capitolari, le disposizioni di legge emanate dai sovrani carolingi con il concorso dei grandi del regno, circa la
disciplina interna di chiese e monasteri, e altrettanto frequenti furono le concessioni di immunità a difesa
delle prerogative di persone e cose ecclesiastiche: un modo per ricambiare l'azione di unitarietà culturale e
istituzionale che le strutture ecclesiastiche e monastiche offrivano. I Carolingi affidarono al visigoto
Benedetto d'Aniane la riforma della vita monastica, che in tutto l'impero si volle uniformare alla regola di s.
Benedetto da Norcia. Questa tensione all'omogeneità era importante. Dai maggiori monasteri europei
venivano tratti i principali collaboratori dell'imperatore, vescovi compresi. Al pari delle sedi episcopali,
anche i centri monastici corrisposero dunque a luoghi di preghiera, di cultura - tramite ad esempio
l'istituzione di scuole -, e di potere, per essere punto di riferimento di potenti gruppi parentali o comunque
per l'esercizio da parte della stessa comunità religiosa di una tendenziale egemonia economica e
giurisdizionale su città e campagne. Insieme alle chiese, i monasteri affollavano infatti gli spazi urbani e
rurali, divenendo elemento caratteristico del paesaggio. Nell'età carolingia i maggiori enti monastici
lombardi, grazie a lasciti, donazioni ma anche a oculate politiche di acquisti e permute, accumularono
ingenti patrimoni fondiari sparsi su tutto il territorio padano. Alla fine del IX secolo S. Giulia di Brescia
contava più di settanta curtes più altre venticinque proprietà non organizzate in forma bipartita distribuite
tra il Bresciano, il Cremonese, e il Pavese; su tali beni lavoravano più di 3400 persone impegnate in
produzioni spesso specializzate: grano nelle corti di pianura, olio nelle località del lago di Garda e vino nelle
aree pedemontane. Nel X secolo il monastero di S. Maria del Senatore di Pavia possedeva tredici corti, di cui
tre incastellate, tre villaggi, un porto, oltre a poteri pubblici e diritti fiscali. Tra X e XI secolo il monastero di S.
Benedetto di Leno accumulò dieci curtes, fra cui spiccavano quelle mantovane di Sabbioneta e Gonzaga e
quella bresciana di Gambara, oltre a terre sparse in una novantina di località dei comitati di Brescia, Reggio
e Modena. Esemplare anche il caso del monastero milanese di S. Ambrogio che nelle località di Cologno
Monzese, Quarto e Inzago attuò una politica di consolidamento fondiario - tramite acquisti e permute, ma
anche con la successiva costruzione di un castello - finalizzata a estendere il controllo non solo monastico
ma anche milanese nel contado di Monza. Detentori di estesi patrimoni fondiari, i monasteri lombardi
intervennero in maniera significativa nel grande processo di riconversione dell'incolto che la pianura padana
conobbe sin dal IX secolo. Il monastero di S. Silvestro di Nonantola fu tra i primi a intraprendere, tra Ostiglia
e la bassa veronese a nord del Po, una grande opera di colonizzazione delle aree incolte, guidando un
massiccio dissodamento che andò a scapito delle foreste e delle paludi che avevano fin a quel momento
caratterizzato il paesaggio della zona. Il patrimonio e il potere monastico si accrebbero considerevolmente,
e non solo per la disponibilità di nuove terre coltivate che garantivano rendite fondiarie più elevate. I lavori
e la successiva disponibilità di nuove terre attirarono infatti l'arrivo di nuovi coloni sui quali l'ente monastico
andò a esercitare anche diritti di natura signorile, ovvero di giurisdizione, coercizione, bassa giustizia.

https://www.comune.mantova.it/viacarolingia/progettonazionale.htm : sito carlo magno

Potrebbero piacerti anche