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INTERVISTE

Posted 23/06/2016 by Alessandro Aniballi, Daria Pomponio

INTERVISTA AD ADRIANO APRÀ


Critico, saggista, regista, attore, traduttore di Bazin e di Christian
Metz, direttore di festival ed ex conservatore della Cineteca
Nazionale: Adriano Aprà è una delle poche figure capaci di
attraversare tutto lo scibile del cinema. Lo abbiamo incontrato
per parlare con lui delle sue molteplici attività e di come veda la
critica cinematografica oggi.

In un film recente, L’età d’oro, lei appare nel ruolo di se


stesso e ha un feroce scambio di battute con l’assistente di
un ufficio stampa che la tratta con eccessiva familiarità. Si
riconosce in questo disgusto per il “circo mediatico” che
ruota attorno al cinema, e in questo personaggio?

Adriano Aprà: No, non mi riconosco in quel personaggio.


Anzi, poi con una bella ragazza come quella nella realtà
mi sarei comportato sicuramente in modo più morbido.
Ma è vero che per molti anni mi è capitato di percepire
quanto apparissi eccessivamente serioso ad un occhio
esterno, intimidente, cosa d’altronde che mi ha sempre
sorpreso perché io sono un timido. Forse superavo la mia
timidezza in maniera inconsciamente aggressiva. Quindi
il personaggio di L’età d’oro può assomigliare a come mi
vedono gli altri, ma non a come mi vedo io.

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Forse in L’età d’oro si vuole alludere, proprio in questo


personaggio di assistente dell’ufficio stampa, al filtro che, sul
modello americano, si frappone sempre più tra i critici e i
giornalisti e chi il cinema lo fa. Un aspetto che in passato
non c’era, almeno nel nostro cinema.

Adriano Aprà: Anche se ho scritto per diverse riviste di


cinema, io non ho mai fatto della critica professionale,
tranne forse per un certo periodo negli anni ’90. In ogni
caso i rapporti che ho avuto con i registi sono sempre
stati diretti, e questo non solo in Italia, anche all’estero.
Ad esempio alla fine degli anni ’70 ho lavorato negli Stati
Uniti e allora per me fu semplice intervistare i registi.
Telefonavo alla Directors Guild e loro mi davano i numeri
di telefono. Non ho mai avuto problemi forse perché per
l’appunto non appartenevo al “circo mediatico”, o magari
perché mi presentavo come un critico italiano, anzi, come
un critico che lavorava per un festival italiano, quello di
Pesaro. Quindi evidentemente erano ben disposti.
Ricordo di aver intervistato Sydney Pollack, John Milius,
Richard Brooks. L’unica volta che ho avuto un problema è
stato con Otto Preminger, che è stato molto scostante.
Evidentemente non era una buona giornata per lui, e così
dopo un po’ me ne andai. Ho intervistato anche Vincente
Minnelli, anche lui persona molto cordiale. L’ho
intervistato due volte, la seconda a Los Angeles a casa
sua. Fu per me memorabile poi l’intervista che feci a
Nicholas Ray. Era il 1961 e avevo appena 21 anni. A
quell’epoca lui era a Roma, forse aveva girato in Italia Il re
dei re, e gli feci una lunga intervista poi pubblicata su
Filmcritica e anche su una rivista inglese. Andai da lui la
mattina per intervistarlo e mi invitò a restare per il
pranzo, per poter continuare dopo. Bisogna però
considerare che questi registi americani allora in Italia
non erano considerati da nessuno ed erano sorpresi che
qualcuno volesse fare un’intervista seria con loro. Adesso
si è creato un mito intorno ai loro nomi, ma all’epoca non
era affatto così.

Erano proprio gli anni in cui questi registi venivano rivalutati


dai Cahiers du Cinéma.

Adriano Aprà: Esatto, e io infatti ero un “cahierista” della


prima ora, mentre in genere la critica italiana era molto
ostile al cinema americano, in parte per ragioni politiche.
Ma non succedeva solo da noi, ovviamente. E in generale
i registi statunitensi non erano abituati ad essere
intervistati da persone che conoscevano bene la loro
opera, parlo di un livello che non è certo quello del

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giornalismo. Nicholas Ray per esempio volle leggersi un


mio articolo su di lui prima di concedermi l’intervista.

Com’era la critica allora?

Adriano Aprà: Io non parlo della critica giornalistica,


dove abbiamo avuto anche ottimi recensori, nei nostri
quotidiani. Io frequentavo un ambiente un po’ diverso,
che era quello delle riviste di cinema e credo di aver
avuto un ruolo importante di svecchiamento in questo
ambito. Quando scrivevo negli anni ’60, prima per
Filmcritica e poi per Cinema & Film, c’era un terreno
vergine, era facile andare controcorrente e il tempo mi ha
dato ragione. Rivalutare, sull’onda dei Cahiers, da un lato
i cineasti del passato americani, dall’altro quelli italiani,
come Rossellini che in Italia non interessava più a
nessuno, rappresentava allora un atto di rottura. Per
Rossellini ad esempio, siamo stati io e miei collaboratori
a gettare per primi un faro sul suo cinema.

Come gli autori americani, Rossellini non interessava sempre


per ragioni politiche?

Adriano Aprà: Sì, anche politiche, nel senso che allora si


cercava il cinema “impegnato” e c’era l’influenza nefasta
di Cinema Nuovo. Io ero su posizioni opposte, anche se
quella è stata la prima rivista che ho letto. Avevo 16, 17
anni e come neofita la seguivo con interesse. Quando
però ho scoperto i Cahiers, nel 1959, si è illuminato per
me tutto un altro mondo, un altro modo di approcciare il
cinema. Quindi negli anni ’60 mi sentivo molto diverso
dal resto della critica in generale e credo di avere avuto
un’influenza su quello che è avvenuto dopo, perché i
valori che io e i miei colleghi portavamo avanti hanno
retto poi nel tempo. La lettura che davamo dei film era
allo stesso tempo razionale ed emotiva, mentre riviste
come Cinema Nuovo avevano un rapporto molto
distaccato. Noi avevamo principalmente una relazione
empatica con lo schermo e poi facevamo una
razionalizzazione, quindi un tentativo di leggere questi
film a partire dalle forme espressive. E questo interesse
per l’analisi del film mi ha portato in seguito a una deriva
teorica che si è manifestata nel tradurre in Italia Che
cos’è il cinema di André Bazin e La semiologia del
cinema di Christian Metz. Col tempo, in realtà, Metz mi
ha interessato meno, ma riconosco ancora oggi le ragioni
del mio interesse per la sua opera, che erano dettate
dalla necessità di arrivare a un’analisi scientifica del film,
cosa complicata all’epoca, perché bisogna considerare
che allora il film lo si vedeva una sola volta, in sala. Poi
certo lo si poteva vedere di nuovo, prendendo appunti,
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facendo schemi, ma era del tutto differente da com’è


oggi, che abbiamo i film disponibili nella nostra videoteca
in DVD per reiterate visioni. E questo nel tempo ha
portato a un’evoluzione nel mio modo di fare critica.

E ora com’è il suo approccio alla critica cinematografica?

Adriano Aprà: Proprio in questo periodo sto lavorando a


un saggio per una rassegna che si terrà ai primi di luglio
alla Mostra del Cinema di Pesaro, a proposito di quelli
che io chiamo “i critofilm”, ovvero i film o i video che
parlano di cinema. In questo saggio ripercorro il discorso
sulla critica cercando di guardare al suo futuro e non al
suo passato. Uno dei problemi centrali della critica è che
si è sempre servita di uno strumento non omologo
all’oggetto del suo discorso e cioè la parola scritta, o
anche orale. Per cui tu “alludi” a qualche cosa sperando
che nel lettore ci sia la memoria di quel film, ma è un
discorso allusivo e questo mi ha sempre dato fastidio.
Per questo mi interessava Metz, perché mi consentiva di
avere uno strumento di analisi della struttura, della
costruzione di un film, che però era sempre affidato alla
memoria. Era rara per esempio la possibilità di potersi
studiare un film in moviola. Una delle poche occasioni in
cui mi accadde fu proprio grazie a Rossellini che ci
permise di analizzare alla moviola Viaggio in Italia.
Mentre in anni più recenti, questa mia insoddisfazione a
proposito dello scrivere di cinema “alludendo” a qualcosa
d’altro mi ha portato a decidere di usare il cinema stesso
come strumento critico. Quindi la mia proposta per le
nuove generazioni, quella che porterò a Pesaro, è questa:
non dico di non scrivere più, ma di pensare con il cinema,
perché quello che era difficile in passato, oggi è possibile
grazie alle tecnologie digitali. Si può cioè fare critica
usando lo stesso linguaggio dell’opera che si vuole
analizzare. Io personalmente ho già realizzato alcuni
“critofilm”, uno su Rossellini, che si intitola Rossellini
visto da Rossellini, realizzato nel 1992, ancora in
pellicola. Poi nel 2010 ho fatto Circo Fellini su I clown di
Fellini, quindi nel 2011 All’ombra del Conformista sul
film di Bertolucci, mentre nel 2013 ho diretto sia La
verità della finzione su Il generale della Rovere di De
Sica, sia Rosso cenere sull’isola di Stromboli e sul film di
Rossellini con la Bergman. E devo dire che ho provato
molta più soddisfazione nel fare questi lavori di quanta
ne provassi nello scrivere di cinema. Ho anche un blog
che esiste da un paio d’anni [questo il link, n.d.r.], dove
ripubblico cose del passato, ma questo per l’appunto è il
passato.

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Quindi la sua proposta è che il critico diventi cineasta?

Adriano Aprà: Non cineasta, ma “videasta”. E


nell’occuparmi di questo argomento per il Festival di
Pesaro mi sono accorto che esiste un vasto materiale,
qualcosa come tremila titoli, che comprende non solo gli
extra dei DVD, ma va ben oltre. Questo vuol dire che c’è
un movimento internazionale che si può suddividere in
diversi sottogeneri – film su determinati film, su registi,
attori, generi etc. – e che costituisce un vero e proprio
filone della critica. E poi c’è un fiorire di opere brevi sul
web, che dimostra quanto sia pieno di gente che sta
facendo questo tipo di cose. C’è ad esempio un critico
americano che si chiama Tad Gallagher, che ha
approcciato questa forma di critica dapprima
cimentandosi con gli extra dei DVD e poi realizzando dei
veri e propri critofilm e, quando è stato intervistato in
proposito, ha dichiarato che tutto ciò che aveva fatto
prima – ovvero la critica scritta – non valeva niente.
Magari esagera un po’, ma è questo che vedo come il
futuro della critica. Poi ho fatto un’altra esperienza, molto
minoritaria nel campo internazionale, che è la critica che
io chiamo ipermediale, ovvero ho fatto un’analisi molto
approfondita al computer di Storia dell’ultimo
crisantemo (1939) di Kenji Mizoguchi. E in questo caso
non ho realizzato un film, bensì un sito, dove tu clicchi e
si aprono una serie di finestre con delle informazioni,
inquadratura per inquadratura [questo il link al sito,
n.d.r.]. Se io voglio sapere quali sono tutti i piani medi
che ci sono nel film, clicco e li posso visualizzare. Il
problema in questo caso è quello del diritto d’autore, ma
secondo me sarà superato. In tal senso, la soluzione
migliore è fare il singolo critofilm con l’avente diritto, vale
a dire l’editore del DVD, presentandolo come extra. Nel
caso di Mizoguchi, proprio perché lo mettevo on line, io
non ho di fatto citato il film, ma i fotogrammi del film.
Magari, anche se l’avessi citato, non avrei avuto problemi,
ma sarebbe stato comunque un rischio. E, dal momento
che lo facevo con l’università, con Tor Vergata, non la
potevo coinvolgere in un problema di diritti. D’altronde,
anche sul piano dell’insegnamento del cinema, credo che
si debba tener conto di queste nuove possibilità, tanto
che se oggi mi trovassi di nuovo a insegnare utilizzerei i
critofilm.

Perciò ha identificato dei codici che determinano se un film è


un critofilm oppure no?

Adriano Aprà: Sì, certo. Ad esempio in passato ho fatto


una trentina di interviste come extra dei DVD, e queste,

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anche se escono con brani del film montati dentro, non le


considero dei critofilm. Parlo piuttosto di film che
abbiano una consistenza critica, una forma saggistica.

Qual è la forma più pura di critofilm?

Adriano Aprà: Quella dell’analisi di un film. Si analizza un


film facendone vedere dei brani, accostandoli, mettendoli
a paragone. Quella del critofilm è una sezione della critica
minoritaria rispetto ai film sul cinema che esistono. È uno
dei tanti sottogeneri di questo mega-genere.

La serie di film di André Labarthe, che in parte abbiamo


potuto vedere nel 2004 proprio grazie a una retrospettiva del
Festival di Pesaro, può rientrare in questa categoria?

Adriano Aprà: Beh, in qualche modo Labarthe è stato


l’inventore del genere. In questa mia ricerca ho mappato
tutta la storia del cinema e dal muto fino ai primi anni
Sessanta c’è davvero molto poco. Il vero iniziatore è stato
nel 1965 André Labarthe, insieme a Janine Bazin, non a
caso provenienti entrambi dai Cahiers du Cinéma. Loro
hanno inventato la serie Cinéastes de notre temps che è
stata poi molto imitata, dove il modello era quello
dell’intervista filmata ai cineasti, prima che morissero.
Quindi ha creato una fondamentale enciclopedia del
cinema di persone che ormai non ci sono più. Anche se
con Labarthe non sempre siamo di fronte a quello che si
può chiamare propriamente un critofilm, perché i suoi
lavori sono dedicati a dei registi, più che a singoli film.
Nella rassegna di Pesaro comunque credo che si
vedranno delle cose molto interessanti. Ho dovuto fare
una selezione, naturalmente, come sempre si deve fare,
che nasconde tante altre gemme di cose realizzate. Ma
anche solo quelle che riesco a proiettare mi sembra che
diano un’immagine abbastanza definita del critofilm.
Perciò al giovane che viene da me e mi chiede: “Come si
fa a fare il critico?”, rispondo: “Vieni a vedere quello che si
fa nel mondo oggi e decidi tu quello che si deve fare”.
Secondo me si deve fare quello.

Come si coniuga però il critofilm con la critica militante?


Perché una delle parole chiave che ci interessava affrontare
con lei è proprio questa: la militanza. Ha ancora un senso
oggi? È ancora possibile farla? Pensiamo anche al percorso
che ha fatto lei nel corso degli anni, con il sostegno che ha
dato non solo a Rossellini, ma anche al cinema di Straub e
Huillet o all’underground.

Adriano Aprà: La critica cinematografica, partendo


diciamo dagli anni Cinquanta, cioè da quando si

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affermano i Cahiers du Cinéma, è stata una critica


militante nel senso che oggi si attribuisce alla critica
cinefila. Vale a dire il fatto di interessarsi a particolari
autori, essendo selettivi nei propri giudizi critici, anche se
antitetici rispetto alla critica precedente, in polemica. Si
intendeva in quel senso essere militanti. Questo
atteggiamento è degenerato col tempo, già a cominciare
dagli anni Settanta. Innanzitutto perché prima era una
posizione di pochi nel mondo, ci si conosceva, era come
una sezione carbonara, sapevamo che eravamo giovani
con idee diverse rispetto a quelle degli altri. Questa cosa
poi è degenerata nel senso che ora piace tutto il cinema e
quindi oggi la cinefilia mi fa schifo. Non c’è più capacità
selettiva, non c’è più gusto. Non c’è più l’esperto che
individua immediatamente, in mezzo alle tante cose che
si producono, ciò che vale veramente e ciò che non vale.
In questo senso io credo di essere rimasto tuttora un
critico militante. Poi è venuta una critica storica che si è
avvalsa della maggiore accessibilità dei film, perché sono
nati dei festival specializzati e perché le cineteche hanno
fatto un lavoro di riscoperta, anche se sempre per un
gruppo limitato di persone. Questi storici hanno
revisionato la storia del cinema con un atteggiamento
però non tanto centrato sul valore estetico delle opere,
che è quello che interessa a me, quanto sulla loro
collocazione nella storia. Uno sguardo più oggettivo che
soggettivo. E questa è stata comunque una fase
interessante di approccio al cinema. Poi, o quasi
contemporaneamente, è nato l’insegnamento
universitario del cinema, nei confronti del quale io sono
molto sospettoso. Non mi piace la critica accademica,
perché è diventata una critica di specialisti incapaci di
avere una visione generale della storia del cinema, o
anche solo dei cinema nazionali. C’è stata una prima
generazione di docenti che proveniva dalla critica, tipo
Micciché o Guido Aristarco. Ma una volta che è finita
questa generazione, perché sono morti, è venuta fuori la
generazione dei loro allievi, che ormai è diventata una
critica interna all’università. Parlo dell’Italia, non
dell’estero, che non conosco bene. In Italia sono tutte
persone specializzate. In che cosa? Nella loro tesi di
dottorato. Vale a dire che la riciclano continuamente. Non
sanno niente della storia del cinema, conoscono un
piccolo settore, e producono poco dal punto di vista delle
pubblicazioni. Una volta che hanno fatto la loro carriera,
si fermano. Fanno un libro per passare l’esame da
ricercatori ad associati, poi un libro per superare un altro
gradino. E ci sono degli editori specializzati nel pubblicare
le loro tesi. E quello che viene fuori sono libri da cui
emerge una critica arida. Lo dico ovviamente a partire dal
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mio punto di vista, sono un po’ settario adesso, lo


riconosco. In più c’è il problema della presenza di un
certo tipo di teoria rispetto alla pratica del cinema, cioè
discorsi che per me, che ho visto la nascita della vera
teoria del cinema negli anni Sessanta, non sono per nulla
interessanti. Non dimentichiamo che in Italia Guido
Aristarco ha pubblicato per primo negli anni Cinquanta
un’antologia di teorici del cinema, da Ejzenstejn a
Pudovkin, a Béla Balázs, e poi una storia delle teoriche
del film. Delle opere per me insoddisfacenti. Per cui negli
anni Sessanta c’è stato un nuovo tipo di ricerca, basato
sulla semiologia, sulla psicoanalisi, che dalla Francia è
arrivato in Italia, in Inghilterra, negli Stati Uniti. Adesso i
giovani sembrano ignari di quello che è stato fatto in
questo campo e giurano solo per la critica teorica di tipo
americano, che è una nuova forma di colonizzazione:
bisogna scrivere in inglese, perché è diventata la lingua
della critica accademica, e si sono fondate riviste fatte
solo per gli accademici. Ormai le valutazioni dei docenti
in Italia vengono fatte attraverso il tipo di pubblicazioni
che fanno. Se pubblichi qualcosa in una rivista in fascia A
– quella che loro dicono essere fascia A – va bene. Ma se
pubblichi in un’altra rivista, magari più diffusa, ma non
riconosciuta dal corpo accademico, non va bene. Hanno
formato una cittadella chiusa in se stessa che si
manifesta nella CUC, cioè la Consulta Universitaria del
Cinema, una banda mafiosa. Se vuoi passare
all’università, o passi attraverso di loro o non passi. Io
sono passato all’università – credo fosse il 2002 – grazie a
una raccomandazione. L’unica volta in vita mia che sono
passato attraverso una raccomandazione, grazie a
Micciché che era allora il capo della CUC, quando ancora
non era una banda mafiosa. E l’ho sempre dichiarato che
ero stato raccomandato, sennò non passavo.

Ma chi sono questi maestri anglosassoni, David Bordwell?

Adriano Aprà: Sì, lui è uno. Uno di quelli meritevoli. È


un’autorità internazionale e un conoscitore del cinema
veramente notevole, basta vedere il suo blog e i libri che
ha scritto. Io lo stimo molto. Però è uno che ha una
visione universale del cinema, mentre questi che
alludono a persone come Bordwell non ce l’hanno.

Questo discorso accademico in qualche modo si riversa


anche nella critica cinematografica tout court, che infatti
non riesce più ad essere influente come lo era prima. E che,
forse, sembra sempre più chiusa in se stessa, oppure – al
contrario – aperta in modo a-critico rispetto a ciò che
succede nel cinema.

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Adriano Aprà: Sì, non è che seguo benissimo il campo.


Sfoglio, tra l’altro sul computer ormai, Cineforum, che è
una rivista interessante, ma anche lì un po’ troppo
generalista, vale a dire che non sono riviste che
selezionano. Faccio parte del comitato direttivo di
Cabiria, che per esempio non è considerata una rivista di
fascia A.

Ah no?

Adriano Aprà: No, per nulla. Ogni tanto poi mi capita di


buttare un occhio su Segnocinema, altra rivista non di
fascia A, ma di larga diffusione. Questa è la
contraddizione di cui parlavo. Quando sono entrato a Tor
Vergata, dal punto di vista universitario, il mio curriculum
era ai limiti dell’accettabile. Io ho curato centinaia di libri,
alcuni fondamentali, tipo Bazin e Metz, adottati
continuamente nelle università e ancora in circolazione.
Ma non avevo scritto libri, o meglio ne avevo due o tre,
ma forse neppure. Ho scritto migliaia di articoli, però. Ho
fatto dei film, anche uno di finzione. Insomma ho una
carriera che, modestamente, è notevole. Però dal punto
di vista universitario era fragile. Per cui uno che pubblica
un libro vale più di uno che ha scritto migliaia di articoli,
per non parlare dell’esperienza con il cinema. Quando
parlo di cinema infatti, ne parlo anche dall’interno della
professione, di come si fa un film. Mentre loro ignorano
tutto, non sono mai stati su un set, non hanno mai
parlato con un regista. Parlando con Francesco Casetti,
che ha presieduto la CUC, avevo paragonato la loro
associazione ai matrimoni tra cugini. Ma ormai sono
matrimoni tra fratelli, ne escono fuori dei mostri. Se
l’accademia non accetta un sangue nuovo che viene da
fuori, dall’esterno del loro mondo, beh, secondo me il suo
futuro è quello, non dico della morte, ma di qualcosa che
non vale niente.

Un tempo si criticava tanto il sistema dei baroni. Ora non ci


sono più, ma forse è peggio. Perché prima quei baroni
trovavano il modo – magari per l’appunto tramite
raccomandazione – per dare spazio ai loro studenti
meritevoli anche fuori dall’università. Ora invece chi fa, ad
esempio, il dottorato, o prosegue con la carriera
universitaria o se ne torna a casa.

Adriano Aprà: I baroni innanzitutto erano più


competenti. Certo, erano pochi e avevano più potere.
Casetti è un barone, ma tanto ormai insegna in America
per l’appunto. Quando io sono entrato all’università, e
quindi per la prima volta sono andato a un convegno
della CUC, non conoscevo nessuno. Questa gente è
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sconosciuta all’esterno dell’università. La maggior parte,


non dico tutti, intendiamoci. Sono dei perfetti sconosciuti
e tali rimangono, solo fra di loro hanno intrecciato dei
rapporti. Però basta parlare della critica accademica, che
è un argomento che mi disgusta.

Ok, parliamo di festival. Lei ha diretto la Mostra


Internazionale del Cinema di Pesaro dal ’90 al ’98, e prima il
Festival di Salsomaggiore dal ’77 all’89. Frequenta ancora i
festival? Crede di trovarvi ancora un senso, vista la sempre
maggiore possibilità di reperire i film in altri modi? Forse si
trova ancora un senso nella possibilità di incontrarsi in
queste pubbliche occasioni?

Adriano Aprà: Un po’ per stanchezza, non vado più ai


festival. E vado poco anche al cinema. Ho 76 anni e non
sono pochi. Mi sembra invece più interessante scoprire
dei campi nuovi, come questo dei critofilm. Certo, i film li
vedo, ma di solito aspetto che escano in DVD, quindi
sono aggiornato, anche se un po’ in differita. Uno dei
motivi per cui non vado più a Venezia o a Cannes è che
mi sembrano delle macchine talmente grosse che poi è
difficile incontrarsi. Preferisco i piccoli festival. Pesaro ad
esempio che, con la gestione attuale di Pedro Armocida,
è organizzato in modo da facilitare l’incontro, perché ci
sono pochi film, anche per ragioni di budget. La mattina
si fanno dei seminari dove gli ospiti si incontrano e,
subito dopo, si mangia tutti insieme, si parla, si
condividono idee e opinioni; poi nel pomeriggio e alla
sera ci sono le proiezioni. Ci sono stato lo scorso anno e
ho trovato che sia un festival dove non solo si vedono dei
bei film, ma dove c’è anche uno scambio proficuo, cosa
che non avviene in un grande festival. Prima frequentavo
il festival di Morandini che ora non c’è più, il Laura Film
Festival, che era piccolo ma piacevolissimo, si andava al
mare, si mangiava assieme ci si incontrava e si vedevano
film italiani. Quindi ci si poteva aggiornare su quello che
era il cinema italiano, problema sempre più pressante
perché il nostro cinema è vitalissimo, ma lo è ai margini.
L’anno scorso ad esempio ho visto a Pesaro quello che,
secondo me, è un capolavoro che si chiama Terra di
Antonio Di Trapani e Marco De Angelis, due ex studenti di
Roma Tre. È un film bellissimo, originalissimo. Poi,
sempre a Pesaro, ho visto N-capace di Eleonora Danco,
anche quello molto bello. Ecco, lì ci vuole la critica
militante, per dare visibilità a questo cinema italiano. E
infatti molti oggi, invece di fare i critici, fanno gli
organizzatori culturali, come ad esempio succede
all’Apollo 11, in cui lavora alla programmazione Giacomo
Ravesi, altro ex studente di Roma Tre, e in particolare di

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mia moglie, Stefania Parigi, che insegna proprio alla Terza


Università. Ci sono poi altri due ex studenti che conosco e
che fanno la stessa cosa in Francia. Non so tra l’altro
come facciano a campare, perché è sempre dura riuscire
a guadagnare qualcosa da queste iniziative. Uno è
Federico Rossin, l’altro – che vive a Lione – è Dario
Marchiori. Sono molto bravi, si muovono a livello
internazionale e non scrivono. Cioè, se glielo chiedo io, lo
fanno – gratuitamente – e comunque fanno un tipo di
critica completamente diversa. Come, del resto, in
passato ho fatto anch’io. Quando negli anni ’70 ho chiuso
la rivista che avevo fondato, Cinema & Film, ho scritto
molto poco; dicevo però che facevo critica facendo la
programmazione del Filmstudio, mostrando delle cose
che altrimenti allora erano invisibili. Tra l’altro all’epoca il
Filmstudio era l’unico cineclub ad essere aperto tutti i
giorni, gli altri facevano un film alla settimana. E dicevo
sempre che chi veniva al Filmstudio vedeva in un anno i
film che io avevo impiegato dieci anni a vedere.
Comunque nel giovane cinema italiano c’è molto da
scoprire e, in generale, c’è una tale produzione nel
mondo che, se uno vuole fare la critica militante, la può
fare, anche se magari non ai livelli di un tempo. E poi c’è il
cinema documentario che è anch’esso un sottobosco
estremamente interessante. Da lì ho pescato molto
quando dirigevo Pesaro, perché avevo preso alla lettera il
nome della manifestazione di “Mostra del Nuovo Cinema”
e per me in quel momento “il nuovo” stava nella non
fiction. Inoltre, c’è tutto il mondo del cinema sperimentale
che è un altro campo sconosciuto dove c’è una ‘talpa’
come Federico Rossin che fa un lavoro utile e diverso dal
solito e non a caso vive a Parigi, dove oggi c’è l’unica
struttura seria sul cinema sperimentale che è il Light
Cone, e una casa di DVD sperimentali che si chiama
Re:voir. Poi c’è Simone Starace che è un mio ex studente,
e anche lui ha aperto una società che distribuisce DVD di
film invisibili. Mi chiedo però come facciano a campare,
mi pongo sempre questo problema perché, quando io
facevo quello che loro fanno adesso, avevo anche un
altro lavoro che mi serviva per sopravvivere.

E che lavoro faceva?

Adriano Aprà: Insegnavo agli studenti di ragioneria a


utilizzare macchine contabili e calcolatrici,
sostanzialmente gli antenati degli odierni computer. Ma
allora erano delle complicate macchine della Olivetti. Non
ho campato mai della critica, perché neanche allora ci si
poteva campare. Quando sono stato direttore della
Cineteca Nazionale è stato l’unico periodo in cui ho

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13/8/23, 20:11 Intervista ad Adriano Aprà | Quinlan.it

guadagnato, dal mio punto di vista, bene. Ma io sono uno


che ha bisogno di poche cose.

E come sono stati quegli anni, dal ’98 al 2002, alla Cineteca
Nazionale? Come è stato il rapporto con Micciché? Quali
sono le cose che siete riusciti a fare?

Adriano Aprà: È andata molto bene. Abbiamo fatto un


sacco di cose. Abbiamo ridato vita a una cineteca che era
semi-morta.

Chi c’era prima?

Adriano Aprà: Prima c’era il facente funzione, Angelo


Libertini, che poi è diventato il direttore generale.
Persona odiosa. Raramente ho degli antagonismi nei
confronti delle persone, sono molto tollerante, ma
questo metteva sempre i bastoni tra le ruote. Poi era
anche una figura un po’ losca, secondo me. È rimasto
come direttore generale quando Micciché è stato
chiamato a dirigere il Centro Sperimentale, mentre io
facevo il conservatore. Ma in ogni caso siamo riusciti a
fare molti restauri. Poi, dopo questo periodo, la Cineteca
Nazionale è entrata un po’ nell’ombra, penso in
particolare a confronto con la Cineteca di Bologna. Ai
miei tempi Bologna era un’ottima cineteca, erano molto
bravi, ma avevano un’importanza che non era
paragonabile a quella della Cineteca Nazionale. Oggi è
diverso.

Loro sono riusciti a fare enormi passi in avanti anche grazie


al loro laboratorio di restauro, L’immagine ritrovata.

Adriano Aprà: Sì, ma non solo. Grazie anche al festival, a


varie iniziative, alle pubblicazioni. Io li ammiro per
questo. È una macchina grossa che funziona. A volte
diventare grossi può essere pericoloso, perché magari
non riesci a reggere tutto l’ingranaggio. Invece lì è pieno
di gente giovane, ben scelta, dinamica e competente.

Visto che siamo quasi in argomento cosa ne pensa della


querelle tra il digitale e la pellicola? Siamo di fronte a un
passaggio epocale, a proposito del quale si parla sempre
troppo poco.

Adriano Aprà: È un passaggio epocale perché riguarda


tanti campi, dalla proiezione, alla ripresa, al restauro.
Quando ero in cineteca e c’erano gli incontri della FIAF, ho
assistito all’inizio della diatriba digitale sì, digitale no. La
maggior parte degli archivi erano contrari, io invece ero
favorevole. Anche perché sapevo che costava talmente
tanto restaurare in pellicola, che per ogni restauro eri
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13/8/23, 20:11 Intervista ad Adriano Aprà | Quinlan.it

costretto a mandare a morte tanti altri film. All’epoca il


restauro digitale in 2K di cui ho visto le prime
manifestazioni costava molto, però io dicevo: quando si
diffonderà, queste macchine costeranno sempre meno, e
così è stato. Oggi qualche sopravvissuto che giura sulla
pellicola c’è ancora, ma rimane un fatto: non si proietta
più in pellicola, tranne rare eccezioni.

Recentemente però al Palazzo delle Esposizioni c’è stata una


retrospettiva su Kieśloswki. E le copie erano quasi tutte in
pellicola e non erano restaurate. Nel senso che erano copie
d’epoca, la maggior parte in ottimo stato. Perciò, è sempre
necessario restaurare, oppure spesso è un’operazione di
marketing? Pensiamo ad esempio ai tanti restauri di un solo
film, come Il gattopardo.

Adriano Aprà: Certo, a volte si restaura inutilmente solo


perché ci sono gli sponsor che puntano sul film famoso
che non ha bisogno di restauro perché è stato già
restaurato. Questo è un fenomeno inevitabile. È come
fare un film commerciale per guadagnare dei soldi. Poi
però se ne fanno tanti altri di diversa natura. Capisco
inoltre che c’è differenza tra un restauro in digitale e un
restauro in pellicola, e tra una proiezione in digitale e una
in pellicola. Capisco che uno possa sempre dire: la
pellicola è meglio. O che si possa tirare fuori l’argomento
che la pellicola non infiammabile si conserva molto di più
del digitale. Ma ancora non lo sappiamo con esattezza.

In realtà lo sappiamo. Ci sono già diversi casi di digitale che


sono spariti, come quello quello che ci ha raccontato Cherchi
Usai per Toy story [vedere qui per l’intervista a Cherchi Usai,
n.d.r.].

Adriano Aprà: Ah beh. No, io non lo so. Perché è un


argomento che al momento non mi riguarda più. Però
questa cosa è già successa anche in altri campi. Per
esempio cos’era la critica pittorica prima dell’invenzione
della fotografia? Bisognava andare nei luoghi in cui c’era
quell’opera, vederla con i propri occhi e già non più nelle
condizioni originali. Non solo per il degrado inevitabile
dell’opera in questione, nonostante i restauri nel tempo,
ma soprattutto per la presenza della luce elettrica invece
della luce naturale o a candela con cui quei quadri erano
stati concepiti dal Trecento al Settecento. Poi
nell’Ottocento arriva, tardi, la luce elettrica, e tu oggi un
quadro lo vedi alla luce elettrica. Questo cambia
completamente il rapporto dei colori. E allora, che fare?
Vogliamo tornare a fare un museo a candela? E la
musica? Meglio quella dal vivo o quella registrata? Certo,
continua a esserci la musica dal vivo, così come
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13/8/23, 20:11 Intervista ad Adriano Aprà | Quinlan.it

continuano a esserci la sale, poche, in cui si proietta in


pellicola.

Cosa ne pensa dell’iniziativa di Cherchi Usai del Nitrate


Picture Show?

Adriano Aprà: Beh, è molto affascinante. Però, anche lì, è


una cosa di tipo nostalgico. E poi i film in nitrato venivano
proiettati con la luce a carbone. Lo so perché al
Filmstudio all’inizio avevamo un proiettore con la luce a
carbone e me lo ricordo bene com’era. Bisognerebbe
quindi proiettare i film a nitrato con la luce a carbone. Ma
la luce a carbone è pericolosissima, perché gli incendi
avvengono in maniera spontanea. Quando è stata
inventata nel 1952 la pellicola safety, negli stessi anni è
arrivata anche la luce allo xeno che invece è una lampada
chiusa, protetta. Mentre i carboni non sono chiusi:
avvicinandosi e consumandosi, producono delle scintille.
Ma proiettare il nitrato con la luce allo xeno non è la cosa
ottimale per ricreare il clima di un’epoca. E son
sicuro che, quando ho diretto il Filmstudio nei primi anni
Settanta, abbiamo anche proiettato a carbone delle copie
a nitrato, probabilmente rischiando molto. Perché allora
non si sapeva. Non è che su una pellicola c’era scritto che
era un nitrato. Prendevamo i film dove si trovavano,
vecchie copie, quindi probabilmente anche in nitrato.
Beh, epoca eroica.

A proposito di epoche eroiche, Ciro Giorgini ci raccontava


che lui a volte con altri amici andava fuori dagli stabilimenti
dove buttavano le copie per mandarle al macero. Così le
salvava. Ora, ipotizzziamo un futuro fantascientifico in cui
tutto l’archivio della Cineteca Nazionale venga conservato su
un hard-disk o su un archivio satellitare. Cosa succederebbe
se intervenisse un hacker? Sparirebbe tutto con un solo click?
Invece le copie in 35mm le si trovavano e si continuano a
trovare nei posti più impensati. Pensiamo ad esempio alla
scorsa edizione delle Giornate del Cinema Muto, quando è
stato presentato un film giapponese, A Diary of Chuji’s
Travels, creduto perduto per decenni e poi ritrovato
recentemente a Hiroshima. Probabilmente è sopravvissuto
all’atomica! Un DCP invece il più delle volte basta che cada a
terra per rompersi.

Adriano Aprà: Possibile. Immagino che si facciano dei


backup, ma magari non basta. Non saprei. Comunque
ormai non frequento più né le Giornate del Cinema Muto
né Il cinema ritrovato, che erano i miei festival preferiti,
anche perché non dico di aver visto tutto, ma comunque
mi ritrovo molto spesso a rivedere film che ho già visto.

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Certo, è piacevole vederli su grande schermo, ma ormai


ce li ho a casa.

Tornando invece al Filmstudio, attualmente chiuso,


vorremmo affrontare l’argomento cineclub, anch’essi ormai
superati dai tempi. Ma questo non significa che il fatto di
organizzare retrospettive di film del passato, di grandi autori
e/o di grandi classici, non abbia successo. Lo vediamo al
Palazzo delle Esposizioni che è quasi sempre pieno. E che
però è un ente pubblico, al contrario dei cineclub.

Adriano Aprà: In genere le retrospettive non le fanno più


perché costa, costa proiettare in pellicola, e anche in
digitale. Comprarsi un proiettore in 4K non è cosa da
poco. E poi quella stagione si è chiusa perché manca la
sollecitazione ad andare, i film li possiamo vedere a casa.
Bisogna essere giovani, come voi, oppure ricercare
quell’ambiente socializzato, che è di certo importante.

Ma c’è stato un film che le ha cambiato la vita, che ha


segnato la sua formazione?

Adriano Aprà: Sì, è stato Vertigo (La donna che visse


due volte). Ricordo che lo vidi al Cinema Colosseo qui a
Roma. Avevo diciannove anni e al momento l’ho
considerato come il film più bello che avessi mai visto.
Era come se fosse caduto dal cielo. Tra l’altro lo vidi che
era quasi il mio compleanno, giorno più giorno meno, e
anche quello mi sembrò un segno del destino. Andai
subito a rivederlo il giorno dopo e presi tantissimi
appunti. Vertigo ha cambiato il mio modo di riflettere sul
cinema. Ancora adesso da qualche parte ho un quaderno
con l’analisi praticamente sequenza per sequenza che
feci allora. Per anni infatti ho riempito dei quaderni con
delle note di critica.

Ma poi quegli appunti che prendeva a caldo le erano utili?


Questo è un po’ il cruccio del critico: prendere degli appunti
sul momento, magari anche durante la proiezione, e poi
considerarli a mente fredda poco interessanti.

Adriano Aprà: Gli appunti mi sono stati utili soprattutto


negli anni ’90, l’unico periodo in cui ho scritto
settimanalmente per due testate, quindi era necessario
che fossi rapido. Scrivevo per l’Avanti prima del suo crollo
definitivo e per un mensile, Reset, che non so se esiste
ancora. Su Reset facevo delle schede molto brevi e quindi
gli appunti che prendevo in proiezione erano molto utili,
perché li trascrivevo quasi integralmente. Comunque poi
ognuno ha i suoi metodi. Spesso però scrivevo a caldo,

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appena visti i film. Scrivere d’altronde serve anche a


memorizzare, accende la memoria.

Infatti non riusciamo a immaginare un futuro in cui la critica


scritta perda del tutto il suo senso. Un senso che magari sarà
completamente autoreferenziale e che però abbia un valore
di crescita, soprattutto per chi la fa, la scrive, perché aiuta a
riflettere sui film.

Adriano Aprà: In generale secondo me la critica scritta


ha un valore se ha un valore letterario, se è buona
letteratura. Esiste ad esempio la saggistica letteraria, nel
senso che ci sono dei saggisti che sono considerati degli
scrittori. Ma a quanti critici cinematografici nel mondo
dedicano un Meridiano come è successo per un critico
d’arte come Roberto Longhi? Quando stavo a Cinema &
Film, nella seconda metà degli anni ’60, mi sono posto
proprio il problema di elaborare una “critica poetica”,
mentre quando stavo a Filmcritica la mia era una
scrittura didascalica: volevo spiegare perché un film era
bello. Ci sono dei saggi che ho raccolto in questo libro,
Per non morire hollywoodiani. Notizie dal cinema di
fine millennio, che oggi li trovo imbarazzanti perché
presuppongono un lettore che abbia davanti agli occhi il
film, sono densi di dettagli come “nell’inquadratura tal dei
tali si vede questa cosa qui… o quel movimento di
macchina lì”. Invece all’epoca di Cinema & Film mi sono
posto il problema di fare una critica che avesse un valore
di scrittura, poi ho cambiato ulteriormente, e adesso ho
conquistato la chiarezza e forse l’essenzialità, la capacità
di esprimere un pensiero con poche parole chiare, senza
allusioni. Negli ultimi anni ho praticamente smesso di
scrivere, ma ho anche elaborato questo stile che viene
dopo il giovanilismo sia della critica troppo oggettiva che
di quella troppo soggettiva. Alla fine ho trovato una via di
mezzo che considero migliore.

Info
Il sito della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.
Il blog di Adriano Aprà.

Alessandro Aniballi, Daria Pomponio


23/06/2016

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2013 ricopre il ruolo di
Conservatore della Cineteca
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