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Padraic Colum

Il viaggio infinito
del Principe Irlandese
Traduzione di Gabriella Zavan e Ferruccio Mazzariol

SANTI QUARANTA
Il Figlio del Re d'Irlanda inizia il suo viaggio
incontrando “un vecchio ingrigito”, che è poi
l'Incantatore delle Terre Nere Remote, il padre della
bella e dolce Fedelma di cui il Principe Irlandese
s'innamora. Fedelma gli viene, però, sottratta dal truce
Re della Terra di Bruma che la conduce prigioniera al
suo Castello. Il Principe Irlandese, per ritrovarla,
s'inoltra in un mondo fantastico pervaso dalla magia dei
miti celtici con le loro divinità, gli eroi, gli esseri fatati,
gli uomini comuni.
Il viaggio infinito del Principe Irlandese è un universo
di avventure interminabili, di incantesimi, di colpi di
scena, popolato di creature tenere e sagge, o crudeli e
deformi; di donne veggenti, di streghe maligne, di
folletti bizzarri, di animali parlanti. L'elemento magico
penetra con forza, ma non è mai eccessivo; c'è anzi, nel
libro, una levità che rasserena. Il Principe Irlandese,
dopo aver superato numerose prove, ingaggerà una
gigantesca battaglia con il mostruoso Re della Terra di
Bruma, uccidendolo con la Spada di Luce e liberando
Fedelma che sarà sua sposa. Il viaggio infinito, con altri
'viaggi' paralleli come quello di Gilly dalla Pelle di
Capra, coinvolge il lettore secondo diversi registri: la
leggenda e il mito, l'umorismo e la quotidianità; l'epica
che tende al trionfo del bene. Si tratta di un viaggio
reale, ma anche metaforico e iniziatico che matura il
Principe, nel quale è soprattutto l'Irlanda, paese simbolo
dell'anima, a risplendere nella sua incantata e forte
bellezza.
Padraic Colum ha reinterpretato con questo affascinante
Viaggio infinito una storia conosciuta del folclore
irlandese seguendo i ritmi narrati del racconto orale che
si fa, a suo modo, romanzo cavalleresco. Lo scrittore
irlandese ha preceduto il grande Tolkien e La storia
infinita di Ende.
Titolo originale:

The King of Ireland's Son

Floris Books, Edinburgh, 2000

1ª edizione -marzo 2003


2Aedizione -dicembre 2006

Proprietà letteraria riservata

(C) 2006 Editrice SANTI QUARANTA


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FEDELMA, LA FIGLIA DELL'INCANTATORE

Connal era il nome del Re che governava sull'Irlanda a quel tempo. Aveva tre figli e, come
crescono gli abeti, alcuni curvi e alcuni diritti, uno di loro crebbe così selvaggio che alla fine
il Re e il Consigliere del Re dovettero lasciarlo fare a modo suo in ogni cosa. Questo giovane
era il maggiore dei figli del Re e sua madre era morta prima di poter essere una guida per lui.
Ora, dopo che il Re e il Consigliere del Re lo lasciarono al suo destino, il giovane di cui vi sto
raccontando non faceva altro che cavalcare e cacciare per tutto il giorno. Così, un mattino
cavalcò lontano:

Segugio al passo,
Falco al polso;
Un coraggioso destriero per condurlo
Ovunque desiderasse andare,
E il cielo blu sopra di lui,

e cavalcò finché giunse ad una svolta. Qui vide un vecchio ingrigito seduto su di un cumulo di
pietre, che giocava a carte da solo. Prima vinceva con una mano, poi vinceva con l'altra. Ora
diceva: “Questa è la mia buona destra” e dopo diceva: “Gioca e battila, valorosa mia sinistra”.
Il Figlio del Re d'Irlanda sedeva in groppa al suo cavallo ed osservava lo strano vecchio, e
mentre lo guardava, cantava tra sé un canto:

Ritirai le ancore nella mia barca


Per un anno e per un giorno
E andai dove crescono i sorbi
E dove la gallinella d'acqua si posa;

E andai sui passatoi


E immersi i piedi nel guado
E giunsi infine alla casa del Guardiano di porci
Il Giovane senza una Spada.

Una rondine cantò dal suo portico:


“Glu-ee, glu-ee, glu-ee”
“Com'è meraviglioso girovagare
Oh lo splendore del mare!”
Una rondine sul punto di prendere il volo cantò:
“Glu-ee, glu-ee, glu-ee.”

“Principe,” disse il vecchio guardando in su verso di lui, “se sei capace di giocare una partita
così bene come sai cantare, mi piacerebbe che tu ti sedessi accanto a me.”
“Io conosco qualsiasi gioco” disse il Figlio del Re d'Irlanda. Legò il cavallo al ramo di un
albero e si sedette accanto al vecchio sul cumulo di pietre.
“Cosa ci giochiamo?” chiese il vecchio ingrigito. “Qualsiasi cosa ti piaccia” rispose il Figlio
del Re d'Irlanda. “Se vinco io, tu devi darmi qualsiasi cosa io chieda e se vinci tu, ti darò
qualsiasi cosa tu chiederai. Sei d'accordo?”
“Se è gradito a te, è gradito anche a me” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
Giocarono e il Figlio del Re d'Irlanda vinse la partita.
“E ora cosa desideri che ti dia, Figlio del Re?” chiese il vecchio ingrigito.
“Non ti chiederò nulla,” rispose il Figlio del Re d'Irlanda, “perché penso che tu non abbia
molto da dare.”
“Non darti pensiero,” disse il vecchio ingrigito, “io non posso venir meno alla mia promessa e
tu devi chiedermi qualcosa.”
“Molto bene” disse il Figlio del Re. “C'è un campo dietro al Castello di mio padre ed io
voglio vederlo pieno di bestiame domani mattina. Puoi far questo per me?”
“Posso” disse il vecchio ingrigito.
“Voglio cinquanta mucche, tutte bianche con un orecchio rosso, e un vitello bianco che
cammini a fianco di ogni mucca.”
“Il bestiame sarà come tu desideri.”
“Bene, se manterrai quanto prometti, la scommessa sarà stata onorata” disse il Figlio del Re
d'Irlanda. Salì sul suo cavallo, sorridendo di quello sciocco vecchio che giocava a carte da
solo e che pensava di poter radunare cinquanta mucche bianche, ciascuna con un orecchio
rosso, e un vitello bianco a fianco di ciascuna mucca. Si allontanò cavalcando:

Segugio al passo,
Falco al polso;
Un coraggioso destriero per condurlo
Ovunque desiderasse andare,
E la terra verde sotto di lui,
e non pensò più al vecchio ingrigito.

Ma al mattino, mentre conduceva il suo cavallo fuori dalla stalla, udì i palafrenieri
chiacchierare di un strano avvenimento.
Art, il Maggiordomo del Re, era uscito e aveva trovato il campo dietro al Castello pieno di
bestiame. C'erano là cinquanta mucche bianche dal rosso orecchio e ciascuna mucca aveva un
vitello bianco vicino a sé. Il Re aveva ordinato ad Art, il suo Maggiordomo, di condurle via. Il
Figlio del Re d'Irlanda osservava Art e i suoi uomini che cercavano di farlo. Ma non appena
lo strano bestiame era spinto fuori da un lato del campo, ritornava dall'altro. Allora scese
Maravaun, il Consigliere del Re.
Proclamò che era bestiame fatato, e che nessuno sul suolo d'Irlanda poteva mandarlo via. Così
il bestiame restò in quel campo di sette acri.
Quando il Figlio del Re d'Irlanda vide ciò che il vecchio giocatore era in grado fare, cavalcò
diritto verso la valle per provare a giocare un'altra partita con lui. Là, alla svolta della strada,
sul cumulo di pietre, il vecchio ingrigito era seduto a giocare una partita a carte, la mano
destra contro la sinistra. Il Figlio del Re d'Irlanda legò il suo cavallo al ramo di un albero e
scese.
“Ritieni sia stata onorata la scommessa di ieri?” chiese il vecchio ingrigito.
“Sì” rispose il Figlio del Re d'Irlanda.
“Allora facciamo un'altra partita a carte con lo stesso patto?” chiese il vecchio ingrigito.
“Va bene, se tu sei d'accordo” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
Si sedette sotto il cespuglio vicino a lui e giocarono di nuovo. Il Figlio del Re d'Irlanda vinse.
“Cosa ti piacerebbe che io facessi per te, questa volta?” chiese il vecchio ingrigito.
Il Figlio del Re aveva una matrigna, che era spesso di cattivo umore, e quella stessa mattina si
erano infastiditi l'un l'altro. Così fece questa richiesta: “Desidero che un orso bruno, con un
tizzone ardente in bocca, tenga Caintigern, la Regina, lontana dalla sua poltrona nella sala da
pranzo, questa sera.”
“Sarà fatto” disse il vecchio ingrigito.
Allora il Figlio del Re d'Irlanda salì sul suo cavallo e corse via:

Segugio al passo,
Falco al polso;
Un coraggioso destriero per condurlo
Ovunque desiderasse andare,
E la terra verde sotto di lui,

e ritornò al Castello. Quella sera un orso bruno, che teneva un tizzone ardente in bocca, venne
nella sala da pranzo e si pose tra Caintigern la Regina e la sedia che le apparteneva. Nessuno
dei servi riuscì a condurlo via e, quando venne, Maravaun, il Consigliere del Re, disse:
“Anche questa è una creatura fatata, ed è meglio per noi lasciarla qui sola”. Così l'intera
compagnia se ne andò e lasciò l'orso bruno in sala da pranzo seduto sulla poltrona della
Regina.
II

Il mattino seguente, quando si svegliò, il Figlio del Re disse: “È veramente prodigioso quello
che è accaduto questa notte in sala da pranzo. Devo andare a giocare una terza partita con il
vecchio ingrigito che siede sul cumulo di pietre alla svolta della strada.” Così, al mattino
presto montò a cavallo e corse via:

Segugio al passo,
Falco al polso;
Un coraggioso destriero per condurlo
Ovunque desiderasse andare,
E la terra verde sotto di lui,

e cavalcò finché giunse alla svolta della strada. Il vecchio ingrigito era sempre là.
“Così sei di nuovo venuto da me, Figlio del Re” disse lui.
“Sì,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “e giocherò un'ultima partita con te allo stesso patto delle
altre volte.” Legò il suo cavallo al ramo e si sedette sul cumulo di pietre. Giocarono. Il
Principe Irlandese perse la partita. All'istante il vecchio ingrigito gettò le carte sulle pietre e
un vento si alzò e le portò via. Ritto in piedi era terribilmente alto.
“Figlio del Re,” disse, “io sono nemico di tuo padre e gli ho recato offesa. E ho offeso anche
la Regina che è la moglie di tuo padre. Tu hai perso la partita e ora devi accettare la pena che
io ti impongo. Devi scoprire il luogo dove abito e staccare tre peli della mia barba entro un
anno e un giorno, altrimenti perderai la testa.”
Detto ciò, prese per le spalle il Figlio del Re d'Irlanda e lo sollevò sul suo cavallo, voltando il
destriero verso il Castello del Re. Il Principe Irlandese si allontanò velocemente:

Segugio al passo,
Falco al polso;
Un coraggioso destriero per condurlo
Ovunque desiderasse andare,
E il cielo blu sopra di lui.

Quella sera, il Re si accorse che suo figlio era terribilmente preoccupato. E durante la notte,
tutti al Castello udirono i suoi lamenti e i suoi gemiti. Il giorno successivo raccontò la storia a
suo padre, dall'inizio alla fine. Il Re mandò a chiamare Maravaun, il Consigliere, e gli chiese
se sapeva chi fosse l'Incantatore e dove suo figlio avrebbe potuto probabilmente trovarlo.
“Da ciò che ha detto,” disse Maravaun, “posso indovinare chi sia. E l'Incantatore delle Terre
Nere Remote e il luogo dove abita è difficile da trovare. Nonostante ciò, tuo figlio deve
cercarlo e portar via tre peli della sua barba, altrimenti dovrà perdere la sua testa. Perché, se
l'erede del tuo regno non pagherà con onore il suo pegno, la terra d'Irlanda non darà raccolti e
il bestiame non darà latte.”
“E,” proseguì il Consigliere, “siccome un anno è poco per la sua ricerca, egli dovrebbe partire
all'istante, sebbene purtroppo io non sappia suggerirgli in quale direzione dovrà andare.”
Il giorno seguente, il Figlio del Re salutò il padre e i fratellastri e cominciò il suo viaggio. La
matrigna non volle dargli la sua benedizione per l'orso bruno che le aveva impedito di
raggiungere la poltrona nella sala da pranzo. Nemmeno volle lasciargli il coraggioso destriero
che lui cavalcava sempre. Al Principe fu dato, invece, un cavallo zoppo e con la coda corta. E
questa volta né il falco né il segugio andarono con lui.
Il Figlio del Re cavalcò per tutto il giorno, viaggiando per boschi e terre incolte fino al
sopraggiungere della notte. Piccoli uccelli svolazzavano dalle cime dei cespugli, di ciuffo in
ciuffo, e giù fino alle radici, in cerca di un posto per riposare; ma se essi riposavano, lui
continuò ad andare finché la notte calò, cieca e scura. Allora il Figlio del Re mangiò pane e
carne, mise la borsa sotto la testa e si distese a riposare ai margini di una vasta terra desolata.
Al mattino salì a cavallo e ricominciò a cavalcare. E come si addentrò nella terra desolata,
vide uno spettacolo orribile -ovunque c'erano i corpi di creature morte -un gallo, uno
scricciolo, un topo, una donnola, una volpe, un tasso, un corvo -tutti gli uccelli e le bestie di
cui il Figlio del Re aveva conoscenza. Andò avanti, ma non incontrò nessuna creatura vivente.
E poi, ai margini della terra desolata, s'imbatté in due animali che stavano lottando. Uno era
un'aquila e l'altro era un'anguilla. E l'anguilla si era attorcigliata attorno all’aquila, e l'aquila
aveva gli occhi coperti dal velo nero della morte. Il Figlio del Re saltò giù da cavallo e tagliò
l'anguilla in due con un colpo netto di spada. L'aquila riuscì allora ad allontanare il velo della
morte dagli occhi e guardò diritto in faccia il Figlio del Re.
“Io sono Laheen l'Aquila,” disse, “e ti ricompenserò per l'aiuto che mi hai dato, Figlio del Re
Connal. Sappi che c'è stata una battaglia fra gli animali, una battaglia per decidere quale di
loro comanderà per un anno. Tutti sono stati uccisi tranne l'anguilla e me, e se tu non fossi
venuto io sarei stata uccisa e l'anguilla avrebbe dettato legge. Sono Laheen l'Aquila e sempre
sarò tua amica. E ora devi dirmi come potrò servirti.”
“Puoi servirmi,” disse il Principe Irlandese, “mostrandomi come arrivare al dominio
dell'Incantatore delle Terre Nere Remote.”
“Io sono l'unica che può indicarti la strada, Figlio del Re. E se ora non fossi vecchia, ti
porterei là sulla mia schiena. Ma ti dirò come potrai raggiungerlo. Continua a cavalcare per un
giorno, prima con il sole davanti e poi con il sole alle spalle, finché arriverai alla sponda di un
lago. Fermati lì finché vedrai tre cigni scendere in volo. Essi sono le tre figlie dell'Incantatore
delle Terre Nere Remote. Fa' attenzione a quello che porta una sciarpa verde in bocca. È la
figlia più giovane e l'unica che può aiutarti. Quando i cigni toccheranno terra, si
trasformeranno in fanciulle e si bagneranno nel lago. Due usciranno, si metteranno le loro
pelli di cigno e si trasformeranno, poi voleranno via. Ma tu devi nascondere la pelle di cigno
che appartiene alla fanciulla più giovane. Lei cercherà e cercherà e quando non riuscirà a
trovarla si lascerà sfuggire un grido di dolore: 'Farei qualsiasi cosa al mondo per la creatura
che trovasse per me la mia pelle di cigno.' Dalle allora la pelle di cigno e dille che l'unica cosa
che può fare per te è di indicarti la strada per il dominio di suo padre. Ella lo farà, e così tu
arriverai alla Casa dell'Incantatore delle Terre Nere Remote. E ora addio a te, Figlio del Re
Connal.”
Laheen l'Aquila aprì le ali e volò via, e il Figlio del Re continuò il suo viaggio, prima con il
sole davanti e poi con il sole alle spalle, finché giunse alla sponda di un ampio lago. Lasciò
libero il cavallo e si riposò distendendosi· a terra e, appena spuntò il chiaro del giorno, restò
in attesa della comparsa dei tre cigni.
III

Essi vennero, volarono giù, e quando toccarono terra si trasformarono in tre fanciulle e
andarono a bagnarsi nel lago. Quello che portava la sciarpa verde, lasciò la sua pelle di cigno
sotto un cespuglio. Il Figlio del Re la prese e la nascose nel cavo di un albero. Due delle
fanciulle uscirono presto all'acqua, si misero le loro pelli di cigno e volarono via come cigni.
La più giovane stette ancora un po' nel lago. Poi venne fuori e cominciò a cercare la sua pelle
di cigno. La cercò e la cercò, e alla fine il Principe Irlandese la udì esclamare: “Farei qualsiasi
cosa al mondo per la creatura che trovasse per me la mia pelle di cigno.” Allora lui uscì dal
suo nascondiglio e le diede la sua pelle di cigno.
“Io sono il Figlio del Re d'Irlanda,” esclamò, “e voglio che tu mi mostri la via per il dominio
di tuo padre.”
“Preferirei fare qualsiasi altra cosa per te” disse la fanciulla.
“Non voglio nient'altro” replicò il Figlio del Re d'Irlanda.
“Se ti mostrerò come giungere là, sarai contento?”
“Sarò contento.”
“Non devi mai far sapere a mio padre che ti ho mostrato la via. E lui non deve sapere, quando
arriverai, che tu sei il Figlio del Re d'Irlanda.”
“Non gli dirò che tu mi hai mostrato la via e non gli farò mai sapere chi sono.”

Ora che lei aveva la pelle di cigno, poteva trasformarsi. Fischiò, e un falcone blu scese in volo
e si appollaiò su un albero. “Questo falcone è il mio uccello” lei disse. “Segui il suo volo e
arriverai alla casa di mio padre. Però ora devo andarmene. Tu sarai in pericolo, ma io proverò
ad aiutarti. Mi chiamo Fedelma.” Si mutò in cigno e volò via.
Il falcone blu si spostava in volo da un cespuglio all'altro e da una roccia all'altra. Venne la
notte, ma al mattino il falcone blu si fece vedere di nuovo. Il Figlio del Re lo seguì e, infine,
vide una casa davanti a sé. Entrò, e là, seduto su una poltrona d'oro, stava l'uomo che gli era
parso tanto alto quando aveva gettato le carte sul cumulo di pietre. L'Incantatore non
riconobbe il Figlio del Re senza il suo falco e il suo segugio e i begli abiti che di solito
indossava. Chiese chi fosse, e il Figlio del Re disse di essere un giovane che aveva appena
finito il suo apprendistato da un mago. “E,” aggiunse, “ho saputo che tu hai tre belle figlie, e
io vengo a lottare per ottenerne una in sposa.”
“In tal caso,” disse l'Incantatore delle Terre Nere Remote, “devi sostenere tre prove. Se sarai
in grado di portarle a termine, ti darò una delle mie tre figlie in sposa. Se ne sbaglierai anche
una sola, perderai la testa. Sei disposto a tentare le prove?”
“Sì” rispose il Figlio del Re d'Irlanda.
“Domani ti darò il primo compito. Per tua sfortuna sei venuto oggi. In questo paese facciamo
un pasto soltanto una volta alla settimana, e abbiamo pranzato questa mattina.”
“Fa lo stesso per me,” disse il Figlio del Re, “posso stare senza cibo e bevande per un mese
senza alcun sacrificio.”
“Presumo che tu possa stare anche senza dormire” disse l'Incantatore delle Terre Nere
Remote.
“Certamente” rispose il Principe Irlandese.
“Ora vieni che ti mostrerò il tuo letto.” Portò fuori il Figlio del Re e gli mostrò una vasca
stretta e asciutta presso il muro esterno della casa.
“È qui che devi dormire” disse l'Incantatore. “Infilati dentro, ora, e tienti pronto per la tua
prima prova appena farà chiaro.”
Il Figlio del Re d'Irlanda entrò nella piccola vasca. E potete star certi che ci stava scomodo.
Ma nel mezzo della notte venne Fedelma e lo condusse in una bella camera dove lui mangiò e
dormì fin quasi al sorgere del sole. Lei lo chiamò e lui andò fuori e si distese nella vasca.
Appena sorse il sole, l'Incantatore delle Terre Nere Remote uscì dalla casa e si mise di fianco
alla vasca. “Vieni con me,” gli disse, “e ti indicherò la prima prova che devi sostenere.” Lo
portò dove un gregge di capre stava pascolando. Lontano dalle capre c'era un cerbiatto con
zampe bianche e piccole corna lucenti. Il cerbiatto li vide, fece un balzo e corse via nel bosco,
più veloce di qualsiasi freccia che mai uomo abbia scoccato da un arco.
“Quella è Bianchezampe la Cerbiatta” disse l'Incantatore delle Terre Nere Remote. “Pascola
con le mie capre, ma nessuno dei miei servi riesce a ricondurla nella mia stalla. Questo è il
tuo primo compito - catturare Bianchezampe la Cerbiatta e portarla questa sera assieme alle
capre nel loro ricovero.” Detto ciò, l'Incantatore delle Terre Nere Remote se ne andò ridendo
tra sé.
“Addio, vita mia,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “forse è più facile acchiappare un'aquila per
un'ala che catturare un cervo già sparito alla vista.”
Sedette a terra e la sua disperazione era grande. Poi si sentì chiamare per nome e vide
Fedelma venire verso di lui. Ella lo guardò con aria spaventata, e chiese: “Che compito ti ha
dato mio padre?” Lui glielo spiegò ed ella sorrise. “Temevo fosse una prova più terribile”
disse lei. “Questo è facile. Posso aiutarti io a catturare Bianchezampe la Cerbiatta. Ma prima
mangia ciò che ti ho portato.”
Tirò fuori pane e carne e vino, e insieme sedettero e mangiarono e bevvero. “Immaginavo che
potesse assegnarti questo compito,” disse lei, “così ti ho portato una fra le tante cose incantate
che possiede mio padre: le Scarpe della Rapidità. Con queste ai piedi, puoi raggiungere
Bianchezampe la Cerbiatta. Ma devi catturarla prima che sia andata troppo lontano. Ricorda
che deve essere ricondotta dentro al rifugio assieme alle capre, al tramonto. Al ritorno sarai
più lento in quanto per tutto il tempo dovrai tenerla stretta per le corna d'argento. Affrettati
ora. Raggiungila con le Scarpe della Rapidità, catturala e tienila stretta per le corna. Sopra
ogni cosa, Bianchezampe teme la perdita delle sue corna d'argento.”
Egli ringraziò Fedelma. Si mise le Scarpe della Rapidità ed entrò nel bosco. Ora andava
veloce come volano le aquile. Trovò Bianchezampe la Cerbiatta mentre stava bevendo alla
Pozza del Corvo. Quand'essa lo vide, si mise a balzare di qua e di là nel folto della macchia.
Le scarpe della Rapidità erano pressoché inutili in quei luoghi intricati. Infine, egli riuscì a
spingerla fuori dall'ultimo boschetto. Era mezzogiorno. C'era un pianoro aperto davanti a loro
e con le Scarpe della Rapidità la raggiunse e la catturò. C'erano lacrime negli occhi della
Cerbiatta e lui sapeva che era turbata dal timore di perdere le sue corna d'argento. Tenne
strette le corna con le mani e insieme ripercorsero miglia e miglia di pianure e di pascoli, di
paludi e di boschi. Le ore correvano via più rapidamente di quanto essi riuscissero ad
avanzare. Quando arrivarono nel dominio dell'Incantatore delle Terre Nere Remote, il
Principe Irlandese vide le capre avviarsi velocemente davanti a lui. Esse si stavano affrettando
dai pascoli verso il loro ricovero, indugiando, una per mordicchiare la cima di una siepe, e
un'altra a darle un colpetto con le corna per spingerla a muoversi più in fretta. “Per le tue
corna d'argento, dobbiamo andare più svelti” disse il Figlio del Re d'Irlanda alla Cerbiatta.
Allora essi andarono più velocemente. Vide l'Incantatore delle Terre Nere Remote in attesa
presso il ricovero delle capre, che ora contava le capre man mano che arrivavano e ora
guardava il sole. Quando l'Incantatore scorse il Figlio del Re d'Irlanda venire con la sua preda,
si arrabbiò così tanto che assestò un colpo a una vecchia capra dalla lunga barba che si era
fermata a strofinarsi. La capra s'impennò e lo colpì con le corna.
“Bene,” disse l'Incantatore delle Terre Nere Remote, “hai superato la tua ultima prova, a
quanto vedo. Tu sei un grande mago, più di quanto pensassi. Bianchezampe la Cerbiatta può
entrare con le mie capre. Ora ritorna al tuo giaciglio. Domani verrò presto da te e ti assegnerò
il secondo compito.”
Il Figlio del Re d'Irlanda ritornò dentro la sua vasca stretta e asciutta. Era stanco per la lunga
giornata passata a rincorrere Bianchezampe la Cerbiatta, ma aveva speranza che Fedelma
sarebbe venuta a soccorrerlo quella notte.
IV

Finché la bianca luna sorse sopra gli alberi, finché i segugi uscirono a cacciare per proprio
conto, finché le volpi scesero a nascondersi nei cespugli ad aspettare che galli e galline si
animassero alle prime luci, tanto a lungo il Figlio del Re d'Irlanda stette rannicchiato nella
vasca stretta e asciutta. A quell'ora era rigido, indolenzito e affamato. Vide una grande civetta
bianca volare verso la vasca. La civetta si posò sul bordo e guardò con gli occhi sgranati il
Principe Irlandese. “Hai un messaggio per me?” chiese lui. La civetta scrollò le ali per tre
volte. Egli pensò che ciò avesse il significato di un messaggio. Uscì dalla vasca e si preparò a
seguire la civetta. Essa volava lentamente e vicina al terreno, così poté seguirla lungo un
sentiero attraverso il bosco. Il Figlio del Re pensava che la civetta lo stesse conducendo al
luogo dove si trovava Fedelma, e che là avrebbe ricevuto cibo e rifugio per il resto della notte.
E in realtà la civetta volò verso una piccola casa nel bosco. Il Figlio del Re guardò attraverso
la finestra e vide una stanza illuminata dalle candele, e un tavolo con vasellame e piatti e
tazze, con pane e carne e vino. E al focolare scorse una giovane donna che filava al filatoio;
ella gli volgeva la schiena, e i suoi capelli erano uguali a quelli di Fedelma. Allora lui alzò il
saliscendi della porta e con gioia entrò nella piccola casa. Ma quando la giovane donna che
era al filatoio si girò, egli vide che non era affatto Fedelma. Aveva una bocca piccola, un naso
lungo e adunco, ed i suoi occhi guardavano strabici. Spezzò con i lunghi denti il filo che stava
filando, e disse: “Sei il benvenuto qui, o Principe.”
“E tu chi sei?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda.
“Il mio nome è Aefa,” rispose lei, “io sono la maggiore e la più saggia figlia dell'Incantatore
delle Terre Nere Remote. Mio padre sta preparando un compito per te,” proseguì, “e sarà un
compito terribile, e non ci sarà nessuno ad aiutarti, così perderai sicuramente la testa. Ciò che
ti consiglierei di fare, è di scappare subito da questo paese.”
“E come posso scappare?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda.
“C'è un solo modo per scappare,” rispose lei, “prendere l'Agile Rosso Corsiero che mio padre
ha messo al sicuro con nove serrature. Quel destriero è l'unica creatura che può condurti al tuo
paese. Ti mostrerò come procurartelo e poi cavalcheremo insieme verso la tua casa.”
“E perché faresti questo?” domandò il Figlio del Re d'Irlanda.
“Perché voglio sposarti” disse Aefa.
“Ma,” disse lui, “se mai sopravviverò, Fedelma è l'unica che sposerò.”
Non appena egli disse queste parole, Aefa cacciò un urlo: “Afferralo, o mio gatto delle
montagne. Afferralo e tienilo stretto.”
Allora il gatto delle montagne che era sotto il tavolo, attraversò con un balzo la stanza e gli si
attaccò a una spalla. Egli uscì correndo e continuò a correre mentre, per tutto il tempo, il gatto
delle montagne tentava di cavargli gli occhi. Si fece strada tra boschi e boschetti, e fu ben
contento quando vide la vasca presso il muro della casa. Il gatto delle montagne, allora, saltò
giù dalle sue spalle. Egli entrò nella vasca stretta e asciutta e attese e attese. Nessun
messaggio venne da Fedelma. Stette là a lungo, rigido, indolenzito e affamato, prima che il
sole sorgesse e l'Incantatore delle Terre Nere Remote uscisse di casa.
V

“Spero che tu abbia avuto il riposo di una buona notte” disse l'Incantatore delle Terre Nere
Remote, quando venne dov'era rannicchiato il Figlio del Re d'Irlanda, proprio al sorgere del
sole.
“Certamente” rispose il Figlio del Re.
“Suppongo che tu ti ritenga pronto per un altro compito” disse l'Incantatore delle Terre Nere
Remote.
“Non sono mai stato così pronto in vita mia” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
L'Incantatore delle Terre Nere Remote lo portò al di là del ricovero delle capre, dove c'era un
rifugio aperto per i suoi alveari. “Voglio che questo riparo abbia un tetto,” disse, “e voglio sia
coperto di penne di uccello. Va',” aggiunse, “a procurarti a sufficienza penne di uccelli
selvatici e ritorna a coprire per me il riparo degli alveari; voglio sia fatto prima del tramonto
del sole.” Diede al Figlio del Re delle frecce, un arco e un sacco dove mettere le penne, e gli
consigliò di cercare gli uccelli nella brughiera. Quindi rientrò in casa.
Il Figlio del Re d'Irlanda corse alla brughiera ad aspettare che passassero degli uccelli in volo.
Alla fine ne scorse uno. Scoccò una freccia ma non lo abbatté. Andò a caccia per tutta la
brughiera ma non vide altri uccelli. Sperava di vedere Fedelma prima che gli fosse spiccata la
testa.
Finalmente udì chiamare il suo nome e scorse Fedelma venire verso di lui. Ella lo guardò, di
nuovo col timore negli occhi, e gli chiese quale compito suo padre gli avesse assegnato. “Un
compito terribile” rispose lui e le raccontò quale fosse. Fedelma rise. “Temevo ti desse un
altro compito” disse. “Posso aiutarti io in questo. Siediti, mangia e bevi quello che ti ho
portato.”
Egli si sedette e mangiò e bevve e si sentì fiducioso vedendo Fedelma al suo fianco. Quando
ebbe mangiato, Fedelma disse: “Il mio falcone blu radunerà gli uccelli e staccherà le penne
per te. Tuttavia c'è un pericolo se non le raccogli velocemente, perché il tetto deve essere
coperto entro il tramonto del sole.” Fischiò e il suo falcone blu comparve immediatamente.
Egli lo seguì attraverso la brughiera. Il falcone blu volò alto nel cielo e fece un verso
d'uccello. Gli uccelli si radunarono ed esso piombò tra di loro staccando loro le penne dal
corpo e dalle ali.
Presto ci fu un mucchio di penne sul terreno, penne di piccione e penne di gazza, di gru e di
cornacchia, di merlo e di storno. Il Figlio del Re d'Irlanda le raccolse velocemente nel suo
sacco. Il falcone volò in un altro luogo e fece di nuovo lo stesso verso d'uccello. Gli uccelli si
radunarono ed esso piombò tra di loro, strappando loro le penne. Il Figlio del Re le raccolse e
il falcone blu volò in un altro luogo. Più volte il falcone blu chiamò gli uccelli e strappò loro
le penne, e più volte il Figlio del Re le mise nel suo sacco. Quando pensò di avere penne a
sufficienza per coprire il tetto, tornò di corsa al riparo. Iniziò a coprirlo, legando le penne con
piccole asticelle di salice. Aveva appena finito quando il sole tramontò. Il vecchio Incantatore
giunse e, nel vedere ciò che il Figlio del Re aveva fatto, fu grandemente sorpreso.
“Hai sicuramente imparato bene dal mago che ti ha istruito,” disse, “ma domani ti assegnerò
un altro compito. Va' ora a dormire nel luogo dove hai dormito la scorsa notte.”
Il Principe Irlandese, felice che la sua testa fosse ancora sulle sue spalle, andò a coricarsi nella
vasca stretta e asciutta.
VI

Finché la luna sbucò nel cielo, finché il Popolo Segreto iniziò a sussurrare nei boschi, tanto a
lungo il Figlio del Re d'Irlanda restò quella notte nella vasca stretta e asciutta. E infine,
nell'ora incerta in cui non è più buio ma non è ancora chiaro, vide una gru volare verso di lui.
Essa si posò sul bordo della vasca.
“Hai un messaggio per me?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda. La gru picchiettò tre volte col
becco. Allora il Figlio del Re uscì dalla vasca e si preparò a seguire l'uccello messaggero. La
gru procedeva volando per un pezzo di strada, poi si posava a terra e aspettava che il Principe
la raggiungesse. Allora ritornava a volare. La gru lo condusse sopra pantani e attraverso
piccoli torrenti. Il Principe Irlandese pensava che l'avrebbe guidato al luogo dov'era Fedelma,
lì avrebbe ricevuto cibo e avrebbe riposato fino a poco prima del sorgere del sole. E andarono
e andarono, e infine giunsero a una vecchia torre. La gru si posò su di essa. Il Figlio del Re
vide che c'era una porta di ferro nella torre e tirò un catenaccio finché essa si aprì. Allora
scorse una piccola stanza illuminata dalle candele, e una giovane donna che si guardava allo
specchio. Gli volgeva la schiena e i capelli erano gli stessi di Fedelma.
Ma quando la giovane donna si voltò, egli vide che non era Fedelma. Era piccola, e aveva un
viso bruno e duro come una noce. Si fece molto gentile col Figlio del Re e gli andò incontro e
gli prese le mani e gli sorrise guardandolo in faccia.
“Che tu sia il benvenuto” disse.
“Chi sei?” egli chiese.
“Io sono Gilveen,” disse lei, “la seconda e la più amabile delle tre figlie dell'Incantatore delle
Terre Nere Remote.” E, mentre gli parlava, gli carezzava il viso e le mani.
“E perché mi hai mandato a cercare?”
“Perché so che sei in un grande guaio. Mio padre sta preparando un compito per te, e sarà
terribile. Non potrai mai portarlo a termine.”
“E cosa mi consiglieresti di fare, figlia dell'Incantatore?”
“Lascia che ti aiuti. In questa torre,” disse lei, “ci sono i libri più saggi del mondo. Troveremo
sicuramente, in uno di questi, un modo perché tu possa andartene da questo paese. E allora
tornerò con te nella tua terra.”
“Perché lo faresti?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda.
“Perché desidero essere tua moglie” rispose Gilveen.
“Ma,” disse lui, “se mai sopravviverò, Fedelma sarà l'unica che sposerò.”
Appena egli pronunciò queste parole, Gilveen strinse le labbra e il suo mento divenne duro
come corno. Poi fischiò tra i denti, e di colpo tutti gli oggetti della stanza cominciarono ad
aggredire il Principe Irlandese. Lo specchio del muro si scagliò su di lui e lo colpì dietro la
nuca. Le gambe del tavolo gli procurarono una terribile botta alle ginocchia. Vide le due
candele saltellare sul pavimento per bruciargli le gambe. Corse fuori dalla stanza e, quando
giunse alla porta, questa ruotò dandogli un colpo che lo scaraventò lontano dalla torre. La gru
che stava aspettando sulla torre volò giù, collo e becco protesi, e lo colpì sulla schiena.
Così, il Figlio del Re d'Irlanda tornò indietro attraverso pantani e piccoli torrenti, e fu
contento quando vide di nuovo il muro esterno della casa. Entrò nella vasca stretta e asciutta.
Sapeva di non aver molto da aspettare prima che il sole sorgesse e l'Incantatore delle Terre
Nere Remote venisse ad assegnargli la terza e più difficile delle tre prove. E pensò che
Fedelma era impedita e lontano da lui, e sicuramente quel giorno non avrebbe potuto aiutarlo.
VII

Al sorgere del sole, l'Incantatore delle Terre Nere Remote venne dove il Figlio del Re
d'Irlanda giaceva raggomitolato e disse: “Ti assegnerò ora il terzo e ultimo compito. Alzati e
vieni con me.”
Il Figlio del Re d'Irlanda uscì dalla vasca e seguì l'Incantatore. Andarono dove c'era un pozzo.
Il Figlio del Re guardò e non poté scorgere il fondo di quell'oscuro, profondissimo pozzo.
“Laggiù c'è l'Anello della Giovinezza. Devi cercarlo e portarmelo, altrimenti perderai la testa
al tramonto del sole.” Non disse altro. Si voltò e se ne andò.
Il Figlio del Re guardò nel pozzo e non vide come fosse possibile calarsi lungo le profonde e
viscide pareti. Ritornò indietro. Per via incontrò Fedelma, ed ella lo guardò con un gran
timore negli occhi. “Che compito ti ha assegnato oggi mio padre?” “Mi ha ordinato di
scendere in un pozzo” disse il Figlio del Re. “Un pozzo!” esclamò Fedelma, e fu presa da
grande paura. “Devo prendere l'Anello della Giovinezza dal fondo e portarglielo” spiegò il
Figlio del Re. “Oh,” disse Fedelma, “ti ha assegnato il compito che temevo.”
Poi aggiunse: “Perderai la vita se l'Anello della Giovinezza non sarà tratto fuori dal pozzo. E
se tu perderai la tua vita, anch'io perderò la mia. C'è un unico modo per scendere lungo le
pareti del pozzo. Devi uccidermi, prendere le mie ossa e usarle come gradini per scendere
lungo le pareti. Poi, quando avrai portato l'Anello della Giovinezza fuori dall'acqua, rimetti le
mie ossa come erano prima e posa l'Anello sopra il mio cuore. Io tornerò di nuovo in vita. Ma
devi stare attento a rimettere ogni osso esattamente dov'era.”
Il Figlio del Re precipitò in una paura più profonda di quella di Fedelma quando udì le sue
parole. “Questo non sarà mai” urlò.
“Così deve essere,” disse lei, “e per tutti i tuoi giuramenti e promesse ti comando di farlo.
Uccidimi ora e fa' come ti ho ordinato. Se lo farai vivrò. Se non lo farai, tu perderai la vita ed
io non riavrò la mia.”
Egli la uccise. Prese le ossa come lei gli aveva ordinato e ne fece dei gradini lungo le pareti
del pozzo. Cercò nel fondo e trovò l'Anello della Giovinezza. Raccolse le ossa di nuovo. Si
mise in ginocchio, e il suo cuore si fermò e il respiro gli mancò finché non le ebbe sistemate
al loro posto. Poi le pose l'Anello sul cuore e allora la vita ritornò in Fedelma.
“Hai fatto tutto perfettamente,” disse lei, “ma una sola cosa non è al suo posto, la giuntura del
mio mignolo.” Alzò la mano ed egli vide che il mignolo era un po' storto.
“Io ti ho aiutato in ogni cosa,” disse Fedelma, “e nell'ultima prova non avrei potuto aiutarti se
tu non mi fossi stato fedele quando Aefa e Gilveen hanno cercato di attirarti a loro. Adesso le
tre prove sono state superate, e tu puoi chiedere a mio padre una delle sue figlie in sposa.
Quando gli porterai l'Anello della Giovinezza, lui ti chiederà di fare una scelta. Ti prego che
sia io la prescelta.”
“Nessun'altra io avrò se non te, Fedelma, amore del mio cuore” disse il Figlio del Re
d'Irlanda.
VIII

Il Figlio del Re d'Irlanda entrò in casa prima del tramonto del sole. L'Incantatore delle Terre
Nere Remote era seduto sulla sua poltrona d'oro.
“Mi hai portato l'Anello della Giovinezza?” chiese.
“L'ho portato” rispose il Figlio del Re.
“Dammelo dunque” ordinò l'Incantatore.
“Non te lo consegnerò,” disse il Figlio del Re, “finché tu non mi darai ciò che hai promesso di
darmi dopo il superamento delle prove che mi avevi assegnato: una delle tue tre figlie in
sposa.”
L'Incantatore lo portò davanti a una porta chiusa. “Le mie tre figlie sono dentro quella
camera” disse. “Fa' passare la tua mano attraverso l'apertura nella porta, e quella la cui mano
stringerai quando io la aprirò, sarà la tua sposa.”
Come fu allora turbato l'animo del Principe Irlandese! Se avesse stretto la mano di Aefa o di
Gilveen avrebbe perduto la sua amata Fedelma. Si irrigidì, incapace di stendere la mano.
“Fa' passare la mano attraverso l'apertura della porta o vattene subito da casa mia” ordinò
l'Incantatore delle Terre Nere Remote.
Il Figlio del Re d'Irlanda si fece coraggio e introdusse la sua mano nell'apertura della porta.
All'interno, le mani delle fanciulle erano aggrovigliate insieme. Ma, non appena le toccò, si
accorse che una aveva un dito storto. Capì che quella era la mano di Fedelma, e la tenne
stretta.
“Ora puoi aprire la porta” disse all'Incantatore.
L'Incantatore aprì la porta e il Figlio del Re d'Irlanda tirò a sé Fedelma. “Questa è la fanciulla
che ho scelto,” disse, “e ora consegnale la sua dote.”
“La dote che chiedo,” disse Fedelma, “è l'Agile Rosso Corsiero.”
“Quale dote vorresti assieme a lei, giovane uomo?” chiese l'Incantatore.
“Nessun'altra dote che l'Agile Rosso Corsiero.”
“Andate dunque alla stalla e prendetelo. E spero che nessun mago esperto come te passi di
nuovo da queste parti.”
“Io non sono un mago esperto, ma il Figlio del Re d'Irlanda. Ho trovato il luogo dove abiti
prima che sia passato un anno e un giorno. E ora staccherò tre peli della tua barba, Incantatore
delle Terre Nere Remote.”
La barba dell'Incantatore si drizzò come gli aculei di un porcospino, e gli occhi gli
schizzarono fuori dalle orbite. Il Figlio del Re staccò i tre peli della barba prima che egli
potesse muovere un dito o dire una parola. “Montate sull'Agile Rosso Corsiero e andatevene,
tutti e due” ordinò l'Incantatore.
Il Figlio del Re d'Irlanda e Fedelma montarono sull'Agile Rosso Corsiero e partirono al
galoppo, mentre l'Incantatore delle Terre Nere Remote e le sue due figlie, Aefa e Gilveen, li
stavano a guardare pieni di rabbia.
IX

Attraversarono il Rivo del Bove, e salirono la Montagna della Volpe e furono nella Valle del
Tasso prima che il sole sorgesse. E là, ai piedi del Colle delle Corna, trovarono un vecchio
che raccoglieva rugiada dall'erba. “Sai dirci dove possiamo trovare il Piccolo Saggio della
Montagna?” chiese Fedelma al vecchio.
“Sono io il Piccolo Saggio della Montagna” disse lui. “Cosa volete da me?”
“Che tu suggelli la nostra promessa di nozze” rispose Fedelma.
“Lo farò. Venite a casa mia, tutti e due. E siccome siete entrambi giovani e camminatori
migliori di me, sarebbe giusto che mi lasciaste salire sul vostro cavallo.”
Il Figlio del Re e Fedelma scesero, e allora il Piccolo Saggio della Montagna salì sull'Agile
Rosso Corsiero. Presero il sentiero che aggirava il Colle delle Corna. E dall'altro lato della
collina, trovarono un capanno coperto da una grande ala d'uccello. Il Piccolo Saggio scese
dall'Agile Rosso Corsiero. “Voi siete entrambi giovani,” disse, “e io sono un vecchio e
sarebbe giusto che mi sostituiste voi, oggi, nei miei lavori prima di chiedermi qualcosa.
Vorresti,” disse al Principe Irlandese, “prendere la vanga e andare nel campo a raccogliere le
patate per me? E tu,” proseguì rivolto a Fedelma, “vorresti sederti alla macina e macinare il
frumento per me?”
Il Figlio del Re d'Irlanda andò nel campo e Fedelma sedette alla macina che era appena oltre
la porta; egli vangò ed ella macinò mentre il Piccolo Saggio sedeva vicino al focolare e
guardava in un grande libro. E quando Fedelma e il Figlio del Re furono stanchi del loro
lavoro, egli diede loro una bevanda di latticello.
Lei ricavò dolci dalla farina che aveva macinato e il Figlio del Re lavò le patate, il Piccolo
Saggio le bollì, e si prepararono la cena. Allora il Piccolo Saggio fuse del piombo e creò due
anelli; e un anello lo consegnò a Fedelma perché lo desse al Figlio del Re e uno lo consegnò
al Figlio del Re perché lo desse a Fedelma. E quando ebbe dato loro gli anelli disse: “Ora
siete promessi per le vostre nozze.”
Quella notte restarono con il Piccolo Saggio della Montagna; quando sorse il sole lasciarono
la casa coperta da una grande ala d'uccello e andarono verso il Prato dello Splendore e la
Foresta delle Ombre, che li separavano dal dominio del Re d'Irlanda. Cavalcarono sull'Agile
Rosso Corsiero, e il Piccolo Saggio della Montagna andò con loro per un tratto. Sembrava
abbattuto e quando essi gli chiesero il motivo lui rispose: “Vedo strade che si dividono e
viaggi lontani per entrambi.” “Ma come può essere,” si meravigliò il Figlio del Re, “se tra
poco raggiungeremo il dominio di mio padre?” “Può darsi che mi sbagli,” replicò il Piccolo
Saggio, “ma se non mi sbagliassi, ricordatevi che la dedizione tiene assieme le vie che si
dividono e che i nobili cuori vincono alla fine di ogni viaggio.” Poi diede loro l'addio, e tornò
indietro alla capanna coperta da una grande ala d'uccello.
Essi cavalcarono attraverso il Prato dello Splendore mentre il falcone blu di Fedelma
volteggiava sopra di loro. “Laggiù c'è un campo di fiori bianchi,” disse lei, “e mentre lo
attraverseremo tu dovrai raccontarmi una storia.”
“Io conosco a memoria,” disse il Figlio del Re, “solo le storie che Maravaun, il Consigliere di
mio padre, ha raccolto nel libro che sta componendo, e che è chiamato Lo Scrigno della
Conoscenza.”
“Allora,” disse Fedelma, “raccontami una storia de Lo Scrigno della Conoscenza mentre
attraversiamo questo campo di fiori bianchi.”
“Ti racconterò la prima storia che il libro contiene” disse il Principe Irlandese.
E mentre attraversavano il campo di fiori bianchi il Figlio del Re raccontò a Fedelma la storia
de
L'asino e la foca

Una foca, che aveva passato la mattina a sguazzare curiosando attorno all'isola di Ilaun-Beg,
montò su di una roccia, la migliore per continuare la sua perlustrazione. Era a meno di cinque
iarde dall'isola. Sulla piccola spiaggia c'erano tre barche con le quali gli isolani solcavano il
mare; erano rovesciate e su di esse erano poste pesanti pietre per impedire che fossero portate
via dai forti venti. La foca le notò mentre stava riposando sulla roccia piatta. Notò pure un
piccolo asino che se ne stava al di là delle barche, riparandosi dove le scogliere s'incidevano
in piccoli anfratti.
Quest'asino era curioso come la foca, e quando vide quel paffuto e liscio animale che
muoveva la testa con tanta intelligenza, scese fino all'orlo dell'acqua. Due delle sue zampe
erano legate con una corda di paglia, ma essendo abituato a tale impedimento venne avanti
senza alcun impaccio. Guardò la foca con curiosità.
Il corvo delle scogliere dalla testa grigia si posò su uno spuntone di roccia e si fece interprete
tra i due.
“Villosa bestia dell'isola,” disse la foca, “amico e seguace degli uomini, raccontami delle loro
favolose esistenze.”
“Intendi i procura-fieno?” domandò l'asino.
“Sai bene di chi parla,” disse malignamente il corvo dalla testa grigia, “adesso rispondile.”
“Tu mi confondi, quando mi chiedi degli uomini” disse l'asino. “Non so quasi nulla di loro.
Essi vivono per conto proprio e io vivo per conto mio. Le loro case sono piene di fumo e i
miei occhi si accecano ad entrarvi. In passato qui c'erano verdi campi ed erba alta che
diventava fieno, ma ora non c'è più niente di simile. Penso che gli uomini abbiano rinunciato
a mangiare ciò che cresce dalla terra. Io non vedo nulla, non sento odore di nulla; solo odore
di pesce, pesce, pesce... “
Il corvo dalla testa grigia non staccò mai lo sguardo crudele dall'asino che parlava. “Tu dici
questo,” replicò, “perché gli uomini fanno stare il piccolo cavallo in casa per tutta la notte
mentre tu sei cacciato fuori.”
“Amico mio,” disse la foca, “è evidente che ti lasci ingannare dalle apparenze. Io conosco gli
uomini. Ho seguito le loro navi e ho ascoltato i suoni meravigliosi che fanno con le loro voci
e con gli strumenti. Non traggono pesci dalle profondità con incantesimi? Non costruiscono le
loro abitazioni con la musica? Non tirano fuori la luna dal mare e la pongono come luce nelle
loro case? E non è noto che le più belle figlie del mare hanno amato gli uomini?”
“Quando resto sveglio nelle notti illuminate dalla luna, anch'io provo queste sensazioni” disse
l'asino. Poi, i ricordi di quelle notti fredde e interminabili lo fecero sbadigliare. E ragliò.
“Che bello vivere vicino agli uomini!” esclamò la foca con ammirazione. “Che suoni
meravigliosi si possono udire!”
“Mi piacerebbe attraversare l'acqua e strofinare il mio naso con il tuo,” disse l'asino, “solo che
ho paura dei coccodrilli.”
“Coccodrilli?” si meravigliò il corvo dalla testa grigia.
“Sì” disse l'asino. “È perché vengo da una famiglia molto antica, sai. Egiziana. Alla mia gente
non piaceva attraversare l'acqua, nel loro paese. Là c'erano i coccodrilli.”
“Non voglio sciupare altro tempo ad ascoltare queste assurdità” ribatté il corvo dalla testa
grigia. Volò sulla schiena del1'asino e gli strappò un po' di pelo. “Prenderò questo per il mio
nido” e volò verso le scogliere.
L'asino avrebbe voluto scalciare, solo che due delle sue zampe erano legate dalla corda di
paglia. Si girò e, senza un cenno di addio alla foca, si inerpicò con fatica su per il pendio
dell'isola. La foca restò per un po' a muovere la testa, quasi con intelligenza. Poi scivolò
nell'acqua e si allontanò nuotando.
“Si sente che vivono nella musica,” disse, “vibrazioni profonde attraversano l'isola dove vive
l'uomo. È veramente meraviglioso.”
“Questa,” disse il Principe Irlandese,” è la prima storia de Lo Scrigno della Conoscenza:
L'Asino e la Foca. E ora devi raccontarmi tu una storia mentre attraversiamo il campo di fiori
blu.”
“Sarà una breve storia” disse Fedelma. Attraversarono un piccolo campo di fiori blu e
Fedelma raccontò ...
L' invio dell'Uovo di Cristallo

XI

I Re di Murias vennero a sapere che il Re Atlante doveva reggere


Il mondo sulla schiena, così gli inviarono senza indugio
L'Uovo di Cristallo che sarebbe diventato il Cigno delle Storie Infinite
Affinché il suo fardello potesse poggiare per qualche tempo sulle sue spalle
Ben bilanciato mentre ascoltava le storie che il Cigno raccontava:
Storie del Mondo del Nord per quando osservava la Stella del Nord;
E Storie del Mondo dell'Est da ascoltare nel mattino oscuro e fresco,
Quando i Leoni che Nimrod aveva risparmiato emergevano dallo stagno dell'abbeverata;
Storie del Mondo dell'Ovest per il Re quando lo faceva ruotare seguendo il corso del sole;
Poi i sussurri delle magiche Storie dell'Africa, la sua terra.

Ma i Re di Murias inviarono la Gru come loro messaggera,


L'incostante Gru dai suoi stessi pensieri spaventata:
Essa scivolò via da Isola a Isola, zigzagò da Promontorio a Costa;
Essa passò tra le fenditure dei monti e volò sopra gli alberi come un fantasma;
E poi fuggì indietro con sgomento quando vide nelle vuote pianure
La battaglia finale tra i Pigmei e le Gru.

Dov'è allora l'Uovo di Cristallo che fu inviato al Re Atlante?


Dischiuso sarà un giorno e le Storie saranno raccontate agli uomini:
Ciò accadrà se non sarà stato deposto nell'antico Tesoro di un Re:
Ciò accadrà se l'incostante Gru non lo avrà perduto lasciandolo scivolare in mare!

Velocemente attraversarono il piccolo campo di fiori blu e, dopo averlo oltrepassato, giunsero
ad un altro campo di fiori bianchi. Fedelma chiese al Figlio del Re di raccontarle un'altra
storia, e allora lui le raccontò la seconda storia de Lo Scrigno della Conoscenza.
La storia del giovane cuculo

XII

Il giovane cuculo tentava disperatamente di sporgersi attraverso la stretta apertura dell'albero


cavo. Strillava quando non riusciva ad uscire. I suoi genitori adottivi erano restati così a lungo
accanto a lui, da esserne indeboliti e tristi, mentre gli altri uccelli, cresciute le loro nidiate,
erano vigorosi e lieti. Essi udirono strillare la creatura che era stata allevata nel loro nido, il
giovane cuculo, ma questa volta non volarono verso di lui. Il giovane cuculo strillò ancora,
ma c'era qualcosa in quel grido che ai genitori adottivi ricordava i falchi. Essi fuggirono via.
Erano tristi in volo, questi uccelli, mentre volavano perché sapevano che stavano consumando
un tradimento. Avevano costruito il loro nido in un albero cavo che aveva una piccola
apertura. Un cuculo aveva deposto il suo uovo per terra e, trasportandolo col becco, l'aveva
portato nel loro nido. I loro piccoli erano stati spinti fuori. Essi si erano dannati per procurare
il cibo a quella terribile e affascinante creatura che era rimasta nel loro nido. Quando venne il
tempo di fare il suo primo volo, il giovane cuculo non riuscì a tirar fuori il suo corpo dalla
piccola apertura. Il giorno precedente aveva fatto i primi tentativi. I due genitori adottivi gli
avevano portato in volo il cibo diverse volte. Ma ora il nido era divenuto loro estraneo. Mai
più vi sarebbero tornati. Il giovane cuculo venne abbandonato.
Un picchio si affaccendava attorno all'albero. Guardò nella cavità e vide il grande uccello
tutto arruffato.
“Ciao!” disse il picchio. “Che ci fai qui?”
“Nato qui” rispose imbronciato il giovane cuculo.
“Oh, davvero?” disse il picchio e si affaccendò di nuovo attorno all'albero. Quando ritornò
all'apertura, il giovane cuculo stava ritto sulle zampe con la bocca aperta.
“Dammi da mangiare” gli disse.
“Devo già darmi tanto da fare qui attorno per scovare qualcosa per me” rispose il picchio.
“Qualcuno dovrebbe pur portarmi del cibo” si lamentò il giovane cuculo.
“Cosa dici mai?” chiese il picchio.
“Perché, non dovrebbe?” domandò il giovane cuculo.
“Sbagli a parlare così,” disse il picchio, “dovresti usare l'ingegno invece.” Zampettò di nuovo
attorno al tronco dell'albero e divorò un magro bacherozzolo. Il giovane cuculo si divincolò
nell'apertura e strillò nuovamente.
“Non attirare l'attenzione su di te” consigliò il picchio quando tornò all'apertura. “Potrebbero
scambiarti per un giovane falco, sai.”
“Chi potrebbe?” disse il cuculo.
“I vicini. Lo farebbero a pezzi un giovane falco.”
“Cosa devo fare?” chiese il cuculo.
“Cosa faresti secondo la tua natura?”
“Secondo la mia natura?” disse il giovane cuculo. “La mia natura è dondolarmi sui rami alti in
cima agli alberi. La mia natura è distendere le ali e volare su luoghi ridenti e piacevoli. La mia
natura è star da solo, ma non come sono adesso. Solo con il suono della mia voce.”
Improvvisamente modulò il suo verso: “Cucù, cucù, cucù!”
“Ora ti riconosco” disse il picchio. “Dovrebbe esserci una tempesta” aggiunse. “Credimi, è
parola di picchio.”
Il giovane cuculo tentò nuovamente di protendersi verso il grande cielo emettendo un grido
così terribile che un topo, appena uscito dal fosso, fissò gli occhi su di lui. Quella creatura non
piacque al giovane cuculo. La pioggia cadde sulle foglie. Il tuono si abbatté con fragore. Una
saetta colpì l'albero, e la parte sopra l'apertura fu strappata via.
Il giovane cuculo saltò fuori sull'erba e volò goffamente tra le campanule.
“Che mondo!” esclamò. “Tutta quest'acqua e fuoco e rumore per farmi uscire dal nido. Che
mondo!” Il giovane cuculo era finalmente libero, e queste furono le prime parole che disse
entrando nel mondo.
Fu l'ultima storia che il Figlio del Re raccontò dal libro di Maravaun, Lo Scrigno della
Conoscenza. Dovevano adesso attraversare un altro piccolo campo di fiori blu e, mentre lo
attraversavano, Fedelma raccontò al Figlio del Re:
La storia della Donna-Nuvola

XIII

La Donna-Nuvola, Mor, era la figlia


Di Griann, il Sole, -davvero, lei
Fece un matrimonio di pari splendore,
Per lei l'uomo giusto fu Lir, il Mare.

La Donna-Nuvola, Mor, aveva sette


Forti figli, e i libri delle fiabe dicono
Che durante la notte grandi diventavano
E di giorno a crescer ancor continuavano.

La Donna-Nuvola, Mor, -come essi nel corpo


Ingrandirono, lei in orgoglio aumentò,
Finché la sua superbia allontanò, dicono,
Dal suo fianco il bravo Lir;
Visse poi nella Casa di Mor e rimirò
Con orgoglio i suoi figli e i suoi raccolti,
Finché un giorno il desiderio in lei aumentò
Di vedere dalla cima del monte
Tutto, tutto ciò che possedeva, così lei
Senza pausa alcuna viaggiò.

E che vide? Mille


Campi e i suoi campi piccoli, piccoli!
“Che luogo bello e ampio è Eirinn,” disse lei,
(Eirinn: antico nome dell'Irlanda. [n.d.r.])
“Io sono Mor, e grande non sono. “

Poi venne un pastore e le disse


Che i suoi figli se ne erano andati:
I vitelli nella valle lasciarono,
Con lo stormo delle oche stare non vollero.

Tre navi videro in mare


E si sentirono spinti ad andare:
Mor pianse e pianse quando udì,
E le sue lacrime sgorgarono giù e giù in piccoli rivoli.

Il suo scintillante splendore se ne sparì:


Lei andò e nessuna traccia lasciò,
E la Donna-Nuvola, Mor, mai fu
In quei luoghi vista ancor.

La donna superba, Mor, che fu figlia


Di Griann, il Sole, e che fece
Un matrimonio di pari splendore,
Via come un'ombra passò.
XIV

E questa fu l'ultima storia che Fedelma raccontò, perché avevano attraversato il Prato dello
Splendore ed erano giunti a un luogo senza nome, una distesa di terreno accidentato dove
c'erano rocce nere ed erba morta e nude radici d'albero, e qua e là alberelli di biancospino in
fiore. “Ho paura di questo luogo. Non dobbiamo fermarci qui” disse Fedelma.
E all'improvviso uno stormo di corvi imperiali venne da quelle rocce e, volando diritto verso
di loro, attaccò Fedelma e il Figlio del Re d'Irlanda. Il Principe Irlandese saltò da cavallo e,
brandendo la spada, affrontò i corvi imperiali finché li cacciò lontano. Cavalcarono ancora.
Ma poi i corvi imperiali ritornarono e li attaccarono di nuovo e il Figlio del Re d'Irlanda lottò
contro di essi finché le sue braccia ricaddero stremate. Montò di nuovo sul destriero, e
cavalcò in avanti velocemente. E i corvi imperiali vennero per la terza volta e li attaccarono
con più furia di prima. Il Figlio del Re d'Irlanda lottò contro di essi finché non li ebbe uccisi
tutti tranne tre e finché non fu coperto dal loro sangue e dalle loro penne. I tre che erano
scampati alla morte volarono via.
“Ti prego, sali sull'Agile Rosso Corsiero e galoppiamo via veloci” disse Fedelma al Figlio del
Re d'Irlanda.
“Sono sfinito dalla stanchezza” ribatté lui. “Comanda al destriero di stare vicino alla roccia,
deponi la spada al mio fianco, e lasciami riposare con la testa sul tuo grembo.”
“Temo per noi due, se ti attardi qui” disse Fedelma.
“Devo riposare, e ti prego di lasciarmi adagiare la testa sul tuo grembo.”
“So che non ti risveglierai se ti addormenti qui.”
“Mi risveglierò,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “ma ora devo riposare, e vorrei dormire con
la testa sul tuo grembo”.
Ella scese dall'Agile Rosso Corsiero e gli ordinò di accostarsi ad una roccia; depose la spada
lì vicino dove il Figlio del Re avrebbe dormito e gli fece posare la testa sul suo grembo. Egli
si addormentò.
Mentre lo vegliava, una grande paura cresceva in Fedelma. Ogni ora gli chiedeva: “Ti stai per
svegliare, mio dolce tesoro?” Ma nessun segno di risveglio arrossava il volto del Figlio del Re
d'Irlanda.
Poi ella vide un uomo giungere attraverso quel luogo senza nome, attraverso quel terreno
accidentato, cosparso di erbe morte e di rocce nere, di radici e di ceppi d'albero. L'uomo che si
avvicinava era più alto di qualsiasi altro uomo che lei avesse mai visto; era alto come un
albero. Fedelma lo riconobbe da ciò che aveva udito raccontare di lui, lo riconobbe come il
Re della Terra di Bruma.
Il Re della Terra di Bruma venne diritto verso di loro. Restò in piedi di fronte a Fedelma e
disse: “Cerco Fedelma, la figlia dell'Incantatore delle Terre Nere Remote, la donna più bella
dei mari di Eirinn.”
“Allora va' alla casa di suo padre e lì cerca Fedelma” ella gli disse.
“L'ho cercata là,” disse il Re della Terra di Bruma, “ma lei ha lasciato la casa del padre per
andarsene con il Figlio del Re d'Irlanda.”
“Allora cercala al Castello del Re d'Irlanda” replicò Fedelma. “Non lo farò. Fedelma è qui, e
Fedelma verrà con me” gridò il Re della Terra di Bruma.
“Non abbandonerò colui a cui mi sono promessa” disse Fedelma.
Allora il Re della Terra di Bruma sollevò il Figlio del Re d'Irlanda. Lo tenne in alto, più in
alto di quanto cresca un albero. “Lo schianterò sulle rocce e spezzerò la vita che è in lui”
minacciò.
“Non farlo” implorò Fedelma. “Dimmi, se io vengo con te, cosa potrà riscattarmi?”
“Soltanto la spada il cui fendente può uccidermi, la Spada di Luce” disse il Re della Terra di
Bruma. Sollevò di nuovo il Figlio del Re d'Irlanda e di nuovo stava per scagliarlo contro le
rocce. Il falcone blu scese in volo dall'alto e si posò sulla roccia dietro di lei. Fedelma sapeva
che le parole che lei e il Re della Terra di Bruma si sarebbero detti ora, sarebbero state portate
lontano e riferite a qualcuno. “Lascia il mio amato, il Figlio del Re, al suo riposo” disse.
“Se non spezzerò la vita che è in lui, verrai con me, Fedelma.?”
“Verrò con te se mi dirai di nuovo cosa mi potrà riscattare da te.”
“La Spada di Luce il cui fendente mi ucciderà.”
“Verrò con te se mi giurerai, con voti e promesse solenni, che non mi farai tua moglie né tua
promessa sposa per un anno e un giorno.”
“Ti giuro con voti e promesse solenni, che non ti farò mia moglie né mia promessa sposa per
un anno e un giorno.”
“Verrò con te se permetterai che io cada in un sonno che durerà un anno e un giorno.”
“Così sarà, o più bella fra le fanciulle dei mari di Eirinn.”
“Verrò con te se mi dirai cosa mi farà uscire da quel sonno.”
“Se una ciocca dei tuoi capelli verrà tagliata con un fendente della Spada di Luce, questo ti
farà uscire dal sonno.”
Il falcone blu che era lì dietro, udì ciò che diceva il Re della Terra di Bruma. Si alzò in volo e
rimase in alto con le ali spiegate. Fedelma si sfilò l'anello dal dito e lo mise al dito del Figlio
del Re d'Irlanda, e scrisse sul terreno in lettere Ogham (antico alfabeto celtico. [n.d.r.]): “Il
Re della Terra di Bruma.”
“Se non sarai tu a risvegliarmi, mio dolce tesoro,” disse,
“possa io non destarmi mai più.”
“Vieni, figlia dell'Incantatore” ordinò il Re della Terra di Bruma. “Cogli un ramo di
biancospino e dallo a me così che io possa sprofondare nel sonno” disse Fedelma. Il Re della
Terra di Bruma colse un ramo fiorito di biancospino e glielo diede. Ella tenne i fiori accanto
al viso e sprofondò nel sonno. Per un attimo, lei e il Figlio del Re d'Irlanda rimasero
addormentati fianco a fianco.
Poi il Re della Terra di Bruma prese in braccio Fedelma e si avviò a lunghi passi attraverso
quel luogo senza nome, su quel terreno accidentato cosparso di erbe morte e di rocce nere, di
ceppi e di radici d'albero, e lo seguivano, dove andava, i tre corvi imperiali sfuggiti alla spada
del Figlio del Re d'Irlanda.
xv

Molto, molto tempo dopo che il Re della Terra di Bruma aveva portato via con sé Fedelma, il
Principe Irlandese uscì dal sonno. Vide intorno a sé quel luogo senza nome con le rocce nere
e le nude radici degli alberi. Ricordò che vi era giunto con lei. Si alzò di scatto e la cercò, ma
non era più lì. “Fedelma, Fedelma!” Chiamò e cercò, ma era come se nessuno fosse mai stato
con lui. Trovò la sua spada; cercò il suo destriero, ma anche l'Agile Rosso Corsiero se n'era
andato.
Pensò che l'Incantatore delle Terre Nere Remote li avesse seguiti e avesse condotto Fedelma
lontano da lui. Si voltò per tornare indietro al paese dell'Incantatore e vide ciò che Fedelma
aveva scritto sul terreno in lettere Ogham:

“Il Re della Terra di Bruma”

Egli non sapeva quale direzione prendere per raggiungere il dominio del Re della Terra di
Bruma. Attraversò il terreno accidentato e non trovò traccia di Fedelma né di colui che l'aveva
portata via. Si trovò vicino alla Selva delle Ombre. Vi entrò. Come vi entrò, vide decine e
decine di ombre. In quel bosco non vi era nient'altro, non un uccello, non uno scoiattolo, non
un grillo. Le ombre avevano l'intero bosco per sé. Esse si spostavano velocemente da un
albero all’altro, e di tanto in tanto qualcuna si fermava accanto a un tronco e aspettava. Più
volte il Figlio del Re d'Irlanda giunse vicino a un'ombra in attesa. Una prese le sembianze di
un piccolo vecchio con la barba. Il Figlio del Re vide quest'ombra numerose volte. Chi erano
quelle ombre? si chiedeva. Forse erano creature sagge e potevano illuminarlo su ciò che egli
voleva sapere. Gli parve di sentirle sussurrare tra di loro. Poi una piccola ombra che
trascinava le gambe, si spostò lentamente di albero in albero. Il Figlio del Re d'Irlanda pensò
di afferrare e trattenere una delle ombre, e farsi indicare il cammino per giungere ai
possedimenti del Re della Terra di Bruma. Seguì un'ombra e poi un'altra, e aspettò vicino ad
un albero che ne venisse una terza. Più di una volta gli parve di vedere il piccolo vecchio con
la barba e la piccola ombra che trascinava le gambe. E poi cominciò a distinguere altre ombre:
uomini con la testa di corvo e uomini con bizzarre spade pesanti sulle spalle. Le seguì senza
sosta attraverso il bosco e udì il loro sussurro divenire sempre più forte, e si accorse che via
via che proseguiva, le ombre, invece di scivolare davanti a lui, cominciavano a voltarsi, ad
aggirarlo e a circondarlo. Poi udì una voce scaturire dal terreno sotto ai suoi piedi: “Grida,
grida il tuo nome, Figlio di Re Connal!” Allora il Figlio del Re gridò il suo nome e i sussurri
cessarono nel bosco e le ombre non si mossero più.
Proseguì e giunse a un ruscello all'interno del bosco, e lo risalì controcorrente per tutta la
notte e per tutto il giorno, sperando d'incontrare degli esseri viventi che potessero suggerirgli
come raggiungere il dominio del Re della Terra di Bruma. E un mattino, arrivò dove il bosco
si faceva più rado e oltrepassò gli ultimi alberi.
Vide un cavallo al pascolo: corse verso di esso e scoprì che era l'Agile Rosso Corsiero che
aveva portato lui e Fedelma via dalla casa dell'Incantatore. Poi, mentre stringeva le redini del
destriero, un segugio gli corse incontro e un falcone scese dal cielo; egli riconobbe il falcone e
il segugio che lo accompagnavano quando cavalcava fuori dal Castello di suo padre.
Salì a cavallo e, vedendo il suo segugio alle calcagna e il falco volteggiare in alto, sentì un
profondo desiderio di tornare al Castello di suo padre, che sapeva essere vicino. Là avrebbe
potuto forse scoprire dove avesse i suoi possedimenti il Re della Terra di Bruma.
Così, il Figlio del Re d'Irlanda si diresse verso il Castello di suo padre:

Segugio al passo,
Falco al polso.
QUANDO IL RE DEI GATTI GIUNSE
NEI DOMINI DEL RE CONNAL

Il Figlio del Re d'Irlanda era di nuovo tornato al Castello, ma poiché continuava a chiedere di
un Re e di un Regno di cui nessuno aveva mai sentito parlare, la gente pensava che fosse
uscito di senno andando alla ricerca dell'Incantatore delle Terre Nere Remote. Ogni giorno
usciva dalla reggia a cavallo per chiedere ai forestieri se sapessero dove il Re della Terra di
Bruma aveva il suo dominio, e ritornava ogni sera da suo padre con la speranza che ci fosse al
Castello qualcuno che potesse indicargli dov'era il luogo che cercava. Maravaun voleva
narrargli le favole traendole da Lo Scrigno della Conoscenza, ma il Figlio del Re non udiva
una parola di ciò che Maravaun diceva. Qualche tempo dopo cominciò a prestare ascolto alle
cose che Art, il Maggiordomo del Re, gli raccontava, perché fu Art a far notare al Principe
Irlandese l'anello di piombo che aveva al dito. Egli lo sfilò, riconoscendo l'anello della
promessa che il Piccolo Saggio aveva forgiato, e solo allora si accorse che l'anello che portava
al dito non era il suo ma quello di Fedelma. Ebbe la sensazione che Fedelma avesse voluto
inviargli un messaggio, e i suoi pensieri si fecero meno agitati.
Quindi, alla sera, quando tornava dalle sue cavalcate, attraversava il prato con Art, il
Maggiordomo del Re, o stava con lui mentre i mandriani conducevano il bestiame nelle
vaccherie (ricoveri per vacche, stalle. [n.d.r.]). E ascoltava ciò che Art gli narrava. Una sera
udì Art affermare: “L'evento più straordinario è stato l'arrivo in questa terra del Re dei Gatti.”
“Ascolterò volentieri il tuo racconto” disse il Figlio del Re.
“Allora,” disse Art, il Maggiordomo del Re, “al Figlio di tuo padre in tutta verità sarà
raccontato”:
Il Re dei Gatti si alzò in piedi. Era una creatura imponente. Il suo corpo era marrone e striato,
simile a un legno inciso da qualcuno con un attizzatoio rovente. Come tutta la razza dei Gatti
Reali dell'Isola di Man, era senza coda. Ma aveva dei baffi straordinariamente belli.
Spuntavano da una parte e dall'altra del muso, così lunghi da toccare l'orlo del piatto dove
mangiava. I suoi occhi avevano tanto potere che quando ne rivolgeva uno verso l'alto, se nel
cielo volava un uccello questo piombava giù. E quando rivolgeva l'altro in basso, poteva
aprire un buco nel pavimento.
Viveva nell'Isola di Man. Una volta era stato il Re dei Gatti d'Irlanda e Britannia, di Norvegia
e Danimarca, e dell'intero mondo del Nord e dell'Ovest. Ma dopo che gli Scandinavi ebbero
vinto la guerra, i Gatti di Norvegia e di Britannia giurarono su Thor e Odino che non gli
avrebbero più dimostrato fedeltà. Così, da cent'anni e un giorno gli rendevano omaggio solo i
Gatti del Mondo dell'Ovest, cioè dell'Irlanda e delle Isole che si trovano ad Occidente.
Il tributo che riceveva era ancora considerevole. A maggio gli mandavano una barcata di
aringhe. Ad agosto gli venivano inviate due barcate di sgombri. A novembre gli venivano dati
cinque barili di topi conservati. Nelle altre stagioni riceveva come tributo un uccello per ogni
cento che sorvolavano l'Isola diretti verso l'Irlanda: cinciarelle, pavoncelle, fanelli, lucherini,
storni, balestrucci, scriccioli e teneri barbagianni giovani. Gli venivano anche offerti come
segno di devozione e deferenza: un salmone per indicare la sua autorità sui fiumi; una
pelliccia di faina per indicare la sua autorità sui boschi; un grillo vivo per simboleggiare la
sua autorità sulle case degli uomini; un corno di mucca per indicare il suo diritto a una
porzione di latte prodotta nel Mondo dell'Ovest.
Ma le regalie del Mondo dell'Ovest diminuirono sempre più. Un anno non giunse la nave con
le aringhe. In seguito gli furono mandati degli sgombri, ma lui sapeva che gli erano stati
inviati solo perché la pesca era stata talmente abbondante, che i contadini interravano con gli
aratri le pescate di sgombri per far crescere i loro raccolti. Poi venne un anno in cui non
ricevette né il salmone né la pelliccia di faina, né il grillo vivo né il corno di mucca. Allora fu
giustamente e regalmente indignato.
Si rizzò a quattro zampe sul pavimento del palazzo e dichiarò a sua moglie che lui stesso
sarebbe andato in Irlanda per scoprire cosa impediva l'invio del legittimo tributo. Chiamò il
Primo Ministro e gli disse: “Prepara per Noi il nostro Discorso del Trono.”
Il Primo Ministro andò in Parlamento e mise per iscritto: “Oyez, Oyez, Oyez!” Ma non riuscì
a ricordare nient'altro dell'antico linguaggio in cui i Discorsi Regali venivano scritti. Andò a
casa e s'impiccò con un metro di nastro e sua moglie seppellì il corpo sotto la pietra del
focolare.
“Discorso o non discorso,” disse il Re dei Gatti, “andrò a fare una regale visita ai miei sudditi
d'Irlanda.” Andò in cima alla scogliera e fece un balzo. Atterrò sul ponte di una nave che
conduceva la figlia del Re di Norvegia a sposarsi col figlio del Re di Scozia. La nave quasi
affondo per l'impatto del suo corpo su di essa. Si arrampicò per le vele fino in cima all'albero
maestro. Là riunì insieme le zampe e fece un altro balzo. Questa volta atterrò su una nave che
trasportava legname di quercia per costruire il Palazzo del Re a Londra. Raggiunto il punto
più alto, fece un altro balzo. Questa volta atterrò sul Sentiero dei Giganti che dalla terra
d'Irlanda si protende verso il mare. Mosse con circospezione i suoi passi da macigno a
macigno, e poi camminò regalmente e con decisione sul suolo d'Irlanda. Un uomo avanzava
in groppa a un cavallo e una donna era seduta sulla sella dietro di lui. Il Re dei Gatti aspettò
che si avvicinassero.
“Mio buon uomo,” disse con magniloquenza, “quando tornerai a casa, di' al gatto coperto di
cenere, seduto nell'angolo del tuo focolare, che il Re dei Gatti è venuto in Irlanda per
vederlo.”
I suoi modi erano così maestosi che l'uomo si levò il berretto e la donna fece un inchino.
Quindi il Re dei Gatti schizzò sul ramo di un albero della foresta e dormì fino a quando fu
passata la calura del mezzogiorno. Mi scordavo di dirti che mentre dormiva sul ramo, i suoi
baffi si allargavano sul muso, così lunghi da toccare l'orlo del piatto dove mangiava.
II

Il giorno seguente, il Figlio del Re se ne andò a cavalcare lontano, e lì dove arrivò quel giorno
non vide né uomo né donna né altra creatura vivente. Al ritorno, però, scorse un falcone
volteggiare in alto nel cielo. Lui cavalcava e il falcone gli volteggiava sopra, mantenendosi
sempre alla stessa altezza. Il Figlio del Re mise una freccia nell'arco e la scoccò verso il
falcone. Immediatamente il falcone s'innalzò volando via velocemente, ma una delle sue
penne cadde ai piedi del Figlio del Re ed egli la raccolse. Era una penna blu. Allora il Figlio
del Re pensò al falcone di Fedelma, all'uccello che volava sopra di loro mentre attraversavano
a cavallo il Prato dello Splendore. Poteva essere il falcone di Fedelma, quello a cui aveva
mirato, e forse era venuto per mostrargli la via per la Terra di Bruma. Ma ora il falcone non
era più in vista.
Non andò tra gli ospiti, quella sera, nel Castello di suo padre, ma stette con Art che osservava
i mandriani condurre il bestiame nelle vaccherie.
Dopo un po' Art disse: “La venuta del Re dei Gatti è una storia da raccontare. Al Figlio di tuo
padre in tutta verità sarà raccontata”:
Il Re dei Gatti aspettò sul ramo dell'albero finché la luna fu nel cielo come un'anatra ben
arrostita su un piatto d'oro, ma nessun servitore, vassallo o suddito venne a mettersi al suo
servizio. Era irritato, ti assicuro, dalla mancanza di rispetto nei suoi riguardi.
Ecco la ragione per cui nessuno dei suoi sudditi venne da lui per così tanto tempo: l'uomo e la
donna, a cui aveva parlato, andarono a casa e non dissero una parola sul Re dei Gatti finché
non ebbero consumata la cena. Poi, quando l'uomo ebbe fumato la seconda pipa, disse alla
donna:
“Che fatto straordinario ci è capitato oggi! Un gatto venire incontro a due Cristiani come noi e
ordinare: 'Di' all'amico coperto di cenere nell'angolo del tuo focolare che il Re dei Gatti è
venuto per vederlo!'“
Non appena furono pronunciate queste parole, un gatto magro, grigio e coperto di cenere, che
era disteso sulla pietra del focolare, saltò sullo schienale della sedia dell'uomo.
“Certo che,” ripeté l'uomo, “viviamo proprio in brutti tempi se due Cristiani vengono fermati
sulla via di ritorno dal mercato e gli viene ordinato -ordinato, nientemeno! -di portare un
messaggio al gatto che sta disteso sulla pietra del loro focolare.”
“Per la mia pelliccia e le mie grinfie, ce ne hai messo del tempo a consegnare questo
messaggio,” esclamò il gatto dallo schienale della sedia, “ad ogni modo cosa diceva?”
“Il Re dei Gatti è venuto in Irlanda per vederti” disse l'uomo veramente stupefatto.
“È un miracolo che tu l'abbia detto!” esclamò il gatto andando alla porta. “E dove avete visto
Sua Maestà?”
“Non avresti dovuto parlare” disse la moglie dell'uomo.
“E che ne sapevo che un gatto può capirci?” ribatté l'uomo.
“Quando avrete finito le vostre chiacchiere,” li interruppe il gatto, “vorreste dirmi dove avete
incontrato Sua Maestà?”
“Non ti dirò nulla,” rispose l'uomo, “finché non ti sentirò dire il tuo nome.”
“Il mio nome,” disse il gatto, “è Acchiappa-Veloce e dovreste saperlo bene.”
“Non ti diremo una parola,” aggiunse la donna, “finché non sapremo cosa ci fa in Irlanda il
Re dei Gatti. Sta portando guerre e ribellioni nel paese?”
“Guerre e ribellioni? No signora,” disse Acchiappa-Veloce, “bensì liberazione
dall'oppressione. Perché, vi siete mai chiesti, i gatti del paese sono magri e pigri e coperti di
cenere? Perché se un gatto esce di casa alla luce del sole, per cacciare o giocare, è destinato a
subire la perdita di un occhio.”
“E chi gli provoca la perdita di un occhio?” chiese la donna.
“Uno il cui regno sta per finire” disse Acchiappa-Veloce. “Ma ditemi, dove avete visto Sua
Maestà?”
“No, non te lo dico” rispose l'uomo.
“Non te lo diciamo,” ribadì la donna, “perché non ci piace la tua impertinenza. Torna alla
pietra del focolare e tieni d'occhio la tana del topo.”
Acchiappa-Veloce andò diritto oltre la porta.
“Che nessuna prosperità possa venire in questa casa,” disse, “poiché mi avete negato una
risposta quando ho chiesto dove il Re dei Gatti si degnò di parlarvi.”
Ma appena fu uscito, accostò l'orecchio alla porta e udì la donna dire:
“Il cavallo gli racconterà che abbiamo visto il Re dei Gatti a un miglio da qui sul Sentiero dei
Giganti.”
(Quello fu un errore. Il cavallo non avrebbe potuto dire proprio nulla, perché i cavalli non
conoscono affatto la lingua che si parla nelle case, solo i gatti la conoscono bene e i cani
appena un po'.)
Acchiappa-Veloce ora sapeva dove poteva trovarsi il Re dei Gatti. Andò strisciando vicino
alle siepi, procedendo ad ampie falcate per i campi, attraversando i boschi con lunghi balzi,
finché giunse nella foresta, sotto il ramo dove il Re dei Gatti riposava, i baffi diritti sul muso,
così lunghi da toccare l'orlo del piatto dove mangiava.
Quando giunse sotto il ramo, Acchiappa-Veloce miagolò un poco in Egiziano, che è il
linguaggio da cerimonia dei gatti. Il Re dei Gatti avanzò lungo il ramo.
“Chi sei tu, o vassallo?” chiese in Fenicio.
“Un umile servitore del mio Signore” disse Acchiappa-Veloce in Alto-Pitto (questa è una
lingua molto indicata per i gatti, ma solo i loro storici la usano attualmente).
Poi continuarono la conversazione in Irlandese. “Che segno dovrò mostrare agli altri per far
sapere che siete il Re dei Gatti?” domandò Acchiappa-Veloce.
Il Re dei Gatti si precipitò sull'albero e spezzò dei pesanti rami. “Questo è un segno della mia
regale abilità” affermò. I “E un buon segno” osservò Acchiappa-Veloce.
Stavano per parlare di nuovo, quando Acchiappa-Veloce abbassò la coda e terribilmente
impaurito si arrampicò su un altro albero.
“Cosa ti affligge?” chiese il Re dei Gatti. “Non puoi star fermo, mentre parli al tuo signore e
padrone?”
“Il Vecchio Tasso sta venendo da questa parte,” disse Acchiappa-Veloce, “e quando mette i
suoi denti su qualcuno, non lo lascia più andare.”
Senza dire una parola, il Re dei Gatti balzò giù dall'albero. Il Vecchio Tasso stava sbucando
nella radura. Quando vide il Re dei Gatti acquattato là, si fermò e sfoderò i suoi terribili denti.
Il Re dei Gatti s'inarcò per scagliarsi su di lui. Allora il Vecchio Tasso si girò e tornò
goffamente indietro.
“Oh, per la mia pelliccia e le mie grinfie,” disse Acchiappa-Veloce, “Voi siete il vero Re dei
Gatti. Fate che io sia il Vostro Consigliere. Lasciate che consigli Vostra Maestà nei momenti
difficili per i Vostri sudditi e per Voi. Sappiate che i Gatti d'Irlanda sono immiseriti e
oppressi. Sono sotto una terribile tirannia.”
“Chi opprime i miei vassalli, servitori e sudditi?” chiese il Re i Gatti.
“L'Imperatore Aquila. Ha fatto una legge per la quale nessun gatto può lasciare la casa
dell'uomo fintantoché gli uccelli (con la sola eccezione delle civette) sono indaffarati fuori.”
“Lo farò a pezzi” disse il Re dei Gatti. “Come posso raggiungerlo?”
“Nessun gatto ha mai pensato di raggiungerlo,” rispose chiappa-Veloce, “i gatti pensano
solamente a tenersi fuori dalla sua strada. Ora lasciate che consigli Vostra Maestà. Nessuno
dei nostri nemici deve sapere che siete venuto in questo paese. Dovete sembrare un gatto
comune.”
“Chi, io?” disse il Re dei Gatti.
“Sì, Vostra Maestà, per la liberazione dei Vostri sudditi dovete apparire come un gatto
comune.”
“Ed esser sottomesso e mangiare avanzi?”
“Solo di giorno,” disse Acchiappa-Veloce, “di notte avrete la Vostra corte e le Vostre feste.”
“Almeno fa' in modo che il posto in cui vivrò non sia una catapecchia” disse il Re dei Gatti.
“Mi rifiuto di andare in una casa dove ci siano giorni di bucato, indumenti umidi davanti al
focolare e cose simili.”
“Userò la mia miglior diplomazia per salvaguardare i Vostri agi e la Vostra dignità,” disse
Acchiappa-Veloce, “Vi prego di nominarmi Primo Ministro”.
Il Re dei Gatti nominò Acchiappa-Veloce Primo Ministro mordicchiandogli la pelliccia
intorno al collo. Poi il Re e il suo Primo Ministro si separarono. Il Re dei Gatti prese alloggio
per un giorno o due in una torre rotonda. Acchiappa-Veloce fece un viaggio attraverso il
paese. Andò in ogni casa e sussurrò una parola a ogni gatto che era lì presente, e sia che il
gatto stesse sorvegliando la tana del topo, sia che andasse a caccia di grilli, sia che giocasse
con i gattini, quando udiva questa parola, si metteva seduto a riflettere.
+
III

Il giorno successivo, di buon'ora, il Figlio del Re d'Irlanda uscì a cavallo alla ricerca del
falcone blu, ma sebbene cavalcasse dai primi albori del giorno sino al calare delle tenebre,
non vide alcun segno di esso sulle rocce, sugli alberi o nell'aria. Stremato ritornò indietro e,
dopo che il suo cavallo fu portato nella stalla, rimase nei prati con Art a osservare il bestiame
che rientrava. E Art, il Maggiordomo del Re, disse: “La Venuta del Re dei Gatti nel dominio
di Re Connal è una storia ancora da raccontare. Al Figlio di tuo padre in tutta verità sarà
raccontata”:
Acchiappa-Veloce, a consulto con i Sette Anziani della Stirpe dei Gatti, decise che la Fucina
del Fabbro fosse una residenza adatta per il Re dei Gatti. Era pulita e spaziosa. Ma la ragione
migliore per questa scelta stava nel fatto che uomini e bestie venivano alla Fucina da ogni
dove così che il Re dei Gatti poteva apprendere dalle loro discussioni dove si trovasse
l'Imperatore Aquila e come potesse essere annientato.
Sua Maestà trovò che la Fucina non era una brutta residenza per un Re che viveva in
incognito. Era asciutta e calda. Gli piaceva la vista delle fiamme che salivano col soffiare del
mantice. Era solito sedersi su un mucchio di vecchie selle sul pavimento e osservare i cavalli
che venivano ferrati o aspettavano di essere ferrati. Ascoltava i discorsi degli uomini. La
gente nella Fucina lo trattava con molto rispetto e spesso faceva apprezzamenti sulla sua
taglia, sul suo aspetto e sulle sue buone maniere.
Ogni notte andava a una festa che i gatti avevano preparato per lui. Acchiappa-Veloce spesso
tornava con il Re dei Gatti alla Fucina per dargli i suoi consigli da Primo Ministro. Metteva in
guardia Sua Maestà perché non facesse intendere agli esseri umani che lui capiva e poteva
conversare nella loro lingua (tutti i gatti conoscono il linguaggio degli uomini, ma gli uomini
non sanno che i gatti lo conoscono). Gli raccomandava di non essere troppo altezzoso (come
un Re può avere inclinazione ad essere) con gli animali della Fucina.
Il Re seguì questo consiglio. Contraeva le orecchie in segno di rispetto verso Mahon, il
segugio che aveva la cuccia appena fuori della Fucina, e verso i segugi che andavano a far
visita a Mahon. Tentò perfino degli approcci con il Gallo che camminava su e giù là intorno.
Il Gallo divenne sempre più insopportabile al Re dei Gatti; aveva l'abitudine di camminare su
e giù impettito ripetendo continuamente fra sé: “Io sono Re Gal Gallo, io sono Re Gal Gallo.”
Qualche volta entrava nella Fucina e lo diceva ai cavalli. Il Re dei Gatti si meravigliava che
gli esseri umani potessero sopportare una creatura così stupida e vanitosa. Aveva una cresta
rossa che gli ricadeva su un occhio. Aveva penne purpuree sulla coda. Aveva grandi speroni.
Teneva la testa inclinata da un lato e sbadigliava quando compariva il Re dei Gatti.
Re Gal Gallo era solito entrare nella Fucina di notte a dormire sul mantice. E quando il Re dei
Gatti tornava dalle sue feste, si svegliava e borbottava: “Io sono Re Gal Gallo, io sono Re Gal
Gallo. I Gatti non sono gente di buona reputazione.” Un giorno, a mezzodì, c'erano degli
uomini nella Fucina che stavano chiacchierando con il Fabbro. Disse uno: “Dicci, Fabbro, da
dove viene il ferro?”
Il Re dei Gatti lo sapeva ma non disse nulla.
Re Gal Gallo venne alla porta e drizzò la testa come se stesse ascoltando.
“Non so dirvi da dove viene il ferro,” disse il Fabbro, “ma se il Gallo potesse parlare ve lo
direbbe. Il mondo intero sa che il Gallo è la più sapiente e antica delle creature.”
“Io sono Re Gal Gallo” disse il Gallo a un rugginoso ferro d'asino.
“Sì, il Gallo è una creatura meravigliosa” disse l'uomo che aveva posto la domanda.
“Macché meravigliosa,” sbottò il Re dei Gatti, “se l'aveste chiesto a me, avrei potuto dirvi da
dove viene il ferro.”
“E da dove viene il ferro?” chiese il Fabbro.
“Dalle Montagne della Luna” rispose il Re dei Gatti.
Gli uomini della Fucina appoggiarono le mani sulle ginocchia abbassando lo sguardo su di
lui. Il segugio Mahon entrò nella Fucina con altri segugi al seguito e, vedendo gli uomini che
guardavano il Re dei Gatti, lo annusò. Re Gal Gallo sbatté le ali con insolenza, allora il Re dei
Gatti gli colpì con la zampa la cresta rossa penzolante. Il Gallo volò in aria. Il Re dei Gatti
schizzò fuori dalla finestra e, immediatamente, Mahon e gli altri segugi si lanciarono dietro di
lui.
IV

Il giorno successivo, il Principe Irlandese cavalcò verso Est, e nella prima ora di viaggio vide
il falcone blu volteggiargli sopra. Lo seguì dove andava e il falcone non si alzava né
scendeva, ma volava costantemente in avanti battendo l'aria con le ali solo di quando in
quando. Su per cime e per valli e attraverso brughiere il falcone blu volava e il Figlio del Re
d'Irlanda lo seguiva. Poi il suo cavallo incespicò; egli non poté proseguire, e perse di vista il
falcone blu.
Stava scendendo una notte nera sulla terra, quando giunse al Castello del Re. Art, il
Maggiordomo, lo stava aspettando e si mise a camminare con lui accanto al cavallo
zoppicante. Dopo che ebbero fatto un po' di cammino assieme, Art disse: “La Venuta del Re
dei Gatti è una storia ancora da raccontare. Al Figlio di tuo padre in tutta verità sarà
raccontata”:

Grazie ai poteri magici che possedevano, tutti i gatti del paese seppero che il loro Re era
inseguito dai segugi. Allora da ogni focolare i gatti lanciarono un sinistro miagolio. Balzarono
verso le porte, rovesciando le culle sui bambini. Stettero sulle soglie e tutti insieme
scagliarono lo stesso anatema: “Che vi si spezzi la schiena, che vi si spezzi la schiena, prima
che catturiate il Re dei Gatti.”
Quando udì i laceranti miagolii dei suoi vassalli, servitori e sudditi, il Re dei Gatti si voltò
sulla schiena e tentò di graffiare il primo cane che lo inseguiva. Poi si drizzò. Si piantò così
fermamente sulle quattro zampe che i cani che gli sbatterono contro non riuscirono a
travolgerlo. Inarcò il corpo e sollevò le zampe anteriori. I segugi esitarono. Un corno suonò,
fornendo loro il pretesto per allontanarsi dagli artigli e dai denti, dalla potenza e dalla rabbia
del Re dei Gatti.
Allora i gatti, che lo avevano visto, arrivarono di corsa, che se ciò poteva costar loro la perdita
di un occhio. “Verremo con Voi, Maestà, Vi aiuteremo, Maestà” gridarono tutti insieme.
“Tornate ai vostri focolari,” disse il Re dei Gatti, “tornate e rimanete quieti e tranquilli nelle
case. Sentirete parlare delle mie imprese. Vado a cercare le tracce del nostro nemico,
l’Imperatore Aquila.”
Quando udirono quell'annuncio, i gatti cominciarono a miagolare disperati, e lo strepito dei
loro lamenti era così spaventoso che i cavalli ruppero le briglie a cui erano legati; uomini
donne sbiancarono in volto pensando alle terrificanti apparizioni che sarebbero comparse
sulla terra; ogni sacco di avena e segale girò cinque volte a destra e cinque volte a sinistra per
lo spavento; i piatti si infransero, i coltelli volarono dappertutto, e il Castello del Re fu scosso
sino alle fondamenta.
“Non è questo il momento per cercare le tracce dell'Imperatore Aquila,” disse Acchiappa-
Veloce, “rimanete ancora un po' nelle case degli uomini.”
“Mai!” disse il Re dei Gatti. “Mai più rimarrò ad attendere esso la pietra del focolare né mi
sottometterò ad essere oltraggiato dai galli, dai segugi e dagli uomini. Vagherò liberamente
per il mondo e scoverò il nemico della Gattità, l'Imperatore Aquila.”
Senza girarsi indietro nemmeno una volta, andò diritto verso il bosco che era pieno dei suoi
nemici, gli uccelli. I gatti, quando constatarono che le loro preghiere erano inutili, tornarono
tutti alle loro case. Ciascuno sedette davanti alla tana del topo fingendo di sorvegliarla. Ma
sebbene i topi si agitassero tutt'intorno a loro, i gatti d'Irlanda non voltarono mai la testa,
quella notte.
Fu lo scricciolo, il più piccolo degli uccelli, a scorgerlo per primo riconoscendo in lui il Re
dei Gatti. Lo scricciolo volò attraverso il bosco per chiamare a raccolta il Clan dei Falchi. Ma
si avvicinava il calar del sole e i falchi si erano appostati al margine del bosco, in
osservazione, per piombare sui polli dei contadini. Essi non mossero nemmeno un occhio
quando lo scricciolo raccontò loro che un gatto si trovava nel bosco proprio nelle ore in cui
era proibito ai gatti di star fuori dalle case degli uomini. “È il Re dei Gatti” disse lo scricciolo.
Nessuno dei falchi mosse un'ala. Stavano in agguato aspettando i polli che si sarebbero
smarriti subito dopo il tramonto.
Ma se lo scricciolo non riuscì a smuovere i falchi, riuscì invece a mobilitare le altre tribù di
uccelli. “Un gatto, un gatto, per le vostre vite un gatto” strillava volando attraverso il bosco. I
corvi che stavano rientrando, si alzarono immediatamente sopra gli alberi gracchiando il
pericolo. I merli, i tordi e le ghiandaie strillavano volando davanti al Re dei Gatti. I picchi, le
passere scopaiole, la cinciarella, il pettirosso, il fanello lo inseguivano volando con grande
chiasso. A volte i giovani corvi facevano gran mostra di attaccarlo scendendo in picchiata
dallo stormo. “È qui, qui, qui” gracchiavano e volavano su di nuovo. I corvi seguitavano a
discutere tra loro e con gli altri uccelli del bosco su cosa si potesse fare nei confronti del Re
dei Gatti. Ma un corvo imperiale da solo fece di più contro di lui che i mille corvi che
facevano tanto schiamazzo. Il corvo imperiale era acquattato nella cavità di un albero e colpì
alla testa il Re dei Gatti, col becco, quando questi gli passò davanti.
Il Re dei Gatti era infastidito dal frastuono provocato dagli uccelli e arrabbiato per il colpo
ricevuto dal corvo imperiale, ma non volle ingaggiare battaglia con gli uccelli. Era diretto alla
casa della Megera del Bosco che già allora era conosciuta come la Megera delle Ceneri.
Siccome è la prima volta che senti parlare della Megera delle Ceneri, ti racconterò come il Re
dei Gatti aveva udito parlare di lei e come aveva saputo dove fosse la sua casa nel bosco.
V

Il giorno successivo, il Principe Irlandese mise le briglie all'Agile Rosso Corsiero e cavalcò di
nuovo verso Est. Vide il falcone blu e lo seguì dovunque volasse. Su per cime e per valli, oltre
montagne e brughiere il falcone blu andava, e l'Agile Rosso Corsiero non scartava né
inciampava, ma procedeva con lo stesso ritmo dell'uccello rapace. Il falcone si posò su un
pino che cresceva solitario. Il Figlio del Re si avvicinò, appoggiò le mani sull'albero per
arrampicarsi e vi accostò la testa e, come lo fece, udì una voce provenire dall'albero: “La
Spada di Luce ucciderà il Re della Terra di Bruma, e un fendente della Spada di Luce taglierà
una ciocca dei capelli di Fedelma e la risveglierà.” Non si sentirono altre voci dall'albero e il
falcone si staccò dai rami e volò alto su nel cielo. Allora il Figlio del Re d'Irlanda girò il
cavallo e si diresse verso il Castello di suo padre.
Andò al prato e stette con Art e ascoltò ciò che Art aveva da raccontargli. E di nuovo il
Maggiordomo del Re iniziò: “Al Figlio di tuo padre in tutta verità sarà raccontato:”

Acchiappa-Veloce aveva detto al Re dei Gatti: “Se mai avrete necessità del consiglio di un
essere umano, non rivolgetevi ad altri che alla Megera delle Ceneri, che una volta era detta la
Megera del Bosco. Nel cuore del bosco quattro frassini sono legati assieme, in cima, da un
canniccio intrecciato. Nella piccola casa così costruita abita la Megera delle Ceneri; essa è
sola da quando le sue nove figlie se ne sono andate, le fa compagnia soltanto una capra che è
la sua unica amica.” Il Re dei Gatti era giunto al centro del bosco quando vide i quattro
frassini legati assieme sulla cima e allora spiccò un balzo verso di essi.
Tuttavia la Megera delle Ceneri aveva una dispettosa vicina, una gru che aveva costruito il
nido sul tetto della piccola casa. Il nido impediva al fumo di uscire verso l'alto e la casa al di
sotto ne era invasa. La Megera rischiava di soffocare a causa del fumo, né poteva rimuovere il
nido o scacciare il grande uccello.
La gru si trovava là quando il Re dei Gatti balzò sul tetto. Era seduta con le zampe stese fuori,
e quando il Re dei Gatti atterrò al suo fianco, lei fuggì volando sopra gli alberi. “Per me è
tempo di andare” disse la gru. E da quel giorno non tornò mai più alla casa della Megera delle
Ceneri.
“Oh, grazie a te, buona creatura” disse la Megera delle Ceneri uscendo dalla casa. “E adesso
distruggi il suo nido cosicché il fumo possa uscire dal tetto.”
Il Re dei Gatti rimosse gli stecchi e il vello con cui il nido della gru era costruito e il fumo salì
attraverso la sommità della casa. “Oh, grazie a te, buona creatura, che hai distrutto il nido
dell'odiosa gru. Scendi ora nella mia casa e io farò qualsiasi cosa che ti sia utile.”
Il Re dei Gatti balzò giù e vide la Megera delle Ceneri seduta in un angolo. Era una donna
piccola, piccola con un mantello grigio. Su tutto il pavimento vi erano cumuli di cenere,
perché lei di solito accendeva il fuoco in un angolo e, quando era spento, ne accendeva un
altro accanto alle ceneri del primo. Il fumo non era mai uscito dal buco del tetto da quando la
gru aveva costruito il nido in cima alla casa. Il suo viso era ingiallito e gli occhi erano mezzi
chiusi a causa del fumo.
“Sai chi sono io, Megera delle Ceneri?” disse il Re dei Gatti quando fu a terra.
“Tu sei un gatto, tesoro” disse la Megera delle Ceneri.
“Io sono il Re dei Gatti.”
“Tu sei davvero il Re dei Gatti. Sei tu che hai fatto uscire il fumo dalla cima della mia casetta
distruggendo il nido che l'odiosa gru vi aveva costruito sopra.”
“È ciò che ho fatto.”
“Allora che tu sia il benvenuto, Re dei Gatti. E che cosa può fare in cambio per te la Megera
delle Ceneri?”
“Vorrei andare dov'è l'Imperatore Aquila. Dovresti mostrarmi la via.”
“Per il mio mantello lo farò. L'Imperatore Aquila vive sulla cima del Colle delle Corna.”
“E come posso raggiungere la cima del Colle delle Corna?”
“Non so proprio come tu possa giungere là. Tutto il Colle è nuda desolazione. Nessuna
creatura a quattro zampe può raggiungere la cima; nessuna creatura a quattro zampe, dico sul
serio, tranne la mia capra che è legata al cespuglio di bianco spino qui fuori.”
“Cavalcherò in groppa alla tua capra fino alla cima del Colle delle Corna.”
“No, no, buon Re dei Gatti. Ho solo la mia capra per compagnia, come potrei sopportare di
essere separata da lei?”
“Prestami la tua capra e, quando ritornerò dal Colle delle Corna, ricoprirò d'oro le sue corna e
calzerò d'argento i suoi zoccoli.”
“No, no, buon Re dei Gatti. Come potrei sopportare che la mia capra si allontani da me,
lasciandomi senza altra compagnia?”
“Se tu non mi lascerai cavalcare la tua capra fino alla cima del Colle delle Corna, io lascerò
un segno sulla tua casa che attirerà l'odiosa gru a costruire di nuovo il suo nido.”
“Allora prendi la mia capra, Re dei Gatti, prendi la mia capra, ma fa' che torni presto da me.”
“Lo farò. Ora vieni con me e ordinale di portarmi in cima al Colle delle Corna.”
Il Re dei Gatti uscì con decisione dalla casa e la Megera delle Ceneri arrancò dietro di lui. La
capra era coricata sotto il cespuglio di biancospino. Abbassò le corna quando si avvicinarono
a lei.
“Vuoi andare al Colle delle Corna?”
“No, non andrò” disse la capra.
“Oh, i teneri germogli delle siepi sulla via del Colle delle Corna dovrebbero essere dolci in
bocca ad una capra,” disse la Megera delle Ceneri, “ma la mia povera capra vuole star qui a
mangiare le cime bruciacchiate dei cardi.”
“Perché non mi hai raccontato prima delle siepi sulla via del Colle delle Corna?” chiese la
capra alzandosi sulle zampe. “Andrò al Colle delle Corna.”
“E lascerai che un gatto ti salga in groppa fino al Colle delle Corna?”
“No, non glielo permetterò.”
“Allora, mia povera capra, non scioglierò la fune che hai attorno al collo, perché non puoi
andare al Colle delle Corna senza che questo gatto ti salga in groppa.”
“Allora lascerò che mi salga in groppa e che si tenga alle mie corna, e non gli presterò
attenzione.”
La Megera delle Ceneri sciolse la fune che era attorno al collo della capra, il Re dei Gatti le
saltò in groppa e così si misero in cammino sul sentiero che attraversava il bosco.
“Oh, come mi mancherà la mia capra, finché non tornerà da me con l'oro sulle corna e
l'argento sugli zoccoli” gemette triste la Megera delle Ceneri mentre essi si allontanavano.
VI

Il Principe Irlandese non uscì dal Castello il giorno successivo, ma si fermò a far domande
sulla Spada di Luce a quelli che lì giungevano. E qualcuno aveva udito della Spada di Luce, e
qualcuno non ne aveva mai udito parlare. Nel pomeriggio si trovava nelle sale del Castello e
osservava i suoi due fratellastri, Dermott e Downal, i figli di Caintigern, la Regina, giocare a
scacchi. Giocavano una partita sulla sua scacchiera e con i suoi pezzi. E quand'egli si avvicinò
e disse che concedeva loro il permesso di usare la scacchiera e i pezzi, essi replicarono: “Ci
eravamo scordati che tu ne fossi il proprietario.” Il Figlio del Re si accorse che ogni cosa nel
Castello stava entrando in possesso dei suoi fratellastri. Trovò un'altra scacchiera con altri
scacchi e giocò una partita col Maggiordomo del Re. E Art disse: “La Venuta del Re dei Gatti
nel dominio di Re Connal è una storia ancora da raccontare. Al Figlio di tuo padre in tutta
verità sarà raccontata”:

Cosa può fare una capra se non gironzolare per i viottoli, vagare attraverso i campi,
vagabondare lungo le siepi e stare a riposare sotto alberi ombrosi? Tutto questo fece la capra
della Megera. Ma alla fine condusse il Re dei Gatti ai piedi del Colle delle Corna.
E com'era il Colle delle Corna, chiederà il mio gentile Principe. Era formato da colline di
pietre in cima a una collina di pietre. Solo una capra poteva camminarci andando da ciottolo a
sasso, da sasso a macigno, da macigno a rupe, da rupe a monte. E s'inerpicò molto bene la
capra della Megera. Ma poi rimbombò un tuono, folgori sprigionarono fuoco dalle pietre; il
vento si mescolò alla pioggia e la tempesta bersagliò gatto e capra. La capra stava sul fianco
di una montagna. Il vento soffiò in fretta dal basso e trasportò i due sulla sommità del Colle
delle Corna. Il gatto fu sbalzato giù. Ma la capra si puntellò sulle zampe posteriori per
fronteggiare il vento con le corna. Il vento l'afferrò da sotto, la sollevò e la spinse via dalla
cima buttandola giù dall'altra parte della collina (e cosa accadde poi alla capra della Megera
non l'ho mai saputo). Il Re dei Gatti affondò gli artigli nelle fessure di una pietra ben solida e
vi si aggrappò saldamente. E poi, quando il vento si smorzò ed egli guardò oltre la spalla,
scoprì che si trovava accanto al nido dell'Imperatore Aquila.
Era una cavità orlata di rocce, e attorno a quella cavità erano sparse le corna dei daini e delle
capre che l'Imperatore Aquila aveva rapito. E nella cavità c'erano un vitello, una lepre e un
salmone. Il Re dei Gatti balzò nel nido dell'Imperatore Aquila. Dapprima mangiò il salmone.
Poi si distese tra la lepre e il vitello e attese l'Imperatore Aquila.

Finalmente questi apparve. Scese sul nido roteando nell'aria. Si posò sul margine roccioso. Il
Re dei Gatti si alzò e inarcò il corpo pronto a balzare e, se l'Imperatore Aquila non si stupì a
quell' apparizione, è perché un'Aquila non può stupirsi di nulla.
Un uomo coraggioso si sarebbe compiaciuto nel vedere l’Imperatore Aquila aggrappato
sull'orlo roccioso del nido. Il rapace distese in avanti le ali come a formare un grande scudo.
Allungò in basso la coda distesa. Curvò il collo in modo che i suoi occhi potessero fissare la
creatura che lo affrontava. E il suo becco crudele, ricurvo e potente era pronto per colpire.
Ma il Re dei Gatti fece un gran balzo. L'Aquila si sollevò, ma il Gatto calò sulla sua ampia
schiena. L'Imperatore Aquila fece echeggiare il suo urlo di guerra e volò via dalla rupe
vibrando un colpo al Re dei Gatti col retro delle sue ampie ali. Poi si gettò in picchiata verso
il basso. Su una pietra a valle voleva straziare il suo nemico con il becco e gli artigli.
Ma fu il Gatto che arrivò per primo a terra. Come l'Aquila si preparò per colpirlo, egli fece
ancora un balzo e le squarciò il petto. Allora l'Imperatore Aquila strinse con gli artigli il Re
dei Gatti e volò di nuovo in alto, lanciando il suo urlo di battaglia. Gocce di sangue caddero
da tutti e due sul terreno. L'Aquila non riusciva a ghermire mortalmente il suo nemico e il Re
dei Gatti aveva la possibilità di artigliarla.
Accadde che Curai, il Re del Popolo Fatato*, del Munster stava marciando alla testa della sua
truppa per giocare una partita di hurling** contro i Fianna***d'Irlanda, capitanati da Fergus,
per ottenere la mano di Ainé, la figlia di Mananaun, il Signore del Mare. Proprio quando la
palla stava per essere lanciata in aria, l'Imperatore Aquila e il Re dei Gatti furono visti
avvinghiati l'un l'altro nel combattimento. Una squadra prese le parti dell'Aquila e l'altra prese
le parti del Gatto. Si avvicinarono gli uomini del luogo e anche loro si schierarono da una
parte o dall'altra. Poi gli uomini iniziarono a combattere fra di loro e alcuni caddero morti a
terra. E la battaglia continuò finché ci furono schiere di uomini d'Irlanda a combattersi l'un
l'altro per causa dell'Imperatore Aquila e del Re dei Gatti. Il Re del Popolo Fatato e il Capo
dei Fianna fecero marciare le loro truppe lontano, verso la cima della collina da dove si
poteva vedere la battaglia in aria e la battaglia a terra. “Se questo combattimento dovesse
continuare,” disse Curai, “le nostre truppe si uniranno a loro, e saranno massacrate. Dobbiamo
por fine al combattimento in aria”. Mentre parlava, alzò la palla da hurling e la gettò contro il
Gatto e l'Aquila. Caddero entrambi a terra.

* Il termine inglese Fairies indica gli esseri fatati che appartenevano, assieme agli elfi e ai
folletti, al popolo dei Sidhe. Questo popolo magico, dotato di poteri soprannaturali, in genere
si rendeva invisibile ai comuni mortali e dimorava all'interno di particolari colline,
intrattenendo sporadiche relazioni con gli uomini. [n.d.r.]
** Hurling: sport tradizionale irlandese, a squadre, molto simile all'hockey; vince la squadra
che riesce a violare la porta avversaria con il maggior numero di palle. [n.d.r.]
*** Fianna: stirpe di leggendari guerrieri irlandesi, noti per le loro imprese eroiche, le cui
origini risalgono circa al 300 a.C. [n.d.r.]

Il Gatto era pronto a balzare e l'Aquila ad artigliarlo, quando Curai guizzò tra di loro e toccò
entrambi con la sua lancia. Aquila e Gatto divennero figure di pietra. E là sono ancora,
un'Aquila di Pietra con le ali distese e un Gatto di Pietra con i denti scoperti e le grinfie alzate.
L'Imperatore Aquila e il Re dei Gatti rimarranno così finché Curai non li toccherà di nuovo
con la sua lancia fatata.
Quando il Gatto e l'Aquila furono mutati in pietra, gli uomini rimasero attoniti per un po' e
quindi se ne andarono. E il Popolo Fatato del Munster e i Fianna d'Irlanda giocarono la partita
di hurling per contendersi la mano di Ainé, la figlia di Mananaun che è il Signore del Mare, e
quale fu l'esito della partita di hurling viene raccontato in un altro libro.
Così termina la mia storia sulla venuta in Irlanda del Re dei Gatti.

Il Figlio del Re d'Irlanda lasciò Art e andò in una camera disabitata del Castello per cercare
una campanella da poter attaccare all'Agile Rosso Corsiero. Trovò la campanella, ma questa
gli sfuggì di mano e scivolò in una fessura del pavimento. Guardando attraverso la fessura,
vide una stanza in cui c'era Caintigern, la Regina, e vicino a lei c'erano due donne col manto
da incantatrici. E quando guardò di nuovo riconobbe quelle due: erano Aefa e Gilveen, le
figlie dell'Incantatore delle Terre Nere Remote e sorelle di Fedelma. “Riusciranno mai i miei
due figli a governare sui possedimenti del loro padre?” udì Caintigern chiedere.
“Il Principe che conquisterà la Spada di Luce governerà sui possedimenti del padre” rispose
Aefa.
“Allora uno dei miei figli deve procurarsi la Spada di Luce” disse Caintigern. “Ditemi a chi
devono rivolgersi per sapere dov'è.”
“Solo il Gobaun Saor (Personaggio del mondo celtico. [n.d.r.]) sa dov'è la Spada di Luce”
rispose Aefa.
“Il Gobaun Saor! Può essere visto dagli uomini?” chiese Caintigern.
“Sì” rispose Aefa. “E c'è uno solo -il Piccolo Saggio della Montagna -che può dire quale
strada prendere per trovare il Gobaun Saor.”
“Allora,” disse Caintigern, “i miei due figli, Dermott e Downal, partiranno a cavallo domani
per cercare il Piccolo Saggio della Montagna e il Gobaun Saor, in modo che uno di loro possa
trovare la Spada di Luce e quindi regnare sui possedimenti del Re suo padre.”
Quando il Principe Irlandese udì queste parole, andò alla stalla dove c'era l'Agile Rosso
Corsiero e gli mise le briglie e cavalcò verso il Colle delle Corna, lì dove si trovava la casa
coperta da una grande ala d'uccello in cui viveva il Piccolo Saggio della Montagna.
LA SPADA DI LUCE E L'UNICA STORIA,
CON LE AVVENTURE DI GILLY
DALLA PELLE DI CAPRA,
TRATTE DA “IL LIBRO DI PELLE DI GRU”

Giunse alla casa coperta da una grande ala di uccello e, come l'altra volta, il Piccolo Saggio
della Montagna gli chiese di sostituirlo nel lavoro quotidiano. Il Figlio del Re falciò il
frumento per il Piccolo Saggio e, mentre lo stava mietendo, i suoi due fratellastri, Dermott e
Downal, arrivarono cavalcando sui loro bei destrieri. Essi non sapevano chi era il giovane che
stava mietendo nel campo, e gridarono al Piccolo Saggio della Montagna di uscire di casa a
parlare con loro. “Vogliamo sapere dove si trova il Gobaun Saor che ci darà la Spada di
Luce” disse Dermott.
“Entrate,” disse il Saggio, “e aiutatemi nel mio lavoro di oggi, e io cercherò nel mio libro
qualche indicazione.”
“Noi non ti faremo da servitori, è cosa indegna di principi” disse Downal. “Dicci subito dove
dobbiamo andare per trovare il Gobaun Saor.”
, “Penso vi siate sbagliati” ribatté il Piccolo Saggio. “Io sono un uomo ignorante, e non so
rispondere a una simile domanda senza consultare i miei libri.”
“Proseguiamo, fratello,” disse Downal, “costui non è in grado di dirci nulla.”
Dermott e Downal si allontanarono sui loro bei cavalli con campanelle d'argento che
trillavano sulle briglie.
Quella notte, quando ebbe consumato la sua cena, il Piccolo Saggio spiegò al Principe
Irlandese dove andare. Non è dato sapere in quale luogo il Figlio del Re d'Irlanda trovò il
Costruttore degli Dei. Egli pervenne in un certo luogo nel quale il Gobaun Saor aveva
installato la sua fucina e la sua incudine e vide il Gobaun Saor battere su una forma di ferro.
“Tu vuoi trovare la Spada di Luce,” disse il Gobaun, il suo sguardo diritto come il filo di una
lama, “ma prima manifestami la tua volontà, il tuo pensiero, le tue intenzioni.”
“Come posso farlo?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda.
“Fa' la guardia alla mia incudine per qualche notte” disse il Gobaun Saor. “Un Fua esce
talvolta dal fiume e cerca di sottrarmela.”
Il Gobaun Saor doveva fare un viaggio per osservare degli alberi che crescevano nella foresta,
e il Figlio del Re stette di guardia all'incudine. Quella notte, un Fua venne fuori dal fiume e
scagliò grandi pietre cercando in tutti i modi di allontanarlo dall'incudine. Il Figlio del Re
corse giù alla riva del fiume per scacciarlo, ma il Fua lo afferrò con le sue lunghe braccia e
tentò di affogarlo nell'acqua profonda. Il Figlio del Re d'Irlanda stava quasi per annegare ma
riuscì a liberarsi dal Fua e, quando quell'essere lo afferrò di nuovo, egli lo tirò sulla riva
spingendolo contro un albero. “Ti darò la padronanza di tutte le arti poiché mi hai dominato”
disse il Fua. “Non voglio la padronanza delle arti, ma forse puoi indicarmi dove trovare la
Spada di Luce.” “Vuoi saperlo, vero?” disse il Fua, ma poi si divincolò da lui e si buttò nel
fiume.
Il Fua venne la notte successiva e scagliò pietre come la notte precedente, e il Principe
Irlandese lottò con lui proprio nel mezzo del fiume e lo tenne così saldamente che quello non
poté raggiungere l'altra riva.
“Ti darò una gran quantità di ricchezze poiché mi hai dominato” disse quell'essere dai grandi
occhi e dalle lunghe braccia.
“Non la ricchezza, ma la conoscenza del luogo in cui raggiungere la Spada di Luce, è questo
che voglio da te” replicò il Figlio del Re d'Irlanda. Ma il Fua si divincolò e fuggì nuovamente.
La notte successiva il Fua tornò, e il Figlio del Re lottò con lui in mezzo al fiume e lo seguì
sull'altra riva, e lo immobilizzò contro un albero. “Ti darò l'astuzia che ti farà il più grande dei
Re, poiché mi hai dominato.” “Non l'astuzia, ma la conoscenza del luogo dove si trova la
Spada di Luce, io voglio da te” disse il Figlio del Re. “Solo qualcuno del Popolo della Luce
può dirtelo” disse il Fua. Divenne una piccola creatura evanescente che si dissolse a terra
come un'ombra.
Il Gobaun Saor ritornò alla sua fucina e alla sua incudine. “Tu hai fatto la guardia alla mia
incudine,” disse, “e io ti dirò dove si trova la Spada di Luce. È nel Palazzo degli Antichi sotto
il Lago. Tu hai un destriero fatato che può portarti a quel Lago. Gli volterò la testa in quella
direzione e lui ti condurrà diritto laggiù. Quando arriverai alla sponda del Lago, strappa i rami
dell'Albero della Fonte e da' le foglie da mangiare all'Agile Rosso Corsiero. Ora monta in
sella e va'.”
Il Figlio del Re d'Irlanda montò in sella all'Agile Rosso Corsiero mettendosi di nuovo in
viaggio.
II

Da tutti i suoi rami, alti e bassi, l'acqua cadeva in minuscoli rivoli. Doveva trattarsi
sicuramente dell'Albero della Fonte. Non scese da cavallo il Figlio del Re d'Irlanda, ma
strappò i rami e li diede da mangiare all'Agile Rosso Corsiero.
Questi non ne mangiò più di tre manciate. Poi calpestò con gli zoccoli il terreno, sollevò in
alto la testa e nitrì tre volte. Dopodiché si tuffò nell’acqua del lago, e nuotò e nuotò come se
avesse la vigoria di un dragone. E nuotò mentre c’era luce sull’acqua, e nuotò mentre era
notte sull’acqua, e il giorno dopo quando il sole si era alzato d'un palmo sopra il lago, giunse
all'Isola Nera.
Tutto su quell'Isola era nero e bruciato e vi erano ceneri nere su fino al ginocchio del cavallo.
E non appena l'Agile Rosso Corsiero ebbe messo gli zoccoli a terra, il Figlio del Re si diresse
galoppando verso il centro dell'Isola. Galoppò attraverso un'apertura della roccia nera e andò
per cento passaggi, ciascuno dei quali scendeva sempre un po' più in basso, finché non giunse
all'ampio spazio di un salone.
Il salone era illuminato. Quando il Figlio del Re cercò di capire da dove veniva la luce, vide
una spada che pendeva dal soffitto. E la lucentezza della spada era tale che il salone splendeva.
Il Figlio del Re d'Irlanda incitò al galoppo l'Agile Rosso Corsiero e lo fece impennare. La sua
mano afferrò l'elsa della Spada. Quand'egli la tirò giù, la Spada stridette.
La fece balenare intorno e guardò quali altre presenze vi fossero nella Caverna. Vide una
donna, e due donne, e tre donne. Andò verso di loro e si accorse che stavano dormendo. E
come balenò la Spada intorno, vide altre donne anch'esse addormentate. C'erano dodici donne
nella Caverna dove la Spada di Luce era appesa, e le donne stavano dormendo.
Ciascuna delle donne dormienti teneva tra le mani una grande coppa ingemmata. L'animo del
Figlio del Re era cresciuto in superbia da quando stringeva la Spada in mano. “Hai la spada,
perché non dovresti avere la coppa?” diceva una voce dentro di lui. Prese la coppa dalle mani
di una delle donne dormienti e bevve l'acqua ribollente in essa contenuta. Il suo animo crebbe
ancor più in superbia dopo che egli ebbe bevuto. Prese la coppa dalle mani di ciascuna delle
dodici donne dormienti e bevve il sorso d'acqua ribollente che vi era contenuto. E quand' ebbe
bevuto l'acqua ribollente delle dodici coppe, sentì che con la Spada di Luce nelle sue mani
avrebbe potuto aprirsi la strada attraverso la terra.
Montò sull'Agile Rosso Corsiero e cavalcò attraverso la Caverna e insieme attraversarono a
nuoto il Lago senza Nome. Teneva la Spada di Luce di traverso sull'arcione. Il Corsiero andò
dove la corrente lo conduceva, perché era passato tanto tempo da quando aveva mangiato le
foglie dell'Albero della Fonte, e l'energia che l'aveva reso vigoroso era ora più debole. La
corrente li condusse alla spiaggia più a valle rispetto al luogo dove cresceva l'Albero della
Fonte.

E là sulla spiaggia vide un capannello di piccoli uomini, piccole donne e piccoli bambini, tutti
con la carnagione color fumo, tutti con un solo occhio in testa, tutti che strillavano e urlavano
fra loro come uccelli di mare, e tutti seduti attorno a un fuoco di alghe secche, che cuocevano
e mangiavano anguille e mele selvatiche.
Il Principe Irlandese afferrò le redini e condusse l'Agile Rosso Corsiero fuori dall'acqua. Le
donne con un solo occhio destro e gli uomini con un solo occhio sinistro, e i bambini nudi
dalla pelle color del fumo gli gridavano: “Cosa vuoi, cosa vuoi, uomo col cavallo?”
“Nutrite e dissetate il mio destriero” ordinò il Figlio del Re d'Irlanda.
“Noi siamo il Popolo delle Voragini e nessuno ci comanda di fare alcunché” disse un vecchio
con una barba simile a nodi di fune.
“Nutrite il mio destriero con grano rosso e dissetatelo con acqua pura di sorgente” ordinò
furibondo il Principe Irlandese.
“lo sono il Figlio del Re d'Irlanda e la Spada di Luce è nelle mie mani, e ciò che comando
deve essere fatto.”
“Noi siamo il Popolo delle Voragini e siamo ritenuti un popolo inoffensivo” disse il vecchio.
“In che senso siete inoffensivi?” disse il Figlio del Re, e brandì la Spada contro di loro.
“Entra nella nostra caverna, Figlio del Re,” disse il vecchio, “ti daremo ristoro, mentre i
bambini provvederanno al tuo destriero.”
Egli entrò nella caverna con alcuni del Popolo delle Voragini. Si comportavano tutti in modo
rozzo. Seguitavano a urlare e a gridarsi l'un l'altro; strattonavano i vestiti del Figlio del Re e lo
pizzicavano. Uno di loro gli addentò le mani. Quando entrarono nella caverna, si sedettero
tutti su pietre nere. Qualcuno spinse dentro un asino nero carico di reti. Tolsero le reti dalla
groppa dell'animale e, prima che il Figlio del Re capisse cosa stava per accadere, gli gettarono
le reti attorno. Le maglie delle reti erano appiccicose. Egli si sentì in trappola. Si slanciò verso
il Popolo delle Voragini e cadde su una pietra. Allora gli gettarono altre reti attorno alle
gambe.
Il vecchio a cui aveva dato ordini sollevò la Spada di Luce. Allora il Popolo delle Voragini
avvicinò l'asino che aveva portato le reti; strofinarono il suo duro zoccolo sulla Spada. Il
Figlio del Re non capì che cosa le era successo. Poi li udì strepitare: “Ora la luce se ne è
andata via da questo arnese.”
Lasciarono la Spada su una pietra nera; essa non emanava più luce. E tutto il Popolo delle
Voragini si precipitò fuori dalla caverna.
Poi tornarono divorando anguille e mele selvatiche. Non prestarono attenzione al Figlio del
Re d'Irlanda, ma si arrampicarono fino ad un'altra caverna proprio sopra di lui.
Egli strappò le reti che lo intrappolavano. Trovò la Spada sulle pietre nere, ma la sua
lucentezza era svanita per lo strofinamento provocato dallo zoccolo dell'asino. Scalò la parete
che portava all’altra caverna per punire il Popolo delle Voragini.
Nell'oscurità essi lo videro prima che lui potesse vederli, e tutti corsero a nascondersi negli
anfratti come se fossero ratti e sorci.
Con la spada oscurata in mano, il Figlio del Re d'Irlanda uscì dalla caverna, e il cavallo che
aveva lasciato all'entrata, l'Agile Rosso Corsiero, non c'era più.
III

Senza il cavallo e con la Spada oscurata, il Figlio del Re d'Irlanda tornò al luogo dove il
Gobaun Saor aveva installato la sua fucina e sistemato la sua incudine. Né acqua né sabbia
potevano pulire la Spada, ma egli la depose davanti al Gobaun Saor sperando che gli
insegnasse un modo per ridarle la luce.
“Deve essere lucente la Spada che ucciderà il Re della Terra di Bruma e desterà la figlia
dell'Incantatore tagliandole una ciocca di capelli” disse il Gobaun Saor. “Tu hai permesso che
la Spada fosse oscurata. Ora porta la Spada oscurata con te.”
“Rendila lucente per me, e io ti servirò” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
“Adesso non mi è facile rendere lucente la Spada,” replicò il Gobaun Saor, “ma trovami
l'Unica Storia e ciò che avvenne prima del suo inizio e ciò che accadrà dopo la sua fine, e io
renderò lucente la Spada per te e ti mostrerò la via per la Terra di Bruma. Ora va' a cercarmi
l'Unica Storia.”
Il Figlio del Re d'Irlanda andò, e fece molti viaggi in terre lontane, potete credermi, ma non
trovò nessuno che avesse la minima notizia dell'Unica Storia o che conoscesse la via per
giungere alla Terra di Bruma. Al crepuscolo, in un bosco, scorse un grande uccello volargli
incontro. Esso si posò su un vecchio albero, e il Figlio del Re d'Irlanda vide che era Laheen
l'Aquila. “Mi sei ancora amica, Aquila?” chiese il Principe Irlandese.
“Ti sono ancora amica, Figlio del Re” rispose Laheen.
“Allora dimmi dove devo andare per sapere dell'Unica Storia” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
“L'Unica Storia? Non ne ho mai sentito parlare” rispose Laheen l'Aquila, spostandosi da una
zampa all'altra.
“Sono vecchia,” proseguì, scuotendo le ali, “eppure non ho mai udito dell'Unica Storia.”
Il Figlio del Re la osservò e vide che era veramente vecchia. Il suo collo era nudo di penne e
le ali erano grigie. “Oh, se sei così vecchia,” disse il Figlio del Re, “e se sei andata in così
tanti luoghi, e ancora non sai nulla dell'Unica Storia, da chi dovrò andare per venirne a
conoscenza?”
“Ascolta,” disse Laheen l'Aquila, “ci sono cinque di noi chiamati i Cinque Vegliardi d'Irlanda,
e non si sa quale dei cinque sia il più vecchio. Ci sono io, Laheen l'Aquila, c'è NeraZampa,
l'Alce di Monte Gulban, c'è la Cornacchia di Achill, il Salmone di Assaroe e la Vecchia di
Beare. Non sappiamo chi di noi sia il più vecchio, ma sappiamo che noi cinque siamo i più
antichi tra gli esseri viventi. Io non ho mai udito dell'Unica Storia,” disse Laheen, “ma forse
uno degli altri Antichi ne ha udito parlare.”
“Andrò da loro,” disse il Figlio del Re, “dimmi come trovare la Cornacchia di Achill, l'Alce di
Monte Gulban, il Salmone di Assaroe e la Vecchia di Beare, dimmi come andare da loro, o
Aquila Laheen.”
“Non serve che tu vada dal Salmone di Assaroe,” replicò l'Aquila, “perché il Salmone non ha
udito alcuna storia. Ti darò le indicazioni per trovare gli altri tre. Segui il ruscello sino al
fiume. Attendi al guado, e là ti raggiungerò in volo.” Laheen l'Aquila sbatté le ali e volò
lentamente via. Il Figlio del Re d'Irlanda seguì il ruscello finché giunse al fiume: era il Rivo
del Bove.
IV

Come giunse al Rivo del Bove, cercò il guado e là attese Laheen l'Aquila. Quando fu
mezzogiorno vide l'ombra dell'Aquila sull'acqua del guado. Guardò in alto. Laheen lasciò
cadere qualcosa dove l'acqua era più bassa. Era una ruota. Quindi Laheen si posò sulle rocce
di una cascata sopra il guado e parlò al Figlio del Re d'Irlanda.
“Figlio di Re Connal,” disse, “fa' rotolare questa ruota dinanzi a te e seguila ovunque vada. Ti
porterà prima dove dimora Nerazampa l'Alce. Chiedi all'Alce se ha notizia dell'Unica Storia.
Se non ce l'ha, fa' rotolare di nuovo la ruota. Ti porterà dove dimora la Cornacchia di Achill.
Se la Cornacchia non sa dirti nulla dell'Unica Storia, lascia che la ruota ti porti dove vive la
Vecchia di Beare. Se neppure lei sa dirti dell'Unica Storia, io non posso darti ulteriori aiuti.”
Poi Laheen l'Aquila distese le ali e volò via innalzandosi sopra i vapori della cascata.
Il Figlio del Re d'Irlanda trasse la ruota fuori dall'acqua bassa e la fece rotolare davanti a sé.
Essa girava senza che lui la toccasse. Ed egli andava e andava con il chiaro giorno dinanzi e la
notte incalzante dietro di lui, attraversando campi di sterpi e paludose terre incolte, salendo
scoscesi fianchi di montagna e lungo creste spoglie e impervie, finché giunse ad un alto
tumulo su una montagna solitaria. E, alto come il tumulo e solitario come la montagna, l'Alce
se ne stava là con le sue ampie, grandi corna. La ruota smise di rotolare.
“Mi manda Laheen l'Aquila” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
L'Alce mosse la testa ornata di ampie corna e guardò giù verso di lui.
“E perché sei venuto da me, figliolo?”
“Vengo a chiederti se conosci l'Unica Storia” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
“Non ho alcuna conoscenza dell'Unica Storia” rispose l'Alce con voce profonda.
“Non sei tu Nerazampa, l'Alce di Monte Gulban, una delle cinque più vecchie creature del
mondo?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda.
“Io sono l'Alce di Monte Gulban,” rispose Nerazampa, “e può darsi che non ci sia creatura al
mondo più antica di me. I Fianna mi cacciarono con i loro segugi prima che i Figli di Milè*
venissero all'Isola dei Boschi. Se si trattasse di un racconto di Finn o di Caelta o di Goll, di
Oscar o di Oisin o di Conan, potrei raccontartelo. Ma non so nulla dell'Unica Storia.”
Poi Nerazampa, l'Alce di Monte Gulban, volse la testa ornata di ampie corna e guardò alla
vecchia luna piena che stava salendo nel cielo. E il Figlio del Re d'Irlanda sollevò la ruota e
andò a cercare un ricovero. Trovò un riparo per le pecore sul fianco della montagna, si coricò
e dormì tra di esse.

(*Figli di Milè: è il popolo dei Milesi, che giunsero in Irlanda quando quella terra era
governata dai Danann, i mitici colonizzatori d'Irlanda, e li sconfissero. [n. d. r.])
V

Quando spuntò il sole, sollevò la ruota e la fece rotolare davanti a sé. Egli andava e andava
giù lungo i fianchi dei colli e attraverso vaste pianure finché giunse dove vecchi alberi e ceppi
d'albero crescevano radi, un po' lontani gli uni dagli altri, ma comunque in grado di tenersi
compagnia. La ruota attraversò questo antico bosco e si fermò davanti al tronco abbattuto di
una quercia. E appollaiata su un ramo di quella quercia, con la testa grigia piegata e le ali
spennacchiate raccolte su fino al collo incassato, c'era una cornacchia.
“Vengo da parte di Laheen l'Aquila” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
“Cosa hai detto?” chiese la Cornacchia, aprendo un solo occhio.
“Vengo da parte di Laheen l'Aquila” ripeté il Principe Irlandese.
“Oh, da parte di Laheen” disse la Cornacchia, e richiuse l'occhio.
“E vengo a chiederti se conosci l'Unica Storia” aggiunse il Figlio del Re d'Irlanda.
“Laheen,” disse la Cornacchia, “ricordo Laheen l'Aquila.” Tenendo gli occhi chiusi, rise e rise
finché fu completamente roca. “Ricordo Laheen l'Aquila” ripeté. “Laheen non ha mai
scoperto ciò che le feci una volta. Le rubai l'Uovo di Cristallo dal nido. Beh, e come sta
Laheen l'Aquila?” chiese bruscamente aprendo un solo occhio.
“Laheen sta bene” rispose il Figlio del Re d'Irlanda. “Mi manda a chiederti se hai conoscenza
dell'Unica Storia.”
“Io sono più vecchia di Laheen” disse la Cornacchia. “Ricordo la Gente di Paralon. Il
Salmone di Assaroe dice sempre che lui esisteva già prima della Gente di Paralon.
Figuriamoci! Laheen non può affermarlo. Se solo potessi riavere le penne sulle ali farei visita
a Laheen per qualche giorno. Come stanno Laheen e il suo stormo di uccelli?”
“O Cornacchia di Achill,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “sono qui per chiederti se hai
conoscenza dell'Unica Storia.”
“L'Unica Storia! No, non ne ho mai sentito parlare” replicò la Cornacchia. Raccolse di nuovo
le ali sul collo incassato e chinò la testa grigia.
“Pensa, o Cornacchia di Achill,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “ti porterò la lana più calda
per il tuo nido.”
“Non ho mai sentito parlare dell'Unica Storia” ripeté la Cornacchia. “Di' a Laheen che ho
chiesto di lei.” Nulla avrebbe più smosso la Cornacchia di Achill. Il Figlio del Re d'Irlanda
fece rotolare la ruota e la seguì.
Il Principe Irlandese andava e sempre andava con il chiaro giorno dinanzi e la scura notte
incalzante dietro di lui. Giunse a un ampio campo dove c'erano stormi di cesene e di allodole
di terra. Lo attraversò. Giunse a una distesa di alte margherite dove c'erano migliaia di
farfalle. La attraversò. Giunse a un campo di ranuncoli dove piccioni blu stavano
becchettando. Lo attraversò. Giunse ad un campo di lino dai boccioli blu. Lo attraversò e
giunse a una casa di pietra annerita dal fumo, sprofondata nel terreno. La ruota smise di
rotolare davanti alla casa ed egli entrò.

Una vecchia era seduta sul pavimento davanti al fuoco e stava spennellando un'oca col grasso.
Portava un cappello di pelle di coniglio sulla testa calva e il viso era privo di sopracciglia. Tre
strani uccelli stavano becchettando nella pentola: un cuculo, un re di quaglie ed una rondine.
“Vieni vicino al focolare, garzone*” disse la vecchia quando si guardò attorno.
(* Gilly, oltre a essere il soprannome di uno dei personaggi del racconto, l qui usato nella
duplice accezione di servo e di giovane. Si è preferito tradurlo con il termine garzone, il più
vicino ai due significati. [n.d.r.])
“Io non sono un garzone, sono il Figlio del Re d'Irlanda” disse lui.
“Va bene, ma cosa vuoi da me?”
“Sei tu la Vecchia di Beare?”
“Sono chiamata la Vecchia di Beare dai tempi del tuo tristrisavolo.”
“Quanto sei vecchia, antica madre?”
“Non so. Ma vedi i tre uccelli che stanno becchettando nella mia pentola? Per due ventenni la
rondine venne a casa mia e costruì il suo nido fuori. Poi venne a costruirlo dentro. Quindi per
tre ventenni venne in casa, a nidificare qui. Ora non attraversa più il mare, per nessun motivo.
E vedi il re di quaglie? Per cinque ventenni rimase fuori sul prato. Poi iniziò a saltellare in
casa per vedere cosa vi accadeva. Per due ventenni andò dentro e fuori. Poi restò qui per
sempre. Ora non attraversa più il mare, per nessun motivo. E vedi là il cuculo? Per sette
ventenni venne sull'albero là fuori a far echeggiare da lassù le sue note. Quindi quando
l'albero morì, si abituò a posarsi sul tetto della mia casa. Poi prese l'abitudine di entrare per
vedersi riflesso in uno specchio. Non so per quanti ventenni continuò ad andare e venire, ma
so che sono passati tanti ventenni da quando attraversò il mare.”
“Sono andato da Laheen l'Aquila a Nerazampa l'Alce, e dall'Alce di Monte Gulban alla
Cornacchia di Achill, e dalla Cornacchia di Achill io vengo a te per chiederti se hai
conoscenza dell'Unica Storia.”
“L'Unica Storia, ah sì” disse la Vecchia di Beare. “Un tale è venuto da me appena la scorsa
notte per raccontarmi l'Unica Storia. È il giovane che sta contando le corna.”
“Chi è questo giovane, e che corna sta contando?”
“Non è Figlio di Re, ma un garzone, chiamato Gilly dalla Pelle di Capra. Sta contando le
corna che ci sono in due buche qui fuori. Quando le corna saranno contate, conoscerò il
numero dei miei semestri.”
“Come hai detto, antica madre?”
“Mio padre era solito uccidere un bue ogni anno, al mio compleanno e, dopo la morte di mio
padre, i miei servitori, uno dopo l'altro, continuarono a uccidere un bue per me. Le corna dei
buoi venivano poste in due buche, una sul lato destro della casa, l'altra sul lato sinistro. Se si
sapesse il numero delle corna, si potrebbe conoscere il numero dei miei semestri, perché ogni
paio di corna conta per un anno della mia vita. Gilly dalla Pelle di Capra sta ora contando le
corna per me e, quando avrà finito, gli farò raccontare l'Unica Storia.”
“Ma devi permettere che anch'io ascolti la storia, Vecchia di Beare.”
“Se tu conterai le corna di una buca, ti lascerò ascoltare il racconto. Va' dunque fuori e
contale.”
Il Figlio del Re d'Irlanda uscì. Trovò una profonda buca a cielo aperto sul lato destro della
casa. Attorno al bordo c'erano corna di ogni tipo, corna nere e corna bianche, corna diritte e
corna curve. E giù nella fossa vide un giovane che stava dissotterrando le corna che erano
sprofondate nel terreno. Aveva una giacchetta fatta di pelle di capra.
“Chi sei?” chiese il giovane nella buca a cielo aperto.
“Io sono il Figlio del Re d'Irlanda. E tu, chi sei?”
“Chi sono non so,” rispose il giovane che indossava la pelle di capra, “ma mi chiamano Gilly
dalla Pelle di Capra. Perché sei venuto qui?”
“Per procurarmi la conoscenza dell'Unica Storia.”
“Ed è per raccontare quella stessa Unica Storia che io sono venuto qui. Perché vuoi conoscere
l'Unica Storia?”
“Questo richiederebbe un lungo racconto. E tu, perché vuoi narrarla?”
“Questo richiederebbe un racconto ancora più lungo. C'è una buca a cielo aperto sul lato
sinistro della casa colma di corna ed è compito tuo contarle.”
“Le conterò,” disse il Principe Irlandese, “ma tu avrai finito prima di me. Ti prego di non
raccontare la Storia alla Vecchia di Beare finché non potremo sederci entrambi.”
“Se va bene a te, andrà bene a me” disse Gilly dalla Pelle di Capra, e ricominciò a scavare.
Il Figlio del Re d'Irlanda andò sul lato sinistro della casa. Trovò la fossa a cielo aperto e vi
entrò per contare le corna che erano là, corna nere e corna bianche, corna diritte e corna curve.
Ed ora, mentre il Figlio del Re d'Irlanda è nella fossa a cielo aperto, vi racconterò le avventure
di Gilly -il Giovane o il Garzone -dalla Pelle di Capra, le cui avventure sono scritte nel Libro
di Pelle di Gru.
VI

Non si mosse mai dalla culla finché non compì dodici anni di età, stava là notte e giorno,
giorni lunghi e giorni corti; l'unico indumento che avesse mai indossato era una pelle di capra.
Una volta un cacciatore l'aveva lasciata sul pavimento di fianco alla culla ed egli allungò le
mani, la prese e si coprì con essa. Ebbe nome e vestito allo stesso tempo, perché d'allora in
poi fu chiamato “Gilly dalla Pelle di Capra”.
Ma benché non si movesse mai dalla culla, Gilly dalla Pelle di Capra aveva modo di
divertirsi. Di solito scoccava frecce attraverso la porta e colpiva un bersaglio su un albero che
gli stava di fronte. E come si procurò l'arco e le frecce? L'arco cadde dal tetto della casa e finì
dentro la culla. E le frecce, le ricavava dalle canne che le Streghe portavano dentro per
fabbricare dei canestri. Ma le Streghe non lo videro mai usare l'arco, né scoccare le frecce. Per
tutto il giorno se ne andavano lungo i ruscelli fa cogliere bacchette di salice per i canestri che
costruivano.
Lui non conosceva nessuno a eccezione delle tre Streghe dai Lunghi Denti, e non aveva mai
saputo il nome della madre e del padre. Spesso, mentre spellava le bacchette con un coltello
dal manico nero, la Strega della Casa raccontava a Gilly dalla Pelle di Capra le sventure che il
destino gli avrebbe riservato: i pericoli sarebbero venuti dalla spada e dalla lancia e dal
coltello, dall'acqua e dal fuoco, dalle bestie di terra e dagli uccelli dell'aria. Si deliziava a
raccontargli dei mali che gli sarebbero capitati. E gli diceva ridendo che era gobbo e che la
gente gli avrebbe tirato pietre.
Un giorno, mentre le Streghe erano fuori a raccogliere bacchette di salice, Gilly rovesciò la
culla e si nascose sotto di essa. Voleva vedere ciò che avrebbero fatto quando non l'avessero
visto seduto nella culla. Le Streghe entrarono. Gilly osservava da una fessura della culla e le
vide; erano vecchie e storte e avevano denti lunghi fin sotto il mento.
“Se n'è andato, se n'è andato, se n'è andato!” strillò la Strega di Casa quando non vide Gilly
nella culla.
“Se n'è andato,” disse una delle Streghe dai Lunghi Denti, “ve lo dicevo che sarebbe andato
via. Perché non gli abbiamo strappato il cuore ieri, o il giorno prima?”
“Ricordate ciò che vi dico,” replicò l'altra Strega dai Lunghi Denti, “ricordate ciò che vi dico.
Il figlio di suo padre diventerà un prode campione.”
“Certo non lui” disse la Strega di Casa, con grande rabbia. “Lui non diverrà mai un grande
campione. È solo un piccolino con la gobba, senza armi né vestiti tranne una pelle di capra.”
“Sarebbe meglio ucciderlo quando ritorna” propose la prima delle Streghe dai Lunghi Denti.
“E se non ritorna, dobbiamo dirlo al Gigante Crom Duv” disse la seconda.
Gilly dalla Pelle di Capra strisciò da sotto la culla, sistemò il suo arco sulla culla capovolta,
raccolse alcune delle bacchette che erano sul pavimento e lanciò un urlo contro le Streghe.
“Oh, se quella che ha nell'arco è una bacchetta di nocciolo avellano, ci ucciderà di sicuro”
esse gridarono a gran voce tutte insieme. Egli tirò la corda, e lasciò partire la bacchetta di
salice colpendo la Strega mezzana in pieno petto. Le tre Streghe caddero giù sul pavimento.
La pentola che era sempre sul focolare si rovesciò e la casa si riempì di fumo. Gilly dalla
Pelle di Capra, arco in mano, si lanciò al di là della culla, oltre la soglia, e poi fu nella vastità,
nell'immensità, nel buio e nella luce del mondo.
VII

Egli era fuori, come ho detto, nella vastità, nell'immensità, nel buio e nella luce del mondo.
Scoccò delle frecce in aria. Saltò sopra i fossi, ruzzolò lungo i fianchi delle colline, corse su
luoghi pianeggianti finché giunse a quello che lo sorprese più di tutte le cose al mondo: un
fiume. Non aveva mai visto prima tanta acqua e si meravigliava di vederla scorrere così
veloce. “Dove sta andando l'acqua?” chiese Gilly dalla Pelle di Capra. “Continua così sia di
notte che di giorno?” gridava al fiume correndo lungo la riva. Scorse un uccello dalle ampie
ali che volava sopra di lui. Poteva essere una gru o un airone. E mentre Gilly osservava il
grande volatile, vide che teneva un piccolo animale tra i suoi artigli. Gilly lanciò una freccia e
la gru si abbassò di colpo verso terra. Il piccolo animale che era tra i suoi artigli cadde giù. La
gru si alzò di nuovo e ritornò in volo al di là del fiume.
Il piccolo animale che era stato ghermito dagli artigli della gru, venne da Gilly dalla Pelle di
Capra. Era più piccolo del gatto guercio che era solito sedersi sul focolare della Strega di
Casa. Teneva alta la testa e aveva un'aria audace. “Buongiorno Giovanetto dalla Pelle di
Capra”, disse a Gilly, “tu mi hai salvato la vita e ti sono molto riconoscente.” “Chi sei?”
chiese Gilly dalla Pelle di Capra. “Sono la Donnola, la più audace e coraggiosa creatura di
questo paese. Sono il leone di questi luoghi, io. Prima non ho mai servito alcuno,” proseguì,
“ma sarò il tuo servitore per un quarto di anno. Dimmi in che direzione stai andando e io
verrò con te.” “Vado nella direzione in cui sta andando lui,” rispose Gilly, facendo un cenno
verso il fiume, “e mi terrò vicino a lui finché vorrà tornare indietro.” “Oh, allora dovrai fare
una lunga strada,” disse la Donnola, “ma io verrò con te, per quanto lontano tu vada.” La
Donnola camminava a fianco di Gilly impavida e spavalda.
“Oh, guarda,” disse Gilly dalla Pelle di Capra alla Donnola, “cosa c’è nell’acqua?”
La Donnola guardò e vide un uovo di cristallo nel basso fondale.
“È un uovo,” rispose la Donnola, “spesso ne mangio anch'io uno. Lo porterò su dal fondo per
te. Sono abile a portare su le uova.”
La Donnola entrò in acqua e prese in bocca l'uovo e provò a tirarlo su. Non riusciva a
muoverlo. Provò a sollevarlo con le zampe oltre che con la bocca, ma non ce la fece lo stesso.
Allora ritornò sulla riva e disse a Gilly: “Penserai che sono un servitore piuttosto scadente,
perché non sono capace di portarti un uovo fuori dall'acqua. Ma se non ce la faccio in un
modo ce la farò in un altro.” Andò in mezzo alle canne, vicino al fiume e disse:
“Uditemi, rane. C'è una grande armata che sta venendo a scovarvi tra le canne per mangiarvi
vive.” Allora Gilly vide le rane intimorite affiorare con la testa sull'acqua. “Oh, cosa
dobbiamo fare, cosa dobbiamo fare?” gridarono alla Donnola. “C'è solamente una cosa da
farsi,” disse la Donnola, “dovete raccogliere tutti i ciottoli dal letto del fiume e costruiremo un
grande muro sulla riva per difendervi.” Le rane si tuffarono subito nell'acqua e tirarono fuori i
ciottoli. Gilly e la Donnola li ammucchiarono sulla riva. Poi tre rane portarono su l'Uovo di
Cristallo. La Donnola lo prese quando lo lasciarono sulla riva. Poi salì su un albero e gridò
alle rane: “L'armata si è impaurita e sta fuggendo.” “Oh, grazie, grazie,” dissero le rane, “non
dimenticheremo mai la tua bontà verso di noi.” Poi si adagiarono nell'acquitrino e si
raccontarono l'un l'altra come l'avessero scampata per un pelo.
La Donnola diede a Gilly l'Uovo di Cristallo. Era pesante ed egli lo portò per un po' di tempo
in mano. Proseguirono. Dopo un po' disse Gilly dalla Pelle di Capra: “Sta scendendo la notte
e il fiume non dà segno di tornare indietro. Avrei desiderio di un posto gradevole dove
rifugiarci.” Aveva appena parlato, che lui e la Donnola si trovarono davanti alla porta aperta
di una deliziosa casetta. Entrarono. Un vivido fuoco stava scoppiettando nel focolare, una
poltrona vi stava davanti e un letto era preparato dall'altro lato del focolare.
“Ottimo,” disse Gilly, “ed ora desidero qualcosa da mangiare per noi.” Non appena ebbe detto
queste parole, apparve un tavolo con sopra pane e carne, frutta e vino. “Mi chiedo da dove
venga questo ben di dio” disse Gilly dalla Pelle di Capra. “Sono convinta,” rispose la
Donnola, “che tutte queste cose ci giungano grazie all'Uovo che hai in mano. È un Uovo
magico.” Gilly dalla Pelle di Capra mise l'Uovo sul tavolo e desiderò di vedersi come si era
visto nell'acqua del fiume. Non apparve nulla. Prese l'uovo in mano e rinnovò il desiderio. E
allora comparve uno specchio sul muro davanti a lui, ed egli vi si specchiò in esso meglio che
se si fosse specchiato nel fiume. Gilly dalla Pelle di Capra capì che doveva solamente tenere
in mano l'Uovo di Cristallo ed esprimere un desiderio per vederlo realizzato.
VIII

Gilly dalla Pelle di Capra desiderò ampie finestre per la sua casa e le ottenne. Desiderò una
luce all'interno per quando fuori era buio e ottenne una lampada d'argento che rimaneva
accesa fino al momento in cui voleva dormire. Desiderò il canto degli uccelli ed ebbe un
merlo che fischiava sulla soglia, un'allodola sul caminetto, un cardellino e un verde fanello
alla finestra, e un timido scricciolo che cantava alla sera sopra la credenza. Poi desiderò udire
le conversazioni degli animali, e tutte le creature dei campi e del bosco e delle cime dei monti
vennero nella sua casa.
La lepre veniva di solito in casa sua al mattino presto. Era sempre la prima ad arrivare e non
restava mai a lungo e, mentre era lì, continuava a correre su e giù per la casa e, in genere,
terminava la sua visita saltando attraverso la finestra aperta. Le faine, i bellissimi gatti
selvatici del bosco, vennero a trovare Gilly una volta sola, erano molto orgogliose e non gli
dissero nulla. I piccoli conigli neri erano intimoriti moltissimo dalle faine e, per tutto il tempo
che queste restavano in casa, essi rimanevano nascosti sotto il letto e le sedie. Due o tre volte
il Re del Bosco in persona -il Verro dalle Setole e dalle Lunghe Zanne -venne a trovare Gilly;
apriva la porta con una spinta e poi se ne stava in mezzo alla stanza e grugniva e grugniva.
Una volta portò con sé la sua compagna, e con loro vennero anche sei o sette dei suoi maialini
che si misero a scorrazzare sul pavimento, con le orecchie penzolanti sugli occhi. Venivano
spesso anche i ricci, ma si rendevano sempre sgraditi. Si coricavano davanti al fuoco e
russavano e, quando si svegliavano, litigavano in continuazione. Tutti dicevano che i figli dei
ricci venivano allevati molto male. Gli scoiattoli, che erano così puliti fe accurati, e così
affezionati ai loro figli, pensavano che i ricci fossero creature davvero molto cattive. “Lo
fanno apposta ad avere aculei sporchi e appiccicosi invece di una gradevole pelliccia pulita”
disse la moglie scoiattolo. “Ma, mia cara,” ribatté lo scoiattolo, “non tutti gli animali possono
avere la pelliccia.” “Oh beh,” disse lei, “i conigli hanno la pelliccia, sebbene si sappia che
sono creature di poco conto. È solo per farci vedere che hanno qualche legame con
quell'orribile verro che scorrazza per i boschi fracassando tutto.”
I cervi non vennero mai in casa di Gilly, ed egli aveva costruito per loro una capanna
all'esterno. Essi vi entravano e se ne stavano là per molte notti e molti giorni, e Gilly era solito
uscire a chiacchierare con loro. Essi conoscevano lontani paesi, e strani percorsi e valichi, ma
non sapevano molto degli uomini e delle faccende delle altre creature, come invece sapeva la
Volpe.
La Volpe veniva di solito la sera e si tratteneva fin quasi al mattino, sia che Gilly dormisse sia
che rimanesse sveglio. La Volpe era un'ottima parlatrice. Aveva l'abitudine di stendersi a terra
con le zampe allungate, e parlava di questo e di quello, di ciò che diceva e di ciò che faceva.
Sicuramente, se la Volpe venisse a trovarvi, e se fosse in vena di chiacchierare, anche voi
restereste alzati tutta la notte ad ascoltarla. Io so che lo farei. Fu la Volpe che raccontò a Gilly
ciò che la Cornacchia di Achill aveva fatto a Laheen l'Aquila. Aveva rubato l'Uovo di cristallo
che Laheen voleva covare, l'Uovo di Cristallo che la Gru aveva lasciato su una nuda roccia.
Fu la Volpe che raccontò a Gilly come il primo gatto venne al mondo. E fu ancora la Volpe
che raccontò a Gilly dell'origine delle anguille. Ed è davvero un peccato che la Volpe non si
possa considerare affidabile, perché uno migliore di lei a chiacchierare e a raccontare una
storia sarebbe difficile da trovare. Sceglieva e mangiava sempre cose avanzate: una patata
arrostita nelle ceneri, una mela rimasta su un piatto, un pezzo di carne sotto un coperchio.
Gilly non lesinava queste cose a Rory la Volpe, e lasciava sempre qualcosa per lei in una
borsa da portare a casa ai suoi volpacchiotti.
Mi ero quasi scordato di raccontarvi dell'amica di Gilly, la coraggiosa Donnola. Si era
costruita una casa per sé sotto il tetto. Talvolta se ne andava per un giorno o più, e non diceva
mai a Gilly dov'era stata. Quando era nella propria tana, diventava la custode della casa di
Gilly. Se qualcuno degli animali si mostrava sgradevole e litigioso con gli altri, o scortese nei
confronti di Gilly, la Donnola andava diritta da lui e lo guardava fisso negli occhi. Allora
quello se ne andava via. Teneva sempre la testa alta e se Gilly chiedeva un consiglio gli
diceva tre parole: “Non aver paura, non aver paura.”
Un giorno Gilly voleva una manciata di ciliegie per pranzo, e andò a cercare l'Uovo di
Cristallo per poter realizzare il suo desiderio. L'Uovo di Cristallo non era nel posto in cui
l'aveva lasciato. Chiamò la Donnola ed entrambi rovistarono per tutta la casa. L'Uovo di
Cristallo non si trovava da nessuna parte. “Uno degli animali ha rubato l'Uovo,” disse la
Donnola, “ma chiunque l'abbia rubato, io glielo farò restituire. Scoverò presto chi è stato.” La
Donnola, avvicinandosi ad ogni animale che entrava, lo guardava negli occhi e gli chiedeva:
“Hai rubato tu l'Uovo di Cristallo?” Ed ogni animale che entrava rispondeva:
“No, Piccolo Leone, non l'ho rubato io.”
L'indomani aveva interrogato tutti gli animali eccetto la Volpe. La Volpe non era venuta la
notte prima né la notte precedente. Essa non venne la sera in cui persero l'Uovo di Cristallo,
né la sera dopo. Quella notte la Donnola disse: “Come è vero che ho i denti in bocca, è stata la
Volpe a rubare l'Uovo di Cristallo. Appena farà chiaro la cercheremo e ce lo faremo
restituire.”
IX

La Donnola aveva ragione, era stata Rory la Volpe a rubare l'Uovo di Cristallo. Una notte,
proprio quando essa se ne stava andando dalla casa di Gilly, la luna illuminò l'Uovo di
Cristallo. In un lampo Rory la Volpe fece un piccolo balzo e prese l'Uovo in bocca. Poi
scivolò fuori dalla porta, veloce e silenziosa come una foglia portata dal vento. Non poté fare
a meno di rubare l'Uovo appena se ne presentò l'occasione. Aveva fatto un sogno. Aveva
sognato che l’Uovo era stato covato e ne era uscito il più gustoso uccello che mai una Volpe
avesse catturato. Tentava di addentarlo nel sonno, mentre lo sognava. La Volpe raccontò ai
suoi piccoli dell'uccello che aveva visto in sogno: un uccello grande come un'oca e così
grasso nel collo e nel petto, che a fatica poteva muoversi dal posto dove era seduto. I
volpacchiotti schioccavano le labbra facendo scattare le mandibole. Ora, ogni volta che la
Volpe tornava a casa, chiedevano: “Ci hai portato l'Uccello Pettoruto?” Nessuna meraviglia
che i suoi occhi si volgessero spesso all'Uovo di Cristallo, quando si trovava nella casa di
Gilly. E poi, un po' perché la luna lo illuminò proprio mentre se ne stava andando, un po'
perché sapeva che Gilly le volgeva le spalle, non poté trattenersi dal fare un piccolo balzo e
prendere delicatamente l'Uovo di Cristallo in bocca. Andò in mezzo agli oscuri alberi col
lieve e sciolto trotto di una volpe. Sapeva bene cosa doveva fare con l'Uovo. Aveva sognato
che era stato covato dalla vecchia oca reumatica della Donna Veggente. Quest'oca era
chiamata Vecchia Mamma Covatrice, e la Volpe non l'aveva mai uccisa perché stava sempre
covando ochette per la sua tavola. Andò tra gli alberi e per i campi verso la casa della Donna
Veggente.
La Donna Veggente si guadagnava da vivere predicendo il destino alla gente e
interpretandone i sogni. Questo è il motivo per cui era chiamata Donna Veggente. La gente le
dava delle provviste perché svelasse loro i sogni e la fortuna, lei lasciava il podere e il
bestiame in balia della sorte. I recinti dei suoi campi erano malandati e imputriditi. Le galline
erano state portate via dalla Volpe. La sua capra era divenuta selvatica. Non aveva né bue né
asino né pecore né maiale. La Volpe passò attraverso gli steccati come il fulmine passa
attraverso un cespuglio di uva spina, e sbucò davanti al fienile. C'era un buco nella porta del
fienile ed entrò da lì. E, nell'angolo a nord-ovest del fienile, vide la Vecchia Mamma
Cavatrice seduta su un nido di paglia; sapeva che c'era una covata di uova sotto di lei. La
vecchia oca schiamazzò, quando vide la Volpe nel fienile, ma mai si sarebbe mossa dal nido.
Rory lasciò cadere a terra ciò che aveva in bocca. La Vecchia Mamma Cavatrice piegò la
testa da un lato e guardò l'Uovo che era luminoso nella luce piena della luna.
“Quest'Uovo, Signora Cavatrice,” disse Rory la Volpe, “è da parte di Comare Gallina della
Regina d'Irlanda. La Regina ha pregato Comare Gallina di chiedermi che te lo portassi. Pensa
che non ci sia uccello al mondo tranne te, degno di covarlo e di allevare l'ochetta che sguscerà
da esso.”
“Ha ragione, ha ragione” disse Mamma Cavatrice. “Mettilo qui, mettilo qui.” Sollevò l'ala e la
Volpe mise l'Uovo di Cristallo nel nido.
Uscì dal fienile, attraversò di nuovo il campo, e andò tra gli oscuri alberi. Procedeva
lentamente ora, perché cominciava a rendersi conto che Gilly poteva scoprire chi aveva rubato
l'Uovo di Cristallo e quindi arrabbiarsi con lei. Poi le venne in mente la Donnola e cominciò a
pensare che le cose potevano mettersi male per lei se la Donnola si fosse messa sulle sue
tracce.
Rory non andò a casa di Gilly la notte successiva né la notte dopo. La terza notte, mentre
tornava a casa da un giro, la Civetta chiurlò verso di lei. “Perché ti rivolgi a me, Grande
Falena?” chiese la Volpe arrestando il trotto. (Chiamava sempre la Civetta “Grande Falena”
fingendo di credere che non fosse un uccello, ma una falena. Ricorreva a questa finzione
perché era irritata di non esser mai riuscita a mangiare una civetta.) “Perché mi chiami,
Grande Falena?” domandò. “La Donnola ha intenzione di usare le tue ossa come una
passerella e il tuo sangue come cicchetto mattutino” disse la Civetta, malignamente, mentre se
ne andava tra gli oscuri alberi. La Volpe si fermò a lungo a riflettere. Quindi andò alla sua
tana e disse ai suoi cuccioli che avrebbero dovuto trasferirsi di casa. Li fece alzare alle prime
luci. Diede loro una rana ciascuno per colazione e li condusse attraverso la campagna.
Giunsero a una tana che il Vecchio Tasso aveva da poco lasciato e Rory la Volpe vi portò i
suoi piccoli e disse loro che quella sarebbe stata la loro nuova casa.
X

La sera dopo, mentre schiacciava un pisolino, Rory la Volpe udì uno dei suoi piccoli emettere
un grido di paura. Stavano giocando fuori dalla tana. Guardò fuori e vide che i tre
volpacchiotti erano spaventati per qualcosa che stava tra loro e la tana.
Guardò di nuovo e vide la Donnola.
“Ahem,” disse Rory, “come va questa mattina?”
La Donnola aveva puntato uno dei cuccioli di Rory, pronta ad attaccarlo. Sebbene Rory
parlasse, essa non staccava gli occhi dal cucciolo che aveva puntato.
“Mia cara amica,” disse la Volpe, “stavo proprio per dirti, se stai cercando qualcosa, che forse
potrei rivelarti dove si trova.”
“L'Uovo di Cristallo!” disse la Donnola senza mai staccare lo sguardo assetato di sangue dal
cucciolo di Rory.
“Oh, l'Uovo di Cristallo” disse Rory la Volpe. “Sì, certo. Ti condurrò subito nel luogo dov'è
l'Uovo di Cristallo.” Uscì dalla tana e vide Gilly che se ne stava dietro, sulla scarpata.
“Penso che sia ora per i miei piccoli di tornare alla loro tana,” disse Rory la Volpe, “vi prego,
scusateli, amici miei.” La Donnola distolse gli occhi dal cucciolo che aveva puntato e i tre
volpacchiotti saltellarono veloci dentro la tana.
“Da questa parte, amici” disse la Volpe, e si avviò verso la casa della Donna Veggente con il
trotterellare leggero e sciolto di una volpe. Gilly e la Donnola la seguirono. Attraversarono un
campo di lino, un campo di canapa e un campo d'orzo. Giunsero al recinto spezzato, davanti
alla casa della Donna Veggente e, lì di fronte, videro la Donna Veggente in persona che
piangeva a dirotto. La Volpe si nascose dietro lo steccato, la Donnola salì su per il fossato e
Gilly andò dalla Donna Veggente.
“Cosa ti tormenta tanto?” le chiese Gilly.
“La mia oca, l'unico volatile che mi era rimasto mi è stato portato via dai ladri.”
“Chiedile dov'è la covata di uova che l'oca stava covando” disse con ansia Rory la Volpe
spuntando con la testa sopra lo steccato.
“E dov'è la covata di uova, signora, che la sua oca stava covando?”
“I ladri hanno preso il nido con l'oca, e le uova col nido” disse la Donna Veggente.
“E l'Uovo di Cristallo era con le altre uova” disse la Volpe a Gilly. Poi tacque. Fece una
veloce giravolta e si dileguò prima che la Donnola potesse balzare su di lei. Ritornò alla sua
tana. Disse alle piccole volpi che dovevano di nuovo cambiar casa. Quella notte riposarono in
un bosco e, alle prime luci, attraversarono le acque e andarono a vivere su un'isola dove la
Donnola non arrivò mai.
“Dove sono andati i ladri con l'oca, il nido e le uova?” chiese Gilly dalla Pelle di Capra.
“Sono andati al fiume,” rispose la Donna Veggente, “li ho seguiti passo passo per tutto il
cammino. Sono saliti su una barca e hanno alzato le vele. Hanno vogato e vogato con tanta
foga che il remo portava la ghiaia del fondo in superficie e spingeva la schiuma nel fondo del
fiume. E ovunque siano,” disse la Donna Veggente, “ora sono lontani da noi.”
“Verrai con me?” chiese Gilly alla Donnola. “Li rintracceremo e porteremo indietro l'Uovo di
Cristallo.”
“Mi sono impegnata con te per un quarto di anno,” disse la Donnola, “e tre mesi sono
terminati proprio adesso, Gilly. L'inverno sta arrivando e devo curare i miei affari personali.”
“Allora addio, Donnola,” disse Gilly, “cercherò da solo l'Uovo di Cristallo. Ma prima devo
chiedere alla Donna Veggente che mi lasci riposare a casa sua e mi dia qualche provvista per
il viaggio.”
La Donnola fissò Gilly in volto e gli disse addio. Allora Gilly seguì la Donna Veggente nella
sua casa. “Ohimè,” si lamentava lei fra sé e sé, “un sogno mi aveva detto che avrei perso la
mia povera oca e non ho fatto nulla per impedire ai ladri di portarmela via.”
XI

Egli restò per tre quarti di un anno nella casa della Donna Veggente. Andò più volte alla
ricerca dei ladri che avevano rubato l'Uovo di Cristallo e l'oca della Donna Veggente, ma non
riuscì a trovare nessuna traccia di loro e del loro bottino. Incontrò uccelli e bestie che erano
suoi amici, ma non poté dialogare con loro senza l'Uovo che gli consentiva di ottenere
qualunque cosa desiderasse. Lavorò per la Donna Veggente: accomodò il recinto, riparò il
fienile e ogni sera portava dal bosco la ramaglia secca per il suo focolare. Prima che egli
andasse a dormire, la Donna Veggente gli raccontava i sogni che aveva fatto la notte
precedente e gli parlava della gente che era venuta a casa sua per farsi predire la sorte.
Un lunedì mattina gli disse: “Ho avuto una premonizione, figlio del mio cuore, e so che il mio
padrino, lo Zotico della Contrada di Sfortuna, sta per arrivare per prenderti al suo servizio.”
“E che tipo di uomo è il tuo padrino, lo Zotico della Contrada di Sfortuna?” chiese Gilly.
“Un uomo cattivo. Portò via con sé due giovani che erano al mio servizio, uno dopo l'altro, e
sono diventati dei disgraziati per ciò che fece loro. Ho paura per te, se sarai portato alla
Contrada di Sfortuna.”
“Perché hai timore, Donna Veggente?” domandò Gilly. “Sarò ben contento di vedere il
mondo.”
“È ciò che dissero gli altri due giovani” rispose la Donna Veggente. “Ora ti racconterò come
agisce il mio padrino, lo Zotico della Contrada di Sfortuna: conclude un patto con il giovane
che va al suo servizio, dicendo che gli darà una ghinea, una moneta d'argento e una di rame
per tre mesi di servizio. E informa il giovane che, se dice di pentirsi del patto, dovrà perdere il
suo salario e subire il taglio di una striscia della sua pelle, larga un pollice, dal collo al
calcagno. Oh, è un uomo malvagio, il mio padrino, lo Zotico della Contrada di Sfortuna.”
“E non c'è un modo per avere la meglio su di lui?” chiese Gilly.
“C'è, ma è una strada dura” rispose la Donna Veggente. “Se si potesse fargli dire che lui, il
padrone, si pente del patto, lo Zotico stesso perderebbe una striscia della sua pelle larga un
pollice dal collo al calcagno, e dovrebbe pagare il salario per intero, anche se il giovane lo ha
servito per poco tempo.”
“È comunque un patto,” disse Gilly, “e se lo Zotico della Contrada di Sfortuna viene, io
prenderò servizio presso di lui.”
Il primo giorno di pioggia portò lo Zotico della Contrada di Sfortuna. Cavalcava un cavallo
pezzato e zoppo, che aveva la coda mozza e una grande testa. Teneva in mano un bastone di
frassino per fustigare il cavallo e sferrare dei colpi ai cani che gli attraversavano la strada.
Aveva labbra livide, occhi che guardavano di traverso e sopracciglia come cespugli di
ginestra spinosa. Teneva davanti a sé una sacca piena di zampini bolliti di maiale. E quando
arrivò alla casa ne aveva uno in bocca e lo stava mangiando. Scese dal cavallo pezzato e
zoppo, che aveva la coda mozza e una grande testa, ed entrò.
“Ho sentito che c'è un giovane a casa tua e voglio prenderlo al mio servizio” disse alla Donna
Veggente.
“Se il patto è buono, prenderò servizio da voi” affermò Gilly. “Bene, ragazzo,” disse lo
Zotico, “ecco il patto, che più giusto di così non potrebbe essere. Ti darò una ghinea, una
moneta d'argento e una di rame per il tuo lavoro di tre mesi.”
“Penso che sia un buon salario” disse Gilly.
“Lo è. Comunque, se tu mai dirai che ti penti di aver fatto il patto, perderai il tuo salario, e
inoltre perderai una striscia della tua pelle larga un pollice dal collo al calcagno. Questa
clausola è necessaria altrimenti non otterrei mai un lavoro fatto bene. I ragazzi che sono al
mio servizio dicono sempre: 'Questo non lo posso fare,' o 'Mi pento di aver fatto il patto con
te.' “
“E se sarete voi a dire che vi siete pentito di aver fatto il patto?”
“Oh, allora dovrò perdere una striscia della mia pelle larga un pollice dal collo al calcagno e
inoltre dovrò darti l'intero salario, anche se mi avrai servito per poco tempo.”
“Bene, ciò che va bene per voi andrà bene per me” disse Gilly dalla Pelle di Capra.
“Allora cammina a fianco del mio cavallo e torneremo alla Contrada di Sfortuna questa notte”
disse lo Zotico.
Poi fece sibilare in aria il bastone di frassino in direzione di Gilly e gli ordinò di tenersi
pronto. La Donna Veggente si asciugò le lacrime con il grembiule, diede un dolce a Gilly con
la sua benedizione, e lui si mise in cammino con lo Zotico della Contrada di Sfortuna.
XII

Cosa faceva Gilly dalla Pelle di Capra nella Contrada di Sfortuna? Si alzava presto e andava a
dormire tardi; continuava a zappare, a vangare e a scavare finché era così stanco che avrebbe
potuto dormire in un cespuglio di ginestra spinosa; faceva una colazione che lo lasciava
affamato cinque ore prima del pranzo e consumava un pasto che gli faceva parere lungo il
tempo fino all'ora di cena. Se si fosse lamentato, lo Zotico gli avrebbe detto: “Bene, allora ti
penti del nostro patto” e Gilly avrebbe risposto: “No!” piuttosto che perdere il salario che si
era guadagnato e una striscia di pelle.
Un giorno lo Zotico gli disse: “Va' in città a procurare il sale per la mia cena, prendi la via più
breve attraverso il campo da pascolo, e bada di non lasciarti crescere l'erba sotto i piedi.” “Va
bene, padrone” disse Gilly. “Anzi, se mi portate voi da casa la giacca mi risparmierete il
tempo di fare due viaggi.” Lo
Zotico entrò a prendere la giacca di Gilly. Quando tornò, trovò Gilly che, in piedi sull'erba
rigogliosa del pascolo, stava dando fuoco a un pugno di fieno. “Cosa vuoi fare?” gli chiese lo
Zotico. “Bruciare l'erba del pascolo” rispose Gilly. “Bruciare l'erba del mio pascolo, furfante,
l'erba che serve per il nutrimento del mio buon cavallo da corsa! Cosa ti salta in mente?” “Mi
avete detto voi di non lasciarmi crescere l'erba sotto i piedi” disse Gilly. “Lo sanno tutti che
l'erba cresce ogni minuto, e come potrò impedire che mi cresca sotto i piedi se non la brucio?”
Detto questo, si chinò a sparpagliare il fieno acceso sull'erba del pascolo. “Fermati, fermati,”
esclamò lo Zotico, “volevo dire che dovevi andare in città, senza attardarti per strada.” “Beh,
è un peccato che voi non abbiate parlato più chiaramente,” disse Gilly, “perché ora l'erba è in
fiamme.” Lo Zotico dovette calpestare l'erba per spegnere il fuoco. Si bruciò gli stinchi, e ciò
lo fece molto arrabbiare. “O tu, idiota,” disse a Gilly, “mi pento”. “Vi pentite del patto che
avete fatto con me, Padrone?” “No, stavo per dire che mi pento di non essere stato più chiaro.
Va' in città ora e portami il sale per la cena più presto che puoi.”
Dopo di ciò, lo Zotico stette molto attento a parlare con estrema precisione quando dava un
ordine a Gilly. Questo divenne per lui un gran problema, perché la gente della Contrada di
Sfortuna era abituata a dire: “Non lasciar che l'erba ti cresca sotto i piedi” quando voleva dire:
“Affrettati” e: “Non essere là finché non sei di ritorno” quando voleva dire: “Va' alla svelta”
e: “Vieni con le zampe del cavallo” quando intendeva: “Vieni con gran velocità.” Egli si
stancò di parlare alla lettera a Gilly, decise allora di dargli un ordine che non potesse essere
portato a termine, così da avere la scusa per mandarlo via senza pagargli il salario che si era
guadagnato.
Un lunedì mattina chiamò Gilly sulla soglia di casa e gli ordinò: “Porta questa pelle di pecora
al mercato e riportami la pelle e il suo prezzo.” “Molto bene, Padrone” disse Gilly. Si mise la
pelle di traverso sul braccio e si diresse verso la città. La gente per la strada gli chiedeva:
“Cosa vuoi per la pelle di pecora, ragazzo?” “Il prezzo della pelle e la pelle stessa” rispondeva
Gilly. La gente lo derideva e commentava: “Ne dovrai fare di strada, ragazzo mio.”
Attraversò il mercato ripetendo la sua richiesta. Tutti si burlavano di lui. Entrò nella casa del
mercato e si avvicinò ad una donna che stava comprando cose che nessun altro avrebbe
comprato. “Cosa vuoi, ragazzo?” domandò lei. “Il prezzo della pelle e la pelle stessa” rispose
Gilly. Ella prese la pelle da lui e ne staccò la lana. Mise la lana nella borsa e rimise la pelle sul
bancone. “Ecco la pelle,” disse, “ed ecco il suo prezzo.” Lasciò tre monete d'argento ed una di
rame sopra la pelle.
Lo Zotico aveva finito la cena quando Gilly entrò in casa. “Eccomi, Padrone, sono tornato”
disse Gilly. “Mi hai portato la pelle e il suo prezzo?” chiese lo Zotico. “Ecco la pelle” rispose
Gilly, mettendo sul tavolo la pelle di pecora da cui era stata staccata la lana. “Ed ecco il suo
prezzo: tre monete d'argento e, una di rame” aggiunse, lasciando il denaro sopra la pelle.
Lo Zotico della Contrada di Sfortuna iniziò a temere che Gilly dalla Pelle di Capra fosse
troppo furbo per lui, e che se ne sarebbe andato al termine dei tre mesi con il suo salario, una
ghinea, una moneta d'argento e una di rame strette in pugno. Questo pensiero preoccupò
molto lo Zotico, perché, da molti mesi a questa parte, aveva fatto lavorare duramente i suoi
giovani servi senza dar loro neanche il becco di un quattrino.
XIII
Il giorno dopo Natale, lo Zotico disse a Gilly: “Oggi è Santo Stefano. Devo andare nel
granaio di un tale per vedere i mimi che rappresentano una commedia. Gli sciocchi pagano
questi sfaticati per recitare, ma io non voglio di certo imitarli. Mi fermerò per un po', berrò
qualche bicchiere e me ne andrò via prima che inizino a raccogliere denaro dalla gente che li
sta a guardare. Chiamano questa raccolta 'i loro diritti', nientemeno!”
“E cosa posso fare per voi, Padrone?” chiese Gilly.
“A mezzanotte corri al granaio e mettiti a gridare: 'Padrone, Padrone, il vostro mulino va a
fuoco'. Ciò mi offrirà la scusa per venire via. Hai capito cosa voglio che tu faccia?”
“Ho capito, Padrone.”
Lo Zotico si mise la giacca e prese il bastone. “Ricordati quel che ti ho detto,” aggiunse, “non
arrivare un minuto più tardi di mezzanotte. Vedi di venire in gran fretta, vieni con le zampe
del cavallo, mi hai capito?”
“Vi ho capito, Padrone” rispose Gilly.
I mimi stavano danzando prima di dare inizio allo spettacolo, quando lo Zotico entrò nel
granaio. “Quello è un uomo ricco,” si dissero l'un l'altro, “speriamo che lasci un bel po' di
denaro nella nostra borsa.” Lo Zotico si sedette su una panca col fattore che aveva un
mucchio di vacche, col fabbro che ferrava i cavalli del Re, e col mercante che era stato in
regioni straniere e che portava grandi orecchini d'argento ai lobi delle orecchie. Non riuscirei
a nominarti nemmeno la metà delle persone che c'erano. C'erano:

Biddie Early
Tatter-Jack Walsh
Aunt Jug
Lundy Foot
Matt the Tresher
Nora Criona
Conan Maol, e
Shaun the Omadhaun.

Qualcuno ha sostenuto che c'era pure il Figlio del Re d'Irlanda.


La commedia s'intitolava:
“L'Unicorno delle Stelle.”
I mimi recitarono bene, sebbene non avessero nessuno che sostenesse la parte dell'Unicorno.
Erano a metà della commedia, quando Gilly dalla Pelle di Capra si precipitò nel granaio.
“Padrone, Padrone,” urlò, “il vostro mulino, il vostro mulino è in fiamme.” Lo Zotico si alzò
in piedi, portò il bicchiere alle labbra e lo vuotò in un sorso. “Fatemi strada, buona gente,”
diceva, “lasciatemi uscire di qui, buona gente.”
Alcune persone vicine alla porta si misero a parlare di ciò che Gilly teneva in mano. “Che
cos'hai là, mio servitore?” chiese lo Zotico. “Un paio di zampe di cavallo, Padrone. Ho potuto
portarne solo due.”
Lo Zotico prese Gilly per il collo. “Un paio di zampe di cavallo!” gridò. “Dove ti sei
procurato un paio di zampe di cavallo?”
“Dal cavallo,” rispose Gilly, “ho fatto tanta fatica a tagliarle. Accidenti a voi per avermi detto
di venire qui con le zampe del cavallo.”
“E al cavallo di chi hai tagliato le gambe?”
“Al vostro, Padrone. Non avreste certo voluto che io tagliassi le zampe del cavallo di qualcun
altro. E ho pensato che le zampe del vostro cavallo da corsa fossero le più adatte.”
I mimi e la gente si erano radunati attorno a loro e videro la faccia dello Zotico divenire nera
dalla rabbia.
“Oh, che disgrazia averti incontrato!” disse lo Zotico.
“Vi pentite del patto, Padrone?”
“Pentirmi?! Me ne pentirò ogni giorno e ogni notte della mia vita” disse lo Zotico.
“Udite ciò che dice il mio Padrone, buona gente” disse Gilly.
“Sì, certo. Dice che si pente del patto che ha fatto con te” esclamò qualcuno tra la gente.
“Allora,” disse Gilly, “spogliatelo e tenetelo fermo sulla panca finché gli taglio una striscia di
pelle larga un pollice dal collo al calcagno.”
Nessuno era disposto a farlo. “Bene, vi racconterò qualcosa che vi farà decidere” proseguì
Gilly. “Quest'uomo ha fatto lavorare per lui due poveri garzoni, non gli ha pagato nessun
salario, e ha tagliato una striscia della loro pelle, così che sono tuttora malandati e sofferenti.
Ciò vi indurrà a spogliarlo e a tenerlo fermo sulla panca?”
“No” disse qualcuno.
“Lui mi ha ordinato di venire qui stasera e di gridare: 'Padrone, Padrone, il vostro mulino è in
fiamme' così avrebbe potuto andarsene senza pagare ai mimi i loro diritti. Ma il suo mulino
non sta per nulla bruciando.”
“Spogliamolo” disse il primo mimo.
“Mettiamolo sulla panca” aggiunse un altro.
“Eccoti un coltello da scuoiatore” disse un terzo.
I mimi afferrarono lo Zotico, lo spogliarono e lo misero di traverso sulla panca. Gilly prese il
coltello e cominciò ad affilarlo sul pavimento.
“Abbiate misericordia di me” implorò lo Zotico.
“Tu non hai avuto misericordia degli altri due poveri garzoni” disse Gilly.
“Ti darò il salario pieno.”
“Non basta.”
“Ti darò due stipendi da dare agli altri garzoni.”
“E pagherai i diritti dei mimi per tutta la gente che è qui?”
“No, no, no! Non posso farlo!”
“Stendi il collo allora, perché possa segnare il punto dove inizierò a tagliare la pelle.”
“Non toccarmi con quel coltello. Pagherò i diritti per tutti” implorò lo Zotico.
“Avete udito ciò che ha detto” disse Gilly alla gente. “Mi pagherà lo stipendio pieno, mi darà
due stipendi da consegnare ai garzoni che ha ferito, e pagherà i diritti dei mimi per tutti.”
“Lo abbiamo udito” disse la gente.
“Àlzati e vèstiti” ordinò Gilly allo Zotico. “Cosa me ne faccio di una striscia della tua pelle?
Ma spero che tutti coloro che sono qui ti seguiranno a casa tua e vi rimarranno finché non
avrai pagato tutto il denaro che ti è richiesto.”
“Andremo a casa con lui” dissero i mimi.
“Non ci muoveremo di lì finché non avrà pagato tutto il denaro che ha concordato di pagare”
aggiunsero gli altri.
“Ed ora, amici, devo dirvi,” proseguì Gilly, “che non ho mai tagliato le zampe ad un cavallo
vivo, né al cavallo suo né a quello di nessun altro. Queste sono le zampe di un povero cavallo
morto, che gli scuoiatori stavano macellando.”
Infine, andarono tutti a casa dello Zotico e stettero là finché lui non aprì il forziere di pietra e
tirò fuori la cassetta del denaro e pagò ai mimi quanto dovuto da tutti gli spettatori e in più
altri sei pence, e pagò a Gilly lo stipendio pieno, una ghinea, una moneta d'argento e una di
rame, e gli consegnò i due stipendi da dare a ciascuno dei garzoni che aveva maltrattato. Gilly
prese il denaro e lasciò la casa dello Zotico della Contrada di Sfortuna, e la gente e i mimi lo
accompagnarono fuori, e lo applaudirono quando se ne andò per la sua strada.
XIV

Così Gilly tornò di nuovo alla casa della Donna Veggente. Essa era seduta sul gradino della
porta a macinare il grano con la macina quando lui le si presentò davanti. Scoppiò a piangere,
perché non credeva che sarebbe tornato salvo dalla Contrada di Sfortuna. E finché rimase da
lei, essa continuò a ricordargli il rischio che aveva corso la sua povera schiena in casa dello
Zotico.
Restò da lei due stagioni. Accomodò il recinto, pulì la sorgente; macinò il grano e le riportò
indietro il suo sciame di api; istruì il cane a scacciare i corvi fuori dal campo; dovette ferrare
l'asino, lavare le pecore, mettere le pastoie alla capra. La Donna Veggente gli era molto
riconoscente per tutto quello che faceva per lei, e un giorno gli disse: “Tu sei chiamato Gilly
dalla Pelle di Capra, ma ora ti spetta un altro nome.” “E chi mi darà un altro nome?” chiese
Gilly dalla Pelle di Capra. “Chi te lo darà? Chi se non la Vecchia di Beare?” rispose la Donna
Veggente.
Il giorno successivo gli disse: “Questa notte ho avuto un sogno, e ora so ciò che devi fare.
Devi andare dalla Vecchia di Beare per avere il nome che ti spetta. E prima che te lo dia, devi
raccontare a lei e a chiunque altro sia nella sua casa, tutto quello che sai dell'Unica Storia.”
“Ma io non so proprio nulla dell'Unica Storia” disse Gilly dalla Pelle di Capra.
“C'è sempre un vuoto prima di ogni inizio,” ribatté la Donna Veggente, “questa sera mentre
macino il grano, ti racconterò l'Unica Storia.”
Quella sera, mentre sedeva sul gradino della porta di casa e il sole tramontava dietro i
cespugli di sambuco, la Donna Veggente raccontò a Gilly la terza parte dell'Unica Storia. Poi
preparò un dolce e uccise un gallo per lui, e gli disse di partire la mattina seguente per la casa
della Vecchia di Beare.
Egli si mise in cammino di buon'ora tutto allegro, dopo aver salutato la Donna Veggente e
averle augurato buona fortuna; se ne andò lontano, attraversando alte colline, passando per
profonde valli e continuando la sua strada senza sosta né riposo, con il chiaro del giorno e con
il buio della notte, dormendo la sera in qualsiasi posto dove trovasse ricovero. Infine giunse
alla casa della Vecchia di Beare.
Entrò in casa e la trovò che stava facendo dei segni sulla cenere del focolare mentre il suo
cuculo, il suo re di quaglie e la sua rondine stavano becchettando semi dal tavolo.
“Cosa posso fare per te, buon giovane?” chiese la Vecchia di Beare. “Dammi un nome,”
rispose Gilly, “e ascolta la storia che ho da raccontarti.”
“Non lo farò,” disse la Vecchia di Beare, “finché tu non avrai compiuto un lavoro per me.”
“Che lavoro posso fare per te?” chiese Gilly dalla Pelle di Capra.
“Vorrei sapere,” disse lei, “chi di noi quattro è la creatura più vecchia del mondo: io o Laheen
l'Aquila, Nerazampa l'Alce o la Cornacchia di Achill; lascio del tutto fuori il Salmone di
Assaroe.”
“E come può un giovane come me aiutarti a saperlo?” disse Gilly dalla Pelle di Capra.
“Un bue fu ucciso il giorno in cui nacqui e, in seguito, a ogni mio compleanno. Le corna dei
buoi si trovano in due fosse qui fuori. Tu devi contarle e dirmi a quanto ammonta la metà di
esse, e così conoscerò la mia età.”
“Lo farò se tu mi nutrirai e mi darai ospitalità” disse Gilly dalla Pelle di Capra.
“Mangia a tuo piacimento” rispose la Vecchia di Beare mettendogli vicino una pagnotta e una
bottiglia d'acqua. Quando lui tagliava una fetta di pane, era come se nulla fosse stato tagliato e
quando riempiva una tazza dalla bottiglia, era come se l'acqua non fosse stata versata per
nulla. Quando ebbe mangiato e bevuto, lasciò la pagnotta intera e la bottiglia piena d'acqua
sulla mensola, poi andò fuori e iniziò a contare le corna nella fossa di destra.
Il secondo giorno gli si avvicinò uno strano giovane che lo salutò, e poi andò a contare le
corna nella fossa di sinistra. Questo giovane non era altri che il Figlio del Re d'Irlanda.
Al terzo giorno avevano contato tutte le corna. Allora Gilly dalla Pelle di Capra e il Figlio del
Re d'Irlanda s'incontrarono presso un cespuglio. “Quante corna hai contato?” chiese il
Principe Irlandese. “Tante” rispose Gilly dalla Pelle di Capra. “E quante corna hai contato
tu?” “Tante” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
E proprio nel momento in cui stavano sommando assieme le due cifre, entrambi sentirono dei
suoni nell'aria -sembravano i suoni che i Bardi fanno quando cantano i loro versi. Guardarono
in su e videro un cigno che stava volando in cerchio sopra di loro. Il cigno ritmava la storia
della venuta dei Milesi ad Eirinn e, ascoltandolo, i due giovani dimenticarono il numero delle
corna che avevano contato. E quando il cigno volò via, i giovani si guardarono l'un l'altro e
siccome erano affamati, entrarono in casa e mangiarono fette del pane che non si consumava
mai e bevvero tazze dall'inesauribile bottiglia. Allora la Vecchia di Beare si svegliò e chiese
che le dicessero il numero dei suoi anni.
“Non possiamo dirtelo, sebbene abbiamo contato tutte le corna,” rispose il Figlio del Re
d'Irlanda, “perché proprio quando stavamo sommando le nostre due cifre, un cigno ha cantato
per noi e noi abbiamo dimenticato il numero che avevamo contato.”
“Non avete svolto il vostro compito nella maniera giusta,” disse la vecchia, “ma poiché ho
promesso di dare un nome a questo giovane e di ascoltare la storia che deve raccontarci, così
sia. Ora puoi narrarci la storia, Gilly dalla Pelle di Capra.”
Si sedettero vicino al focolare, e mentre la Vecchia di Beare filava con un fuso molto antico, e
mentre il re di quaglie, il cuculo e la rondine becchettavano semi e parlottavano tra di loro,
Gilly dalla Pelle di Capra narrò l'Unica Storia. E questa è la storia come Gilly dalla Pelle di
Capra la raccontò:
L'Unica Storia

Un giorno, un Re e una Regina passeggiavano vicino al laghetto blu nel loro reame. Il cigno
era venuto nel laghetto blu, e i lucenti fiori gialli della ginestra si specchiavano sull'acqua.
“Ah,” disse la Regina, “se potessi avere una figlia che risplendesse di tali colori -il blu del
laghetto negli occhi, il giallo brillante della ginestra nei capelli e il bianco del cigno
nell'incarnato -lascerei andare i miei sette figli con le oche selvatiche.” “Zitta,” disse il Re, “tu
cerchi sventura e ti potrebbe essere mandata.” La Regina rabbrividì. Tornarono al Castello, e
quella sera la bambinaia raccontò loro che un uomo grigio aveva tracciato un cerchio attorno
ai loro sette figli pronunciando queste parole: “Che sia come vostra madre desidera, che sia
come ha detto.”
Quando la ginestra fu di nuovo in fiore, e prima che il cigno venisse al laghetto blu, alla
Regina nacque una bambina. Il Re era seduto con i suoi sette figli quando le donne vennero a
dirgli della nuova nascita. “Oh, figli miei,” esclamò lui, “possiate rimanere con me per tutta la
mia vita!” Ma i suoi figli si allontanarono da lui non appena ebbe detto queste parole.
Andarono, poco oltre la porta, sul monticello davanti alla casa. Là si tramutarono in grigie
oche selvatiche, volando tutti sette verso le sterili colline.
Nessun consigliere consultato dal Re poté aiutarlo a farli tornare indietro, e nessuno dei
cacciatori che egli inviò per il paese riuscì a portargli notizie su di loro.
Il Re e la Regina restarono con un figlio soltanto, la bambina appena nata. La chiamarono
“Sheen”, una parola che significa “Bufera”, perché la sua venuta era stata una bufera che
aveva spazzato via i suoi sette fratelli. La Regina morì. La piccola Sheen fu dimenticata dal
padre e fu allevata dai servitori che furono gli unici a dimostrarle affetto.
Un giorno, quando aveva la stessa età del fratello maggiore nel momento in cui egli aveva
perso le forme umane, Sheen andò con Mor, la figlia del Guardaboschi, e Siav, la figlia
adottiva del cestaio, a cogliere bacche nel bosco. Camminando qua e là si trovò separata da
Siav e Mor. Giunse ad un luogo in cui c'erano tantissime bacche e, passo dopo passo, seguitò
a raccoglierle, ma i suoi piedi sprofondarono in un acquitrino. Chiamò More Siav, però esse
non risposero. Urlò e urlò. Le sue grida spaventarono sette oche selvatiche che si alzarono e le
volarono intorno. “Salvatemi” implorò. Allora una delle oche selvatiche le parlò:
“Aiuteremmo chiunque ad uscire dall'acquitrino tranne una ragazza. Non possiamo salvarla
perché è colei che ci ha fatto perdere le nostre forme umane e l'affettuosa compagnia di nostro
padre.” Allora Sheen capì, perché i servitori le avevano spesso raccontato la storia, che a
parlare era stato uno dei suoi sette fratelli. “Fin da quando lo venni a sapere,” disse lei, “io ho
sofferto un'unica pena, quella di essere stata la causa della perdita delle vostre forme umane e
dell'affettuosa compagnia di nostro padre che ora è chiamato il Re Solitario. Credetemi,” disse
lei, “avrei fatto di tutto per farvi tornare come eravate.” C'era tanto sentimento nella sua voce,
che i sette fratelli, sebbene induriti dalla loro disgrazia, furono toccati nel cuore e volarono
giù ad aiutarla. La ressero per le braccia, la afferrarono per le spalle, le sollevarono i piedi. La
trasportarono al di là dell'acquitrino. Allora lei si gettò in ginocchio ed esclamò: “Oh, fratelli
miei cari, c'è qualcosa che posso fare per ridarvi le vostre sembianze umane?” “C'è una cosa”
rispose la prima delle sette oche selvatiche. Ella implorò che gliela dicessero. “È una lunga e
pesante fatica quella che dobbiamo assegnarti” spiegò una di loro. “Se raccoglierai la leggera
lanugine che cresce nella palude con le tue stesse mani,” aggiunse un'altra, “se filerai questa
lanugine, se tesserai col filato un tessuto, se cucirai con il tessuto una camicia, e lo farai più e
più volte fin che avrai completato sette camicie per noi, senza mai ridere o piangere o dire una
parola, potrai salvarci. Dovrai tessere e filare e cucire solo una camicia all'anno. E finché non
avremo indossato le nostre sette camicie, non ci verrà restituita la forma umana.” “Sarò felice
di fare tutto questo,” disse Sheen, “e non verserò lacrime, né scoppierò a ridere, e non dirò
parola per tutto il tempo che svolgerò questo compito.”
Allora disse il fratello maggiore: “La palude ti separa dalla casa di nostro padre, e dalle
amiche che erano con te oggi. Se vorrai eseguire questo compito che ci restituirà le sembianze
umane, sarà meglio che tu non torni indietro. Al di là degli alberi c'è la casa di una donna
solitaria, e là potrai vivere finché il tuo compito non sarà terminato.” Le sette oche selvatiche
tornarono all'acquitrino, e Sheen andò verso la casa oltre gli alberi, dove viveva la Donna
Veggente. Questa pensò che Sheen fosse muta, e le diede cibo e ospitalità in cambio dei
servizi che avrebbe fatto: portare l'acqua dalla sorgente durante il giorno e macinare il grano
alla macina verso il crepuscolo. Le rimaneva il resto del giorno e della notte per il proprio
compito. Raccoglieva la lanugine della palude tra mezzogiorno e il tramonto e filava di notte.
Quando il filo aveva raggiunto una certa lunghezza, iniziava a tesserlo al telaio. Alla fine
dell'anno, aveva fatto la prima camicia. In un altro anno fece la seconda, poi la terza, poi la
quarta, la quinta e la sesta. E per tutto il tempo non disse una parola, non scoppiò a ridere, e
non versò una lacrima.
In quel periodo stava raccogliendo la lanugine della palude per la settima e ultima camicia;
una volta uscì di casa quando già la neve era sciolta e sentiva leggeri i suoi passi. Centinaia di
uccelli, posati a terra, mangiavano e si chiamavano l'un l'altro. Sheen riusciva a trattenere a
stento il canto che aveva in mente. Avrebbe cantato e riso e chiacchierato quando l'ultimo filo
fosse stato filato e tessuto, quando l'ultimo punto fosse stato tracciato e quando le camicie di
lanugine della palude, che lei aveva cucito in silenzio, avessero ridato ai suoi fratelli le
sembianze umane. Raccoglieva le scarse cime della cannavan o lanugine di palude con una
mano, mentre si tappava la bocca con l'altra.
Improvvisamente qualcosa le cadde ai piedi. Era una pernice bianca che restò immobile sul
terreno. Sheen alzò gli occhi e vide in alto un falco. E quando si guardò intorno, scorse un
uomo che veniva attraverso la palude. Il falco volò verso di lui e si posò sulla sua spalla.
Sheen s'inginocchiò e, presa la pernice bianca, la tenne stretta al petto. L'uomo le venne
vicino e le parlò e la sua voce la fece alzare in piedi. Indossava un vestito da cacciatore. Il suo
viso era bruno e affilato e i suoi occhi erano di un blu lucente come i fiori di genziana. Sheen
non proferì parola e il cacciatore passò oltre, con il falco sulla spalla. Allora, stringendo al
petto la pernice bianca, lei ritornò alla casa della Donna Veggente. Quella notte mentre filava,
Sheen pensava all'uomo dagli occhi blu e dal viso bruno. Chissà se qualcuno dei suoi fratelli
sarebbe stato simile a lui, si chiedeva, quando avrebbero ripreso le loro sembianze umane.
Nutrì la pernice bianca con semi di grano e la lasciò riposare nell'incavo della finestra sopra il
suo letto. Poi si coricò rimanendo sveglia e cercò di capire il significato del canto che la
Donna Veggente cantava mentre filava la lana nell'angolo del caminetto:

Riposare non potevi


Anche se sul mio petto giacevi!
Piccola sorella,
Ti cullerò perché riposi!

La piena del fiume scaccia


Il cigno fuori dal suo nido!
Riposare non potevi
Anche se sul mio petto giacevi!

Le gocce di pioggia pesano


Sul germoglio del biancospino:
I miei pensieri numero non hanno:
Riposare non potevi
Anche se sul mio petto giacevi!
Piccola sorella,
Ti cullerò perché riposi!

Passò la notte tra sonno e veglia e, quando cominciò ad albeggiare, vide la pernice bianca
accovacciata vicino all' apertura della finestra. Aprì la porta e fece qualche passo fuori per
lasciare che la pernice bianca le volasse via dalle mani.
E là, sul terreno dinanzi a lei, c'era una spada! Sheen sapeva che era la spada dell'uomo che
aveva visto il giorno prima, e capì che quell'uomo era passato durante la notte davanti alla
porta. Si inginocchiò per guardare quella lucente lama blu. Se mi fossi trovato là, sarei stato
tra le cornacchie che volavano giù pesantemente e gracchiavano appena raccoglievano
qualcosa che a loro piaceva, tra i colombacci di bosco che tubavano tra gli alberi, tra i piccoli
uccelli che bisticciavano sul tetto di paglia della casa e nella brezza che soffiava tutto attorno,
la prima brezza del giorno.
La Donna Veggente uscì e vide che Sheen stava osservando la spada sul terreno. “È lavorata
con l'abilità che solo i fabbri del Re possiedono” commentò. Prese la spada e l'appese al ramo
di un albero in modo che la rugiada del suolo non l’arrugginisse. “Penso che l'unico a cui
possa appartenere sia quello straniero che è stato visto nei luoghi selvaggi qui intorno, l'uomo
che qui chiamano il Re Cacciatore” disse a Sheen.
Un altro giorno, Sheen andò di nuovo a raccogliere lanugine di palude. Questa volta
attraversò il fiume sulle pietre del guado ed entrò in un terreno dove c'era molto bestiame. Si
fermò meravigliandosi del loro numero, e desiderò che una mucca e un vitello come quelli
potessero appartenere alla Donna Veggente. Subito dopo vide due cavalli neri che lottavano
fra di loro. Si mostravano i denti l'un l'altro e mordevano e scalciavano. Poi vennero correndo
verso di lei. “Oh,” disse Sheen tra sé e sé, “sono gli stalloni selvaggi di Breogan.” Si mise a
correre ma i cavalli furono lesti a circondarla. “Gli stalloni selvaggi di Breogan,” pensò, “si
precipiteranno su di me e mi calpesteranno a morte.” Udì poi qualcuno urlare comandi ai
cavalli. Scorse un uomo vibrare colpi a uno degli stalloni con una verga, facendolo
impennare. Lo vide fermare l'altro con il tono imperioso della voce. Corse al fiume, ma
scivolò sulle pietre del guado, cadde e sentì l'acqua scorrerle sopra. L'uomo si avvicinò e,
sollevandola, la riportò sulla sponda del fiume e al di là della palude e, quando lei guardò il
viso magro e gli occhi blu come i fiori di genziana, riconobbe l'uomo che era chiamato il Re
Cacciatore. Lui la depose a terra dopo che ebbero passato la palude, e lei andò per la sua
strada senza parlare.
Sheen non poté dire nulla di tutto ciò alla Donna Veggente. Ma quanto intensamente
desiderava che il Re Cacciatore passasse una sera in cui avesse visto un lume acceso in casa!
Come desiderava che entrasse a parlare alla Donna Veggente, così che lei stessa, mentre
filava, potesse sentire la sua voce e ascoltare le cose che lui avrebbe detto! Ella spesso se ne
stava sulla soglia e guardava attraverso la palude per vedere se qualcuno stesse venendo da
lei.
Una sera una vicina attraversò la soglia e Sheen entrò in casa dietro di lei, perché sentiva che
qualcosa d'importante stava per essere detto. C'era un uomo morto nella sua casa. Era stato
trovato nel bosco. Era conosciuto come il Re Cacciatore. Sheen, in piedi accanto al letto,
udiva ciò che la vicina raccontava.
Il Re Cacciatore era vegliato nella casa della vicina, e la figlia maggiore aveva vegliato la
salma per la prima notte. Al mattino scoprirono che una mano della ragazza era rattrappita. La
seconda figlia della donna vegliò la salma la seconda notte, e la sua mano destra restò
tremante. Questa era la terza ed ultima notte che il Re Cacciatore doveva essere vegliato, e
non c'era nessuno a vegliare la salma.
Per Sheen non esisteva più niente al mondo, ora che il Re Cacciatore era morto. Pensò che
non c'era solitudine più grande di quella della salma che nessuno vegliava in quell'ultima
strana notte che avrebbe passato sulla terra. La vicina si congedò dalla Donna Veggente e
Sheen la seguì. Si fermò sulla soglia di casa. “Oh, fanciulla,” disse la vicina, “stavo cercando
una giovinetta che vegliasse una salma in casa mia per questa notte, la terza ed ultima notte di
veglia. Se tu volessi vegliarla, io ti darei un pettine per i tuoi capelli.” Sheen acconsentì con
un cenno e andò nella casa dove si trovava il morto. Dapprima ebbe timore di guardare il
letto. Poi si avvicinò e vide il Re Cacciatore col volto irrigidito, gli occhi chiusi, e il piatto di
sale sul petto. Il suo magro segugio grigio era sdraiato sui suoi piedi.
La donna e le figlie accesero le candele ponendole nelle rientranze delle finestre e di fronte al
cadavere. Poi andarono nella loro camera sotto il tetto e lasciarono Sheen a vegliare. Lei si
sedette vicino al focolare e fece avvampare una fascina dopo l'altra. Si era portata il cesto di
lanugine di palude e cominciò a filare sull'arcolaio della vicina. Terminò il filo e se lo pose
attorno al collo. Poi iniziò a cercare altre candele così da accenderne una quando un'altra
finiva. Ma come si alzò, tutte le candele si spensero di colpo. Il segugio balzò dai piedi del
letto. Allora essa vide che la salma si era levata a sedere rigidamente nel letto dove era stata
deposta. Qualcosa in Sheen vinse la paura, essa si avvicinò alla salma, prese il sale che era sul
suo petto e lo pose sulle sue labbra. Allora una voce uscì da quelle labbra. “Gentile
Damigella,” disse la voce, “avete il coraggio di seguirmi? Le altre mi hanno abbandonato e
sono state punite.
Voi mi sarete fedele?” “Vi seguirò” fece cenno Sheen. “Allora,” continuò la salma,
“appoggiate le mani sulle mie spalle e venite con me. Andrò sulla Palude Tremula, e per la
Foresta Ardente, e attraverso il Mare Glaciale.” Sheen pose le mani sulle sue spalle. Scoppiò
una bufera. Essi furono sollevati oltre il tetto della casa e trasportati attraverso la notte.
Piombarono a terra e il morto fu sbalzato lontano da Sheen. Lei fece per seguirlo e sentì una
zolla muoversi sotto i suoi piedi. Si rese conto che erano nella Palude Tremula. La salma del
Re Cacciatore procedeva rapida e lei sapeva che non doveva perderlo di vista. Lui andava
velocemente. Le zolle franarono sotto i piedi di Sheen e lei si trovò immersa in una fanghiglia
acquosa. Si liberò a fatica e saltò oltre una pozza coperta di brugo. Per tutto il tempo ebbe
paura di perdere il contatto con la figura che avanzava così veloce davanti a lei. Affondò e si
dibatté e balzò per pozze e pantani. E sempre era preceduta da quella che era stata la salma
del Re Cacciatore.
Poi vide bagliori contro il cielo e capì che stavano arrivando alla Foresta Ardente. La figura
dinanzi a lei balzò oltre un fosso ed entrò nella foresta. Anche Sheen si lanciò al di là del
fosso. Rami ardenti cadevano di traverso sul sentiero al suo passaggio. Ventate infuocate le
scottavano il viso. Le fiamme l'abbagliavano e il fumo la stordiva. Ma la figura davanti a lei
proseguiva senza esitazione e anche Sheen proseguiva senza esitazione.
La foresta finiva su una scogliera. Sotto c'era il mare. La figura davanti a lei si tuffò e anche
Sheen si tuffò. Il freddo la gelava fino al midollo. Pensò che il gelo le avrebbe strappato via la
vita, ma vide la testa di qualcuno che nuotava davanti a lei così Sheen continuò a nuotare.
Poi toccarono di nuovo terra. “Gentile Damigella,” disse la salma del Re Cacciatore, “mettete
di nuovo le mani sulle mie spalle.” Lei mise le mani sulle sue spalle. Scoppiò un'altra bufera e
li trascinò via. Essi furono trasportati attraverso il tetto nella casa della vicina. I lucignoli delle
candele ondeggiarono e la luce ritornò a illuminarli. Lei vide il segugio fermo nel mezzo della
stanza. Vide la salma seduta dove era stata distesa e gli occhi adesso erano aperti.
“Gentile Damigella,” disse la voce del Re Cacciatore, “mi avete riportato in vita. Sono stato
stregato da un incantesimo. C'è una strega nel bosco alla quale diedi il mio amore. Lei mi fece
un sortilegio, per cui la mia anima era fuori dal mio corpo e vagava lontano. Era la mia anima
che voi seguivate. E il sortilegio si sarebbe spezzato quando avessi trovato un cuore così
fedele da seguire la mia anima sulla Palude Tremula, dentro la Foresta Ardente e attraverso il
Mare Glaciale. Voi avete riportato in me l'anima e la vita.” Allora lei corse fuori dalla casa
della vicina.
La notte dopo, nella casa della Donna Veggente, finì di tessere il filo che era sul telaio. La
notte successiva cucì il tessuto e fece la sesta camicia. Il giorno seguente andò nella palude a
raccogliere la lanugine di palude per la settima camicia. Aveva riempito il suo cesto e stava
attraversando il bosco all'ora del tramonto. Al margine del bosco dove gli alberi erano radi,
vide il Re Cacciatore. Lui le prese le mani e le mani di lui erano calde. Il suo viso bruno e i
suoi occhi blu genziana erano sublimi e nobili. E Sheen sentì una gioia penetrare in lei con
l'acutezza di una spada quando lui cantò, per lei, della lucentezza dei suoi capelli e del blu dei
suoi occhi.
“O Damigella,” disse lui, “c'è qualcosa che vi lega a questo luogo?” Sheen gli mostrò la
lanugine di palude nel cesto e il filo tessuto che aveva attorno al collo. “Venite con me nel
mio regno,” disse lui, “e sarete la mia sposa e l'amore del mio cuore.” La sera successiva
Sheen andò con lui. Prese le sei camicie che aveva filato e tessuto e cucito. Il Re Cacciatore la
sollevò davanti a sé su un cavallo nero e insieme cavalcarono verso il suo Regno.
E ora Sheen era la moglie del Re Cacciatore. Sarebbe stata felice se le sorelle di suo marito
fossero state gentili. Ma erano gelose e facevano in modo che ogni cosa al Castello le fosse
ostile. E spesso chiacchieravano davanti al fratello e dicevano che Sheen non era di alto
lignaggio, e non parlava perché il suo linguaggio era rozzo. La osservavano quando di giorno
usciva a raccogliere la lanugine di palude, e la osservavano quando filava da sola di notte.
Sheen desiderava che i giorni e le notti trascorressero in fretta in modo che gli ultimi fili
potessero essere filati e tessuti e gli ultimi punti cuciti nella settima camicia. Allora i suoi
fratelli sarebbero stati con lei. Avrebbe potuto raccontare al Re la sua storia e mettere a tacere
le maldicenze delle sorelle di lui. Ma come si avvicinava alla fine del suo compito, lei
diveniva sempre più timorosa.

Il filo per la settima camicia era stato filato e tessuto. La stoffa era fatta e i primi punti erano
già stati cuciti, quando nacque il piccolo figlio di Sheen. In quel tempo il Re era lontano, a
radunare i suoi uomini nelle parti più remote del regno, e aveva mandato un messaggio in cui
diceva che Sheen e il suo bambino dovevano essere seguiti amorevolmente, e che le sue
sorelle non dovevano lasciare la camera dove si trovavano lei e il piccolo finché lui non fosse
tornato.
La terza notte, mentre Sheen era a letto con il bambino accanto, e le sue cognate erano nella
stanza, si udì una strana musica provenire dall'esterno. Risuonava tutt'intorno alla casa del Re.
Chiunque la udiva, cadeva in un profondo sonno. I soldati che erano di guardia si
addormentarono e le cameriere che stavano bisbigliando tra di loro si addormentarono. E un
sonno profondo colse Sheen e il suo bambino e le tre cognate che vegliavano nella camera.
Allora un lupo grigio, che era stato visto fuori, si lanciò all'interno attraverso l'apertura della
finestra. Afferrò con la bocca il bambino di Sheen. Saltò all'esterno attraverso l'apertura della
finestra e non fu più visto in quel luogo.
Le cognate si svegliarono mentre Sheen ancora dormiva. Andarono per prendersi cura del
bambino e scoprirono che era sparito. Allora ebbero paura di ciò che il fratello avrebbe fatto
loro per non aver vigilato come dovevano. Architettarono un intrigo per discolparsi e, prima
che Sheen si svegliasse, uccisero un piccolo animale e imbrattarono di sangue il guanciale del
letto.
Quando il Re entrò nella camera di sua moglie, scorse le sorelle sul pavimento che si
lamentavano e si strappavano i capelli. Andò dove sua moglie stava dormendo e vide il
sangue sulle sue mani e sui guanciali. Si voltò verso le sorelle brandendo la spada. Esse
protestarono violentemente che non avevano potuto impedire quanto era successo, e cioè che
la Regina aveva percosso duramente il bambino e, avendolo ucciso, ne aveva lanciato il corpo
al lupo grigio in agguato là fuori. E mentre stavano parlando Sheen si svegliò. Tese le braccia
ma il bambino non era al suo fianco. Trovò sangue sui guanciali. E udì le cognate accusarla
davanti al Re di aver ucciso il suo bambino gettando poi il suo corpo al lupo grigio. Cadde in
deliquio e, quando rinvenne, aveva perso la ragione.
Il Re s'inginocchiò vicino a lei e le chiese di raccontargli ciò che era accaduto. Ma lei sapeva
che non doveva pronunciare neanche una parola. Lui allora cominciò a osservarla con
attenzione e si meravigliò che non versasse nemmeno una lacrima. Dopo quattro giorni lei si
alzò dal letto e cercò per il Castello la pezza di tela che aveva filato e tessuto con la lanugine
di palude. La trovò e iniziò a cucire la settima camicia. Le sorelle del Re si recarono da lui e
gli dissero: “La donna che hai portato qui è di una razza diversa dalla nostra. Ha dimenticato
che le è nato un bambino, e che l'ha ucciso e ha lanciato il corpo al lupo grigio. Ora siede là a
cucire un indumento.” Il Re andò e la vide cucire e cucire come se la sua vita dipendesse da
ciascun punto che tracciava sul tessuto. Le parlò e lei alzò lo sguardo ma non parlò. Allora il
cuore del Re s'indurì. La prese e la portò oltre l'entrata del Castello. “Torna dalla gente da cui
sei venuta,” disse, “perché io non posso sopportare che tu sia qui, e non mi dica cosa è
successo.” Sheen capì che era stata cacciata dalla casa dove lui l'aveva condotta. Le sfuggì un
grido di dolore. Allora il tessuto che aveva in mano divenne lanugine di palude e fu spazzato
via dalla brezza. Quando vide quello che era successo, voltò le spalle al Castello e corse per i
boschi piangendo e singhiozzando.
Vagò per i boschi molti giorni, vivendo di bacche e di acqua di fonte. Infine giunse alla casa
della Donna Veggente. Essa era davanti alla porta e diede il benvenuto a Sheen che era
ritornata. Le diede bevande che aveva tratto da strane erbe, e in una stagione la mente e la
salute di Sheen si ristabilirono, e lei si rese conto di tutto ciò che era accaduto.
Pensò che avrebbe riscattato i suoi sette fratelli, e poi, col loro aiuto, avrebbe riavuto il suo
bambino e suo marito. Ma sapeva che avrebbe dovuto raccogliere la lanugine di palude, filare
il filo e tesserlo tutto di nuovo, poiché le sue lacrime e i suoi lamenti avevano vanificato il
lavoro fatto. Raccontò la sua storia alla Donna Veggente. Quindi si richiuse nel silenzio,
raccogliendo lanugine di palude e filando il filo.
Ma quando il primo filo fu filato, il ricordo del suo bambino lacerò di nuovo il suo cuore tanto
che non riuscì a trattenere le lacrime. Il filo che aveva filato divenne lanugine e fu soffiato
via. Per giorni versò lacrime e lacrime. Allora la Donna Veggente le disse: “Affida il bambino
che hai perduto a Diachbha, cioè al Destino. Diachbha può far sì che sia proprio lui quello che
ridarà ai tuoi sette fratelli la forma umana. E quando avrai affidato il tuo figlioletto perduto a
Diachbha, ritorna da tuo marito e raccontagli tutto ciò che ti è capitato.”
Sheen, che credeva nella saggezza della Donna Veggente, fece ciò che le era stato detto.
Costruì un'immagine del suo bambino perduto con delle foglie e la lasciò sul tetto della casa;
essa fu soffiata via dai venti. Poi fu pronta a ritornare da suo marito e a raccontargli tutto ciò
che le era accaduto nella sua vita. Ma il giorno in cui stava prendendo l'ultima brocca di acqua
dalla sorgente, lo incontrò sul sentiero. “Ti ricordi che ti portai attraverso la palude?” disse
lui. “E tu ti ricordi che seguii la tua anima?” rispose lei. Queste furono le prime parole che lei
gli avesse mai rivolto.
Ritornarono insieme dalla Donna Veggente e Sheen gli raccontò tutto quello che le era
accaduto. Lui le raccontò come le sue sorelle avessero ammesso di aver detto cose false su di
lei.
Egli la riportò nel suo Regno, dove vivono ancora come Re e Regina. Il nome che ella porta
ora non è Sheen o Bufera. Le sono nati altri due figli. Ma i suoi sette fratelli sono ancora sette
oche selvatiche, e la Regina non ha trovato nessuna traccia del suo primogenito. Però la
Donna Veggente ha avuto un sogno, e il sogno le ha rivelato questo: il figlio che Sheen ha
perduto è nel mondo e, se la giovane che lo amerà darà sette gocce del sangue del suo cuore, i
sette fratelli della Regina riprenderanno le loro forme umane.
“Così questa è l'Unica Storia,” disse la Vecchia di Beare,” se mai scoprirete il suo inizio e la
sua fine, ritornate qui a raccontarmelo. Ma non penso che riuscirete a conoscere il resto della
Storia,” proseguì, “visto che voi due non siete stati capaci di contare le corna delle due fosse
qui fuori.” Continuò a parlare e a parlare; Gilly e il Figlio del Re udivano ciò che diceva solo
quando, all'improvviso, alzava il tono della voce, e non udivano, invece, quando bisbigliava
come se stesse parlando alla cenere o alla pentola o al re di quaglie, al cuculo o alla rondine
che becchettavano semi sul pavimento. “Se vedrete di nuovo Laheen l'Aquila, o Nerazampa
l'Alce o la Cornacchia di Achill, dite loro di venire a farmi visita qualche volta. Sono qui tutta
sola a parte la mia rondine, il mio cuculo e il mio re di quaglie. E pensare che grandi Re e
Principi venivano a trovarmi!” Poi continuò a parlare alternando il tono della voce.
“Devi venire con me e aiutarmi a scoprire il resto dell'Unica Storia” disse il Figlio del Re
d'Irlanda.
“Lo farò,” rispose Gilly dalla Pelle di Capra, “ma devo prima procurarmi un nome. Vecchia
Madre, devi darmi un nome ora. “
“Ti darò un nome,” disse la Vecchia di Beare, “ma tu devi stare in piedi davanti a me e
toglierti la pelle di capra che indossi.”
Gilly armeggiò con i legacci e la pelle di capra cadde a terra. La Vecchia di Beare annuì con
la testa.
“Tu hai le stelle sul petto che indicano che sei Figlio di un Re” disse.
“Figlio di un Re io!” esclamò Gilly dalla Pelle di Capra.
“Tu hai le stelle sul petto” ripeté la Vecchia di Beare.
Gilly si guardò e vide le tre stelle sul petto. “Se sono Figlio di un Re, non l'ho mai saputo fino
ad ora” disse.
“Tu sei il Figlio di un Re,” proseguì la Vecchia di Beare, “e ti darò un nome quando ritornerai
da me. Ma voglio che tu, prima di tutto, scopra cosa è accaduto all'Uovo di Cristallo.”
“L'Uovo di Cristallo!” esclamò Gilly con grande sorpresa.
“Proprio l'Uovo di Cristallo” disse la Vecchia di Beare.
“Devi sapere che fu rubato dal nido di Laheen l'Aquila, e la creatura che lo rubò era la
Cornacchia di Achill. Ma ciò che accadde poi all'Uovo di Cristallo, nessuno lo sa.”
“lo stesso lo ebbi in seguito,” disse Gilly, “e mi fu rubato da Rory la Volpe. E poi fu messo a
covare sotto un'oca.”
“L'Uovo di Cristallo covato da un'oca dopo che un'aquila lo ha mezzo covato! Certo, certo,”
disse la Vecchia di Beare, “e adesso devi andare a scoprire cosa gli sia accaduto. Va' ora, e
quando tornerai, io ti darò il tuo nome.”
“Lo farò” disse Gilly dalla Pelle di Capra. Poi si voltò verso il Principe Irlandese. “Tre giorni
prima del Giorno di Mezzaestate mi troverai sulla strada per la Città del Castello Rosso, e
verrò con te a scoprire ciò che avvenne prima e ciò che accadrà dopo nell'Unica Storia” disse.
“C'incontreremo lì” rispose il Figlio del Re d'Irlanda.
I due giovani si misero a tavola e mangiarono fette del pane che non si consumava mai e
bevvero sorsate dall'inesauribile bottiglia. “Io resterò a far pratica di stoccate e fendenti,”
disse il Figlio del Re, “fino a quattro giorni prima del Giorno di Mezzaestate.” I due giovani si
avviarono verso la porta.
“Sette oceani di fortuna per te, Vecchia di Beare” augurò Gilly dalla Pelle di Capra.
“Possa il tuo doppio perire e tu a lungo in vita restare” disse il Figlio del Re.
Poi i due giovani uscirono assieme, ma non presero lo stesso cammino.
xv

Gilly dormì quella notte su un carro, infatti s'imbatté in un uomo che conduceva un carico di
fieno alla fiera: salito sul suo carro, si distese sul fieno e si addormentò. Quando si separò dal
contadino, tagliò un ramoscello di agrifoglio e continuò il viaggio da solo. Al cader della
notte, giunse ad un luogo dove gli sembrò di essere già stato: si guardò attorno e poi
riconobbe che quello era il posto dove aveva vissuto quando possedeva l'Uovo di Cristallo.
Cercò di vedere se la casa era ancora là: c'era e qualcuno vi abitava perché notò del fumo
uscire dal camino. Era buio ora e Gilly pensò che la soluzione migliore fosse trovare rifugio
in quella casa.
Andò alla porta e bussò. Si sentì un gran tramestio, e poi una vecchia deforme gli aprì la
porta. “Cosa vuoi?” disse. “Posso trovare ospitalità qui per questa notte, buona donna?”
chiese Gilly.
“Non puoi trovare ospitalità qui,” rispose la vecchia, “e ti consiglierei di andartene.”
“Posso chiedere chi vive qui?” disse Gilly mettendo il piede dentro la porta.
“Sei galantuomini i cui affari li tengono fuori fino alle due o le tre del mattino” rispose la
vecchia deforme.
Gilly intuì che quei galantuomini, i cui affari li tenevano fuori fino alle due o le tre del
mattino, erano i ladroni di cui aveva sentito parlare. E pensò che potevano essere gli stessi
uomini che avevano rubato l'oca della Donna Veggente e l'Uovo di Cristallo insieme ad essa.
“Vorreste dirmi, buona donna,” gridò Gilly, “se i vostri sei galantuomini hanno mai portato a
casa una vecchia oca da cova?”
“Proprio così,” disse la donna deforme, “e stringe il cuore quella vecchia oca da cova. Gira
intorno e intorno per la casa, tentando di covare le tazze che lascio in giro di qua e di là.”
Allora Gilly spalancò la porta ed entrò nella stanza.
“Non restare in questa casa,” disse la vecchia deforme. “Ora ti dirò la verità. I miei padroni
sono ladroni, e ti scuoieranno vivo se ti troveranno qui quando ritorneranno domani mattina.”
“È più probabile che sia io a scuoiarli vivi” ribatté Gilly con un'aria così feroce che impaurì
alquanto la vecchia. “E se tu non mi soddisferai con una cena e un letto, quando torneranno ti
troveranno appesa alla porta.”
La vecchia deforme era così terrorizzata che gli diede una zuppa d'avena e gli indicò un letto
per dormire. Egli si coricò e si addormentò. Fu destato da una candela che qualcuno teneva
davanti ai suoi occhi. Si alzò e vide sei ladroni che lo circondavano con i coltelli in mano.
“Cosa ti porta sotto il nostro tetto?” domandò il Capo. “Rispondimi subito, prima che ti
scuoiamo come scuoieremmo un'anguilla.”
“Parla a voce alta e rispondi al Capo” dissero i ladroni.
“Perché non dovrei essere sotto il vostro tetto?” rispose Gilly. “Io sono il Gran Ladro del
Mondo.”
I ladroni misero le mani sulle ginocchia e scoppiarono a ridere. Gilly saltò fuori dal letto.
“Sono venuto per mostrarvi le arti della ruberia e della furfanteria” disse. “Vi mostrerò degli
imbrogli che vi faranno andare superbi tra i ladri e i ladroni del mondo.”
Aveva l'aria così spavalda e parlava con tanta sicurezza che i ladroni cominciarono a pensare
che doveva avere un buon motivo per comportarsi così. Lo lasciarono e se ne andarono a
letto. Gilly si addormentò di nuovo. A mezzogiorno in punto erano seduti tutti per la
colazione, Gilly e i sei ladroni. Un contadino passava conducendo una capra alla fiera.
“Qualcuno di voi saprebbe rubare quella capra senza fare alcun male all'uomo che la sta
conducendo?” disse Gilly.
“Io no” disse un ladrone. “Nemmeno io” affermò un altro ladrone. “A malapena ci riuscirei
io” affermò il Capo dei Ladroni.
“Io ne sono capace” disse Gilly. “Sarò di ritorno con la capra prima che abbiate finito la
colazione.” E uscì fuori.
Gilly conosceva bene quelle terre, e corse attraverso il bosco finché fu ad una svolta della
strada davanti al contadino che stava conducendo la capra alla fiera. Si sfilò una scarpa e la
lasciò in mezzo alla strada. Poi corse avanti fino ad un'altra svolta della strada. Si sfilò l'altra
scarpa e la depose lì. Quindi si nascose dietro la siepe e aspettò.
Il contadino arrivò dov'era la prima scarpa. “Non è una brutta scarpa,” disse, “e se ci fosse la
sua compagna, varrebbe la pena di raccoglierla.” Proseguì e giunse dove si trovava l'altra
scarpa. “Ecco la compagna,” esclamò, “ora vale la pena di tornare a prendere la prima.” Legò
la capra a una pietra miliare e tornò indietro.
Appena il contadino ebbe girato le spalle, Gilly staccò il collare alla capra, lo lasciò sulla
pietra miliare e condusse via la capra attraverso un varco della siepe. La portò a casa prima
che i ladroni avessero finito la loro colazione. Essi furono tutti grandemente sorpresi. Il Capo
iniziò a rosicchiarsi le unghie.
Il contadino, con le due scarpe sotto il braccio, tornò dove aveva lasciato la capra. La capra
era sparita e il suo collare era rimasto sulla pietra miliare. Egli capì che un ladro aveva portato
via la sua capra. “E io che avevo promesso ad Ann, mia moglie, di comprarle un nuovo scialle
alla fiera” disse. “Non la finirà mai di rimproverarmi, se torno a casa a mani vuote. La miglior
cosa che posso fare è prendere una pecora dal mio campo e vendere quella. Poi, quando lei
sarà di buon umore per il regalo dello scialle, le racconterò della perdita della capra.” Così il
contadino ritornò al campo.
Se ne stavano seduti a giocare a carte dopo colazione -i sei ladroni e Gilly -quando videro il
contadino passare con la pecora. “Certamente sorveglierà quella pecora più attentamente di
quanto abbia sorvegliato la capra” disse uno dei ladroni.
“Qualcuno di voi saprebbe rubare quella pecora senza fargli alcun male?” chiese Gilly. “Io
no” disse uno dei ladroni. “Nemmeno io” aggiunse un altro ladrone. “A malapena ci riuscirei
io” affermò il Capo dei Ladroni. “Porterò la pecora qui prima che abbiate finito la partita a
carte” disse Gilly.
Il contadino aveva appena oltrepassato la pietra miliare, quando vide un uomo penzolare da
un albero. “Che i santi ci proteggano dal male!” esclamò. “Si impiccano uomini lungo questa
strada?” L'uomo penzolante dall'albero era Gilly. Si era legato a un ramo con la cintura
passandola sotto le ascelle. Scivolò giù dal ramo e corse finché superò il contadino. Questi
vide un altro uomo penzolare da un albero. “I santi ci conservino,” esclamò, “sicuramente non
è possibile che abbiano appeso due uomini lungo questa strada ...” Gilly scivolò giù anche da
quell'albero e continuò a correre finché non superò di nuovo il contadino. Il contadino vide un
terzo uomo penzolare da un albero. “Sto perdendo il lume della ragione?” disse. “Ritornerò
indietro a vedere se gli altri uomini sono appesi là come mi è sembrato.” Legò la pecora a un
cespuglio e tornò indietro. Appena si voltò, Gilly scivolò giù dall'albero, portò via la pecora
attraverso un varco, e ritornò dai ladroni prima che avessero finito la partita. Tutti i ladroni
dissero che era stupefacente quello che aveva fatto. Il Capo dei Ladroni fu lasciato da solo a
grattarsi la testa.
Il contadino non trovò uomini appesi agli alberi e pensò di essere fuori di senno. Ritornò
indietro e scoprì che la pecora era sparita. “Cosa farò ora?” disse. “Non oso far sapere ad Ann
che ho perso una capra e una pecora, fino a che non l'avrò messa di buon umore mostrandole
lo scialle comprato alla fiera. Non c'è nient'altro da fare ora se non prendere un manzo dal mio
campo e venderlo alla fiera.” Andò al campo, prese un manzo e passò davanti alla casa
proprio mentre i ladroni stavano accendendosi le pipe.
“Se ha sorvegliato la capra e la pecora attentamente, sorveglierà il manzo nove volte più
attentamente” disse uno dei ladroni.
“Chi di voi saprebbe portare via il manzo senza far alcun male all'uomo?” chiese Gilly. “Io
no” disse un ladrone. “Nemmeno io” aggiunse un altro ladrone. “Se tu riuscirai farlo,” disse il
Capo dei Ladroni a Gilly, “rinuncerò al comando e lo darò a te.”
“Fa' conto che sia già fatto” disse Gilly, e uscì di nuovo dalla casa.
Attraversò velocemente il bosco e, quando giunse abbastanza vicino al contadino, cominciò a
belare come una capra. Il contadino si fermò ad ascoltare. Poi Gilly cominciò a belare come
una pecora. “Sembrano proprio le voci della mia capra e della mia pecora” disse il contadino.
“Forse non sono state rubate, ma si sono soltanto allontanate. Se potessi riprenderle ora, non
avrei bisogno di inventare delle scuse per Ann, mia moglie.” Legò il manzo a un albero ed
entrò nel bosco. Appena lo fece, Gilly sgusciò fuori, prese il manzo per la fune e si affrettò
verso casa. I ladroni erano radunati davanti alla porta in attesa del suo ritorno. Quando lo
videro col manzo, gettarono per aria i loro cappelli. “Quest'uomo deve essere il nostro Capo”
dissero. Il Capo si mordeva le labbra e le unghie. Alla fine si tolse il cappello piumato e lo
passò a Gilly. “Tu sei il nostro Capo ora!” esclamarono i ladroni.
Gilly ordinò che la capra, la pecora e il manzo fossero messi nella stalla, che la porta fosse
chiusa a chiave e che la chiave fosse data a lui. Tutto ciò fu fatto. Allora egli disse a tutti i
ladroni: “Voglio sapere cosa ne è stato dell'Uovo di Cristallo che era con l'oca che avete
rubato alla Donna Veggente.”
“L'Uovo di Cristallo,” disse uno dei ladroni, “è stato covato, e ne è venuto fuori un uccello
bizzarro.” “Dov'è questo uccello ora?” chiese Gilly. “Sulle onde del lago qui vicino,”
risposero i ladroni, “lo vediamo ogni giorno”. “Portatemi al lago affinché io veda l'Uccello
che è uscito dall'Uovo di Cristallo” disse Gilly. Chiusero a chiave la porta di casa dietro di
loro e i sette, Gilly alla loro testa con il cappello piumato, si avviarono di buon passo verso il
lago.
XVI

Gli indicarono l'uccello che era sulle onde del lago, era un cigno e galleggiava con fierezza. Il
cigno venne verso di loro e come si avvicinava, essi poterono udire la sua voce. I suoni che
emetteva non erano simili ad alcun verso d'uccello, ma simili ai suoni dei bardi quando
cantano le loro storie. Le parole venivano su note alte e su note basse, ma assomigliavano a
parole di una lingua sconosciuta. E ancora il cigno cantava mentre si avvicinava alla sponda
del lago dove stavano Gilly e i sei ladroni.
Distese le ali e, sollevando il collo, lo incurvò mentre stava ad osservare gli uomini sulla riva.
“Ascoltate il Cigno delle Storie Infinite, il Cigno delle Infinite Storie” cantò con parole che
essi conoscevano. Poi si levò dalle acque, si librò nell'aria per ridiscendere volando nel mezzo
del lago.
“È giunto per noi il momento di lasciare questo luogo, se c'è un uccello sul lago che può
parlare così” disse Mogue, che era stato il Capo dei Ladroni. “Stanotte lascerò questa terra.”
“Io pure me ne andrò” disse un altro ladrone. “Io pure” aggiunse un altro. “E forse anch'io me
ne andrò da questo luogo” disse Gilly dalla Pelle di Capra.
I ladroni si allontanarono da lui e ritornarono alla casa, Gilly sedette sulla riva del lago
aspettando di vedere se il Cigno delle Storie Infinite sarebbe tornato indietro a raccontargli
qualcosa. Non venne. Mentre Gilly era lì seduto, il contadino che aveva perso la capra, la
pecora e il manzo gli passò vicino. Strascicava un piede dopo l'altro e sembrava molto
avvilito.
“Cosa c'è, brav'uomo?” domandò Gilly.
Il contadino gli raccontò come aveva perduto la capra, la pecora e il manzo. Gli raccontò
come aveva creduto di udire il belato della sua capra e il belato della sua pecora, e come era
andato nel bosco a cercarle, e come il manzo era sparito quando era ritornato sulla strada.
“E non so cosa dire a mia moglie Ann,” concluse, “soprattutto perché non potrò portarle lo
scialle per metterla di buon umore. Pesanti saranno i rimproveri che mi farà per la perdita
della capra, della pecora e del manzo.
Gilly tirò fuori una chiave dalla tasca. “Vedi questa chiave?” disse. “Prendila e apri la porta
della stalla che ti indico, e in quella stalla troverai la tua capra, la tua pecora e il tuo manzo. Ci
sono dei ladroni in quella casa, ma se provano a impedirti di prendere ciò che è tuo, di' loro
che tutti i trebbiatori del paese verranno a percuoterli con le fruste. Il contadino prese la
chiave e se ne andò pieno di gratitudine verso Gilly. La storia narra che recuperò la sua capra,
la sua pecora e il suo manzo e, a sua moglie Ann, inventò la scusa che aveva incontrato tre
chiacchieroni (* Magpie, in inglese, ha il duplice significato di gazza e chiacchierone.
[n.d.r.]) per la strada e così non era andato alla fiera a comperare lo scialle per lei. I ladroni si
spaventarono molto quando il contadino disse loro dei trebbiatori che stavano arrivando, e
perciò se ne fuggirono via da quella contrada.
Gilly, invece, pensò di tornare dalla vecchia di Beare per avere il suo nome. Prese il sentiero
presso la sponda del lago. E mentre viaggiava con il suo ramoscello di agrifoglio in mano, lo
accompagnava il canto del Cigno delle Storie Infinite.
LA CITTÀ DEL CASTELLO ROSSO

Flann fu il nome che la Vecchia di Beare diede a Gilly dalla Pelle di Capra quand'egli ritornò
a raccontarle che il Cigno delle Storie Infinite era uscito dal guscio dell'Uovo di Cristallo. Poi
Flann se ne andò dalla casa di lei e giunse al luogo dove il Figlio del Re d'Irlanda lo aspettava.
I due amici s'incamminarono lungo una strada molto frequentata. Proseguendo s'imbatterono
in uomini che conducevano dei pony, in uomini che portavano sacche sulle spalle, in uomini
con strumenti per lavorare oro e argento, bronzo e ferro. Tutti quelli a cui chiedevano dove
erano diretti rispondevano: “Stiamo andando alla Città del Castello Rosso e alla grande fiera
che si terrà là.” Il Figlio del Re e Flann decisero che anche loro sarebbero andati alla Città del
Castello Rosso, perché dove c'era tanta gente, c'era anche la possibilità di venire a sapere
l'inizio e la fine dell'Unica Storia. Così proseguirono.
E quando furono giunti a una sorgente che era sotto una grande roccia, quelli che erano con
loro si arrestarono. Dissero che era abitudine dei mercanti e dei venditori attendere là per una
giornata e andare nella Città del Castello Rosso il giorno seguente. “Oggi,” dicevano, “la
gente della Città celebra la Festa di Mezzaestate, e non gradisce che un gran numero di
visitatori entri nella loro Città finché la Festa non è finita. Il Figlio del Re d'Irlanda e Flann
proseguirono e furono ammessi nella città. La gente aveva acceso grandi fuochi nella piazza
del mercato e stava conducendo il bestiame attraverso di essi: “Se c'è del male in te, possa
bruciare, possa bruciare” urlava. Il popolo temeva che streghe e incantatori potessero entrare
nella città assieme ai venditori e ai mercanti, e questa era la ragione per cui non permettevano
che entrasse un gran numero di visitatori.
In tutte le case i focolari erano stati spenti quel giorno, e non potevano essere riaccesi se non
coi fuochi che il bestiame aveva attraversato. I fuochi erano stati lasciati divampare alti e il
Figlio del Re e Flann passarono ore a guardarli, e a osservare la folla che c'era lì intorno.
Poi venne il momento di portare il fuoco alle case. Chi veniva a prenderlo erano tutte
giovinette. Ciascuna si dirigeva verso la luce dei grandi fuochi, prendeva i tizzoni da uno di
quelli che bruciava a fiamma bassa, li poneva in un recipiente nuovo di terracotta e se ne
andava. Flann pensava in cuor suo che tutte quelle giovinette erano bellissime e meravigliose,
sebbene il Figlio del Re dicesse che alcune avevano la faccia sporca, e certe erano rapate, e
altre gobbe. Poi venne una fanciulla con un portamento così nobile e tanto superiore alle altre
che lasciò Flann senza parole.
Aveva argento sul capo e argento sulle braccia, e la folla attorno ai fuochi s'inchinava tutta
davanti a lei. Aveva i capelli di un nero corvino e il volto sorridente; ma non sorrideva
lietamente, sorrideva superba. Flann pensava che una stella si fosse posata su di lei. E quando
ella ebbe preso il fuoco e se ne fu andata via, Flann disse: “È di sicuro la Figlia del Re.”
“Lo è” disse il Figlio del Re d'Irlanda.” “La gente qui l'ha chiamata per nome.”
“Qual è il suo nome?” chiese Flann. “Lassarina,” rispose il Figlio del Re, “Fiamma-di-Vino.”
“La vedremo ancora?” domandò Flann.
“Questo non lo so” disse il Figlio del Re. “Vieni ora, e chiediamo alla gente di qui se conosce
l'Unica Storia.”
“Aspetta,” disse Flann, “stanno parlando della Principessa Fiamma-di-Vino.” Non si mosse,
ma rimase ad ascoltare ciò che dicevano. Tutti sostenevano che la Figlia del Re era
orgogliosa. Alcuni dicevano che era bellissima, ma altri rispondevano che le sue labbra erano
sottili e i suoi occhi beffardi. Nessun'altra giovinetta venne a prendere il fuoco. Flann stava
immobile e meditabondo davanti all'unico che ancora ardeva. Il Figlio del Re chiese a molti
se avevano conoscenza dell'Unica Storia, ma nessuno aveva udito di essa. Qualcuno gli disse
che ci sarebbero stati mercanti e venditori da molte parti del mondo alla fiera che avrebbe
avuto luogo l'indomani; probabilmente si sarebbe presentata l'occasione d'incontrare qualcuno
che la conosceva. Poi il Figlio del Re andò con un uomo che lo portò al Brufir, cioè ad una
Casa di Ospitalità messa a disposizione dal Re per gli stranieri.
E Flann rimase seduto a fissare il fuoco finché questo si spense, e poi si addormentò davanti
ad esso.
II

Flann fu ridestato dalla frotta di oche che gli stavano intorno: scuotevano le ali e
schiamazzavano rumorosamente come fanno le oche. Era già giorno, nonostante ci fosse
ancora una stella in cielo. Egli gettò radici di ginestra spinosa dove c'era un bagliore, e fece
ravvivare di nuovo il fuoco. I cani della città scesero a curiosare, ma poi se ne andarono
furtivamente.
Un suono di corni si udì all'esterno e il guardiano aprì le della città. Flann si riscosse e si alzò
per vedere la gente che stava entrando. Prima vennero gli uomini che conducevano i pony di
montagna che avevano pascolato in luoghi selvaggi insieme ai daini. Poi vennero gli uomini
col giustacuore di cuoio e conducevano tori dalle ampie corna: un toro nero e un toro bianco,
un toro bianco e un toro nero, uno dopo l'altro. Poi c'erano uomini che introducevano alti e
veloci segugi; ne tenevano tre per ogni guinzaglio. Donne col mantello bruno che
trasportavano gabbie di uccelli. Uomini che portavano sulle spalle e alla cintola attrezzi per
lavorare l'oro e l'argento, il bronzo il ferro. E c'erano vitelli e pecore, e grandi cavalli e pesanti
brocchi, echi, e abiti colorati, e mercanzie chiuse in sacchi che i mercanti portavano sulle
spalle. I famosi bardi e i cantastorie e gli arpisti non sarebbero giunti prima di mezzogiorno
quando gli affari cominciano a diminuire, ma vennero, con la folla dei mendicanti, i cantori di
ballate e i narratori di storie chiamate “Vai vicino al palo del mercato” perché venivano
raccontate attorno al palo della piazza del mercato ed erano molto conosciute. E in coda a tutti
con grande sorpresa Flann vide Mogue, il Capo dei Ladroni.

Mogue, con l'occhio sinistro che sporgeva come al solito, portava un cappello di pelle di lepre
e camminava zoppicando. Aveva un sacco sulla schiena, e conduceva un piccolo cavallo di
color rossiccio dall'andamento veloce. Flann lo chiamò mentre passava e Mogue fece un gran
sobbalzo. Poi sorrise quando vide che era Flann e gli si avvicinò.
“Mogue,” disse Flann, “cosa fai nella Città del Castello Rosso?”
“Sono qui per vendere alcune cose,” disse Mogue, “questo piccolo cavallo,” aggiunse, “e
alcuni oggetti che ho nel sacco.”
“E dove sono i tuoi amici?” chiese Flann.
“La mia banda, intendi?” disse Mogue. “Mi hanno abbandonato tutti quando hai dimostrato di
essere il miglior ladrone. E tu, cosa stai facendo qui?”
“Non ho nessun affare da trattare qui” disse Flann.
“Per il Nocciolo Avellano! Questo è quel che mi piace sentirti dire. Allora unisciti a me. Tu
ed io combineremo grandi cose assieme.”
“Non voglio unirmi a te” disse Flann.
“Preferirei avere te con me piuttosto che l'intera banda. Che cosa erano in fondo? Teste di
cavolo!”
Mogue ammiccò col suo occhio sporgente. “Aspetta e vedrai” continuò. “Ho le cose più
splendide nel mio sacco.” Proseguì conducendo il piccolo cavallo. Allora Flann se ne andò a
cercare il Figlio del Re.
Lo trovò alla porta del Brufir, e bevvero scodelle di latte e mangiarono insieme pane d'avena,
e poi andarono all'entrata della città per vedere le persone importanti che stavano entrando.
E assieme ai bardi e agli arpisti e agli inviati del Re che entravano, il Figlio del Re vide i suoi
fratellastri, Dermott e Downal. Li salutò ed essi lo riconobbero e vennero lietamente verso di
lui. Il Figlio del Re fece loro conoscere Flann, dicendo che anche lui era il Figlio di un Re.
Erano due bei giovani, Dermott e Downal, coi loro mantelli rossi, la testa eretta, baldanzosi
nel passo e nelle parole. Lasciarono i loro cavalli con i palafrenieri, e passeggiarono con
Flann e il Figlio del Re. Essi erano alti e robusti, il Figlio del Re aveva i capelli più scuri di
loro e il viso più affilato; del tutto diverso era il ragazzo dai capelli neri, dagli occhi bruni,
dalle labbra rosse a cui la Vecchia di Beare aveva dato il nome di Flann.
Nessuno aveva visto il Re che viveva nel Castello Rosso, dissero Dermott e Downal agli altri
due. Era chiamato il Re dal Viso Storto e, a causa della sua deturpazione, non permetteva a
nessuno, tranne ai suoi Consiglieri, di vederlo.
“Abbiamo intenzione di andare al Castello oggi” dichiararono Dermott e Downal. “Vieni
anche tu, fratello” disse Dermott al Figlio del Re.
“E anche tu, compagno” disse Downal a Flann.
“Perché non dovremmo andarci tutti? Per Ogma! Non siamo tutti Figli di Re?”
Flann si chiedeva se avrebbe rivisto la Figlia del Re, Fiamma-di-Vino. Lui sarebbe
sicuramente andato al Castello.
Bevvero birra, giocarono a scacchi e chiacchierarono per tutto il pomeriggio. Poi i palafrenieri
che erano con Dermott e Downal portarono nuovi mantelli rossi per i quattro giovani. Essi se
li misero e andarono verso il Castello del Re.
“Fratello,” disse Dermott al Figlio del Re, “voglio dirti che non torneremo al Castello di
nostro padre né al suo Regno. Abbiamo scelto il mondo come nostro guanciale. Un bel
mattino lasceremo dormire i nostri palafrenieri e andremo come fanno i salmoni giù per il
fiume.”
“Perché volete lasciare il Regno di nostro padre?”
“Perché non vogliamo governare né imparare a governare. Tutto questo lo lasciamo fare a te,
fratello. Noi, invece, vogliamo imparare l'arte di forgiare le spade, e ne costruiremo di belle.
Nella reggia del Re di Senlabor c'è un famoso forgiatore di spade, e andremo a imparare il
mestiere da lui.”

I quattro giunsero al Castello Rosso e furono fatti entrare, 1 poi andarono a sedersi sulle
panche per aspettare il Maggiordomo del Re che avrebbe dovuto riceverli. E mentre
aspettavano, guardavano una volpe domestica che giocava nel cortile. Flann continuava a
chiedersi se la Principessa Fiamma-di-Vino sarebbe passata per il cortile o se sarebbe venuta
nella Sala dove loro attendevano.
Poi la vide arrivare dal cortile. Lei notò i giovani ma si girò ad osservare la volpe domestica
per un attimo. Quindi entrò nella Sala e stette in piedi vicino alla porta.
Portava una maschera sul volto, ma la fronte, la bocca e il mento erano visibili. I giovani la
salutarono, e lei rispose con un cenno del capo. Una delle donne che aveva portato uccelli alla
Fiera, la seguiva reggendo una gabbia. Fiamma-di-Vino chiacchierava con questa donna in
una lingua straniera.
Sebbene lei chiacchierasse con la donna, Flann vide che osservava i suoi tre compagni.
Fiamma-di-Vino non lo aveva notato, perché la panca su cui egli sedeva era dietro alle altre.
Guardò per primo il Figlio del Re e poi distolse gli occhi da lui. Piegò la testa per ascoltare
ciò che Downal e Dermott stavano dicendo. Flann, lei non lo guardò affatto, e lui si sentì
desolato e non sopportò più di rimanere al Castello Rosso.
Il Maggiordomo del Re entrò nella Sala e quando annunciò chi erano i giovani -i tre figli del
Re d'Irlanda in viaggio con il loro amico del cuore -Fiamma-di-Vino si fece avanti e parlò
loro. “Possiamo rivedervi domani, Figli di Re,” disse, “domani è la nostra Festa della
Raccolta delle Mele. Potrebbe essere piacevole per voi ascoltare musica nel giardino del Re.”
Sorrise a Downal e a Dermott e al Figlio del Re, e uscì dalla Sala.
Il Maggiordomo del Re diede un banchetto in onore dei quattro giovani e poi fece loro dei
regali. Ma Flann non prestava attenzione a ciò che mangiava né a ciò che udiva, né al dono
ricevuto.
III

I quattro giovani lasciarono il Castello. Quando giunsero alla passerella che attraversava il
fiume si divisero e Downal e Dermott se ne andarono per la loro strada. Il Figlio del Re e
Flann, nel passare il fiume, videro due figure -un uomo tarchiato di mezza età e una donna
anziana dall'aspetto malandato incontrarsi davanti al Campo del Toro. “È il Gobaun Saor”
disse il Figlio del Re. “È la Donna Veggente” esclamò Flann. Andarono verso di loro,
ciascuno desiderando di salutare il proprio amico e soccorritore.
Il Figlio del Re e Flann vedevano solo un uomo tarchiato di mezza età e una donna anziana
dall'aspetto malandato. Ma la donna, nel Gobaun Saor, vedeva colui che possedeva la piena
sapienza per progettare e la piena forza per costruire, la cui sapienza e la cui forza non
potevano mai venire meno. E l'uomo, nella Donna Veggente, vedeva colei che nel volto
esprimeva tutta la serenità e nel cuore tutta la benignità. “Salve, Gobaun, Costruttore per gli
Dei” disse la donna. “Salve, Grania Oi, Riconciliatrice per gli Dei” disse l'uomo.
I due giovani si diressero velocemente verso di loro, e il Figlio del Re diede il benvenuto
all'uomo di mezza età, e Flann baciò le mani all’ anziana donna.
“Cos'hai scoperto finora, Figlio del Re?” chiese il Gobaun Saor.
“Sono venuto a conoscenza di una parte dell'Unica Storia, ma non del suo inizio e della sua
fine” rispose il Figlio del Re.
“Pulirò la Spada di Luce dalle sue chiazze quando tu mi porterai l'Unica Storia completa”
disse il Gobaun Saor.
“La cercherò per il mondo intero,” replicò il Figlio del Re, “ma ora il tempo sta facendosi
breve per me.”
“Cerca di far presto e non perderti d'animo” disse il Gobaun Saor. “Ho sistemato la mia
fucina,” proseguì, “fuori dalla città tra due alte pietre. Quando mi porterai l'intera Storia pulirò
la tua spada.”
“Non vuoi dirgli, Gobaun Saor,” disse la Donna Veggente, “dove può trovare colui che gli
racconterà il resto dell'Unica Storia?”
“Se in questa città vede un uomo che già conosce,” rispose il Gobaun Saor, “deve montare un
cavallo che ha già montato precedentemente e inseguire quell'uomo costringendolo a
raccontargli l'inizio e la fine dell'Unica Storia.”
Dicendo questo il Gobaun Saor si voltò e s'incamminò lungo la strada che usciva dalla città.
La Donna Veggente aveva portato in città delle ramazze da vendere. Mostrò ai due giovani la
piccola casa dove viveva mentre era là. Era ricolma di steli di brugo che legava insieme per
fare le ramazze.
Essi lasciarono la Donna Veggente e si misero a girare per la città, il Figlio del Re per cercare
dappertutto un uomo che aveva già conosciuto o un cavallo che aveva già montato, mentre
Flann pensava alla Principessa Fiamma-di-Vino, e a quanto poco lei lo avesse preso in
considerazione rispetto al Figlio del Re, a Dermott e a Downal. Giunsero dove una folla stava
radunata davanti al chiosco di un prestigiatore. Si fermarono in attesa che apparisse il
prestigiatore. Questi uscì e portò una scala che se ne stava diritta senza appoggiarsi a nulla, e
iniziò a salire. Su, su, su egli andò e la scala diventava sempre più alta come lui saliva. Flann
pensò che sarebbe salito fino in cielo. Poi la scala iniziò a divenire sempre più piccola e Flann
vide il prestigiatore scendere dall'altra parte. “È venuto qui per prendere quel cavallo” disse
una voce alle spalle del Figlio del Re d'Irlanda.
Il Principe Irlandese si guardò attorno e, al margine della folla, vide un uomo con un cappello
di pelle di lepre e un occhio sporgente, che teneva per le redini un cavallo rossiccio mentre
osservava il prestigiatore. Il Figlio del Re d'Irlanda riconobbe il cavallo: era l'Agile Rosso
Corsiero che aveva portato via lui e Fedelma dalla casa dell'Incantatore, e che lo aveva
condotto alla Caverna dove aveva trovato la Spada di Luce. Guardò di nuovo il prestigiatore e
si accorse che non era altri che l'Incantatore delle Terre Nere Remote. Allora gli tornò in
mente ciò che il Gobaun Saor gli aveva detto.
Aveva visto un uomo che conosceva, e un cavallo che aveva già montato prima. Doveva
montare quel cavallo, seguire l'uomo e costringerlo a raccontare il resto dell'Unica Storia.
Il Figlio del Re si fece strada attraverso la folla. Afferrò le briglie dalle mani di Mogue,
l'uomo che le reggeva, e saltò in groppa all'Agile Rosso Corsiero.
Appena fece questo, la scala che se ne stava su diritta cadde a terra. La gente gridò e fuggì. E
allora il Figlio del Re vide l'Incantatore superare con un balzo una casa e dirigersi verso la
porta della città.
Ma come l'Incantatore poteva saltare al di là di una casa, la stessa cosa era in grado di farla
l'Agile Rosso Corsiero. Il Figlio del Re lo fece voltare, tirò le redini e lo spronò verso quella
casa. Più lui correva, più veloce diveniva l'Incantatore. Questi saltò oltre la porta della città,
l'Agile Rosso Corsiero dietro di lui. Andò velocemente attraverso la campagna, superando
fossi e siepi con agili balzi. Nessun altro destriero, se non l'Agile Rosso Corsiero, avrebbe
permesso al suo cavaliere di non perderlo di vista.
IV

Su per colli e giù per valli l'Incantatore andava ma, in sella all'Agile Rosso Corsiero, il Figlio
del Re d'Irlanda lo incalzava senza tregua. L'Incantatore corse su per il fianco della settima
collina e, quando il Principe Irlandese giunse in cima, non vide nessuno.
Tuttavia continuò a correre, e passò vicino a un morto che penzolava da un albero. Cavalcò
avanti e avanti, ma ancora l'Incantatore non era in vista. Allora gli venne da pensare che
l'uomo che era appeso all'albero e che credeva morto, fosse l'astuto vecchio Incantatore. Fece
voltare l'Agile Rosso Corsiero e tornò indietro. L'uomo che aveva visto appeso all'albero non
c'era più.
Il Figlio del Re diresse il cavallo tra gli alberi e cominciò a cercare l'Incantatore, ma non trovò
alcuna traccia di lui. “L'ho perso di nuovo” esclamò. Gettò le briglie sul collo del cavallo e
disse: “Adesso, scegli tu la strada, mio Agile Rosso Corsiero.”
Non appena egli pronunciò queste parole, l'Agile Rosso Corsiero fece fremere le orecchie e
galoppò verso Ovest. Andò per boschi e attraverso torrenti e, nell'ora in cui le cornacchie
tornavano al nido e i gufi lo lasciavano, il destriero portò il Figlio del Re davanti a una casa di
pietra che stava nel mezzo della palude. “Può darsi che l'Incantatore sia in questa casa” disse
il Figlio del Re. Saltò giù dall'Agile Rosso Corsiero, spalancò la porta della casa e là, seduto
su una sedia nel mezzo della stanza con una donna che gli sedeva a fianco, c'era l'Incantatore
delle Terre Nere Remote. “Così,” disse l'Incantatore, “il mio Agile Rosso Corsiero ti ha
portato da me.”
“Così,” disse il Figlio del Re, “ti ho trovato, mio astuto vecchio Incantatore.”
“E ora che mi hai trovato, cosa vuoi da me?” chiese l'Incantatore.
“La tua testa” rispose il Figlio del Re, brandendo l'opaca Spada di Luce.
“E nulla all'infuori della mia testa potrà accontentarti?” domandò l'Incantatore.
“Nulla! -a meno che non sia l'inizio e la fine dell'Unica Storia.”
“L'Unica Storia” disse l'Incantatore. “Ti racconterò ciò che so di essa.” Così iniziò:

Io ero un Druido e Figlio di un Druido, e avevo imparato il linguaggio degli uccelli. E un


mattino, mentre ero fuori a camminare, udii un merlo e un pettirosso chiacchierare fra loro e
quando ascoltai ciò che dicevano sorrisi tra me e me.
Ora, la donna che avevo appena sposato notò che continuavo a sorridere e mi chiese: 'Perché
sorridi?' Non volevo dirglielo. “Non è la verità?” disse l'Incantatore alla donna che sedeva di
fianco a lui. “È la verità” rispose lei.
Al terzo giorno stavo ancora sorridendo tra me e me, e mia moglie mi interrogò, e allorché
non risposi mi gettò in faccia l'acqua dei piatti. 'Possa la cecità colpirti se non mi dirai perché
stai ridendo' disse. Allora le spiegai perché stavo sorridendo tra me e me. Avevo udito ciò che
si dicevano gli uccelli. Il merlo diceva al pettirosso: 'Sai che proprio qui sotto dove siamo
seduti ci sono tre bacchette, e che, se qualcuno ne prendesse una e con essa toccasse un uomo,
potrebbe trasformarlo in una qualsiasi creatura di cui pronunciasse il nome?' Questo avevo
udito dire dagli uccelli e sorridevo perché ero l'unico a sapere di queste bacchette fatate.
Mia moglie si fece mostrare da me dove fossero le bacchette e ne tagliò una quando me ne
andai. Quella sera venne dietro di me e mi toccò con la bacchetta. 'Va' fuori ora e vaga come
un lupo' disse, e immediatamente fui mutato in un lupo. “Non è vero?” chiese alla donna. “È
vero” rispose lei.
Ed essendo mutato in lupo, andai per i boschi a cercare cibo adatto ai lupi. E ora tu devi
chiedere a mia moglie che continui lei a raccontarti la Storia.
Il Figlio del Re d'Irlanda si rivolse alla donna che sedeva vicino all'Incantatore e le chiese di
continuare a raccontargli la Storia. Allora lei iniziò:

Prima che tutto ciò accadesse ero conosciuta come la Damigella dal Verde Manto. Un giorno
un Re cavalcò su per una montagna con cento persone al seguito e una bruma scese su di loro
mentre cavalcavano. Il Re non vide più il suo seguito. Dopo un po' chiamò a gran voce e
ottanta gli risposero. E dopo un altro po' chiamò di nuovo a gran voce e quaranta gli risposero.
E dopo un altro po' chiamò di nuovo a gran voce e solo venti gli risposero attraverso la bruma,
e quando chiamò di nuovo a gran voce nessuno più gli rispose.
Il Re salì la montagna finché giunse al luogo dove vivevo con i Druidi che mi avevano
allevata. Egli stette a lungo in quel luogo. Il Re mi amò per qualche tempo e io amavo il Re, e
quando se ne andò lo seguii.
Poiché non voleva stare con me, gli feci un incantesimo, in modo che a tratti rimanesse tra la
vita e la morte. Una volta, trovandosi in uno stato di morte apparente, una ragazza vegliò
vicino a lui e seguì il suo spirito in molti luoghi terribili, e così spezzò il mio incantesimo.
“Sheen era il nome della ragazza” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
“Sheen era il suo nome” confermò la donna. Egli la portò nel suo Regno e la fece sua Regina.
Dopo di che io sposai l'uomo che è qui ora: l'Incantatore delle Terre Nere Remote, il Figlio
del Druido della Roccia Grigia. Chiedigli ora di raccontarti il resto della Storia.

Quando mi mutò in un lupo grigio, disse l'Incantatore, vagai per i boschi a cercare quello che
un lupo può mangiare, ma non potei trovare nulla che calmasse la mia fame. Allora ritornai e
rimasi fuori della mia casa e la donna che era stata chiamata la Damigella dal Verde Manto
venne da me. 'Ti farò tornare alla tua forma umana,' disse, 'se tu farai come ti comanderò.'
Le promisi che avrei fatto come lei comandava. Mi ordinò di andare nella dimora di un Re
dove un bimbo era appena nato. Mi disse di portar via il bambino. Penetrai nel palazzo del
Re. Entrai nella camera e rapii il bambino che era accanto alla madre. Poi corsi attraverso i
boschi, ma alla fine caddi in una trappola che il Gigante Crom Duv aveva preparato per i lupi
che davano la caccia al suo bestiame smarrito.
Per una notte restai disteso nella trappola col bambino accanto a me. Poi Crom Duv venne e
tirò fuori lupo e bambino. Le Tre Streghe dai Lunghi Denti erano là quando ci liberò dalla
trappola, ed egli diede il bambino a una di loro, dicendole di allevarlo perché un giorno
diventasse suo servitore.
Poi mi mise in un sacco, ripromettendosi di darmi una solenne bastonatura. Mi lasciò sul
pavimento della casa. Ma, mentre lui era andato a cercare il suo bastone, strappai a morsi il
sacco e mi diedi alla fuga. Ritornai a casa mia, e mia moglie mi toccò con la bacchetta magica
trasformandomi di nuovo da lupo in uomo. “Non è vero?” chiese alla donna.
“È vero” rispose lei.
“Questo è tutto ciò che conosco dell'Unica Storia,” disse l'Incantatore delle Terre Nere
Remote, “e ora che te l'ho raccontata, rinfodera la tua spada.”
“Non deporrò la spada,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “finché non mi racconterai quale Re e
Regina erano il padre e la madre del bimbo che fu allevato dalla Streghe dai Lunghi Denti.”
“Non ho fatto alcuna promessa di dirtelo” replicò l'Incantatore delle Terre Nere Remote. “Hai
ottenuto la Storia che chiedevi, e ora girati ed esci dalla mia porta.”
“Sì, hai avuto la Storia, e ora vattene e non farti più vedere” disse la donna che sedeva vicino
al focolare.

Il Principe Irlandese rimise la spada nel fodero, uscì dalla porta e lasciò la casa
dell'Incantatore delle Terre Nere Remote. Montò sull'Agile Rosso Corsiero e si allontanò
veloce. Sapeva ora l'inizio e la fine dell'Unica Storia. Il Gobaun Saor avrebbe pulito le
macchie dalla lama della Spada di Luce e gli avrebbe mostrato come giungere alla Terra di
Bruma. Così egli avrebbe riconquistato la sua amata Fedelma.
Pensò pure alle notizie che teneva in serbo per il suo compagno Flann: Flann era il figlio del
Re che era chiamato il Re Cacciatore e di Sheen, i cui fratelli erano stati trasformati in sette
oche selvatiche. Spronò il cavallo dirigendosi verso la Città del Castello Rosso.
V

Flann pensava sempre alla Principessa Fiamma-di-Vino. Dopo che il Figlio del Re d'Irlanda
se n'era andato per inseguire con il cavallo l'Incantatore, passeggiava per la città senza notare
nessuno quando udì un richiamo e vide Mogue accanto a una piccola tenda che aveva montato
davanti al Campo del Toro. Flann andò da Mogue e lo trovò molto avvilito per la perdita del
cavallo che aveva portato in città. “Questa è una brutta città per me,” disse Mogue, “perché
non vi ho avuto fortuna, a meno che io non riesca a persuaderti a diventare mio socio. Unisciti
a me e assieme faremo grandi cose.”
“Non sarei Figlio di Re se mi unissi al Capo dei Ladroni” disse Flann.
“Bel discorso, bel discorso” disse Mogue. Pensava che Flann si prendesse gioco di lui quando
parlava di sé come di un Figlio di Re.
“Voglio vendere tre tesori che ho con me,” proseguì Mogue, “ho le cose più prodigiose che
mai furono portate in questa città.”
“Mostramele” disse Flann.
Mogue aprì uno dei suoi sacchi e tirò fuori una scatola. Quando l'aprì, ne uscì una fragranza
come Flann mai aveva sentito prima. “Che cos'è che profuma come un giardino di soavi
fiori?” chiese Flann.
“È la Rosa dei Soavi Profumi” rispose Mogue e tirò fuori dalla scatola una piccola rosa. “Non
sfiorisce mai e la sua fragranza non viene mai meno. È un tesoro adatto alla Figlia di un Re.
Ma non lo farò vedere in questa città.”
“E cos'è che brilla nella scatola?”
“È il Fermaglio di Splendore. Questo è un altro tesoro per una Figlia di Re. La damigella che
lo porterà, apparirà come la donna più regale del Regno. Ma non mostrerò neanche questo.”
“Cos'altro hai, Mogue?”
“Una cintura. La donna che la indosserà dovrà dire la verità.”
Flann pensò che avrebbe fatto di tutto per procurarsi la Rosa dei Soavi Profumi e il Fermaglio
di Splendore, e portarli in dono alla Principessa Fiamma-di-Vino.
Dormì nella tenda di Mogue e, alle prime luci del giorno, si alzò e andò alla Casa di Ospitalità
dove si trovavano Dermott e Downal. Con loro sarebbe andato al frutteto del Re, dove
avrebbe visto e forse avrebbe parlato a Fiamma-di-Vino. Ma Dermott e Downal non erano al
Brufir. Flann svegliò i loro palafrenieri e insieme cercarono i due giovani. Non c'era traccia di
Dermott e Downal. Sembrava che se ne fossero andati prima dell'alba con i loro cavalli. Flann
si recò con i palafrenieri alla porta della città. La sentinella disse che i due giovani erano
usciti di là e che gli avevano ordinato di avvertire i palafrenieri che se ne erano andati a
prendere il mondo come loro guanciale.
I palafrenieri furono sconcertati nell'udire ciò e, in verità, lo fu anche Flann. Senza il Figlio
del Re e senza Downal e Dermott come avrebbe potuto raggiungere il Giardino del Re?
Ritornò alla tenda di Mogue per riflettere sul da farsi. Dapprima pensò di non andare alla
Festa della Raccolta delle Mele, perché sapeva che Fiamma-di-Vino l'aveva invitato solo
perché era assieme ai suoi compagni. E poi pensò che sarebbe andato in ogni caso al frutteto
del Re per vedere Fiamma-di-Vino.
Se avesse avuto una delle cose meravigliose che Mogue gli aveva mostrato: la Rosa dei Soavi
Profumi o il Fermaglio di Splendore! Questi tesori avrebbero dimostrato a Fiamma-di-Vino
che lui era una persona importante. Se avesse avuto almeno uno di quegli oggetti meravigliosi
e glielo avesse offerto, lei avrebbe sicuramente dimostrato apprezzamento nei suoi confronti.
Sedette fuori dalla tenda e aspettò che Mogue ritornasse. Quando arrivò, Flann gli disse:
“Verrò con te come servitore e ti servirò bene nonostante sia un Figlio di Re, se mi darai
quello che desidero.”
“Cosa vuoi da me?” chiese Mogue.
“Dammi la Rosa dei Soavi Profumi” rispose Flann.
“Sicuramente quella è la cosa più bella che ho. Non posso dartela.”
“Ti servirò per due anni se me la darai” disse Flann.
“No!” rispose Mogue.
“Ti servirò per tre anni se me la darai” disse Flann.
“Te la darò se mi servirai per tre anni.” Al che Mogue tirò fuori dal suo sacco la scatola. La
aprì e mise in mano a Flann la Rosa dei Soavi Profumi.
Subito Flann si avviò verso il frutteto del Re. Il Maggiordomo, che lo aveva visto il giorno
prima, fece cenno ai servitori di lasciarlo passare. Lui entrò nel frutteto del Re.
Alcune damigelle stavano cantando il “Canto per il Tempo del Fiorir dei Meli” e, per tutto
quel giorno e quella notte, Flann tenne in mente quel canto:

Il tocco di mani che lo tirarono giù


Ha acceso al fiorir tutto il ramo Oh
respirate la fragranza del ramo,
E lasciate che nella notte si espanda!

Alcuni giovani stavano cogliendo le mele, e la Principessa Fiamma-di-Vino passeggiava da


sola per i sentieri del frutteto. Infine giunse dov'era Flann e, alzando gli occhi, lo guardò.
“Avevo dei compagni,” disse Flann, “ma se ne sono andati.”
“Sono degli screanzati” disse Fiamma-di-Vino con ira, e si girò per andarsene.
Flann prese la Rosa da sotto il mantello. La sua fragranza giunse a Fiamma-di-Vino e lei si
voltò di nuovo.
“Questa è la Rosa dei Soavi Profumi” disse Flann. “L'accetterai da me, Principessa?”
Lei gli ritornò vicino e prese la Rosa in mano, e c'era meraviglia sul suo volto.
“Non sfiorirà mai, e la sua fragranza non verrà mai meno” disse Flann. “E la Rosa dei Soavi
Profumi. È degna della Figlia
di un Re.”
Fiamma-di-Vino teneva la rosa in mano e sorrideva a Flann.
“Qual è il tuo nome, Figlio di Re?” chiese, con occhi luminosi e amichevoli.
“Flann” rispose lui.
“Passeggia con me, Flann” disse lei. Passeggiarono lungo i sentieri del frutteto, e i giovani e
le damigelle si voltavano per la fragranza che la Rosa dei Soavi Profumi emanava. Fiamma-
di-Vino rideva, e diceva: “Tutti loro si meravigliano del tesoro che mi hai portato, Flann! Se
tu potessi udire ciò che io dirò loro di te! Dirò che tu sei il Figlio del Re d'Arabia! Mi
crederanno perché mi hai portato un tesoro così splendido. Suppongo che non ci sia nulla di
più meraviglioso di questa Rosa.”
Allora Flann le raccontò dell'altro tesoro meraviglioso che aveva visto, il Fermaglio di
Splendore. “Una Figlia di Re dovrebbe avere un simile tesoro” disse Fiamma-di-Vino. “Oh,
quanto gelosa sarei se qualcuno portasse il Fermaglio di Splendore a una delle mie due
sorelle, Fiore-di-Giovinezza e Seno-di-Luce. Penserei allora che questa Rosa non sia un
tesoro così grande dopo tutto.”
Mentre lui stava lasciando il frutteto, lei colse un fiore e glielo diede. “Vieni a passeggiare
con me nel frutteto domani”
disse.
“Sicuramente verrò” rispose Flann.
“Portami anche il Fermaglio di Splendore” disse lei. “Non potrei essere fiera di questa Rosa e
non potrei amarti così tanto per avermela portata, se pensassi che un'altra damigella possiede
il Fermaglio di Splendore. Portamelo, Flann.”
“Te lo porterò” promise Flann.
VI

Flann era alla porta della città, quando il Figlio del Re d'Irlanda ritornò cavalcando l'Agile
Rosso Corsiero. Il Principe Irlandese smontò, prese sottobraccio Flann e gli raccontò che ora
conosceva l'intera Unica Storia. Sedettero davanti alla tenda di Mogue, e il Figlio del Re narrò
a Flann tutta la storia che aveva tanto cercato: come un Re viaggiando attraverso la bruma
fosse giunto dove vivevano i Druidi e la Damigella dal Verde Manto, come al Re fosse stato
fatto un incantesimo, e come una fanciulla, Sheen, l'avesse liberato dall'incantesimo. Gli
raccontò, pure, come l'Incantatore fu mutato in lupo, e come il lupo portò via il bimbo di
Sheen. “E l'Unica Storia è in parte la tua storia, Flann,” disse il Figlio del Re d'Irlanda,
“perché il bambino che fu lasciato con le Streghe dai Lunghi Denti eri tu; perché tu, Flann,
hai sul petto le stelle che indicano che sei Figlio di un Re. “
“È vero,” esclamò Flann, “e scoprirò quale Re e Regina furono mio padre e mia madre.”
“Va' dalle Streghe dai Lunghi Denti e costringile a rivelartelo” disse il Principe Irlandese.
“Lo farò” rispose Flann, ma intanto pensava: “Prima porterò il Fermaglio di Splendore a
Fiamma-di-Vino, e le racconterò che dovrò andar via per tanti anni con Mogue e le chiederò
di ricordarsi di me finché non tornerò da lei. Poi andrò dalle Streghe dai Lunghi Denti e le
costringerò a rivelarmi quale Re e Regina furono mio padre e mia madre.”
Il Figlio del Re d'Irlanda lasciò Flann ai suoi pensieri e andò a trovare il Gobaun Saor che gli
avrebbe pulito la lama opaca della Spada di Luce e gli avrebbe mostrato la via per
raggiungere il dominio del Re di Bruma.
Mogue passò il suo tempo con i cantori di ballate e i contastorie attorno al palo del mercato e,
quando ritornò alla sua tenda, voleva bere birra e poi andare a dormire, ma Flann lo allontanò
dal boccale di birra dicendogli: “Voglio il Fermaglio di Splendore da te, Mogue.”
“Per la mia pelle,” esclamò Mogue, “la prossima volta mi chiederai il mio sangue, ragazzo
mio.”
“Se mi darai il Fermaglio di Splendore, Mogue, ti servirò per sei anni, tre anni oltre a quelli
che ti promisi ieri. Ti servirò bene, nonostante che io sia Figlio di Re e debba scoprire chi
sono mio padre e mia madre.”
“Non ti darò il Fermaglio di Splendore.”
“Ti servirò per sette anni se me lo darai, Mogue.”
Mogue bevve e bevve boccali di birra, sempre più accigliato. Poi allontanò il boccale e disse:
“Suppongo che la vita non varrebbe più nulla per te se non ti dessi il Fermaglio di Splendore.”
“È così, Mogue.”
Mogue sospirò profondamente, ma si avvicinò al suo sacco e trasse fuori la scatola dov'erano
i tesori. Lasciò che Flann prendesse il Fermaglio di Splendore.
“Sette anni dovrai servirmi,” gli ricordò Mogue, “e dovrai iniziare il tuo servizio ora.”
“Lo comincerò subito” disse Flann, ma sgusciò fuori dalla tenda e, avvolgendosi nel suo
mantello rosso, andò al frutteto del Re.
VII

“Oh, Flann, mio portatore di tesori” esclamò Fiamma-di-Vino andandogli incontro. “Ti ho
portato il Fermaglio di Splendore” disse lui. Lei tese le mani, e i suoi occhi divennero grandi e
scintillanti. Flann pose il Fermaglio di Splendore nelle sue mani.
Lei raccolse i capelli dietro la nuca con il fermaglio; come la torre che, dopo l'ultimo tocco,
supera tutte le altre in altezza e attira su di sé la luce del sole, e si erge, orgoglio di un re e
delizia di un popolo, così Fiamma-di-Vino, non appena pose il Fermaglio di Splendore fra i
capelli, divenne all'istante la più maestosa di tutte le Figlie di Re.
Passeggiò con Flann per i sentieri del frutteto, ma osservava sempre la propria ombra per
vedere se rifletteva il suo accresciuto splendore. La sua ombra non mostrava nulla. Lei
condusse Flann al pozzo del frutteto, e vi guardò dentro, ma la sua immagine riflessa non
mostrava per nulla il suo nuovo splendore. Presto si stancò di passeggiare per i sentieri del
frutteto e, quando giunse al cancello, si fermò accanto ad esso con Flann. “Un bacio per te,
Flann, mio portatore di tesori” disse lei, e lo baciò e poi se ne andò via in fretta. E
guardandola, Flann si convinse che, sebbene lei l'avesse baciato, lui non era più nei suoi
pensieri.
Uscì sconsolato dal frutteto pensando che, quando sarebbe stato a servizio da Mogue, la
Principessa Fiamma-di-Vino probabilmente l'avrebbe dimenticato. Camminando, passò vicino
alla piccola casa dove la Donna Veggente aveva le sue ramazze e gli steli di brugo. Ella corse
verso di lui quando lo vide.
“Hai udito che il Figlio del Re è venuto a conoscenza dell'inizio e della fine dell'Unica
Storia?” chiese lei.
“L'ho udito. E devo andare dalle Streghe dai Lunghi Denti per scoprire chi fossero mio padre
e mia madre, perché sicuramente sono io il bimbo che fu rapito a Sheen.”
“E ricordi che i sette fratelli di Sheen furono mutati in sette oche selvatiche?” disse lei.
“Lo ricordo, madre.”
“Ed essi rimarranno sette oche selvatiche finché una damigella che ti ama non darà sette
gocce del sangue del suo cuore per restituirli alle loro forme umane.”
“Lo ricordo, madre.”
“Chiunque sia la fanciulla che tu ami, a lei dovrai chiedere se darà sette gocce del sangue del
suo cuore. Può darsi che lei lo faccia. Può darsi che lei non lo faccia e che tu continui ad
amarla anche se lei non verserà nemmeno una goccia di sangue del suo dito più piccolo.”
“Non posso chiedere alla damigella che amo di dare sette gocce del sangue del suo cuore.”
“Chi è la damigella che ami?”
“La Figlia del Re, Fiamma-di-Vino.”
Raccontò alla Donna Veggente dei regali che le aveva dato, raccontò pure alla Donna
Veggente che si era legato a Mogue per sette anni di servizio a causa di questi regali. La
Donna Veggente chiese: “Quali altri tesori sono nel sacco di Mogue?”
“C'è ancora un tesoro, la Cintura di Verità. Chiunque la indossi non può dire altro che la
verità.”
Disse la Donna Veggente: “Devi prendere la Cintura di Verità e darla a Fiamma-di-Vino.
Riferisci a Mogue che io gli ordino di dartela senza aggiungere un giorno ai tuoi anni di
servizio. Quando Fiamma-di-Vino avrà messo la Cintura attorno alla vita, chiedile le sette
gocce di sangue del suo cuore che restituiranno ai sette fratelli di tua madre le loro forme
umane. Può darsi che lei ti ami e tuttavia rifiuti di darti le sette gocce di sangue del suo cuore.
Ma tu chiediglielo, e ascolta ciò che dirà.”
Flann lasciò la Donna Veggente e ritornò alla tenda di Mogue. La perdita dei suoi tesori aveva
distrutto Mogue che beveva in continuazione ed era sempre di cattivo umore.
“Inizia il tuo servizio ora vegliando la tenda mentre dormo” ordinò Mogue.
“C'è ancora una cosa che io voglio da te, Mogue” replicò Flann.
“Per l'Occhio di Balor! Tu sei un cuculo nel mio nido. Cosa vuoi ora?”
“La Cintura di Verità.”
“È il mio ultimo tesoro e tu vorresti prendermelo?”
“La Donna Veggente mi ha ordinato di dirti che tu devi darmi la Cintura di Verità.”
“Pietà di me, pietà di me” esclamò Mogue, ma tirò fuori la scatola dal sacco e lasciò che
Flann prendesse la Cintura.
VIII

Fiamma-di-Vino lo vide e scese lentamente lungo il sentiero del frutteto così che tutti
potessero notare la maestosità del suo incedere. “Sono felice di rivederti, Flann” disse. “Non
sono ancora tornati i tuoi compagni alla città di mio padre?”
Flann le rispose che uno di loro era tornato.
“Ordinagli di venire a trovarmi” disse Fiamma-di-Vino. Poi vide la cintura.
“Cos'hai in mano?” chiese.
“Una Cintura, che era insieme agli altri tesori.”
“Non me la daresti, Flann?” Ella prese la Cintura tra le mani. “Dimmi, bel giovane,” disse,
“come hai ottenuto tutti questi
tesori?”
“In cambio di essi dovrò dare sette anni del mio servizio” rispose Flann.
“Sette anni,” disse lei, “ma tu ricorderai, non è vero, che io ti ho amato perché tu me li hai
donati?”
“E tu, mi ricorderai finché non tornerò dai miei sette anni di servizio?”
“Oh, sì” rispose Fiamma-di-Vino, e mise la Cintura attorno alla vita mentre parlava.
“Qualcuno mi ha detto,” aggiunse Flann, “che dovrei chiedere alla damigella che mi ama sette
gocce di sangue del suo
cuore.”
La Cintura ora cingeva la vita di Fiamma-di-Vino. Lei rise con scherno. “Sette gocce del
sangue del mio cuore! Non darei a costui sette uova del nido del mio pettirosso. Gli dico che
lo amo perché mi ha portato i tre tesori degni di una Figlia di Re. Glielo dico, ma mi
vergognerei di me stessa se pensassi di provare amore per un tale individuo.”
“Ora mi stai dicendo proprio la verità?” chiese Flann.
“La verità, la verità,” rispose lei, “naturalmente ti dico la verità. Oh, e ci sono altre verità. Mi
vergognerei per sempre se le dicessi. Oh, oh. Mi stanno spuntando sulla lingua, e ogni volta
che cerco di respingerle questa Cintura stringe e stringe finché, penso, mi ucciderà.”
“Addio, allora, Fiamma-di-Vino.”
“Toglimi la Cintura, toglimi la Cintura! Quali verità mi vengono in mente! Le dirò e mi
vergognerò! Ma morirò di dolore se le trattengo. Allenta la Cintura, allenta la cintura! Prendi
la rosa che mi hai dato e allenta la Cintura!” E lasciò cadere a terra la rosa.
“Ti allenterò la Cintura” disse Flann.
“Ma allentala subito. Come devo sforzarmi per tener dentro le verità, e oh, che dolore ho
dentro! Prendi il Fermaglio di Splendore e allenta la Cintura.” Gettò il Fermaglio giù a terra.
Lui raccolse la Rosa dei Soavi Profumi e il Fermaglio di Splendore e tolse la Cintura che le
cingeva la vita.
“Oh che cosa terribile mi sono messa attorno alla vita” disse Fiamma-di-Vino. “Portala via,
Flann, portala via. Ma ridammi la Rosa dei Soavi Profumi e il Fermaglio di Splendore;
ridammeli e ti amerò per sempre.”
“Tu non puoi amarmi. E perché dovrei dare sette anni di servizio per amor tuo? Riporterò
questi tesori nel sacco di Mogue.”
“Oh, tu sei un venditore ambulante, un venditore ambulante! Vai lontano da me,” disse
Fiamma-di-Vino, “e non farti trovare domani nella Città del Castello Rosso, altrimenti
scaglierò i cani da caccia di mio padre contro di te.” Si voltò furente ed entrò nel Castello.
Flann ritornò alla tenda di Mogue e lasciò la Rosa dei Soavi Profumi, il Fermaglio di
Splendore e la Cintura di Verità sul sacco di Mogue. Si sedette in un angolo e pianse
amaramente. Più tardi arrivò il Principe Irlandese e gli disse che la sua Spada era ora più
luminosa di prima, che le chiazze che avevano macchiato la lama erano state ripulite dal
Gobaun Saor, il quale gli aveva anche mostrato la strada per la Terra di Bruma. Abbracciò
Flann e gli disse che partiva per andare a liberare la sua amata Fedelma dal Castello del Re
della Terra di Bruma.
IL RE DELLA TERRA DI BRUMA

Il Figlio del Re d'Irlanda giunse a un luogo dove il fiume che aveva seguito prendeva il nome
di Fiume delle Torri Spezzate. È chiamato così perché gli uomini dei tempi antichi provarono
a costruire delle torri sul suo corso. Le torri furono edificate per un breve tratto del fiume che
in quel punto era eccezionalmente ampio.
“Il Glashan ti trasporterà dall'altra parte del Fiume delle Torri Spezzate fino alla Terra di
Bruma” aveva detto il Gobaun Saor al Figlio del Re d'Irlanda. E ora egli era giunto al Fiume
delle Torri Spezzate ma il Glashan non si vedeva.
Infine lo scorse. Era appoggiato con la schiena contro una delle Torri e fumava una corta
pipa. L'acqua del fiume gli era quasi alle ginocchia. Era coperto di pelo e aveva una grande
testa con orecchie di cavallo. Faceva vibrare le orecchie di cavallo mentre fumava con grande
soddisfazione.
“Glashan, vieni qui” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
Ma il Glashan non gli diede per niente ascolto.
“Voglio che tu mi trasporti dall'altra parte del Fiume delle Torri Spezzate” urlò il Figlio del
Re d'Irlanda.
Il Glashan continuò a fumare e ad agitare le sue orecchie.
Il Figlio del Re d'Irlanda avrebbe dovuto sapere che l'intero clan dei Gruagach e dei Glashan
tiene particolarmente alla propria quiete e, se è loro possibile, evitano di fare qualsiasi cosa. Il
Glashan accartocciò le orecchie più bruscamente quando il Figlio del Re gli tirò contro un
ciottolo. Poi, dopo circa tre ore venne lentamente attraverso il fiume. Dalle grosse ginocchia
in giù aveva zampe di cavallo.
“Prendimi sulle tue grandi spalle, Glashan,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “e fammi
attraversare fino al lido della Terra di Bruma.”
“Non si trasporta più nessuno dall'altra parte” replicò il Glashan.
Il Principe Irlandese brandì la Spada di Luce e la fece lampeggiare.
“Oh, se possiedi quella Spada, dovrò per forza trasportarti di là,” disse il Glashan, “ma attendi
che io mi riposi.”
“Cosa hai fatto che tu debba riposare?” chiese il Figlio del Re d'Irlanda. “Prendimi sulle tue
spalle e vai.”
“Accidenti,” disse il Glashan, “sei proprio così ansioso di perdere la tua vita?”
“Prendimi sulle spalle!”
“D'accordo, vieni allora. Tu non sei il primo morto vivente che trasporto sull'altra riva.” Il
Glashan mise la pipa dentro l'orecchio. Il Figlio del Re d'Irlanda montò sulle sue spalle e si
tenne stretto alla folta criniera. Allora il Glashan immerse le sue zampe di cavallo nell'acqua e
iniziò ad attraversare il Fiume delle Torri Spezzate.
“La Terra di Bruma ha un Re” disse il Glashan, quando essi furono nel mezzo del fiume.
“Lo so, Glashan” rispose il Figlio del Re d'Irlanda.
“Bene” disse il Glashan.
Poi, quando furono a tre quarti della traversata aggiunse: “Forse tu non sai che il Re della
Terra di Bruma ti ucciderà?”
“Può darsi che sia io ad ucciderlo” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
“Saresti un tipetto audace se tu lo facessi” disse il Glashan. “Ma non ci riuscirai.”

Essi continuarono ad avanzare. L'acqua arrivava fino alla vita del Glashan ma questo non gli
procurava alcun fastidio. Così vasto era il fiume che ci volle tutto il giorno per attraversarlo. Il
Glashan fece cadere in acqua il Figlio del Re una volta sola, quando si chinò ad acciuffare
un'anguilla.
Chiese il Figlio del Re d'Irlanda: “In che modo è sorvegliato il Castello del Re della Terra di
Bruma, Glashan?”
“Ha sette porte” rispose il Glashan.
“E come sono sorvegliate le porte?”
“Sono stanco,” disse il Glashan, “e non posso parlare.”
“Dimmelo, o ti staccherò dalla testa le orecchie di cavallo.”
“Bene, la prima porta è guardata da un piviere solamente. È appollaiato sul terzo pinnacolo
sopra la porta e, quando qualcuno si avvicina, si alza e vola attorno al Castello gridando
finché le sue acute strida mettono all'erta gli altri guardiani.”
“E quali altri guardiani ci sono?”
“Oh, sono stanco, e non posso più parlare.”
Il Figlio del Re d'Irlanda gli torse le orecchie di cavallo, e allora il Glashan disse:
“La seconda porta è guardata da cinque lancieri.”
“E come è guardata la terza porta?”
“La terza porta è guardata da sette spadaccini.”
“E la quarta porta come è guardata?”
“La quarta porta è guardata dallo stesso Re della Terra di Bruma.”
“E la quinta porta?”
“La quinta porta è guardata dallo stesso Re della Terra di Bruma.”
“E la sesta porta?”
“La sesta porta è guardata dal Re della Terra di Bruma.”
“E come è guardata la settima porta?”
“La settima porta è guardata da una Strega.”
“Da una Strega solamente?”
“Da una Strega con le unghie avvelenate. Ma ora sono stanco e non ti dirò più nulla. E se
potessi avere un po' di fuoco ora fumerei la mia pipa.”
Proseguirono ancora e, proprio agli ultimi bagliori del giorno, giunsero all'altra riva del Fiume
delle Torri Spezzate. Il Principe Irlandese balzò giù dalle spalle del Glashan e sparì nella
nebbia.
II

Il Principe giunse dove torrette e pinnacoli sbucavano dalla bruma. Scalò la roccia su cui il
Castello era costruito. Arrivò alla prima porta e subito il piviere che era lassù sul terzo
pinnacolo si alzò e volò attorno al Castello emettendo acute strida.
Il Figlio del Re sollevò un masso e lo scagliò contro la porta. La sfondò. Si precipitò dentro e
attraversò il primo cortile del Castello.
Come andò verso la seconda porta, essa si spalancò e i cinque lancieri si precipitarono contro
di lui. Ma essi non avevano tenuto conto di cosa avrebbero trovato a fronteggiarli: la Spada di
Luce nelle mani del Figlio del Re d'Irlanda.
Il suo fendente spezzò le punte delle loro lance, e il suo balenante colpo obliquo accecò gli
occhi dei lancieri. A ciascuno e a tutti loro inflisse una ferita mortale. Il Figlio del Re si
slanciò attraverso la seconda porta nel terzo cortile.
Ma appena lo fece, la terza porta si spalancò e sette spadaccini vennero avanti. Si misero a
semicerchio e avanzarono verso di lui. Egli li accecò con un ampio movimento della Spada.
Fece guizzare velocemente la lama su ciascuno di loro e anche ai sette spadaccini inflisse
ferite mortali.
Attraversò il terzo cortile e andò verso la quarta porta. Non appena lo fece, essa si aprì
lentamente e un solo campione venne avanti. Chiuse la porta alle sue spalle e restò fermo con
una lunga spada grigia in mano. Era il Re della Terra di Bruma. Sorpassava un uomo alto di
tutta la testa. La faccia era come di pietra e gli occhi fissavano l'avversario con assoluto
disprezzo.
Quando il Re della Terra di Bruma iniziò l'attacco, il Figlio del Re d'Irlanda non poté far altro
che difendersi da quella pesante spada. Lui aveva la Spada di Luce a difesa, e bene lo protesse
quella luminosa e veloce lama. I due si affrontarono combattendo per tutto il cortile e il loro
muoversi concitato spaccava la terra dura e induriva la terra soffice. Combatterono dal primo
mattino fino a mezzogiorno, e poi combatterono da mezzogiorno finché durò il pomeriggio. E
nemmeno una ferita il Figlio del Re d'Irlanda inflisse al Re della Terra di Bruma, e non una
sola ferita il Re della Terra di Bruma inflisse al Figlio del Re d'Irlanda.
Ma il Principe Irlandese cominciava a sentirsi sempre più debole ed esausto. I suoi occhi
erano stanchi nello sforzo di schivare i fendenti e gli affondi della spada che stava
combattendo contro di lui. Le sue braccia potevano a malapena sostenere la Spada. Il cuore
stava per scoppiargli nel petto.
Ma proprio quando stava per soccombere sotto i colpi del Re della Terra di Bruma, un nome
balenò sopra tutti i suoi pensieri: Fedelma. Se fosse crollato e la spada del Re della Terra di
Bruma si fosse abbattuta su di lui, mai lei si sarebbe salvata. La volontà diventò di nuovo
d'acciaio nel Figlio del Re d'Irlanda. Il suo cuore riprese a battere con regolarità. La
stanchezza che gli appesantiva le braccia scomparve. Con forza brandì la Spada e attaccò il
Re della Terra di Bruma.
Vide che la spada in mano al nemico era spezzata e consunta per la difesa opposta dalla Spada
di Luce. E allora si gettò in un duro assalto. Mentre la luce stava lasciando il cielo e scendeva
l'oscurità, egli si accorse che l'energia scemava nel Re della Terra di Bruma. La spada nella
sua mano era sempre più consunta e sempre più incrinata. Alla fine la lama era ridotta a una
sola spanna. Mentre il suo avversario indietreggiava verso la porta del quarto cortile, il Figlio
del Re d'Irlanda balzò su di lui e gli affondò la Spada di Luce nel petto. Il Re della Terra di
Bruma rimase in piedi, mentre la faccia si faceva sempre più feroce. Scagliò ciò che restava
della spada, e la lama spezzata colpì il piede del Principe Irlandese e lo trafisse. Poi il Re della
Terra di Bruma cadde al suolo davanti alla quarta porta.
Il Figlio del Re d'Irlanda era così stremato per il combattimento, così dolorante per la ferita al
piede che non riuscì a scavalcare il corpo e andare verso la quinta porta. Tornò indietro, scese
giù per la roccia e ritornò al Fiume delle Torri Spezzate.
Il Glashan stava arrostendo su una pietra rovente l'anguilla che aveva pescato nel fiume.
“Lavami la ferita e dammi refrigerio, Glashan” disse il Figlio del Re d'Irlanda.
Il Glashan gli lavò la ferita del piede e gli diede una porzione di anguilla arrostita, con
crescione e acqua.
“Tornerò domattina all'alba,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “e attraverserò la quinta, la sesta
e la settima porta, e condurrò via Fedelma.”
“Se il Re della Terra di Bruma te lo permetterà” ribatté il Glashan.
“È morto,” disse il Figlio del Re d'Irlanda, “gli ho trafitto il petto con la mia Spada.”
“E dov'è la sua testa?” chiese il Glashan.
“È attaccata al suo cadavere” rispose il Figlio del Re d'Irlanda.
“Allora dovrai affrontare un altro combattimento domani. La sua vita è nella sua testa e,
poiché non gliel'hai tagliata, la vita ritornerà in lui. È lui, te l'ho detto, che sorveglia la quarta,
la quinta e la sesta porta.”
“Io non ci credo, Glashan” disse il Principe Irlandese. “Non c'è nessuno a guardia delle porte
ora, tranne la Strega di cui mi parlasti. Domani libererò Fedelma dalla sua prigionia e assieme
lasceremo la Terra di Bruma. Ma ora devo dormire.”
Posò la Spada di Luce a terra, si distese lì accanto e si addormentò. Il Glashan ripiegò le
zampe di cavallo sotto di sé, cavò la pipa fuori dall'orecchio e fumò per tutta la notte.
III

Al mattino il Figlio del Re d'Irlanda si alzò, ma sentiva stanchezza e dolore a causa del piede
ferito. Mangiò il crescione e bevve l'acqua che il Glashan gli diede, poi si avviò verso il
Castello del Re della Terra di Bruma. “Oggi dovrò affrontare solo una vecchia,” disse, “e poi
ridesterò Fedelma, il mio amore.”
Passò per la prima porta e il primo cortile, per la seconda porta e il secondo cortile, per la
terza porta e il terzo cortile.
La quarta porta era chiusa e, come vi si avvicinò, essa si aprì lentamente, e il Re della Terra di
Bruma torreggiava, alto, con la faccia di pietra e sprezzante come sempre, e in mano teneva
una pesante spada grigia.
Combatterono come avevano combattuto il giorno prima. Ma la difesa che il Figlio del Re
d'Irlanda oppose contro la spada del Re della Terra di Bruma era più debole, a causa del
dolore e della stanchezza che gli venivano dalla ferita. Tuttavia riuscì a brandire la Spada di
Luce davanti a sé e la Spada del Re della Terra di Bruma non poté vincerla. Combatterono
finché giunse il pomeriggio. Il cuore stava per scoppiargli di nuovo nel petto. I suoi occhi
sporgevano fuori dalle orbite. Le braccia potevano a malapena reggere la Spada. Cadde su un
ginocchio, ma riuscì ancora a sollevarla così da difendersi la testa.
Allora l'immagine di Fedelma apparve davanti a lui. Egli si rialzò di scatto e le sue braccia
riacquistarono il loro vigore. Il suo cuore tornò a battere regolare nel petto. E come attaccò il
Re della Terra di Bruma, vide che la lama che questi brandiva era incrinata e consunta a causa
dei fendenti contro la Spada di Luce.
Combatterono con le lame che sprizzavano scintille e lampi di luce. Combatterono finché la
spada in mano al Re della Terra di Bruma si ridusse a una spanna dall'elsa. Egli indietreggiò
verso la porta del quinto cortile. Il Principe Irlandese balzò su di lui e gli affondò la Spada di
Luce nel petto. Giù sulle pietre davanti alla quinta porta del suo Castello cadde il Re della
Terra di Bruma.
Il Figlio del Re d'Irlanda scavalcò il corpo e si diresse verso la quinta porta. Allora ricordò ciò
che gli aveva detto il Glashan: “La sua vita è nella sua testa.” Ritornò dove il Re della Terra
di Bruma era caduto. Con un taglio netto della Spada staccò la testa dal corpo.
Allora, fuori dalla bruma che li avvolgeva, apparvero tre corvi imperiali. Col becco e gli
artigli afferrarono la testa e la sollevarono. Si alzarono faticosamente in volo, tenendosi a
poca distanza dal suolo.
Con la Spada in mano il Figlio del Re d'Irlanda diede la caccia ai corvi imperiali. Li seguì
attraverso il quarto cortile, il terzo cortile, il secondo e il primo. Essi volarono via dalla roccia
sulla quale il Castello era costruito e scomparvero nella bruma.
Egli sapeva che avrebbe dovuto stare all'erta vicino al corpo del Re della Terra di Bruma, così
che la testa non potesse essere rimessa al suo posto. Sedette davanti alla quinta porta. Dolore
e stanchezza, fame e sete lo prostravano.
Desiderava ardentemente qualcosa che placasse la sua fame e la sua sete. Ma sapeva di non
poter andare al fiume per procurarsi refrigerio con acqua e crescione dal Glashan.
Qualcosa cadde di fianco a lui nel cortile. Era una bellissima mela dai brillanti colori. Fece
per raccoglierla, ma essa rotolò via verso il terzo cortile. La seguì. Però, guardando dietro di
sé, vide che i corvi imperiali si erano posati vicino al corpo del Re della Terra di Bruma
tenendo stretta la testa con il becco e gli artigli. Tornò indietro di corsa e i corvi imperiali
sollevarono di nuovo la testa del Re e volarono via.
Vegliò ancora a lungo, e la fame e la sete gli fecero desiderare ardentemente la mela dai
brillanti colori che aveva visto.
Cadde un'altra mela. Fece per raccoglierla ed essa rotolò via. Ma ora il Figlio del Re non
pensava ad altro che alla mela dai brillanti colori. La seguì dove rotolava.
Rotolò attraverso il terzo cortile, e il secondo e il primo. Rotolò fuori dalla prima porta fino
alla roccia sulla quale il Castello era costruito. Poi rotolò giù dallo sperone di roccia. Il Figlio
del Re d'Irlanda inseguì la mela con un balzo e la vide trasformarsi nella testa e nel becco di
un corvo imperiale.
Egli risalì la rupe e tornò indietro correndo. E quando giunse nel primo cortile vide che i tre
corvi imperiali erano di nuovo lì. Avevano portato la testa al corpo, e il corpo e la testa erano
ora uniti.
Il Re della Terra di Bruma era di nuovo in piedi, e la sua testa era girata verso la spalla
sinistra. Andò alla sesta porta e sollevò una spada che era lì accanto.
IV

Combatterono la loro ultima battaglia davanti alla sesta porta. La difesa che il Figlio del Re
d'Irlanda opponeva era debole e, se il Re della Terra di Bruma avesse potuto girarsi
completamente verso di lui, lo avrebbe disarmato e ucciso. Ma la sua testa era stata posta sul
corpo in modo da guardare verso sinistra. Riuscì comunque a calare la spada sul petto del
Figlio del Re d'Irlanda, e a ferirlo. Ma il Principe Irlandese mulinò la Spada attorno alla testa
e la scagliò contro il nemico. La lama mozzò la testa del Re della Terra di Bruma che
stramazzò al suolo.
Il Figlio del Re d'Irlanda vide sul collo il segno della prima decapitazione. Alzò di nuovo la
Spada di Luce e si preparò a difendere la testa contro tutti quelli che avessero tentato di
portarla via.
Ma non venne nessuno. E così i capelli si staccarono dalla testa tagliata e furono soffiati via
dal vento. E le ossa della testa divennero polvere e la carne divenne spuma, e tutto fu spazzato
via dal vento.
Allora il Figlio del Re d'Irlanda attraversò il sesto cortile e giunse alla settima porta. E lì
davanti vide l'ultima delle sentinelle: una Strega, seduta in cima al cassone dell'acqua. Essa
estraeva bianche colombe da un cesto e le gettava ai corvi imperiali che volavano giù dalle
mura e le facevano a pezzi.
Quando la Strega vide il Figlio del Re d'Irlanda, balzò giù dal cassone dell'acqua e corse verso
di lui con le braccia protese e le lunghe unghie avvelenate. Con un colpo secco della Spada,
egli le recise le unghie. I corvi imperiali le raccolsero, ma appena provarono a volar via,
caddero stecchiti.
“La Spada di Luce ti staccherà la testa se non mi porterai all'istante dov'è Fedelma” disse il
Figlio del Re d'Irlanda.
“Lo faccio controvoglia,” disse la Strega, “ma vieni, poiché tu sei il vincitore.”
Egli seguì la Strega nel Castello. In una rete, sospesa attrai verso una camera, vide Fedelma.
Era rigida, ma respirava. E il ramo di biancospino che l'aveva addormentata era ancora fresco
accanto a lei. Ciocche dei suoi lucenti capelli passavano attraverso le maglie della rete ed
erano fissate al muro. Con ampio movimento della Spada di Luce egli tagliò le ciocche.
Gli occhi di Fedelma si aprirono. Ella vide il Figlio del Re d'Irlanda, e la luce tornò nel suo
sguardo, e la vita nel suo volto.
Egli recise la rete nei punti dove era appesa e la distese al suolo. Lacerò le maglie. Fedelma
uscì e si gettò tra le sue braccia.
La sollevò e la portò nel settimo cortile. Allora la Strega, che era stata l'ultima delle sentinelle,
uscì dal Castello chiuse la porta dietro di sé e corse via nella bruma, con tre corvi imperiali e
la seguivano in volo.
Fedelma e il Figlio del Re d'Irlanda attraversarono i cortili del Castello e, dopo aver
oltrepassato le brume, scesero giù fino Fiume delle Torri Spezzate. Trovarono il Glashan che
stava arrostendo un salmone su pietre roventi. I salmoni arrivavano dal mare e il Glashan
entrò in acqua per prenderne degli altri, li arrostì e li diede da mangiare al Principe Irlandese e
a Fedelma.
Una piccola nera gallinella d'acqua uscì dal fiume ed essi la nutrirono. Il giorno seguente il
Figlio del Re d'Irlanda ordinò al Glashan di prendere Fedelma sulle spalle e di trasportarla
sull'altra riva del Fiume delle Torri Spezzate. E lui seguì la piccola nera gallinella d'acqua che
gli mostrò tutti i punti poco profondi del fiume così che lo attraversò con l'acqua che non gli
giungeva alla vita. Ma era stremato per il freddo e la stanchezza, e per le ferite al petto e al
piede, quando giunse sull'altra riva e trovò il Glashan e Fedelma che lo stavano aspettando.
Mangiarono di nuovo salmone e riposarono per un giorno intero. Dissero addio al Glashan,
che ritornò al fiume a cacciare salmoni. Ed essi andarono lungo la riva del fiume, mano nella
mano, mentre il Principe Irlandese raccontava tutto quanto gli era accaduto nella sua ricerca
per liberarla.
Giunsero al luogo dove il fiume era conosciuto come il Fiume della Stella del Mattino. E
allora, in lontananza, videro il Colle delle Corna. Verso il Colle delle Corna si avviarono e,
sul pendio più vicino, trovarono una casa col tetto coperto da un'ala di uccello. Era la Casa del
Piccolo Saggio della Montagna. Fedelma e il Principe Irlandese la raggiunsero.
LA CASA DI CROM DUV

Alla memoria di Beatrice Cassidy Colum

La Storia (L'Unica Storia è terminata; da adesso continua con le avventure di Gilly dalla
Pelle di Capra. [n.d.r.]) narra ora di Flann. Egli passò per la porta Est della Città del Castello
Rosso e il suo viaggio procedeva in direzione della casa delle Streghe dai Lunghi Denti dove
forse avrebbe appreso quale Regina e quale Re fossero sua madre e suo padre. È col giovane
Flann, una volta chiamato Gilly dalla Pelle di Capra, che andremo se ti piacerà, Figlio del mio
Cuore. Iniziò il suo viaggio di sera, quando, come il bardo cantò:

Il merlo trilla le sue note di metallo


Verso il finire del giorno,
E solo sulla mia strada fui lasciato
Con una stella a indicarmi la via.

Egli andò per la sua via di notte, quando, come lo stesso bardo cantò:

La notte ha raccontato le sue storie alle colline,


Le ha narrate alla pernice nel nido,
Le ha lasciate sulle lunghe strade bianche,
Essa non darà riposo ma luce.

Ed egli proseguì tra il venir meno della notte e l'alba, quando, come lo stesso bardo ancora
cantò:

Guarda il cielo è coperto,


Come da un imponente sudario,
Una desolata luce giace
Tra terra e nuvole.
E proseguì nell'alba, quando, come il bardo cantò (e questa fu l'ultima strofa che cantò, perché
il Re disse che non c'era nulla di nulla nella sua avventura):

Nel silenzio del mattino


Da solo, da solo passai
Dove alberi solitari ondeggiano i loro rami
Contro gli spazi del cielo.

E allora, mentre il sole illuminava le prime alte colline, egli giunse a un fiume. Si accorse che
quello era il fiume che aveva seguito in precedenza, perché nessun altro fiume nel paese era
così ampio e conteneva tanta acqua. Come allora aveva seguito la corrente del fiume, così ora
pensò di risalirla, e in tal modo sarebbe potuto tornare alle valli e ai crinali e alle paludi
profonde da cui si era messo in viaggio.

Incontrò un Pescatore che stava asciugando le sue reti e gli chiese che nome avesse il fiume.
Il Pescatore rispose che aveva due nomi. La gente della riva destra lo chiamava il Fiume
del1'Aurora e la gente della riva sinistra lo chiamava il Fiume della Stella del Mattino. E gli
disse che doveva stare attento a non chiamarlo il Fiume della Stella del Mattino quando era
sulla riva destra né il Fiume dell'Aurora quando era sulla riva sinistra. poiché la gente di
entrambe le rive voleva mantenere il nome che i loro padri gli avevano dato e sarebbe stato
scortese se uno straniero gli avesse dato un nome diverso. Il Pescatore aggiunse che era
dispiaciuto di avergli detto i due nomi del Fiume e che la miglior cosa da farsi era dimenticare
uno dei due nomi e chiamarlo solo il Fiume della Stella del Mattino visto che era sulla riva
sinistra.
Flann continuò a camminare con il giorno che gli si spalancava dinanzi e, quando il
mezzogiorno fu passato, arrivò alle valli e ai crinali e alle terre paludose da cui si era messo in
viaggio. Proseguì con la luce del sole che lo precedeva e il buio della notte che lo incalzava, e
al tramonto giunse a un luogo nero e bruciato dove le Streghe dai Lunghi Denti avevano la
loro casa di pietra.
Vide la casa con sbuffi di fumo che filtravano da ogni fessura tra le pietre. Si avvicinò alla
porta chiusa e bussò con il batacchio di pietra.
“Chi c'è là fuori?” chiese una delle Streghe.
“Chi c'è là dentro?” domandò Flann.
“Le Tre Streghe dai Lunghi Denti,” rispose una delle Streghe, “e se vuoi saperlo,” proseguì,
“siamo messaggere e fattrici, birraie e candelaie per Crom Duv, il Gigante.”
Flann assestò un colpo più pesante con il batacchio di pietra e la porta si spalancò con
violenza. Mise piede nella casa piena di fumo.
“Nessun benvenuto a te, chiunque tu sia” disse una delle tre Streghe che stavano sedute
attorno al fuoco.
“lo sono il giovane che era chiamato Gilly dalla Pelle di Capra, e che voi avete cresciuto qui”
rispose. “Sono tornato da voi.”
Le tre Streghe si scostarono dal fuoco e poi strillarono contro di lui.
“Cosa ti ha riportato da noi, maledetto gobbo?” disse la prima Strega.
“Sono tornato per farmi dire da voi quale Regina e quale Re sono mia madre e mio padre.”
“Perché dovresti pensare che un Re e una Regina siano tuo padre e tua madre?” gli chiesero.
“Perché ho sul petto le stelle di un Figlio di Re,” disse Flann, “e,” aggiunse, “ho in mano una
spada che vi costringerà
dirmelo.”
Si avvicinò a loro ed esse ebbero paura. Allora la prima Strega s'inginocchiò davanti a lui e
disse: “Smuovi la lastra di pietra del focolare con la tua spada e troverai un segno che ti farà
sapere chi era tuo padre.”
Flann infilò la spada sotto la lastra di pietra del focolare e fece leva su di essa. Se veramente
quello sotto la lastra di pietra era un segno, si trattava di un segno malvagio, un basilisco. Era
nato da un uovo di serpente, covato da un gallo nero di nove anni. Aveva la testa e la cresta di
un gallo e il corpo di un serpente nero. Il basilisco si mise eretto sulla coda e lo guardò con i
suoi occhi rossi. La vista di quella testa fece venire le vertigini a Flann che svenne cadendo
sul pavimento. Il basilisco tornò nella sua tana e le Streghe vi posero sopra la lastra di pietra
del focolare.
“Che cosa ne facciamo di costui?” chiese una delle Streghe, osservando Flann svenuto sul
pavimento.
“Tagliamogli la testa con la spada con cui ci ha minacciato” rispose un'altra.
“No,” disse la Terza Strega, “Crom Duv il Gigante è alla ricerca di un servitore. Lasciamo che
si prenda questo tipo. Allora forse il Gigante ci darà ciò che ci ha promesso da tanto tempo:
una bacca, per ciascuna di noi, colta dal Sorbo Fatato che cresce nel suo cortile.”
“Sia così, sia così!” gridarono le altre due Streghe. Misero rami verdi sul fuoco in modo che
Crom Duv vedesse il fumo e venisse da loro. Giunse al mattino. Portò fuori Flann, che dopo
un po' riprese i sensi. Allora il Gigante gli legò le braccia con una fune e lo fece camminare
davanti a sé e, per bastone, usava una lunga picca di ferro.
II

Le braccia di Crom Duv arrivavano fino alle ginocchia deformi; aveva denti da cavallo
lunghi, gialli e storti, il labbro inferiore cadente e il labbro superiore rivolto all'indietro, aveva
in testa una selva arruffata di capelli. Era alto come un pagliaio. Teneva nelle sue mani
deformi una picca di ferro dalla punta aguzza. E ovunque si spostasse, andava veloce come un
mulo in corsa.
Legò a Flann le mani dietro la schiena e gli girò la fune attorno al corpo. Poi si avviarono.
Flann era trascinato come se fosse in coda a un carretto. Attraverso fossi e torrenti, su per
colline e giù per valli era trascinato. Poi giunsero a una piana rotonda come la ruota di un
carro. Proseguirono attraverso la piana e in un bosco esteso un miglio. Al di là del bosco
c'erano delle costruzioni; Flann non aveva mai visto prima simili mura e simili cumuli di
pietre.
Ma prima di entrare nel bosco, scorsero un alto tumulo erboso. E su quel tumulo erboso se ne
stava il toro più feroce che Flann avesse mai visto.
“Che toro è quello, Gigante?” chiese Flann.
“Il mio toro,” rispose Crom Duv, “il Toro del Tumulo. Voltati a guardarlo, omiciattolo. Se
mai tu provassi a sottrarti al mio servizio, il Toro del Tumulo ti scaraventerà in aria e poi ti
calpesterà.”
Crom Duv soffiò in un corno che gli pendeva di traverso sul petto. Il Toro del Tumulo si
precipitò lungo la china sbuffando. Crom Duv lanciò un urlo e il Toro si fermò con la sua
terrificante testa abbassata.
Flann si sentì mancare quando vide il Toro che faceva la guardia alla casa di Crom Duv. Poi
attraversarono l'ampio bosco e giunsero all'entrata del Torrione del Gigante, sbarrata da una
sola catena. Crom Duv la sollevò. Il cortile era pieno di bestiame, nero e rosso e striato. Il
Gigante legò Flann ad un pilastro di pietra. “Ci sei, Morag, ragazza di vaccheria?” urlò.
“Sono qui” rispose una voce dalla stalla. Nella vaccheria c'erano altre mucche e qualcuno le
stava mungendo.
C'era paglia sul pavimento del cortile e Crom Duv si distese su di essa e si mise a dormire con
il bestiame che gli scalpitava intorno.
Un grande muro di pietra era stato costruito tutto attorno al Torrione del Gigante, un muro
spesso sei piedi e alto fino a venti piedi in alcuni punti e in altri alto fino a dodici. Il muro era
ancora in costruzione, poiché cumuli di pietre e recipienti per l'impasto erano sparsi qua e là.
E davanti alla porta del Torrione c'era il Sorbo che cresceva fino a grande altezza. Proprio in
cima all'albero c'erano rami colmi di bacche rosse; c'erano gatti che sonnecchiavano attorno al
tronco dell'albero e c'erano gatti sui suoi rami, grandi gatti gialli. Altri gatti gialli uscirono
dalla casa e vennero verso Flann. Lo squadrarono dall'alto in basso e tornarono indietro,
miagolando tra loro.
Le vacche che erano nel cortile entravano nella stalla una a una appena erano chiamate dalla
voce della ragazza. Crom Duv dormiva ancora. Intanto una piccola gallina rossa, che stava
becchettando per il cortile, si avvicinò lentamente a Flann e, alzando il capo, lo guardò a
lungo, dalla testa ai piedi.
Quando l'ultima mucca fu entrata e l'ultimo getto di latte zampillò nel secchio, la ragazza di
vaccheria uscì nel cortile. Flann si aspettava di vedere una creatura dalle lunghe braccia
proprio come Crom Duv. Invece vide una ragazza dallo sguardo buono e gentile, i cui unici
difetti erano il viso butterato e i capelli cespugliosi. “Sono Morag, la ragazza di vaccheria di
Crom Duv” disse lei.
“Crom Duv mi ucciderà?” chiese Flann.
“No, ti obbligherà a servirlo” rispose la ragazza di vaccheria.
“E cosa mi obbligherà a fare per lui?”
“Ti obbligherà ad aiutarlo a costruire il suo muro. Crom Duv esce ogni mattina per portare il
bestiame a pascolare sulla piana. E quando ritorna costruisce il muro attorno alla casa. Ti farà
mescolare e portare la calcina, perché io l'ho sentito dire che vuole un servitore per farlo.”
“Fuggirò da qui,” disse Flann, “e ti porterò con me.”
“Zitto” disse Morag, e indicò i sette gatti gialli che, immobili sulla soglia della Casa di Crom
Duv, li tenevano d'occhio. “I gatti,” aggiunse, “sono i guardiani di Crom Duv all'interno,
mentre il Toro del Tumulo è il guardiano all'esterno.”
“E anche questa Piccola Gallina Rossa è un guardiano?” chiese Flann, poiché la Piccola
Gallina Rossa li stava osservando di traverso.
“La Piccola Gallina Rossa è mia amica e consigliera” disse Morag, poi entrò in casa con due
recipienti del latte.

Crom Duv si svegliò. Slegò Flann e lo lasciò libero. “Ora tu devi mescolare la calcina per me”
disse. Entrò nella vaccheria e ne uscì fuori con un grande secchio pieno di latte. Lo lasciò giù
vicino alla bacinella per l'impasto. Andò verso un lato della casa e ritornò con un trogolo
colmo di sangue.
“A che servono queste cose, Crom Duv?” domandò Flann.
“Per mescolare la calcina, ragazzo” disse il Gigante. “Con sangue di manzo e latte fresco
impasto la mia calcina, così nulla potrà abbattere il muro che sto costruendo attorno al Sorbo
Fatato. Ogni giorno uccido un manzo e ogni giorno la mia ragazza di vaccheria riempie un
secchio di latte da mescolare con la calcina. Mettiti d'impegno ora e impasta la calcina per
me.”
Flann portò calce e sabbia alla bacinella dell'impasto e li mescolò al sangue di manzo e al latte
fresco. Portò pietre a Crom Duv. E così lavorò finché fu buio. Allora Crom Duv scese dal
muro che stava costruendo e ordinò a Flann di entrare in casa.
I gatti gialli erano là e Flann ne contò sedici. Altri otto si trovavano all’esterno, sui rami o
attorno al tronco del Sorbo. Morag entrò, portando un grande piatto di porridge. Crom Duv
prese un cucchiaio di legno e mangiò il porridge con secchi e secchi di latte. Poi chiese
urlando la sua birra, e Morag gli portò boccali e boccali di birra. Crom Duv li svuotò uno
dopo l'altro. Poi gridò per avere il suo coltello e, quando Morag lo portò, cominciò ad
affilarlo, cantando tra sé e sé una stramba canzone.
“Sta affilando un coltello per uccidere un manzo domattina” spiegò Morag. “Vieni ora, ti darò
la tua cena.”
Portò Flann in cucina, sul retro della casa. Gli diede porridge e latte ed egli consumò la sua
cena. Infine gli mostrò una scala a pioli che conduceva a una stanza di sopra, e lui salì e si
preparò un letto. Sebbene sognasse i ventiquattro gatti gialli dentro il Torrione di Crom Duv e
il feroce Toro del Tumulo che aveva visto all’esterno, dormì profondamente.
III

In questo modo passavano i giorni nella Casa di Crom Duv. Il Gigante e i suoi due servitori,
Flann e Morag, erano in piedi fin dall'alba. Crom Duv suonava il suo corno e il Toro del
Tumulo muggiva in risposta. Poi egli cominciava a lavorare al muro facendosi portare la
calcina da Flann. Morag riattizzava il fuoco e metteva a bollire le pentole. Pignatte di
porridge, piatti di burro, ciotole di latte erano sulla tavola quando Crom Duv e Flann
entravano per la colazione. Poi, mentre il Gigante conduceva il suo bestiame al pascolo, Flann
puliva la stalla e faceva la calcina, mescolando calce e sabbia con sangue di manzo e latte
fresco. Il Gigante ritornava nel pomeriggio, e insieme riprendevano a lavorare al muro.
Per tutto il tempo i ventiquattro gatti gialli rimanevano accovacciati sui rami del Sorbo o
gironzolavano per il cortile o si pappavano grandi ciotole di latte. La Piccola Gallina Rossa di
Morag se ne andava saltellando intorno al cortile, con aria sonnolenta e pensosa. Se uno dei
ventiquattro gatti gialli la guardava in faccia, la Piccola Gallina Rossa si riscuoteva,
borbottava qualcosa, e correva via saltellando.
Un giorno il bestiame tornò a casa senza Crom Duv.
“Se n'è andato per uno dei suoi viaggi,” disse Morag, “e non ritornerà per una notte e un
giorno.”
“Questa è l'occasione buona per scappare” disse Flann.
“Ma come puoi scappare, mio caro?” disse Morag. “Se passi davanti alla casa, il Toro del
Tumulo ti scaraventerà in aria e poi ti calpesterà.”
“Ma io ho vigore, astuzia e agilità sufficienti per scalare il muro dal retro.”
“Ma se scali il muro sul retro,” disse Morag, “giungerai solamente al Fossato dell'Acqua
Avvelenata.”
“Il Fossato dell'Acqua Avvelenata?”
“Il Fossato dell'Acqua Avvelenata” ripeté Morag. “L'acqua avvelena la pelle di chiunque
provi a nuotare attraverso il Fossato.”
Flann si scoraggiò quando seppe del Fossato dell'Acqua Avvelenata. Ma ormai era
determinato a scalare il muro. “Troverò il modo di attraversare l'acqua avvelenata,” disse,
“perciò cuocimi una focaccia e dammi delle provviste per il viaggio.”
Morag preparò la focaccia e la mise a cuocere sulla piastra. E quando fu cotta la avvolse in un
tovagliolo e gliela diede. “Ti accompagni la mia benedizione,” gli augurò, “e, se riuscirai a
fuggire, possa tu incontrare qualcuno che ti sia di miglior aiuto di quanto non ti sia stata io.
Devo impedire che i ventiquattro gatti ti vedano scalare il muro.”
“E come?” chiese Flann.
Lei gli mostrò cosa avrebbe fatto. Coi riflessi di un pezzo di vetro fece apparire sul muro della
stalla le ombre di uccelli in volo. Gli uccelli non volavano mai sopra la Casa di Crom Duv e i
gatti erano fortemente attratti dalle fugaci apparizioni che Morag creava con il pezzo di vetro.
Sei gatti si misero a guardare, e poi ne vennero altri sei, e dopo di loro ancora sei, e dopo di
loro i sei a guardia del Sorbo. E i ventiquattro gatti gialli si sedettero intorno a osservare con
occhi bramosi le immagini di uccelli che Morag proiettava sul muro della stalla. Flann si
voltò e la vide seduta su una pietra, e pensò che la ragazza di vaccheria fosse malinconica.
Provò con tutta la sua agilità, con tutta la sua bravura e tutto il suo vigore a scalare il muro sul
retro della Casa di Crom Duv e infine ci riuscì. Diede un fischio per far sapere a Morag che ce
l'aveva fatta a passare. Poi attraversò un piccolo bosco e giunse al Fossato dell'Acqua
Avvelenata.

Quell'acqua morta aveva un aspetto molto ripugnante. Pali aguzzi e micidiali si alzavano dalla
melma per trafiggere chiunque provasse a saltare oltre. E qua e là sull'acqua c'erano chiazze di
veleno verde grandi come foglie di cavolo. Flann si ritrasse dal Fossato, non avrebbe potuto
saltarlo e, tantomeno, attraversarlo a nuoto.
E mentre indietreggiava vide una creatura che conosceva scendere dalla riva opposta. Era
Rory la Volpe. Rory teneva in bocca una pelle di vitello. Gettò la pelle nell'acqua e la spinse
davanti a sé. Entrò in acqua e nuotò con molta prudenza, sempre spingendo la pelle di vitello
davanti a sé. Poi Rory salì sulla riva dov'era Flann, e la pelle, tutta verde e raggrinzita,
affondò nell'acqua.
Rory stava per darsela a gambe quando riconobbe Flann. “Padrone” disse, e s'inchinò fino a
lambire la polvere.
“Cosa fai qui, Rory?” chiese Flann.
“Non mi dispiacerà di raccontartelo se tu mi prometterai di non dirlo ad alcuno” rispose Rory.
“Te lo prometto” disse Flann.
“D'accordo” disse Rory. “Ho trasferito la mia famigliola da queste parti. Sono stata inseguita
a lungo, e la mia famiglia non era al sicuro. Così l'ho trasferita in questo luogo”. La Volpe si
voltò e guardò verso la campagna alle sue spalle. “Fa proprio al caso mio,” continuò,
“nessuno penserebbe di attraversare questo fossato dietro di me.”
“Bene,” disse Flann, “dimmi come hai fatto ad attraversarlo.” “Te lo dirò,” aggiunse la volpe,
“se mi prometti che mai darai la caccia a me o a qualcuno della mia famiglia.”
“Promesso” disse Flann.
“Quell'acqua avvelena la pelle. Spingevo davanti a me la pelle di vitello per annullare l'effetto
del veleno nell'acqua. Come ti ho detto, l'acqua avvelena ogni tipo di pelle e, dove passa una
pelle, il veleno viene eliminato dall'acqua per un po'; così è possibile attraversare il fossato
sulla sua scia purché lo si faccia con molta cautela.”
“Ti ringrazio di avermi indicato il modo per attraversare il fossato” disse Flann.
“Sono felice di avertelo indicato” rispose Rory la Volpe, e si avviò alla sua tana.
C'erano pelli di cervo e pelli di vitello su entrambe le rive del fossato. Flann prese una pelle di
vitello e la spinse nell'acqua con un bastone. Nuotò con prudenza dietro di essa. Quando
raggiunse l'altra riva del fossato, la pelle, tutta verde e raggrinzita, affondò nell'acqua.
Flann saltò e rise e gridò quando si trovò nel bosco, finalmente libero da Crom Duv. Quindi
proseguì il cammino. Era stupendo osservare il picchio martellare sul ramo, e vederlo
fermarsi, affaccendato com'era, per dirgli: “Passa, amico”. Due giovani cervi sbucarono dal
profondo del bosco. Erano troppo giovani e inesperti del mondo per avere qualcosa da
raccontargli, ma gli saltellarono accanto mentre Flann correva lungo il Sentiero del
Cacciatore.
Saltò e gridò di nuovo quando vide il fiume davanti a sé, il fiume che era chiamato Fiume
dell'Aurora sulla riva destra e Fiume della Stella del Mattino sulla riva sinistra. Disse fra sé:
“Questa volta, in verità, seguirò sempre il corso del fiume. Tutto ciò che si muove mi dà
gioia. Questo fiume è la più prodigiosa di tutte le meraviglie che ho visto nei miei viaggi.”
Poi decise di mangiare un po' della focaccia che Morag aveva cotto per lui. Si sedette e la
spezzò. Mentre la mangiava, pensò a Morag. La immaginò mentre metteva la focaccia sulla
piastra. Percorse un altro po' di strada lungo il fiume e poi cominciò a sentirsi triste. Fece
dietro front. “Ritornerò alla Casa di Crom Duv,” disse, “e mostrerò a Morag il modo per
fuggire. Poi lei ed io seguiremo il fiume, e non sarò triste se lei sarà con me. “
Così Flann tornò indietro lungo il Sentiero del Cacciatore. Giunto al Fossato dell'Acqua
Avvelenata, trovò una pelle di cervo, la spinse in acqua e poi con prudenza attraversò a nuoto
il fossato. Quindi scalò il muro e, quando giunse in cima, vide Morag. Lei era lì in attesa
trepidante.
“Crom Duv non è ancora tornato,” disse, “ma oh, tesoro mio, io non posso impedire che i
gatti gialli ti vedano scavalcare il muro.”
Vennero i primi sei gatti e poi gli altri sei e si sedettero in cerchio a guardare Flann scendere
dal muro. Non gli fecero nulla, ma quando scese a terra lo seguirono ovunque andasse.
“Hai attraversato il fossato,” disse Morag, “allora perché sei tornato?”
“Sono tornato,” rispose Flann, “per portarti con me.”
“Ma,” disse lei, “non posso lasciare la Casa di Crom Duv.”
“Ti mostrerò come attraversare il fossato,” disse lui, “e saremo entrambi felici di andarcene
lungo il fiume che scorre.”
Lacrime spuntarono negli occhi di Morag. “Verrei con te, mio caro,” disse lei, “ma non posso
lasciare la Casa di Crom Duv finché non otterrò ciò per cui sono venuta.”
“E per cosa sei venuta, Morag?” chiese lui.
“Sono venuta,” disse, “per cogliere due bacche di sorbo che crescono sul Sorbo Fatato nel
cortile di Crom Duv. Ora so che avere queste bacche è il compito più difficile del mondo.
Entra a cenare con me,” proseguì, “e se potremo stare seduti abbastanza a lungo, ti racconterò
la mia storia.” Sedettero a lungo al tavolo della cena, e Morag raccontò:
La storia di Morag

IV

Sono stata allevata nella casa della Donna Veggente con due altre ragazze, Baun e Deelish,
mie sorelle adottive. La casa della Donna Veggente è in cima a una piccola collina, lontana
dal mondo, e pochi si avventuravano fin lì.
Una mattina andai alla fonte a prendere l'acqua. Quando guardai dentro non vidi la mia
immagine, ma l'immagine di un giovane uomo. Tirai su l'anfora colma d'acqua e tornai alla
casa della Donna Veggente. A mezzogiorno Baun andò alla fonte per l'acqua. Ritornò e la sua
anfora era piena solamente a metà. Prima che facesse buio Deelish andò alla fonte. Ritornò
senza l'anfora, perché le era caduta e si era rotta sulle pietre della sorgente.
Il giorno successivo Baun e Deelish s'intrecciarono i capelli, e dissero a colei che per noi tre
era la madre adottiva: “Nessuno verrà per sposarci in questo luogo remoto. Andremo per il
mondo in cerca del nostro destino. Quindi,” aggiunsero, “prepara una focaccia per ciascuna di
noi prima del calar della notte.”
La Donna Veggente mise tre focacce sulla piastra e le fece cuocere. E quando furono pronte
domandò a Baun e Deelish: “Volete prendere mezza focaccia per ciascuna e la mia
benedizione, o la focaccia intera senza la mia benedizione?” E Baun e Deelish risposero:
“L'intera focaccia sarà appena sufficiente per il nostro viaggio.”
Ciascuna prese poi la sua focaccia, la sistemò sotto il braccio e insieme s'incamminarono giù
per la piccola collina. Allora mi dissi: “Sarebbe opportuno seguire le mie sorelle adottive
perché potrebbe capitar loro qualcosa lungo la strada.” Così mi rivolsi alla mia madre adottiva
dicendole: “Dammi la terza focaccia che è sulla piastra affinché io segua le mie sorelle
adottive.”
“Vuoi avere mezza focaccia e la mia benedizione o l'intera focaccia senza la mia
benedizione?” lei mi chiese.
“Mezza focaccia e la tua benedizione, madre” risposi io. Lei tagliò in due la focaccia con un
coltello dal manico nero e mi diede l'esatta metà di essa. Poi disse:

Possano del vecchio mare


Le Sette Figlie,
Esse che filano
Della vita i fili più lunghi,
Proteggere e vegliare su di te!
Poi mi mise del sale nella mano e la Piccola Gallina Rossa sotto il braccio, ed io mi avviai.
Camminai finché giunsi in vista di Baun e Deelish. Proprio mentre stavo per raggiungerle,
udii una che diceva all’altra: “Questa ragazza brutta e lentigginosa getterà la vergogna su di
noi se ci accompagna.” Poi mi legarono mani e piedi con una fune che trovarono per strada e
mi abbandonarono in un bosco.

Liberai le mani e i piedi dalla fune e corsi e corsi finché tornai a vederle. E mentre stavo per
raggiungerle, udii una di loro dire all’ altra: “Questa ragazza brutta e lentigginosa vanterà dei
legami con noi dappertutto dovunque si vada, così nessun uomo vorrà sposarci.” Mi
agguantarono di nuovo e mi dentro una fornace dove veniva preparata la calce, e delle travi su
di essa, e sulle travi fissarono pesanti pietre. Ma la mia Piccola Gallina Rossa mi indicò come
uscire dalla fornace. Poi corsi e corsi finché raggiunsi di nuovo Baun e Deelish.
“Lasciala venire con noi questa sera,” disse una all'altra, “e domani troveremo il modo per
sbarazzarci di lei.”
La notte stava ormai scendendo, e dovevamo cercare una casa per riposarci. Vedemmo una
capanna lontana dalla strada e andammo a bussare alla porta sgangherata. Era la casa delle
Streghe dai Lunghi Denti. Chiedemmo ospitalità. Ci mostrarono un grande letto in una stanza,
e ci dissero che avremmo potuto cenare quando il porridge fosse stato pronto.
Le tre Streghe si sedettero attorno al fuoco con le teste molto vicine. Baun e Deelish erano in
un angolo a intrecciarsi i capelli, ma la Piccola Gallina Rossa borbottò che dovevo ascoltare
ciò che dicevano le Streghe. “Le daremo a Crom Duv domani mattina” disse una. E un'altra
disse: “Ho messo una spilla del sonno nei loro guanciali per farle addormentare così non si
desteranno.”
Quando udii ciò che dicevano, pensai a come potevo organizzare la nostra fuga. Chiesi a
Baun di cantare per me. Lei mi rispose che l'avrebbe fatto se io le avessi lavato i piedi. Presi
un bacile d'acqua e lavai i piedi di Baun e, mentre lei cantava e mentre le Streghe erano
convinte che noi ci curassimo di loro, io pensavo al modo per poter fuggire. Le Streghe
appesero una pentola sul fuoco e tutte e tre si sedettero nuovamente attorno ad esso.
Quando ebbi lavato i piedi della mia sorella adottiva, presi una ramazza e cominciai a
spazzare il pavimento della casa. Una delle Streghe era molto compiaciuta nel vedere ciò che
facevo. Disse che sarei divenuta una brava serva e, dopo un po', mi chiese di sedermi accanto
al focolare. Mi sedetti in un angolo del camino. Esse avevano messo della farina nell'acqua, e
io iniziai a rimescolarla con un mestolo di legno. Allora la Strega che mi aveva chiamato
vicino al focolare disse: “Ti darò una buona porzione di latte col porridge, se continuerai a
mescolarlo per noi.”
Questo era proprio ciò che volevo. Mi sedetti nell'angolo del camino e continuai a rimescolare
il porridge mentre le Streghe sonnecchiavano davanti al fuoco.
Per prima cosa presi un piatto e un cucchiaione e tirai fuori dalla pentola del porridge mezzo
cotto, che poi lasciai in disparte. Quindi presi la scatola del sale che era sulla mensola del
camino e mescolai manciate di sale nel porridge rimasto nella pentola.
Quando fu cotto, lo misi in un altro piatto e portai i due piatti in tavola. Poi dissi alle Streghe
che era tutto pronto. Vennero a tavola e diedero alle mie sorelle adottive e a me tre scodelle di
latte di capra. Noi mangiammo dal primo piatto ed esse mangiarono dal secondo.
“Per il mio sonno di questa notte,” disse una Strega, “il porridge è salato.” “Per i miei gusti c'è
troppo poco sale” ribatté la mia sorella adottiva Deelish. “Il mio è salato come le profondità
del mare” affermò un'altra delle Streghe. “Con tutto il mio rispetto per voi, signora,” disse
Baun, “non sento neanche un pizzico di sale.” Le mie sorelle adottive erano così sicure che le
Streghe pensarono di essersi sbagliate, e mangiarono l'intero piatto di porridge.
Il letto per noi era pronto e i guanciali erano distesi sul letto, e sapevo che le spille del sonno
erano in ciascuno dei guanciali. Volevo rimandare il momento di andare a letto, così
cominciai a raccontare delle storie. Baun e Deelish dissero che la notte era appena iniziata, e
che non avrei dovuto narrare storie brevi, ma la lunga storia di Eithne, la figlia di Balor.
Avevo appena cominciato quella storia quando una delle Streghe strillò che era tormentata
dalla sete.
Corse alla brocca ma dentro non c'era acqua. Poi un'altra Strega urlò che la sete le stava
bruciando la gola. La terza disse che non poteva vivere un minuto di più senza bere un sorso
d'acqua. Prese la brocca e si avviò alla fonte. Non appena se ne fu andata, anche la seconda
Strega disse che non poteva aspettare che la prima tornasse, e uscì dietro di lei. Poi la terza
pensò che le altre due si sarebbero fermate troppo a lungo a chiacchierare vicino alla fonte, e
si avviò dietro di loro.
Senza indugio tolsi i guanciali dai nostri letti e li scambiai con quelli delle Streghe. Le
Streghe tornarono con una brocca piena a metà, e ci ordinarono di andare a letto. Noi ci
coricammo ed esse rimasero sedute per un altro po' a bere tazze d'acqua. “Crom Duv verrà qui
domattina molto presto” udii dire da una di loro. Appoggiarono la testa sul guanciale e, nel
giro di pochi attimi, caddero addormentate come sassi. Allora raccontai alle mie sorelle
adottive ciò che avevo fatto e perché l'avevo fatto. Esse erano molto impaurite, ma vedendo le
Streghe dormire così profondamente si tranquillizzarono addormentandosi pure loro.
Prima del sorgere del giorno Crom Duv giunse alla casa. Uscii e vidi il Gigante. Dissi che ero
la serva delle Streghe, e che loro stavano ancora dormendo. Lui mi rispose: “Sono le mie
messaggere e fattrici, birraie, fornaie e candelaie, e non hanno diritto di stare a dormire fino a
tardi.” Quindi se ne andò.
Sapevo che le Streghe avrebbero dormito finché non fossero stati tolti i guanciali da sotto le
loro teste. Le lasciammo dormire mentre attizzavamo il fuoco e facevamo colazione. Poi,
quando fummo pronte per il viaggio, togliemmo i guanciali da sotto le loro teste. Allora le tre
Streghe balzarono in piedi, ma noi eravamo già oltre porta, e avevamo già mosso i primi tre
passi del nostro cammino.
V

Giungemmo infine al dominio del Re di Senlabor. Baun andò a cantare per le figlie adottive
del Re, e Deelish andò a lavorare al piccolo telaio nell'appartamento del Re. Non eravamo da
molto alla corte del Re di Senlabor quando arrivarono due giovani dalla corte del Re
d'Irlanda: Dermott e Downal erano i loro nomi. C'era un famoso fabbricante di spade presso il
Re di Senlabor e i due giovani venivano a imparare il mestiere da lui. E le mie due sorelle
adottive se ne innamorarono così perdutamente che ogni notte i cuscini accanto a me erano
bagnati delle loro lacrime.
Io andai a lavorare nella Cucina del Re. Ora, il Re aveva un piatto di terracotta così bello,
decorato da disegni così stupendi che mai aveva permesso che fosse portato dalla Cucina al
Salone delle Feste, né dal Salone delle Feste alla Cucina senza seguire egli stesso il servitore
che lo portava. Un giorno il servitore lo portò in Cucina perché fosse lavato e il Re veniva
dietro al servitore. Presi il piatto e lo pulii con acqua tre volte bollita e lo asciugai con panni
di tre diversi tipi. Poi lo coprii con erbe aromatiche dai dolci profumi e lo posi in un
contenitore adagiato nella crusca soffice. Il Re era compiaciuto di vedere la cura con cui
trattavo il suo piatto, e disse davanti al suo servitore che mi avrebbe concesso qualsiasi favore
gli chiedessi. Allora gli parlai delle mie due sorelle adottive Baun e Deelish, e di come
fossero innamorate dei due giovani Dermott e Downal che erano venuti dalla corte del Re
d'Irlanda. Chiesi che quando fosse giunto il momento di dar loro moglie, il Re si ricordasse
delle mie sorelle adottive.
Il Re fu molto irritato dalla mia richiesta. Dichiarò che i due giovani avevano sul petto le
stelle che indicavano che erano Figli di Re; intendeva dar loro in moglie le sue figlie adottive
quando le damigelle fossero in età di sposarsi. “Può darsi,” proseguì, che questi due giovani
riescano a portare alla mia Regina ciò che essa desidera ardentemente: una bacca del Sorbo
Fatato sorvegliato dal Gigante Crom Duv.”
Il giorno seguente il Consigliere del Re stava nutrendo gli uccelli e io stavo vagliando il
grano. Gli chiesi di raccontarmi la storia del Sorbo Fatato al quale il Gigante Crom Duv stava
di guardia e di dirmi per quale motivo la Regina ne desiderasse ardentemente una bacca. E
così iniziò a raccontare:

La storia del Sorbo Fatato

La storia del Sorbo Fatato (disse il Consigliere del Re), inizia con Ainé, la figlia di Mananaun,
il Signore del Mare. Curoi, il Re del Popolo Fatato del Munster, amava Ainé e aveva chiesto
la sua mano. Ma il cuore della ragazza era rivolto a Fergus un mortale dei Fianna d'Irlanda.
Ora, quando Mananaun MacLir udì le proposte di Curai e venne a sapere qual era
l'inclinazione del cuore della figlia, disse: “Che il problema sia risolto in questo modo:
indiremo una partita di hurling tra il Popolo Fatato del Munster e i Fianna d'Irlanda, con Curoi
come capitano da una parte Fergus come capitano dall'altra e, se il Popolo Fatato vincerà,
Ainé sposerà Curoi, e se i Fianna avranno la vittoria, lei avrà il mio permesso di sposare
Fergus, anche se è soltanto un mortale.”
Così fu stabilita una partita di hurling per il primo giorno di Lunassa* che doveva essere
giocata sulla riva del mure. Mananaun stesso fissò le linee delle porte, e Ainé stessa era lì ad
assistere alla partita. La gara si svolse dal sorgere del sole fino a mezzogiorno, e nessuna delle
due parti segnò un punto. Allora i giocatori si fermarono a mangiare quello che Mananaun
aveva procurato.

(* Lunassa o Lugnasad: festa celebrata il primo giorno di agosto in onore del dio della Luce
Lugh, durante la quale si festeggiava la raccolta dei frutti della terra, si effettuavano
transazioni commerciali e si scambiavano promesse di matrimonio. La ricorrenza era
animata da banchetti, corse di cavalli, recite di poeti e cantastorie. [n.d.r.])
Mananaun aveva portato dal suo paese, la Piana della Nuvola d'Argento, un ramo di bacche di
sorbo rosso brillante. Fame e stanchezza sarebbero scomparse all'istante in chiunque avesse
mangiato una di queste bacche di sorbo. Le bacche dovevano essere mangiate dai giocatori,
disse Mananaun, e nessuna bacca doveva essere portata nel mondo dei mortali o nel mondo
del Popolo Fatato.
Quando interruppero il gioco a mezzogiorno in punto, il mortale Fergus vide Ainé, ed era la
prima volta che la vedeva. Un vigore che mai aveva conosciuto prima fluì in lui alla vista
della figlia di Mananaun. Dimenticò di mangiare la bacca che questi gli aveva dato e la tenne
in bocca dalla parte del gambo.
Ricominciò a giocare la partita di hurling piombando come un falco tra piccoli uccelli. Curai
difendeva la porta e respinse la palla. Fergus la riavvicinò alla porta, i due campioni si
fronteggiarono e la mazza di Curai, fatta di corno di rinoceronte, non riuscì a spezzare la
mazza di Fergus ricavata da un frassino di bosco. Tutti i giocatori si fecero da parte e
lasciarono il gioco a Fergus e Curai. La mazza di Curai lanciò la palla in alto, poi Fergus la
colpì con il doppio colpo, prima con l'impugnatura e poi con l'estremità più pesante della
mazza, e la scagliò, bellissima come un uccello in volo, tra le linee della porta che Mananaun
aveva stabilito. La partita fu vinta grazie al punto che Fergus aveva segnato.
I Fianna poi invitarono il Popolo Fatato del Munster alla festa che diedero per Fergus e la sua
sposa. Gli Esseri Immortali vennero, e Mananaun e Ainé li precedevano. Fergus marciava alla
testa della sua truppa con la bacca di sorbo ancora penzolante dalla bocca. E mentre
camminava morse il gambo e la bacca cadde a terra. Fergus non se ne accorse nemmeno.
Quando la festa finì, si recò dove Mananaun stava con sua figlia. Ainé gli diede la mano. “E il
bello è,” disse Conan, il Buffone dei Fianna, “che questo tonto di Fergus alla fin fine ha
lasciato cadere la bacca.” “Che bacca?” chiese Curai che stava lì accanto. “La bacca di
sorbo,” disse Conan, “che Fergus aveva portato con sé per due contrade tenendola in bocca
proprio come un uccello.”
Quando Mananaun udì ciò, chiese della bacca che Fergus aveva portato con sé. Non si riuscì a
trovarla. Allora i Fianna e il Popolo Fatato del Munster ritornarono indietro a cercarla. Ciò
che trovarono fu uno splendido Albero di Sorbo. Era cresciuto dalla bacca che Fergus aveva
lasciato cadere, ma ancora non c'erano bacche sui suoi rami.
Quando vide il Sorbo, Mananaun disse: “Nessun mortale può prendere bacche da
quest'albero. Ascoltate quanto ho deciso: Fergus dovrà stare a guardia del Sorbo finché non
troverà uno che lo faccia per lui. E non potrà vedere né stare con Ainé, sua sposa novella,
finché non troverà uno che lo sorvegli meglio di quanto non lo sorvegli lui”. Quindi
Mananaun nascose sua figlia nel mantello e se ne andò a grandi passi nella bruma. Il Popolo
Fatato andò in una direzione e i Fianna dall'altra, e Fergus fu lasciato solo e triste vicino al
Sorbo Fatato.

Il giorno successivo (disse Morag), mentre il Consigliere del Re nutriva gli uccelli e io
vagliavo il grano, egli mi raccontò il resto della storia del Sorbo Fatato.
Fergus pensava e pensava a un espediente che gli permettesse di abbandonare la sorveglianza
dell'albero fatato per raggiungere Ainé, sua novella sposa. Alla fine si ricordò di un Gigante
che viveva in un'isola rocciosa e che possedeva solo un gregge di capre. Questo Gigante
aveva implorato Finn, il capo dei Fianna, di concedergli un pezzetto di terra d'Irlanda, anche
soltanto della larghezza di una pelle di toro. Finn glielo aveva rifiutato. Ma ora Fergus mandò
un messaggio a Finn e gli chiese di persuadere il Gigante a fare il guardiano del Sorbo Fatato,
dandogli in cambio la terra attorno ad esso. “Mi dispiace permettere che questo Gigante Crom
Duv abbia un pezzo anche se piccolo della terra d'Irlanda,” disse Finn, “tuttavia non possiamo
dire di no a Fergus.”
Così Finn inviò alcuni dei Fianna dal Gigante ed essi lo trovarono che viveva, senza un
ricovero, sulla nuda roccia di un'isola, padrone solo di un gregge di capre. Crom Duv si
distese a terra e rise quando udì il messaggio che i Fianna gli avevano portato. Poi fece salire
loro e il gregge di capre nella sua grande barca e li trasportò a remi in Irlanda.
Crom Duv giurò sul suo gregge di capre che sarebbe stato a guardia del Sorbo Fatato finché le
bacche rosse non avessero smesso di crescere sui suoi rami. Fergus lasciò allora il suo posto
vicino all'albero e andò da Ainé, e forse essi vivono ancora insieme.
Crom Duv faceva proprio bene la guardia all'albero, non allontanandosi mai e dormendo di
notte fra i suoi rami. E un anno giunse una giovenca e pascolò assieme al suo gregge di capre
e l'anno successivo giunse un manzo. E questi furono i primi capi del suo grande armento. Da
allora egli è divenuto sempre più avido di bestiame, disse il Consigliere del Re, e ora lo porta
a pascolare su terre distanti. Ma anche adesso il Sorbo Fatato è ben sorvegliato. Il Toro che è
chiamato il Toro del Tumulo, è di guardia lì vicino, e ventiquattro feroci gatti gialli vigilano
l'albero notte e giorno.
La Regina di Senlabor e molte altre donne ancora desiderano una bacca dal Sorbo Fatato che
sta nel cortile di Crom Duv. Perché una donna vecchia che mangi una bacca di quell'albero
ritorna giovane, mentre una giovane damigella che mangi una bacca ottiene tutta la bellezza
che dovrebbe avere.
Ed ora, mia damigella, mi disse il Consigliere del Re, ti ho raccontato la storia del Sorbo
Fatato.

Appena ebbi ascoltato questo racconto (continuò Morag), presi la decisione di procurarmi una
bacca per la Regina, e forse anche un'altra bacca, dal Sorbo Fatato del cortile di Crom Duv.
Quando il Re venne di nuovo in cucina gli chiesi se avrebbe permesso alle mie sorelle
adottive di sposare Downal e Dermott nel caso avessi portato alla Regina una bacca del Sorbo
Fatato. Mi rispose che avrebbe acconsentito con grande entusiasmo. Quella notte, allorché
sentii Baun e Deelish piangere, dissi che avrei cercato di ottenere per loro una dote così
straordinaria che quando l'avessero avuta il Re avrebbe acconsentito che sposassero i giovani
che avevano conquistato il loro cuore. Esse non credevano che io potessi veramente aiutarle,
ma mi lasciarono andare.
Il giorno seguente dissi alla Regina che sarei andata a cercare una bacca del Sorbo Fatato. Mi
promise che se gliel'avessi portata mi avrebbe dato tutto ciò che possedeva. Dissi addio alle
mie sorelle adottive e, con la Piccola Gallina Rossa sotto il braccio, mi diressi verso la casa
delle Streghe dai Lunghi Denti. Mi costruii un riparo e aspettai che Crom Duv venisse da
quelle parti. Arrivò una mattina di buon'ora. Allora io lo fermai decisa dicendogli che volevo
prendere servizio nella sua casa. Crom Duv non aveva mai avuto un servitore nella sua casa.
Ma io gli dissi che aveva bisogno di qualcuno che badasse alle stalle e che io ero molto brava
a sorvegliare il bestiame. M'invitò a seguirlo. Scorsi allora il Toro del Tumulo e mi chiesi
come avrei potuto andarmene via dopo aver colto la bacca dal Sorbo Fatato. Poi vidi i
ventiquattro feroci gatti gialli e mi domandai come avrei potuto prendere la bacca dall'albero.
E, dopo, scoprii il Fossato dell'Acqua Avvelenata che era al di là dell'alto muro sul retro della
Casa di Crom Duv. E così adesso (concluse Morag) sai perché sono venuta qui e come sia
difficile il compito che mi sono assunta.
VI

Ora che aveva udito la storia del Sorbo Fatato, Flann guardava spesso i grappoli di bacche
scarlatte che stavano sui rami più alti. L'albero poteva essere scalato, Flann lo sapeva. Ma in
cima all’ albero e sui rami c'erano i feroci gatti gialli, i gatti che le Streghe dai Lunghi Denti
avevano allevato per Crom Duv, pensando che egli, prima o poi, avrebbe dato a ciascuna di
loro la bacca che le avrebbe fatte ritornare giovani. E ai piedi dell'albero c'erano altri gatti
ancora. E per tutto il cortile i feroci gatti delle Streghe sfilavano a passo di parata.
Le mura attorno al Torrione del Gigante venivano costruite sempre più alte da Crom Duv,
aiutato dal suo servitore Flann.
La mandria del Gigante era ora aumentata di molti vitelli, e Morag, la ragazza di vaccheria,
aveva molto da fare per mungere tutte le mucche. E giorno e notte Morag e Flann udivano il
muggire del Toro del Tumulo.
Un giorno, mentre Crom Duv era fuori con il suo bestiame, Flann e Morag si trovavano nel
cortile. Videro la Piccola Gallina Rossa destarsi, scuotere le ali e lanciare una vivace occhiata
verso di loro. “Cosa vuoi dire, mia Piccola Gallina Rossa?” domandò Morag.
“Il Pooka*” borbottò la Piccola Gallina Rossa. “Il Pooka cavalca un cavallo focoso, ma lui è
un folletto timido.” Poi la Piccola Gallina Rossa abbassò di nuovo le ali e andò a becchettare
nel cortile.
(* Pooka: spiritello dispettoso che si divertiva a confondere i viandanti facendo loro perdere
la strada. Sembra non appartenere ai primi miti celtici, compare infatti nelle leggende più
tarde. [n.d.r.])
“Il Pooka cavalca un cavallo focoso,” ripeté Morag, “se il Pooka cavalca un cavallo focoso
potrebbe portarci oltre il luogo
dove sta di guardia il Toro del Tumulo.”
“E se il Pooka è un piccolo essere timido potremmo prendergli il cavallo” disse Flann.
“Ma questo non ci aiuta ancora a cogliere le bacche dal Sorbo Fatato” disse Morag.
“No,” ribadì Flann, “non ci dice ancora come cogliere le bacche dall'albero che i gatti
sorvegliano.”
Il giorno dopo Morag diede dei semi alla Piccola Gallina Rossa e la supplicò di dirle
qualcosa. Dopo un po' la Piccola Gallina Rossa borbottò: “Ci sono cose che conosco, e cose
che non conosco, ma conosco bene ciò che cresce vicino al terreno; se tu cogli una certa erba,
e la poni attorno al collo dei gatti essi non potranno vedere né alla luce né al buio. E domani è
il giorno di Samain” proseguì la Piccola Gallina Rossa. Non aggiunse altro. Le era venuto
sonno e andò a rannicchiarsi sotto il tavolo. Là continuò a borbottare tra sé -come fanno tutte
le galline -in che luoghi i Figli di Dannan** avessero nascosto i loro tesori; esse lo sanno,
perché furono i Figli di Dana che portarono le galline in Irlanda.
(** I Dannan, mitico popolo che conquistò l'Irlanda, arrivarono dal cielo con il tesoro dei
Dannan: la Pietra del Destino su cui avveniva l'incoronazione dei Re d'Irlanda, e una spada
invincibile. [n.d.r.])
“Domani,” disse Morag a Flann, “segui la Piccola Gallina Rossa e, se fa qualche segno
quando tocca un'erba che cresce vicino al terreno, cogli quell'erba e portamela.” Quella notte
Morag e Flann parlarono del Pooka e del suo focoso cavallo. Nella notte di Samain*, la notte
prima che inizino i giorni più corti, il Pooka cavalca attraverso le campagne toccando ogni
frutto rimasto, così che non abbia più sapore nell'inverno. Le more che erano buone da
mangiare il giorno prima, non lo sono più il Giorno di Novembre, perché di notte il Pooka le
ha toccate. Cos'altro il Pooka faccia nessuno veramente lo sa. È un folletto timido come dice
la Piccola Gallina Rossa, e spera che l'apparizione del suo grande cavallo nero e il rumore
degli zoccoli e il suo ansimare, mentre galoppa, facciano scappare la gente atterrita, perché
egli ha una grande paura di essere visto.
(* Samain (pronuncia Sowain): festa sacra ancestrale che si celebrava nella notte tra la fine
di ottobre e il primo di novembre, segnava l'inizio dell'anno e ricordava la “morte”
temporanea della natura. La festa sopravvive ai nostri giorni sotto due diversi aspetti: nei
festeggiamenti ancora pagani di Halloween e nella commemorazione del Giorno dei defunti.
[n.d.r.])
Il giorno dopo la Piccola Gallina Rossa restò nel cortile finché Crom Duv non si avviò con la
sua mandria. Flann la seguì. Essa andava qua e là tra la casa e il muro sul retro, ora
becchettando un granello di sabbia, ora una formica o un ragno o una mosca. E mentre
razzolava intorno la Piccola Gallina Rossa borbottava fra sé una canzone:

Quando il sonno si posa su di me


Come un uccello selvatico nel nido,
Il vento giunge dall'Ovest:
Cerca di abbattere la porta, forse,
E atterrisce il mio riposo,
Quando il sonno si posa su di me,
Come un uccello selvatico nel nido.

Il gallo è in alto con la cresta ritta:


Il barbagianni torna dalla caccia notturna
Fissa un occhio su di me
E atterrisce il mio riposo,
Quando il sonno si posa su di me,
Come un uccello selvatico nel nido.

Flann osservava tutto ciò che la Piccola Gallina Rossa faceva. La vide chinare la testa da un
lato e guardare per un attimo una certa erba che cresceva vicina al terreno. Flann colse
quel1'erba e la portò a Morag.
Il bestiame era tornato a casa, ma Crom Duv non era tornato. Morag munse le mucche e portò
tutto il latte dentro, senza lasciare fuori il latte per i gatti. Sei entrarono in cucina per
mangiare. Balzarono sul tavolo, uno più superbo e altezzoso dell'altro. Ogni gatto mangiava
senza degnarsi di fare neanche un miagolio. “Gatto del mio cuore,” disse Morag al primo,
quando ebbe finito di bere il suo latte, “gatto del mio cuore, quanto nobile sembreresti con
questo nastro rosso attorno al collo!” E gli mostrò un piccolo nastro in cui era stato cucito un
pezzetto di quell'erba prodigiosa. Il primo gatto le diede un'occhiata che voleva dire: “Bene,
puoi mettermelo.” Morag gli mise il nastro rosso attorno al collo e quello saltò giù dalla
tavola.
Fece così con tutti gli altri gatti. Appena finivano di leccare il latte, Morag mostrava loro il
nastro rosso. Essi lasciavano che lei glielo mettesse attorno al collo e poi saltavano giù dal
tavolo, e se ne andavano via a passo di marcia più sdegnosi e altezzosi di prima.

Sei dei feroci gatti gialli salirono sui rami del Sorbo Fatato, sei restarono in cucina, sei
andarono nella camera di Crom Duv e sei andarono a passo di marcia attorno alla casa, tre per
ciascun lato. Nessun segno di vita proveniva dai gatti che erano all'interno né da quelli che
erano fuori. Morag fece rotolare una palla di cotone sul pavimento, e i gatti che erano in
cucina non diedero segno di vederla.
“La vista ha lasciato i loro occhi” disse Morag. “Allora,” disse Flann, “scalerò il Sorbo Fatato
e porterò giù due bacche.” “Assicurati di prenderne due, mio caro” disse Morag.
Uscirono nel cortile e Flann iniziò a scalare il Sorbo Fatato con grande agilità, vigore e
accortezza. I gatti che stavano sotto lo sentirono salire sull'albero e i gatti che erano sopra si
inarcarono. Flann superò il primo ramo su cui era acquattato un gatto. Si arrampicò dov'erano
le bacche di sorbo e, chinandosi, ne raccolse due e se le mise in bocca.
Scese velocemente con i gatti che gli si avventavano contro. Altri gatti erano usciti dalla casa
e miagolavano e soffiavano minacciosi nel cortile. Solo uno si era aggrappato al farsetto di
Flann, e non lo lasciava andare.
“Corriamo al bosco, corriamo al bosco” disse Morag. “Dobbiamo aspettare tra la casa e il
tumulo finché il Pooka verrà al galoppo.” Flann le mise le due bacche in mano, saltarono al di
là della catena, e scapparono di corsa dalla Casa del Gigante Crom Duv.
VII

Andarono nel bosco, Flann e Morag, e la Piccola Gallina Rossa stava accoccolata sotto il
braccio di Morag. Pensarono di nascondersi dietro gli alberi finché non avessero udito l'arrivo
del Pooka e del suo cavallo. Ma non si erano ancora addentrati abbastanza nel bosco quando
udirono Crom Duv venire verso casa. Avanzava verso di loro con la picca di ferro in mano.
Flann e Morag si misero a correre. Di albero in albero Crom Duv diede loro la caccia, urlando
e sbuffando e abbattendo rami con la picca di ferro che aveva in mano. Flann e Morag
giunsero ad un torrente e mentre correvano lungo la riva udirono il calpestio e l'ansimare di
un cavallo che si avvicinava. Ed eccolo arrivare, un grande cavallo nero con un'ampia
criniera. “Fermati, Pooka” disse Flann con tono di comando. Il cavallo nero si arrestò e il
Pooka che era il suo cavaliere scivolò giù verso la coda.
Flann trattenne il cavallo sbuffante e Morag gli saltò in groppa. Poi Flann balzò su tra Morag
e la testa del cavallo. Crom Duv era già al loro fianco. “Via, Pooka, via” disse Flann, e il
cavallo scattò attraverso il bosco come il vento di marzo. E allora Crom Duv soffiò nel corno
che teneva di traverso sul petto e il Toro del Tumulo muggì in risposta. Mentre passavano
vicini al tumulo, il Toro si precipitò su di loro e le sue corna sollevarono in aria la coda del
cavallo del Pooka. Il Toro si girò e si lanciò al loro inseguimento con la testa bassa e il fiato
caldo che gli usciva dalle narici. E, quando essi erano in una conca, lui era in alto e, quando
erano in alto, lui era in una conca. E nella conca o in alto, dietro il suo Toro veniva lo stesso
Crom Duv.
Poi il fiato caldo del Toro investì Morag e Flann e il Pooka. “Oh, cosa faremo ora?” chiese
Morag al Pooka che era attaccato alla coda del cavallo con la piccola faccia tutta sconvolta
dalla paura.

“Metti la mano nell'orecchio del mio cavallo e getta all'indietro ciò che troverai lì” rispose il
Pooka, battendo i denti. Flann mise la mano nell'orecchio destro del cavallo e trovò un
rametto di frassino. Lo gettò all'indietro. All'istante spuntò fuori un bosco intricato. Udirono il
Toro attraversare l'intrico del bosco e udirono Crom Duv urlare e farsi strada fracassando felci
e rami. Ma il Toro e l'uomo superarono il bosco e di nuovo ripresero a guadagnare terreno
dietro al cavallo del Pooka. Di nuovo il fiato del Toro si fece caldo su di loro. “Oh, Pooka,
che faremo ora?” chiese Morag.
“Metti la mano nell'orecchio del mio cavallo e getta all'indietro ciò che troverai lì,” rispose il
Pooka, battendo i denti dalla paura mentre si teneva alla coda del suo cavallo. Flann mise la
mano nell'orecchio sinistro del cavallo e trovò una bolla d'acqua. La gettò all'indietro.
All'istante la bolla si trasformò in un lago e, mentre essi continuavano a cavalcare, le acque
del lago si distesero dietro di loro.
Morag e Flann non seppero mai se il Gigante e il Toro entrarono in quel lago o, se lo fecero,
se mai ne uscirono. Attraversarono il fiume che segnava i confini del dominio di Crom Duv e
furono salvi. Flann fermò il cavallo e saltò a terra. Morag saltò giù con la Piccola Gallina
Rossa. Allora il Pooka si buttò in avanti e sussurrò qualcosa nell'orecchio del cavallo.
All'istante esso fece sprizzare scintille dai suoi zoccoli e si lanciò giù per un fianco della
collina. Da quel giorno Morag e Flann non videro mai più il Pooka e il suo grande, focoso e
schiumante cavallo nero.
“Sai dove siamo, mia Piccola Gallina Rossa?” domandò Morag quando il sole fu di nuovo nel
cielo. “Ci sono cose che so, e cose che non so,” rispose la Piccola Gallina Rossa, “ma so che
siamo vicini al luogo da dove partimmo.”
“Quale via dobbiamo prendere per giungere lì, mia Piccola Gallina Rossa?” chiese Morag.
“La via del sole” rispose la Piccola Gallina Rossa. Così Morag e Flann seguirono la via del
sole e la Piccola Gallina Rossa saltellava accanto a loro. Morag teneva, in un sacchettino di
pelle di donnola appeso al collo, le due bacche di sorbo che Flann le aveva dato.
Andarono verso la casa della Donna Veggente. E mentre camminavano, Morag raccontò a
Flann di come era cresciuta là assieme alle sue sorelle adottive, e Flann raccontò a Morag
delle cose che aveva fatto quando era nella casa della Donna Veggente dopo che lei e le sue
sorelle adottive l'avevano lasciata.
Salirono su per la collinetta coperta di brugo dove c'era la casa della Donna Veggente, e la
Piccola Gallina Rossa andò svolazzando e battendo le ali verso il cancello. La vecchia capra
della Donna Veggente se ne stava nel cortile, e abbassò le corna, con la barba che le arrivava
fino alle zampe, e osservò la Piccola Gallina Rossa. Allora la Piccola Gallina Rossa le volò
sulla schiena. “Siamo di nuovo qui, di nuovo qui” disse la Piccola Gallina Rossa.
E poi la Donna Veggente si fece sulla soglia e vide chi era arrivato. Li coprì di baci e li bagnò
di lacrime, e li asciugò con panni di seta e con i suoi capelli.
VIII

Flann raccontò le sue avventure alla Donna Veggente. E quando le ebbe narrato tutto chiese:
“Quale Regina è mia madre, o mia genitrice adottiva?” “Tua madre,” rispose la Donna
Veggente, “è Caintigern, la Regina del Re d'Irlanda.”
“Allora è lei mia madre, e non Sheen, come mi è stato raccontato?”
“Il suo nome fu mutato in Caintigern quando suo marito, detto il Re Cacciatore, divenne Re
sull'Irlanda e iniziò a governare come Re Connal.”
“Allora chi è il mio compagno che è chiamato il Figlio del Re d'Irlanda?”
“È anche lui Figlio di Re Connal, nato da una Regina che morì dandolo alla luce e che fu
moglie di Re Connal prima che egli iniziasse il suo vagabondare e incontrasse Sheen tua
madre.”
E appena la Donna Veggente ebbe detto questo, qualcuno venne e si fermò sull'uscio. Era una
ragazza, e dovunque fosse il sole brillava su di lei, e dovunque fosse il vento s'increspava su
di lei. Bianca come la neve su un lago completamente ghiacciato era la ragazza, e bellissimi
come fiori erano i suoi occhi, mentre le sue guance erano purpuree come i fiori della digitale e
i suoi capelli avevano luminosi riflessi e delicate sfumature di cinque colori. Guardò
lietamente Flann e i suoi occhi avevano lo sguardo gentile che era sempre negli occhi di
Morag. E s'inginocchiò, appoggiando le mani sulle ginocchia di lui.
“Sono Morag, Flann” disse.
“Davvero Morag!” disse lui, “ma come hai potuto diventare così bella?”
“Ho mangiato la bacca del Sorbo Fatato,” rispose lei, “e ora sono bella come dovrei essere.”
Per tutto il giorno restarono insieme, e Flann era felice che la sua amica fosse tanto bella e che
una creatura tanto bella fosse sua amica. E le raccontò delle sue avventure nella Città del
Castello Rosso e della Principessa Fiamma-di-Vino e del suo amore per lei. “Se tu l'ami
ancora non ti vedrò mai più” disse Morag.
“Ma,” rispose Flann, “non potrei più amarla per il modo con cui si è burlata di me.”
“Quando si è burlata di te?”
“Quando le portai il messaggio che la Donna Veggente mi aveva ordinato di consegnarle.”
“E qual era il messaggio?”
“'Chiedile,' aveva detto la Donna Veggente, sette gocce del sangue del suo cuore -lei può
darle e continuare a vivere -così che il sortilegio possa essere tolto dalle sette oche selvatiche
e la madre che desidera ardentemente vederti possa di nuovo trovare la pace.' Questo era il
messaggio che la Donna Veggente mi aveva detto di portare a Fiamma-di-Vino. E sebbene io
le avessi donato prodigiosi regali essa mi derise quando glielo annunciai. E da come mi derise
capii che era dura di cuore.”
“Tuttavia sette gocce di sangue del cuore sono difficili da dare” disse tristemente Morag.
“Ma la fanciulla che ama può darle” disse la Donna Veggente che stava alle sue spalle.
“È vero, madre” rispose Morag.
Quella sera Morag disse: “Domani devo prepararmi per andare dalla Regina di Senlabor. Tu,
Flann, non puoi venire con me. La Donna Veggente ha inviato un messaggio a tua madre, e tu
devi essere qui per incontrarla quando arriverà. Sia il vostro un felice incontro, o Flann del
mio cuore. Ti lascerò un dono da darle. Così domani andrò dalla Regina di Senlabor con la
Bacca di Sorbo e mi porterò la Piccola Gallina Rossa per compagnia, e starò lì finché le mie
sorelle diventeranno spose di Dermott e Downal, i tuoi fratelli.”
Il giorno seguente quando Flann entrò in casa, vide Morag vestita per il viaggio, ma seduta
accanto al focolare. Era pallida e aveva l'aspetto sofferente. “Non andare oggi, Morag” disse
lui. “Andrò oggi” rispose Morag. Mise una mano nel corsetto del vestito e tirò fuori un
fazzoletto ripiegato tessuto da poco. “Questo è per tua madre,” disse, “l'ho tessuto per lei.
Consegnale questo dono da parte mia quando le avrai dato il benvenuto.”
“Lo farò, Morag, cuore mio” disse Flann.
Entrò la Donna Veggente e disse addio a Morag e recitò per lei la formula magica che
accompagna i pellegrini:

Possa il mio Talismano


D'Argento
Diffondere luce
Sul tuo cammino.

Allora Morag si avviò. “Ti ritroverò,” disse a Flann, “al Castello del Re d'Irlanda perché è là
che io mi recherò quando avrò lasciato le mie sorelle adottive e la Regina di Senlabor. Adesso
dammi un bacio. Ma se bacerai un'altra prima di baciarmi di nuovo, mi dimenticherai.
Ricordalo.”
“Lo ricorderò” rispose Flann. Baciò Morag e disse: “Quando verrai al Castello del Re
d'Irlanda ci sposeremo.”
“Tu mi hai dato la Bacca di Sorbo,” disse Morag, “e la Bacca di Sorbo mi ha donato tutta la
bellezza che mi spettava. Ma a che mi servirà la mia bellezza se tu mi scorderai?”
“Morag,” rispose lui, “come potrei dimenticarti?”
Lei non disse nulla e cominciò a scendere lungo il pendio della collina, e Flann guardò e
guardò finché i suoi occhi furono in grado di vedere.
LA DONNA VEGGENTE

Ci sono ancora molte cose da raccontare, ma ho poco tempo per narrarvele: le oche dalla
faccia bianca stanno volando infatti sopra la mia casa e, quando saranno volate tutte via, non
avrò più nulla da dirvi. Ho da raccontarvi ancora come il Figlio del Re d'Irlanda ritornò,
infine, alla sua dimora con Fedelma, la figlia dell'Incantatore, e come accadde che le Sette
Oche Selvatiche, che erano i fratelli di Caintigern, vennero liberate dall'incantesimo e
restituite alla loro condizione umana. Ma soprattutto ho da raccontarvi la fine di quella storia
che era iniziata nella Casa del Gigante Crom Duv, la storia di Flann e di Morag.
Come ho già detto le oche dalla faccia bianca stanno volando sopra la mia casa; allo stesso
modo incrociavano e volavano la notte in cui il Figlio del Re d'Irlanda e Fedelma, che lui
aveva portato con sé dalla Terra di Bruma, si trovavano nella casa del Piccolo Saggio della
Montagna. E quella notte, il Piccolo Saggio rivelò loro di quale uccello fosse l'ala che
ricopriva la sua casa. Fu davvero una storia meravigliosa! E parlò loro anche del luogo dove
sarebbero dovuti andare, alla casa della Donna Veggente; là avrebbero incontrato persone che
conoscevano: Flann, il compagno del Figlio del Re, e Caintigern, la moglie del Re d'Irlanda, e
la sorella di Fedelma, Gilveen.
Al mattino, il Piccolo Saggio della Montagna accompagnò Fedelma e il Principe Irlandese
dalla collina giù fino al luogo dove avrebbero trovato un cavallo che li avrebbe portati alla
casa della Donna Veggente. Il Piccolo Saggio raccontò loro da che stirpe provenisse la Donna
Veggente e perché vivesse tra i poveri e gli stolti senza nome, splendore e ricchezze. E anche
questa fu una storia meravigliosa.
Ora, mentre i tre andavano lungo la riva del fiume, videro una ragazza sull'altra sponda che se
ne veniva a piedi dal luogo verso il quale essi si stavano dirigendo. La ragazza cantava
sommessamente mentre camminava, e il Figlio del Re e Fedelma e il Piccolo Saggio udirono
la sua canzone:

Una bacca, una bacca, una Bacca di Sorbo Rosso


Una Bacca di Sorbo Rosso mi portò bellezza e amore.

Ma gocce di sangue del mio cuore, gocce di sangue del mio cuore,
Sette gocce di sangue del mio cuore ho donato.

Sette Oche Selvatiche furono uomini, Sette Oche Selvatiche furono uomini,
Sette gocce di sangue del mio cuore sono per por fine al vostro incantesimo.
Un bacio per il mio amore, un bacio per il mio amore,
Possa il suo bacio non giungere ad altre finché non m'incontrerà di nuovo.

Se a qualcuna giungerà il suo bacio, se a qualcuna giungerà il suo bacio,


Lui m'incontrerà, lui m'incontrerà, e non mi potrà riconoscere.

La ragazza che era sull'altra riva del fiume proseguì per la sua strada, e il Figlio del Re e
Fedelma con il Piccolo Saggio della Montagna giunsero ad un prato dove c'era un cavallo.
Sembrava un cavallo impacciato e lento nei movimenti. Ma quando lo montarono, scoprirono
che aveva le tre qualità dei destrieri di Finn -lo slancio impetuoso in salita, il trotto della
volpe, sciolto e fiero, sul terreno piano, e il salto del cervo sopra le barriere. Essi salutarono il
Piccolo Saggio della Montagna augurandogli buona fortuna e, col cavallo che aveva loro
donato, galopparono verso la casa della Donna Veggente.
II

Quando Fedelma e il Figlio del Re d'Irlanda arrivarono alla casa della Donna Veggente, la
prima persona che videro fu Gilveen, la sorella di Fedelma.
Veniva verso il luogo dove essi si erano fermati con il loro cavallo e sorrideva alla sorella e al
Figlio del Re d'Irlanda. E fu proprio lei a dare loro per prima il benvenuto. “Vi starete
chiedendo come io sia giunta qui,” disse Gilveen, “e ve lo dirò prima che si spenga la fiamma
di una candela. Io e Aefa andammo alla corte del Re d'Irlanda dopo che tu, sorella mia, te ne
eri partita con l'uomo fortunato che avevi scelto. E anche Aefa è stata fortunata nel trovare un
marito ed ora è sposata a Maravaun, il Consigliere del Re. Io sono rimasta con Caintigern la
Regina. Ed ora la Regina è nella casa della Donna Veggente con il giovane Flann e desidera
ardentemente darvi l'abbraccio di benvenuto. E se vi sedete vicino a me su questa riva erbosa,
vi racconterò l'intera storia dal principio alla fine.”
Sedettero assieme, e Gilveen raccontò a Fedelma e al Figlio del Re d'Irlanda la storia. La
Donna Veggente aveva mandato un messaggio a Caintigern la Regina per dirle che aveva
notizie del suo figlio primogenito. Quindi Caintigern si recò alla casa della Donna Veggente e
Gilveen, la sua damigella, andò con lei. Là trovò Flann che un tempo era chiamato Gilly dalla
Pelle di Capra e lo riconobbe per il figlio che le era stato rapito appena nato.
Flann consegnò a sua madre il pegno d'amore che gli era stato lasciato da una giovane donna.
Si trattava di un fazzoletto che conteneva sette gocce di sangue del cuore della fanciulla. La
Donna Veggente disse alla Regina che quelle sette gocce avrebbero spezzato l'incantesimo dei
suoi sette fratelli che erano stati trasformati in sette oche selvatiche.
E mentre Gilveen raccontava loro tutto questo, Flann venne a vedere di chi fosse quel cavallo
e grande fu la sua gioia nel ritrovare il compagno, il Figlio del Re d'Irlanda.
Ora sapevano che erano figli di un unico padre, e si abbracciarono come fratelli. E Flann
prese la mano di Fedelma e raccontò a lei e al Figlio del Re del suo amore per Morag. Ma
mentre parlava di Morag, Gilveen se ne andò.
Poi Flann li accompagnò alla casa della Donna Veggente e la Regina, che era seduta vicino al
focolare, si alzò e diede loro l'abbraccio di benvenuto. Lo sguardo che rivolse al Figlio del Re
era affettuoso e lo chiamò col nome d'infanzia. Disse pure che era molto lieta che lui e Flann,
suo figlio, fossero buoni compagni, e si augurò che rimanessero amici per sempre.

Fedelma e il Figlio del Re d'Irlanda si fermarono a riposare per un giorno. La Donna


Veggente raccontò loro che la Regina, la notte seguente -era una notte di luna piena -avrebbe
cercato in tutti i modi di restituire ai suoi sette fratelli le loro sembianze umane. La Donna
Veggente disse pure che lei e la Regina dovevano rimanere sole in quella casa e che il Figlio
del Re d'Irlanda con Flann e Fedelma e Gilveen dovevano avviarsi verso il Castello del Re
d'Irlanda assieme a MacStairn il Boscaiolo, e attendere la Regina in un luogo prestabilito a un
giorno di viaggio da lì.
Così, il Figlio del Re d'Irlanda e Flann, Fedelma e Gilveen dissero addio alla Regina e alla
Donna Veggente allontanandosi dalla sua casa, e iniziarono il viaggio alla volta del Castello
del Re con MacStairn il Boscaiolo che camminava a fianco dei loro cavalli, portando con sé
una grande ascia.
Alla sera MacStairn costruì due ripari, uno coperto di rami verdi per Fedelma e Gilveen e un
altro coperto di zolle erbose per Flann e il Figlio del Re d'Irlanda. Flann si distese vicino
all'entrata di questo ricovero. E di notte, quando l'unico rumore nella foresta era quello delle
foglie che sussurravano al Popolo Segreto, Gilveen si alzò dal suo giaciglio e si recò all'altro
ricovero bisbigliando il nome di Flann. Lui si svegliò e, pensando che Morag fosse ritornata
da lui (l'aveva appena sognata), tese le braccia, attirò a sé Gilveen e la baciò. Allora Gilveen
tornò di corsa al suo riparo. E Flann non sapeva se fosse sveglio o se avesse sognato.
Ma quando si alzò il mattino successivo, nella sua mente era svanito ogni ricordo di Morag. E
quando il Figlio del Re partì a cavallo con Fedelma, egli li seguì con Gilveen. Poi Gilveen gli
diede una bevanda che lo stregò, e lui pensò a lei notte e giorno.
Né Fedelma né il Principe Irlandese riuscivano a capire cosa fosse successo a Flann. Gli
ricordarono il nome che aveva pronunciato così spesso, il nome di Morag, ma sembrava che
questo non avesse significato per lui. A mezzogiorno si fermarono ad attendere che la Regina
arrivasse con o senza i suoi sette fratelli. Flann e Gilveen erano sempre assieme. E Gilveen
continuava a sorridere.
III

Dopo che Caintigern fu arrivata ed ebbe incontrato suo figlio Flann, e a lei e alla Donna
Veggente fu noto che il dono di Morag a Flann conteneva le sette gocce di sangue che
avrebbero ridato forma umana alle sette oche selvatiche, i fratelli di Caintigern, dopo che tutto
questo fu svelato, la Donna Veggente mandò il suo più fidato messaggero alla palude per dare
il segnale alle sette oche selvatiche di volare verso la sua casa la prima notte di luna piena. Il
suo messaggero era il re di quaglie. Viaggiò notte e giorno, attraversando velocemente i prati.
Si nascose al margine degli acquitrini e lanciò il suo messaggio stridulo alle sette oche
selvatiche. Infine esse intesero ciò che diceva e, il giorno precedente la notte di luna piena,
volarono, tutte e sette, verso la casa della Donna Veggente.
In casa non c'era nessuno tranne Caintigern, la Regina. La porta era stata lasciata aperta alla
luce della luna. Le sette oche selvatiche volarono giù e si fermarono fuori della porta,
muovendo la testa e le ali rischiarate dalla luce della luna piena. Allora Caintigern si alzò e
prese il pane che la Donna Veggente aveva preparato. Lo inumidì in bocca, e in ciascun
pezzetto di pane inumidito mise un frammento del fazzoletto che conteneva una goccia di
sangue. Tese la mano, porgendo a ciascuna delle oche un pezzetto di pane. Non appena lo
mangiò, la prima oca cadde in avanti sul pavimento, con la testa piegata a terra. La Regina,
sua sorella, vide emergere da essa una sembianza d'uomo, inginocchiato, con le braccia dietro
la schiena come se fossero state legate. E quando guardò fuori vide altre forme umane
inginocchiate con le teste piegate e le braccia dietro la schiena. Allora Caintigern implorò la
Donna Veggente, chiamandola con il suo nome segreto: “O Grania Oi, fa' che i miei fratelli
siano tramutati in uomini!” Quando disse questo, vide la Donna Veggente attraversare il
cortile. Essa ondeggiò le mani sopra le figure redine, che si alzarono in piedi come uomini,
uomini invecchiati e nudi.
La Donna Veggente diede a ciascuno un indumento e i sette uomini entrarono in casa. Essi
stavano in piedi, non si sedevano, e per lungo tempo non furono in grado di parlare. La loro
sorella si inginocchiò davanti a ciascuno e a ciascuno bagnò le mani con le sue lacrime.
Pensava che li avrebbe rivisti fanciulli o almeno giovani, invece ora erano invecchiati e la
miglior parte della loro vita era passata. Stettero in quella casa finché la favella non tornò
sulle loro labbra. Allora manifestarono l'ardente desiderio di rivedere il padre, ma Caintigern
non sopportava l'idea che si separassero da lei. Infine quattro dei suoi fratelli partirono e tre
rimasero. Si sarebbero recati insieme a lei al Castello del Re d'Irlanda; gli altri quattro li
avrebbero raggiunti in seguito, dopo che avevano visto il loro padre. Così un giorno
Caintigern disse addio alla Donna Veggente, promettendole che le avrebbe dimostrato la sua
gratitudine prendendosi cura della damigella che aveva dato il pegno d'amore a suo figlio
Flann. E pregò che Morag venisse presto al Castello del Re.

Caintigern raggiunse con i suoi fratelli il luogo dove Flann e il Figlio del Re d'Irlanda,
Fedelma e Gilveen li attendevano. Un fabbro strigliò e bardò un cavallo per ciascuno di loro,
e insieme cavalcarono verso il Castello del Re d'Irlanda, mentre MacStairn, il Boscaiolo, li
precedeva per annunciare la loro venuta. Il Re d'Irlanda aspettava alla pietra miliare dove i
cavalieri diretti al suo Castello scendevano da cavallo, e il suo Maggiordomo, il suo
Consigliere, e il suo Druido gli stavano al fianco. Egli fece scendere la Regina da cavallo e lei
lo condusse da Flann. E, quando guardò Flann negli occhi, il Re seppe che era figlio suo e di
Sheen, ora conosciuta come Caintigern. Diede a Flann l'abbraccio paterno di benvenuto. La
Regina lo condusse quindi dai suoi tre fratelli che erano stati strappati dalle loro sembianze
umane prima che lui l'avesse conosciuta. E lo condusse dal giovane che era da sempre
conosciuto come Figlio del Re d'Irlanda, e il padre diede il benvenuto a un figlio che era
ritornato dopo un viaggio infinito e periglioso.
Poi il Figlio del Re condusse Fedelma da suo padre dicendogli che lei era la sua amata e che
sarebbe divenuta sua moglie. E il Re diede a Fedelma il benvenuto al Castello.
Allora intervenne Gilveen: “C'è un segreto tra questo giovane, Flann, e me.” “Qual è questo
segreto?” chiese la Regina, ponendo improvvisamente le sue mani sulle spalle di Gilveen.
“Che io sto per divenire sua moglie” disse Gilveen.
La Regina si avvicinò a suo figlio e gli chiese: “Non ricordi Morag, Flann, che ti diede il
pegno d'amore che tu mi portasti?”
E Flann rispose: “Morag! Credo che la Donna Veggente abbia pronunciato il suo nome
mentre mi raccontava una storia.”
“Io sto per divenire la moglie di Flann” disse Gilveen, rivolgendogli un sorriso.
“Sì, diverrà mia moglie” disse Flann.
Allora il Re diede il benvenuto anche a Gilveen, e tutti entrarono nel Castello. Riferì poi a sua
moglie che aveva ricevuto dei messaggi dal Re di Senlabor sugli altri due figli, Dermott e
Downal, in cui si diceva che essi si stavano facendo un buon nome, e che il loro
comportamento si addiceva a Figli di Re. Nel salone Fedelma vide Aefa, l'altra sua sorella.
Aefa era diventata così superba da quando aveva sposato Maravaun, il Consigliere del Re, che
a stento rivolgeva la parola a qualcuno.
Porse alle sorelle le punte delle dita e fece appena un cenno verso i due giovani. Il Re
interrogò il suo Druido per sapere il giorno propizio per celebrare i matrimoni nel suo
Castello e il Druido rispose che non sarebbe stato opportuno celebrarli prima dell'apparizione
della luna piena.
IV

Morag, intanto, andò per viottoli e sentieri, per colline e collinette, attraverso guadi di fiumi e
passaggi di pietra, finché giunse al paese di Senlabor e al Castello del Re.
Nel Castello non c'erano in quel momento persone di alto lignaggio perché tutti erano andati a
vedere i giovani cavalli che dovevano essere domati nel prato vicino al fiume: erano andati il
Re e la Regina, e le figlie adottive del Re, e tra le fanciulle del Castello, anche Baun e Deelish
erano andate. Anche il Consigliere del Re aveva lasciato il Castello. Morag entrò in cucina,
ma le inservienti che erano là non la riconoscevano, sia perché erano nuove e non avevano
mai udito parlare di lei, sia perché lei era divenuta di una straordinaria bellezza mangiando la
bacca del Sorbo Fatato; perciò nessuno poteva riconoscere la ragazza che un tempo aveva
pulito i piatti in quella cucina.
Fu Breas, il Maggiordomo del Re, che si avvicinò e le chiese chi fosse. Lei glielo disse.
Allora Breas la guardò con attenzione e vide che era proprio Morag, la ragazza che aveva
lavorato nella cucina del Re. E disse ad alta voce: “Prima di andartene hai rotto il piatto che il
Re considerava come un suo speciale tesoro, e per questo sarai rinchiusa nella Prigione di
Pietra. Ed io che ho potere in tali cose, ordino che sia così.” Poi le sussurrò in un orecchio:
“Ma baci e dolci parole mi renderanno ben disposto a salvarti.”
Morag, a voce alta, lo chiamò con quel nome infamante con cui era conosciuto dai servitori
nei loro pettegolezzi. Ma i servitori, udendo quel nome pronunciato in presenza di Breas,
finsero di essere scandalizzati. Si avvicinarono a Morag e la colpirono con le ramazze che
usavano per spazzare il pavimento.
Proprio allora le sue sorelle adottive, Baun e Deelish, entrarono in cucina. Vedendola, la
riconobbero. Le parlarono trattenendo a stento l'ira. Le dissero che non erano state loro a
volere che lei intraprendesse quel viaggio, ma, visto che se n'era andata, era davvero una
disgrazia che fosse tornata. Infatti, lei si era comportata in modo screanzato, e di loro che
erano le sorelle adottive si sarebbe potuto pensare che fossero altrettanto screanzate; le dissero
anche che, prima del suo ritorno, esse erano ben viste da tutti, e che Breas aveva persino
ordinato che fosse dato loro un luogo ombreggiato per assistere alla domatura dei cavalli, così
avevano potuto vedere i due giovani che avevano domato i cavalli, Dermott e Downal.
“È per voi che sono tornata” disse Morag. “Desidero che una di voi faccia una cosa per me.
Tu, Baun, canta per le figlie adottive del Re e prima che vadano a dormire questa notte, chiedi
loro di dire alla Regina che Morag è ritornata e ha una cosa da darle.”
“Cercherò di ricordarlo, Morag” disse Baun.
Morag fu condotta nella Prigione di Pietra da serve minacciose, e Baun e Deelish sedettero in
un angolo a piangere e non la accompagnarono.
Quella notte le figlie adottive del Re restarono sveglie a lungo e, dopo che Baun ebbe cantato
per loro, le chiesero di raccontare cos'era accaduto al Castello. Allora Baun ricordò il tumulto
in cucina originato dall'epiteto dato a Breas e riferì alle figlie adottive del Re che Morag era
ritornata.
“Lei è stata allevata nella stessa casa con noi,” disse Baun, “ma non è nata dagli stessi
genitori.” E poi aggiunse: “Se le vostre Gentili Eccellenze vorranno ricordarlo, dicano alla
Regina che Morag è ritornata.”
Il giorno seguente, mentre stavano passeggiando con la Regina, una delle figlie adottive del
Re disse: “Sapete di una ragazza chiamata Morag? Ho udito che è stata lontana ed è
ritornata.”
“Com'è andato il suo viaggio?” chiese la Regina.
“Di questo non sappiamo nulla” rispose la damigella che aveva parlato.
La Regina andò dov'erano Baun e Deelish e da loro udì che Morag era stata rinchiusa nella
Prigione di Pietra con l'accusa di aver rotto il piatto del Re quando serviva al Castello. Ma la
Regina sapeva che il piatto era ancora integro dopo che Morag se n'era andata. Andò dal
Maggiordomo del Re e lo accusò di aver rotto lui il piatto, e Breas ammise che era stato così.
Quindi il Maggiordomo perse il suo rango e divenne il più meschino e il più disprezzato
servitore del Castello.
La Regina andò alla Prigione di Pietra e fece uscire Morag, Le chiese che esito aveva avuto il
suo viaggio, e allora Morag le mise la Bacca di Sorbo in mano. La Regina si affrettò verso la
propria camera e la mangiò, così giovinezza e bellezza ritornarono in lei e il Re, che era
diventato estraneo alla Regina, tornò ad amarla.
Quindi Morag giunse con grandi onori al Castello, e la Regina le chiese di scegliere il dono
che desiderava di più. E il dono che Morag scelse, fu il matrimonio delle sue sorelle adottive
con i due giovani che esse amavano, Downal e Dermott, della Corte del Re d'Irlanda.
La Regina, quando udì questo, prese dalle sue cassapanche i vestiti più belli e li diede a Baun
e a Deelish. Quando le fanciulle li ebbero indossati, la Regina le fece conoscere ai due
giovani. Downal e Dermott si innamorarono delle sorelle adottive di Morag, e il Re stabilì il
giorno per la celebrazione del loro matrimonio.
Morag si fermò al Castello per assistere alle nozze, e il Re e la Regina ne fecero un grande
avvenimento. Ci furono settecento ospiti al tavolo più corto, ottocento al tavolo più lungo,
novecento al tavolo rotondo, e mille nel grande salone. Io ero là e udii l'intera storia. Ma non
ebbi nessun regalo tranne scarpe di carta e calze di latticello che mi furono rubate da un
mandriano mentre attraversavo le montagne. Ma Morag ebbe i più bei regali, perché la
Regina le diede tre doni: un paio di forbici che tagliavano vestiti da sole, un gomitolo di filo
che entrava nell'ago da solo, e un ago che cuciva da solo.
V

Morag, con i tre doni che la Regina di Senlabor le aveva dato, ritornò alla casa della Donna
Veggente. La sua Piccola Gallina Rossa era nel cortile e le svolazzò incontro. Ma non c'era
altro segno di vita in quel luogo. Poi, giù al lavatoio, trovò la Donna Veggente che
risciacquava i panni. Se ne stava sui sassi torcendosi le mani come se fosse in un gran guaio.
“Oh, Morag, figlia mia Morag,” si lamentava la Donna Veggente, “ci sono dei segni sui
panni, ci sono dei segni sui panni!”
Dopo un po' smise di lamentarsi e di torcersi le mani e risalì dal torrente. Mostrò a Morag che
in tutte le camicie e i tessuti di cotone che aveva lavato per lei, c'era un buco proprio
all'altezza del cuore. Morag divenne pallida quando lo vide, ma restò diritta in piedi e non si
lamentò. “Dovrei andare al Castello del Re, madre mia?” chiese. “No,” rispose la Donna
Veggente, “ma alla capanna del Boscaiolo che è vicina al Castello del Re. E porta con te la
tua Piccola Gallina Rossa, figlia mia,” continuò, “e non scordare i tre regali che ti diede la
Regina di Senlabor.” Poi la Donna Veggente si alzò e pronunciò la benedizione per il viaggio
di Morag:

Possa il Vecchio
Che le Fate
Nutrirono
Per sette età,
Portarti sette
Oceani di fortuna.

Morag le diede allora l'abbraccio dell'addio e si avviò per la sua strada con la Piccola Gallina
Rossa sotto braccio, e nella borsa i tre regali che la Regina di Senlabor le aveva dato.

Morag andava e sempre andava dalle prime luci del giorno fino allo spalancarsi dell'oscurità,
e questo per tre passaggi del sole e, infine, giunse in vista del Castello del Re d'Irlanda.
Chiese al custode dei cani dove fosse la capanna di MacStairn, il Boscaiolo, e la capanna le fu
mostrata. Ella vi andò e vide la moglie di MacStairn. Le disse di essere una ragazza che
viaggiava da sola e che chiedeva ospitalità. “Posso darti ospitalità,” rispose la moglie di
MacStairn, “e puoi anche guadagnarti qualcosa, perché c'è molto lavoro di cucito da fare in
questo periodo.” Morag le chiese il motivo di tanto lavoro, e la moglie del Boscaiolo le
raccontò che al Castello c'erano due coppie che si sarebbero sposate presto. “Uno è il giovane
che abbiamo sempre chiamato il Figlio del Re d'Irlanda. Sta per sposarsi con una damigella
chiamata Fedelma. L'altro è un giovane che è pure Figlio del Re, ma che è stato a lungo
lontano. Il suo nome è Flann. E sta per sposarsi con una damigella chiamata Gilveen.”
Quando lei udì queste parole, fu come se un coltello le fosse stato conficcato e girato nel
cuore. Lasciò cadere da sotto il braccio la Piccola Gallina Rossa. “lo cucirò gli indumenti che
deve indossare la damigella Gilveen” disse, e sedette su una pietra fuori dalla capanna del
Boscaiolo. La moglie di MacStairn mandò a dire al Castello che c'era una giovane nella sua
capanna che poteva cucire tutti gli indumenti che Gilveen le avrebbe ordinato.
Il giorno dopo, Gilveen venne alla capanna del Boscaiolo con un servitore che la seguiva
portando un cesto di stoffe e di modelli per abiti. Dopo che il cesto fu posato a terra, Gilveen
iniziò a spiegare alla moglie di MacStairn come voleva fossero tagliati, cuciti e ricamati i
vestiti. Morag tirò fuori il panno cremisi e lasciò che le sue forbici, quelle che la Regina di
Senlabor le aveva dato, corressero su di esso. Le forbici tagliarono esattamente il modello.
“Che splendide forbici” esclamò Gilveen. Si chinò verso Morag che stava seduta su una pietra
fuori dalla casa del Boscaiolo e le prese in mano esaminandole attentamente. “Non posso
restituirtele,” disse, “dammele, e ti concederò qualsiasi favore tu chieda.” “Poiché volete che
vi chieda un favore,” disse Morag, “vi chiedo di lasciarmi sedere al tavolo della cena, questa
sera, da sola con il giovane che dovete sposare.” “Ciò non mi procurerà alcun fastidio”
rispose Gilveen. Se ne andò, portandosi via le forbici e sorridendo tra sé.
Quella sera Morag andò al Castello e si recò al tavolo della cena dove Flann era seduto da
solo. Ma Gilveen aveva versato del sonnifero nella coppa di Flann e perciò lui non vide né
riconobbe Morag quando lei si sedette al suo tavolo. “Ricordi, Flann,” chiese lei, “come
eravamo soliti sederci al tavolo della cena nella Casa di Crom Duv?” Ma Flann non la udì, né
la vide, e Morag dovette andarsene.
VI

Il giorno seguente Gilveen venne dove Morag sedeva sulla pietra fuori dalla capanna del
Boscaiolo per vederla cucire gli indumenti che aveva tagliato. Il filo entrava da solo nell'ago.
“Che splendido gomitolo di filo” esclamò Gilveen, prendendolo in mano. “Non posso
restituirtelo. Chiedimi in cambio un favore.” “Poiché volete che vi chieda un favore,” disse
Morag, “chiedo che mi lasciate sedere al tavolo della cena, da sola con il giovane che state per
sposare.” “Ciò non mi procurerà alcun fastidio” rispose Gilveen, prese il gomitolo di filo e se
ne andò via sorridendo.
Quella sera Morag andò al Castello e si recò al tavolo della cena dove Flann era seduto da
solo. Ma Gilveen aveva di nuovo versato il sonnifero nella sua coppa e perciò Flann non vide
né riconobbe Morag. “Non ricordi Flann,” chiese lei, “la storia di Morag che ti raccontai
mentre cenavamo nella Casa di Crom Duv?” Ma Flann non diede segno di riconoscerla, poi
Morag dovette andarsene.
Il giorno seguente Gilveen venne ad osservare Morag che impreziosiva di ricami rossi un
abito bianco. Quando mise l'ago nel panno esso eseguì il ricamo da solo. “Fra i tre questo è
l'oggetto più prodigioso” disse Gilveen. Si chinò e prese l'ago in mano. “Non posso
restituirtelo,” disse, “e tu devi chiedere un favore come ricompensa.” “Se devo chiedere un
favore,” rispose Morag, “l'unico favore che chiedo è che mi lasciate sedere al tavolo della
cena, questa sera, da sola con il giovane che state per sposare.” “Ciò non mi procurerà alcun
fastidio” rispose Gilveen; prese l'ago e se ne andò sorridendo.
Morag ritornò al Castello quella sera, ma questa volta portò con sé la Piccola Gallina Rossa.
Sparse dei semi sul tavolo e la Piccola Gallina Rossa li becchettò. “Piccola Gallina, Piccola
Gallina Rossa,” disse Morag, “lui dormiva anche quando diedi le sette gocce di sangue del
mio cuore per amore di sua madre.” La Piccola Gallina Rossa volò accanto al viso di Flann.
“Sette gocce di sangue del cuore, sette gocce di sangue del cuore” disse, e Flann udì queste
parole.
Aprì gli occhi e vide la Piccola Gallina Rossa sul tavolo. Sapeva che apparteneva a qualcuno
che aveva conosciuto. L'immagine di Morag, all'altro lato del tavolo, gli appariva vaga e
confusa. Ma lui continuò a gettare briciole sul tavolo alla Piccola Gallina Rossa e, mentre la
guardava becchettare le briciole, il ricordo di Morag ritornò in lui. Poi riuscì a vederla. La
riconobbe come la sua innamorata e la sua promessa sposa, le si avvicinò e le chiese come era
stato possibile che non avesse pensato a lei per tanto tempo. “Ti dirò perché mi hai
dimenticata,” disse lei, “è stato per colpa del bacio che hai dato a Gilveen, e dell'incantesimo
che lei ha gettato su di te a causa di quel bacio.”
C'era tristezza nel viso di Morag mentre parlava, ma il dolore se ne andò come le nuvole si
allontanano leggere dalla faccia della luna sospesa nel cielo, e Flann rivide in lei la gentile
compagna della Casa di Crom Duv e la bellissima amica della casa della Donna Veggente.
Essi si baciarono e ogni incantesimo svanì, tranne l'eterno incantesimo dell'amore. Rimasero
seduti mano nella mano finché il ciocco nel focolare accanto a loro non fu ridotto a tizzone e
il tizzone non fu ridotto a cenere, ma tutto il tempo che trascorsero insieme sembrò loro breve
come il tempo che impiega la sentinella a passare da un lato all'altro della Porta del Castello.
Gilveen era entrata nella stanza e vide Flann e Morag scambiarsi un vero bacio d'amore.
Allora se ne andò. Ma il giorno seguente si recò dal Maggiordomo del Re, Art, che una volta
l'aveva chiesta in sposa, e che lei aveva rifiutato perché Aefa, sua sorella, aveva sposato uno
di più alto grado; andò da Art e gli disse che non voleva sposare Flann perché aveva scoperto
che aveva un'innamorata di basso lignaggio. “E sono pronta a sposare te, Art” proseguì. Art fu
molto soddisfatto, e lui e Gilveen lasciarono il Castello per sposarsi.
Poi venne il giorno in cui· Fedelma e il Figlio del Re d'Irlanda, e Morag e Flann si sposarono.
Si scambiarono la promessa solenne nel Cerchio di Pietre davanti ai Druidi che invocarono su
di loro le potenze del Sole, della Luna, della Terra e dell'Aria. Si sposarono al culmine del
giorno e i festeggiamenti iniziarono al calar della notte e le candele di cera furono accese
attorno ai tavoli. Ci fu miele di Grecia e birra di Lochlinn; anatre di Achill, mele di Emain, e
cacciagione del Colle di Caccia; ci fu trota e urogallo e uova di piviere e testa di cinghiale per
ciascun Re della compagnia. E questi furono i Re che si sedettero alla tavola con il Re
d'Irlanda: il Re di Sorcha, il Re di Spagna, il Re di Lochlinn, e il Re dell'Isola Verde che
aveva Raggio di Sole come figlia. E vi parteciparono i migliori eroi di Lochlinn, i migliori
cantastorie di Alba, i migliori bardi di Eirinn. Essi allontanarono ogni tristezza lasciando
spazio alla musica, e gli arpisti suonarono finché il grande campione Fendiscudi raccontò una
storia del reame di Grecia e di come egli aveva ucciso i tre leoni che facevano la guardia alla
Figlia del Re. La festa durò sei giorni e l'ultimo fu migliore del primo; le risate che si fecero
quando Senzacervello, il buffone Sassone, raccontò come la storia di Fendiscudi sarebbe
andata a finire, fecero uscire le giovani taccole fuori dai camini del Castello dove
nidificavano, spingendole a svolazzare impaurite sul pavimento.
Il Re d'Irlanda visse a lungo; morì quando i suoi figli erano nella loro piena virilità e, dopo la
sua morte, l'Isola del Destino si trovò sotto la saggia signoria di tutti e due. E uno ebbe il
governo delle corti e delle città, dei porti e degli accampamenti militari. E l'altro il governo
delle terre incolte, dei villaggi e delle strade dove camminavano uomini liberi, senza padrone.
E le imprese di uno sono nelle storie che i narratori hanno scritto con il linguaggio dei colti, e
le imprese dell'altro sono nelle storie che la gente si racconta e tramanda.

Quando attraversai il Guado


Essi volgevano al Passo del Monte;
Quando sostai al Passaggio di Pietra
Essi viaggiavano sulla Strada di Cristallo.
INDICE

Fedelma, la Figlia dell'Incantatore


Quando il Re dei Gatti giunse nei domini del Re Connal
La Spada di Luce e l'Unica Storia, con le avventure di Gilly dalla Pelle di Capra
La Città del Castello Rosso
Il Re della Terra di Bruma
La Casa di Crom Duv
La Donna Veggente
FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI DICEMBRE 2006
PRESSO “LA GRAFICA”
DI VAGO DI LAVAGNO (VR)
PADRAIC COLUM nasce a Longford, in
Irlanda, l’8 dicembre 1881. Comincia a lavorare,
a diciassette anni, nella Irish Railway Clearing
House; ancora giovanissimo diviene membro
della National Theatre Society ed è uno dei
firmatari dell'atto costitutivo dell'Abbey Theatre.
Ottiene il suo primo successo, nel 1903, con il
dramma teatrale The Broken Soil; si dedica
anche alla poesia e diventa amico di George
Russell, W.B. Yeats e James Stephens. Incontra
James Joyce, al quale si lega di profonda
amicizia.
Nel 1912, sposa Mary Catherine Gunning
Maguire, anch'essa scrittrice; fonda assieme a lei
e ad altri la “The Irish Review”. Nel 1914, si
trasferisce con la moglie negli Stati Uniti, dove
trascorre gran parte della sua esistenza (ma
ritorna spesso in Irlanda). Nel 1916, pubblica
The King of Ireland's Son; nel 1937, edita
Legends of Hawaii, opera in tre volumi per
ragazzi. Nel 1957 dà alle stampe The Flying
Swans (I cigni volanti), il suo romanzo più
importante. Nel 1958 esce il lavoro aneddotico
Our Friend James Joyce, scritto con la moglie
Mary. Muore a Enfield, Connecticut, l’11
gennaio 1972.
Colum è ritenuto uno dei più puntuali conoscitori
del folclore e delle tradizioni irlandesi;
fondamentali restano il suo A Treasury of Irish
Folklore e The Legend of Saint Columba. Lo
scrittore, molto noto nel mondo anglosassone, è
sconosciuto in Italia; Santi Quaranta ripropone al
pubblico italiano, in seconda edizione, Il viaggio
infinito del Principe Irlandese.

In copertina

Luba Končeková-Veselá, Bratislava 1942,


Storia di un magnifico cavaliere. Acquarello.

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