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Le Fondamenta per una

Politica Liberale
Tutto ciò che devi sapere di economia, diritto e
istituzioni per compiere scelte liberali in politica

Frédéric Bastiat
Pubblicato da Istituto Liberale A.P.S.
All rights reserved
© 2020 Istituto Liberale - APS, Torino

Traduzione di:
Gabriele Pierguidi
Alessio Cotroneo

Revisione di:
Francesco Chevallard
Alessio Langiano
Andrea Melcarne

Illustrazione di copertina di:


Elettra Eletto

Prefazione di:
Alessio Cotroneo

Opere contenute o da cui sono estratti i brani


del presente libro:
Sofismi Economici (Sophismes économiques), 1845
Lo Stato (L’État), 1848
La legge (La loi), 1850
Armonie Economiche (Harmonies économiques), 1850
Ciò che si vede e ciò che non si vede
(Ce qu’on voit et ce qu’on ne voit pas), 1850
«Se le tendenze naturali dell’umanità sono così malvagie al punto
che non è sicuro permettere alle persone di essere libere, per quale
motivo le tendenze dei politici dovrebbero essere sempre buone?
I legislatori e i loro funzionari non appartengono anch’essi alla
specie umana? O si credono diversi dal resto dell’umanità?
Vogliono essere pastori, e vogliono che noi siamo greggi. Questo
sistema presuppone in loro una superiorità di natura, di cui noi
abbiamo tutto il diritto di richiederne una prova preliminare.»

Frédéric Bastiat

La pubblicazione di questo libro è stata


possibile grazie ai nostri mecenate:

Atlas Network
Stefano Tarallo
Umberto Morgagni
Avv. Michele Calabrese
Enzo Palumbo
Francesco Morelli
Stefano Sandrini
Matteo Casadei
Lorenzo Ruffatti
Giovanni Affinita
Indice
8 Prefazione
CHE COS’È LO STATO?

16 Lo Stato
A COSA SERVE LA LEGGE?

34 La Legge
35 Che cos’è la Legge?
38 Proprietà ed Esproprio
45 La Distorsione della Legge Genera Conflitti
50 La Scelta di Fronte a Noi
55 L’approccio dei Sedicenti Intellettuali
59 La Presunzione di Voler Plasmare l’Umanità
75 La Tirannia Filantropica
81 Il Circolo Vizioso della Politica
85 L’Idea del Politico Onnipotente
89 Il Vero Scopo della Legislazione
98 La Libertà è valida solo per chi crede in Dio?
CHE COS’È L’ECONOMIA?

102 Abbondanza e scarsità
115 La Petizione
122 La Finestra Rotta
126 Un caso pratico di protezionismo
128 Indipendenza Nazionale

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CHE COS’È LA CONCORRENZA?
132 La Concorrenza
137 La concorrenza in 3 semplici esempi
146 La concorrenza fa bene ai più poveri
153 La concorrenza non ha ancora fatto ciò che promette?
156 La concorrenza non è solo economia
161 Oltre la concorrenza

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Prefazione
di Alessio Cotroneo

Siamo nel mese di dicembre dell’anno 1849. Mentre la cit-


tà di Parigi si colora di bianco e il freddo penetra in ogni
palazzo della capitale, nel Parlamento si sta tenendo il mi-
gliore - e ultimo - discorso di Frédéric Bastiat, fra i calorosi
applausi di tutti i rappresentanti francesi.
Il tema del discorso è l’imposta sulle bevande, da applica-
re soprattutto sul “lussuoso” alcool, che il ministero vuole
introdurre nuovamente per sistemare i conti in rosso dello
Stato. Questo è il caso in cui c’è la persona giusta al mo-
mento giusto: Bastiat conosce alla perfezione l’argomento,
avendo analizzato per decenni le statistiche della viticoltu-
ra francese, giungendo alla conclusione che le precedenti
imposte sul vino avessero fatto calare sia i redditi sia il nu-
mero degli abitanti nelle zone in cui si coltivava l’uva.
Forte delle sue conoscenze, Bastiat si scaglia contro la
vessatoria e onerosa imposta spiegando con sagacia perché
sarebbe dannosa sia per i consumatori sia per i produttori.
Viene interrotto più e più volte dagli applausi di tutta l’aula.
Tuttavia, il nostro autore è anche un uomo pragmatico
e sa che i conti in rosso non si mettono a posto da soli: è
disposto ad accettare qualche imposta, purché la finalità
sia quella di coprire i costi delle attività fondamentali dello
Stato.
«La nostra situazione finanziaria è disastrosa, lo ammet-

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to», afferma Bastiat, «Ma di chi è la colpa?»
Il pensiero lineare del nostro autore è chiaro: prima di
imbastire una soluzione improvvisata è necessario cono-
scere la causa del problema e analizzare le circostanze.
«La colpa è dei governi che si sono succeduti negli ultimi
cinquant’anni, perché è grazie a loro che abbiamo un debito
fluttuante di 600 milioni e un deficit di più di 300 milioni.
Il vostro dovere, come governo repubblicano, è già ben de-
lineato: dovete abolire le funzioni inutili dello Stato da cui
proviene tutto il problema.»
Frédéric Bastiat ritiene che il problema non siano le poche
entrate, e dunque che ci siano poche imposte, bensì che i
soldi dei contribuenti vengano spesi nel modo sbagliato. In
altre parole: prima di pensare a nuove imposte, tagliamo
gli sprechi.
Continua così il suo discorso: «Voi date lavoro ai dipen-
denti pubblici in proporzione a quanti soldi ci sono nelle
casse dello Stato. Se avete 800 milioni da spendere, li di-
vorate tutti. Se ne avete 1500, riuscite a trovare abbastanza
funzionari pubblici per divorarli tutti. Se aumentassimo le
entrate a 2 miliardi, trovereste il modo per far divorare tutti
e 2 i miliardi dai vostri funzionari!»
L’intera assemblea è d’accordo con lui, gli applausi sono
fragorosi e Bastiat deve interrompere il proprio discorso.
Probabilmente si pone il dubbio se abbiano capito ciò che
ha detto, siccome applaudono ma poi fanno - e votano - tut-
to il contrario. Per essere ancora più chiaro, illustra la via da
seguire in materia di tassazione e spesa pubblica: «Quindi,
se aveste un budget ridotto e ben limitato, sareste costretti

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a ridurre il numero dei vostri funzionari. Ma vorrei rivol-
gere un messaggio anche ai membri del mio partito: non
abituatevi a considerare lo Stato come il protettore di tutte
le attività economiche. Se il governo fosse confinato ai suoi
compiti fondamentali, potrebbe rendere più virtuoso il po-
polo, ridurre le tasse e assicurare la felicità e la sicurezza a
tutto il Paese.»
Nonostante gli applausi, alcuni giorni dopo viene istitui-
ta una commissione per indagare le modalità della raccolta
dell’imposta sulle bevande. Se il suo discorso non era stato
inteso, l’unica alternativa era che lo avessero preso in giro.
Il nostro autore, che crede sempre nella buona fede dei pro-
pri avversari, ipotizza la prima opzione. Io, personalmente,
le ritengo corrette entrambe.
La grande verità dietro a questa vicenda è che, come de-
scrive Bastiat nei testi all’interno di questo libro, i politici
illiberali fanno la stessa cosa dall’alba dei tempi: prometto-
no pasti gratis, facendo pagare il conto a una fantomatica
entità chiamata Stato.
Questa tendenza volta a esaltare il popolo a suon di pro-
messe folli viene oggi definita populismo, il quale consiste
nel dare alle masse ciò che viene percepito come gradito da
tutti: servizi gratis e zero imposte.
Alcuni, più responsabili dal punto di vista fiscale, o forse
più dediti alla lotta di classe, desiderano che i servizi e i pri-
vilegi di una certa categoria vengano fatti pagare a un’altra
categoria.
Queste categorie a cui si chiede di pagare solitamente
sono “i più ricchi del Paese”, una definizione così vaga che

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a volte include le stesse persone che li additano. Al con-
trario di quanto sosteneva Marx, a portare il vessillo della
redistribuzione forzata della ricchezza non sono i più pove-
ri, bensì gli intellettuali da salotto che credono nel sistema
socialista - e molto spesso questi individui vivono nell’agia-
tezza, ma identificano sempre qualcuno più ricco di loro a
cui far pagare il conto.
In alternativa, si attua una vera e propria caccia alle stre-
ghe, sostituendo la figura delle povere malcapitate con
quella degli imprenditori, dei liberi professionisti o dei
produttori in generale. La pressione fiscale sulle loro spalle
lievita e, come Atlante che regge il cielo, devono sopporta-
re gli sprechi della burocrazia statale. Tuttavia, al contrario
di Atlante, il tessuto imprenditoriale italiano invecchia e si
indebolisce e, prima o poi, arriverà il giorno in cui non riu-
scirà più a sopportare il peso sulle proprie spalle.
Un esempio analogo, seppur più specifico, può esse-
re quello dei taxisti contro Uber e le varie piattaforme di
noleggio con conducente: una forza organizzata sfrutta la
legge per eliminare la concorrenza. Questo è uno di quei
casi per cui Bastiat griderebbe che «La legge è stata distorta,
corrotta!»
L’esempio precedente ci fa pensare ai gruppi di pressio-
ne: piccoli gruppi organizzati e con interessi comuni pos-
sono influenzare le scelte politiche in proprio favore. Tale
atteggiamento viene descritto da Bastiat molti anni prima
che James Buchanan vincesse il Nobel per la teoria della scel-
ta pubblica, benché in un modo tanto semplice e divertente
quanto grossolano e approssimativo.

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Perciò, tornando al cavallo di battaglia del nostro autore,
gli elettori in balia del populismo vengono descritti come
individui che reclamano ogni possibile servizio e non vo-
gliono pagarne il prezzo tramite le imposte. Più semplice-
mente: si aspettano che lo Stato fornisca servizi e beni “gra-
tis”.
Il fatto che l’Assemblea non lo abbia capito o preso sul se-
rio, butta giù l’umore di Bastiat: forse non è un grande ora-
tore, non sopporta le continue interruzioni che lo distrag-
gono dal discorso, la sua voce non trasmette sicurezza e la
sua figura non è carismatica.
Decide di lavorare nelle retrovie, giacché i discorsi non
sembrano essere il suo forte - come invece sono i suoi scritti.
Frequenta spesso le commissioni, soprattutto quella delle
Finanze, che lo chiama ben otto volte come vicepresidente.
Il suo sogno è quello di capitanarla per attuare una vera e
propria riforma finanziaria.
Questo suo sogno svanisce per diversi motivi: anzitutto,
la Repubblica instaurata nel 1848 dura ben poco e non pren-
de le pieghe sperate, ma soprattutto Bastiat aveva contratto
la tubercolosi durante la sua grande campagna elettorale.
Consapevole di avere oramai poco tempo a disposizione,
il nostro lucido pensatore non si abbandona alla malattia, al
contrario: si affretta a scrivere.
Mette a frutto i suoi lunghi studi riguardanti l’economia
politica e la legge durati vent’anni, concentrando tutto il
suo sapere in alcuni volumi.
A dire il vero, anche se pensa di non aver fatto abbastan-
za e di non aver scritto abbastanza, i suoi successi sono stati

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incredibili. La campagna politica per il libero scambio, no-
nostante non abbia portato alcun risultato immediato, ha
abituato le persone all’idea del libero scambio, o almeno
ha messo in dubbio i benefici del protezionismo, e ha pre-
parato la strada per un sistema più favorevole alla libertà,
una sorta di libero scambio attenuato: il regime dei trattati
commerciali del 1860 fra Regno Unito e Francia.
Il grande principio espresso nel libro Ciò che si vede e ciò
che non si vede diventa il leitmotiv della sua attività di divul-
gazione: il suo grande impegno politico e culturale non è
andato sprecato, come potrebbe apparire guardando ciò che
si vede, bensì ha germogliato nel tempo consentendo l’accet-
tazione del libero mercato che ha portato alle riforme libe-
rali alcuni anni dopo: ciò che non si vede.
Purtroppo, il nostro autore non ha potuto davvero vede-
re i risultati di lungo termine del suo immenso lavoro di
divulgazione: afflitto dalla tubercolosi, i medici gli consi-
gliano di ritirarsi in Italia, dove il clima sarebbe stato più
clemente con la sua malattia.
Si può immaginare che questa cura non sia stata molto
efficace, anzi, ha avuto l’unico effetto di allontanare il po-
vero malato dalla sua terra per morire alla vigilia di Natale
dell’anno 1850 a Roma a soli 49 anni.
L’unica consolazione, perlomeno per noi, è che possiamo
passare a rendere omaggio a Frédéric Bastiat dove è oggi la
sua tomba: nella chiesa di San Luigi dei Francesi di Roma, a
pochi passi da piazza Navona.
Dunque, sappiamo che la storia del nostro autore non ter-
mina con la sua morte, ma continua almeno fino al 1860,

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quando il suo amico e collega Michel Chevalier firma il
trattato di libero scambio fra Gran Bretagna e Francia insie-
me a Richard Cobden.
Dico almeno fino al 1860 perché la sua influenza nei decen-
ni successivi ha raggiunto milioni di persone e i suoi libri
sono tutt’oggi apprezzati, venduti e letti. Inoltre, nutro la
speranza che la storia del nostro autore possa continuare
anche tramite questo libro, influenzando i lettori di lingua
italiana.
Non svolgerei bene il mio ruolo di presentatore se non
permettessi al lettore di andare oltre a un applauso per
Frédéric Bastiat - al contrario di quanto avvenuto nell’As-
semblea francese del 1849, vorrei che il lettore venisse per-
suaso dalle idee di libertà presentate dal nostro autore.
E non posso dire di essere migliore di lui nel narrarle,
perciò mi sono limitato a selezionare i testi contenuti in
questo libro, di modo che Bastiat racconti sé stesso e ottenga
il successo che merita.

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CHE COS’È
LO STATO?

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Lo Stato
Vorrei che si istituisse un premio, non di 500 franchi, ma
di un milione, con ghirlande e coccarde, in favore di colui
che troverà una definizione corretta, semplice e comprensi-
bile di questa parola: STATO.
Che servizio immenso sarebbe per la società!
Lo Stato! Che cos’è? Dov’è? Di cosa si occupa? Che cosa
dovrebbe fare?
Tutto quello che sappiamo, è che è un qualcosa di miste-
rioso, ed è sicuramente il personaggio più nominato, tor-
mentato, indaffarato, consigliato, accusato, invocato e il più
provocato che ci sia al mondo.
Caro lettore, io non ho l’onore di conoscerti, ma sono
pronto a scommettere dieci a uno che da alcuni mesi hai
per la mente progetti grandiosi; e se questo è vero, scom-
metto ancora dieci a uno che assegni allo Stato il compito
di realizzarli.
E tu, cara lettrice, sono sicuro che nel profondo del tuo
animo desideri che vengano sanati tutti i mali di questa po-
vera umanità, e che non saresti nient’affatto scontenta se lo
Stato si prestasse a questo compito.
Ma, ahimè! Gli sfortunati non sanno né chi ascoltare, né
a chi rivolgersi. Le innumerevoli voci della stampa e delle
tribune politiche gridano tutte assieme:
«Regolamentate il lavoro e i lavoratori.
Estirpate l’egoismo.

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Reprimete l’insolenza e la tirannia del capitale.
Tassate i fertilizzanti e le uova.
Riempite il paese di ferrovie e infrastrutture.
Irrigate le pianure.
Disboscate le montagne.
Fondate delle fattorie sostenibili.
Fondate dei laboratori in cui tutti possano lavorare in ar-
monia.
Colonizzate l’Africa.
Date il latte ai fanciulli.
Istruite i giovani.
Occupatevi degli anziani.
Inviate gli abitanti della città nelle campagne.
Uniformate i profitti di tutte le industrie.
Prestate denaro, senza interessi, a chi ne ha bisogno.
Liberate l’Italia, la Polonia e l’Ungheria.
Allevate e migliorate i cavalli da corsa.
Incentivate l’arte, dateci molti musicisti e ballerine.
Proibite il commercio internazionale e, allo stesso tempo,
create una flotta mercantile.
Scoprite per noi la verità e piantate nelle nostre teste un
pizzico di ragione.
Lo Stato ha per missione di chiarire, sviluppare, ingrandire,
fortificare, spiritualizzare e santificare l’anima dei popoli.»
«Eh! Signori, un po’ di pazienza» risponde lo Stato, con
un’aria pietosa.

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«Proverò a soddisfare le vostre richieste, ma per farlo ho
bisogno di risorse. Ho preparato dei progetti che riguarda-
no la creazione di cinque o sei nuove tasse, le più benefiche
del mondo. Vedrete che piacere sarà pagarle!»
A quel punto, si alza un grido: «Cosa?! Che merito ci sa-
rebbe nel fare alcunché ricevendo delle risorse! Per agire
così non vale proprio la pena di chiamarsi Stato. Lungi dal
colpirci con nuove tasse, sopprimete invece queste:
L’imposta sul sale;
L’imposta sulle bevande;
L’imposta sulla corrispondenza;
L’imposta sul consumo;
Le patenti;
Le prestazioni obbligatorie.»
Nel bel mezzo di questo tumulto, e dopo che il Paese ha
cambiato due o tre volte il suo Governo per non aver sod-
disfatto tutte queste richieste, ho voluto far osservare come
esse siano contraddittorie. Di cosa mi ero illuso, per l’amor
del cielo! Non potevo tenere per me questa mia considera-
zione infelice?
Eccomi allora screditato per sempre; ed è ormai ricono-
sciuto come io sia un uomo senza cuore, un filosofo arido,
un individualista, un borghese e, per dirlo in breve, un eco-
nomista di stampo inglese o americano.
Oh! Vi chiedo perdono, sublimi intellettuali, che non vi
fermate di fronte a nulla, nemmeno davanti alle contrad-
dizioni. Ho torto e perciò, senza alcun dubbio, mi ritiro. Io
non chiedo di meglio, siatene certi, se davvero avete sco-

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perto, al di fuori di noi, un benefattore dalle infinite risor-
se chiamato Stato, che ha pane per tutte le bocche, lavoro
per tutte le braccia, capitali per tutte le imprese, credito per
tutti i progetti, medicine per tutti i mali, balsamo per tutte
le sofferenze, consigli per tutte le perplessità, soluzioni per
tutti i dubbi, verità per tutti gli intelletti, distrazione per tut-
ti i problemi, latte per i bambini, vino per la vecchiaia, che
soddisfa tutti i nostri bisogni, previene tutti i nostri deside-
ri, soddisfa tutte le nostre curiosità, corregge tutti i nostri
errori, tutti i nostri difetti, e dona a tutti noi lungimiranza,
prudenza, giudizio, sagacia, esperienza, ordine, economia,
temperanza ed energia.
E perché non dovrei desiderarlo? Dio mi perdoni, più
ci rifletto, più trovo la cosa conveniente, e non vedo l’ora
di avere, anche io, a mia portata, questa fonte inesauribile
di ricchezza e saggezza, questo medico universale, questo
pozzo senza fondo, questo consigliere infallibile che voi
chiamate Stato.
Perciò chiedo che me lo si dimostri, che questo mi sia ben
descritto, e propongo l’istituzione di un premio per il pri-
mo che scoprirà questa fenice. In fin dei conti, mi si ricono-
scerà che questa scoperta preziosa non è stata ancora fatta,
poiché, fino ad ora, tutto ciò che si presenta con il nome
di Stato, il popolo lo rifiuta immediatamente, perché non
adempie alle promesse, alcune un po’ contraddittorie, del
programma.
Occorre proprio dirlo? Temo che siamo stati ingannati da
una delle più bizzarre illusioni che si siano mai impadro-
nite della mente umana.

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Gli esseri umani fuggono dalla fatica e dalla sofferenza.
Ma sono condannati alla sofferenza della privazione se non
accettano la fatica del lavoro. Come fare per evitare entram-
be? Finora l’essere umano non ha trovato e non troverà mai
nulla se non un unico modo: godere del lavoro altrui; ov-
vero fare in modo che la sofferenza e la soddisfazione non
incombano su ciascuno secondo la proporzione naturale,
ma che tutta la sofferenza sia per alcuni e tutto il godimen-
to sia per altri.
Da qui segue la schiavitù, lo sfruttamento, qualunque
forma esso assuma: guerre, frodi, violenze, restrizione, in-
ganni etc., abusi mostruosi, ma in linea con il pensiero che
li ha generati. È vero, gli oppressori devono essere disprez-
zati e combattuti, ma non si può solo dire che essi sono ir-
razionali.
La schiavitù è già stata abolita, grazie al Cielo, e, d’altra
parte, la disposizione per cui dobbiamo difendere la no-
stra proprietà, rende non facile il furto diretto e semplice.
Una cosa, tuttavia, è rimasta.
È quella sfortunata inclinazione primitiva che tutti gli
individui si portano dentro, di dividere la complessa sor-
te della vita in due parti: lasciare la sofferenza agli altri e
tenere il godimento per sé. Resta da vedere in quale nuova
forma si manifesti questa triste tendenza.
L’oppressore non agisce più direttamente con il proprio
potere sull’oppresso. No, la nostra coscienza è diventata
troppo accorta per abbassarsi a ciò. Il tiranno e la vittima
esistono ancora, ma tra loro c’è un intermediario che è lo
Stato, cioè la legge stessa. Cosa c’è di più appropriato per

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mettere a tacere i nostri scrupoli e, cosa forse più gradita,
per vincere ogni resistenza? Così, tutti noi, a qualche titolo,
con un pretesto qualsiasi, ci rivolgiamo allo Stato.
Gli diciamo: «Non credo che ora ci sia una proporzione
soddisfacente tra il mio tempo libero e il mio lavoro. Mi
piacerebbe tanto, per raggiungere l’equilibrio desiderato,
prendere qualcosa che appartiene ad altri. Ma è pericolo-
so farlo da soli. Non potresti facilitarmi le cose? Non potre-
sti darmi una buona posizione? O ostacolare l’industria dei
miei concorrenti? O prestarmi senza interessi il denaro che
hai sottratto ai legittimi proprietari? O allevare i miei figli a
spese degli altri? O darmi degli incentivi? O assicurarmi la
pensione quando avrò cinquant’anni?
In questo modo, arriverò alla mia meta in tutta tranquil-
lità, perché la legge stessa avrà agito per me, e avrò tutti i
vantaggi del furto senza averne né i rischi né l’odiosità!»
Poiché è certo che, da un lato, tutti noi rivolgiamo qual-
che richiesta simile allo Stato, ed è certo che, dall’altro lato,
è dimostrato che lo Stato non può soddisfare alcuni senza
danneggiare altri, in attesa di un’altra definizione dello Sta-
to, credo di essere autorizzato a dare qui la mia. Magari
vincerò il premio. Eccola:
Lo Stato
è la grande illusione
attraverso cui ciascuno
cerca di vivere a spese di tutti gli altri.

Perché oggi come ieri, tutti, chi di più e chi di meno, vor-
rebbero approfittare del lavoro degli altri. Nessuno osa mo-

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strare questo sentimento in pubblico, lo nasconde anche a
sé stesso; e poi cosa si fa?
Si immagina un intermediario, ci si rivolge allo Stato, e
ogni gruppo d’interessi a turno viene a dirgli: «Tu che puoi
prendere legalmente, onestamente, prendi dagli altri, e noi
ce lo spartiremo».
Ahimè, lo Stato è troppo incline a seguire questo consi-
glio diabolico, perché è composto da ministri, funzionari,
individui che, come tutti gli esseri umani, portano nel cuo-
re lo stesso desiderio, e colgono sempre l’occasione di ve-
dere aumentare la propria ricchezza e la propria influenza.
Lo Stato, quindi, impara ben presto il vantaggio che può
trarre dal ruolo che il popolo gli ha affidato. Sarà il padro-
ne di tutti i destini: prenderà molto, e quindi avrà molto a
disposizione; moltiplicherà il numero dei suoi funzionari,
allargherà il cerchio delle sue clientele; diventerà di un peso
schiacciante.
Ciò che bisogna notare è la sorprendente complicità dei
cittadini in questo piano. Quando in passato i soldati vin-
citori schiavizzavano gli sconfitti, si comportavano come
barbari, ma non compivano niente di illogico. Il loro scopo,
come il nostro, era quello di vivere a spese degli altri; e,
come noi, ci sono riusciti. Cosa dobbiamo pensare di un po-
polo che sembra ritenere che il saccheggio reciproco sia più
giusto perché reciproco; che sia meno criminale perché si
svolge legalmente e in modo ordinato; che sia di beneficio
al benessere pubblico senza rendersi conto di quanto tale
beneficio sia soffocato dai costi richiesti da questo dispen-
dioso intermediario che chiamiamo Stato?

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E abbiamo messo questa grande chimera, per l’edificazio-
ne del popolo, all’inizio della nostra Costituzione. Ecco le
prime parole del preambolo:
«La Francia1 si è costituita in Repubblica per... far salire
tutti i cittadini verso un grado sempre più elevato di mora-
lità, saggezza e benessere.»
Così, la Francia (o l’astrazione statale) ha il compito di in-
nalzare i francesi verso la moralità, il benessere e la sag-
gezza. Questa non è la bizzarra illusione che ci porta ad
aspettarci che tutto ci venga dato da un’energia che non è
la nostra?
Non significa forse che dovrebbe esistere, accanto e al
di fuori dei francesi, un essere virtuoso, illuminato e ricco
che può e deve riversare la sua beneficenza su di loro? Non
implica forse supporre che tra la Francia e i francesi, tra il
nome semplice e astratto di tutti gli individui e questi stessi
individui, ci sia un rapporto analogo a quello tra padre e
figlio, tutore e pupillo, insegnante e allievo?
So che a volte viene detto metaforicamente: “la patria è una
tenera madre”. Ma per cogliere la vacuità della proposta co-
stituzionale, è sufficiente mostrare come essa possa essere
rigirata, non solo senza inconvenienti, ma addirittura con
qualche tornaconto.
Dovremmo chiederci quanto sarebbe stato inesatto un
preambolo così:
«I francesi si sono costituiti in Repubblica per chiamare
la Francia a un grado sempre più alto di moralità, saggezza
1  L’autore è francese e si riferisce alla Francia, ma chiediamo al lettore di immaginarlo nel
contesto italiano - siamo certi che non sarà uno sforzo troppo grande. (NdT)

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e benessere.»
Ora, qual è il valore di un principio in cui il soggetto e
l’attributo possono essere scambiati senza inconvenienti?
Tutti capiscono se si dice: «La madre allatterà il bambino».
Ma sarebbe ridicolo dire: «il bambino allatterà la madre».
Gli americani avevano un’idea diversa della relazione tra
i cittadini e lo Stato quando hanno scritto all’inizio della
loro Costituzione queste semplici parole:
«Noi, il popolo degli Stati Uniti, allo scopo di realizzare
una più completa unione, stabilire la giustizia, garantire la
pace interna, provvedere alla difesa comune, promuovere
il benessere generale e assicurare i benefici della libertà a
noi stessi e ai nostri discendenti, decretiamo e stabiliamo
questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America.»
Qui non troviamo alcuna creazione chimerica, nessuna
astrazione a cui i cittadini chiedono tutto. Non si aspettano
altro che ciò che deriverà da sé stessi e dalla propria forza
di volontà.
Se mi sono permesso di criticare le prime parole della no-
stra Costituzione è perché non è, come si potrebbe pensare,
una questione di pura sottigliezza metafisica. Sostengo che
questa personificazione dello Stato si è rivelata in passato
e sarà in futuro una fonte inesauribile di pericoli e sconvol-
gimenti.
Ecco il Popolo da una parte, e lo Stato dall’altra, conside-
rati come due esseri distinti, il secondo obbligato a dare al
primo, il primo autorizzato a pretendere dal secondo un
torrente di soddisfazioni. Cosa potrebbe mai accadere?
A proposito, lo Stato non è monco e non può esserlo. Ha

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due mani, una per ricevere e l’altra per dare, in altre parole,
la mano dura e la mano morbida. L’attività della seconda è
necessariamente subordinata all’attività della prima.
A rigor di logica, lo Stato potrebbe prendere senza resti-
tuire. Questo si è visto e si spiega con la natura porosa e
assorbente delle sue mani, che trattengono parte, e talvolta
tutto ciò che toccano. Ma quello che non si è mai visto, quel-
lo che non si vedrà mai e che non si può nemmeno conce-
pire, è che lo Stato restituisca al Popolo più di quanto gli ha
tolto. È quindi abbastanza sciocco per noi adottare l’atteg-
giamento umile dei mendicanti nei suoi confronti.
È assolutamente impossibile per lo Stato concedere un
beneficio particolare ad alcuni degli individui che costitu-
iscono la comunità, senza infliggere un danno maggiore
alla comunità nel suo complesso.
Tramite le nostre richieste, lo Stato viene gettato in un
chiaro circolo vizioso.
Se esso si rifiuta di fare il bene che gli viene richiesto,
viene accusato di impotenza, cattiva volontà, incapacità. Se
cerca di farlo, è costretto a colpire il popolo con tasse rad-
doppiate, a fare più male che bene, e ad attirarsi, d’altra par-
te, l’antipatia generale.
Così, in base alle speranze del pubblico, il Governo fa
due promesse: molti benefici e nessuna imposta. Speranze
e promesse che, essendo contraddittorie, non si realizzano
mai.
Non è forse questa la causa di tutte le nostre rivoluzioni?
Questo succede perché tra lo Stato, che elargisce promesse
impossibili, e il popolo, che ha concepito speranze irrealiz-

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zabili, si interpongono due classi di individui: gli ambizio-
si e gli utopisti. Il loro ruolo è dettato dalla situazione. Ba-
sta che questi soggetti affamati di popolarità gridino nelle
orecchie del popolo: «Il potere ti inganna; se noi fossimo
al suo posto, ti riempiremmo di benefici e ti libereremmo
dalle tasse.»
E il popolo crede, e il popolo spera, e il popolo fa la rivo-
luzione.
I suoi amici non fanno in tempo a formare il Governo che
viene già chiesto loro di agire. «Ora datemi lavoro, pane,
assistenza, credito, istruzione, colonie», dice il popolo, «e
ancora, secondo le vostre promesse, liberatemi dalle grinfie
del fisco».
Il nuovo Stato non si trova meno in difficoltà del prece-
dente perché, quando si tratta di realizzare l’impossibile, è
facile promettere ma non lo è mantenere le promesse. Cerca
quindi di guadagnare tempo; ha bisogno di tempo per far
maturare i suoi enormi progetti. Anzitutto, fa alcuni timi-
di tentativi: da un lato, estende un po’ l’istruzione prima-
ria; dall’altro, modifica un po’ l’imposta sugli alcolici. Ma
la contraddizione sta sempre davanti a lui: se vuole essere
un filantropo, è costretto a rimanere fiscalmente oppressi-
vo; se rinuncia alla tassazione, deve anche rinunciare alla
filantropia.
Queste due premesse si escludono sempre e necessaria-
mente a vicenda. Fare ricorso al debito, cioè distruggere
il futuro, è in effetti l’unico mezzo efficace per conciliare
le promesse; si cerca di fare un po’ di bene nel presente a
spese di un futuro devastato. Ma procedere in questa ma-

26
niera evoca lo spettro della bancarotta, che scaccia i credi-
tori. Che cosa si deve fare, allora? A quel punto, il nuovo
Stato prende iniziativa coraggiosamente; raccoglie forze per
mantenersi al potere, soffoca le opinioni, ricorre a misure
arbitrarie, ritratta le sue vecchie promesse, dichiara che si
può amministrare solo a condizione di essere impopolare;
in breve, si proclama potere governativo.
Ed è qui che lo attendono altri soggetti affamati di po-
polarità. Sfruttano la stessa illusione, percorrono la stessa
strada, ottengono lo stesso successo e in poco tempo spro-
fondano nello stesso abisso.
È così che noi siamo arrivati alle scorse elezioni. A quel
tempo, l’illusione (che è l’oggetto di questo scritto) era pene-
trata più a fondo che mai nella mente del popolo, per mez-
zo delle dottrine socialiste. Più che mai ci si aspettava che
lo Stato, nella forma repubblicana, spalancasse le porte dei
benefici e chiudesse quelle della tassazione. «Sono stato in-
gannato troppe volte», disse il popolo, «ma io stesso farò in
modo che non mi si prenda più in giro».
Cosa poteva fare il governo provvisorio? Ahimè, quello
che si fa sempre in queste circostanze: promettere e gua-
dagnare tempo. Non ha mancato di fare promesse, e per
dare più solennità alle sue parole, le ha fissate scrivendo
alcuni decreti. «Innalzamento del benessere, diminuzione
delle ore di lavoro, assistenza, denaro per tutti, istruzione
gratuita, colonie agricole, aratura delle terre, e contempo-
raneamente riduzione delle imposte sul sale, sugli alcolici,
sulle lettere, sulla carne, tutto sarà concesso... alla prima As-
semblea Nazionale».

27
L’Assemblea Nazionale si è riunita, e siccome non si pos-
sono realizzare due contraddizioni, il suo compito, il suo
triste compito, è consistito nel ritirare, il più delicatamente
possibile, uno dopo l’altro, tutti i decreti del governo prov-
visorio.
Tuttavia, per non rendere la delusione troppo crudele, è
stato necessario scendere a qualche compromesso. Alcuni
impegni sono stati mantenuti, altri hanno ricevuto qualche
parziale approvazione. Così l’attuale amministrazione sta
pensando a nuove tasse.
Già immagino cosa accadrà di qui a qualche mese e mi
chiedo, con profonda tristezza, cosa accadrà quando i nuovi
esattori andranno nelle nostre regioni a riscuotere le nuove
imposte sull’eredità, sul reddito, sui profitti del duro lavoro.
Che il Cielo mi dica se sbaglio, ma io vedo anche in questo
caso un’opportunità per tutti quei soggetti affamati di po-
polarità.
Prova a leggere l’ultimo manifesto dei Montagnardi2,
quello che hanno pubblicato in occasione delle elezioni pre-
sidenziali3. È un po’ lungo, ma si può riassumere in due pa-
role: lo Stato deve dare molto ai cittadini e prendere poco da
loro. È sempre la stessa tattica o, semmai, lo stesso errore.
«Lo Stato deve fornire gratuitamente istruzione ed edu-
cazione a tutti i cittadini.»

2  I Montagnardi furono, durante la Rivoluzione Francese, il gruppo più radicale e repubbli-


cano dei deputati dell’Assemblea Nazionale. Dai loro ranghi uscirono personaggi come Robe-
spierre e Saint Just. (NdT)
3  L’autore fa riferimento alle elezioni presidenziali del 1848, dopo l’instaurazione della Secon-
da Repubblica Francese, quando un gruppo di deputati radicali riprese il termine “Montagnar-
di” per rifarsi all’eredità di Robespierre e dei suoi compagni (NdT)

28
Esso deve:
«Fornire un’educazione generale e professionale adegua-
ta, per quanto possibile, ai bisogni, alle vocazioni e alle ca-
pacità di ogni cittadino.»
Esso deve:
«Insegnare al cittadino i suoi doveri verso Dio, verso gli
altri cittadini e verso sé stesso; permettergli di sviluppare i
suoi sentimenti, le sue attitudini e le sue capacità; dargli le
conoscenze necessarie per esercitare il suo lavoro, garantire
i suoi interessi e far valere i suoi diritti.»
Esso deve:
«Mettere alla portata di tutti la letteratura e le arti, il pa-
trimonio culturale, i tesori dello spirito, tutti i piaceri intel-
lettuali che elevano e fortificano l’anima.»
Esso deve:
«Riparare qualsiasi disastro, incendio, inondazione, ecce-
tera (questo eccetera dice più di quanto non sembri) vissuti
da un cittadino.»
Esso deve:
«Intervenire nella relazione tra il lavoro e il capitale, e
fare egli stesso da regolatore del credito.»
Esso deve:
«Dare all’agricoltura un affidabile sostegno e una prote-
zione efficace.»
Esso deve:
«Nazionalizzare le ferrovie, i canali, le miniere», e senza
dubbio anche amministrarle con quella capacità gestionale
che lo caratterizza.

29
Esso deve:
«Stimolare generosamente l’iniziativa d’impresa, incorag-
giarla e aiutarla con tutte le risorse necessarie a farla trion-
fare. In quanto regolatore del credito, sussidierà le associa-
zioni industriali e agricole, per assicurare il loro successo.»
Lo Stato deve occuparsi di tutto ciò, senza dimenticarsi
dei servizi che fornisce già adesso; e, per esempio, dovrà
avere sempre un atteggiamento minaccioso verso i governi
stranieri; poiché, dicono i firmatari del programma, «uniti
da questa santa solidarietà e dai precedenti della Francia
repubblicana, portiamo i nostri desideri e le nostre speran-
ze al di là delle barriere che il dispotismo innalza tra le
nazioni: i diritti che vogliamo per noi stessi, li vogliamo per
tutti gli oppressi dal giogo delle tirannie; vogliamo che il
nostro glorioso esercito sia di nuovo, se necessario, l’eserci-
to della libertà.»
Noterai che la mano gentile dello Stato, quella buona
mano che dà e distribuisce, sarà molto occupata sotto il go-
verno dei Montagnardi. Credi che la mano ruvida, quella
mano che penetra e svuota le nostre tasche, non sarà altret-
tanto occupata?
Abbandona le tue illusioni. I soggetti affamati di popo-
larità non conoscerebbero il loro mestiere, se non avessero
imparato l’arte di nascondere la mano ruvida, mostrando
solo la mano gentile.
Il loro dominio sarebbe altrimenti la felicità dei contri-
buenti.
«È il superfluo», dicono, «non il necessario, che dev’essere
colpito dalle imposte».

30
Non sarebbe forse positivo se, per coprirci di benefici, il
fisco si accontentasse di prendere solo il nostro superfluo?
Non è tutto. I Montagnardi sperano che «la tassazione
perda il suo carattere oppressivo e non sia altro che un atto
di fratellanza.»
Santo cielo! Sapevo che è di moda mettere la fraternità
dappertutto, ma non sospettavo che si potesse mettere an-
che nella cartella dell’agenzia delle entrate.
Scendendo nel dettaglio, i firmatari del programma dico-
no:
«Vogliamo l’abolizione immediata delle tasse che colpi-
scono i beni di prima necessità, come il sale, le bevande,
eccetera.»
«La riforma dell’imposta fondiaria, quella sul consumo,
quella sui brevetti.»
«L’amministrazione gratuita della giustizia, ossia la sem-
plificazione della burocrazia e la riduzione delle spese.»
(Questo si riferisce senza dubbio alle marche da bollo)
Così, l’imposta fondiaria, le sovvenzioni, i brevetti, le
marche da bollo, il sale, le bevande, i valori postali, tutto
viene messo nel calderone. Questi signori hanno trovato
il segreto per dare un’attività frenetica alla mano morbida
dello Stato mentre vogliono paralizzare la sua mano dura.
Ebbene, chiedo al lettore imparziale, non è questo un
esempio di infantilismo, e per di più pericoloso? Il popolo
farà rivoluzioni su rivoluzioni, finché non avrà realizzato
questa contraddizione: «Non voglio dare niente allo Stato
e voglio ricevere molto in cambio!»

31
Credi veramente che se i Montagnardi (o qualcuno come
loro) arrivassero al potere, non sarebbero essi stessi le vitti-
me dei raggiri che utilizzano per impadronirsene?
Cari cittadini, in tutte le epoche, si sono presentati due
sistemi politici, ed entrambi possono essere sostenuti da
buone ragioni. Secondo il primo, lo Stato deve fare molto,
ma ha anche il diritto e il dovere di prendere molto. Per il
secondo sistema, lo Stato deve prendere poco, il minimo
indispensabile, per dare poco. E non possiamo far altro che
scegliere tra questi due sistemi.
Per quanto riguarda il terzo sistema, che si trova a metà
fra i primi due, e che consiste nel pretendere tutto dallo
Stato senza dargli nulla, è chimerico, assurdo, infantile,
contraddittorio e pericoloso. Coloro che lo propongono, per
ricavarne il piacere di accusare tutti i governi di impotenza
ed esporli così al vostro odio, vi illudono e vi ingannano, o
almeno ingannano sé stessi.
Quanto a me, penso che lo Stato non sia o non debba es-
sere altro che la forza messa in comune, non per essere uno
strumento di oppressione e di rapina reciproca tra tutti i cit-
tadini ma, al contrario, un mezzo per garantire a ciascuno il
frutto del proprio lavoro, e per far regnare pace e giustizia.

32
A COSA SERVE
LA LEGGE?

33
La Legge
La Legge è stata distorta! La Legge (e con lei tutte le forze
collettive della nazione), la Legge dico io, non solo è stata
deviata dal suo scopo, ma è stata applicata al perseguimen-
to di un obiettivo direttamente contrario ad essa! La Legge
è diventata lo strumento di ogni desiderio, invece di esser-
ne il freno! La Legge stessa che compie quelle iniquità che
ha invece il dovere di punire! Si tratta certamente di una
questione seria e sulla quale deve essermi permesso di ri-
chiamare l’attenzione dei miei concittadini.
Noi riceviamo dal Cielo il dono che contiene ogni altro
dono, la Vita: la vita fisica, intellettuale e morale.
Ma la Vita non è in grado di sostenersi da sola. Colui che
ce l’ha donata, ci ha lasciato il compito di mantenerla, svi-
lupparla e perfezionarla.
Per questo motivo, ci ha fornito una serie di capacità me-
ravigliose; ci ha immersi in un ambiente con elementi di-
versi. È attraverso l’applicazione delle nostre capacità a que-
sti elementi che si realizza il fenomeno dell’Assimilazione,
dell’Appropriazione, attraverso cui la vita percorre il ciclo
che le è stato assegnato.
Esistenza, Capacità, Assimilazione - o in altri termini
Personalità, Libertà, Proprietà, - ecco cos’è l’essere umano.
Di queste tre cose si può dire, al di là di ogni sottigliezza
demagogica, che sono precedenti e superiori a ogni legisla-
zione umana.
Non è perché gli uomini hanno emanato delle leggi che

34
esistono la Personalità, la Libertà e la Proprietà. Al contra-
rio, gli uomini fanno le Leggi proprio perché la Personalità,
la Libertà e la Proprietà preesistono.

Che cos’è la Legge?


Cosa è dunque la Legge? La Legge è l’organizzazione
collettiva del Diritto individuale alla legittima difesa.
Ognuno ha ricevuto dalla natura, o dal Cielo, il diritto di
difendere la sua Persona, la sua Libertà e la sua Proprietà,
dato che questi sono i tre elementi fondamentali della Vita,
che si completano l’uno con l’altro e che non possono essere
compresi l’uno senza l’altro. Alla fine, cosa sono le nostre
capacità se non un’estensione della nostra Persona, e cos’è
la Proprietà se non una conseguenza delle nostre capacità?
Dato che ogni individuo ha il diritto di difendere, anche
con la forza, la sua Persona, la sua Libertà e la sua Proprietà,
allora più individui hanno tutto il Diritto di consultarsi, ac-
cordarsi e organizzare una Forza comune per provvedere
regolarmente a questa difesa.
Il diritto collettivo fonda il suo principio, la sua ragion
d’essere, la sua legittimità nel diritto individuale, e la forza
comune non può avere altro obiettivo se non quello di sosti-
tuire le singole forze isolate nella difesa della Persona, della
Libertà e della Proprietà di ciascuno.
Quindi, così come un individuo non può legittimamente
usare la forza contro la Persona, la Libertà e la Proprietà
di un altro individuo, per la stessa ragione la Forza comu-
ne non può legittimamente essere usata per danneggiare la

35
Persona, la Libertà e la Proprietà degli altri individui o delle
classi sociali.
Perché questo utilizzo distorto della Forza sarebbe, in en-
trambi i casi, in contraddizione con le nostre premesse. Chi
direbbe mai che la Forza ci è stata data non per difendere i
nostri Diritti, ma per distruggere gli stessi Diritti dei nostri
fratelli? E se questo non è accettabile per un individuo che
fa uso della sua Forza, come può esserlo per la Forza col-
lettiva, che non è altro che l’unione organizzata delle Forze
individuali?
Quindi, è evidente che la Legge è l’organizzazione del
Diritto naturale alla legittima difesa; è la sostituzione delle
forze individuali con la Forza collettiva, con il dovere di
agire nel limite in cui gli stessi individui hanno il diritto
di agire, per fare ciò che questi hanno il diritto di fare, per
garantire le Persone, le Libertà, le Proprietà, per difendere
i Diritti di ogni individuo e per far regnare la Giustizia fra
tutti.
E se un popolo fosse organizzato in questo modo, credo
che l’ordine prevarrebbe sia nei fatti sia nelle idee. Penso
che un popolo che avesse il governo più semplice, più eco-
nomico, meno invadente, meno pesante, più responsabile,
più giusto sarebbe di conseguenza il più solido che si possa
immaginare, qualunque sia la sua forma politica.
Questo perché, sotto un tale sistema, ogni individuo si fa-
rebbe carico della pienezza e di tutta la responsabilità della
sua esistenza. Se ogni individuo è rispettato, se il lavoro è
libero e se i frutti del suo lavoro sono protetti da tutte le vio-
lazioni ingiuste, nessuno deve avere a che fare con lo Stato.

36
Finché saremo felici, non dovremo ringraziare lo Stato per i
nostri successi; ma se saremo infelici, non lo dovremo incol-
pare delle nostre sconfitte più di quanto i nostri contadini
non lo incolpino della grandine o del gelo. Lo conoscerem-
mo solo grazie all’inestimabile beneficio della sicurezza che
ci fornirebbe.
Possiamo dire che se lo Stato non intervenisse nelle que-
stioni private, i bisogni e le soddisfazioni si svilupperebbe-
ro seguendo un ordine naturale. Non si vedrebbero fami-
glie povere cercare l’istruzione letteraria prima di avere il
pane sulla propria tavola. Non si vedrebbe la città popolarsi
a spese della campagna, o la campagna popolarsi a sfavore
della città. Non si vedrebbero grandi spostamenti di capi-
tale, di lavoro, di popolazione, provocati dalle misure le-
gislative; spostamenti che rendono incerte e deboli le fonti
dell’esistenza e che rendono più pesanti le responsabilità
dello Stato.
Purtroppo, la Legge non è stata in grado di adempiere
al suo scopo. Addirittura, è successo che sia stata usata in
modi discutibili. Ha cominciato a fare di peggio: ha agito
contro il suo stesso fine, ha distrutto il suo stesso scopo,
ha cercato di distruggere quella giustizia che doveva so-
stenere, di cancellare, fra i diritti, quel confine che la sua
missione doveva far rispettare; ha messo la forza collettiva
al servizio di coloro che volevano sfruttare, senza rischio
né scrupolo, la persona, la libertà o la proprietà degli altri;
ha trasformato l’estorsione in un diritto, per proteggerla, e
l’autodifesa in un crimine, per punirla.
Come si è realizzata questa distorsione della Legge? Qua-

37
li sono state le conseguenze?
La legge è stata distorta sotto l’influenza di due cause
molto diverse: l’egoismo cieco e la falsa filantropia.
Parliamo della prima causa.
La protezione e il miglioramento sono aspirazioni comuni
a tutti gli individui, così che se ciascuno godesse del libero
utilizzo delle proprie capacità e dei propri prodotti, il pro-
gresso sociale sarebbe incessante, ininterrotto e infallibile.
Ma c’è un’altra indole comune a tutti. Quella di vivere e
crescere, quando è possibile, alle spese gli uni degli altri.
Questa non è un’affermazione azzardata, che proviene da
una mente rattristata e pessimista. La storia lo testimonia
con le continue guerre, le migrazioni di popoli, le oppres-
sioni religiose, l’estensione della schiavitù, le frodi indu-
striali e i monopoli di cui si sono riempiti gli annali.
Questa indole disastrosa ha origine nella natura stessa
dell’uomo, da quel sentimento primitivo, universale, invin-
cibile che lo spinge verso il benessere e lo fa allontanare dal
dolore.

Proprietà ed Esproprio
Ogni essere umano può vivere e gioire solo attraverso
l’Assimilazione, l’Appropriazione continua, ovvero attra-
verso un’applicazione perpetua delle proprie capacità sulle
cose; vale a dire, attraverso il lavoro e le proprie capacità.
Da qui deriva la Proprietà.
Tuttavia, egli può vivere e gioire anche assimilando, ap-
propriandosi dei prodotti delle capacità dei suoi simili. Da

38
qui deriva l’estorsione.
Ora, dato che il lavoro di per sé è una fatica, e l’uomo è
portato per natura a fuggire dalla fatica, la conseguenza è,
e la storia può provarlo, che ovunque l’estorsione sia meno
faticosa del lavoro, questa prevale; e prevale senza che né
la religione né la morale possano, in alcun caso, impedirlo.
Quando si ferma dunque l’estorsione? Quando diviene
più faticosa e più pericolosa del lavoro.
È evidente che la Legge dovrebbe avere come scopo quel-
lo di opporre il potente ostacolo rappresentato dalla Forza
collettiva a questa tendenza disastrosa; e dovrebbe prende-
re le parti della Proprietà contro l’estorsione.
Ma la Legge è fatta da un uomo o da una classe di uo-
mini. E poiché la legge non può esistere senza sanzioni e
senza il supporto di una forza preponderante, non può che
mettere tale Forza nelle mani di coloro che legiferano.
Questo fenomeno inevitabile, unito con l’inclinazione di-
sastrosa che noi abbiamo osservato essere nel cuore di ogni
individuo, spiega la distorsione quasi universale della Leg-
ge. Vediamo come essa, invece che essere un freno all’in-
giustizia, diviene il più invincibile strumento al servizio
dell’ingiustizia stessa. Si capisce come, secondo la disponi-
bilità che ne ha il legislatore, essa finisca per distruggere, a
suo vantaggio e in diversi modi, la Persona degli individui
con la schiavitù, la Libertà con l’oppressione e la Proprietà
con l’estorsione.
È nella natura dell’uomo di reagire contro l’ingiustizia di
cui è vittima. Quando l’estorsione è organizzata dalla legge,
a vantaggio delle classi che legiferano, tutte le classi dan-

39
neggiate cercano, per vie pacifiche o per vie rivoluzionarie,
di entrare a far parte del processo legislativo. Queste classi,
secondo il grado di Ragione a cui sono arrivate, possono
proporsi due obiettivi molto differenti quando provano a
conquistare i loro diritti politici: o vogliono porre fine al
saccheggio legalizzato, o vogliono sfruttarlo a loro volta.
Sventura, tre volte sventura alle nazioni in cui quest’ul-
tima idea domina il popolo, nel momento in cui questo si
impadronisce del potere legislativo!
Fino a quest’epoca l’estorsione legale era esercitata dai po-
chi sui molti, come si può vedere in tutti quei popoli dove
il diritto di legiferare è concentrato in poche mani. Ma ora
è diventato universale, e si cerca l’equilibrio nell’estorsione
universale. Invece che estirpare la fonte dell’ingiustizia, la
si estende. Non appena le classi depredate hanno recupera-
to i loro diritti politici, il primo pensiero non è stato quel-
lo di liberarsi dall’esproprio (questo presupporrebbe delle
idee che non possono avere), ma di organizzare, a danno
delle altre classi, un sistema di rappresaglie, - come se fos-
se necessaria una crudele punizione che deve colpire tutti,
alcuni a causa della loro empietà e altri a causa della loro
ignoranza, prima dell’arrivo della giustizia divina.
Nessuna disgrazia più grande potrebbe colpire la società
di questo: la Legge convertita in strumento di saccheggio.
Quali sono le conseguenze di questo suo stravolgimento?
Ci vorrebbero interi libri per poterle descrivere tutte. Conto
dunque di presentare le più importanti.
La prima, è la cancellazione della nozione di giusto e in-
giusto nelle coscienze.

40
Nessuna società può esistere se il rispetto della legge non
regna in qualche misura; ma il modo più sicuro, per far
rispettare la legge, è far sì che essa sia rispettabile. Quan-
do la legge e la morale sono in contraddizione, il cittadino
si trova nel crudele bivio fra perdere la nozione di Morale
o abbandonare il rispetto per la Legge, due disgrazie così
grandi tra le quali risulta difficile scegliere.
Far sì che la giustizia regni è un fatto così radicato nella
natura della legge che legge e giustizia sono un tutt’uno
nello spirito delle masse. Noi tutti abbiamo una forte ten-
denza a considerare ciò che è legale come legittimo, a tal
punto che ci sono alcuni che fanno derivare erroneamen-
te tutta la giustizia dalla Legge. Basta quindi che la Legge
regoli e consacri l’estorsione per far sì che questa sembri
giusta e sacra a molte persone. La schiavitù, le restrizioni,
il monopolio vengono difesi non solo da coloro che se ne
approfittano, ma anche da coloro che ne soffrono. Prova a
proporre qualche dubbio sulla moralità di queste istituzio-
ni. Diranno: «Tu sei un pericoloso innovatore, un utopista,
un teorico che disprezza la Legge; stai minando le basi su
cui poggia l’intera società». Frequenti un corso di morale,
o di economia politica? Troverai istituzioni ufficiali che co-
municano al governo questo desiderio:
«Che la scienza sia d’ora in poi insegnata, non più dal
solo punto di vista del libero scambio (della libertà, della
proprietà e della giustizia), come è avvenuto finora, ma an-
che e soprattutto dal punto di vista dei fatti e della legi-
slazione (contraria alla libertà, alla proprietà, alla giustizia)
che sorreggono l’industria del nostro Paese».

41
«Che, nelle cattedre pubbliche stipendiate dal ministero
del Tesoro, il professore si astenga rigorosamente dalla mi-
nima infrazione delle leggi in vigore»4, eccetera.
Così che se c’è una legge che autorizza la schiavitù o il
monopolio, l’oppressione o l’estorsione sotto una qualun-
que forma, non se ne dovrà nemmeno parlare; perché come
si può mettere in discussione la Legge senza sfidare la sua
autorità? Inoltre, sarà necessario insegnare la morale e l’e-
conomia politica dal punto di vista di questa legge, ovvero
supponendo che essa sia giusta solo in virtù del fatto che è
legge.
Un altro effetto di questa orribile distorsione della Legge,
è di dare alle passioni e alle lotte politiche e, in generale,
alla politica propriamente detta, un peso esagerato.
Io potrei provare quanto detto in mille maniere. Mi li-
miterò, per fare un esempio, a paragonarlo a un tema che
ha riempito recentemente tutti i nostri spiriti: il suffragio
universale.
Indipendentemente da cosa pensano i seguaci della
Scuola di Rousseau, che si dicono molto avanzati anche se
personalmente ritengo che siano arretrati di venti secoli, il
suffragio universale (prendendo questo termine nella sua
accezione rigorosa) è uno di quei dogmi sacri, verso cui è
proibito esprimere critiche e contraddicendolo si viene con-
siderati dei criminali.
Vi si possono muovere delle forti obiezioni.
In primo luogo, la parola universale cela un grande sofi-
4  Consiglio generale dell’Artigianato, dell’Agricoltura e del Commercio. (Seduta del 6 maggio
1850)

42
sma. In Francia, ci sono 36 milioni di abitanti. Per far sì che
il diritto di voto sia universale, si dovrebbero riconoscere 36
milioni di elettori. Invece, anche adottando il sistema più
esteso, se ne riconoscerebbero 9 milioni. Tre persone su
quattro sono dunque escluse e, per di più, lo sono ad ope-
ra della quarta persona. Su quale principio si fonda questa
esclusione? Sul principio di incapacità. Suffragio universale
significa per loro suffragio universale dei capaci. Restano
delle domande da porsi: chi sono i capaci? L’età, il sesso, le
condanne giudiziarie sono segni da cui si può individuare
l’incapacità?
Se guardiamo da vicino, si capisce subito il motivo per
cui il diritto di voto si basa sulla presunzione di poter dire
chi è capace e chi no; il sistema più esteso differisce in que-
sto senso dal più ristretto solo nella valutazione dei segni
da cui questa capacità può essere riconosciuta, che non è
una differenza di principio ma di grado.
Il motivo è che l’elettore non decide solo per sé stesso, ma
per tutti.
Se, come dicono i repubblicani che si rifanno a greci e ro-
mani, il diritto di voto ci è stato concesso con la Vita, sarebbe
ingiusto impedire alle donne e ai bambini di votare. Perché
viene impedito loro di votare? Perché qualcuno li ritiene
incapaci. E perché l’incapacità è un motivo d’esclusione?
Perché l’elettore non ha solo la responsabilità del proprio
voto; perché ogni voto interessa e influenza la comunità in-
tera; perché la comunità ha tutto il diritto di esigere alcune
garanzie per le azioni da cui dipendono la sua esistenza e
il suo benessere.

43
So come si potrebbe replicare a tutto ciò; e so come si po-
trebbe controbattere successivamente. Non è questo il luogo
in cui sfinirsi in tale disputa. Quello che voglio mostrare è
che questa controversia stessa che agita, appassiona e scuo-
te i popoli (come la maggior parte delle questioni politiche),
perderebbe quasi ogni importanza se la Legge fosse sem-
pre stata ciò che dovrebbe essere.
In effetti, se La legge si limitasse a far rispettare tutti i Di-
ritti individuali, tutte le Libertà, tutte le Proprietà, se fosse
soltanto l’organizzazione del diritto individuale alla legitti-
ma difesa, l’ostacolo, il freno, la pena con cui vengono pu-
nite le oppressioni e tutte le estorsioni, crediamo che si di-
scuterebbe ancora tra cittadini su un suffragio più o meno
universale? Crediamo che si metterebbe in discussione il
più grande dei beni, la pace pubblica? Crediamo che le clas-
si escluse non aspetterebbero pacificamente il loro turno?
Crediamo che le classi ammesse sarebbero così gelose del
loro privilegio? E non è ovvio che, dal momento che gli in-
dividui hanno gli stessi interessi, gli uni agirebbero senza
grandi inconvenienti al posto degli altri?
Ma se si introduce questa pericolosa idea secondo cui,
dietro il pretesto dell’organizzazione, della regolamentazio-
ne, della protezione, la legge prende ad alcuni per dare ad
altri e usa la ricchezza presa da varie classi per aumentare
quella di una singola classe, talvolta quella degli agricolto-
ri, talvolta quella degli artigiani, dei commercianti, degli
armatori, degli artisti o degli attori. Oh! certamente, in que-
sto caso, ogni classe pretende, a ragione, di mettere le mani
sulla Legge; rivendica con rabbia il suo diritto di voto e di
eleggibilità; si rivolta contro la società allo scopo di ottenere

44
ciò che vuole.
Gli stessi mendicanti e vagabondi vi dimostreranno che
hanno dei diritti incontestabili. Vi diranno: «Ogni volta che
compriamo vino, tabacco o sale, paghiamo sempre un’im-
posta e una parte di questa tassa è data per legge come
bonus, come sovvenzione, a uomini più ricchi di noi. Altri
usano la legge per alzare artificialmente il prezzo del pane,
della carne, del ferro o della stoffa. Poiché ciascuno sfrutta la
legge a suo favore, anche noi vogliamo farlo. Noi vogliamo
stabilire il diritto all’assistenza, che è l’estorsione a favore
di noi poveri. Per questo, è necessario che noi siamo elettori
e legislatori, per poter organizzare la carità tramite lo Stato
a favore della nostra classe come voi avete organizzato am-
pie protezioni a favore della vostra. Non venite a dirci che
ci darete la nostra parte, che ci lancerete, secondo la propo-
sta del signor Mimerel, una somma di 600.000 franchi come
osso da rosicchiare per farci stare buoni. Noi abbiamo ben
altre pretese e, in ogni caso, vogliamo decidere per noi stes-
si come le altre classi hanno fatto per loro stesse!».
Come possiamo rispondere a questa obiezione?

La Distorsione della Legge


Genera Conflitti
Fino a quando accetteremo come principio che la Legge
possa essere allontanata dalla sua vera missione, che possa
violare la Proprietà invece che garantirla, ogni classe vorrà
fare leggi, sia per difendersi dall’estorsione, sia per organiz-
zarla a proprio vantaggio. La questione politica sarà sem-

45
pre predominante, assoluta e totale; in una parola, ci si bat-
terà alle porte del Parlamento. La lotta non sarà meno feroce
all’interno. Per convincersene, non è necessario guardare
cosa succede nelle Camere in Francia e in Inghilterra, basta
sapere come si pone la questione.
C’è veramente bisogno di dimostrare che questa distor-
sione della Legge è una continua causa di odio e che può
portare alla completa distruzione della società? Guarda gli
Stati Uniti. È l’unica nazione in cui la Legge rimane anco-
rata al suo ruolo: garantire a ciascuno la Libertà e la Pro-
prietà. È anche il Paese dove l’ordine sociale si fonda sulle
basi più solide. Tuttavia negli stessi Stati Uniti, ci sono due
problemi che, dalla loro nascita, hanno messo più volte in
pericolo l’ordine sociale. E quali sono questi due problemi?
Quello della schiavitù e quello delle tasse, ovvero le uniche
due questioni dove, contrariamente allo spirito generale, la
Legge è diventata uno strumento di saccheggio. La schia-
vitù è una violazione, anche se approvata dalla Legge, dei
diritti dell’individuo. La tassazione è una violazione, anche
se sancita dalla Legge, del diritto di Proprietà; è davvero
notevole come, in mezzo a tanti altri dibattiti, questa dop-
pia piaga giuridica, triste eredità del vecchio mondo, sia l’u-
nica cosa che può e forse riuscirà a portare al crollo di tale
nazione. E in effetti non si può immaginare, all’interno di
una società, un fatto più significativo di questo: la Legge è
diventata uno strumento di ingiustizia. E se questo fatto
ha conseguenze così terribili negli Stati Uniti, dove è solo
un’eccezione, cosa deve essere nella nostra Europa, dove fa
parte del sistema?
Il signor de Montalembert, appropriandosi del pensiero

46
di un famoso discorso del signor Carlier, ha detto: è neces-
sario fare guerra al socialismo. — E per socialismo, si deve
credere, secondo la definizione del signor Charles Dupin,
che intendesse l’estorsione.
Ma di quale estorsione stava parlando? Ve ne sono 2 tipi
in effetti. Ci sono l’estorsione extra-legale e l’estorsione legale.
Quanto all’estorsione extra-legale, quella comunemente
chiamata furto, truffa, quella che è definita, prevista e puni-
ta dal Codice Penale, in verità, non credo che si possa defi-
nire socialismo. Non è essa che minaccia sistematicamente
la società e le sue fondamenta. La guerra contro questo tipo
di estorsione non ha atteso il segnale di de Montalembert
o di Carlier. Essa è punita dall’inizio del mondo; la Fran-
cia vi aveva provveduto, molto prima della Rivoluzione di
febbraio5, molto prima dell’apparizione del socialismo, con
tutto un apparato di magistratura, polizia, gendarmeria,
prigioni, carceri e patiboli. È la Legge stessa che sta facendo
questa guerra, e quello che vorrei è che la Legge mantenesse
sempre questo atteggiamento nei confronti dell’estorsione.
Ma non è così. Alcune volte, la Legge si allea con l’estor-
sione. A volte lo fa con le proprie mani, per risparmiare al
beneficiario la vergogna, il pericolo e gli scrupoli. A volte
mette tutto l’apparato giudiziario, la polizia, la gendarmeria
e la prigione al servizio di chi vuole appropriarsi dei beni
di qualcun altro, e tratta come un criminale il depredato
che si difende. In altre parole, c’è un’estorsione legale, ed è di
questo che de Montalembert parla.

5  Ci si riferisce alla rivoluzione del 1848, quando il re Luigi Filippo d’Orléans fu costretto ad
abbandonare il trono e la Francia divenne per la seconda volta una Repubblica (NdT)

47
Questa estorsione può essere, nella legislazione di un
popolo, solo una macchia eccezionale e, in questo caso, la
cosa migliore da fare, senza tante lamentele, è di cancel-
larla il prima possibile, nonostante i clamori degli interes-
sati. Come riconoscerlo? È abbastanza semplice. Dobbiamo
esaminare se la legge toglie ad alcuni ciò che appartiene a
loro e dà ad altri ciò che non appartiene a loro. Dobbiamo
esaminare se la legge compie, a beneficio di un cittadino e a
danno di altri, un atto che questo cittadino non potrebbe
compiere da solo senza commettere un crimine.
Affrettatevi ad abrogare questa legge; non è solo un’in-
giustizia ma è una sorgente prolifica di ingiustizie; perché
richiede rappresaglie, e se non ve ne occupate, l’eccezione
si estenderà, si moltiplicherà e diventerà sistematica. Senza
dubbio, il beneficiario griderà e invocherà i diritti acquisiti.
Dirà che lo Stato deve protezione e incentivi alla sua in-
dustria; sosterrà che sia positivo che lo Stato lo arricchisca,
perché essendo più ricco, spende di più, e così aumenta i
salari dei poveri operai. Stai attento alle opinioni di cial-
troni di questo genere, perché come conseguenza della si-
stematizzazione di certi argomenti anche l’estorsione legale
diverrà sistematica.
Questo è ciò che è successo. La chimera odierna è far ar-
ricchire tutte le classi a spese le une delle altre; si tratta di
estendere l’estorsione con il pretesto di organizzarla. Ora,
l’estorsione legale può essere esercitata in molti modi; da qui,
una moltitudine di piani organizzativi: tariffe, dazi, inden-
nità, sovvenzioni, incentivi, tassazione progressiva, istru-
zione gratuita, diritto al lavoro, diritto al profitto, diritto al
salario, diritto all’assistenza, diritto agli strumenti di lavo-

48
ro, cessione gratuita del credito, eccetera.
Ed è l’insieme di tutti questi progetti, considerati per ciò
che hanno in comune, l’estorsione legale, che prende il nome
di socialismo.
Ebbene, se così definiamo il socialismo, essendo un’ide-
ologia, come potremmo combatterlo se non sul piano delle
idee e delle argomentazioni?La prima cosa che devi dimo-
strare è che questo pensiero è falso, assurdo, abominevole.
Rifiutalo. Farlo sarà tanto più facile in quanto è del tutto fal-
so, assurdo e abominevole. Soprattutto, se vuoi essere for-
te, comincia dall’estirpare dalle Leggi tutto ciò che può far
filtrare il socialismo nella società – non è affatto un lavoro
di poco conto.
Si è rimproverato al signor de Montalembert di voler im-
piegare forza bruta contro il socialismo. È un rimprovero
ingiusto, perché ha detto chiaramente: è necessario fare
guerra al socialismo compatibilmente con la Legge, l’onore
e la giustizia..
Ma dal suo canto, de Montalembert non si accorge che
si sta intrappolando in un circolo vizioso? Vuole opporre
il socialismo alla Legge? Ma il socialismo invoca la legge.
Non aspira all’estorsione extra-legale, bensì a quella legale. Il
socialismo intende usare la legge stessa come strumento,
come in ogni monopolio; e una volta che avrà sottomesso
la legge ai suoi scopi, come si può pensare di poter usare la
Legge stessa contro di esso? Come potremmo sottometterlo
ai nostri tribunali, ai nostri gendarmi e alle nostre prigioni?
Per cui, cosa sta facendo? Vorrebbe impedirgli di mettere
le mani sul processo legislativo. Vorrebbe tenerlo fuori dal

49
Parlamento. Non ci risciurà, oso predirlo, finché continuerà
a legiferare sul principio dell’estorsione legale. È troppo ini-
quo, troppo assurdo.

La Scelta di Fronte a Noi


È quindi assolutamente necessario fare chiarezza sulla
questione dell’estorsione legale, e ci sono solo tre soluzioni:
1. Che i pochi depredino i tanti;
2. Che tutti depredino tutti;
3. Che nessuno depredi nessun altro.
Estorsione parziale, estorsione universale, assenza di
estorsione, ecco le opzioni. La Legge può perseguire solo
uno di queste tre alternative.
Estorsione parziale - è il sistema che ha prevalso finché
l’elettorato era parziale e non tutti potevano votare, sistema
al quale si ritorna per evitare l’invasione del socialismo.
Estorsione universale - è il sistema da cui siamo stati mi-
nacciati da quando l’elettorato è divenuto universale, dato
che la massa aveva progettato di legiferare secondo gli stes-
si principi dei predecessori.
Assenza di estorsione - è il principio di giustizia, di pace, di
ordine, di stabilità, di conciliazione, di buon senso che pro-
clamerò con tutta la mia forza, ahimè insufficiente, e con i
miei polmoni, fino al mio ultimo respiro.
E, sinceramente, possiamo chiedere altro alla Legge? La
Legge può essere usata, con la sua Forza, in maniera ragio-
nevole per risolvere altre questioni oltre al semplice ambito
del Diritto? Sfido chiunque a farla uscire da questo perime-

50
tro, senza trasformarla, e, di conseguenza senza usare la
forza contro il diritto. E siccome questa è la più disastrosa,
illogica distorsione sociale che si possa immaginare, sareb-
be bene riconoscere che la vera soluzione, tanto ricercata,
del problema sociale è racchiusa in queste semplici parole:
la Legge è la giustizia organizzata.
Dunque, rimarchiamolo bene: organizzare la giustizia
con la Legge, ovvero con la Forza, esclude l’idea di regolare
tramite quest’ultime l’attività umana: lavoro, carità, agricol-
tura, commercio, industria, istruzione, belle arti, religione;
dato che una di queste organizzazioni secondarie potrebbe
distruggere l’organizzazione essenziale. Come possiamo
immaginare, in effetti, la Forza soffocare la Libertà dei citta-
dini, senza attentare alla giustizia, senza agire contro il suo
stesso scopo?
Qui mi scontro con il più popolare dei pregiudizi della
nostra epoca. Non si vuole solo che la legge sia giusta; si
vuole anche che essa sia filantropica. Non ci si accontenta
che essa garantisca ad ogni cittadino il libero e nonviolento
esercizio delle proprie capacità, applicato al suo sviluppo fi-
sico, intellettuale e morale; si esige dalla Legge che diffonda
benessere, istruzione e moralità in tutta la nazione. È il lato
seducente del socialismo.
Ma, lo ripeto, queste due missioni della legge si contrad-
dicono. È necessario scegliere. Il cittadino non può essere
allo stesso tempo libero e schiavo. Il signor de Lamartine
mi scrisse un giorno: «La vostra ideologia non è che la metà
del mio programma; voi vi siete fermati alla Libertà, men-
tre io giungo fino alla Fratellanza.» Gli risposi: «La seconda

51
metà del vostro programma distruggerà la prima.» E, in
effetti, non riesco a pensare a nessun altro tipo di fratel-
lanza se non quella volontaria. Mi è impossibile concepire
la solidarietà imposta dall’alto con la Legge, senza che la
Libertà sia legalmente soffocata, e la giustizia legalmente
calpestata.
L’estorsione legale ha due radici: la prima, l’abbiamo appe-
na illustrata, è nell’egoismo umano; la seconda è nella falsa
filantropia.
Prima di inoltrarci ulteriormente in questa riflessione,
credo di dovermi esprimere sul significato della parola
estorsione, che intendo come spoliazione.
Non la considero, come si fa di solito, in un’accezione
vaga, indeterminata, approssimativa, metaforica: uso il ter-
mine in senso scientifico, come concetto opposto a quello di
proprietà. Quando una parte delle ricchezze passa, senza
consenso o risarcimento, sia con la forza che con l’inganno,
da colui che l’ha acquisita a colui che non l’ha creata, io
dico che ci troviamo di fronte ad un attacco alla proprietà,
dico che c’è spoliazione. Io dico che questo è esattamente
ciò che la legge deve reprimere, sempre e ovunque. Se la
Legge compie gli stessi crimini che dovrebbe reprime­re,
credo che non ci sia un minore quantitativo di estorsione,
ma anzi, da un punto di vista sociale, ci siano circostanze
aggravanti. Solamente, in questo caso, non è colui che si ap-
profitta della spoliazione ad esserne il responsabile, ma è la
legge, il legislatore, la società, ed è questo che lo rende un
rischio politico.
È un peccato che questa parola sia intesa come un qualco-

52
sa di offensivo. Ho cercato inutilmente un’altra parola, per-
ché in nessuna epoca, tanto meno oggi vorrei gettare una
parola così irritante nel calderone delle nostre divergenze.
Inoltre, che lo si creda oppure no, io non intendo accusare
né le intenzioni né la moralità di nessuno. Io attacco un’idea
che ritengo essere falsa, un sistema che mi pare ingiusto, e
questo va talmente oltre le intenzioni, che ciascuno di noi
ne approfitta senza volerlo e ne soffre senza saperlo. Biso-
gna essere di parte o in preda alla paura per dubitare delle
buone intenzioni di chi crede nel protezionismo, nel Socia-
lismo e anche nel Comunismo, che non sono altro che una
sola e medesima pianta, in tre fasi differenti della sua cre-
scita. Tutto quello che si potrebbe dire, è che l’estorsione è
più evidente, per la sua parzialità, nel protezionismo6 e, per
la sua universalità, nel Comunismo; da ciò segue che dei tre
sistemi il Socialismo è ancora il più vago, il più indeciso, e
di conseguenza il più sincero.
In ogni caso, mostrare che l’estorsione legale ha la fal-
sa filantropia fra le sue fondamenta, significa ovviamente
mettere le intenzioni fuori causa.
Detto ciò, cerchiamo di capire quanto è valida, da dove
vie­ne e dove conduce questa aspirazione popolare che pre-
tende di realizzare il bene comune attraverso l’estorsione
generale.
I socialisti ci dicono: poiché la Legge organizza la giusti-

6  Se la protezione fosse concessa, in Francia, a una sola classe, per esempio ai forgiatori, sa-
rebbe un furto talmente assurdo che non potrebbe essere mantenuto. Vediamo quindi tutte le
industrie protette unirsi, fare causa comune, e persino fare proseliti in modo tale da sembrare
di abbracciare l’intera forza lavoro nazionale. Sentono istintivamente che la spoliazione si può
nascondere generalizzandosi.

53
zia, perché essa non regolamenta anche il lavoro, l’insegna-
mento e la religione?
Per quale motivo non lo facciamo davvero? Perché non
sarebbe in grado di organizzare il lavoro, l’insegnamento,
la religione senza distruggere la giustizia.
Ricordiamo che la Legge è Forza e che, di conseguenza, il
dominio della Legge non può oltrepassare legittimamente
il dominio giustificato della forza.
Quando la legge e la forza mantengono un uomo nella
giustizia, esse non gli impongono nulla più che una sempli-
ce astensione. Le leggi non gli impongono che l’astensione
dal danneggiare gli altri. Non attaccano né la sua persona,
né la sua libertà, né la sua proprietà. Salvaguardano solo
la persona, la libertà e la proprietà altrui. Si mantengono
sulla difensiva; difendono il principio per il quale la legge
è uguale per tutti. Compiono una missione la cui inoffen-
sività è evidente, l’utilità palpabile e la legittimità inconte-
stabile.
Questo è così vero che, come mi ha fatto notare un amico,
dire che il fine della Legge è di far regnare la giustizia,
significa servirsi di un’espressione che non è del tutto cor-
retta. Si dovrebbe dire: il fine della Legge è impedire all’in-
giustizia di regnare. In effetti, non è la giustizia ad avere
una propria esistenza, ma è l’ingiustizia. La prima risulta
dall’assenza della seconda.
Ma quando la legge - per mezzo del suo supporto neces-
sario, l’obbligo, - impone un modo di lavorare, un metodo
o un programma di istruzione, una fede o un culto, essa
non agisce più sugli uomini per via negativa, bensì per via

54
positiva. In questo modo sostituisce la volontà del legislato-
re alla volontà degli individui, l’iniziativa del legislatore a
quella dei singoli. Questi non devono più chiedere consigli,
valutare, progettare; la legge fa tutto ciò per loro. L’intelli-
genza diviene un attributo superfluo; cessano di essere in-
dividui; perdono la loro personalità, la loro libertà e la loro
proprietà.
Prova ad immaginare una forma di lavoro imposta con
la forza, che non sia un attacco alla libertà; un passaggio
di ricchezze imposto con la forza, che non sia un attacco
alla proprietà. Se non ci riesci, allora sarai d’accordo che la
Legge non può organizzare il lavoro e la produzione senza
creare ingiustizia.

L’approccio dei Sedicenti


Intellettuali
Quando, dall’interno del suo studio, un intellettuale vol-
ge lo sguardo alla società, è impressionato dallo spettacolo
di disuguaglianza che gli si presenta. Prova pena per le
sofferenze che vivono tanti nostri fratelli, sofferenze rese
ancora più tristi dal contrasto con il lusso e la ricchezza.
Dovrebbe forse chiedersi se un tale stato sociale non sia
causato da vecchie estorsioni esercitate per via di conquista
militare, e da nuove estorsioni esercitate tramite leggi. Do-
vrebbe domandarsi se, essendo nota la tendenza di tutti gli
individui verso il benessere e il perfezionamento, il regno
della giustizia non sia sufficiente per realizzare il più gran-
de progresso e la massima uguaglianza, compatibili con

55
quella responsabilità individuale che Dio ha previsto come
giusta ricompensa di vizi e virtù.
Non ci pensa nemmeno. Il suo pensiero è diretto verso
combinazioni, accordi, organizzazioni legali o artificiali.
Cerca il rimedio nell’estensione e nell’ingrandimento di ciò
che ha prodotto il male.
Esiste forse, a parte la giustizia, che non è altro che la ne-
gazione dell’ingiustizia, una di queste disposizioni giuridi-
che che non contenga il principio dell’estorsione?
Tu dici: «Ecco a voi degli uomini che non possiedono ric-
chezze» - e ti rivolgi alla Legge. Ma la legge non è una mam-
mella che si riempie da sola, o le cui vie lattifere attingono
da altro se non dalla società. Il denaro presente nelle casse
pubbliche che viene usato a favore di un cittadino o di una
classe, non è altro che denaro che gli altri cittadini e le al-
tre classi sono stati costretti a pagare. Se ognuno prendesse
solo l’equivalente di quello che ha versato, la tua legge non
sarebbe depredatrice, ma non farebbe nulla per gli uomini
che non hanno ricchezza, non farebbe nulla per raggiun-
gere l’uguaglianza. Può essere uno strumento egualitario
solo nella misura in cui toglie ad alcuni per dare ad altri, e
allora è uno strumento di spoliazione. Esamina da questo
punto di vista i dazi, gli incentivi statali, il reddito minimo
garantito, il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, il diritto
all’istruzione, la tassazione progressiva, i prestiti gratuiti,
l’officina statale, e troverai sempre spoliazioni legali, ingiu-
stizie organizzate.
Tu dici: «Ecco a voi gli uomini che non possiedono ragio-
ne» - e ti rivolgi alla Legge. Ma la legge non è una torcia che

56
diffonde la sua luce in lungo e in largo. Aleggia su una so-
cietà dove ci sono degli individui che sanno e altri che non
sanno; alcuni cittadini che hanno bisogno di conoscere e
altri che sono disposti ad insegnare. La legge non può fare
che una di queste due cose: o lasciare operare liberamen-
te questo genere di scambi, lasciar soddisfare liberamente
questo tipo di bisogni; o forzare a questo riguardo le volon-
tà e prendere agli uni per poter pagare i professori che do-
vranno insegnare gratuitamente agli altri. Ma la legge non
può negare che il secondo caso sia una violazione della Li-
bertà e della Proprietà, una vera e propria estorsione legale.
Tu dici: «Ecco a voi gli uomini che mancano di moralità o
di fede» - e ti rivolgi alla Legge. Ma la legge è obbligo, e ho
davvero bisogno di dire quanto sia violento e folle utilizza-
re la forza in tali questioni?
Dietro ai suoi sistemi e ai suoi sforzi, sembra che il Socia-
lismo, per quanto creda di essere infallibile, non possa na-
scondere la sua naturale tendenza all’esproprio legale. Ma
cosa fa? Lo nasconde abilmente a tutti, anche a sé stesso,
sotto il nome di solidarietà, fraternità, organizzazione, as-
sociazione. E dato che non chiediamo così tanto alla legge,
perché non esigiamo che ci dia altro che la giustizia, i so-
cialisti suppongono che noi rigettiamo la fraternità, la soli-
darietà, l’organizzazione, l’associazione, e ci additano come
individualisti.
Sappi quindi che ciò che noi rigettiamo non è l’organizza-
zione spontanea, ma quella forzata.
Non è l’associazione libera, ma le forme di associazione
che loro pretendono di imporci.

57
Non è la fraternità spontanea, ma quella imposta per leg-
ge.
Non è la solidarietà naturale, ma quella artificiale, che
non è altro che un’ingiusta rimozione di responsabilità.
Il Socialismo, come la vecchia politica da cui deriva, con-
fonde lo Stato e la società. Questo perché, ogni volta che noi
non vogliamo che una cosa sia fatta dallo Stato, i socialisti
concludono che noi non vogliamo che sia fatta del tutto. Noi
non vogliamo l’istruzione statale; dunque dicono che sia-
mo contrari all’istruzione. Noi non vogliamo una religione
di stato; dunque dicono che siamo contrari alla religione.
Noi non vogliamo l’uguaglianza imposta dallo Stato; dun-
que dicono che siamo contrari all’uguaglianza. È come se i
socialisti ci accusassero di voler lasciare morire di fame il
popolo, solo perché non vogliamo che lo Stato coltivi grano.
Nel mondo politico, come ha potuto vincere la tendenza
secondo cui è possibile derivare dalla legge ciò che legge
non è: il bene, la ricchezza, la scienza, la religione?
Gli intellettuali moderni, in particolare quelli socialisti,
fondano le loro diverse teorie su un’ipotesi comune, deci-
samente la più strana e la più arrogante che possa passare
per il cervello.
Gli intellettuali dividono l’umanità in due parti. La totali-
tà degli individui meno uno, forma la prima; l’intellettuale,
da solo, forma la seconda, ben più importante rispetto alla
prima.
Partono dal presupposto che gli individui non hanno in
sé né un principio d’azione, né mezzi per comprendere la
realtà; che mancano di iniziativa; che sono materia iner-

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te, delle molecole passive, degli atomi senza spontaneità,
nient’altro che una vegetazione indifferente al suo stesso
modo di vivere; pronta dunque a ricevere, da una volontà e
una mano esterne, un numero infinito di forme più o meno
simmetriche, artistiche, perfezionate.
Ciascuno di loro poi suppone ovviamente di essere egli
stesso, nel ruolo di organizzatore, di profeta, di legislatore,
di istitutore, di fondatore, a possedere questa volontà e que-
sta mano, questo movente universale, questa potenza crea-
tiva la cui missione è di riunire in una società organizzata
questi materiali grezzi che sono gli esseri umani.
Sulla base di queste considerazioni, come un giardiniere
che, secondo il suo capriccio modella gli alberi in piramidi,
ombrelloni, cubi, coni, vasi, spalliere, code di gatto e venta-
gli, ogni socialista, seguendo il suo ideale chimerico, mo-
della la povera umanità in gruppi, serie, classi, sotto-classi,
alveoli, in laboratori sociali, armonici, contrapposti, eccete-
ra.
E, come un giardiniere che, per modellare le piante, ha
bisogno di asce, seghe, coltelli e cesoie, l’intellettuale, per
organizzare la sua società, ha bisogno di forze che non
può trovare se non nella legge: leggi doganali, tasse, leggi
sull’assistenza e sull’istruzione.

La Presunzione di Voler Plasmare


l’Umanità
I socialisti considerano l’umanità come materiale per fare
esperimenti sociali, tanto che quando non sono sicuri del

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successo delle loro sperimentazioni, rivendicano una parte
di popolazione come materiale per questi esperimenti: sap-
piamo quanto sia popolare tra loro l’idea di sperimentare
tutti i sistemi, e si è visto uno dei loro capi venire a chiedere
seriamente all’Assemblea Costituente un comune con tutti i
suoi abitanti, per fare delle prove.
È così che ogni inventore progetta la sua macchina in mi-
niatura prima di farla in grande. È anche così che il chi-
mico sacrifica qualche reagente e che l’agricoltore sacrifica
qualche semente e una porzione del suo campo per provare
un’idea.
Ma che distanza immensa possiamo riscontrare tra il
giardiniere e i suoi alberi, tra l’inventore e la sua macchina,
tra il chimico ed i suoi elementi, tra il contadino e i suoi
semi! Il socialista crede invece, in buona fede, che la stessa
distanza lo separi dall’umanità.
Non bisogna stupirsi che gli intellettuali della nostra epo-
ca considerino la società come una creazione artificiale par-
torita dalla mente di un legislatore illuminato.
Quest’idea, frutto dell’educazione classica, ha dominato
tutti i pensatori, tutti i grandi scrittori del nostro Paese.
Tutti hanno immaginato tra l’umanità e il legislatore lo
stesso rapporto che c’è tra l’argilla e il vasaio.
Inoltre, anche quando gli scrittori politici hanno ricono-
sciuto nel cuore degli esseri umani un principio di azione
e nella loro intelligenza un principio di comprensione della
realtà, hanno pensato che Dio avesse concesso agli esseri
umani un dono funesto, e che l’umanità, sotto l’influenza
di questi due motori, tendesse fatalmente alla degenerazio-

60
ne. Hanno dato per scontato che la società, abbandonata a
sé stessa, si sarebbe occupata della religione solo per finire
nell’ateismo, dell’educazione per finire nell’ignoranza, del
lavoro e del commercio per finire nella miseria.
Per fortuna, secondo gli stessi scrittori, ci sono alcuni in-
dividui, chiamati governanti, legislatori, che hanno ricevu-
to dal cielo tendenze opposte e non solo per sé stessi, ma
anche per tutti gli altri.
Mentre la società è incline al male, questi governatori
sono predisposti al bene; mentre l’umanità marcia verso le
tenebre, loro guardano alla luce; mentre la società è intrap-
polata nel vizio, loro sono guidati dalla virtù. E, per que-
sto, essi rivendicano la forza concessa dalla legge, affinché
questa permetta loro di sostituire le tendenze del genere
umano con le loro tendenze così benevole.
È sufficiente aprire, anche a caso, un libro di filosofia, di
politica o di storia per vedere quanto sia fortemente radica-
ta nel nostro Paese quest’idea, figlia di studi classici e ma-
dre del socialismo, che l’umanità sia una materia inerte che
riceve la vita, l’organizzazione, la moralità e la ricchezza dal
potere statale; o meglio, ciò che è peggio ancora, si ritiene
che l’umanità tenda da sola alla sua degradazione e pos-
sa esser fermata solo dalla mano misteriosa del legislatore.
Ovunque il convenzionalismo classico ci mostra, dietro alla
società passiva, una potenza occulta che, sotto il nome di
legge, o di legislatore, o sotto l’espressione più comoda e
vaga di “noi/loro”, muove l’umanità, la anima, la arricchisce
e la moralizza.

61
Il vescovo Bossuet7 diceva: «Una delle cose che erano impres-
se [da chi?] più fortemente nello spirito degli Egiziani era l’amor
patrio...Non era permesso di essere inutili allo Stato; la legge as-
segnava a ciascuno il suo lavoro, che si tramandava di padre in
figlio. Non si poteva né avere due lavori né cambiare professione…
Ma c’era un’attività che doveva essere comune e questa era lo stu-
dio delle leggi e della saggezza. L’ignoranza della religione e del-
la politica del Paese non è permessa da nessuno Stato. Del resto,
ogni professione aveva un distretto che le era stato assegnato [da
chi?]… Tra le buone leggi, la migliore era quella che prescriveva
che tutti fossero educati [da chi?] nello spirito di osservarle… I
loro mercanti hanno riempito l’Egitto di invenzioni meravigliose,
e non li hanno lasciati all’oscuro di quasi nulla di ciò che poteva
rendere la vita comoda e tranquilla.»
Così, gli esseri umani, secondo Bossuet, non traggono
nulla da loro stessi: patriottismo, ricchezze, attività, saggez-
za, invenzioni, laboriosità, scienza, tutto viene loro da una
gentile concessione del re o delle leggi. Bastava permetterlo
e si avverava per magia. È per questo che Diodoro, avendo
egli accusato gli Egiziani di rigettare la lotta e la musica,
viene rimproverato da Bossuet. Come è possibile, dice, dato
che queste arti erano state inventate da Trismegisto?
Allo stesso modo, dice della Persia:
«Uno delle prime preoccupazioni del principe fu di far prospe-
rare l’agricoltura… Così come vi erano delle cariche stabilite per
condurre gli eserciti, allo stesso modo ve ne erano per controllare i
lavori agricoli… Il rispetto per l’autorità reale che veniva ispirato

7  Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), vescovo, scrittore e teologo francese, fu precettore del
figlio di Luigi XIV e divenne noto soprattutto per il suo Discorso sulla storia Universale (NdT)

62
nei Persiani andava fino all’eccesso.»
I greci, benché arguti, conoscevano il proprio destino, fin-
ché non si sarebbero più elevati, come cani e cavalli, all’al-
tezza dei giochi più semplici. Classicamente, è una cosa ap-
purata che tutto viene dato ai popoli dall’esterno.
«I greci, naturalmente pieni di spirito e coraggio, erano stati
allevati per bene dai re e dalle colonie d’Egitto. È da qui che essi
hanno appreso gli esercizi del corpo, la corsa a piedi, a cavallo e
sulle bighe… La cosa migliore che gli Egiziani avevano insegnato
ai Greci era di rendersi docili, e lasciarsi plasmare dalle leggi per
il bene pubblico.»
Parliamo invece di Fénelon8. Nutrito dallo studio e
dall’ammirazione dell’antichità, testimone della potenza
di Luigi XIV, Fénelon poteva difficilmente sfuggire all’idea
che l’umanità sia una entità passiva, e che tutti i suoi mali
come tutti i beni, le sue virtù come i suoi vizi provenga-
no da un’azione esterna, esercitata sulla società dalla legge
o da colui che la emana. Inoltre, nella sua utopica società
chiamata Salento, pone gli uomini, con i loro interessi, ca-
pacità, desideri e beni, sotto il potere assoluto del legislato-
re. In qualsiasi questione, non sono mai loro a giudicare per
sé stessi, ma è il principe a farlo al posto loro. La nazione
non è che una materia senza forma, di cui il principe è l’a-
nima. È in lui che si trova il pensiero, la lungimiranza, il
principio di ogni organizzazione, di ogni progresso e, di
conseguenza, la responsabilità.

8  François de Salignac de La Mothe-Fénelon, meglio noto come Fénelon (1651-1715), arci-


vescovo, teologo e scrittore francese, fu precettore del nipote di Luigi XIV e divenne noto
soprattutto per l’opera Le avventure di Telemaco (NdT)

63
Per provarti queste affermazioni, dovrei trascrivere qui
tutto il decimo libro di Telemaco. Rimando il lettore ad esso,
e mi accontento di citare qualche passaggio preso per caso
dalla sua celebre opera, della quale, sotto ogni altro aspetto,
sono il primo a riconoscere il valore.
Con quell’ingenuità sorprendente che caratterizza gli au-
tori classici, Fénelon ammette, nonostante l’autorità del ra-
gionamento e dei fatti, la felicità generale degli Egiziani, at-
tribuendola, non alla loro saggezza, ma a quella dei loro re.
«Noi non potevamo gettare lo sguardo sulle due rive senza vede-
re città ricchissime, ville di campagna collocate amabilmente, terre
che si vestivano ogni anno con un raccolto dorato, senza mai ripo-
sare; prati pieni di greggi; aratori sopraffatti dal peso dei frutti che
la terra versava dal suo seno; pastori che facevano ripetere i dolci
suoni dei loro flauti a tutti gli echi intorno. Felice, disse Mentore,
è il popolo che è guidato da un re saggio.
In seguito Mentore mi fece notare la gioia e l’abbondanza sparse
per tutta la campagna d’Egitto, dove c’erano ben 22.000 città; la
giustizia esercitata a favore dei poveri contro i ricchi; la buona
educazione dei giovani che si abituavano all’obbedienza, al lavoro,
alla sobrietà, all’amore delle arti e delle lettere; la precisione in
tutte le cerimonie religiose, il disinteresse, il desiderio d’onore, la
fedeltà agli uomini e il timore per gli Dèi, che qualunque padre
tramandava ai propri figli. Non ci si stancava mai di ammirare un
così bell’ordine. Felice, mi disse, è il popolo che un re saggio guida
a questo modo.»
Fénelon dipinge, a Creta, un idillio ancor più seducente.
Poi aggiunge, per bocca di Mentore:
«Tutto ciò che voi vedrete in quest’isola meravigliosa è il frut-

64
to della legislazione di Minosse. L’educazione che prevedeva per i
giovani rende i corpi sani e robusti. Si pensa che conducano una
vita semplice, frugale e laboriosa; si suppone che tutti i piaceri
indeboliscano il corpo e lo spirito; non si propone loro mai altro
piacere che quello di essere invincibili per virtù e quello di acquisi-
re molta gloria. Qui si puniscono tre vizi che rimangono impuniti
negli altri popoli, l’ingratitudine, la falsità e l’avarizia. Per quanto
riguarda lo sfarzo e la mollezza, non si ha mai bisogno di punirli,
perché sono sconosciuti a Creta… non si sopporta né mobili pre-
ziosi, né abiti magnifici; né feste deliziose, né palazzi dorati.»
Così Mentore prepara il suo discepolo a sminuzzare e
manipolare, in base alle intenzioni più filantropiche, il po-
polo di Itaca, e, per maggior sicurezza, gliene dà un esem-
pio a Salento.
Ecco a voi come noi riceviamo le prime nozioni politiche.
Ci insegnano a trattare gli uomini proprio come Olivier de
Serres9 insegna agli agricoltori a trattare e mescolare i ter-
reni.
Invece Montesquieu10 diceva: «Per mantenere lo spirito del
commercio, è necessario che tutte le Leggi lo favoriscano; che que-
ste stesse leggi, con le loro disposizioni, dividendo le fortune nella
misura in cui il commercio fiorisce, mettano ogni cittadino povero,
in un agio sufficientemente grande per poter lavorare come gli
altri, e ciascun cittadino ricco, in una mediocrità tale che avrà bi-
sogno di lavorare per conservare o acquisire ricchezza…»

9  Olivier de Serres (1539-1619), celebre agronomo e botanico francese. (NdT)


10  Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, meglio noto solamente
come Montesquieu (1689–1755), filosofo, giurista e pensatore politico Illuminista. Noto soprat-
tutto per le Lettere Persiane e lo Spirito delle Leggi.(NdT)

65
Così le Leggi decidono la sorte di tutte le fortune.
«Sebbene dentro una democrazia l’uguaglianza sostanziale sia
l’anima dello Stato, essa è così difficile da stabilire che un’estrema
precisione in questo senso non è sempre possibile. È sufficiente
che si stabilisca una soglia di reddito che riduca o fissi le differenze
oltre un certo limite. Dopo ciò, appianare le cosiddette disugua-
glianze è compito di leggi particolari, attraverso le tasse che esse
impongono ai ricchi e le esenzioni che esse concedono ai poveri…»
Questa è nuovamente un’uguaglianza stabilita dalla leg-
ge, dalla forza.
«C’erano in Grecia due tipi di città. Alcune erano basate sulla
guerra, come Sparta; altre erano basate sul commercio, come Ate-
ne. Nelle prime si voleva che i cittadini fossero oziosi; nelle altre si
cercava di trasmettere amore per il lavoro.»
«Io chiedo che si presti un po’ di attenzione alla grandezza del
genio che ci volle a questi legislatori per vedere che, sconvolgen-
do tutti i costumi, confondendo tutte le virtù, avrebbero mostrato
all’universo la loro saggezza. Licurgo, mescolando il furto con lo
spirito della giustizia, il più duro schiavismo con la libertà estre-
ma, i sentimenti più atroci con la più grande moderazione, diede
stabilità alla sua città. Pare che tolse tutte le risorse, le arti, il com-
mercio, il denaro, le muraglie. C’era ambizione ma senza speranza
di vivere meglio, gli spartani avevano sentimenti naturali, senza
essere bambini, né mariti, né padri; il riserbo stesso è tolto alla
castità. È per questo cammino che Sparta è giunta alla gloria e alla
grandezza…»
«Questo straordinario spettacolo a cui si assisteva nelle isti-
tuzioni greche, l’abbiamo visto nella feccia e nella corruzione dei
tempi moderni.

66
Un legislatore onesto ha formato un popolo dove l’integrità pa-
reva così tanto naturale quanto il coraggio lo era presso gli Spar-
tani. Il signor Penn è un vero e proprio Licurgo, e sebbene il primo
avesse la pace come obiettivo mentre il secondo la guerra, essi si
somigliano nella singolare rotta su cui hanno indirizzato i loro
popoli, nell’ascendente che hanno avuto sugli uomini liberi, nei
pregiudizi che essi hanno sconfitto, nelle passioni che hanno sot-
tomesso.»
«Il Paraguay può fornirci un altro esempio. Coloro che consi-
derano il piacere di comandare come l’unico bene della vita hanno
desiderato di renderlo un crimine contro la società; ma sarà sem-
pre buona cosa governare gli uomini rendendoli più felici…»
«Quelli che creeranno istituzioni del genere stabiliranno la co-
munità dei beni della Repubblica di Platone, quel rispetto che egli
richiedeva per gli Dèi, quella separazioni con gli stranieri per la
conservazione dei costumi, e che sia la città a commerciare e non i
cittadini; ci daranno le nostre arti senza il nostro lusso, e i nostri
bisogni senza i nostri desideri.»
L’entusiasmo popolare può far dire: «è di Montesquieu,
dunque è magnifico! È sublime!» Io avrò il coraggio della mia
opinioni e dirò:
Ma come! Voi avete la faccia tosta di trovarlo bello?
Ma è terribile! Abominevole! Questi passaggi, a cui potrei
aggiungerne molti altri, mostrano che, nelle idee di Monte-
squieu, gli individui, le libertà, le proprietà, la società inte-
ra non sono altro che materiali che si prestano all’esercizio
della sagacia del legislatore.

67
E ora passiamo a Rousseau11. Sebbene questo intellettua-
le, ritenuto la suprema autorità dei democratici, abbia crea-
to un sistema in cui l’edificio sociale si poggia sulla volontà
generale, nessuno ha mai ammesso, così compiutamen-
te come lui, l’ipotesi di una completa passività del genere
umano rispetto al legislatore.
«Se è vero che un grande principe è un uomo raro, che dire di
un grande legislatore? Il primo non deve far altro che seguire il
modello che il secondo deve proporgli. Quest’ultimo è il progettista
che inventa la macchina, il principe non è che l’operaio che l’as-
sembla e la fa partire.»
E qual è il ruolo degli individui in tutto questo? Essi sono
la macchina che si assembla e parte, o meglio, la materia
prima che costituisce la macchina stessa!
Così tra legislatore e principe, tra principe e sudditi, ci
sono gli stessi rapporti che fra l’agronomo e l’agricoltore, fra
l’agricoltore e la terra. A quale altezza al di sopra del popolo
si pone dunque l’intellettuale, che governa gli stessi legisla-
tori e insegna loro la materia con questi imperativi?
«Volete voi donare coerenza allo Stato? Avvicinate gli estremi il
più possibile. Non accettate né ricchi facoltosi né poveracci.»
«Il suolo è sterile, o il paese è troppo piccolo per contenere i suoi
abitanti? Giratevi verso l’industria e le arti, di cui scambierete
i prodotti per i beni che vi mancano... Se il terreno è buono e vi
mancano abitanti, concentratevi con tutti voi stessi sull’agricoltu-
ra, che moltiplica gli uomini, e levate di mezzo le arti, che non fan-

11  Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), filosofo e scrittore svizzero-francese, fu tra i principali


protagonisti dell’Illuminismo e scrisse opere come l’Émile, Le Confessioni e il Discorso sull’o-
rigine e i fondamenti della disuguaglianza (NdT)

68
no altro che far spopolare il paese... Siete preoccupati per le vostre
coste troppo estese e accessibili? Coprite il mare con vascelli, così
avrete una esistenza brillante e intensa. Il mare bagna le vostre
coste solo con scogliere inaccessibili? Restate barbari e mangiatori
di pesce, vivrete più tranquillamente, forse anche in maniera mi-
gliore, e, di sicuro, più felici. In altre parole, ogni popolo possiede
in sé una qualche causa che lo ordina in un modo particolare, e
rende questa legislazione propria solo a esso. È così che gli Ebrei
in passato, e recentemente gli Arabi, hanno avuto come oggetto
principale la religione; gli Ateniesi, la letteratura; Cartagine e Tiro
il commercio; Rodi, la navigazione; Sparta la guerra; e Roma la
virtù. L’autore dello ‘Spirito delle leggi’ ha mostrato con che arte il
legislatore diriga il popolo verso ognuno di questi oggetti… Ma se
il legislatore, sbagliando il suo oggetto, sceglie un principio diverso
da quello che nasce dalla natura delle cose, per cui un popolo tende
alla servitù e l’altro alla libertà; uno alla ricchezza, l’altro alla po-
polazione; uno alla pace, l’altro alle conquiste; si vedrà la legge in-
debolirsi in modo impercettibile, la costituzione alterarsi, e lo Stato
non cesserà di essere agitato finché non sarà distrutto o cambiato, e
finché l’invincibile natura non avrà ripreso il suo controllo.»
Ma se la natura è così invincibile da riprendersi ciò che le
spetta, perché Rousseau non ammette che essa non aveva
bisogno del legislatore per prendere questo controllo dall’i-
nizio? Perché non ammette che, obbedendo ai loro stessi
principi, gli uomini si indirizzerebbero autonomamente ver-
so il commercio sulle coste estese e accessibili, senza che un
Licurgo, un Solone, un Rousseau interferiscano, col rischio
di sbagliare?
Sia come sia, si comprende la terribile responsabilità che
Rousseau attribuisce agli inventori, istitutori, condottieri,

69
legislatori e manipolatori della società. Inoltre, Rousseau è
molto esigente nei loro riguardi.
«Colui che osa intraprendere l’organizzazione di un popolo deve
sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana, di
trasformare ciascun individuo in una parte di un più grande tutto,
di cui questo individuo riceve, in tutto o in parte, la sua vita e il
suo essere; deve essere capace di alterare la costituzione dell’uomo
per rafforzarla, di sostituire una esistenza parziale o morale a quel-
la fisica e indipendente che noi abbiamo ricevuto dalla natura. È
necessario togliere all’uomo le sue proprie forze per donar lui una
forza che gli è estranea…»
Povera specie umana, cosa faranno i seguaci di Rousseau
della tua dignità?
Vediamo, invece, cosa dice Raynal12. «Il clima, ossia il meteo
e il suolo, è la prima regola del legislatore. Le sue risorse dettano i
suoi doveri. È prima di tutto la posizione geografica che egli deve
considerare. Un popolo che vive sulle coste marittime avrà delle
leggi relative alla navigazione… Se la colonia si sposta nell’entro-
terra, un legislatore deve prevedere il genere e il grado di fecondità
della terra…»
«È soprattutto nella distribuzione della proprietà che si mostrerà
la lungimiranza della legislazione. In generale, e in tutte le nazioni
del mondo, quando si fonda una colonia, è necessario dare le terre
ad ogni uomo, ovvero dare a ciascuno un’estensione coltivabile
sufficiente alle necessità di una famiglia…»
«In un’isola selvaggia che si popolasse di bambini, non si dovrà

12  Guillaume-Thomas François Raynal (1713-1796), scrittore e polemista francese, fu tra i


principali protagonisti dell’Illuminismo e tra i “Padri spirituali” della Rivoluzione Francese
(NdT)

70
che lasciar germogliare i germi della verità nello sviluppo della
ragione… Ma quando in un territorio nuovo si stabilisce un po-
polo già costituito, l’abilità consiste nel non lasciar ad esso che le
opinioni e le abitudini nocive da cui non si può guarirlo e cor-
reggerlo. Se si vuole impedire che esse si trasmettano, si veglierà
sulla seconda generazione con un’educazione comune e pubblica
dei bambini. Un principe, un legislatore, non dovrebbe mai fon-
dare una colonia senza inviare in anticipo degli uomini saggi per
istruire la gioventù… In una nascente colonia, tutte le possibilità
sono aperte alle attenzioni del legislatore che vuole purificare il
sangue e i costumi di un popolo. Se egli ha genio e virtù, le terre
e gli individui che avrà nelle sue mani gli ispireranno un piano
per la società, che uno scrittore non potrà mai tracciare se non in
modo vago e soggetto all’instabilità delle ipotesi, che variano e si
complicano con un’infinità di circostanze troppo difficili da preve-
dere e combinare.»
Sembra quasi di sentire un professore di agricoltura dire
ai suoi allievi: “Il clima è la prima regola dell’agricoltore. Le
sue risorse gli dettano i suoi doveri. È prima di tutto la po-
sizione geografica che egli deve considerare. Se si trova su
un suolo argilloso, dovrà agire in una determinata manie-
ra. Se ha a che fare con la sabbia, allora ecco cosa dovrebbe
fare. Tutte le possibilità sono aperte all’agricoltore che vuole
pulire e migliorare il proprio suolo. Se ha capacità, la terra e
i fertilizzanti che avrà tra le mani gli ispireranno un piano
di sfruttamento, che un professore non potrà mai tracciare
se non in modo vago e soggetto all’instabilità delle ipotesi,
che variano e si complicano con un’infinità di circostanze
troppo difficili da prevedere e combinare.“
Ma, o sublimi scrittori, ricordatevi qualche volta che que-

71
sta argilla, questa sabbia, questo sterco, di cui disponete così
arbitrariamente, sono uomini, vostri pari, esseri intelligenti
e liberi come voi, che hanno ricevuto dal Cielo, come voi, la
capacità di vedere, prevedere, pensare e giudicare da soli!
Passiamo a Mably13 (egli suppone che le leggi siano usu-
rate dalla ruggine del tempo, dalla negligenza data dalla
sicurezza e continua così):
«In queste circostanze, è necessario essere convinti che le mol-
le del governo si sono allentate. Donate loro una nuova tensione
[Mably si rivolge al lettore], e il problema sarà risolto... Più che
punire gli errori, pensate a incoraggiare la virtù di cui avete biso-
gno. Con questo metodo darete nuovamente alla vostra repubblica
il vigore della giovinezza. È per non esser state consapevoli, che
le persone libere hanno perso la libertà! Ma se i progressi del male
sono tali che gli ordinari magistrati non possono rimediarvi effi-
cacemente, fate ricorso a una magistratura straordinaria, che sia
temporanea e di una potenza considerevole. L’immaginazione dei
cittadini ha bisogno di essere intimorita…»
Per venti volumi, è tutto così.
C’è stata un’epoca in cui, sotto l’influenza di tali insegna-
menti, che sono le basi dell’educazione classica, ognuno ha
voluto piazzarsi oltre e al di sopra dell’umanità, per orga-
nizzarla, pianificarla e istruirla a suo piacere.
Leggiamo Condillac14. - «Elevatevi, mio signore, a Licurgo o
Solone. Prima di proseguire con la lettura di questo scritto, diver-

13  Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), filosofo e politico francese e autore di opere illumi-
niste che ispirarono il repubblicanesimo e la Rivoluzione francese (NdT)
14  Étienne Bonnot de Condillac (1714-1780), filosofo ed enciclopedista francese, autore del
Trattato sulle Sensazioni (NdT)

72
titevi a dare delle leggi a un qualche popolo selvaggio dell’Ameri-
ca o dell’Africa. Stabilite in dimore fisse questi nomadi; insegnate
loro a allevare i greggi…; cercate di far sviluppare loro le qualità
sociali che la natura ha infuso in essi… Ordinate loro di comincia-
re a praticare i doveri che hanno verso la società… Avvelenate con
punizioni i piaceri che promettono le passioni, e voi vedrete questi
barbari, ad ogni legge promulgata, perdere un vizio e acquistare
una virtù.»
«Tutti i popoli hanno avuto delle leggi. Ma pochi fra essi sono
stati felici. Qual è la causa di ciò? È che i legislatori hanno quasi
sempre ignorato che lo scopo della società è di unire le famiglie
grazie ad un comune interesse.»
«L’imparzialità della legge consiste in due cose: stabilire l’ugua-
glianza nella fortuna e nella dignità dei cittadini… Nella misura
in cui le vostre leggi stabiliranno una più grande uguaglianza,
esse diventeranno più care ad ogni cittadino… Come faranno ad
agire l’avarizia, l’ambizione, la lussuria, la pigrizia, l’ozio, l’invi-
dia, l’odio, la gelosia su uomini uguali per fortuna e dignità, e ai
quali le leggi non lasceranno la speranza di rompere l’uguaglian-
za?» (Segue l’idillio).
«Ciò che ti è stato detto della Repubblica di Sparta deve illumi-
narti a dovere su tale questione. Nessun altro stato ha mai avuto
leggi più conformi all’ordine della natura e all’uguaglianza.»
Non è affatto sorprendente che il XVII e il XVIII secolo ab-
biano considerato il genere umano come una materia inerte
che attendeva e riceveva tutto, forma, figura, impulso, mo-
vimento e vita da un grande principe, una grande legislato-
re o un grande genio. Questi secoli si sono nutriti dello stu-
dio dell’Antichità, e l’Antichità ci offre in effetti ovunque, in

73
Egitto, in Persia, in Grecia, a Roma, lo spettacolo di alcuni
uomini che manipolano a proprio piacimento l’umanità
sottomessa con la forza o con l’inganno.
Cosa dimostra tutto ciò? Dimostra che, essendo l’indivi-
duo e la società passibili di miglioramento, l’errore, l’igno-
ranza, il dispotismo, la schiavitù, la superstizione devono
accumularsi maggiormente all’inizio dei tempi. Il torto de-
gli scrittori che ho citato non è quello di aver constatato il
fatto, ma di averlo proposto, come regola, all’ammirazione e
all’imitazione delle generazioni future. Il loro torto è di aver
ammesso, con la complicità di un’inconcepibile assenza di
critica, e sulla fede di un convenzionalismo infantile, ciò
che è inammissibile, cioè la grandezza, la dignità, la mora-
lità e il benessere di queste società fittizie del mondo antico;
di non aver compreso che solo il tempo produce e propaga
la luce; che con il crescere della luce, la forza passa dalla
parte del diritto, e la società riprende possesso di sé stessa.

E in effetti, qual è il lavoro della politica di cui siamo tutti


testimoni? Non è altro che lo sforzo istintivo di tutto il po-
polo verso la libertà15. E cos’è la libertà, questa parola che

15  Affinché un popolo sia felice, è indispensabile che gli individui che lo compongono abbia-
no lungimiranza, prudenza e quella fiducia reciproca che nasce dalla sicurezza.
Ora, queste cose difficilmente possono essere acquisite se non con l’esperienza. Si diventa lun-
gimiranti quando si è sofferto per non aver previsto un evento; prudenti, quando la temerarietà
è stata spesso punita, ecc.
Ne consegue che la libertà comincia sempre con l’essere accompagnata dai mali che seguono
l’uso incauto che se ne fa.
A questo spettacolo, alcuni uomini si alzano e chiedono che la libertà sia messa al bando.
“Che lo Stato”, dicono, “sia lungimirante e prudente per tutti”.
Al che io faccio queste domande:

74
ha il potere di far battere tutti i cuori e di agitare il mondo,
se non un insieme di tutte le libertà, libertà di coscienza,
d’insegnamento, di associazione, di stampa, di movimento,
di lavoro, di scambio; in altri termini, il libero esercizio, per
tutti, di tutte le facoltà inoffensive; in altri termini ancora,
la distruzione di tutti i dispotismi, anche quello della legge,
e la riduzione della legge al suo proprio compito razionale,
che è la regolarizzazione del diritto individuale alla legitti-
ma difesa o la repressione dell’ingiustizia.
Questa tendenza del genere umano, si deve constatare, è
fortemente odiata, in particolare nel nostro paese, dall’odio-
sa tendenza, - frutto dell’insegnamento classico - comune a
tutti gli intellettuali, di piazzarsi sopra all’umanità per or-
ganizzarla, pianificarla e istruirla a loro piacere.

La Tirannia Filantropica
Infatti, mentre la società si mobilita per raggiungere la
libertà, i grandi uomini che si piazzano al suo comando,
ispirati dai principi del XVII e XVIII secolo, non vogliono
altro che piegarla sotto il dispotismo filantropico delle loro
invenzioni sociali e farle portare dolcemente, secondo l’e-

1. È possibile? Può uno Stato esperto emergere da una nazione inesperta?


2. In ogni caso, non è forse soffocare l’esperienza nel suo germe?
Se il potere impone le azioni individuali, come farà l’individuo a imparare dalle conseguenze
dei suoi atti? Sarà allora sotto tutela per sempre?
E lo Stato, avendo pianificato tutto, sarà responsabile di tutto.
Lì c’è un focolaio di rivoluzioni, e rivoluzioni senza via d’uscita, poiché saranno fatte da un
popolo al quale, vietando l’esperienza, è stato impedito il progresso. (Pensiero tratto dai manoscritti
dell’autore)

75
spressione di Rousseau, il giogo della felicità pubblica, qua-
le che essi si sono immaginati.
Si è visto bene nel 1789. Appena il sistema legale dell’An-
cien Régime fu distrutto, ci si occupò di sottomettere la nuo-
va società ad altre costruzioni artificiali, sempre partendo
da quel punto comune: l’onnipotenza della legge.
Saint-Just16: «Il legislatore decide il futuro. È suo compito vole-
re il bene. Sta a lui fare degli uomini ciò che vuole che essi siano.»
Robespierre17: «La funzione del governo è di dirigere le forze
fisiche e morali della nazione verso lo scopo che si prefigge.»
Billaud-Varennes18: «È necessario ricreare il popolo che si vuo-
le rendere libero. Poiché è necessario distruggere le vecchie super-
stizioni, cambiare le antiche abitudini, perfezionare le tendenze
depravate, restringere i bisogni superflui, estirpare i vizi inerti; è
necessario dunque un’azione forte, un impulso veemente… Citta-
dini, l’inflessibile austerità di Licurgo divenne a Sparta l’incrolla-
bile fondamento della Polis; il carattere debole e fiducioso di Solone
fece sprofondare Atene nella schiavitù. Questo parallelo racchiude
tutta la scienza del governare.»
Lepelletier19: «Considerando fino a che punto la specie umana

16  Louis Antoine Léon de Saint-Just (1767-1794) fu uno dei leader dei giacobini durante la
Rivoluzione e braccio destro di Robespierre; venne giustiziato dopo la caduta del regime del
Terrore (NdT)
17  Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre (1758-1794) fu uno dei leader dei gia-
cobini durante la Rivoluzione e divenne il de facto dittatore della Francia durante il Terrore,
fino a essere rovesciato e giustiziato (NdT)
18  Jacques Nicolas Billaud-Varennes (1756-1819) fu uno dei leader dei giacobini durante la Ri-
voluzione e protagonista del Terrore per poi contribuire egli stesso alla caduta di Robespierre;
venne brevemente deportato e incarcerato in Guyana e morì in esilio ad Haiti (NdT)
19  Louis-Michel le Pelletier, marchese di Saint-Fargeau (1760-1793) fu tra i primi leader della
Rivoluzione francese; fu assassinato da un membro della Guardia Reale dopo aver votato per

76
è degenerata, mi sono convinto della necessità di operare un’intera
rigenerazione di essa e, se posso esprimermi in questi termini, di
creare un nuovo popolo.»
Come possiamo vedere, gli individui non sono altro che
dei vili materiali. Non sta a loro volere il bene, è compito del
legislatore, secondo Saint-Just. Gli individui non sono altro
che quello che egli vuole che siano.
Secondo Robespierre, che copia completamente Rousse-
au, il legislatore inizia la sua attività con lo stabilire l’obiet-
tivo nazionale. In seguito, i governi non devono far altro
che dirigere verso questo obiettivo tutte le forze fisiche e
morali. La nazione stessa resta sempre passiva in tutto ciò,
e Billaud-Varennes ci insegna che essa non deve avere al-
tro che i pregiudizi, le abitudini, le passioni e i bisogni che
il legislatore autorizza. Giunge ad affermare che l’austerità
inflessibile di un individuo è la base della società intera.
Abbiamo visto come, nel caso in cui il male è così gran-
de che i normali magistrati non possono rimediarvi, Mably
consigli la dittatura per far fiorire la virtù. «Fate ricorso,
dice lui, a una magistratura straordinaria, che sia tempora-
nea e di una potenza considerevole. L’immaginazione dei
cittadini ha bisogno di essere intimorita.» Questa dottrina
non è stata dimenticata. Sentiamo Robespierre:
«Il principio del governo repubblicano è la virtù e il suo mezzo,
attraverso cui si stabilisce, è il terrore. Noi vogliamo sostituire, nel
nostro Paese, l’egoismo con la morale, l’onore con la rettitudine, le
tradizioni con i principi, il decoro con i doveri, la tirannia dell’uni-
formità con l’impero della ragione, il disprezzo della sventura con
l’esecuzione di re Luigi XVI (NdT)

77
il disprezzo del vizio, l’insolenza con l’orgoglio, la vanità con la
grandezza d’animo, l’amore per il denaro con l’amore per la gloria,
la buona compagnia alla brava gente, l’intrigo con il merito, una
frase arguta con il genio, la brillantezza con la verità, gli affanni
del piacere con il fascino della felicità, la piccolezza dei grandi con
la grandezza dell’uomo, un popolo vanaglorioso, frivolo e mise-
rabile con un popolo magnanimo, potente e felice; vogliamo cioè
sostituire tutti i vizi e le assurdità della monarchia con le virtù e i
miracoli della Repubblica.»
A che altezza sopra l’umanità si colloca qui Robespierre!
E ricordati le circostanze in cui scrive.
Non si limita ad esprimere la voglia di un grande rinno-
vamento del genere umano; non si aspetta nemmeno che
esso derivi da un governo regolare. No, lui stesso vuole agi-
re e operare tramite il terrore. Il discorso, da dove è tratto
questo puerile e laborioso ammasso di antitesi, aveva per
oggetto l’esposizione dei principi della morale che devono
guidare un governo rivoluzionario.
Ricordati che, se Robespierre auspica una dittatura, non è
solamente per respingere lo straniero e combattere le fazio-
ni interne; è piuttosto per far trionfare attraverso il terrore,
e a spese della Costituzione, i propri principi morali. La sua
pretesa non è altro che estirpare dal Paese, con il terrore,
l’egoismo, l’onore, le usanze, le proprietà, la moda, la vani-
tà, l’amore per il denaro, l’alta società, l’intrigo, la sagacia,
la sensualità e la miseria. Solo dopo che Robespierre avrà
compiuto tali miracoli - come giustamente li chiama lui -
egli permetterà alle leggi di riprendere il comando - Eh!
Uomini miserabili, che vi credete così grandi, che giudicate

78
l’umanità così piccola, che volete riformare tutto; riformate
voi stessi, questo compito vi è più che sufficiente.
Tuttavia, in generale, i signori riformatori, legislatori e
intellettuali non domandano di esercitare sugli individui
un dispotismo immediato. No, essi sono troppo moderati e
troppo filantropi per abbassarsi a ciò. Non chiedono altro
che il dispotismo, l’assolutismo e l’onnipotenza della Legge.
Aspirano semplicemente a creare la Legge.
Per mostrare quanto sia stata condivisa questa strana
idea in Francia, così come avrei dovuto riportare per intero
i testi di Mably, Raynal, Rousseau, Fénelon, e lunghi brani
di Bossuet e Montesquieu, avrei anche dovuto trascrivere
tutti i verbali delle sedute della Convenzione. Mi asterrò
dal farlo e rimando il lettore a questi testi.
Si può immaginare quanto tale idea sia piaciuta anche a
Napoleone Bonaparte. Egli l’abbracciò con ardore e la mise
energicamente in pratica. Considerandosi un chimico, vide
l’Europa come una materia da esperimenti. Ma ben presto
questa materia si manifestò come un reagente potente. Per
tre quarti disilluso, Bonaparte, a Sant’Elena, sembrò rico-
noscere che vi sia una qualche iniziativa nei popoli, e si
mostrò meno ostile alla libertà. Ciò non gli impedì, tuttavia,
di dare nel suo testamento questa lezione a suo figlio: «Go-
vernare è diffondere la moralità, l’istruzione e il benessere.»
È necessario ora far vedere tramite citazioni noiose da

79
dove i celebri socialisti Morelly20, Babeuf21, Owen22, Saint-Si-
mon23, Fourier24 hanno tratto le loro idee? Mi limiterò a sot-
toporre al lettore qualche estratto dal libro sull’organizza-
zione del lavoro di Louis Blanc25.
«Nel nostro progetto, la società riceve la sua forza dal potere».
A cosa serve la forza che il potere dà alla società? Ad im-
porre il progetto del signor Blanc.
D’altra parte, la società, è il genere umano.
Dunque, in definitiva, il genere umano riceve la forza dal
signor Blanc.
Libero di farlo, diremo noi. Senza dubbio il genere uma-
no è libero di seguire i consigli di chicchessia. Ma non è
così che Blanc intende la cosa. Lui ritiene che il suo progetto
debba essere convertito in Legge, e di conseguenza imposto
con la Forza dal governo.
«Nel nostro progetto, lo Stato non fa altro che donare una le-
gislazione al lavoro (scusate l’eufemismo), in virtù della quale il
movimento industriale può e deve compiersi in totale libertà. Esso

20  Étienne-Gabriel Morelly (1717-1778), filosofo e scrittore francese, fra i precursori delle
teorie socialiste (NdT)
21  François-Noël “Gracchus” Babeuf (1760-1797), giornalista e politico francese, promotore
di teorie egualitariste e proto-socialiste. Fu giustiziato per il suo coinvolgimento nella Congiura
degli Eguali (NdT)
22  Robert Owen (1771-1858), inventore, imprenditore e sindacalista gallese, fu una delle figu-
re più rilevanti del cosiddetto “socialismo utopico” (NdT)
23  Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825), filosofo francese considerato
il fondatore del socialismo utopico francese (NdT)
24  François Marie Charles Fourier (1772-1837), filosofo francese e tra i principali rappresen-
tanti del socialismo utopico (NdT)
25 Louis Blanc (1811-1882), politico e storico francese, fu tra i più importanti socialisti
pre-marxisti (NdT)

80
[lo Stato] non fa altro che piazzare la libertà su un pendio (niente
di più) e, una volta posta lì, per la semplice forza delle cose e per
una conseguenza naturale del meccanismo stabilito, essa non può
che discendere.»
Ma qual è questo pendio? - Quello indicato da Blanc.
Non conduce forse all’abisso? - No, conduce alla felicità.
Allora perché la società non lo fa già da sola? - Perché non
sa quello che vuole e non sa nemmeno che ha bisogno di
una forza in più.
Chi darà questa forza? - Il potere.
E chi darà questa forza al potere? - L’inventore del mecca-
nismo, il signor Louis Blanc.

Il Circolo Vizioso della Politica


Non si riesce mai ad uscire da questo ragionamento cir-
colare: l’idea che la società sia un soggetto passivo e che ci
debba essere un Uomo della Provvidenza che la dirige grazie
alla Legge.
Una volta posta su questo pendio, la società gioverà di
qualche libertà? - Senza dubbio.
E qual è questa libertà?
«Diciamocelo una volta per tutte: la libertà consiste non solo
nel diritto accordato, ma nel potere dato all’uomo di esercitare, di
sviluppare le sue capacità, sotto il governo della giustizia e sotto la
salvaguardia della legge.»
«E questa non è una distinzione vana: il senso è profondo, le
conseguenze immense. Poiché non si ammette che l’uomo abbia

81
bisogno, per essere veramente libero, del potere di esercitare e di
sviluppare le sue capacità, ne risulta che la società debba dare a
ognuno dei suoi membri l’istruzione utile, senza la quale lo spirito
umano non può dispiegarsi e gli strumenti di lavoro, senza i quali
l’attività umana non può dirsi libera. Ora, attraverso chi agirà la
società per dare ai propri membri l’istruzione utile e gli strumenti
necessari, chi se non lo Stato?»
Dunque, la libertà è il potere.
E in cosa consiste il Potere? - Nel possedere l’istruzione e
gli strumenti di lavoro.
Chi darà l’istruzione e gli strumenti di lavoro? - Deve far-
lo la società.
Attraverso l’intervento di chi la società darà gli strumenti
di lavoro a coloro che non li possiedono? - Attraverso l’in-
tervento dello Stato.
A chi li prenderà lo Stato?
Sta al lettore dare una risposta e vedere dove conduce tut-
to questo ragionamento.
Uno dei fenomeni più strani dei nostri tempi, e che stu-
pirà probabilmente molti dei nostri nipoti, è che la dottri-
na che si fonda su questa triplice ipotesi (l’inerzia radicale
dell’umanità - l’onnipotenza della Legge - l’infallibilità del
legislatore) sia il simbolo sacro del partito che si proclama
esclusivamente democratico.
È vero che tale partito si proclama anche sociale.
In quanto democratico ha una fede senza limiti nell’uma-
nità.
In quanto sociale, la mette al di sotto del fango.

82
Se si tratta di diritti politici, se si tratta di tirar fuori un le-
gislatore, oh! allora, secondo tale partito, il popolo conosce
istintivamente ogni cosa; è dotato di un tatto ammirevole;
la sua volontà è sempre giusta, la volontà generale non può
essere in errore. Il suffragio non potrebbe essere più uni-
versale di così. Nessuno deve alla società alcuna garanzia.
La volontà e la capacità di scegliere bene sono sempre con-
siderate. Può il popolo sbagliarsi? Non siamo noi nel secolo
dei Lumi? E dunque! Il popolo sarà eternamente sotto tu-
tela? Non ha forse conquistato i suoi diritti con abbastanza
sforzi e sacrifici? Non ha dato abbastanza prove della sua
intelligenza e della sua saggezza? Non è forse arrivato alla
maturità? Non è nello stato di poter giudicare per sé stesso?
Non conosce i suoi interessi? C’è un individuo o una classe
che osi rivendicare il diritto di sostituirsi al popolo, di deci-
dere e di agire al posto suo? No, no, il popolo vuole essere
libero, e lo sarà. Vuole dirigere i propri affari, e li dirigerà.
Ma una volta che il legislatore si è liberato dei comizi
elettorali durante le elezioni, allora il suo linguaggio cam-
bia. La nazione rientra nella sua passività, nell’inerzia, nel
nulla, e il legislatore prende possesso dell’onnipotenza. A
lui l’inventiva, a lui la direzione, a lui la forza, a lui l’orga-
nizzazione. L’umanità non deve far altro che sottomettersi;
l’ora del dispotismo è arrivata. E si noti che ciò è inevitabile;
perché questo popolo, poco prima così illuminato, così mo-
rale, così perfetto, non ha più nessuna di queste tendenze, o,
se le possiede ancora, esse lo trascinano verso il degrado. E
gli si dovrebbe lasciare un po’ di libertà?! Forse non sai che,

83
secondo il signor Considérant26, la libertà conduce fatalmente
al monopolio.
Siamo d’accordo nel dire che la libertà è concorrenza. Ma
la concorrenza, seguendo le idee socialiste del signor Blanc,
non è forse un sistema di sterminio per il popolo e una cau-
sa di rovina per i cittadini? Ed è colpa della concorrenza che
più i popoli sono liberi più essi vengono rovinati, testimoni
la Svizzera, l’Olanda, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Sempre
secondo il signor Blanc, la concorrenza conduce al mono-
polio, e i prezzi bassi del libero mercato si trasformeranno
in prezzi alti. Non sai che la concorrenza tende a esauri-
re le fonti naturali? Non sai che la concorrenza obbliga la
società a produrre e impedisce di consumare? Da questo
ragionamento segue che i popoli liberi producono per non
consumare. Tale concorrenza è allo stesso tempo oppressio-
ne e pazzia, per cui è assolutamente necessario che il signor
Blanc se ne occupi... sempre secondo il signor Blanc.
Quale libertà, dunque, si potrebbe lasciare agli individui?
Sarà la libertà di coscienza? Ma i cittadini si approfitterebbe-
ro di tale permissività per farsi tutti atei. La libertà di inse-
gnamento? Ma i padri si affretterebbero a pagare professori
per insegnare ai loro figli l’immoralità e l’errore; d’altronde,
ascoltando il signor Thiers27, se l’insegnamento venisse tol-
to dalle mani dello Stato cesserebbe di essere nazionale, e
noi insegneremmo ai nostri giovani le idee dei Turchi o de-
gli Indù, e invece, grazie al dispotismo legale delle univer-

26  Victor Prosper Considerant (1808-1893), filosofo ed economista francese, discepolo di


Charles Fourier e socialista utopico egli stesso (NdT)
27  Marie Joseph Louis Adolphe Thiers (1797-1877), politico e storico francese, divenne in
seguito il primo Presidente della Terza Repubblica Francese (NdT)

84
sità, essi hanno la fortuna di poter studiare (solo) le nobili
idee dei Romani.
La libertà di lavoro? Ma questo significherebbe concor-
renza, la quale rovinerebbe il popolo.
La libertà di scambio? Ma si sa bene, i protezionisti han-
no dimostrato che un individuo si rovina quando scambia
liberamente e che, se vuole arricchirsi, è necessario che
scambi senza la sua libertà.
La libertà di associazione? Ma, secondo la dottrina socia-
lista, libertà e associazione si escludono, poiché si aspira a
togliere all’individuo la sua libertà proprio per obbligarlo
ad associarsi.
Ti accorgerai dunque che i socialisti democratici, anche
con le migliori intenzioni, non possono lasciare agli indivi-
dui nessuna libertà, poiché ritengono che la natura umana
tenda sempre verso una sorta di degenerazione e degrada-
zione morale. Per questo motivo, ritengono di dover porre
rimedio a questa disastrosa tendenza.
Questa linea di pensiero ci porta a una domanda provo-
catoria: se il popolo è così incapace, così immorale e così
ignorante come i socialisti indicano, allora perché difendo-
no con così tanta insistenza il suffragio universale?

L’Idea del Politico Onnipotente


Le pretese dei pianificatori sollevano un’altra domanda,
che ho posto spesso, e alla quale non mi hanno mai rispo-
sto. Se le tendenze naturali dell’umanità sono così mal-
vagie al punto che non è sicuro permettere alle persone

85
di essere libere, per quale motivo le tendenze dei politici
dovrebbero essere sempre buone?
I legislatori e i loro funzionari non appartengono an-
ch’essi alla specie umana? O si credono diversi dal resto
dell’umanità?
Dicono che la società, abbandonata a sé stessa, corra ver-
so un profondo precipizio senza potersi fermare, perché la
sua natura è perversa. Pretedono di fermarla dal gettarsi
nel precipizio e di indirizzarla su una via migliore. Hanno
dunque ricevuto dal Cielo un’intelligenza e delle virtù che
li pongono al di sopra dell’umanità; se questo è vero, che ci
mostrino i loro titoli.
Vogliono essere pastori, e vogliono che noi siamo greg-
gi. Questo sistema presuppone in loro una superiorità di
natura, di cui noi abbiamo tutto il diritto di richiederne
una prova preliminare.
Si noti che ciò che io contesto loro, non è tanto il diritto
di inventare delle combinazioni sociali da sperimentare, di
diffonderle, di consigliarle, di sperimentarle su loro stessi,
a loro rischio e pericolo; quanto il diritto di imporcele a noi
tramite la Legge, cioè attraverso la Forza e con i soldi dei
contribuenti.
Io non domando che i Cabetisti28, i Fourieristi, i Proudho-
niani 29, gli Universitari, i Protezionisti rinuncino alle loro
idee particolari. Chiedo soltanto che rinuncino a quell’idea

28  Seguaci di Étienne Cabet (1788-1856), politico francese, tra i protagonisti del socialismo
utopico e fra i primi a diffondere il termine “comunismo” (NdT)
29  Seguaci di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), filosofo, economista e sociologo francese,
fra i principali teorici dell’anarchismo (NdT)

86
di assoggettarci con la Forza ai loro gruppi e categorie, alle
loro industrie statali, alla loro banca “libera”, ai loro codici
morali greci e romani, ai loro vincoli commerciali. Quel che
chiedo loro, è di lasciarci la possibilità di giudicare i loro
piani e di non parteciparvi, direttamente o indirettamente,
se constatiamo che essi vanno contro i nostri interessi, o se
ripugnano alla nostra coscienza.
Questo perché la pretesa di far intervenire il potere e la
tassazione (già abbastanza oppressiva e depredatrice) im-
plica anche questa ipotesi fatale: il pianificatore è infalli-
bile e l’umanità è incapace.
E se l’umanità è davvero incapace di giudicare per sé
stessa, perché ci parlano di suffragio universale?
Questa contraddizione di idee si è purtroppo estesa ai fat-
ti, e anche se il popolo francese ha anticipato tutti gli altri
nella conquista dei suoi diritti, o meglio delle sue garanzie
politiche, è tuttavia rimasto il più governato, diretto, ammi-
nistrato, tassato, ostacolato e sfruttato di tutta l’Europa.
È anche quello dove le rivoluzioni sono più necessarie, e
così dev’essere.
E sarà sempre così, finché i nostri politici sosterranno l’i-
dea del signor Blanc: «La società riceve la forza del potere».
In questo modo considereremo gli individui come esseri
passivi, incapaci di elevarsi, con la propria intelligenza e
con la propria energia, a qualsiasi morale, a qualsiasi be-
nessere, e ridotti ad aspettarsi tutto dalla Legge. Non appe-
na essi ammettono che i loro rapporti con lo Stato sono gli
stessi del gregge con il pastore, è chiaro che la responsabili-
tà dei politici al potere è immensa.

87
Bene e male, vizi e virtù, uguaglianza e disuguaglianza,
ricchezza e miseria, tutto è determinato da chi è al potere. Il
potere si occupa di tutto, intraprende tutto, fa tutto; quindi
è responsabile di tutto.
Se siamo felici, giustamente lo Stato reclama la nostra
gratitudine; ma se siamo infelici, possiamo accusarlo di es-
serne responsabile. Non dispone forse, in linea di principio,
delle nostre persone e dei nostri beni? La Legge non è on-
nipotente?
Nel creare il monopolio scolastico, lo Stato si è preso in
carico di rispondere alle speranze dei genitori privati del-
la libertà; e se queste speranze vengono deluse, di chi è la
colpa?
Regolando l’industria, lo Stato ha assunto la responsabili-
tà di farla prosperare, altrimenti sarebbe stato assurdo pri-
varla della sua libertà; e se invece l’industria statale soffre,
di chi è la colpa?
Interferendo con la bilancia commerciale, inserendo vari
dazi, lo Stato vuole far fiorire l’economia; e se, anziché fiori-
re, l’economia muore, su chi ricade la responsabilità?
Concedendo agli armatori navali la protezione statale in
cambio della loro libertà, la Legge si è preoccupata di ren-
dere il loro settore redditizio; e se invece diminuiscono gli
affari, di chi è la colpa?
Così, non c’è problema nella nazione del quale lo Stato
non si sia reso volontariamente responsabile. C’è quindi da
stupirsi se qui ogni sofferenza è causa di rivoluzione qui in
Francia?
E quale soluzione viene proposta? Viene detto di esten-

88
dere indefinitamente il dominio della Legge, cioè aumenta-
re il potere dello Stato.
Ma se lo Stato assume il compito di aumentare e regolare
i salari, e non riesce a farlo; se assume il compito di rimedia-
re a tutte le disgrazie, e non riesce a farlo; se assume il com-
pito di assicurare pensioni a tutti i lavoratori, e non riesce a
farlo; se si impegna a fornire strumenti di lavoro a tutti gli
operai e non riesce a farlo; se si impegna a concedere presti-
ti gratuiti a tutti coloro che ne hanno bisogno, e non riesce
a farlo; se, con le parole che abbiamo visto con rammarico
sfuggire alla penna del signor de Lamartine, «lo Stato si dà
la missione di illuminare, sviluppare, allargare, fortificare,
spiritualizzare e santificare l’anima del popolo», e fallisce;
non vediamo forse che dopo ogni delusione (ahimè! più che
probabile) c’è una rivoluzione non meno inevitabile?
Riprendo la mia tesi e affermo: la domanda che dobbiamo
assolutamente porci è dove si trova il confine tra scienza
economica e scienza politica?

Il Vero Scopo della Legislazione


La scienza economica deve essere sviluppata prima che
la scienza politica possa essere formulata logicamente. Es-
senzialmente, l’economia è la scienza che determina se gli
interessi dei cittadini sono in armonia o in contrasto fra
loro. È necessario sapere questo prima che la scienza politi-
ca fissi i doveri dello Stato.
Subito dopo lo sviluppo della scienza economica, e pro-
prio all’inizio della formulazione della scienza politica, si

89
deve rispondere a queste importantissime domande:
Cos’è la Legge? Cosa deve essere? Qual è il suo dominio?
Quali sono i suoi limiti? Dove si fermano, di conseguenze,
le competenze del legislatore?
Non esito a rispondere: il Diritto è la Forza comune organiz-
zata per impedire l’ingiustizia o, per dirla in breve, LA LEGGE
È LA GIUSTIZIA.
Non è vero che il legislatore ha un potere assoluto sulle
nostre persone e sulle nostre proprietà, poiché questi esi-
stono anche senza l’aiuto del legislatore e la Legge deve li-
mitarsi a fornirli di garanzie.
Non è vero che la Legge ha la missione di governare le
nostre coscienze, le nostre idee, le nostre volontà, la nostra
educazione, i nostri sentimenti, il nostro lavoro, i nostri
scambi, i nostri doni e i nostri divertimenti.
La sua missione è di impedire che qualunque persona
possa violare il diritto di un’altra persona a usufruire dei
propri diritti.
Dato che ha la necessaria forza della coercizione, la Leg-
ge non può che avere come dominio legittimo quello della
forza legittima, cioè la giustizia.
E poiché ogni individuo ha il diritto di usare la forza solo
per autodifesa, la forza collettiva, che è semplicemente l’u-
nione di forze individuali, non può essere giustamente ap-
plicata a nessun altro fine.
La Legge è quindi solo l’organizzazione del preesistente
diritto individuale di autodifesa.
La Legge è la giustizia.

90
Il compito della legge non è quello di opprimere le per-
sone o di spogliarle della loro proprietà, anche se è per
scopi filantropici. Il suo compito è quello di proteggere le
persone e le loro proprietà.
E non si dica che la Legge può essere quantomeno filan-
tropica, finché si astiene da ogni oppressione, da ogni estor-
sione: sarebbe contraddittorio. E se la Legge agisce in molti
modi tranne che per proteggere le persone e le loro pro-
prietà, allora la sua azione viola necessariamente la libertà
delle persone e il loro diritto di proprietà.
La Legge è la giustizia.
Questa affermazione è chiara, semplice, perfettamente
definita e delimitata, accessibile a ogni intelligenza, visibile
a ogni occhio, perché la giustizia è una quantità data, im-
mutabile, inalterabile, che non ammette né se né ma.
Rendi la Legge religiosa, fraterna, egualitaria, filantropi-
ca, industriale, letteraria, artistica, e subito sei nell’infinito,
nell’incerto, nell’ignoto, nell’utopia imposta, o, quel che è
peggio, nella moltitudine di utopie che lottano per impa-
dronirsi della Legge e per imporsi; perché la fraternità, la
filantropia, non hanno limiti fissi come la giustizia. Dove ti
fermerai? Dove si fermerà la legge?
Uno, come il signor de Saint-Cricq30, estenderà la sua fi-
lantropia solo ad alcune classi di industriali, e chiederà alla
Legge di controllare i consumatori per fare gli interessi dei pro-
duttori.
Un altro, come il signor Considérant, sposerà la causa dei
30  Pierre Laurent Barthélemy François Charles de Saint-Cricq (1772-1854), politico francese,
fu ministro del Commercio sotto Carlo X ma aderì poi alla monarchia di Luigi Filippo (NdT)

91
lavoratori ed esigerà per loro dalla Legge un reddito minimo
garantito, vestiti, alloggio, cibo e tutto il necessario per il
sostentamento della vita.
Un terzo, il signor Blanc, dirà che questo minimo è solo
una solidarietà approssimativa e che la Legge deve dare a
tutti anche istruzione e strumenti di lavoro.
Un quarto farà notare che una tale disposizione lascia an-
cora spazio alla disuguaglianza, e che la Legge deve porta-
re il lusso, la letteratura e le arti nelle zone più remote.
Saremo così condotti sulla strada per il comunismo, o piut-
tosto la legislazione sarà... ciò che è già: il campo di batta-
glia di tutte le fantasticherie e di tutti i desideri sfrenati.
La Legge è la giustizia.
In questo perimetro si concepisce uno Stato semplice e
con fondamenta solide. E sfido chiunque a dirmi da dove
possa venire il pensiero di una rivoluzione, di un’insurre-
zione, di una semplice rivolta contro una forza pubblica che
si limita a reprimere l’ingiustizia.
In un tale sistema, ci sarebbe maggiore benessere e que-
sto sarebbe più equamente distribuito. E per quanto riguar-
da le sofferenze che sono inseparabili dall’umanità, nessu-
no penserebbe di incolpare lo Stato, che sarebbe estraneo a
esse come lo è alle variazioni di temperatura.
Abbiamo mai visto il popolo insorgere contro la corte di
cassazione o irrompere nel tribunale del giudice di pace per
chiedere salari minimi, prestiti senza interessi, strumenti
di lavoro, dazi, o la statalizzazione delle aziende? Il popolo
sa bene che queste cose sono al di là del potere del giudice,
e imparerebbe ugualmente che sono al di là del potere della

92
Legge.
Ma se costruiamo la Legge sul principio di fraternità, pro-
clamiamo che da essa derivano il bene e il male, che essa è
responsabile di tutte le disuguaglianze sociali, come conse-
guenza apriremo la porta a una serie infinita di lamentele,
odi, disordini e rivoluzioni.
La Legge è la giustizia.
E sarebbe molto strano se potesse essere qualcos’altro!
La giustizia non include forse la Legge? I diritti non sono
uguali? Come può dunque la Legge intervenire per sotte-
mettere il singolo cittadino alle pianificazioni sociali dei si-
gnori Mimerel, de Melun, Thiers, Louis Blanc, piuttosto che
sottomettere questi signori ai piani del cittadino?
Pensi che un libero cittadino non abbia ricevuto abba-
stanza immaginazione dalla natura per inventare anch’egli
un’utopia? È il ruolo della Legge fare una scelta tra tante
fantasie e mettere la forza pubblica al servizio di una di
esse?
La Legge è la giustizia.
E non si dica, come si fa costantemente, che la Legge sareb-
be così atea, individualista e senza cuore; che finirebbe per
plasmare l’umanità a sua immagine e somiglianza. Questa
è una deduzione assurda, degna dell’ossessione statalista
che vede l’umanità sottomessa da una Legge onnipotente.
Assurdo! Allora, poiché siamo liberi, dobbiamo smettere
di agire? Poiché non riceviamo una spinta della Legge, dob-
biamo essere privi di qualsiasi spinta? Poiché la Legge si
limita a garantirci il libero esercizio delle nostre capacità, le
nostre capacità vengono colpite dall’ozio? Se la Legge non ci

93
impone forme di religione, modi di associazione, metodi di
insegnamento, metodi di lavoro, direzioni di scambio, piani
di carità, ne consegue che dobbiamo necessariamente pre-
cipitare nell’ateismo, nell’isolamento, nell’ignoranza, nella
miseria e nell’egoismo? Ne consegue che non sappiamo più
riconoscere la potenza e la bontà della nostra Fede, non sia-
mo più capaci di associarci tra noi, aiutarci a vicenda, ama-
re e aiutare i nostri fratelli sfortunati, studiare i segreti della
natura, aspirare alla perfezione del nostro essere?
La Legge è la giustizia.
Ed è sotto la Legge della giustizia, sotto il regno del Dirit-
to, sotto l’influenza della Libertà, della sicurezza, della sta-
bilità e della responsabilità che ogni individuo raggiungerà
il suo pieno valore, la vera dignità del suo essere. Ed è sotto
la Legge della giustizia che l’umanità raggiungerà, lenta-
mente ma con certezza, il progresso, che è il suo destino.
Mi sembra di avere la teoria dalla mia parte; perché qua-
lunque questione io sottoponga al ragionamento, sia essa
religiosa, filosofica, politica o economica; sia essa una que-
stione di benessere, morale, uguaglianza, diritto, giustizia,
progresso, responsabilità, solidarietà, proprietà, lavoro,
scambio, capitale, salario, tasse, popolazione, credito o go-
verno; ovunque nell’orizzonte scientifico io ponga il punto
di partenza delle mie ricerche, arrivo sempre al seguente
risultato: la soluzione del problema sociale si può trovare
solo nella Libertà.
E non ho anche l’esperienza dalla mia parte? Guardati in-
torno, guarda il mondo intero.
Quali sono i popoli più felici, più morali, più pacifici?

94
Quelli in cui la Legge interferisce meno nell’attività pri-
vata; dove lo Stato si fa sentire meno; dove l’individuo ha
più spazio e l’opinione pubblica più influenza. Sono quel-
li in cui la macchina amministrativa è meno estesa e meno
complicata; dove le tasse sono meno pesanti e meno inique;
dove il malcontento popolare è meno agitato e meno giusti-
ficabile; dove la responsabilità degli individui e delle classi
è la più attiva, e dove, di conseguenza, se la morale non è
perfetta, tende a correggersi; dove le transazioni, i contratti
e le associazioni sono meno ostacolate; dove il lavoro, il ca-
pitale e la popolazione subiscono meno spostamenti artifi-
ciali; dove l’umanità obbedisce maggiormente alla propria
inclinazione naturale; dove la Fede prevale sulle invenzioni
umane. In breve, sono quei popoli che più si avvicinano
al seguente principio: tutto ciò che rientra nei limiti della
giustizia può essere raggiunto con l’azione libera e spon-
tanea dell’individuo; niente deve essere raggiunto trami-
te la Legge o la Forza se non la Giustizia Universale.
Bisogna dirlo: ci sono troppi grandi individui nel mondo.
Ci sono troppi legislatori, pianificatori, creatori di società,
capi del popolo, padri della patria, eccetera. Ci sono troppe
persone che si pongono al di sopra dell’umanità per gover-
narla, troppe persone che si fanno carico di occuparsene.
La gente mi dirà: «Anche tu che ne parli tanto ti comporti
come quella gente».
Questo è vero. Ma bisogna ammettere che lo faccio in un
senso molto diverso e da un punto di vista molto diverso.
E se mi metto insieme ai riformisti è solo per convincerli a
lasciare il popolo in pace.

95
Non mi rivolgo al popolo nello stesso modo in cui Vau-
canson, lo scienziato che crea macchine, guarda il suo auto-
ma, ma come un fisiologo che guarda l’organismo umano:
per studiarlo e ammirarlo.
Il mio atteggiamento verso gli altri è ben illustrato dalla
seguente storia di un famoso viaggiatore: arrivò in una tri-
bù selvaggia dove era appena nato un bambino. Una folla
di indovini, stregoni e ciarlatani lo circondava, armata di
anelli, ganci e bende. Uno di loro disse: «questo bambino
non sentirà mai il profumo della pipa se non gli allargo le
narici». Un altro disse: «Sarà privato del suo senso dell’udi-
to se non gli tiro le orecchie fino alle spalle». Un terzo: «non
vedrà la luce del sole, se non do ai suoi occhi una direzione
obliqua». Un quarto: «non starà mai in piedi, a meno che io
non gli pieghi le gambe». Un quinto: «non sarà in grado di
pensare, a meno che io non gli comprima il cervello».
«Indietro», disse il viaggiatore, «la Natura compie bene la
sua opera; non pretendete di sapere più voi di quello che fa,
e poiché ha dato degli organi a questa fragile creatura, la-
sciate che i suoi organi si sviluppino e si rafforzino attraver-
so l’esercizio, le prove e gli errori, l’esperienza e la libertà».
Dio ha posto dentro l’umanità tutto ciò che è necessario
affinché possa compiere il suo destino. Esiste una fisiologia
sociale provvidenziale così come esiste una fisiologia uma-
na provvidenziale. Anche gli organi sociali sono costituiti
in modo tale da svilupparsi armoniosamente all’aria aperta
della libertà. Via, dunque, i ciarlatani e i pianificatori! Via i
loro anelli, le loro catene, i loro ganci, le loro tenaglie! Via i
loro metodi artificiali! Via le loro aziende pubbliche, i loro

96
centri sociali, il loro statalismo, la loro centralizzazione, i
loro dazi, le loro università, le loro religioni di stato, le loro
banche “libere” o le loro banche monopolizzate, i loro tagli,
le loro restrizioni, la loro moralizzazione o la loro ugua-
glianza imposta tramite la tassazione!
Dato che tanti sistemi sono stati inutilmente inflitti al cor-
po sociale, finiamo dove avremmo dovuto iniziare: rifiutia-
mo i sistemi, mettiamo finalmente alla prova la Libertà - la
Libertà, che è un atto di Fede nell’opera divina.

97
La Libertà è valida solo per
chi crede in Dio?
di Alessio Cotroneo

All’ultima riga de La Legge troviamo: «la Libertà, che è un


atto di Fede nell’opera divina.»
E, all’interno del testo, il nostro autore nomina varie volte
il Cielo, la Fede e Dio. Un lettore alle prime armi col libe-
ralismo penserà che se la Libertà è legittimata da Dio, in
mancanza di quest’ultimo crolla tutto il castello di carte.
Questo importante grattacapo si risolve abbastanza facil-
mente grazie al lavoro svolto negli ultimi millenni da emi-
nenti pensatori e filosofi. Non è certo un dibattito nato ieri!
Partiamo, però, dal contestualizzare le parole di Bastiat.
Lo stesso autore scrive: «Se la Legge non ci impone forme
di religione [...] ne consegue che dobbiamo necessariamente
precipitare nell’ateismo?»
Da convinto sostenitore dello Stato laico quale era, non
riteneva necessario che i cittadini venissero obbligati a cre-
dere nel suo stesso Dio. Tutto l’opposto: era così credente da
ritenere che le persone dovessero abbracciare la Fede solo
se davvero la sentivano. Ed era così liberale da non imporre
a nessuno le proprie idee, che è proprio ciò che ci aspettia-
mo da un liberale coerente.
Possiamo dedurre, mettendo da parte la Fede di Bastiat,
che non è necessario credere nel Dio dei cristiani per accet-

98
tare quanto scrive ne La Legge.
Viene in nostro soccorso un celebre teologo olandese, Ugo
Grozio (Huig de Groot, in olandese), considerato il padre
del diritto naturale, quello che viene definito giusnaturali-
smo moderno.
Grozio sostiene che queste leggi sono valide indipenden-
temente da Dio, come se Dio non vi fosse.
L’importanza degli studi di Grozio non risiede solo nel
fatto che possiamo credere nella Legge anche se non cre-
diamo in Dio. Il teologo olandese mette in discussione un
concetto che fino ad allora era stato dato per scontato ed era
ritenuto indiscutibile: lo Stato si identifica nel monarca, il
monarca è legittimato da Dio, perciò ogni azione dello Stato
è legittima perché dietro c’è un piano divino.
Se togliamo questo elemento di legittimazione divina,
crolla l’assolutismo. E la questione si fa ancora più interes-
sante: se non possiamo ricondurre a Dio la legittimità del
governo, allora a chi o a cosa la possiamo ricondurre?
A questa domanda risponde indirettamente Bastiat: «Dato
che ogni individuo ha il diritto di difendere, anche con la
forza, la sua Persona, la sua Libertà e la sua Proprietà, allora
più individui hanno tutto il Diritto di consultarsi, accordar-
si e organizzare una Forza comune per provvedere regolar-
mente a questa difesa.»
In altre parole: gli individui si riuniscono e concedono il
potere alle istituzioni per tutelare i propri diritti e la pro-
pria esistenza.
La Libertà, qualora non venga data agli individui da Dio,
rimane una caratteristica intrinseca degli esseri umani ed

99
è valida seguendo due ragionamenti logici diversi: a priori,
perché razionalmente la Libertà è l’unico vero fondamento
dello sviluppo individuale; a posteriori, perché si può osser-
vare che in ogni popolo i cittadini tendono alla Libertà.
Perciò, che il Diritto venga da Dio o dalla biologia non
cambia il risultato: la Libertà, la Persona e la Proprietà sono
il minimo comun denominatore per qualsiasi società che
voglia dirsi non solo liberale, ma anche civile e pacifica.

100
CHE COS’È
L’ECONOMIA?

101
Abbondanza e scarsità
L’economia riguarda i modi in cui gli esseri umani si relazionano
alla scarsità e ne cercano la soluzione. Tuttavia, alcuni politici sostengo-
no idee che incoraggiano la scarsità, forse inconsapevoli. Questi politici
sono armati di buone intenzioni, ma - ahimè - queste non impediscono
di fare danni. In questo capitoletto Bastiat ci ricorda che il ruolo dei poli-
tici è rappresentare la totalità dei cittadini, e ciò è possibile solamente se
li si vede come consumatori.

Che cos’è meglio per i singoli cittadini e per la società:


l’abbondanza o la scarsità?
«Cosa?!», si esclamerà, «Che domanda è mai questa?
Qualcuno ha mai suggerito, o è possibile sostenere, che la
scarsità sia il fondamento del benessere umano?»
Sì, è stato suggerito. È indubbiamente stato sostenuto.
Viene sostenuto tutti i giorni; e non ho paura di dire che la
teoria della scarsità sia di gran lunga la più plausibile. È sulla
bocca di tutti: nelle conversazioni, sui giornali, nei libri, nei
comizi; e per quanto possa sembrare straordinario, è certo
che l’economia politica avrà raggiunto il suo obiettivo ed
esaurito la sua missione pratica, quando avrà reso popolare
e inconfutabile l’idea secondo cui “la ricchezza dell’umani-
tà è l’abbondanza delle cose”.
Non sentiamo forse dire ogni giorno che senza dazi ver-
remmo inondati da prodotti esteri? Dunque, si teme l’ab-

102
bondanza. Il Conte di Saint-Cricq31 non ha forse detto: «si
produce troppo»?
Pertanto, aveva paura dell’abbondanza.
Alcuni operai non vogliono distruggere i macchinari?32
Hanno terrore dell’eccesso di produzione, ovvero dell’ab-
bondanza.
Il Maresciallo Bugeaud33 non ha forse pronunciato que-
ste parole: «se il pane sarà caro, gli agricoltori diventeranno
ricchi!»? Ora, il pane può essere caro solo se è raro; dunque
Bugeaud raccomandava la scarsità.
Il Conte d’Argout34 non ha forse argomentato contro l’in-
dustria dello zucchero sulla base della sua stessa alta pro-
duzione? Non diceva forse: «la barbabietola da zucchero
non ha futuro, e non se ne dovrà estendere la coltivazione,
perché basterebbe dedicare a essa qualche ettaro in ogni
provincia per provvedere al fabbisogno di tutto il Paese»?
Dunque, ai suoi occhi, sterilità e scarsità sono un bene, e
fertilità e abbondanza sono un male.
La Stampa, Il Commercio35 e la maggior parte dei quoti-
diani non pubblicano forse uno o più articoli ogni matti-

31  Pierre Laurent Barthélemy, conte di Saint-Cricq (1772-1854), politico francese. Fu deputa-
to (1815-1822 e 1824-1833), ministro del Commercio (1828-1829) e Pari di Francia (cioè sena-
tore del Regno; 1833-1848).
32  Il riferimento è al luddismo, movimento operaio inglese che nel 1811-1812 (e, sporadica-
mente, anche negli anni successivi) distrusse i macchinari tessili di varie aziende, come forma
di sabotaggio contro la meccanizzazione del lavoro.
33  Thomas Robert Bugeaud, marchese de la Piconnerie e duca d’Isly (1784-1849), militare
francese. Fu Maresciallo di Francia (dal 1843) e Governatore Generale d’Algeria (1841-1847).
Da deputato (1831-1849) sostenne l’introduzione di misure protezionistiche in agricoltura.
34  Antoine Maurice Apollinaire d’Argout (1782-1858), politico francese.
35  La presse e Le Commerce erano quotidiani francesi.

103
na per dimostrare al Parlamento e al Governo che sarebbe
una buona politica quella di aumentare per legge i prezzi
di ogni cosa, attraverso le imposte? Parlamento e Governo
non obbediscono forse tutti i giorni a queste esortazioni da
parte della stampa?
Purtroppo le imposte aumentano il prezzo delle cose solo
perché ne riducono la quantità offerta sul mercato! Dunque, i
giornali, il Parlamento, il Governo sostengono in pratica la
teoria della scarsità; ed ecco dimostrato che questa teoria è
di gran lunga la più popolare.
Com’è possibile che agli occhi dei lavoratori, dei saggisti,
degli uomini di Stato, l’abbondanza sembri pericolosa e la
scarsità vantaggiosa? Proverò a risalire alla fonte di questa
tendenza.
Si può notare che una persona si arricchisce in propor-
zione al profitto che trae dal proprio lavoro, cioè in pro-
porzione al profitto che riesce a procurarsi dal prezzo più
alto possibile alla vendita. E vende a un prezzo più alto in
proporzione alla rarità, alla scarsità del genere di prodotto
che produce col suo lavoro. Qualcuno potrebbe concludere
che, almeno nel suo caso, la scarsità permetta di arricchirsi.
Applicando successivamente questo ragionamento a tutti i
lavoratori, ecco dedotta la teoria della scarsità. E da lì passano
all’applicazione: al fine di favorire i lavoratori, si decide di
provocare artificialmente l’aumento dei prezzi e la scarsità
di ogni cosa attraverso proibizionismo, restrizioni, divieto
nell’impiego di macchinari, e altri mezzi analoghi.
Lo stesso vale per l’abbondanza. Essi osservano che,
quando un prodotto è abbondante, viene venduto a prezzi

104
bassi: dunque il produttore subisce un danno guadagnan-
do meno. Se fosse così per tutti i produttori, tutti sarebbe-
ro miserabili: dunque è l’abbondanza che rovina la società.
Poiché ogni convinzione rimane poco in sospeso prima di
tradursi in atto, in molti Paesi si assiste alla lotta tra le leggi
statali che combattono l’abbondanza delle cose.
Questo errore, esposto in forma generale, forse sembrerà
poca cosa. Tuttavia, applicato a un particolare ordine di fat-
ti, a questo o quel comparto industriale, a un certo gruppo
di lavoratori, è estremamente insidioso, e lo è per questa
ragione: è un sillogismo che non è falso, ma incompleto nella
sua formulazione ed applicazione. Ora, ciò che c’è di vero
in un sillogismo è sempre chiaro ed evidente ad una prima
valutazione. Tuttavia, l’incompletezza è una qualità negativa,
un dato assente, di cui è facilissimo dimenticarsi o non te-
ner conto.
Il cittadino produce per consumare: è al tempo stesso pro-
duttore e consumatore. Ma il ragionamento prima esposto
lo considerava solo sotto il primo di questi due punti di vi-
sta. Sotto il secondo, avrebbe portato alla conclusione op-
posta.
In effetti, si potrebbe dire che il consumatore è tanto più
ricco, quanto più compra ogni cosa al prezzo più basso; e si
può affermare che normalmente ogni consumatore compra
le cose a un prezzo tanto più basso, quanto più esse abbon-
dano. Perciò, l’abbondanza lo arricchisce. E questo ragiona-
mento, abbracciato da tutti i consumatori, porterà alla teoria
dell’abbondanza!
Queste illusioni sono prodotte da una comprensione im-

105
perfetta della nozione di scambio. Se guardiamo al nostro
interesse personale, riconosciamo distintamente che esso è
duplice. Come venditori, il nostro interesse è che i prezzi si-
ano cari, e di conseguenza che ci sia scarsità; come compra-
tori, è preferibile che i prezzi siano bassi, o come equivale
a dire: che le cose siano abbondanti. Non è sensato dunque
basare un ragionamento economico sano su l’uno o l’altro
di questi interessi, non prima di aver riconosciuto quale dei
due coincida e si identifichi con l’interesse primario e per-
manente di ogni essere umano.
Se l’uomo fosse un animale solitario, se lavorasse esclu-
sivamente per sé, se consumasse direttamente il frutto del
suo lavoro – in breve: se non scambiasse – la teoria della
scarsità non sarebbe mai stata introdotta nel mondo. È fin
troppo evidente che l’abbondanza sarebbe per lui un van-
taggio, da qualunque origine fosse tratta: sia come risulta-
to della sua industriosità, di attrezzi ingegnosi, di potenti
macchinari; sia che si dovesse alla fertilità del suolo, alla
generosità della natura, o persino a una misteriosa invasio-
ne di prodotti giunti da un’improvvisa marea e abbandona-
ti sulla spiaggia. L’uomo solitario non penserebbe mai che,
per stimolare e alimentare il proprio lavoro, ci sia bisogno
di distruggere gli strumenti che lo fanno lavorare meno, di
neutralizzare la fertilità del suolo, di ridare al mare i beni
che esso gli ha portato.
Capirebbe facilmente che il lavoro non è uno scopo, ma
un mezzo; e che sarebbe assurdo rifiutare il fine, per pau-
ra di nuocere al mezzo. Capirebbe che, se dedica due ore
del giorno a provvedere ai suoi bisogni, ogni circostanza
(macchina, fertilità, dono gratuito: non importa) che gli ri-

106
sparmia un’ora di questo lavoro, a parità di risultato, mette
quell’ora a sua disposizione; e che può dedicare quest’ora
ad aumentare il suo benessere. Comprenderebbe, in poche
parole, che risparmiare ore di lavoro non è altro che pro-
gresso.
Ma l’esistenza dello scambio rende meno razionale l’opi-
nione di molti su una verità così semplice. Nel complesso
della società, con la divisione del lavoro che essa comporta,
la produzione e il consumo di un oggetto non si uniscono
nello stesso individuo. Ciascuno è portato a vedere nel suo
lavoro non più un mezzo, ma un fine. Lo scambio crea, re-
lativamente ad ogni tipo di attività, due interessi: quello del
produttore e quello del consumatore; e questi due interessi
sono sempre immediatamente opposti.
È dunque essenziale analizzarli, e studiarne la natura.
Prendiamo un produttore qualsiasi: qual è il suo interesse
immediato? Esso consiste in queste due cose: primo, che il
più piccolo numero possibile di persone si dedichi al suo
stesso lavoro; secondo, che il più grande numero possibile
di persone cerchi il prodotto di questo suo lavoro. L’econo-
mia politica lo spiega riassuntivamente in questi termini:
che l’offerta sia molto ristretta e la domanda molto ampia.
O in altri termini ancora: concorrenza limitata, richiesta il-
limitata. Questo, in breve, è il punto di vista del produttore.
Qual è l’interesse immediato del consumatore? Che l’of-
ferta del prodotto in questione sia ampia, e la domanda ri-
stretta.
Dato che questi due interessi si contrastano, uno di essi
deve necessariamente coincidere con l’interesse fondamen-

107
tale generale, e l’altro dovrà essere ostile alle necessità basi-
lari nella società.
Pertanto, qual è l’interesse che la legislazione deve fa-
vorire in quanto espressione del bene pubblico, se pro-
prio deve favorirne uno?
Per saperlo, è sufficiente indagare su quale tra i due ver-
rebbe a trovarsi in una condizione agevolata, se i principali
desideri dell’umanità fossero realizzati.
In quanto produttori, bisogna pur ammetterlo, ciascuno
tra essi potrebbe avere legittimamente dei desideri egoistici.
Siamo viticoltori? Ci importerebbe poco se gelassero tutte
le vigne del mondo, eccetto la nostra: è la teoria della scarsità.
Siamo proprietari di fonderie? Desideriamo che sul merca-
to non ci sia altro ferro che il nostro, a prescindere dal biso-
gno che ne ha la popolazione; il motivo è precisamente nel
fatto che il maggiore bisogno di un bene prodotto, quanto
più vivamente sentito, determina la possibilità di assegnar-
gli un prezzo alto: è ancora la teoria della scarsità. Siamo
contadini? Diciamo, come diceva il Maresciallo Bugeaud:
il pane sia caro (cioè raro), e gli agricoltori faranno buoni
affari: è sempre la teoria della scarsità.
Immagina di essere un medico. Non potresti evitare di
osservare come alcuni miglioramenti nella qualità della
vita, come dell’igiene cittadina, lo sviluppo di certe virtù
morali quali la moderazione e la temperanza, l’avanzamen-
to del progresso culturale fino al punto che ciascuno sappia
prendersi cura della propria salute, o la scoperta di alcuni
rimedi semplici e di facile applicazione, sarebbero colpi fu-
nesti alla tua professione. In quanto medico, i tuoi segreti

108
desideri potrebbero essere antisociali.
Non voglio dire che i medici abbiano dentro di sé questi
desideri. Mi piace pensare che accoglierebbero con gioia la
scoperta di una panacea per tutti i mali; ma in questo sen-
timento non è il medico che si manifesta, bensì l’uomo di
coscienza che, per una nobile abnegazione di sé, si pone dal
punto di vista degli altri, e di sé stesso come consumatore.
Dal momento in cui egli esercita una professione, riponen-
do nel successo di questa professione il suo benessere, la
sua posizione sociale, e persino i mezzi di sussistenza della
propria famiglia, i suoi desideri – o, se si preferisce, i suoi
interessi – saranno inevitabilmente antisociali.
Mettiti nei panni dei fabbricanti di stoffe in cotone. Desi-
derano venderle al prezzo più vantaggioso per loro. Soster-
rebbero senza esitazioni una legge che metta al bando di
tutti i loro concorrenti; e anche se non osano esprimere in
pubblico questo desiderio o perseguire la realizzazione di
simili intenti in modi che siano diretti, tuttavia cercano di
conseguire tali risultati, nella misura possibile, con mezzi
indiretti: per esempio, escludendo i tessuti esteri al fine di
diminuire la quantità offerta, causando tramite l’uso della
forza o della pressione politica un proprio vantaggio, ovve-
ro, in questo caso, la rarità dei capi di vestiario.
Se passassimo in rassegna tutti i settori produttivi, trove-
remmo sempre che i produttori, in quanto tali, hanno vi-
sioni antisociali. «Il mercante», dice Montaigne36, «fa bene
i suoi affari solo grazie alla poca parsimonia dei giovani, il

36  Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), filosofo e saggista francese, noto come autore
degli Essais (“Saggi”).

109
contadino grazie al caro prezzo del grano, l’architetto gra-
zie al crollo delle case, gli ufficiali di giustizia grazie ai pro-
cessi e alle liti fra le persone. La reputazione e la pratica dei
ministri di culto si basano sulla nostra morte e sui nostri
vizi. Nessun medico gode della salute dei suoi stessi amici,
né un soldato della pace della sua città; e così via» .
È facile constatare come i segreti desideri di ogni produt-
tore porterebbero il mondo rapidamente verso la barbarie,
se venissero realizzati. La vela vieterebbe il vapore, il remo
vieterebbe la vela, la barca dovrebbe presto cedere il mo-
nopolio al carro, e questo al mulo, e il mulo al portatore a
spalla. La lana escluderebbe il cotone, il cotone escludereb-
be la lana, e così via, finché la scarsità di ogni cosa farebbe
sparire anche l’umanità dalla faccia della Terra.
Supponi per un momento che il potere legislativo e la for-
za pubblica fossero messi a disposizione del Comitato degli
Industriali37, e che ciascuno dei membri che compongono
quell’associazione avesse la facoltà di presentare e appro-
vare un disegno di legge; è così difficile indovinare a quale
idea di economia verrebbe sottoposta la popolazione?
Ma consideriamo ora l’interesse immediato del consuma-
tore, e troveremo che è in perfetta armonia con l’interes-
se generale, con ciò che il benessere dell’umanità richiede.
Quando l’acquirente si presenta al mercato, desidera tro-
varlo abbondantemente rifornito. Desidera che le stagioni
siano propizie a tutti i raccolti, che invenzioni sempre più
meravigliose mettano alla sua portata un numero sempre
più grande di prodotti e di soddisfazioni, che il tempo e il

37  Comitato analogo alla Confindustria italiana.

110
lavoro siano risparmiati, che le distanze si accorcino, che
lo spirito della pace e della giustizia permetta di diminuire
il peso delle tasse, che cadano le barriere di ogni tipo. In
tutto ciò, l’interesse immediato del consumatore segue in
parallelo la stessa linea dell’interesse pubblico correttamen-
te inteso.
Può spingere i suoi desideri più segreti fino alle manie più
sofisticate, fino all’assurdo, senza che quei desideri smetta-
no di possedere una candida umanità.
Può desiderare che il cibo e il riparo, il tetto e il focolare,
l’istruzione e la moralità, la sicurezza e la pace nel mondo,
la forza e la salute si ottengano senza sforzi, senza lavoro e
senza misura, come la polvere sui sentieri, l’acqua dei tor-
renti, l’aria che ci circonda, la luce che ci inonda; senza che
la realizzazione di tali desideri sia in contraddizione con il
benessere della società.
Si dirà forse che, se questi desideri fossero esauditi, l’o-
pera dei produttori si limiterebbe sempre più, e finirebbe
per cessare perché non alimentata. Ma perché? Perché, in
questo scenario estremo, tutti i bisogni e tutti i desideri im-
maginabili sarebbero completamente soddisfatti.
L’umanità, come Dio onnipotente, creerebbe ogni cosa
per un puro atto di volontà. E qualcuno vorrebbe dirmi, in
questa ipotesi, per quale motivo bisognerebbe avere nostal-
gia della produzione industriale?
Poco fa ipotizzavo un’assemblea legislativa composta da
lavoratori, ognuno dei quali libero di tradurre in legge il
suo desiderio segreto in quanto produttore; e dicevo che il
decreto emanato da questa assemblea avrebbe sicuramente

111
trasformato in un monopolio l’intero sistema: la teoria della
scarsità sarebbe sicuramente messa in pratica.
Allo stesso modo, una Camera dove ciascuno consideras-
se esclusivamente il suo immediato interesse di consuma-
tore, finirebbe per considerare la libertà come fondamen-
tale per il nuovo sistema, la soppressione di tutte le misure
restrittive, la rimozione di tutte le barriere artificiali; in po-
che parole, realizzerebbe la teoria dell’abbondanza.
Da ciò consegue:
● che considerare esclusivamente l’interesse immedia-
to della produzione, significa considerare un interesse anti-
sociale;
● che basarsi esclusivamente sull’interesse immediato
del consumo, significa basarsi sull’interesse generale.
Mi sia permesso di insistere ancora su questo punto di
vista, a rischio di ripetermi.
Esiste un antagonismo radicale tra venditore e acquiren-
te. Uno desidera che l’oggetto della compravendita sia raro,
poco presente sul mercato, ad un prezzo elevato. L’altro si
augura che sia abbondante, molto presente sul mercato, con
un prezzo accessibile.
Le leggi, che dovrebbero almeno essere neutrali, prendo-
no parte per il venditore contro l’acquirente, per il produt-
tore contro il consumatore, per i prezzi cari contro quelli a
buon mercato38, per la scarsità contro l’abbondanza.

38  Il francese (come l’italiano) non ha un sostantivo per esprimere l’idea opposta a quella di
caro (la cheapness). È abbastanza notevole che l’istinto popolare esprima quest’idea con la peri-
frasi: a buon mercato. I protezionisti dovrebbero far qualcosa per cambiare questa espressione:
essa implica un intero sistema economico opposto al loro.

112
Esse agiscono (se non intenzionalmente, almeno logica-
mente) su questo presupposto: una nazione è ricca quando
le manca tutto.
Infatti dicono che è il produttore che bisogna favorire,
assicurando al suo prodotto un buon posto sul mercato.
Per farlo, bisogna aumentare il prezzo; e per aumentare il
prezzo, bisogna restringere l’offerta. Il tentativo di restrin-
gere l’offerta passa ovviamente per la creazione di scarsità.
Supponiamo che, nel mondo attuale, dove queste leggi
hanno tutta la loro forza, si faccia un inventario completo –
non in valore, ma in pesi, misure, volumi, quantità – di tutti
gli oggetti che esistono nel nostro Paese, idonei a soddisfa-
re i bisogni e i gusti dei suoi abitanti: grano, carni, tessuti,
panni, combustibili, cibi provenienti dalle colonie, ecc.
Supponiamo anche che il giorno dopo vengano rimosse
tutte le barriere che si oppongono all’ingresso in Francia di
prodotti esteri.
Infine, per apprezzare il risultato di questa riforma, sup-
poniamo che tre mesi dopo si proceda a un nuovo inventa-
rio.
Non è forse vero che si troverebbe in Francia più grano,
bestiame, tessuti, panni, ferro, carbone, zucchero, ecc., du-
rante il secondo inventario rispetto all’epoca del primo?
Ciò è assolutamente vero: i tanto desiderati dazi protezio-
nistici hanno il solo scopo di impedire il percorso dell’ab-
bondanza, ostacolando l’arrivo di prodotti e possibilità che
sarebbero un vantaggio generale; per questo secondo alcu-
ni è d’obbligo restringere l’offerta, prevenire la riduzione
dei prezzi e l’abbondanza.

113
Ora io chiedo: sotto il governo delle nostre leggi, il popolo
è meglio nutrito, grazie al fatto che ci sia meno pane, carne
e zucchero nel Paese? È meglio vestito, grazie al fatto che
ci siano meno abiti e tessuti? È meglio riscaldato perché c’è
meno combustibile? È meglio facilitato nei suoi lavori, per-
ché ci sono meno ferro, rame, utensili e macchinari?
Qualcuno dirà che se gli stranieri ci inondano dei loro
prodotti, si prenderanno i nostri soldi.
E che importa? Il popolo non mangia i soldi, non si veste
d’oro, non si riscalda con l’argento. Che importa che ci sia
più o meno moneta nel Paese, se c’è più pane sulle tavole,
più carne nei macelli, più biancheria negli armadi, e più le-
gna nei camini?
Processerei le leggi restrittive, ponendo di fronte a loro
questo dilemma: ammettete che producete la scarsità, op-
pure lo negate?
Se lo ammettete, per tale motivo confessate che state fa-
cendo al popolo tutto il male che potreste fargli. Se non lo
ammettete, allora negate di aver ristretto l’offerta e aumen-
tato i prezzi; e, di conseguenza, negate di aver favorito i
produttori.
O siete dannosi, o inefficaci. Ad ogni modo, non potete
essere utili.

114
La Petizione
Questa è la petizione dei produttori di ceri, candele, lampade,
candelabri, lanterne, spegni candele; nonché dei produttori di olio,
trementina, alcool, e in generale di tutto ciò che riguarda l’illumi-
nazione.
Ai signori membri della Camera dei Deputati.
Onorevoli Deputati,
Siete sulla strada giusta: rifiutate le teorie astratte, e non
vi preoccupate dell’abbondanza e dei prezzi a buon merca-
to. Vi preoccupate soprattutto delle sorti dei produttori, e
li volete liberare dalla concorrenza estera. In poche parole:
volete riservare il mercato nazionale al lavoro nazionale.
Siamo venuti per offrirvi una mirabile occasione di appli-
care la vostra… come dire? Teoria? No: niente è più ingan-
nevole della teoria. Dottrina? Sistema? Principio? Ma a voi
non piacciono le dottrine, vi fanno orrore i sistemi, e quanto
ai princìpi, dichiarate che non ce ne siano in economia so-
ciale. Diremo dunque: la vostra pratica. La vostra pratica
senza teoria e senza principio.
Noi soffriamo l’intollerabile concorrenza di un rivale
estero, che sembra essere in condizioni talmente superiori
alle nostre, per quanto riguarda la produzione di luce, che
ne inonda il nostro mercato nazionale a un prezzo incredi-
bilmente basso.
Infatti, appena questo concorrente si fa vedere, le nostre
vendite cessano, tutti i consumatori si rivolgono a lui, e un
settore della nostra industria nazionale (le cui ramificazio-

115
ni sono innumerevoli) è improvvisamente colpito dalla più
completa stagnazione.
Questo rivale, che non è altri che il Sole, ci fa una guerra
così tenace, che sospettiamo sia stato suscitato contro di noi
dalla perfida Albione39 (abile mossa politica, di questi tem-
pi!); tanto più che lo sleale concorrente ha, per quell’isola ar-
rogante, dei riguardi che non osserva nei nostri confronti 40.
Vi chiediamo di degnarvi di fare una legge che ordini la
chiusura di finestre, finestrelle, lucernari, abbaini, persiane,
tende, veneziane: in poche parole, di tutte le aperture, crepe
e fessure attraverso cui la luce del Sole abbia l’abitudine di
penetrare nelle case, a discapito delle belle produzioni in-
dustriali di cui ci vantiamo di aver dotato il Paese – il quale
sarebbe ingrato ad abbandonarci oggi mentre siamo impe-
gnati in una lotta così sbilanciata.
Onorevoli deputati, vi preghiamo di non prendere la no-
stra richiesta come una satira, e di non respingerla senza
almeno ascoltare le ragioni che abbiamo da portare a soste-
gno.
Innanzitutto: quando chiuderete (per quanto possibile)
ogni accesso alla luce naturale, creando così il bisogno di
una luce artificiale, quale industria in tutto il Paese non ne
verrà, a poco a poco, stimolata?
Se si consumerà più grasso come combustibile per le lam-
pade, ci sarà bisogno di più buoi e montoni; e, di conse-
guenza, vedremo moltiplicarsi le terre messe a pascolo, la
carne, la lana, il cuoio, e soprattutto i concimi: la base di
39  La Gran Bretagna (NdT)
40  In Gran Bretagna il meteo tipico è composto da nebbia e pioggia.

116
ogni ricchezza agricola.
Se si consumerà più olio, vedremo estendersi la coltiva-
zione del papavero, dell’ulivo, della colza. Queste piante
ricche, che stancano il terreno, torneranno utili per mette-
re a profitto quella fertilità che l’allevamento del bestiame
avrà conferito alle nostre terre.
Le nostre brughiere si copriranno di alberi da resina.
Molti sciami di api raccoglieranno sulle nostre montagne
dei tesori profumati che oggi evaporano senza utilità, così
come senza utilizzo appassiscono i fiori che oggi li emana-
no. Dunque non c’è settore dell’agricoltura che non riceve-
rebbe un grande sviluppo.
Sarà lo stesso per la navigazione: migliaia di navi andran-
no a caccia di balene41, e in poco tempo avremo una marina
capace di sostenere l’onore della nostra Nazione e di corri-
spondere pienamente alle patriottiche aspettative dei sotto-
scritti firmatari, commercianti di candele, ecc.
E che dire dei lussuosi beni della capitale? Potrete ammi-
rare le dorature, i bronzi e i cristalli di candelabri, lampade,
lampadari da soffitto, brillare in negozi spaziosi, al cui con-
fronto quelli di oggi non sono che piccole boutique!
Non c’è povero resiniere in cima alla sua collinetta, o tri-
ste minatore in fondo alla sua nera galleria, che non vedreb-
be aumentare il proprio stipendio e il proprio benessere.
Vi preghiamo di rifletterci, signori: vi convincerete che
non c’è un solo cittadino, dal ricco azionista al più umile
fiammiferaio, la cui condizione non verrebbe migliorata dal
41  Da cui si estrae l’olio di balena, principale combustibile per lampade prima della diffusione
del kerosene.

117
successo della nostra petizione.
Onorevoli, prevediamo le vostre obiezioni; ma non ce ne
sarà una sola che non avrete pescato dai logori libri dei par-
tigiani del libero mercato.
Osiamo sfidarvi a pronunciare una parola contro di noi,
che non ritorni all’istante contro voi stessi, e contro il prin-
cipio che dirige tutta la vostra politica.
Ci direte forse che, anche se noi guadagnassimo da que-
sta misura protezionistica, il Paese non ci guadagnerebbe
nulla, perché ne pagherebbe il consumatore.
Allora noi vi risponderemo che non avete più il diritto di
invocare gli interessi dei consumatori. In ogni circostanza
in cui essi abbiano avuto interessi opposti ai produttori, voi
li avete sacrificati. L’avete fatto per stimolare il lavoro, per
aumentare la domanda di lavoro; e per lo stesso motivo,
dovete farlo ancora.
Voi stessi siete stati di fronte a questa obiezione. Quando
vi si diceva: «è nell’interesse dei consumatori la libera im-
portazione dell’acciaio, del carbone, del grano, dei tessuti»,
voi rispondevate: «sì, ma è nell’interesse dei produttori na-
zionali di escluderne l’importazione».
Ebbene: se è nell’interesse dei consumatori permettere la
luce naturale, è in quello dei produttori vietarla.
«Ma», dicevate ancora, «i produttori e i consumatori sono
le stesse persone. Se l’industriale guadagna da una misura
protezionistica, farà guadagnare l’agricoltura. Se l’agricol-
tura prospera, essa creerà posti di lavoro nelle fabbriche».
Ebbene: se ci assegnerete il monopolio dell’illuminazio-

118
ne durante il giorno, innanzitutto noi acquisteremo molto
carbone, olio, trementina, cera, alcol, argento, ferro, bronzo,
cristallo, per alimentare la nostra produzione industriale;
e in più, noi e i nostri numerosi fornitori, diventati ricchi,
consumeremo molto e diffonderemo prosperità in tutti i
settori della produzione nazionale.
Direte forse che la luce del Sole è un dono gratuito, e che
rifiutare i doni gratuiti sarebbe come rifiutare la ricchezza
stessa, col pretesto di stimolare i mezzi per acquisirla?
State attenti: dicendo così, darete un colpo mortale al cuo-
re della vostra politica. Fin qui, avete sempre respinto i pro-
dotti esteri proprio perché tendono ad avvicinarsi al dono
gratuito, e li avete colpiti nella misura in cui si avvicinano
al dono gratuito.
Per venire incontro alle esigenze degli altri monopolisti,
avevate solo un mezzo motivo; per accogliere la nostra do-
manda, avete un motivo intero.
Respingere le nostre richieste fondando il rifiuto proprio
su ciò che avete sempre negato e combattuto, sarebbe come
fare l’equazione “più per più uguale meno”: in altri termini,
sarebbe come accumulare assurdità su assurdità.
Il lavoro umano e la natura concorrono in proporzioni
diverse, secondo i Paesi e i climi, alla creazione di un pro-
dotto. La parte che ci mette la natura è sempre gratuita, ed
è la parte fatta dal lavoro e dall’ingegno che ne formano il
valore, e che si paga.
Se un’arancia di Lisbona si vende alla metà del prezzo
di un’arancia di Parigi, è perché il calore naturale (e perciò
gratuito) fa per l’una quello che l’altra deve al calore artifi-

119
ciale (e perciò costoso).
Dunque, quando ci arriva un’arancia dal Portogallo, si
può dire che essa ci venga data metà gratuitamente, e metà
a titolo oneroso; o, in altri termini, a metà prezzo rispetto a
una di Parigi.
Ora, è precisamente questa semi-gratuità (perdonatemi la
parola) che voi sostenete che vada esclusa dal mercato. Dite:
«come potrà il lavoro nazionale sostenere la concorrenza
del lavoro estero, se quello nazionale deve produrre intera-
mente ogni cosa, mentre quello estero deve fare solo metà
del lavoro necessario, perché il resto lo fa la natura?»
Ma se la semi-gratuità vi rende determinati a rifiutare la
concorrenza, com’è possibile che la gratuità intera vi porti
ad ammetterla? O non siete logici, oppure, dato che rifiutate
ogni cosa conveniente come nociva al nostro lavoro nazio-
nale, dovete rifiutare a maggior ragione e col doppio dello
zelo ogni tipo di convenienza nei prezzi, tanto più se si av-
vicina ad essere interamente gratuita.
Ancora una volta: quando un prodotto (carbone, ferro,
frumento o tessuto) ci viene da fuori, e possiamo acquistar-
lo con meno costi che se lo producessimo noi stessi, la diffe-
renza è una parte gratuita che ci viene corrisposta.
Questo dono è più o meno considerevole a seconda che
la differenza sia più o meno grande. È di un quarto, della
metà, di tre quarti del valore del prodotto, se l’estero ci chie-
de solo tre quarti, metà, un quarto del pagamento. Ed è il
più completo possibile quando il donatore, come fa il sole
per la luce, non ci chiede nulla.
La questione, e noi la poniamo formalmente, è di sapere

120
se volete per il nostro Paese il beneficio del consumo gratu-
ito, o i pretesi vantaggi della produzione onerosa. Sceglie-
te, ma secondo logica: poiché, fintanto che rifiuterete (come
appunto fate) il carbone, il ferro, il frumento, i tessuti esteri,
tanto più tenacemente quanto il loro prezzo si avvicina ad es-
sere conveniente, che incoerenza sarebbe ammettere tutto
il giorno sul mercato la luce del Sole, il cui prezzo è zero?

121
La Finestra Rotta
La storiella seguente è uno dei principali esempi per illustrare il con-
cetto economico di costo-opportunità: possiamo vedere come vengono
spesi i soldi (dai politici), ma nessuno ci dice mai come quei soldi verreb-
bero spesi altrimenti (dai contribuenti). La storia della finestra rotta serve
a contrastare la visione demagogica e keynesiana di chi parla di “stimolare
l’economia”: spendere i soldi pubblici in un modo ben visibile a tutti ha
come risvolto negativo quello di impedire a milioni di contribuenti di
spendere quei soldi in modi decisamente più produttivi e utili per la ri-
presa dell’economia.

Eri presente al momento della furiosa reazione del com-


merciante - che chiameremo Giacomo Buonuomo - quando
il suo goffo figlio ruppe il vetro di una finestra?
Se la risposta è sì, avrai sicuramente notato che tutte le
persone presenti, circa una trentina, si ritrovarono a con-
solare il commerciante con una frase molto simile alla se-
guente: «Non tutti i mali vengono per nuocere. Tutti devono
vivere. Che fine farebbero i vetrai se nessuno rompesse mai
le finestre?»
Ora, in questo presunto tentativo di consolare il commer-
ciante, si nasconde una teoria ben precisa, che ritengo sia
opportuno farti notare; potrà sembrare un episodio inno-
cuo e banale, ma questa teoria viene riportata e sostenuta
nella realtà dalla maggior parte delle nostre istituzioni eco-
nomiche.

122
Ipotizziamo che il costo per riparare il danno sia di sei
franchi. Affermare che questi sei franchi siano un contribu-
to per l’industria del vetro e che abbiano stimolato la stessa
economia, mi trova d’accordo, il ragionamento fila corret-
tamente. Il vetraio si presenta, svolge il suo lavoro, otterrà i
suoi meritati sei franchi e, soddisfatto, penserà a quanto sia
stato prezioso il goffo ragazzino. Questo è ciò che si vede.
Ma giungere alla conclusione, come spesso capita, che sia
positivo rompere i vetri, perché incentiva la circolazione
della moneta e dà slancio all’economia, mi costringe a met-
terti in guardia da questo ragionamento. Questa teoria po-
trebbe rivelarsi limitata: si sofferma solo su ciò che si vede,
ma non su ciò che non si vede.
Non si vede che, siccome il nostro commerciante ha spe-
so sei franchi per la finestra, avrebbe potuto spenderli in
qualcos’altro. Non si vede che, se non avesse avuto delle
finestre da aggiustare, magari avrebbe potuto sostituire le
sue vecchie scarpe, o magari aggiunto un altro libro nella
sua personale biblioteca. In poche parole, egli avrebbe po-
tuto usa-re i suoi sei franchi per altro. Purtroppo per lui, ciò
non sarà possibile.
Ora consideriamo come sarebbe stata condizionata l’eco-
nomia in generale, grazie a questo episodio. Con la finestra
rotta, il commercio del vetraio si ritroverà rafforzato, grazie
ai sei franchi; questo è ciò che si vede. Ma se la finestra non
fosse rimasta danneggiata, con quei sei franchi magari si
sarebbe rafforzato il commercio delle scarpe (o qualche al-
tro commercio); questo è ciò che non si vede.
Di conseguenza, se valutiamo gli effetti negativi di ciò

123
che non si vede, in rapporto agli effetti positivi di ciò che
si vede, ci renderemo subito conto di come non ci sia alcun
beneficio per l’economia in generale, o per la produzione
industriale nel suo complesso, nel rompere o meno una fi-
nestra.
Ora, analizziamo meglio la situazione di Giacomo Buo-
nuomo: nel primo caso, quello della finestra rotta, lui ha
speso sei franchi e si ritroverà esattamente nella stessa con-
dizione di prima, ovvero con una finestra integra in suo
possesso. Diversamente, avrebbe potuto avere, oltre alla fi-
nestra, un paio di scarpe.
Tuttavia, poiché Giacomo Buonuomo fa parte della so-
cietà, siamo costretti a giungere alla conclusione che, tiran-
do le somme, la società nel suo insieme ha perso il valore
della finestra rotta.
Per cui, generalizzando, possiamo dire che saremo con-
cordi nell’affermare: «la società perde il valore degli ogget-
ti che vengono inutilmente distrutti». E diremo anche una
cosa che farà venire i brividi ai protezionisti: «rompere, ro-
vinare, sprecare non rafforzerà la produzione industriale; o,
più semplicemente, la distruzione non porta alcun profitto».
Cosa dite, voi del Comitato degli Industriali - cosa dite,
seguaci di Saint-Chamans 42, voi che avete calcolato meti-
colosamente quale industria avrebbe guadagnato se Parigi
venisse data alle fiamme, soprattutto grazie al numero di
case che occorrerebbe ricostruire?
Intanto che questi signori si prodigano nei loro ingegnosi

42  Auguste, visconte di Saint - Chamans (1777-1861), deputato e consigliere di stato ai tempi
della Restaurazione, protezionista e sostenitore della bilancia commerciale.

124
calcoli, incoraggiati dalla stessa legislazione, sarò costretto
a vestire i panni del guastafeste.
Riprendiamo il ragionamento, dal suo esatto inizio, in-
tegrando, oltre a ciò che si vede, anche tutto ciò che non si
vede. Invito a tenere in considerazione il fatto che in questo
episodio non ci sono solo due attori, ma ben tre.
Il primo attore è Giacomo Buonuomo. Lui impersona il
ruolo del consumatore, costretto a beneficiare di un solo
bene o servizio anziché due.
Il secondo attore è il vetraio. Impersona il ruolo del produt-
tore. Ha potuto compiere un’attività redditizia grazie all’in-
cidente.
Il terzo e ultimo attore è il calzolaio (o qualsiasi altro com-
merciante). Per colpa dell’incidente ha perso una possibilità
di vendere un prodotto. Proprio quest’ultimo attore, mai te-
nuto in considerazione, rappresenta ciò che non si vede, ele-
mento chiave di tutta questa storia.
Sarà proprio il terzo attore a farci notare quanto sia as-
surdo vedere il profitto nella distruzione. Sempre lui ci farà
notare che non è meno assurdo vedere un profitto in una
restrizione dovuta alla regolamentazione, che in fondo è
solo una distruzione parziale.
Dunque, se andrai fino in fondo a tutte le argomentazio-
ni che vengono avanzate a favore di questa teoria, troverai
sempre la solita tesi, sebbene declinata in modi differenti:
«quale sarebbe il futuro dei vetrai, se nessuno rompesse le
finestre?»

125
Un caso pratico di
protezionismo
Un povero contadino della Gironda aveva coltivato amo-
revolmente un vigneto. Dopo una buona dose di fatica e
di lavoro, ebbe finalmente la gioia di ricavarne un po’ di
vino; ben presto dimenticò che ogni goccia di quel prezioso
nettare gli era costata una goccia di sudore alla fronte. «Lo
venderò», disse a sua moglie, «e con il ricavato comprerò
del filo con cui farai il corredo da sposa per nostra figlia».
L’onesto campagnolo se ne andò in città, e incontrò un
belga e un inglese.
Il belga gli disse: «mi dia il suo vino, e in cambio le darò
quindici matasse di filo».
L’inglese disse: «mi dia il suo vino, e io le darò venti ma-
tasse di filo; poiché noi inglesi filiamo a prezzi inferiori dei
belgi».
Ma un doganiere, che si trovava lì, disse: «brav’uomo,
scambi pure con il belga, se lo trova vantaggioso; ma è mio
compito impedirle di far lo scambio con l’inglese». «Che
cosa?!», disse il campagnolo. «Lei vuole che mi accontenti di
quindici matasse di filo di Bruxelles, quando posso averne
venti di Manchester?».
«Certamente: non vede che il nostro Paese ci perderebbe,
se lei ricevesse venti pacchi invece di quindici?»
«Faccio fatica a capirlo», disse il vignaiolo.
«E io glielo spiegherò», riprese il doganiere, «ma la que-

126
stione è chiara: e infatti tutti i deputati, i ministri e i giorna-
listi sono d’accordo su questo punto: più un popolo riceve
in cambio di una data quantità dei suoi prodotti, più si im-
poverisce. Bisogna che lei faccia lo scambio con il belga».
La figlia del campagnolo ebbe solo tre quarti del suo cor-
redo nuziale; e questa brava famiglia si sta ancora chieden-
do come sia possibile perderci ricevendo quattro invece di
tre, e perché uno sia più ricco con tre dozzine di tovaglioli
invece di quattro.

127
Indipendenza Nazionale
Tra gli argomenti che vengono portati a favore del pro-
tezionismo, non possiamo dimenticare quello dell’indipen-
denza nazionale. Il ragionamento è: «cosa faremmo in caso
di guerra, se il nostro approvvigionamento di ferro e carbo-
ne dipendesse dalla volontà dell’Inghilterra?».
I monopolisti inglesi, dal canto loro, non mancano di
esclamare: «cosa ne sarebbe della Gran Bretagna, in tempo
di guerra, se il suo approvvigionamento alimentare dipen-
desse dai francesi?».
Con questa mentalità, però, non si presta attenzione a una
cosa: che questa specie di dipendenza che consegue dagli
scambi commerciali, è una dipendenza reciproca. Non
possiamo dipendere dall’estero senza che l’estero dipenda
da noi. Questa è l’essenza stessa della società. Rompere del-
le relazioni naturali non significa mettersi in uno stato di
indipendenza, ma in uno stato di isolamento.
Ti chiedo di prestare attenzione: non ci si isola in previ-
sione della guerra, ma è l’atto stesso di isolarsi a essere una
premessa della guerra.
Infatti, ciò la rende più facile, meno onerosa e, pertanto,
meno impopolare. Se i popoli fossero, gli uni per gli altri,
dei partner commerciali permanenti, allora non avrebbero
più bisogno di potenti marine per annientarsi l’un l’altro e
di grandi eserciti per schiacciarsi, la pace del mondo non
sarebbe compromessa dal capriccio di un dittatore o di un
generale, e la guerra sparirebbe per la macabra prospettiva

128
di carenza d’alimenti, risorse, pretesti e simpatia popolare.
So bene (e d’altronde va di moda) che sarò rimproverato
perché pongo l’interesse come fondamento della fratellan-
za dei popoli: il vile e prosaico interesse. Sarebbe preferibile
che la pace trovasse il suo principio nella carità e nell’amo-
re, che ci fosse anche bisogno di un po’ di abnegazione di
sé, e che essa danneggiasse il benessere materiale degli uo-
mini, per avere così il merito di un generoso sacrificio.
Ma quand’è che la finiremo con questi discorsi puerili?
Quand’è che bandiremo finalmente l’ipocrisia dalla scien-
za? Urliamo e gridiamo contro l’interesse, cioè l’utile e il
buono (poiché dire che tutti i popoli sono interessati a una
cosa, è come dire che questa cosa è buona in sé), come se
l’interesse non fosse il motore necessario, eterno e indistrut-
tibile a cui la Provvidenza ha affidato il progresso del gene-
re umano! A sentirci, si direbbe che siamo angeli di gene-
rosità! E qualcuno forse pensa che l’opinione pubblica non
cominci a vedere con disgusto questo linguaggio buonista
che riempie d’inchiostro proprio le pagine dei libri più co-
stosi?
Ora, dato che il benessere e la pace sono collegati; perché
desideri la pace solo quando essa va a danno del benessere
e del profitto? La libertà ti dà fastidio perché non impo-
ne sacrifici? Ma se l’abnegazione ti affascina così tanto, chi
ti impedisce di metterne un po’ nelle tue azioni persona-
li e quotidiane? La società te ne sarà riconoscente, poiché
qualcuno almeno ne raccoglierà i frutti; ma volerla imporre
all’umanità come principio, è il colmo dell’assurdità, poiché
l’abnegazione di tutti è il sacrificio di tutti: l’assoluta incoe-

129
renza elevata a teoria.
Grazie al cielo, per quanto si scrivano e leggano molti di-
scorsi del genere, il mondo non smette per questo di obbe-
dire al suo motore, che (volenti o nolenti) è l’interesse per-
sonale.
Dopotutto, è abbastanza curioso veder invocati senti-
menti di sublime abnegazione per sostenere l’imposizione
di nuove tasse e prelievi fiscali. Ecco dunque a cosa condu-
ce questa ostentata generosità! Queste persone così poetica-
mente delicate, che rifiutano persino la pace stessa, quando
è basata sul volgare interesse delle persone, poi mettono le
mani nelle tasche degli altri, e soprattutto dei poveri: infat-
ti, c’è forse un articolo delle leggi doganali che protegge i
poveri? Signori, disponete pure come volete di ciò che vi
appartiene, ma lasciate disporre anche noi del frutto del no-
stro sudore, o di scambiarlo a nostro piacimento. Fate pure
discorsi sulla rinuncia a sé stessi, poiché è una cosa bella;
ma allo stesso tempo, siate almeno onesti.

130
CHE COS’È LA
CONCORRENZA?

131
La Concorrenza
Non c’è una parola in tutto il vocabolario dell’economia
politica che faccia arrabbiare i burocrati come la parola
“concorrenza”, alla quale, per aggiungere un insulto, essi
applicano immancabilmente l’epiteto “selvaggia” o “anar-
chica”.
Cosa significa “concorrenza selvaggia”? Non lo so. Cosa
può sostituirla? Non so neanche questo.
Chi desidera mettere fine alla concorrenza grida: «Orga-
nizziamoci! Creiamo un sindacato! Facciamo associazioni!».
Vorrei davvero sapere che tipo di autorità questi burocrati
si propongono di esercitare su di me e su tutti gli individui
che vivono su questa nostra terra; perché, in verità, l’unica
autorità che posso concedere loro è l’autorità della ragione,
purché riescano ad avere la ragione dalla loro parte.
Vogliono dire che dovrei agire sotto i vincoli che loro im-
porranno piuttosto che secondo i dettami della mia intelli-
genza? Se mi lasciano la mia libertà, rimane anche la con-
correnza. Se me la strappano, divento solo il loro schiavo.
«L’associazione sarà libera e volontaria» dicono. Molto
bene! Ma in questo caso ogni organizzazione con i suoi
membri associati sarà contrapposta a ogni altro gruppo,
proprio come oggi gli individui sono contrapposti gli uni
agli altri, e ci sarà concorrenza.
«L’associazione sarà globale», si risponde.
State affermando che la concorrenza selvaggia e anarchi-
ca sta distruggendo la nostra società. Dite che per curare

132
questa malattia dovremo aspettare che tutta l’umanità, i
francesi, gli inglesi, i cinesi, i giapponesi, gli scandinavi, i
russi, i brasiliani, persuasi dai vostri argomenti, accettino
di unirsi per tutti i tempi a venire in una delle forme di
associazione che avete inventato? Ma attenzione! Questo è
semplicemente riconoscere che la concorrenza è indistrut-
tibile; e avete la presunzione di pretendere che un fenome-
no indistruttibile possa essere pericoloso?
Dopo tutto, che cos’è la concorrenza? È qualcosa che esi-
ste e ha vita propria, come i batteri? No.
La concorrenza è semplicemente l’assenza di oppressio-
ne. Nelle cose che mi riguardano voglio fare le mie scelte,
e non voglio che qualcun altro le faccia al posto mio senza
tener conto dei miei desideri; questo è tutto.
È evidente che la concorrenza è libertà. Distruggere la li-
bertà d’azione equivale a distruggere la possibilità di sce-
gliere, di giudicare, di confrontare; equivale a distruggere
la ragione, a distruggere il pensiero, a distruggere l’umanità
stessa. Qualunque sia il loro punto di partenza, questa è la
conclusione finale a cui giungono sempre i nostri moderni
burocrati; per migliorare la società cominciano col distrug-
gere l’individuo, con il pretesto che tutti i mali vengono da
lui, come se tutte le cose buone non venissero anche da lui.
Sappiamo che si possono scambiare servizi con altri ser-
vizi. Ognuno di noi viene al mondo con la responsabilità
di ottenere le proprie soddisfazioni unicamente attraverso
il proprio impegno. Quindi, se un individuo ci permette di
risparmiare delle sofferenze, ossia se ci concede una soddi-
sfazione, noi dobbiamo fare altrettanto per lui.

133
Ma chi deve fare il confronto? Chi deve stabilire quanto
io debba dare a questo individuo in cambio del suo impe-
gno? Ci devono quindi essere uno o più giudici. Chi saran-
no questi giudici? Non è naturale che i bisogni siano giudi-
cati da chi li vive, le soddisfazioni da chi le cerca, i servizi
da chi li scambia?
Si propone in tutta serietà di sostituire questo control-
lo degli interessati con un’autorità sociale (anche se fosse
il burocrate stesso) incaricata di determinare le complicate
condizioni che riguardano infiniti atti di scambio in tutte le
parti del mondo. Non è ovvio che questa autorità burocra-
tica sarebbe la più fallibile, la più arbitraria, la più inquisi-
toria, la più insopportabile, la più miope e ( per fortuna) la
più impossibile di tutte le dittature mai concepite in tutto
l’Occidente?43
Basta sapere che la concorrenza non è altro che l’assenza
di un’autorità arbitraria posta a giudice dello scambio, per
rendersi conto che non può essere eliminata. La coercizione
illegittima della burocrazia può certo frenare, contrastare,
impedire la libertà di scambio, come può farlo con la libertà
di camminare per strada; ma non può eliminare nessuna
delle due senza eliminare l’umanità stessa. Stando così le
cose, l’unica questione che rimane è se la concorrenza por-
ta l’umanità alla felicità o alla miseria - una questione che
possiamo riscrivere come segue: l’umanità è naturalmente
incline al progresso o fatalmente destinata alla decaden-
za?

43  L’autore scrive queste parole vari decenni prima che i totalitarismi europei (comunismo,
fascismo e nazismo) facciano proprio ciò che lui temeva (NdT)

134
Non esito a dire che la concorrenza, che potremmo chia-
mare libertà è essenzialmente la legge della democrazia. È
la più progressiva, la più egualitaria, la più universalmente
livellatrice di tutte le leggi alle quali la Provvidenza ha affi-
dato il progresso della società umana.
L’accusa che la concorrenza tenda alla disuguaglianza è
tutt’altro che vera. Al contrario, ogni disuguaglianza artifi-
ciale è dovuta all’assenza di concorrenza. Se la distanza che
separa un gran sacerdote Brahmin da un oppresso pària è
maggiore di quella tra il Presidente e un artigiano negli Sta-
ti Uniti, la ragione è che la concorrenza (o la libertà) è sop-
pressa in Asia e non in America. Quindi, mentre i socialisti
trovano nella concorrenza la fonte di tutti i mali, in realtà
sono gli attacchi alla concorrenza che combattono contro
tutto ciò che è buono.
Il numero totale di soddisfazioni di cui ogni membro
della società gode è di gran lunga superiore a quello che
potrebbe ottenere con il proprio impegno. Sembrerebbe, a
priori, che il massimo che possiamo sperare sia di ottene-
re soddisfazioni pari al nostro impegno. Se possediamo di
più, infinitamente di più, a cosa dobbiamo l’eccesso?
Il fenomeno, di per sé, è davvero straordinario. È abba-
stanza comprensibile che certi individui consumino più di
quanto producono, se usurpano i diritti degli altri e rice-
vono servizi senza pagare. Ma come può essere vero per
tutti gli individui contemporaneamente? Come può essere
che, dopo aver scambiato i propri servizi senza coercizio-
ne e senza estorsioni con altri, ogni individuo possa dire:
«Consumo in un giorno più di quanto potrei produrre in

135
cento anni»?
Dio [o la Natura] ha impiantato nel cuore di ogni indivi-
duo un sentimento di interesse personale che, come una
calamita, attira tutte le cose verso di sé; nello stesso modo
ha fornito alla società una forza la cui funzione è quella di
rendere i suoi doni come erano originariamente destinati
ad essere: gratuiti e comuni a tutti. Questa forza è la com-
petizione.
Così, l’interesse personale è quell’indomabile forza indi-
vidualista in noi che ci spinge al progresso e alla scoperta,
ma allo stesso tempo ci spinge a monopolizzare le nostre
scoperte. La concorrenza è quella forza umanitaria non
meno indomabile che strappa il progresso, non appena vie-
ne creato, dalle mani dell’individuo e lo mette a disposizio-
ne di tutta l’umanità. Queste due forze, che possono essere
detestate se considerate singolarmente, lavorano insieme
per creare l’armonia sociale.
E non è sorprendente che l’egoismo, che trova espressio-
ne nell’interesse personale di un individuo quando è nel-
le vesti di produttore, si è sempre ribellato contro l’idea di
concorrenza. Ha cercato di distruggerla, chiamando in suo
aiuto la violenza, l’astuzia, i privilegi statali, le bugie, il mo-
nopolio, la restrizione burocratiche, eccetera. L’immoralità
dei suoi mezzi rivela abbastanza chiaramente l’immorali-
tà del suo fine. Ma la cosa sorprendente, e spiacevole, è che
l’economia politica - cioè la falsa economia politica - propa-
gata con tanto ardore dai socialisti, in nome dell’amore per
l’umanità, l’uguaglianza e la fraternità, ha sposato la causa
dell’egoismo nella sua forma più violenta e ha abbandonato

136
la causa dell’umanità.

La concorrenza in 3 semplici
esempi
Vediamo ora come funziona la concorrenza.
L’individuo, sotto l’influenza dell’interesse personale, cer-
ca sempre le condizioni che daranno ai suoi servizi la mag-
gior resa. Si rende subito conto che ci sono tre modi in cui
può usare le risorse naturali a suo vantaggio:

1. Egli può appropriarsi a suo uso esclusivo di queste ri-


sorse naturali.
2. Oppure solo lui può conoscere le tecniche con cui pos-
sono essere utilizzate.
3. Oppure può possedere l’unico strumento con cui uti-
lizzarle.

In ognuno di questi casi dà poco di ciò che produce in


cambio di molto di ciò che altri producono.
1. Le risorse naturali non sono distribuite uniforme-
mente sulla superficie terrestre. Anche le capacità umane
variano, in una certa misura, secondo il clima e la cultura.
È facile vedere che, se non fosse per la legge della con-
correnza, questa disuguaglianza nella distribuzione delle
risorse risulterebbe in una corrispondente differenza nel-
la prosperità materiale degli individui. Se non fosse per la
concorrenza, nulla impedirebbe di fissare il prezzo al mas-

137
simo possibile. Per esempio, l’abitante dei tropici direbbe
all’europeo: «Grazie al mio sole, io posso ottenere una data
quantità di zucchero, di caffè, di cacao o di cotone e vender-
la a dieci monete, mentre voi, che nella vostra parte fredda
del mondo siete costretti a ricorrere a serre, riscaldatori e
magazzini, potete produrli per cento monete. Voi mi chie-
dete il mio zucchero, il mio caffè, il mio cotone, e non sare-
ste affatto turbati se, per arrivare al mio prezzo, consideras-
si solo le fatiche che ho subito. Ma io sono particolarmente
consapevole delle fatiche che vi risparmio e stabilisco le mie
richieste di conseguenza. Sicuramente voi rifiutereste se io
pretendessi da voi, in cambio del mio zucchero, centouno
monete; ma io chiedo ve ne chiedo solo novantanove. Per
un po’ di tempo, potrete anche esserne infastiditi, ma vi ri-
crederete, perché a quel prezzo lo scambio è ancora a vostro
vantaggio. Voi trovate queste condizioni ingiuste; ma è a
me, non a voi, che la Natura ha dato un clima caldo. Potete
prendere i miei prodotti alle mie condizioni, o produrli voi
stessi o rinunciare».
È vero che l’europeo potrebbe a sua volta parlare in modo
simile all’abitante dei tropici: «Scavate la vostra terra, scava-
te le miniere, cercate il ferro e il carbone, e ritenetevi fortu-
nati se li trovate; perché, se non lo fate, aumenterò il prezzo
fino al limite massimo».
Ma lasciamo che la concorrenza appaia sulla scena, e non
ci saranno più queste transazioni unilaterali, questi prezzi
esagerati, queste disuguaglianze nel commercio. E notiamo
che la concorrenza deve necessariamente intervenire pro-
prio perché esistono queste disuguaglianze. L’impegno
umano si muove istintivamente nella direzione che gli pro-

138
mette i migliori rendimenti, e così riduce a poco a poco il
vantaggio che i primi venditori avevano. Dunque, la disu-
guaglianza è uno stimolo che ci spinge verso l’uguaglian-
za (e funziona così anche se qualcuno non lo vorrebbe).
L’essere umano, in quanto produttore, è necessariamente,
irresistibilmente, attratto verso la più grande ricompensa
possibile per i suoi servizi, e per questo stesso fatto li por-
ta sempre tutti allo stesso livello. Egli persegue il proprio
interesse, e cosa promuove, inconsapevolmente, involonta-
riamente, senza volerlo? Il bene generale.
Così, per tornare al nostro esempio, l’abitante dei tropi-
ci, per il fatto stesso che realizza profitti esorbitanti sfrut-
tando le risorse naturali, attira la concorrenza. Accorrono
nuovi imprenditori e lavoratori in proporzione uguale alla
dimensione della disuguaglianza, e non si accontentano
finché la disuguaglianza non è stata eliminata. Per effetto
della concorrenza vediamo il prodotto tropicale che costava
dieci monete scambiato successivamente con il prodotto eu-
ropeo a ottanta, poi sessanta, poi cinquanta, poi quaranta,
poi venti e infine dieci.
Quando le cose arrivano a questo punto, dobbiamo ren-
derci conto, con gratitudine, della grande rivoluzione che è
avvenuta. In primo luogo, le fatiche sostenute da entrambe
le parti sono ora uguali, il che dovrebbe soddisfare il nostro
desiderio di giustizia.
Poi, cosa ne è stato delle risorse naturali? Questo merita
tutta l’attenzione del lettore. Nessuno ne è stato privato. Tut-
to ciò che il produttore tropicale ha perso è il suo ingiusto
potere di imporre una sovrattassa sul consumo degli abi-

139
tanti europei.
La risorsa naturale è diventata - e prego il lettore di non
dimenticare che sto usando un caso particolare per illustra-
re un fenomeno universale - comune a tutti. Questo non è
un gioco di parole, ma l’affermazione di una verità matema-
tica. Perché questo fatto meraviglioso non è stato compreso?
Perché la ricchezza comune si ottiene sempre sotto forma di
prezzo che è stato abbassato, e le nostre menti hanno gran-
di difficoltà ad afferrare ciò che è espresso negativamente.
L’Inghilterra ha un’abbondanza di miniere di carbone.
Questo è, senza dubbio, un grande vantaggio locale, soprat-
tutto se assumiamo, come farò per semplificare l’illustra-
zione, che non ci sia carbone nel resto del continente euro-
peo. Il loro possesso esclusivo delle miniere permette loro
di esigere grandi somme in pagamento e quindi di dare un
prezzo elevato alle loro fatiche. Non avendo noi miniere di
carbone, e non potendo comprarlo da nessun altro, saremo
obbligati a sottometterci. La manodopera inglese impegna-
ta in questo tipo di lavoro sarà molto pagata; in altre parole,
il carbone sarà costoso, e la generosità della natura potrà
essere considerata come elargita ad una nazione, e non a
tutta l’umanità.
Ma questa situazione non può durare; una grande legge
naturale e sociale vi si oppone: la concorrenza. Proprio per-
ché questo tipo di lavoro è molto pagato in Inghilterra, sarà
molto richiesto, perché i lavoratori sono sempre alla ricerca
di alti salari. Il numero dei minatori aumenterà, sia attra-
verso nuove reclute che si trasferiranno da altre industrie,
sia attraverso le nuove generazioni che inizieranno a lavo-

140
rare. Essi offriranno i loro servizi per meno; fino a raggiun-
gere l’importo normale generalmente pagato per un lavoro
simile in tutto il Paese.
Questo significa che il prezzo del carbone inglese scen-
derà anche da noi; significa che il dono che la natura sem-
brava aver conferito all’Inghilterra è stato in realtà conferito
a tutta l’umanità.
Ho offerto due illustrazioni e, per rendere il fenomeno
più impressionante a causa delle sue dimensioni, ho scelto
operazioni internazionali su larga scala. Per questo temo di
non aver fatto capire al lettore che lo stesso fenomeno av-
viene costantemente intorno a noi e nelle nostre transazioni
più ordinarie.
Scegliamo oggetti più umili: un bicchiere, un chiodo, una
fetta di pane, un pezzo di stoffa, un libro. Il lettore si chieda
quale incalcolabile porzione del prezzo, se non fosse per la
concorrenza, sarebbe sì rimasta gratuita per i loro produt-
tori, ma non sarebbe mai diventata gratuita per l’umani-
tà, cioè non sarebbe mai diventata comune a tutti. Il lettore
può ben dire a se stesso, mentre compra il suo pane, che,
grazie alla concorrenza, non paga nulla per ciò che fanno il
sole, la pioggia, il gelo, le leggi della vegetazione. Non paga
nulla per la legge di gravitazione messa in opera dal mu-
gnaio, nulla per la legge della combustione messa in opera
dal panettiere.
Il lettore rifletta che paga solo per i servizi resi da agenti
umani; che, se non ci fosse stata la concorrenza, avrebbe
dovuto pagare un supplemento per tutto ciò che viene fatto
da queste risorse naturali; che questo supplemento sarebbe

141
stato limitato solo dalla difficoltà che avrebbe incontrato nel
produrre il pane con le proprie mani; che, di conseguen-
za, un’intera vita di lavoro non sarebbe stata sufficiente per
soddisfare il prezzo che gli sarebbe stato chiesto di pagare.
Si renda conto che questo ragionamento vale per ogni
oggetto che può comprare, e vale per ogni persona; e allo-
ra capirà il difetto delle teorie socialiste, che, guardando
solo la superficie delle cose, solo l’involucro esterno della
società, hanno così irresponsabilmente combattuto contro
la concorrenza, ossia contro la libertà umana.
Allora comprenderà che la concorrenza, che assicura che
i doni della natura così iniquamente distribuiti sul globo
conservino il loro doppio carattere di essere gratuiti e co-
muni a tutti, deve essere considerata come il principio di
una equa e naturale parificazione; che deve essere ammira-
ta come la forza che tiene a freno gli impulsi egoistici, con
cui si combina così abilmente che la concorrenza serve sia
come un freno all’avidità che come uno stimolo all’attivi-
tà dell’interesse personale.
Dalla discussione precedente è possibile arrivare alla so-
luzione di una delle questioni più controverse: quella del li-
bero commercio tra le nazioni. Se è vero che le varie nazioni
del mondo sono portate dalla concorrenza a scambiare tra
loro nient’altro che il loro lavoro, i loro impegni, le loro abi-
lità, che sono gradualmente portati a un livello comune, e a
includere, nell’affare, i vantaggi delle risorse naturali di cui
ciascuno gode; quanto cieche ed illogiche sono allora quelle
nazioni che per via legislativa rifiutano le merci straniere
con la motivazione che sono vendute a prezzi troppo bas-

142
si!
Ora, è certo che gli abitanti di molte nazioni effettuereb-
bero certi tipi di scambi tra loro se non fosse vietato con la
legge e la forza. Ci vuole la violenza per impedirli; quindi è
sbagliato impedirli.
2. Un altro fattore che mette certi individui in una po-
sizione eccezionalmente favorevole per quanto riguarda la
retribuzione è la loro conoscenza esclusiva delle tecniche
per utilizzare le forze della Natura. Ciò che chiamiamo
invenzione è una conquista sulla Natura vinta dal genio
umano. Dobbiamo osservare come queste pacifiche conqui-
ste, che in origine sono fonte di ricchezza solo per coloro
che le fanno, diventano presto, sotto l’influenza della con-
correnza, patrimonio gratuito e comune di tutta l’umanità.
Immaginiamo un inventore che sia riuscito a eliminare
i nove decimi del costo necessario per produrre l’articolo
x. Ma al momento attuale x ha un prezzo di mercato che è
stato stabilito dai modi per produrlo nel modo ordinario.
L’inventore vende x al prezzo di mercato; in altre parole,
viene pagato dieci volte di più rispetto ai suoi concorrenti.
Questa è la prima fase dell’invenzione.
Notiamo, anzitutto, che questo non oltraggia in alcun
modo la giustizia. È giusto che l’individuo che rivela al
mondo un processo produttivo nuovo e utile riceva la sua
ricompensa: a ciascuno secondo le sue capacità. Notiamo
inoltre che fino a questo punto tutti tranne lui sono ancora
obbligati a fare gli stessi sacrifici di prima per ottenere lo
stesso oggetto.
A questo punto, l’invenzione entra nella sua seconda fase:

143
quella dell’imitazione. Gli stipendi troppo alti, per loro na-
tura, suscitano invidia. Il nuovo processo produttivo si dif-
fonde, il prezzo di x scende costantemente, e anche lo sti-
pendio diminuisce, sempre più rapidamente man mano che
diventa sempre più facile, e sempre meno rischioso, copiare
l’invenzione, e di conseguenza sempre meno conveniente.
Finalmente l’invenzione raggiunge la sua terza e ultima
fase, la fase della distribuzione universale, dove l’inven-
zione diventa proprietà comune e gratuita per tutti. Il suo
ciclo completo è stato eseguito dalla concorrenza e i nove
decimi del prezzo che vengono eliminati dall’invenzione
rappresentano una conquista a beneficio di tutta l’umanità.
Ciò è dimostrato dal fatto che tutti i consumatori sulla
faccia della terra possono ora comprare l’articolo x per un
decimo di quanto costava loro una volta. Il resto del costo è
stato eliminato dalla nuova tecnica.
Se il lettore si fermerà a considerare che ogni invenzione
umana ha eseguito questo ciclo, per il grano, i vestiti, i libri,
le navi, per la cui produzione è stata eliminata una quantità
incalcolabile del costo dall’aratro, dal telaio, dalla stampa
e dalla vela; che questa osservazione si applica all’utensile
più umile come al macchinario più complesso, al chiodo, al
cuneo, alla leva, come alla macchina a vapore e al telegrafo;
il lettore capirà, spero, come una quantità sempre maggiore
e più equamente distribuita di utilità o di soddisfazione di-
venta il compenso per una data quantità di impegno uma-
no.
3. Ora devo dimostrare che la concorrenza serve anche
quando si parla di strumenti di lavoro.

144
Non basta che esistano in natura forze come il calore, la
luce, la gravitazione, l’elettricità; non basta che l’intelligenza
umana sia in grado di concepire un modo per utilizzarle.
C’è ancora bisogno di strumenti per rendere questi concetti
della mente una realtà e di sostenere gli inventori mentre
sono occupati in questo compito.
Il possesso di capitale è un terzo fattore che, per quan-
to riguarda la retribuzione, è favorevole a un individuo o
a una classe di individui. Colui che ha a sua disposizione
l’attrezzo di cui l’operaio ha bisogno, le materie prime su
cui il lavoro deve essere eseguito, e i mezzi di sussistenza
durante l’operazione, è in grado di esigere una ricompensa;
il principio in questione è certamente giusto, poiché il capi-
tale rappresenta guadagni precedenti.
Il capitalista è in una buona posizione per stabilire cosa si
deve fare, è vero; tuttavia notiamo che, anche quando non
deve affrontare alcuna concorrenza, c’è un limite oltre il
quale non può spingere le sue pretese. Questo limite è il
punto in cui il suo pagamento consumerebbe tutti i vantag-
gi che il suo servizio fornirebbe. Non c’è quindi nessuna
scusa per parlare, come si fa spesso, della tirannia del ca-
pitale, poiché, anche nei casi più estremi, la sua presenza
non può mai essere più dannosa per la sorte del lavoratore
rispetto alla sua assenza. Il capitalista, come il produttore
di zucchero dei tropici che ha a sua disposizione un certo
grado di calore che la natura ha negato agli altri individui,
come l’inventore che possiede il segreto di un processo sco-
nosciuto ai suoi simili, non può fare altro che dire: «Desi-
derate ciò che possiedo? Ho fissato un prezzo. Se lo trovate
troppo alto, fate come avete fatto finora: andate senza».

145
Ma la concorrenza interviene tra i capitalisti. Attrezzi,
materie prime e provviste possono contribuire a creare be-
nefici solo se vengono utilizzati; quindi c’è rivalità tra i ca-
pitalisti per trovare il miglior uso per il loro capitale.
Poiché questa rivalità li costringe a ridurre le loro pretese
al di sotto dei limiti massimi, questa comporta anche una
riduzione del prezzo del prodotto, e questo importo rappre-
senta quindi un profitto netto, un guadagno gratuito per il
consumatore, cioè per l’umanità!

La concorrenza fa bene
ai più poveri
Dunque, ho dimostrato che, grazie alla concorrenza, gli
individui non possono ricevere per troppo tempo un profit-
to abnorme per il possesso di risorse naturali, per la cono-
scenza di tecniche speciali, o per il possesso degli strumen-
ti di lavoro. Il corso dello sviluppo è il seguente: quando un
individuo (o un gruppo di individui) si appropria di una
risorsa naturale o acquisisce una nuova tecnica, basa i suoi
prezzi non sui costi che sostiene, ma su quelli che risparmia
agli altri. Alza le sue richieste fino al limite più alto possi-
bile, senza mai essere in grado di danneggiare il benessere
degli altri. Assegna il maggior prezzo possibile ai suoi ser-
vizi. Ma a poco a poco, per effetto della concorrenza, questo
prezzo tende a corrispondere ai costi che ha sostenuto; così
che il corso completo è stato eseguito quando i prezzi rag-
giungono il minimo. Stando così le cose, sarebbe una pale-
se incoerenza dire che la concorrenza nuoce ai lavoratori.

146
Eppure questo viene detto continuamente, ed è anche
ampiamente accettato. Perché? Perché la parola “lavorato-
re” è usata per indicare una classe particolare, non la gran-
de comunità di tutti coloro che lavorano. Questa comunità è
divisa in due gruppi. Da una parte si collocano tutti coloro
che hanno capitale, che vivono interamente o in parte del
lavoro precedente o del lavoro intellettuale o dei proventi
delle imposte; dall’altra parte si collocano coloro che hanno
solo le loro mani e il loro salario, coloro che, per usare una
vecchia espressione, formano il proletariato. Si osservano
le relazioni di queste due classi tra di loro, e ci si chiede se,
data la natura di queste relazioni, la concorrenza esercitata
dai salariati tra di loro non sia nociva ai loro interessi.
La situazione di questi lavoratori, si dice, è essenzialmen-
te precaria. Se questo non è del tutto vero per tutti loro, è
almeno vero per molti di loro, per abbastanza di loro da
deprimere l’intera classe; perché i più tartassati, i più mi-
seramente poveri, sono quelli che capitolano per primi, e
stabiliscono la scala generale dei salari. Di conseguenza, i
salari tendono ad essere fissati al prezzo più basso com-
patibile con la nuda sopravvivenza; e in questa situazione
la minima concorrenza aggiunta tra i lavoratori è una vera
calamità, poiché per loro non si tratta di un tenore di vita
inferiore, ma di non poter vivere affatto.
Certamente c’è molta verità, troppa verità, in questa af-
fermazione. Negare le sofferenze e le condizioni miserabili
che prevalgono tra questa classe di lavoratori che eseguono
il lavoro fisico della produzione sarebbe chiudere gli occhi
di fronte alla verità. Il fatto è che quello che giustamente
chiamiamo problema sociale è legato alla situazione di un

147
gran numero di nostri simili, poiché, sebbene le altre classi
della società non siano immuni da molte ansie, molte soffe-
renze, disastri economici, crisi e sconvolgimenti, è tuttavia
vero che la libertà sarebbe considerata come la soluzione
del problema, se la libertà non apparisse impotente nel cu-
rare questa piaga corrente che chiamiamo povertà.
Ma la povertà esiste per disegno divino o, al contrario,
a causa di qualche elemento artificiale ancora presente nel
nostro ordine politico, o come castigo individuale? Destino,
ingiustizia, responsabilità individuale? A quale di queste
tre cause si deve attribuire questa terribile piaga?
Senza tener conto né della bontà né della cattiveria delle
nostre istituzioni economiche né delle disgrazie che i mem-
bri del proletariato possono aver vissuto, qual è, per quanto
li riguarda, l’effetto della concorrenza?
Per questa classe di persone, come per tutte le altre, l’effet-
to della concorrenza è duplice: sia come acquirenti sia come
venditori di servizi.
L’errore di tutti coloro che scrivono su questo argomento
è che non vedono mai più di un lato della questione. Come
i fisici che, se capissero solo la legge della forza centrifu-
ga, crederebbero e direbbero costantemente che tutto è per-
duto. Fornite loro dei dati errati e vedrete con quale logica
impeccabile vi porteranno alle loro conclusioni pessimiste.
Lo stesso si può dire delle lamentele che i socialisti basano
sulla loro esclusiva preoccupazione per il fenomeno della
concorrenza centrifuga, se posso usare questa espressione.
Dimenticano che esiste anche la concorrenza centripeta, e
questo basta a ridurre le loro teorie a farneticazioni infan-

148
tili. Dimenticano che l’operaio, quando va al mercato con il
salario che ha guadagnato, è il centro verso il quale si di-
rigono innumerevoli industrie, e che allora beneficia della
concorrenza universale di cui tutte le industrie si lamenta-
no a loro volta.
È vero che anche i membri del proletariato, quando si
considerano come produttori, come fornitori di lavoro o di
servizi, si lamentano della concorrenza. Ammettiamo dun-
que che la concorrenza sia a loro vantaggio da un lato, e
a loro svantaggio dall’altro; si tratta di determinare se l’e-
quilibrio è favorevole o sfavorevole, o se vi sono fattori di
compensazione.
A meno che non mi sia espresso molto male, il lettore si
rende ora conto che questo meraviglioso meccanismo del-
la concorrenza produce, come suo singolare e rassicurante
risultato, un equilibrio favorevole a tutti contemporanea-
mente, grazie all’abbassamento dei costi dovuto alla por-
zione di lavoro e impegno che diventa gratuita, ossia grazie
all’utilità gratuita che allarga costantemente il cerchio della
produzione e va a beneficio di tutti.
Ora, ciò che diventa gratuito e comune a tutti è vantag-
gioso per tutti e dannoso per nessuno; possiamo anche ag-
giungere, e con certezza matematica, che è vantaggioso per
tutti in proporzione diretta al loro precedente stato di po-
vertà. Questa parte di utilità gratuita, che la concorrenza
ha costretto a diventare comune a tutti, fa sì che i prezzi
tendano ad abbassarsi fino a raggiungere i costi, a vantag-
gio evidente del lavoratore. Anche questo fornisce la base
per la soluzione al problema sociale che ho cercato di tenere

149
costantemente davanti al lettore, e che solo un velo fatto di
idee sbagliate nate dall’abitudine può impedirgli di vedere,
cioè che per un dato costo ognuno riceve una somma di
soddisfazioni la cui tendenza è quella di aumentare e di
essere distribuite equamente.
Inoltre, la condizione del lavoratore è il risultato non di
una sola legge economica, ma di tutte. Capire la sua condi-
zione, scoprire cosa lo aspetta, cosa gli riserva il futuro, è
la sola e unica funzione dell’economia politica. Al mondo,
però, non ci sono solo lavoratori: ci sono anche i saccheg-
giatori. Cosa dà ai servizi il loro giusto valore? La libertà.
Cosa li priva del loro giusto valore? L’oppressione. Questo
è il ciclo che dobbiamo ancora attraversare.
Niente al mondo è più chiaro come la concorrenza, dopo
aver attribuito una maggiore proporzione di utilità44 a ogni
servizio, a ogni valore, lavora incessantemente per livella-
re i serizi stessi, per renderli proporzionali agli sforzi so-
stenuti. La concorrenza non è forse lo stimolo che orienta
gli individui verso carriere produttive e lontano da quelle
improduttive? La sua azione naturale è dunque quella di
assicurare una maggiore uguaglianza e allo stesso tempo
un livello sociale sempre più alto.
Cerchiamo però di capire cosa intendiamo per ugua-
glianza. Non implica ricompense identiche per tutti gli in-
dividui, ma ricompense adeguate alla quantità e alla quali-
tà dei loro sforzi.
Una serie di circostanze contribuisce a rendere ineguale
la retribuzione dei lavoratori. Ad un attento esame si scopre
44  Quantificazione della vantaggiosità di un bene o di un servizio (NdT)

150
che questa presunta disuguaglianza, quasi sempre giusta e
necessaria, non è in realtà altro che un’effettiva uguaglian-
za.
A parità di altre condizioni, si può trarre più profitto dal
lavoro pericoloso che dal lavoro che non lo è; dai mestieri
che richiedono un lungo apprendistato e spese che riman-
gono improduttive per molto tempo (come gli studi), che da
quelli in cui è necessaria solo la forza fisica; dalle profes-
sioni che richiedono menti preparate e gusti raffinati, che
dai mestieri in cui non è necessario nulla oltre le due mani.
Non è tutto questo giusto? Ora, la concorrenza stabilisce
necessariamente queste distinzioni; la società non ha biso-
gno di grandi politici o burocrati per decidere lo stipendio
di ogni lavoratore.
Tra questi vari fattori quello più generalmente decisivo è
la disuguaglianza di formazione; e qui, come dappertutto,
vediamo la concorrenza esercitare la sua duplice influenza,
livellando le classi ed elevando il livello generale della so-
cietà.
Se pensiamo alla società come composta da due strati
posti uno sopra l’altro, con la formazione predominante
nell’uno e la forza bruta predominante nell’altro, e se stu-
diamo le relazioni naturali di questi due strati tra loro, no-
teremo subito che il secondo strato vorrebbe raggiungere le
condizioni di benessere del primo.
La disuguaglianza stessa degli stipendi ispira allo stra-
to inferiore un desiderio ardente di raggiungere le regio-
ni più alte del benessere e dello svago, e questo desiderio
è incoraggiato dalla luce che illumina le classi superiori. I

151
metodi d’insegnamento vengono migliorati; i libri costano
meno; l’istruzione viene acquisita più rapidamente e a buon
mercato; l’apprendimento, che era stato monopolizzato da
una sola classe o addirittura diviso in caste, velato in una
lingua morta o in geroglifici, viene scritto e stampato in un
linguaggio sempre più chiaro a tutti e viene respirato come
l’aria.
E questo non è tutto. Mentre un’educazione più univer-
sale e più equa avvicina i due strati sociali, la loro fusione
viene accelerata dai fattori economici legati alla grande leg-
ge della concorrenza.
Il progresso nell’ingegneria diminuisce costantemente la
proporzione del lavoro manuale in qualsiasi operazione. La
divisione del lavoro, semplificando e isolando ognuna delle
operazioni che concorrono alla realizzazione del prodotto
finito, mette alla portata di tutti nuove industrie che prima
erano aperte solo a pochi.
Inoltre, varie mansioni che originariamente richiedevano
competenze altamente diversificate diventano, con il sem-
plice passare del tempo, semplice routine e vengono esegui-
te anche dai meno istruiti, come è successo in agricoltura.
Le tecniche agricole, che nell’antichità valsero ai loro sco-
pritori onori vicini alla divinizzazione, sono oggi comple-
tamente patrimonio e quasi monopolio dei lavoratori che
usano la forza fisica, tanto che questo importante settore è
diventato quasi un tabù per i ben educati.
È possibile trarre false conclusioni da tutto questo e dire:
«Si osserva effettivamente che la concorrenza abbassa gli
stipendi in tutti i Paesi, in tutti i mestieri e le professioni,

152
che li livella verso il basso; ma questo significa che i salari
del lavoro non qualificato, del semplice sforzo fisico, diven-
teranno la norma, lo standard per tutti gli stipendi.»
Il lettore mi ha frainteso se non percepisce che la concor-
renza, che tende ad allineare tutte le paghe eccessive a una
media più o meno uniforme, eleva necessariamente questa
media. Ciò è scoraggiante per i lavoratori nella loro qualità
di produttori; ma ne risulta un miglioramento della sorte
generale del genere umano nei soli aspetti in cui ci si può
ragionevolmente aspettare un miglioramento: nel benesse-
re, nella sicurezza finanziaria, nell’aumento del tempo li-
bero, nello sviluppo morale e intellettuale e, in sintesi, in
tutto ciò che riguarda il consumo.

La concorrenza non ha ancora fatto ciò


che promette?
L’umanità non ha ottenuto il progresso che questa teoria
sembra implicare?
Anzitutto, la concorrenza nella società moderna è ben
lontana dallo svolgere il suo ruolo naturale. Le nostre leggi
la frenano almeno tanto quanto la incoraggiano; e per ri-
spondere alla domanda se la disuguaglianza è dovuta alla
presenza o all’assenza di concorrenza, basta osservare chi
sono gli uomini che occupano la scena e ci abbagliano con
le loro scandalose fortune. Osservandoli bene, possiamo
affermare con assoluta certezza che la disuguaglianza con
loro è artificiale e ingiusta, si basa su saccheggi, monopoli,
restrizioni ottenute con la burocrazia, posizioni privilegia-

153
te, amicizie politiche, influenza sui partiti, accordi ammini-
strativi, prestiti dai fondi pubblici. La concorrenza non ha
alcun legame con questi elementi.
In secondo luogo, credo che non si apprezzi il progresso
che è stato fatto negli ultimi anni, nei quali abbiamo ottenu-
to una parziale emancipazione del lavoro. Voglio far notare
una curiosa verità: è necessario un grande intuito scientifi-
co per osservare i fatti che sono sotto i nostri occhi.
L’attuale livello di consumo di una onesta e laboriosa
famiglia operaia non ci sorprende perché l’abitudine ci ha
abituato a questa strana situazione. Se però confrontassimo
il tenore di vita che questa famiglia ha raggiunto con quel-
lo che le sarebbe toccato in un ipotetico ordine sociale dal
quale fosse stata esclusa la concorrenza; dovremmo render-
ci conto che la libertà, nonostante tutte le restrizioni ancora
esistenti su di essa, ha compiuto un miracolo così duraturo
che proprio per questo non ce ne rendiamo conto.
C’è stato un tempo in cui la giornata di lavoro di un arti-
giano non avrebbe comprato il più rozzo tipo di almanacco.
Oggi per cinque centesimi, o la cinquantesima parte del suo
salario giornaliero45, può comprare abbastanza carta per
stampare un intero volume. Potrei dire la stessa cosa per
l’abbigliamento, il trasporto, la spedizione, l’illuminazio-
ne e una miriade di altre soddisfazioni quotidiane. A cosa
sono dovuti questi risultati? Al fatto che una parte enorme
del lavoro umano, che deve essere pagato, è stato sostituito
dalle forze gratuite della natura.

45  Al momento attuale, dicembre 2021, la cinquantesima parte di un salario medio è di circa
2€ (NdT)

154
Questo rappresenta un costo che è stato eliminato, che
non richiede più un pagamento. È stato sostituito, attraver-
so l’azione della concorrenza, dall’utilità gratuita e comune;
e quando il costo di una data merce si abbassa, il lavoro
necessario per pagarla che viene risparmiato al povero è
sempre proporzionalmente maggiore di quello risparmiato
all’uomo ricco, come si può dimostrare matematicamente.
Infine, questo flusso di benefici in costante crescita, cre-
ato dal duro impegno e pompato in tutte le vene del corpo
sociale dalla concorrenza, non deve essere misurato intera-
mente in termini di comodità materiali attuali.
Fermiamoci un momento per ripercorrere la strada che
abbiamo appena percorso.
Ogni individuo ha desideri che non conoscono limiti.
Per soddisfarli ha materie prime e forze che gli vengono
fornite dalla natura, capacità, strumenti, tutte le cose che il
suo lavoro può mettere in funzione. Ogni individuo cerca
istintivamente, inevitabilmente, di portare in suo aiuto tut-
te le forze della Natura, tutto il talento naturale o acquisito,
tutto il capitale che può, affinché tutta questa cooperazione
gli porti più soddisfazioni. Così, la partecipazione sempre
più attiva delle risorse naturali, lo sviluppo costante delle
sue capacità intellettuali, l’aumento progressivo del capita-
le, danno luogo a questo fenomeno, a prima vista sorpren-
dente: che una data quantità del suo impegno fornisce una
somma sempre crescente di benefici, e che ognuno può,
senza togliere a nessun altro, godere di un numero di sod-
disfazioni (come consumatori) molto più grande della capa-
cità dei suoi sforzi di produrle.

155
Questo fenomeno ben presto si trasformerebbe in disu-
guaglianza, se non fosse combinato con la concorrenza.
Infatti, se un individuo (o una classe o una nazione inte-
ra) trovasse delle risorse naturali o facesse una scoperta
e impedisse agli altri di fargli concorrenza, è ovvio che
questo individuo manterrebbe il monopolio per tutto il
tempo a venire, a spese del genere umano.
Tuttavia, grazie alla concorrenza ogni forza produttiva,
ogni tecnica migliorata, ogni invenzione scivola dalle mani
del suo ideatore, rimanendovi solo abbastanza a lungo per
dargli un breve assaggio di profitti eccezionali, per poi pas-
sare ad aumentare il patrimonio gratuito e comune di tutta
l’umanità.

La concorrenza non è solo


economia
Abbiamo già parlato degli effetti economici della concor-
renza; ci resta da dare uno sguardo ad alcune delle sue con-
seguenze politiche e morali. Mi limiterò a segnalare le più
importanti.
Alcuni commentatori superficiali hanno accusato la con-
correnza di creare antagonismi tra gli uomini. Questo è
vero e inevitabile finché gli uomini sono considerati solo
come produttori; ma se li consideriamo come consumato-
ri, vedremo che la concorrenza unisce individui, famiglie,
classi, nazioni e popoli nei legami della fratellanza univer-
sale.
Ho parlato solo dei benefici; avrei potuto dire altrettanto

156
per i mali che affliggono certi popoli o certe regioni. Se un
disastro naturale devasta le terre dei contadini, i consuma-
tori di pane saranno quelli a soffrire di più. Se una tassa
ingiusta viene imposta sui vigneti di Francia, si traduce in
prezzi elevati del vino per tutti i bevitori di tutto il mondo.
Quindi, invidiare a un qualsiasi popolo la fertilità della
sua terra, o la bellezza dei suoi porti e dei suoi fiumi o il
calore del suo sole, significa non comprendere i benefici che
siamo invitati a condividere. È disprezzare l’abbondanza
che ci viene offerta; è odiare la fatica che ci viene risparmia-
ta. Quindi, le gelosie nazionali non sono solo sentimenti
dannosi: sono assurde. Danneggiare gli altri è danneggia-
re noi stessi; spargere ostacoli, dazi, coalizioni o guerre sul
cammino degli altri è ostacolare il nostro stesso progresso.
Di conseguenza, una società giusta si regge su questi
principi: l’utilità è uno degli aspetti della giustizia; la liber-
tà è la più bella delle armonie sociali; l’equità è la migliore
politica.
Una seconda conclusione da trarre da questa dottrina
della libertà è che la società è già una vera associazione uni-
versale. I politici socialisti possono risparmiarsi la fatica di
cercare la soluzione del grande problema comunista; essa è
già stata trovata.
Tale soluzione non deriva dalle loro idee totalitarie, ma
dall’organizzazione spontanea degli individui e della so-
cietà. Le forze della natura, le tecniche efficienti, gli stru-
menti di produzione - tutto è disponibile in comune per
tutti gli individui o tende a diventarlo. Tutto tranne le fati-
che, il lavoro e l’ingegno dell’individuo. C’è e ci può essere

157
una sola disuguaglianza, che anche i comunisti più intran-
sigenti ammettono: la disuguaglianza che deriva dagli sfor-
zi dei diversi individui.
La società ci permette di condividere la ricchezza in modo
naturale e spontaneo, a meno che non si voglia affermare
che ciascuno dovrebbe avere la stessa ricchezza, anche se la
sua partecipazione al lavoro non è uguale a quella degli al-
tri. Questa sarebbe una situazione che certamente produr-
rebbe la più ingiusta e mostruosa delle disuguaglianze - e
la più disastrosa, perché non distruggerebbe la concorren-
za, ma semplicemente ne invertirebbe la direzione: gli in-
dividui competerebbero ancora, ma per eccellere nell’ozio,
nella stupidità e nella disonestà.
Che nessuno fraintenda le mie parole. Non dico che la
fratellanza, la comunità e la perfettibilità siano contenute
totalmente nell’idea di competizione. Dico che la concor-
renza è alleata con questi tre grandi principi sociali e che è
uno degli agenti più potenti per la loro realizzazione.
Mi sono dato il compito di descrivere gli effetti generali
e benefici della concorrenza, perché sarebbe un sacrilegio
supporre che una grande legge della natura possa essere
permanentemente dannosa, ma non nego che la sua azio-
ne possa essere accompagnata da molti disagi e sofferen-
ze. Ora, poiché la concorrenza ha come missione e come
risultato quello di togliere all’individuo il monopolio (o il
godimento esclusivo di una risorsa o di un’invenzione) e
di renderlo proprietà comune, è inevitabile che tutti gli in-
dividui, nella misura in cui sono produttori, si uniscano in
un coro di imprecazioni contro la concorrenza. Possono ri-

158
conciliarsi con essa solo quando tengono conto dei loro in-
teressi come consumatori; quando si considerano non come
membri di un gruppo speciale o di una corporazione, ma
come liberi individui.
L’economia politica, bisogna ammetterlo, non ha ancora
fatto abbastanza per dissipare questo disastroso errore, che
è stato la fonte di tanti odi, calamità, risentimenti e guerre.
Ha invece speso i suoi sforzi, con poca giustificazione scien-
tifica, nell’analisi dei fenomeni della produzione. Anche la
sua terminologia, per quanto comoda, non è conforme al
suo oggetto di studio.
“Agricoltura”, “manifattura”, “commercio”, sono ottime
classificazioni, forse, quando l’intenzione è quella di descri-
vere le tecniche seguite in queste arti; ma questa descrizio-
ne, anche se idealmente adatta alla tecnologia, difficilmente
contribuisce alla comprensione dell’economia sociale. Pos-
so aggiungere che è decisamente pericolosa. Quando ab-
biamo classificato gli individui come agricoltori, produttori
e uomini d’affari, di cosa possiamo parlare con loro se non
dei loro interessi di classe speciali, che sono resi antago-
nisti dalla concorrenza e sono in conflitto con il benessere
generale?
L’agricoltura non esiste per il bene dei contadini, la pro-
duzione per i fabbricanti o il commercio per gli uomini
d’affari, ma affinché tutti gli individui possano disporre del
maggior numero possibile di beni di ogni tipo.
Recentemente, un celebre professore ha soppresso com-
pletamente questo aspetto della nostra scienza, si è occu-
pato dei mezzi escludendo i fini, e ha bandito dal suo corso

159
ogni riferimento al consumo della ricchezza, con la moti-
vazione che questo è un argomento che appartiene all’etica
e non all’economia politica!
Non ci si può meravigliare che l’opinione pubblica si pre-
occupi più degli svantaggi della concorrenza che dei suoi
vantaggi, dato che i primi riguardano il pubblico dal punto
di vista particolare della produzione, di cui si parla sempre,
e i secondi solo dal punto di vista generale del consumo, di
cui non si parla mai.
Per il resto - lo ripeto - non nego, riconosco e detesto le
sofferenze che la concorrenza ha inflitto agli individui; ma
è questa una ragione per chiudere gli occhi sul bene che
essa compie? È meglio percepire questo bene perché la con-
correnza, come le altre grandi leggi della natura, non potrà
mai essere eliminata.
Se potesse essere distrutta, senza dubbio avrebbe ceduto
di fronte a tutti i rivoluzionari che ci hanno provato. Ma se
sono stati abbastanza pazzi da cercare di distruggerla, non
sono stati abbastanza forti per riuscirci.
Ogni passo compiuto dal progresso è, inizialmente, ac-
compagnato da sofferenze e difficoltà. La ricchezza unita
allo svago favorisce la crescita personale, ma alimenta an-
che l’ostentazione e lo snobismo tra i ricchi e il risentimento
e l’invidia tra gli umili. La stampa porta l’informazione e
la verità a tutti gli strati della società, ma porta anche no-
tizie dubbie e gravi errori. La libertà politica ha scatenato
abbastanza rivoluzioni sulla terra e ha indotto i pensatori
a chiedersi se non preferirebbero la sicurezza sotto l’ombra
del dispotismo.

160
Vari secoli fa la società era fondata sulla conquista e sul
saccheggio, c’erano solo padroni e schiavi, e la disugua-
glianza all’interno della società era estrema. La concorren-
za ha reso sempre più uguali e vicini individui di diverso
rango, fortuna e intelligenza e non poteva riuscirci senza
infliggere sofferenze individuali che, man mano che l’opera
progrediva, sono diventate sempre minori, come le oscilla-
zioni di un pendolo. L’umanità impara ogni giorno ad op-
porre alle sofferenze due potenti rimedi: la lungimiranza,
nata dall’esperienza e dall’istruzione, e la cooperazione so-
ciale, che è lungimiranza organizzata.

Oltre la concorrenza
Ho cercato di spiegare come la funzione della proprietà
privata sia quella di fornire ciò che è utile agli esseri umani,
di mettere un tale prodotto o una tale idea a disposizione
di tutti, e poi di volare via verso nuove conquiste, in modo
che ogni sforzo compiuto (e, di conseguenza, la somma di
tutti gli sforzi) renda disponibile al genere umano un nu-
mero crescente di soddisfazioni. Il progresso consiste nel
fatto che i servizi generati dagli individui, quando vengo-
no scambiati, fungono da veicolo per trasmettere una parte
sempre più grande di utilità che è gratuita, e quindi comu-
ne a tutti.
Diamo ora uno sguardo alla strada che il lettore deve an-
cora compiere.
Alla luce della teoria che abbiamo esposto in questo volu-
me, dovremo studiare ancora come funzionano i salari, le
rendite, i prestiti, la tassazione e molto altro.

161
Saremo allora in grado di risolvere un certo numero di
problemi pratici che sono ancora oggetto di controversie:
libero scambio, automazione, lusso, tempo libero, sindacati,
organizzazione del lavoro, eccetera.
Anticipando le nostre scoperte in questo studio, non esito
a dire che esse possono essere espresse nei seguenti ter-
mini: un costante avvicinamento di tutti gli uomini verso
un tenore di vita in continuo miglioramento - in una sola
parola: armonia.
Tale è il risultato finale delle grandi leggi della natura,
quando agiscono senza impedimenti, se eliminiamo il di-
sturbo a cui la loro azione è stata sottoposta dall’errore e
dalla violenza. Alla vista di questa armonia l’economista
può ben gridare, come fa l’astronomo quando osserva il
movimento dei pianeti, o il fisiologo quando contempla la
struttura dei nostri organi umani: Digitus Dei est hic!46
Ma l’individuo è un agente libero, e di conseguenza falli-
bile. È soggetto all’ignoranza e alla passione. La sua volontà,
che può sbagliare, entra come elemento nel funzionamento
delle leggi economiche; può fraintenderle, può annullarle,
può deviarle dal loro scopo. Come il fisiologo, dopo aver
ammirato la complessità dei nostri organi, li studia anche
nel loro stato anormale, quando sono malati; così anche noi
dovremo entrare in un nuovo mondo: il mondo delle ma-
lattie sociali.
Sarebbe impossibile per noi valutare i mali della società,
la loro origine, i loro effetti, la loro funzione, i limiti sempre
più stretti entro i quali la loro stessa azione li comprime (fe-
46  “Qui vi è il dito di Dio!”

162
nomeno che costituisce ciò che oserei quasi chiamare una
discordia armoniosa), se non esaminassimo le conseguenze
necessarie del libero arbitrio, le aberrazioni dovute all’inte-
resse personale, che comportano sempre una punizione, e
le grandi leggi della responsabilità e della solidarietà uma-
na.
Abbiamo visto che tutte le armonie sociali sono contenu-
te in questi due principi: proprietà e libertà. Vedremo che
tutte le discordie sociali sono figlie di questi due principi
contrari: il saccheggio e l’oppressione.
E, in effetti, le parole “proprietà” e “libertà” non esprimo-
no che due aspetti della stessa nozione fondamentale. Dal
punto di vista economico, la libertà è legata all’atto della
produzione, la proprietà alla cosa prodotta.
Libertà! Qui, in ultima analisi, si trova la fonte dell’armo-
nia. Oppressione! Ecco la fonte della discordia. La lotta tra
queste due forze riempie i libri di storia.
E poiché l’oppressione ha per scopo l’appropriazione in-
giusta della proprietà, poiché si trasforma e fonde la sua
identità con il saccheggio, è il saccheggio che mostrerò in
azione.
Ogni individuo viene in questo mondo vincolato al giogo
del bisogno, che è dolore.
Può fuggire solo sottomettendosi al giogo della fatica, che
è anche dolore.
Ha quindi solo una scelta tra due tipi di dolore, ed egli
odia il dolore.
Per questo si guarda intorno, e se vede che il suo simile

163
ha accumulato ricchezze, concepisce l’idea di farle sue. Da
qui la proprietà acquisita ingiustamente, il saccheggio!
Saccheggio! Ecco un nuovo elemento nell’economia della
società.
Dal giorno in cui il saccheggio è apparso per la prima
volta sulla terra, fino al giorno (se mai verrà) in cui il sac-
cheggio sarà completamente scomparso, questo elemento
ha avuto ed avrà un effetto profondo su tutto il meccanismo
sociale; disturberà il funzionamento delle leggi armoniose
che abbiamo studiato nelle pagine precedenti.
Il nostro compito, dunque, non sarà finito finché non
avremo dato un resoconto completo del saccheggio.
Forse si penserà che è solo un fenomeno accidentale,
anormale, una piaga che guarirà presto, indegna di un’in-
dagine scientifica.
Ma facciamo attenzione. Il saccheggio occupa, nelle tradi-
zioni delle famiglie, nella storia delle nazioni, nelle energie
fisiche e intellettuali di ogni individuo, nelle disposizioni
della società, nelle precauzioni dei governi, un posto im-
portante quasi quanto la proprietà stessa.
No, il saccheggio non è un problema passeggero, che col-
pisce accidentalmente il meccanismo sociale, e la scienza
dell’economia non può ignorarlo.
Entriamo nella capanna del cacciatore selvaggio o nella
tenda del pastore nomade. Cosa vedono i nostri occhi? La
moglie, magra, sfigurata, terrorizzata, invecchiata prima
del tempo, porta tutto il peso delle faccende domestiche,
mentre il marito ozia e poltrisce. Che idea possiamo farci
qui dell’armonia familiare? Non c’è, perché la forza ha fatto

164
ricadere sugli indifesi il peso della fatica. E quanti secoli di
civiltà ci vorranno prima che la donna si sollevi da questa
spaventosa situazione?
Il saccheggio, nella sua forma più brutale, brandendo tor-
cia e spada, riempie i libri di storia. Quali sono i nomi che
compongono la storia? Ciro, Alessandro, Scipione, Cesare,
Attila, Tamerlano, Maometto, Pizarro, Guglielmo il Conqui-
statore: veri e propri saccheggiatori tramite le loro conqui-
ste. A loro vanno le corone d’alloro, i monumenti, le statue,
gli archi di trionfo, le canzoni dei poeti, l’inebriante ammi-
razione delle dame!
Dopo un po’ ogni conquistatore pensa a un modo relati-
vamente migliore di trattare i conquistati: anziché ucciderli,
li schiavizza. Quasi fino ai nostri giorni, in tutto il mondo,
la schiavitù era accettata, lasciando una scia di odio, resi-
stenza, lotte civili e rivoluzione. E cos’è la schiavitù se non
un’oppressione organizzata che ha per oggetto il saccheg-
gio?
Se il saccheggio arma i forti contro i deboli, non di meno
permette ai furbi di danneggiare i creduloni. Quali popoli
industriosi ci sono sulla terra che sono sfuggiti allo sfrutta-
mento per mano di teocrazie sacerdotali, sacerdoti egiziani,
oracoli greci, auguri romani, druidi gallici, bramini, muftì,
ulema, bonzi, monaci, preti, stregoni, indovini, saccheggia-
tori di tutte le vesti e religioni?
È la genialità dei saccheggiatori di questo tipo a porre il
loro fulcro in cielo e a gloriarsi di una complicità blasfema
con Dio! Mettono in catene non solo i corpi degli uomini,
ma anche le loro menti. Ottengono così ciò che sembrerebbe

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impossibile: la schiavitù della mente.
O libertà! Ti abbiamo vista cacciata di paese in paese,
schiacciata dalla conquista, vicina alla morte nella servi-
tù, derisa alle corti dei potenti, cacciata dalle scuole, derisa
nei salotti, mal interpretata nello studio, anatemizzata nel
tempio. Sembrerebbe che almeno nel pensiero tu possa tro-
vare un rifugio inviolabile. Ma se tu dovessi arrenderti in
quest’ultimo rifugio, che ne sarebbe della speranza e della
dignità degli esseri umani?
Alla lunga il saccheggio genera, nei luoghi stessi in cui
domina, un’opposizione che paralizza il suo potere e una
conoscenza che smaschera le sue imposture. Ma non per
questo cede; diventa semplicemente più astuto, e avvolgen-
dosi in forme di governo e di gruppi di interesse, mettendo
una fazione contro l’altra, si rivolge all’intrigo politico, da
sempre fonte fertile di potere illecito.
Allora vediamo il saccheggio usurpare la libertà dei cit-
tadini per sfruttare più facilmente le loro ricchezze, e spre-
merli di più per sottometterli. L’impresa privata diventa
impresa pubblica. Tutto è fatto da funzionari governativi;
una burocrazia stupida e vessatoria domina sulla terra.
L’erario pubblico diventa un vasto serbatoio in cui coloro
che lavorano versano i loro guadagni, in modo che gli sca-
gnozzi del governo possano attingerli a loro piacimento. Le
transazioni non sono più regolate dalla libera contrattazio-
ne, e nulla può stabilire o preservare il principio del libero
scambio volontario.
In questa situazione la proprietà è cancellata, e ogni citta-
dino si appella alla legge per dare ai suoi servizi un valore

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artificiale e arbitrario.
Così entriamo nell’era del privilegio. Il saccheggio, sempre
più nascosto, si stabilisce nei monopoli e si nasconde dietro
le regolamentazioni; devia il corso naturale dello scambio.
Produce faticosamente al nord ciò che potrebbe essere pro-
dotto facilmente al sud; crea industrie inefficienti; sostiene
imprese che non possono sopravvivere alla concorrenza, e
poi invoca l’uso della forza contro i loro concorrenti. Suscita
gelosie internazionali, incoraggia sentimenti nazionalistici
e inventa teorie ingegnose che fanno degli alleati dei suoi
stessi imbroglioni. Elimina dalla mente dei cittadini ogni fi-
ducia nel futuro, ogni fede nella libertà e persino il loro sen-
so della giustizia. E poi, quando la scienza smaschera que-
sti misfatti, il Saccheggio aizza anche le sue vittime contro
la scienza, con il grido di battaglia: «Avanti verso l’utopia!»
In effetti, ripudia non solo la scienza che lo ostacola, ma
anche l’idea che la scienza possa essere applicata a queste
aree, dichiarando con cinismo incoraggiante: «Non ci sono
principi assoluti!»
Tuttavia, spronate dalle loro sofferenze, le masse operaie
si ribellano e rovesciano tutto ciò che le sovrasta. Il governo,
la tassazione, la legislazione, tutto è alla loro mercé. E pro-
prio quando pensiamo che il saccheggio stia per terminare
e che ci verranno restituire le nostre libertà, ci accorgiamo
di essere stati ingannati. Ahimè! Le masse ora pensano che
la proprietà abbia la propria legittimità nella legge, e quindi
i nuovi governatori del popolo istituiscono una legislazio-
ne per depredarsi a vicenda. Questa viene chiamata solida-
rietà, fratellanza: «Tu hai prodotto; io no; siamo compagni;
condividiamo». «Tu possiedi qualcosa; io non possiedo nul-

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la; siamo fratelli; condividiamo».
Dobbiamo dunque esaminare gli abusi commessi in que-
sti ultimi anni nel nome del “popolo”, sotto le bandiere dei
sindacati e con la promessa dell’uguaglianza. Sono compa-
tibili con il principio di libertà o con quello di oppressione?
In altre parole: sono conformi alle leggi dell’economia o co-
stituiscono un disturbo al loro funzionamento?
Posso concludere così: in tutto ciò che riguarda l’essere
umano, un essere che è perfettibile proprio perché è im-
perfetto, l’armonia non consiste nell’assenza completa del
male, ma nella sua graduale riduzione. Il corpo sociale,
come il corpo fisico, è in possesso di una forza curativa, vis
medicatrix naturae47, le cui leggi e il cui potere infallibile non
possono essere studiati senza evocare nuovamente le paro-
le: Digitus Dei Est Hic48.

47  “forza guaritrice della natura”


48  “Qui vi è il dito di Dio”

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