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In realtà le critiche nei confronti dell’inevitabile ritiro degli Stati Uniti suggeriscono che la vera
minaccia per la sicurezza e la credibilità dell’occidente non nasce da quello che succede nelle
campagne dove abitano i pashtun o da un ipotetico ritorno di Al Qaeda, ma dalle riflessioni
che si fanno a Washington.
Le generazioni più giovani probabilmente non si ricordano i grandiosi piani annunciati nel
2001 dai leader angloamericani. All’epoca Tony Blair parlò di portare la salvezza non solo agli
afgani ma anche “alle persone affamate, disperate, impoverite e ignoranti che vivono nello
squallore, dai deserti del Nordafrica alle baraccopoli di Gaza”. Nell’ottobre del 2001 Max Boot
dichiarò che “oggi l’Afghanistan e altre terre martoriate hanno bisogno del tipo di
amministrazione straniera illuminata che un tempo era fornita da inglesi sicuri di sé, in
pantaloni alla cavallerizza e caschi coloniali”. Leggendo questi deliri neoimperialisti nel 2001
mi tornavano alla mente le parole di Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo. Il “fardello
dell’uomo bianco”, scrisse negli anni quaranta, era “l’ipocrisia o il razzismo”, e quelli che lo
accettavano erano “tragici e donchisciotteschi giullari dell’imperialismo”.
Nel 2001 sembrava che le élite occidentali non avessero imparato nulla dal loro passato, dai
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9/14/21, 10:32 AM La tragedia afgana e il delirio imperialista - Pankaj Mishra - Internazionale
disastri provocati dagli inglesi sicuri di sé. Non avevano capito neanche la lezione della
decolonizzazione, cioè che i popoli non bianchi non avrebbero più sopportato le occupazioni
dei bianchi, a prescindere dalla situazione nel loro paese. Questa tendenza è stata esplicitata
dalla figura meno “taliban” possibile: Gandhi, che durante la seconda guerra mondiale lanciò
una campagna contro il Regno Unito, invitandolo a lasciare l’India a dio o “all’anarchia”.
Nel 2021 scopriamo che alcune élite occidentali sono ancora inconsapevoli del proprio passato
fatto di incapacità di governare e vergognose ritirate. E come se non bastasse, ubriache di
potere, non hanno imparato nulla nemmeno dal presente, nello specifico dalla serie di
fallimentari interventi in Iraq, Yemen, Somalia e Libia che hanno partorito il gruppo Stato
Islamico, al cui confronto i taliban sono dei moderati. Queste élite non capiscono che il ritiro
statunitense dall’Afghanistan ha un significato che nessun disimpegno imperiale del passato
ha mai avuto. Prima di tutto è sostenuto dalla volontà popolare: la maggioranza dell’opinione
pubblica occidentale ha voltato le spalle da tempo alle guerre infinite e infruttuose volute dai
suoi leader.
La stessa natura della guerra è cambiata. Nel suo nuovo libro Humane. How the United States
abandoned peace and reinvented war lo studioso di diritto Samuel Moyn dimostra come a
partire dagli ultimi anni dell’amministrazione Bush, e sempre di più nel corso delle
amministrazioni Obama e Trump, le missioni militari convenzionali hanno lasciato spazio alle
operazioni con i droni e i missili. Le guerre interminabili tanto amate dalle élite occidentali
non sono al capolinea, sono semplicemente diverse e meno vistose. Gli stivali sul campo, i
pantaloni alla cavallerizza e i caschi coloniali oggi sono stati sostituiti dai robot.
Riguardo al mito della “costruzione di una nazione”, dopo vent’anni di fallimenti nessuno
crede più che un flusso di soldi provenienti dall’estero (che spariscono quasi sempre nelle
tasche dei contractor militari e dei signori della guerra) possa aiutare a costruire un’economia
moderna, figuriamoci una democrazia. “Date una possibilità alla guerra”, scrisse Thomas
Friedman nel 2001 mentre gli Stati Uniti bombardavano l’Afghanistan. Ma le guerre
neoimperialiste e le crociate umanitarie di inizio millennio erano fuori tempo massimo.
Mettere in gioco la sicurezza e la credibilità degli Stati Uniti è stata una pazzia.
La ricomparsa dei taliban riproporrà la fantasia machista della battaglia occidentale per
“salvare” i nativi arretrati. La verità è che anche l’occidente, come l’Afghanistan, ha bisogno di
essere salvato dai giullari donchisciotteschi dell’imperialismo.
Questo articolo è uscito sul numero 1425 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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