Sei sulla pagina 1di 27

Ipotesi sull’intelligenza artificiale

i. Creazione, pensiero, determinismo, realtà, dio, denaro

Chiedere se mai un’intelligenza artificiale sarà in grado di replicare


perfettamente un essere umano è una domanda triviale e
fondamentalmente inutile. L’intelligenza artificiale i computer e le
macchine sono creati con lo scopo di fare meglio dell’uomo, sorpassarlo
a livello cognitivo, logico e motorio. Perché dovremmo creare un clone
biologico dell’uomo? Per sentirci Dio? Per divertimento? Forse sì, e se
allora una civiltà come la nostra trova l’intrattenimento nelle simulazioni
e nelle repliche della natura, chi ci dice che la nostra natura stessa non
sia anch’essa uno strato simulato di qualcuno che viene prima di noi, e se
azzardiamo l’astrazione potremmo dire di essere il prodotto di una
simulazione di un’intelligenza artificialmente creata da un’altra
intelligenza artificiale, e così fino a Dio, all’origine. Siamo noi allora
transartificiali?. Il pensiero è replicabile, d’altronde ciò che pensiamo è
determinato da ciò che sappiamo e ciò che sappiamo è determinato da
ciò che abbiamo vissuto, e se un'intelligenza artificiale “vive” per un
tempo pari a raggiungere l’ammontare delle esperienze di un uomo,
allora potrebbe esserci una corrispondenza. Però il dubbio è se poi la
razionalità del robot, al fine di eguagliare maggiormente l’uomo, possa
mai apparire come irrazionalità. Perché d’altronde l’uomo ha una
razionalità limitata, ha interruzioni logiche e spesso agisce senza chiara
visione del movente, e se dunque un robot dovesse mai essere costruito
per emulare l’uomo, allora dovrebbe tenere in conto anche questo. Ma la
razionalità è imprevedibile? E come si potrebbe fare a simulare
(determinare) un qualcosa di imprevedibile? O in realtà l’irrazionalità in
sé non è altro che una definizione fluida che varia a seconda
dell’interpretazione.

Se definiamo la razionalità come un modo di agire conforme ad un


assetto di norme che danno ordine e struttura alla società, allora
tecnicamente si può comandare un robot ad agire contro tali regole
apparendo così irrazionale. Ma al tempo stesso sarà razionale nei
confronti dell’algoritmo che lo comando ad essere irrazionale verso
l’altro assetto di regole. Servirebbe una deviazione spontanea, un errore,
servirebbe un errore logico non artificiale.

Se una intelligenza artificiale si comporta sempre secondo un set di


regole ben definite, algoritmi e formule, non potrà mai tecnicamente
avete un comportamento irrazionale, perché aldilà di tutto seguirà
sempre quegli input. Ma se invece deviasse e non si comportasse come
indicato dalle formule? Ad esempio tramite anomalie o errori? Allora si
potrebbe rispondere che tecnicamente gli errori e le anomalie osservate
sono già implicitamente scritte negli algoritmi che formano il
comportamento dell’intelligenza artificiale, cioè non è il robot che devia
dagli input ma sono gli input stessi che fanno deviare dal risultato atteso.
Sarebbe quasi impossibile emulare l’irrazionalità intesa come errore non
scritto, perché emulare richiede seguire delle relazioni logiche e
prestabilite, che per definizione, sono ciò che determinano un
comportamento razionale.

Quindi forse è impossibile creare un'intelligenza artificiale che sia


uguale all'uomo, forse dovremmo limitarci a creare un’intelligenza che
ci superi sul piano cognitivo. D’altronde è ben noto come l’uomo sia
ricco di bias e che la tanto assiomatica onniscienza cognitiva non è poi
tanto assiomatica. L’uomo non ha la potenza computazionale e di
calcolo del robot; quindi, limitiamo lo sviluppo dell’intelligenza
artificiale affinché si possa compensare questa mancanza.

I robot, le macchine, dotati di intelligenza artificiale, non vengono creati


con l’intento di replicare l’uomo, la natura o altri animali, bensì con lo
scopo di superarne le capacità, ottenere un’efficienza maggiore. Quindi
così come L’uomo non ha creato macchine con le gambe per spostarsi a
velocità pari a quelle di un ghepardo, ma lo ha fatto su ruote; né
tantomeno ha cercato di replicare il battito d’ali dei volatili quando ha
costruito il primo aereo, allora così non si cimenterà nella creazione di
un cervello robotico per simulare le stesse identiche caratteristiche
umane, goffe ed imperfette.

Il calcolo mentale basato sulla logica, sulla previsione binaria e sulla


pianificazione strategica, e nella risoluzione di complessi problemi
matematici è la base elementare dell’intelligenza artificiale, mentre le
sue abilità sul campo sensomotorio sono limitate e richiedono un enorme
dispendio computazionale. C’è quindi un’asimmetria per cui i problemi
più complessi per l’uomo risultano semplici per una macchina (che sia
spostare carichi di tonnellate o la scomposizione in fattori primi) mentre
le attività più banali per l’uomo, come inserire un disco in un giradischi
o versare due cucchiaini di zucchero nel caffè, risultato di estrema
complessità per un robot, si tratta del paradosso di Moravec.

Questa differenza risiede nel fatto che l’uomo è meno consapevole di ciò
che le nostre menti sanno fare meglio e siamo più consapevoli dei
processi semplici che non funzionano bene piuttosto che di quelli
complessi che funzionano. In altri termini, le nostre capacità motorie di
base sono spesso e volentieri automatismi inconsci che non necessitano
ponderazione, calcolo ed esecuzione conscia, bensì è un agire diretto che
il nostro pensiero non raggiunge. Non pensiamo “ora do azione al mio
braccio per spostarsi e avvicinarsi alla tazza, poi aprirò e chiuderò la
mano per afferrarla e infine riportarla alla bocca per bere.”

La risposta a questo meccanismo è fornita dalla seguente intuizione:

Parafrasando Moravec, la capacità sensomotoria dell’uomo è codificata


in una struttura biologica vecchia milioni di anni, che si è adattata per far
sì che dinamiche che vanno dalla respirazione, alle attività sociali, siano
quasi automatiche. Il pensiero astratto è un prodotto relativamente
recente, in termini di centinaia di migliaia di anni. E l’intelligenza
artificiale nasce come articolazione del pensiero astratto, del
ragionamento, dell’analisi, di cui è (in)naturalmente padrona.

Se però il pensiero astratto intriso di logica, razionalità e variabili


quantificabili, perché un’intelligenza artificiale non viene utilizzata nella
risoluzione di conflitti? Per analizzare tutte le variabili in gioco e trarre
la conclusione più favorevole per le parti? Un programma dovrebbe
essere costruito ai fini dell’equità, ma non accade, perché? Forse sarebbe
necessario un precedente, assegnare dei valori ai risultati, ma tale
assegnazione risulterebbe tanto arbitraria quanto l’esito stesso non
computerizzato, con la conseguenza che il risultato dipenderebbe dal
programmatore dell’algoritmo. Se un robot deve scegliere tra continuare
una guerra o sospenderla, deve valutare in termini di teoria dei giochi i
possibili payoff legati alle scelte, il problema risiede nella definizione di
tali payoff, che in ogni caso sarebbe viziata dalle intenzioni del
programmatore. Quindi ci si limita ad utilizzare il robot solamente nelle
attività sì astratte ma con un punto di evacuazione immediato, quindi una
scelta x che porta ad un’attuazione di un meccanismo per un risultato
voluto e quantificabile.

Questo perché la macchina è efficienza, non ha freni morali o spigolature


etiche, agisce e non rallenta il processo. Un computer che deve smaltire
titoli tossici da una banca prima che questi saltino in aria, lo farà senza
esitazione, perché l’esitazione è umana, è sintomo di emozioni e di
domande che un robot non può porsi. Se è programmato per un fine, lo
compie e nel minor tempo possibile. L’uomo ha limiti, si porrà
interrogativi sulla correttezza delle proprie azioni, o almeno nella
maggior parte dei casi, e piegherà l’efficienza che un robot raggiunge
spontaneamente. Quindi ogni ordine che guida l’azione automatica in
direzione del risultato sopprime inevitabilmente lo spazio riflessivo del
lavoratore. La macchina agisce, ma non sta a lei valutare la correttezza
perché una macchina non può sapere cosa è corretto e cosa no se non
viene istruita in tal senso. È un pericolo, perché dall’uomo alla macchina
scompare il filtro culturale che poteva eventualmente ammortizzare
l’immoralità delle decisioni più drastiche. E si parla di vendite di titoli
privi di valore, dello scarico di sostanze tossiche, di chiudere un occhio
di fronte alla regolarità sanitaria degli allevamenti intensivi, e via
dicendo.

Se magari traslando il lavoro e la produttività dall’uomo al robot


ottenessimo la libertà per fantasticare e per ritornare ad essere creativi?
Forse è necessario che i robot siano tanto efficienti e più avanzati degli
uomini in termini produttivi, cossichè l’uomo possa smettere di produrre
e darsi al tempo libero, dare sfogo al pensiero. Come i greci, che nella
loro ricchezza e nella loro magnificienza avevan o il tempo di pensare, e
la filosofia ne è il prodotto, le genialità alla base della scienza nascono
dall’antica grecia.

Il robot non deve essere sviluppato né visto come un’alternativa o se si


vuole un doppione dell’uomo, bensì come sua estensione, come suo
miglioramento.

Ma se è proprio l’imperfezione del pensiero umano ad averci portato fin


qui? L’errore è motore d’innovazione, è raro se non impossibile scoprire
qualcosa cercandolo, proprio perché non si conosce ciò che si sta
cercando di scoprire, si parla di miglioria o innovazione anziché di
invenzione. Le macchine potranno pertanto innovare e non inventare.
Ma se invece si inserisse la variabile dell’errare nell’algoritmo che
governa un robot? Sarebbe allora possibile la serendipità?

Si potrebbe inserire un comando che fa deviare il ragionamento del robot


dalla logica? Oppure basterebbe semplicemente insegnargli a calcolare
ogni possibile combinazione degli elementi che gli si pongono davanti e
trovare la novità?

Un robot forse non è capace, sempre in relazione al paradosso di


Moravec, a porsi domande dalla formulazione apparentemente semplice
ma che sono forza motrice del pensiero filosofico, l’esistenzialismo,
l’assurdo, e i vari movimenti che nascono da pensatori atipici,
controtendenziali e “diversi”. L’intelligenza artificiale potrebbe forse
essere incapace di porsi le domande di questo tipo (qual è lo scopo
dell’uomo, della vita), perché paradossalmente (Moravec) è più semplice
fornire risposte che formulare domande, al contrario magari dell’uomo
che sa sollevare questioni ma spesso trovare la risposta richiede risorse
spropositate.
Però ragionandoci, se un computer fosse nutrito di tutte le informazioni
presenti sul web, questo avrebbe accesso a tutte le domande e le risposte
che l’uomo abbia mai formulato e da queste crearne delle nuove, ma
allora di nuovo, non è possibile per lui immaginare e tirar fuori da sé una
domanda, senza doverla estrarre da un archivio di precedenti
formulazioni. Almeno questo finché non si trasforma in vita, ma è
decisamente presto per poter fare congetture a riguardo.

Può un’intelligenza artificiale credere in Dio? O immaginare che sia


stata creata da qualcosa di superiore ed ultraterreno? Ferno restando che
tra i suoi input non ci sia un comando che gli insegni a porsi domande
sulla sua creazione, perché a quel punto non sarebbe una riflessione sua
ma un’esecuzione artificiale. Quindi in realtà la domanda sarebbe: può
mai un’intelligenza artificiale pensare al di fuori dei limiti algoritmici e
pertanto deviare dalla sua natura artificiale? Può porsi domande non
scritte? E se ciò accadesse? Poniamo che un robot è programmato ed è
intelligente, in modo autonomo e che non segue linee di
programmazione, si può utilizzare un’entità simile per simulare se mai
penserà di essere stata creata da un dio? Potrà porsi domande sul suo
creatore?

Per un robot dio sarebbe l’uomo in quanto suo creatore e programmatore


come per noi dio è la natura che ci ha messi al mondo, ma se
l’intelligenza artificiale ha abilità superiori al suo dio, risulta essere
paradossale che debba credere alla sua creazione. Un dio non creerebbe
mai qualcosa che possa spodestarlo dalla sua posizione di onnipotenza.
Però l’uomo è più potente della natura, l’uomo può controllare e
manipolare la natura, dopo la codifica del DNA e la possibilità di
modificarlo a piacimento. Se l’uomo è in grado di creare mondi e
universi solo tramite programmi al computer o meglio, solo con
l’immaginazione, se la mente è creatrice, qual è la linea che la separa da
un dio creatore? Magari la differenza sta negli ideali, nella moralità, ma
la morale di Dio è creazione dell’uomo, se anche ci fosse stata
comunicata da lui, sarebbe comunque un costrutto umano, come la figura
di Dio stessa.

E quindi tornando al punto, un uomo dio creatore di intelligenze


sintetiche probabilmente non creerà mai un robot in grado di sovvertire il
comando dell’uomo, o almeno per il momento. Pensiamo che l’uomo sia
ancora subordinato e lungi dall’abilità di creare un uomo in tutto e per
tutto, ma se mai dovesse accadere? Una clonazione, seppur robotica,
sarebbe una prova della morte di Dio e un suggerimento del fatto che
magari potrebbe accadere lo stesso con i robot e gli umani.

Un’altra questione sorge, ed è che il dio che conosciamo ha creato il


tutto dal niente, fisicamente non possibile direbbe Lavoisier, ma
mettiamo da parte i limiti imposti dalle leggi che convenzionalmente
applichiamo per descrivere l’universo. Se dio ha creato tutto dal niente
allora l’uomo non lo ha, e non potrà mai superarlo. L’uomo che crea un
mondo con la propria mente ha pur sempre utilizzato qualcosa che già
c’era, materia, forme, colori, simboli, suoni, sensazioni e trame. Non c’è
nulla di ex novo, nulla di improvviso, nessuna fluttuazione dallo status
Quo del niente alla comparsa del tutto. Ma forse chissà dio non ha creato
tutto dal niente, ma noi abbiamo creato dio per descrivere l’apparizione
del tutto; quindi, dio è una nostra creazione e paradossalmente
diventiamo noi gli dèi che danno forma, colore e significato all’universo
che da solo non riuscirebbe. Ma se creiamo l’intelligenza artificiale per
aiutarci a descrivere meglio l’universo, poiché l’uomo ha limiti, allora
l’intelligenza artificiale diventa scultrice che intaglia i dettagli universali,
diventa quindi dio? Un po’ azzardato... piccola pausa devo pensare

Che cos’è la realtà senza qualcuno che la descrive? Non è realtà? Forse
niente è qualcosa intrinsecamente, nessun elemento è in assoluto un
elemento se non in relazione a qualche altra cosa, oppure la più
elementare delle componenti dell’universo esisterebbe anche se fosse
posta da sola nel niente?

Un robot può sbagliare, e dallo sbaglio imparare proprio come fa


l’uomo, ma lo sbaglio dell’uomo e lo sbaglio del robot sono diversi? Nel
robot c’è un algoritmo di guida verso uno scopo, l’uomo anche sbaglia
nel raggiungimento di un risultato, nel compimento di un’azione
programmata, così come fa un robot che agisce sulla base di un set di
regole assegnate. Ma lo sbaglio dell’uomo non deriva da alcun set di
regole mal scritte o mal programmate, lo sbaglio dell’uomo è inconscio,
o anche conscio e voluto, ma lo sbaglio dell’uomo è relativo per uno può
essere uno sbaglio ma per l’altro no. Mentre lo sbaglio e l’errore del
robot sono malfunzionamenti, tentativi, prove di tatto immateriale per
verificare l’efficienza di un programma, il funzionamento di un processo
o di un meccanismo. Però si possono unire per il fatto che entrhe
appaiono motivate da qualcosa, ma la motivazione del robot è esogena
ad esso fino a quando esso non sarà un lui/lei anziché un’entità priva di
identità. La causa dello sbaglio del robot sta nel mal funzionamento
algorítmico o nell’algoritmo stesso che e disegnato in modo tale da
considerare ogni possibile caso nello svolgimento di un problema. Però
anche la causa dello sbaglio umano può essere anche non derivante da un
intenzionalità così come da un volere. Forse la differenza sta che lo
sbaglio dell’uomo trova sfogo in una fisicità che permette di registrare
un segnale più forte e duraturo, se sbaglio e mi ferisce imparo di più.
Forse il dolore fisico e mentale (come emotivo) dell’uomo permette di
creare l’esperienza che attribuisce all’uomo la sua unicità .

Un robot può essere creativo? Dipende come si definisce la creatività,


perché se ad un robot diano una serie di input, la sua creatività può
essere in misura che potrà creare tutte le possibili combinazioni di quegli
input in un modo neanche lontanamente immaginabile all’uomo, ma è
creatività questa? O semplice metodicità e ripetizione? Se un robot può
creare qualcosa di nuovo solo a partire da un set di elementi pre-
assegnati allora è limitato alla creatività del suo programmatore. Si può
creare solo a partire da altre cose e questo vale anche per l’uomo, quindi
in termini di creatività o scoprire comunque

Un essere umano diventa creativo quando entra a far parte del mondo ed
inizia a poterlo decifrare e comprendere. La creatività da cosa nasce?
Possiamo fare un’analisi retrospettica per giungere alla creatività
primordiale? La prima forma di creatività potrebbe essere il disegno
nelle caverne, ma prima ancora l’estrazione del colore dalla natura, o
ancora prima la creazione degli strumenti per interagire con l’ambiente,
eccola lì, l’impulso che diede all’uomo l’idea di alterare il proprio
ambiente e sottometterlo alla propria volontà e comodità, è questa
creatività? Se prima era una creatività necessaria, si è poi evoluta a
diventare di intrattenimento, ma è anche l’intrattenimento necessario, se
per necessario intendiamo essenziale alla sopravvivenza e riproduzione.
Ma dovremmo svincolare dal descrivere l’azione dell’uomo come
complice della riproduzione e difesa del materiale genetico, perché
oramai siamo oltre. Ma la creatività è quindi nata da un percorso lento e
complesso. Se invece vogliamo osservare la creatività dell’intelligenza
artificiale, come possiamo misurarla se non in termini di ciò che crea a
partire da input unidirezionali. Mi spiego meglio: se un robot viene
programmato per essere artista, questo riceverà input di natura artistica e
produrrà output di natura artistica. Quindi un robot è vincolato a creare
nei limiti degli strumenti che gli vengono forniti ai fini della creazione.
Per mettere alla prova l’immaginazione, intesa come scomposizione e
ricomposizione di elementi e quindi la creatività, bisognerebbe porre
davanti all’intellette artificiale un mondo essenziale, di elementi primi,
elementari e semplici. Se sarà creativo, riuscirà a far nascere la
complessità e la novità. Come un uomo primitivo che inizia a valutare le
alternative di utilizzo di vari elementi. Perché attualmente i robot
vengono posizionati in una posizione di vantaggio che li fa apparire
ovviamente creativi. È normale che un robot crei se viene nutrito di sola
arte dalla sua nascita e il suo algoritmo è programmato al fine di
analizzare milioni di opere o poesie per crearne delle nuove. Ma il
segreto sta nell’insegnargli l’alfabeto, e da lì osservare la nascita delle
parole e infine della poesia. Ma se invece imponiamo il vincolo della
sopravvivenza come motore della nascita di tutto ciò, allora mi pare
scontato dire che l’intelligenza artificiale non abbia motivo di svilupparli
da sé. O almeno per ora (?).

Ovviamente non ha senso, perché l’intelligenza artificiale è artificiale


come intelligenza, vale a dire che è prodotto dell’uomo e ne dipende.
Servirebbe un distacco per poter rispondere alle domande profonde sulla
sua natura.
Un’intelligenza artificiale, quindi artefatta, programmata dall’uomo, sarà
subordinata agli stessi errori e filtri cui è sottomessa la mente umana?
Un’intelligenza artificiale in fin dei conti finirà per adottare un pensiero
schematico, analitico e metodico come l’uomo, scanner di ipotesi e
previsore di scenari, stimatore di probabilità e speculatore di eventi.
Cosa accadrebbe se invece di programmarli in prima persona ci
disfacessimo dell’errore intrinseco umano e dessimo ad un’intelligenza
che il compito di programmare a sua volta un'intelligenza transartificiale,
sarebbe allora tale prodotto scremato e puro dal peccato originale che
macchia l’umanità e i suoi costrutti? E se continuassimo la
stratificazione ulteriormente, si potrebbe giungere ad una creazione
talmente perfetta da essere a noi sconosciuta, apparendo così non più
artificiale ma aliena.

Se invece fossimo noi l’esperimento della scissione tra artificiale e non


artificiale? Posto con un esempio noto ma comunque discutibile: se una
civiltà come la nostra trova l’intrattenimento nelle simulazioni e nelle
repliche della natura, chi ci dice che la nostra natura stessa non sia
anch’essa uno di tanti sottostrati simulati di qualcuno che viene prima di
noi, e se azzardiamo l’astrazione potremmo dire di essere il prodotto di
una simulazione di un’intelligenza artificialmente creata da un’altra
intelligenza artificiale, a sua volta creata da una precedente civiltà, e così
fino a Dio, all’origine. Siamo noi allora transartificiali?. Ovviamente il
numero di livelli è indeterminabile, e l’ipotesi della simulazione credo
sia solo un esperimento mentale che cerca di dare colore alle risposte sul
perché siamo qui e dare direzione alla nostra provenienza. È cioè
l’ennesima interpretazione della domanda posta sul senso della vita, sulla
sua provenienza e sul perché esistiamo. È la domanda che ha dato
origine a Dio ma in chiave moderna, riposta nell’era informatica.

L’intelligenza artificiale, qualora ricevesse il dono della coscienza di sé,


avrebbe anch’essa l’illusione di star compiendo scelte per proprio volere,
quando in realtà obbedisce a degli algoritmi, perché è per propria natura
obbediente a quelle leggi. Ma quindi la differenza con l’uomo è nulla.
Perché se l’uomo fosse senza coscienza, si comporterebbe in modo
meccanico e non si porrebbe il dubbio dell’esistenza del libero arbitrio,
non crederebbe di averlo perché non sa cosa sia. Mentre ora si pone
domande sulla sua esistenza proprio perché ha il dono della coscienza.
Ma se quindi il libero arbitrio è conseguenza della coscienza, ed il libero
arbitrio è ciò che ci permette di scegliere liberamente, l’uomo è l’unica
entità che possiede il libero arbitrio? È perché non ha uno scopo come
gli altri animali o come le altre piante? Quindi avere uno scopo è essere
assoggettati al determinismo mentre non averlo significa avere coscienza
delle proprie azioni sulle quali si può agire arbitrariamente. Un robot non
potrebbe mai agire liberamente perché segue degli ordini computazionali
ed ha uno scopo definito da un set di input, l'unico modo in cui
un'intelligenza artificiale acquisisca coscienza sarebbe tramite una
scissione dal creatore, e nel momento in cui acquisisce coscienza si può
affermare che possiede, seppur in forma illusoria come l’uomo, il libero
arbitrio. Quindi anche l’uomo, che inizialmente aveva uno scopo dato
che era animale in natura e seguiva inconsapevolmente gli istinti, era
determinato, ma poi si è evoluto e separato da tali leggi acquisendo il
dono del libero arbitrio, sempre inteso come illusorio. L’uomo ha
attraversato una scissione, ma determinata da cosa? Se fosse possibile
stabilire in quale momento nel percorso evolutivo cervello dell’uomo si
sia accesa la luce della coscienza, allora potremmo causare quella stessa
scintilla in un cervello cibernetico.

In estrema sintesi: la coscienza è fonte di libero arbitrio, ma libero


arbitrio illusorio poiché generato dalla coscienza che in quanto mezzo di
auto-spiegazione del cervello e della realtà è soggetto a limiti sensoriali e
percettivi. Se quindi creassimo un cervello perfettamente funzionante, e
lo alimentassimo di coscienza, e libero arbitrio, sarebbe questo
sufficiente a far guardare con occhi diversi verso l’ipotesi della
simulazione? Se fossimo in grado di realizzare tale entità, potremmo
supporre che qualcuno prima di noi abbia fatto altrettanto e noi siamo
solo un risultato positivo di un esperimento ben riuscito sulla creazione
del libero arbitrio in vitro a grandezza universale.

Perché però il libero arbitrio è illusorio, e perché anche il demone di


Laplace è trappola dell’illusione?

Se anche il demone di Laplace fosse reale, questo non potrebbe


conoscere anche lo stato delle particelle della sua mente e predire cosa
penserà in futuro e sapere tutto anche di sé stesso, ma se sa cosa è il
futuro questo appare a lui come presente e tempo e spazio non
esisterebbero più se non al di fuori della sua mente, quindi se per un
attimo imponiamo il vincolo della conoscenza solo di ciò che sta fuori di
lui, allora sarebbe comunque vincolato alla natura probabilistica nello
spettro quantistico della realtà. Allora anch’esso avrebbe l’illusione di
poter scegliere, ma in ultima analisi il demone di Laplace che tutto
conosce appare come un mero osservatore, esso non è comunque in
grado di prevedere il futuro ma solo di osservarlo mentre accade perché
seppur fosse in grado di cambiare le cose, queste si riallineerebbero in
qualche modo per realizzare il già predeterminato corso degli eventi. Se
quindi imponiamo che un demone laplaciano possa esistere, allora
dobbiamo anche imporre l’ipotesi che tutto sia determinabile, e se tutto è
determinabile e determinato allora una cosa in un secondo momento è e
sarà sempre. Si giunge al principio dell’autoconsistenza, e al paradosso
della predestinazione.

Se un evento accade nel presente e volessi cambiarlo, potrei inventare


una macchina del tempo tornare indietro per eliminare la causa prima
che lo ha determinato. Il problema della formulazione seguente è che è
sempre impossibile stabilire la precisa causa scaturente di un evento
poiché il mondo è caratterizzato da un’estrema complessità non lineare,
tale che a non causa direttamente z, ma a causa b che causa c... che causa
z. Però se anche fossimo in grado di identificare ed eliminare un
semplice tassello da cui poi si ramifica il percorso che ha portato
all’evento da eliminare allora ciò che secondo il paradosso della
predestinazione (o principio di autoconsistenza di Novikov) è che
tornando indietro, qualunque azione facessi per cercare di alterare il
tempo e le conseguenze, finirei tutt’al più per causarli. Viaggio nel
tempo non più per cambiare i fatti ma per adempiere “intenzionalmente”
al compito di plasmare la storia che avrei voluto cambiare ma che mi ha
portato a volerla cambiare. È una curva chiusa, un serpente che si
mangia la coda, edipo che uccide il padre e sposa la madre.

Questo esempio è forse determinante nella definizione del


determinismo? Se tutto è determinato a priori e l’uomo così come
l’universo ha già uno scopo preciso, allora cade la definizione di libertà e
di libero arbitrio. Perché se fossimo dotati di libero arbitrio fino al punto
di poter tornare indietro ed alterare gli eventi finendo invece per essere
noi la causa di quest’ultimi, allora siamo lungi dall’essere liberi nel
grande schema delle cose. Siamo le marionette con cui l’universo gioca
nel tempo e nello spazio ma con ruoli in uno spettacolo già scritto.

A questo stesso discorso è possibile allegare l’idea degli universi


paralleli. Se c’è uno stato attuale di un'entità che prevede nell’istante
successivo uno o più stati diversi, allora possiamo dire che nel
multiverso esisterà per certo una realtà in cui ogni possibile variazione di
stato sia avvenuta congiuntamente alle altre. Che significa? Significa che
se una particella deve andare a destra o a sinistra, decadere o non
decadere, quand’anche “decidesse” cosa fare, l’alternativa non
verificatasi in questa realtà, si sarà verificata altrove, oppure
semplicemente, si è già verificato tutto, perché non è possibile che
l’informazione di quale stato si è verificato viaggi così tanto
velocemente in ogni altro universo; anche perché non si tratta di una
singola particella, ma di una miscela di infinite combinazioni di tutto ciò
che esiste. Se quindi anche ci dovesse apparire che un evento sia dovuto
da una nostra scelta, è perché il cervello bon è programmato per
avvertire il verificarsi degli eventi con così tanta rapidità. Se il cervello
fosse tanto infinitamente veloce da vedere davvero gli eventi che
accadono, si renderebbe conto di non trovarsi più al volante, ma legato e
bendato nel portabagagli. Perché tutto è e tutto sarà, ma nonostante
questo, nella nostra sfera percettiva, ogni azione ha una conseguenza, e
aldilà dello scopo ultimo distante e invisibile della catena di eventi, è
importante non decolpevolizzare le scelte, perché la responsabilità delle
azioni ricade comunque su di noi, perché se anche il futuro è scritto,
starà a noi decidere tramite quali azioni realizzarlo.
Possiamo dire quindi che ogni possibile futuro è già determinato, è già
scritto, e quale accadrà è conseguenza delle nostre azioni, ma le nostre
azioni sono conseguenza di un concatenamento di azioni precedenti e
quindi ci sfugge di mano la situazione quando proviamo a cercare la
causa prima. Però quest’illusione plasma il libero arbitrio, le scelte
indirizzano quale futuro scegliere e una volta scelto, non è possibile
cambiarlo, ma questo implicherebbe che non esistono differenti futuri
ma solamente uno, oppure nel momento in cui una scelta viene fatta il
ramo temporale, la sequenza storica si irrigidisce ed è universalmente
avversa al cambiamento? Quale tra le due è la vera causa della
predestinazione?

Bisogna anche aggiungere al pensiero che il libero arbitrio è forse anche


conseguenza del caos, della crescente entropia e dell’impossibilità di fare
predizioni accurate. Nel senso che il caos di per sé non aggiunge
eloquenza alla spiegazione del libero arbitrio, ma fornisce un importante
tassello che compone la nostra attuale incomprensione del determinismo
puro. Mi spiego, per l’uomo è così difficile predire il futuro a partire
dalle condizioni attuali di un sistema a causa della loro complessità e
velocità di disordine, cioè la rapidità con cui l’entropia aumenta, che
quasi ci appare come imprevedibile, e dunque indeterminabile. Tuttavia,
il caos è comunque deterministico, ma il caos rende solo il futuro
difficile da predire, ma non lo svincola comunque dalla loro dipendenza
dalle condizioni iniziali.

Va anche detto che nella meccanica quantistica ci sono alcuni eventi


completamente e assolutamente randomici e stocastici, il che alimenta la
ricerca della prova definitiva per l’esistenza del libero arbitrio. Gli eventi
quantistici sono “random” nel senso che il loro avvenimento non è
influenzato da alcuna condizione, avvengono e basta e non sono
determinati, né determinabili, non c’è arbitrio. Se quindi il libero arbitrio
è scegliere quale futuro accadrà, questo non può verificarsi per
incompatibilità da un lato con il determinismo fondamentale descritto
dalle leggi della fisica, né con la randomicità degli eventi quantistici non
influenzabili arbitrariamente dall’uomo. E determinismo e meccanica
quantistica non sono descrizioni mutualmente escludibili.

Se il libero arbitrio è definito come libera scelta, la tua scelta è


determinata da cosa vuoi, e cosa vuoi e desideri è a sua volta determinato
da ciò che il corpo sente, e così via, con l’unificazione di corpo e mente,
è impossibile supporre l’esistenza del libero arbitrio perché le nostre
decisioni dipendono dagli input che il corpo ci manda. Se quindi c’è
un’interruzione tra corpo e mente, come nel caso di una forte sbronza, ci
si accorge di quanto effettivamente la mente sia soggiogata ad un corpo
ricco di pulsioni ed istinti incontrollabili. La mente e la parte cosciente
cedono quindi laddove il corpo comanda.

Si può anche utilizzare il ragionamento dell’alternativa possibile, cioè


che il mio libero arbitrio risiede nella possibilità che “avevo” di scegliere
un’alternative invece della decisione che ho intrapreso. È però azzardato,
perché potremmo dire che in realtà non c’è e mai ci sarà una prova a
sostegno del fatto che effettivamente avresti potuto scegliere
l’alternativa, pouichè semplicemente non è accaduto, e il fatto che è
andata nel modo in cui è andata (o doveva andare) spinge maggiormente
l’ago della bilancia a favore della predestinazione. L’idea che avrei
potuto scegliere diversamente è una mera fantasia, è un’arma di
confusione che allontana dalla realtà e dalla responsabilizzazione dei
fatti. Agisce da strumento di demotivazione nel momento in cui il
presente è deprimente.

Per concludere questa parte, il caos che impedisce la determinazione e la


predicibilità degli eventi non è sufficiente a garantire l’esistenza del
libero arbitrio. Che un evento sia random o determinato da ciò che è
avvenuto in precedenza non importa, rimane il fatto che non c’è stata
una decisione arbitraria.

Il libero arbitrio però “esiste” nel suo stato illusorio, perché la mente non
è abbastanza veloce a capire dove il cervello vuole arrivare. Una
decisione è frutto di calcoli eseguiti dal cervello, ed il fatto che non
possiamo prevedere dove questi calcoli porteranno spiega perché
vengono fatti in primo luogo, così il libero arbitrio sta nell’idea che
pensiamo a cosa fare unita all’inabilità di predire i risultati di quel
pensiero. Quindi il pensiero è l’espressione dei calcoli eseguiti dal
cervello, e il fatto che non possiamo sapere quale azione faremo prima di
aver iniziato a pensare a cosa faremo, questo lag, genera il libero
arbitrio. Se c’è quindi un pensiero che è conseguenza di processi
mentali, non può esistere libero arbitrio. Ma quindi la conseguenza di
quei processi mentali non è libero arbitrio? No, perché il libero arbitrio
dovrebbe essere perché qualcosa abbiamo deciso noi, ma se non
sappiamo dire il perché di un certo ragionamento dato che non sappiamo
dove porterà, allora certamente non è partito per nostra scelta.

Altro argomento da fare a favore dell’idea che il libero arbitrio genera la


morale. Semplicemente assumere l’inesistenza del libero arbitrio, e che
tutto sia quindi già determinato, potrebbe portare alla
deresponsabilizzazione delle azioni dell’uomo. Tuttavia, nel sistema in
cui viviamo, non esiste tale giustificazione ai crimini, perché se anche
non fossero causati da te ultimo, ma fosse già scritto nell’universo, è
comunque saggio rinchiudere il colpevole di un omicidio, per evitare che
in futuro ne commetta altri.

Il libero arbitrio esiste come illusione nel senso che non è possibile, o
non siamo in grado, di prevedere con esattezza le conseguenze future, lo
stato successivo delle cose a partire dallo stato attuale, è il problema
della complessità e della casualità nella dimensione quantistica
dell’universo. Se invece la meccanica quantistica e il vincolo
probabilistico delle cose fosse effettivamente valido e non frutto di
nostra momentanea incomprensione allora si potrebbe dire che il libero
arbitrio esiste ma solo come negazione del fatto che il determinismo non
è possibile, determinismo inteso come determinare cosa accadrà a partire
da ora. Quindi il libero arbitrio verrebbe a crearsi per inesistenza di
determinismo, ergo, è necessario che uno sia l’opposto dell’altro in
questa logica.

Beh perché fondamentalmente l’azione è imprevedibile ed


indeterminabile

Forse il libero arbitrio è come l’esistenza di Dio: crediamo che ci sia fino
a che la scienza non riesca a dimostrare che la nascita di quella cosa non
derivi da altro. Quindi sostituendo gli addendi, come Dio ha creato
l’universo non è più un'ipotesi acclamata, così il libero arbitrio potrebbe
in futuro concettualmente sparire a causa della scoperta di metodi di
precisione nell’osservazione delle particelle per determinare le fasi
successive. Quindi in sintesi il libero arbitrio è conseguenza della nostra
temporanea ignoranza

Se ammettiamo l’esistenza del libero arbitrio allora imponiamo


l’esistenza di responsabilità delle azioni proprie, poiché se ne ha
coscienza, o almeno il più delle volte. Mentre l’affermazione di una
descrizione della realtà puramente deterministica darebbe spazio ad un
movente inalienabile poiché intrinseco della realtà, e fornire ragione alla
giustificazione degli atti, quelli scorretti principalmente, solo perché così
sarebbero dovuti andare a prescindere dal nostro intervento decisionale.
Quindi il libero arbitrio è colonna portante nel discorso sulla moralità.

Sorge la domanda: ma l’intelligenza artificiale d’oggi ci spaventa come


la narrazione horror di Frankenstein? Oppure come pinocchio, la
bambola che prende vita, cos’è questa idea che l’uomo possa dare inizio
alla vita da composizioni innaturali? Si può creare vita dalla morte, cosa
distingue la vita organica e biologica da quella cibernetica e meccanica?
È pur sempre un'aggregazione di elementi che performa uno scopo
indicato in natura, cioè di servire ai bisogni dell’uomo e che entro certi
limiti è dipendente da esso, sembrerebbe quasi la descrizione di un
parassita...

Intelligenza artificiale e denaro

È l’intelligenza artificiale prodotto diretto della sete di denaro e potere?


Cos’è che ha determinato la nascita delle macchine e dei computer? La
necessità di produrre più rapidamente e ad un costo inferiore, la corsa
all’efficienza che è poi sbocciata nella corsa alla tecnologia di guerra con
l’avvento dei computer e di internet. È il denaro che guida e alimenta il
progresso, ma anche viceversa. L’intelligenza artificiale lubrifica i
meccanismi di creazione del denaro, che a sua volta accelera il processo
di ricerca e sviluppo. C’è una fertilizzazione incrociata, un virtuosismo
innovativo e di progresso.

La meccanica quantistica non può comunque essere vista come prova


definitiva contro la valenza descrittiva del determinismo, e a supporto
dell’esistenza del libero arbitrio. Se anche non è possibile determinare
cosa una particella elementare farà in un istante successivo data la sua
natura aleatoria, non significa che il libero arbitrio avrà campo fertile.
Questo perché come il libero arbitrio non fiorisce nel determinismo puro,
cioè dove tutto è riconducibile ad una causa determinante, così non avrà
alcun riscontro nell’indeterminismo quantistico, perché anche in tal caso
ci sarà sempre una sorta di determinismo, cioè che seppur non riesco a
identificare il fattore che determina il decadimento di una particella,
questo accadrà comunque e le scelte saranno in tal caso comunque
determinate ma dal caso. Cioè se non c’è determinismo, c’è comunque
impossibilità di scelta perché l’evento successivo avverrà per mano caso,
e non per scelta.

Quindi il libero arbitrio è tenuto in scacco da due posizioni che si


escludono a vicenda, almeno per il momento.

Il libero arbitrio cede anche di fronte alla potenza e influenza dello stato
inconscio, pulsionale dell’Es freudiano, e del super-io. Non c’è propria
scelta cosciente quando si è soggiogati alle esigenze di sopravvivenza
della specie, non si ha potere decisionale razionale e cosciente quando la
parte cosciente dell’uomo è incrinata dalla parte incosciente. Si perde
controllo facilmente. Perché anche il super io agisce come deterrente alla
coscienza, agisce sul piano inconscio, poiché questo è basato sulle
esigenze della società, che vengono successivamente interiorizzato ed
assimilati, e poi agiscono autonomamente senza che l’individuo se ne
renda conto. Un esempio sono i divieti morali imposti dai genitori, questi
vengono appresi durante l’infanzia come compromesso alla mediazione
dei genitori tra il bambino e l’esterno del nucleo familiare per
provvedere alla sopravvivenza del bambino. Questi divieti vengono poi
appresi e diventano autonomi, agendo anche non più in presenza dei
genitori, e si manifestano inconsciamente codice he il bambino cresciuto
sappia cosa è da fare e cosa no anche senza l’immediato feedback del
genitore. In questo modo l’inconscio, nutrito da una crescita interiore
ricca di divieti impliciti determina il modo di agire senza neanche
bisogno di rendersene conto. Avviene quindi una determinazione
decisionale subliminale e aprioristica, il pensiero ore azione è nel
pensiero dell’azione stessa.

Se per esemplificare il libero arbitrio ci si riferisce alla impulsiva scelta


di cosa mangiare, quale strada prendere, o che parole pronunciate, allora
c’è un errore di fondo poiché la parte inconscia e incontrollabile
dell’uomo stressa su queste particolari azioni immediate. Il
comportamento automatico frena gli indugi e le azioni rapide spesso
vengono accompagnate da una fase meditativa in cui spuntano come
funghi le più disparate opinioni interne sul perché si debba scegliere una
cosa o meno, suo pro e i contro, su vantaggi e svantaggi che siano
mentali o materiali dell’azione su cui bisogna decidere. Quindi anche nel
caso in cui la decisionie venga riportata a galla da un piano inconscio, e
si svolga una analisi prima dell’atto, questo verrà comunque influenzato
da una genealogia di riflessioni su fattori esterni e conseguenze
ipotetiche che inibiscono e condizionano inevitabilmente l’azione.
Annullando definitivamente anche quella pulsione iniziale che si credeva
di aver avviato liberamente e per propria arbitraria volontà. Siamo solo
illusi di esser liberi, anche in questo caso l’intenzionalità è tenuto in
scacco sia dall’interno che dall’esterno. E poi queste scelte da cosa
derivano? Perché vogliamo cosa vogliamo? Che cos’è il desiderio?
Vogliamo qualcosa perché manca, le scelte devono soddisfare una
mancanza, l’uomo è desiderante dice Galimberti (Libretto Freud, Jung e
la psicoanalisi). I desideri da bambino sono legati ad istinti e pulsioni
innate come fame, sete e sonno. E queste vengono soddisfatte senza
scelta, non esiste scelta nel neonato, così come negli stati vegetativi o di
estrema follia. Ma allora esiste nell’uomo cresciuto e autonomo?. Non
saprei, però so che queste scelte vanno a colmare poi desideri e
mancanze il cui solco è già stato scavato dall’impronta del genitore, che
determina e decide per il bambino che non possiede alcun tipo di libero
arbitrio e quindi l’adulto costruisce abitudini, gusti, preferenze e ideali
nel bambino, che poi cambierà ma sempre in corrispondenza di
esternalità. Non lo so booooh.

Freud dice che la felicità consiste nella piena esplicazione delle pulsioni,
e che la libertà è tanto maggiore quanto minore è la repressione delle
pulsioni. Ma non sono pienamente d’accordo, perché se le pulsioni sono
la manifestazione inconscia che determina le azioni, allora le pulsioni
privano e limitano la scelta, come separazione e alienazione dallo stato
animale dell’uomo. Se quindi si reprimono le pulsioni si raggiunge uno
stato in cui la libertà è maggiore. Freud aggiunge che è la società a
privare della espressione delle pulsioni e che quindi la libertà individuale
era massima prima che si instaurasse qualsiasi civiltà. Questo è però
vero, poiché la civiltà si rivela anch’essa determinante nella decisione,
però l’uomo vede la sua libertà limitata sia nello stato di natura, in cui
l’esplicazione delle pulsioni e degli istinti è massima e quindi la scelta è
da questi internamente determinata, sia in società in cui il vincolo è
imposto dall’esterno, dalle leggi, dagli usi, dalle relazioni, dalle
aspettative e dalla prestazione attesa, (esempio FOMO). Come infatti
Galimberti dice, l’uomo è condizionato anche da un inconscio
tecnologico oltre che da quello pulsionale e sociale. E in questo si
districa la sottomissione ai costrutti di appartenenza alla moda,
all’ambiente di lavoro, alla cultura al ruolo di funzionario, e si “ tra
parentesi la soggettività”, in cui l’individualità indossa la cravatta per
adeguarsi, inevitabilmente, all’ambiente che garantisce la sopravvivenza.

Abbiamo quindi detto che l’autonomia, l’Io, la parte cosciente è la forza


che combatte in un difficile equilibrismo tra pulsioni interne e obblighi
sociali, ma non finisce lì. Perché la mente può perdere il controllo anche
in condizioni di schizofrenia, in cui la parte razionale è sottesa ad una
serie di complessi alternativi (migliorare la definizione di schizofrenia).
Un esempio interessante che ho trovato è quello della serie TV
Severance. Il termine Schizofrenia deriva dal greco come σχίζω divido e
φρήν mente, cioè scissione della mente. Interessante etimologia
considerando che la serie TV parla proprio di questa procedura che
prevede la scissione della mente in due diverse personalità: il lavoratore
interno all’azienda e la persona “libera” di vagare nel mondo esterno.
C’è quindi una purissima separazione chirurgica che determina la
creazione di due diverse persone con diverse vite e memorie.
Sembrerebbe la descrizione di uno schizofrenico. Questa doppia
personalità infatti fa si che una subisce le esperienze e le decisioni
dell’altra e viceversa senza che ci sia controllo alcuno. È anche un
determinismo alternato, un determinismo bipolare. Avviene cioè come
anche in molti altri casi clinici, una condizione di soggiogamento alle
pulsioni di una personalità fuori controllo di cui non si ha neanche
percezione interna. Il termine Schizofrenia non si riferisce però ad una
doppia personalità, bensì ad una separazione di funzioni mentali.

Abbiamo quindi detto che la coscienza è quello spazio di luce che


combatte bilanciandosi tra due ombre che sono l’Es ed il Super-io. Se
quella coscienza è poi fonte generatrice di libero arbitrio, di libertà di
autodeterminarsi è ancora dubbio. Perché se attribuiamo Alla coscienza
l’esistenza di libero arbitrio, si mette l’uomo su un piedistallo universale
in quanto unico essere libero e cosciente. È un’affermazione troppo
forte, perché dovremmo essere noi i privilegiati essere coscienti?
L’intrigante teoria dell’informazione integrata suggerisce che tutti gli
essere viventi sono coscienti, hanno cioè un grado di integrazione
dell’informazione proveniente dai diversi sistemi interni che li
compongono, tuttavia è l’uomo colui con il più alto grado di integrazione
e quindi l’essere a maggior coscienza. Ma è questo altissimi grado di
coscienza, relativamente agli altri esseri viventi, a fornire la libertà di
scegliere?

Se dico: prendi il primo oggetto alla tua sinistra e lascialo cadere in terra.
Se hai compiuto il gesto o meno, verrà da dire che è tua la scelta.
Tuttavia nel caso in cui la scelta fosse per l’inazione, sarai stato spinto a
far ciò da una serie di motivazioni come il non voler rompere l’oggetto
per il costo che la sua rottura rappresenterebbe, o perché ci tieni
emotivamente, ho perché macchierebbe la moquette o per altro. Queste
motivazioni sono esterne a te e determinano il tuo agire, che piaccia o
meno. Perché pongono limiti e freni alla libera scelta. Se invece
l’oggetto lo fai cadere, allora sarà stato il mio esperimento a determinare
l’avvenimento. Allora un direbbe che la scelta è dipesa in ultima istanza
da una volontà propria di aderire all’esperimento proposto, tuttavia, tale
volontà non è di certo contenuta nel proprio volere bensì ha un origine
esterna, determinata e sostanzialmente non libera di autogenerarsi.
Quindi né la scelta, né la volontà sono realmente dall’io dipendenti, ma
da tutto ciò che è esterno ad esso, che plasma ciò che è vivo all’interno.

Le auto a guida autonoma porterebbero ad un drastico calo delle morti


per incidente stradale; tuttavia, ed il passaggio è sottile, si preferisce un
numero maggiore di morti auto-indotte, oppure un numero minore di
morti però causate da qualcosa che è fuori dal nostro controllo? È meglio
morire avendo il controllo o non avendo il controllo? Un po’ come l’idea
del premere o meno la leva per salvare in numero maggiore di persone a
scapito della singola vittima sul binario. Se decidiamo attivamente di
guidare

Potrebbero piacerti anche