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NIENT’ALTRO
CHE LA VERITÀ

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GEORG GÄNSWEIN
con SAVERIO GAETA

NIENT’ALTRO
CHE LA VERITÀ
La mia vita al fianco di Benedetto XVI

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Pubblicato per

da Mondadori Libri S.p.A.


© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Published by arrangement with The Italian Literary Agency

ISBN 978-88-566-9039-2

I Edizione gennaio 2023

Anno 2023-2024-2025 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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Prologo

Quando, nel febbraio del 2003, il cardinale Joseph Ratzin-


ger mi chiese di diventare il suo segretario privato, pre-
sentando il mio nuovo ruolo nella Congregazione per la
Dottrina della fede fece notare che entrambi eravamo solo
“provvisori”. Dinanzi allo stupore del personale per questa
descrizione alquanto strana, ci spiegò che intendeva rinun-
ciare prima possibile alla responsabilità della Congrega-
zione, dopo aver portato questo pesante fardello per ben
due decenni. Questo veniva espresso con la parola “prov-
visorio”: lui sarebbe stato ancora prefetto per un breve
periodo e di conseguenza io, per un medesimo tempo, il
suo segretario.
In realtà, quell’annunciata provvisorietà divenne una
presenza stabile per molti anni, fino alla sua morte. Dal 1°
marzo 2003 fui il suo segretario privato per i due anni suc-
cessivi, mentre era ancora prefetto dell’ex Sant’Uffizio, fino
alla morte di Papa Giovanni Paolo II nell’aprile del 2005.
E lo sono rimasto poi per tutti i suoi otto anni di pontifi-
cato, fino alla rinuncia nel 2013, e anche successivamente,
durante i restanti anni della sua vita come “Papa emerito”.
Tutte sono state esperienze di grazia che mi hanno per-
messo di conoscere il vero volto di uno dei più grandi
protagonisti della storia del secolo scorso, troppo spesso
denigrato dalla narrazione di media e detrattori che lo defi-

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nirono “Panzerkardinal” o “Rottweiler di Dio” per criticare
convinzioni che in realtà non facevano altro che esprimere
la sua profonda fedeltà alla tradizione e al Magistero della
Chiesa e la difesa della fede cattolica.
Questo compito impegnativo, unito a quello di pre-
fetto della Casa pontificia ricoperto durante il pontificato
di Papa Francesco, mi ha dato l’opportunità di prendere
parte a tutti i più importanti e storici eventi ecclesiali de-
gli ultimi due decenni.
Momenti di gioia e delusione, entusiasmo e fatica si sono
alternati. I problemi non sono certo mancati, basti pensare
al dramma degli abusi sessuali nel clero o alle difficoltà con
le finanze vaticane. Ma ci sono state anche esperienze molto
belle e preziose che hanno reso manifesta una fede viva,
soprattutto tra molti giovani nel mondo, che dà motivo di
legittima speranza per il futuro della Chiesa.
Queste pagine contengono una personale testimonianza
della grandezza di un uomo mite, di un fine studioso, di
un cardinale e di un Papa che ha fatto la storia del nostro
tempo e che va ricordato come un faro di competenza te-
ologica, di chiarezza dottrinale e di saggezza profetica. Ma
sono anche un racconto di prima mano che cerca di far luce
su alcuni aspetti incompresi del suo pontificato e di descri-
vere dall’interno il vero “mondo vaticano”.

Arcivescovo titolare di Urbisaglia

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Il “predestinato” fuori dagli schemi

Una perenne provvisorietà

Tanti anni di frequentazione delle gerarchie vaticane mi


hanno fatto maturare un preciso convincimento: ciascun
membro del Collegio cardinalizio custodisce – nascosta in
un angolino della mente e del cuore – la consapevolezza
che un giorno Cristo potrebbe chiedergli di assumere il
ruolo di suo Vicario sulla Terra.
Ma, nel contempo, mi sono anche reso conto che – a
meno di seri problemi psichiatrici – nessuno di loro ha
realmente l’ambizione di sedersi sulla Cattedra di Pietro,
ben conscio dell’impegno materiale, e soprattutto della re-
sponsabilità spirituale, che tale ufficio comporta ed esige.
Di conseguenza c’è la rimozione di qualunque pensiero in
merito, agendo anzi in modo da allontanare il più possi-
bile da sé tale ipotesi.
Come un singolare flash, sono queste le considerazioni
che mi tornano alla mente se ripenso a quel 14 febbraio
2003, quando il cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca pre-
fetto della Congregazione per la Dottrina della fede, diede
un annuncio che mi riguardava personalmente e che di fatto
modificò in maniera radicale il corso della mia vita a quel
tempo, ma ancor più in seguito.
Eravamo nella pausa dei lavori del cosiddetto “congresso
particolare”, che si svolgeva ogni venerdì mattina, durante
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il quale ciascun collaboratore della Dottrina della fede pre-
sentava ai superiori della Congregazione un aggiornamento
sulle tematiche delle quali si stava occupando.
Due giorni prima era stata resa nota la nomina di mon-
signor Josef Clemens, da una ventina d’anni segretario
particolare del cardinale Ratzinger, come sottosegretario
della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le
Società di vita apostolica (il successivo 25 novembre, Gio-
vanni Paolo II lo avrebbe designato segretario del Ponti-
ficio Consiglio per i Laici, con la contestuale elevazione
a vescovo).
Mentre stavamo prendendo un caffè e chiacchieravamo
in piccoli gruppi, Ratzinger chiese un momento di silenzio,
si schiarì la voce e si congratulò a nome dei presenti con
monsignor Clemens per la sua promozione, ringraziandolo
con calore per tutto il lavoro che aveva svolto per la Con-
gregazione e per lui personalmente.
Subito dopo, con un bonario sorriso, mi fece segno di
avvicinarmi e proseguì indicandomi: «Voi tutti conoscete
don Giorgio (così venivo chiamato in Congregazione): l’ho
fatto venire qui al mio fianco perché così potete vedere da-
vanti a voi due provvisori». Si levò un brusio, poiché l’in-
flessione tedesca del cardinale aveva dato a qualcuno la
sensazione che avesse pronunciato la parola “professori”,
suscitando l’interrogativo di cosa intendesse dire.
Ratzinger si accorse dell’involontario equivoco e subito
chiarì: «No, intendevo proprio “provvisori”, perché lui di-
venta il mio segretario personale, ma ovviamente lo sarà sol-
tanto per poco tempo. Sapete infatti che sono prefetto qui
da ormai 21 anni e ho sollecitato già diverse volte Giovanni
Paolo II affinché mi lasci andare in pensione, secondo le
regole, dato che da mesi ho superato i 75 anni d’età. Devo
unicamente attendere la lettera di accettazione della mia
richiesta da parte di Papa Wojtyła».

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Beata ingenuità, fu il bisbiglio che immediatamente ser-
peggiò. Anche se il cardinale era pienamente convinto di
quanto aveva affermato, nessuno nutriva il minimo dubbio
riguardo al fatto che quella lettera non sarebbe mai giunta
a destinazione, anzi che non sarebbe nemmeno mai stata
scritta o inviata.
In seguito, quando il cardinale si lasciò andare in pri-
vato a un’osservazione sul ritardo della risposta, provai a
fare una battuta per sdrammatizzare e gli dissi che avrebbe
potuto sollecitarla in uno dei consueti incontri del venerdì
pomeriggio con Giovanni Paolo II, magari facendogli spiri-
tosamente notare come il servizio postale dal Palazzo apo-
stolico al Sant’Uffizio non funzionasse a dovere. Ma lui si
limitò a farmi uno di quei suoi sorrisi a fior di labbra, per
poi tacere. Capii che non desiderava approfondire, e smisi
di permettermi simili commenti.
Di fatto, si trattava dell’ennesima prova che Ratzinger vi-
veva un po’ “fuori dal mondo (ecclesiastico)”, come scher-
zosamente dicevamo tra noi, e che si muoveva su un livello
decisamente più etereo rispetto agli altri confratelli porpo-
rati, senza apparentemente rendersi conto che da molti di
loro veniva considerato il primo dei “papabili”, nella sem-
pre più realistica eventualità di un prossimo Conclave. O
forse era soltanto un modo per esorcizzare il timore che si
potessero concretizzare davvero quelle velate allusioni che
si ascoltavano in Vaticano… Ma era una prospettiva total-
mente estranea ai suoi ragionamenti e desideri.
In effetti, lui pensava di essere riuscito a sistemare le
cose in modo da spalancare al più presto la porta a un suc-
cessore. Oltre al trasferimento di Clemens e ad alcuni av-
vicendamenti tra gli officiali della Congregazione (in par-
ticolare, con l’arrivo di monsignor Charles Scicluna come
promotore di giustizia), il 10 dicembre 2002 era stata resa
nota la nomina di monsignor Tarcisio Bertone, dal 1995

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segretario della Congregazione e principale collaboratore
del prefetto, come nuovo arcivescovo di Genova.
L’ingresso ufficiale di Bertone in diocesi avvenne il 2 feb-
braio 2003, cosicché, il 16 febbraio seguente, il cardinale
Ratzinger poté lasciarsi andare a uno schietto commento
nella lettera a Esther Betz, con cui era in confidenza sin dai
tempi del Concilio, quando la donna era corrispondente da
Roma per un giornale tedesco: «Non c’è da stupirsi che le
voci si stiano intensificando e che anche il termine del mio
incarico sia imminente. Grazie a Dio, abbiamo trovato per-
sone nuove e buone. A ogni modo, sarei felice di sapere che
anche per me si stanno preparando tempi più tranquilli».
Nelle sue memorie, monsignor Bruno Fink – che gli fu
segretario quando era arcivescovo a Monaco e nei primi
due anni in Congregazione, fino al Natale del 1983 – ha rac-
contato che, appena giunti a Roma nel febbraio del 1982,
il cardinale Ratzinger gli aveva detto che intendeva restare
in carica come prefetto al massimo per due mandati quin-
quennali, in modo da poter rientrare nella casa che aveva
fatto costruire a Pentling, nei pressi di Ratisbona, in tempo
per poter realizzare le opere teologiche che aveva in mente.
Il 25 novembre 1991, a dieci anni esatti dalla nomina,
Ratzinger aveva provato a chiedere a Giovanni Paolo II di
sollevarlo dal gravoso incarico, spiegandogli che la morte
della sorella Maria, avvenuta il 2 novembre precedente,
lo aveva privato della sua preziosa compagnia domestica,
mentre l’emorragia cerebrale che aveva subìto in settem-
bre gli aveva causato seri problemi di vista all’occhio sini-
stro e uno stato di costante prostrazione fisica. Ma il Pon-
tefice non intese ragioni e lo confermò nell’incarico per
altri cinque anni.
Così – tra fine 1996, quando scadeva l’ulteriore man-
dato, e inizio 1997, al compimento dei 70 anni – il cardi-
nale attuò una mossa che, un po’ ingenuamente, confidava

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più destinata al successo, facendo discretamente arrivare
alle orecchie di Papa Wojtyła il suggerimento di nominarlo
archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. In quei
mesi era infatti previsto il rinnovo delle cariche riguardanti
l’Archivio segreto e la Biblioteca apostolica vaticana, con
la sostituzione del cardinale Luigi Poggi, ormai quasi ot-
tantenne.
Il salesiano Raffaele Farina, nominato il 25 maggio 1997
prefetto della Biblioteca (e che sarebbe stato elevato alla
porpora nel 2007 proprio da Benedetto XVI), dopo qualche
settimana ebbe l’occasione di un colloquio con Ratzinger e
si sentì appunto chiedere ragguagli su quali fossero i compiti
del cardinale bibliotecario: ostentando indifferenza, sem-
brava quasi pregustare il dolce “pensionamento” in com-
pagnia di libri e documenti carichi di storia. Ma, anche in
questo caso, Giovanni Paolo II tagliò corto e non prese in
considerazione l’idea.
Mostrando quasi un po’ di nostalgia, Benedetto XVI lo
disse personalmente, il 25 giugno 2007, al cardinale Jean-
Louis Tauran, durante una visita alla Biblioteca: «Confesso
che, al compimento del mio settantesimo anno di età, avrei
tanto desiderato che l’amato Giovanni Paolo II mi conce-
desse di potermi dedicare allo studio e alla ricerca di inte-
ressanti documenti e reperti da voi custoditi con cura, veri
capolavori che ci aiutano a ripercorrere la storia dell’uma-
nità e del cristianesimo. Nei suoi disegni provvidenziali il
Signore ha stabilito altri programmi per la mia persona».

Fiducioso nella Provvidenza

Giovanni XXIII aveva fatto proprio, sin dagli anni gio-


vanili, il motto di san Francesco di Sales: «Nulla chiedere,
nulla rifiutare». Senza difficoltà, tali parole si addicono per-

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fettamente anche al cardinale Ratzinger, corrispondendo
sostanzialmente a quanto egli stesso scrisse, il 9 agosto 1997,
ancora all’amica Betz: «Non pianifico nulla (non l’ho mai
fatto, in realtà), ma mi lascio semplicemente trasportare
dalla Provvidenza, che con me non è stata affatto cattiva,
anche se tutto è andato in modo molto diverso da come
avevo immaginato».
Dai tempi del Concilio Vaticano II, infatti, Paolo VI
aveva cominciato a tenerlo d’occhio a sua insaputa, men-
tre Ratzinger progrediva nella carriera accademica e pub-
blicava saggi sempre più qualificati, ritenendo che quello
sarebbe stato per sempre il proprio impegno. Per mante-
nerlo in contatto con Roma, il Pontefice nel 1969 lo aveva
nominato fra i trenta membri della appena istituita Com-
missione teologica internazionale, insieme con personalità
quali Hans Urs von Balthasar, Carlo Colombo, Yves Con-
gar, Henri de Lubac, Jorge Medina Estevez, Karl Rahner,
che un paio di volte l’anno si riunivano in seno alla Con-
gregazione per la Dottrina della fede.
Papa Montini non lo riteneva soltanto un autorevole te-
ologo, ma anche un valente pastore, al punto da invitarlo a
predicare gli esercizi spirituali in Vaticano nel 1975: «Non
mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né
del mio francese per preparare e osare una tale avventura,
e così avevo detto di no», rivelò in seguito il cardinale. In
quell’anno venne così sostituito dal carmelitano Anastasio
Ballestrero, allora arcivescovo di Bari e successivamente
cardinale a Torino, mentre nel 1976 il predicatore fu il
cardinale di Cracovia Karol Wojtyła. Poi verrà recuperato,
possiamo dir così, nel 1983, allorché Giovanni Paolo II gli
riproporrà l’incarico, questa volta accolto positivamente.
Quando, il 24 luglio 1976, il cardinale Julius Döpfner
morì improvvisamente d’infarto, Paolo VI non ebbe dubbi
nella valutazione della terna di possibili candidati che gli

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era stata sottoposta e, il 25 marzo 1977, decise personal-
mente di nominare arcivescovo di Monaco e Frisinga il
quarantanovenne Joseph Ratzinger, che non fece quasi a
tempo a ricevere la consacrazione episcopale, il 28 mag-
gio seguente, prima di ricevere la notizia che sarebbe stato
creato cardinale.
La consapevolezza di quale fosse il compito che da quel
momento gli veniva chiesto, Ratzinger comunque la espli-
citò durante la cerimonia per la propria ordinazione epi-
scopale, il 28 maggio 1977 nel duomo di Monaco: «Il ve-
scovo non agisce in nome proprio, ma è un fiduciario di
un altro, di Gesù Cristo e della Chiesa. Non è un manager,
un capo per propria grazia, bensì l’incaricato di un altro di
cui è garante. Dunque non può nemmeno cambiare opi-
nione a piacimento e difendere ora questa ora quella causa,
a seconda di come gli sembri conveniente. Non è qui per
diffondere le sue idee private, ma è un inviato che deve
trasmettere un messaggio più grande di lui. Egli verrà mi-
surato su questa fedeltà: essa è il suo incarico».
Il Concistoro del 27 giugno 1977 fu poco affollato: di
fianco a Joseph Ratzinger, ci furono unicamente il teologo
della Casa pontificia Mario Luigi Ciappi, il presidente
della Pontificia Commissione “Iustitia et pax” Bernardin
Gantin e l’arcivescovo di Firenze Giovanni Benelli, oltre
all’amministratore apostolico di Praga František Tomášek,
nominato in pectore già l’anno precedente. Per Paolo VI
rappresentò un Concistoro atipico, poiché i precedenti
avevano oscillato fra un minimo di 21 porporati nel 1976
e un massimo di 34 nel 1969, passando per i 27 del 1965 e
del 1967, e i 30 del 1973.
Indubbiamente la decisione si dovette alla sua volontà
di elevare rapidamente alla porpora l’ex sostituto della Se-
greteria di Stato Benelli, che appena il 3 giugno precedente
era stato nominato a Firenze, probabilmente anche per le

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pressioni di autorevoli esponenti della Curia romana che
non ne apprezzavano il decisionismo, sfruttato invece da
Papa Montini per smontare consolidate posizioni di po-
tere. Ratzinger venne inserito – forse proprio per suggeri-
mento di Benelli – anche perché dagli inizi del Novecento
la diocesi di Monaco era una sede tradizionalmente cardi-
nalizia, e nell’occasione non si voleva creare cardinali sol-
tanto personalità curiali.
Commemorando quella circostanza, Ratzinger ha ricor-
dato il grande affetto di cui si sentì circondato dai propri
diocesani: «Alla consegna della berretta, io ho avuto un
grande vantaggio rispetto agli altri quattro neocardinali.
Nessuno di loro aveva con sé una grande famiglia. Benelli
aveva lavorato per lungo tempo in Curia, e a Firenze non
era molto conosciuto, quindi non erano tanti i fedeli pro-
venienti dal capoluogo toscano; Tomášek – c’era ancora la
cortina di ferro – non poteva avere accompagnatori; Ciappi
era un teologo che aveva lavorato sempre nella sua “isola”;
Gantin era del Benin e dall’Africa non era agevole venire
a Roma. Io invece ho avuto tanta gente: l’aula era quasi
piena di persone che venivano da Monaco e dalla Baviera.
Gli applausi per me furono maggiori che per gli altri. E
il Papa fu visibilmente compiaciuto di vedere in qualche
modo confermata la sua scelta».
Nel discorso pronunciato per l’occasione, Paolo VI
spiegò che la principale dote dei neo-porporati era «l’as-
soluta fedeltà che da essi è stata vissuta, in questo periodo
postconciliare ricco di fermenti sani ma anche di elementi
disgregatori, in una continua disponibilità, in un diuturno
servizio, in una totale dedizione a Cristo, alla Chiesa, al
Papa, senza flessioni, senza tentennamenti, senza transa-
zioni», specificando per Ratzinger che il suo «alto Magi-
stero teologico in prestigiose cattedre universitarie della
Germania e in numerose e valide pubblicazioni ha fatto

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vedere come la ricerca teologica – nella via maestra della
“fides quaerens intellectum” – non possa e non debba an-
dare mai disgiunta dalla profonda, libera, creatrice adesione
al Magistero che autenticamente interpreta e proclama la
Parola di Dio».
Sull’immaginetta-ricordo della prima Messa, ventisei
anni prima, Ratzinger aveva fatto stampare il versetto
1,24 della seconda lettera di san Paolo ai Corinzi, presen-
tandosi fra i «collaboratori della vostra gioia» (adiutores
gaudii vestri). Quando si trattò di scegliere il motto per
lo stemma episcopale, ci fu una significativa evoluzione,
con la scelta del versetto 8 della terza lettera di san Gio-
vanni: «Collaboratori della verità» (Cooperatores verita-
tis). Nell’autobiografia lo ha motivato come il desiderio
di «rappresentare la continuità fra il mio compito prece-
dente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze, si
trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la ve-
rità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel mondo
di oggi l’argomento “verità” è quasi scomparso, perché
appare troppo grande per l’uomo, e tuttavia tutto crolla,
se non c’è la verità, questo motto episcopale mi è sem-
brato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno,
nel senso buono del termine».
Nel momento in cui anch’io ho dovuto pensare al motto
per il mio stemma, in vista della consacrazione episcopale
nel gennaio 2013, non ho dovuto rifletterci a lungo. Avevo
già avuto occasione di essere partecipe di qualche confi-
denza da parte di Benedetto XVI riguardo a quello che
aveva significato per lui il tema della verità, con il preciso
impegno di portare a compimento ciò che si era ripromesso
di fare come «collaboratore della verità». Individuai per-
ciò il versetto 18,37 del Vangelo secondo Giovanni come
possibile frase: «Dare testimonianza alla verità» (Testimo-
nium perhibere veritati). E fui ovviamente molto contento

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nel vedermi sostenuto in tale scelta dal Papa stesso, che
esplicitamente espresse il proprio apprezzamento.
Nello stemma inserii poi l’immagine del drago sconfitto
da san Giorgio, il martire del quarto secolo che, secondo
la Legenda aurea, uccise nel nome di Cristo un terrificante
mostro e convertì il popolo che ne era oppresso, cosicché
quella lotta è divenuta il simbolo della lotta del Bene contro
il Male. E qualche volta mi consentivo perfino di scherzare,
dicendogli che lui aveva dovuto accontentarsi dell’orso sot-
tomesso da san Corbiniano, mentre il mio protettore aveva
combattuto e vinto un drago!
Per lo stemma arcivescovile, il cardinale Ratzinger aveva
infatti scelto tre immagini. Due erano il moro incoronato,
tradizionalmente associato ai vescovi di Frisinga («Non si sa
quale sia il suo significato: per me è l’espressione dell’univer-
salità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di
razza e di classe, poiché noi tutti “siamo uno” in Cristo», fu la
sua spiegazione), e una conchiglia («Segno del nostro essere
pellegrini e ricordo della leggenda secondo cui Agostino,
che si lambiccava il cervello intorno al mistero della Trinità,
avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che giocava con
una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare e cercava
di travasarla in una piccola buca, e si sarebbe sentito dire:
“Tanto poco questa buca può contenere l’acqua del mare,
quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio”»).
La terza faceva riferimento a san Corbiniano, fonda-
tore e patrono della diocesi. Il 9 settembre 2006, durante
il viaggio apostolico a Monaco, Benedetto XVI rievocò il
motivo di tale scelta: «Della sua leggenda mi ha affascinato
fin dalla mia infanzia la storia, secondo la quale un orso
avrebbe sbranato l’animale da sella del santo, durante il suo
viaggio sulle Alpi. Corbiniano lo rimproverò duramente e,
come punizione, gli mise sul dorso tutto il suo bagaglio af-
finché lo portasse fino a Roma».

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Nel 1977, rivelò, «mi ricordai dell’interpretazione dei
versetti 22-23 del salmo 72 che sant’Agostino, in una si-
tuazione molto simile alla mia, nel contesto della sua ordi-
nazione sacerdotale ed episcopale ha sviluppato: vedendo
nell’espressione “davanti a te come una bestia” (iumentum
in latino) un riferimento all’animale da tiro che allora veniva
usato in Nordafrica per lavorare la terra, ha riconosciuto
in questo iumentum se stesso come bestia da tiro di Dio,
vi si è visto come uno che sta sotto il peso del suo incarico,
la sarcina episcopalis. Sullo sfondo di questo pensiero del
vescovo di Ippona, l’orso di san Corbiniano mi incorag-
gia sempre di nuovo a compiere il mio servizio con gioia e
fiducia – trent’anni fa come anche adesso nel mio nuovo
incarico – dicendo giorno per giorno il mio “sì” a Dio».
Con fine ironia, così Papa Ratzinger concluse il discorso:
«L’orso di san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel
mio caso, il “Padrone” ha deciso diversamente».

Il “profeta giusto”

Nell’agosto del 1977, Ratzinger trascorse per ferie un


paio di settimane nel seminario diocesano di Bressanone.
Il cardinale Albino Luciani, patriarca di Venezia, era a quel
tempo presidente della Conferenza episcopale del Trive-
neto (della quale fa parte anche l’Alto Adige). Venne a co-
noscenza della presenza del giovane confratello cardinale
e volle andarlo a trovare, avendone apprezzato gli scritti
teologici, e in particolare il commento alla costituzione
conciliare Lumen gentium. Conversarono in italiano, che
Ratzinger aveva imparato durante il Concilio, anche se in
maniera un po’ stentata, utilizzando il metodo didattico dei
dischi a 33 giri. Poi lo avrebbe perfezionato dopo l’arrivo
a Roma, parlandolo quotidianamente.

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Quella fu la prima occasione di contatto fra i due, che
in un’intervista Ratzinger ricordò come l’opportunità per
«ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande
cultura: mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove
da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio
al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua
italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del
Veneto».
Il 16 agosto 1977, nell’omelia di una celebrazione per la
festa di san Rocco, il patriarca Luciani riferì pubblicamente
dell’incontro: «Pochi giorni fa mi sono congratulato con il
cardinale Ratzinger, nuovo arcivescovo di Monaco: in una
Germania cattolica, ch’egli stesso deplora come affetta, in
parte, di complesso antiromano e antipapale, ha avuto il co-
raggio di proclamare alto che “il Signore va cercato là dov’è
Pietro”. Ratzinger mi è parso in quella occasione un profeta
giusto. Non tutti quelli che scrivono e parlano hanno oggi
lo stesso coraggio; per voler andare dove vanno gli altri, per
paura di non sembrare moderni, alcuni di essi accettano
solo con tagli e restrizioni il Credo pronunciato da Paolo
VI nel 1968 alla chiusura dell’Anno della fede; criticano i
documenti papali; parlano continuamente di comunione
ecclesiale, mai però del Papa come punto necessario di ri-
ferimento per chi vuole essere nella comunione vera della
Chiesa. Altri, più che profeti, sembrano dei contrabban-
dieri; approfittano del posto che occupano, per smerciare
come dottrina della Chiesa quello che è, invece, loro pura
opinione personale o anche dottrina mutuata da ideolo-
gie aberranti e disapprovate dal Magistero della Chiesa».
Il successivo incontro personale avvenne soltanto du-
rante il Conclave dell’estate 1978, dopo la morte di Papa
Montini il 6 agosto. Per quello che ho potuto dedurre, la
stima di Ratzinger nei confronti di Luciani lo portò a unirsi
a quanti lo ritenevano degno di essere eletto Pontefice, cosa

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che accadde il 26 agosto, dopo soli quattro scrutini. E nel
giorno della celebrazione d’inizio del ministero petrino, il
successivo 3 settembre, i due scambiarono alcune parole
in relazione all’imminente viaggio del cardinale in Ecua-
dor. Con la lettera del 1° settembre, uno dei primi atti del
pontificato, Giovanni Paolo I aveva infatti nominato l’ar-
civescovo di Monaco e Frisinga come Legato pontificio al
Congresso mariano di Guayaquil, poiché da qualche anno
la diocesi tedesca e quella ecuadoriana si erano gemellate e
l’arcivescovo locale Bernardino Echevarría Ruiz aveva ap-
punto suggerito il nome di Ratzinger come inviato.
Con parole che non risultano “di circostanza”, Papa Lu-
ciani gli scrisse: «Abbiamo il desiderio di partecipare, in
qualche modo, a queste solennità per dar loro più impor-
tanza e splendore. Perciò, con questa lettera, ti scegliamo,
ti creiamo e ti proclamiamo nostro inviato straordinario, e
ti affidiamo la missione di presiedere queste celebrazioni in
nostro nome e con la nostra autorità. Ti distingui per la tua
grande conoscenza della santa dottrina e, come sappiamo,
ardi d’amore per la Madre di Cristo Salvatore e Madre no-
stra. Indubbiamente, quindi, svolgerai la funzione a te af-
fidata con intelligenza, saggezza e successo».
Giovanni Paolo I, per dimostrare ulteriormente il pro-
prio affetto, il 24 settembre inviò un messaggio al Con-
gresso, invitando a fare del motto “L’Ecuador, per Maria
a Cristo” «un intero programma di vita e di azione aposto-
lica: Maria, Madre di Cristo, Madre della Chiesa e Madre
dolcissima di ciascuno di noi, sia sempre il tuo modello, la
tua guida, il tuo cammino verso il Fratello maggiore e Sal-
vatore di tutti, Gesù».
Ratzinger lo lesse pubblicamente, ringraziando a nome
di tutti i fedeli il Pontefice per la sua premurosa vicinanza.
E per questo restò particolarmente colpito alla notizia della
sua morte, che lo raggiunse in un modo un po’ strano:

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«Dormivo nella residenza dell’arcivescovo di Quito. Non
avevo chiuso la porta perché nell’episcopio mi sento come
nel seno di Abramo. Era notte fonda quando entrò nella
mia stanza un fascio di luce e si affacciò una persona con
un abito da carmelitano. Rimasi un po’ sbigottito da que-
sta luce e da questa persona vestita in maniera lugubre che
sembrava messaggera di notizie infauste. Non ero sicuro se
fosse sogno o realtà. Infine scoprii che era il vescovo ausi-
liare di Quito, Alberto Luna Tobar, il quale mi comunicò
che il Papa era morto».
Il 6 ottobre 1978, celebrando a Monaco il pontificale
in suffragio di Papa Luciani, espresse quasi il presenti-
mento di quanto poi sarebbe stato confermato da France-
sco con la beatificazione del 4 settembre 2022: «L’unica
grandezza nella Chiesa è di essere santi. E i suoi santi sono
le colonne di luce che ci mostrano la via. D’ora innanzi ap-
parterrà anch’egli a queste luci. E ciò che ci fu concesso
solo per trentatré giorni emana una luce che non può più
venirci tolta».
Nella biografia su Wojtyła, George Weigel scrive che
Ratzinger gli confidò: «Eravamo convinti che l’elezione
fosse avvenuta in armonia con la volontà divina, non sem-
plicemente con quella umana… E se, un mese dopo es-
sere stato eletto con la volontà divina, egli era morto, Dio
intendeva comunicarci qualcosa». Ricordando quei giorni
del Conclave, il cardinale Ratzinger confermò in seguito:
«L’elezione di Luciani non fu un errore. Quei trentatré
giorni di pontificato hanno avuto una funzione nella storia
della Chiesa. Quella morte improvvisa aprì anche le porte
a una scelta inaspettata. Quella di un Papa non italiano.
Nel Conclave precedente si parlò anche di questo. Ma non
era un’ipotesi molto reale, anche perché c’era la bella fi-
gura di Albino Luciani. Dopo si pensò che c’era bisogno
di qualcosa di assolutamente nuovo».

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Un binomio vincente

Il cardinale Ratzinger partì per l’Ecuador il 19 settem-


bre 1978 e vi restò sino alla fine del mese. Proprio in quei
giorni, dalla Polonia una delegazione di vescovi, guidata dal
primate Stefan Wyszyński e dal cardinale Karol Wojtyła,
giunse in Germania per incontrare i confratelli tedeschi. Era
l’esito di un lungo cammino avviato ben tredici anni prima,
il 18 novembre 1965, con la lettera firmata dai vescovi po-
lacchi presenti al Vaticano II: «Dai banchi del Concilio
che sta per concludersi, vi tendiamo le nostre mani accor-
dando perdono e chiedendo perdono»; cui, il 5 dicembre
successivo, i vescovi tedeschi avevano risposto: «Anche noi
vi preghiamo di dimenticare, vi preghiamo di perdonare».
Ratzinger e Wojtyła, dunque, non si incontrarono in
quella occasione, e anche ai tempi del Concilio, pur avendo
collaborato entrambi alla formulazione di alcuni documenti,
non si erano mai incrociati di persona. In seguito, il prefetto
sottolineerà: «Naturalmente avevo sentito parlare della sua
opera di filosofo e di pastore, e da tempo desideravo co-
noscerlo. Dal canto suo, aveva letto la mia Introduzione al
cristianesimo, che aveva anche citato agli esercizi spirituali
da lui predicati per Paolo VI e la Curia nella Quaresima
del 1976. Perciò è come se interiormente attendessimo en-
trambi di incontrarci». L’unica opportunità, di sfuggita, fu
nell’ottobre del 1977, durante il Sinodo dei vescovi sulla
catechesi al quale ambedue presero parte.
Secondo le ricostruzioni giornalistiche, nel Conclave che
si svolse dal 14 al 16 ottobre 1978 l’arcivescovo di Genova,
Giuseppe Siri, e quello di Firenze, Giovanni Benelli, par-
tirono appaiati nelle prime votazioni e di fatto si annulla-
rono a vicenda. All’ottavo scrutinio emerse così il nome
dell’arcivescovo di Cracovia, senza sorprendere Ratzinger,
come lui stesso ha dichiarato: «Lo sostenevo. Il cardinale

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König mi aveva parlato. E, per quanto limitata, la cono-
scenza personale che avevo di Wojtyła mi aveva persuaso
che fosse davvero l’uomo giusto».
Giovanni Paolo II cominciò subito a guardarsi intorno
per costruire la propria squadra nella Curia romana. Cer-
tamente voleva che Ratzinger ne fosse al più presto uno
dei titolari, al punto da invitarlo, dopo neanche un anno,
a diventare prefetto della Congregazione per l’Educazione
cattolica, dove stava per andare in pensione il cardinale
Gabriel-Marie Garrone. Ma l’arcivescovo di Monaco riuscì
a convincerlo che «erano trascorsi appena due anni e rite-
nevo impossibile lasciare così presto la sede di san Corbi-
niano. La consacrazione episcopale rappresentava in qual-
che modo una promessa di fedeltà verso la mia diocesi di
appartenenza. Dunque il Papa soprassedette alla nomina
e chiamò a quell’incarico il cardinale Baum di Washing-
ton, preannunciandomi tuttavia sin da quel momento che
in seguito si sarebbe rivolto a me per un altro incarico».
Nell’autunno del 1980, ci furono due importanti oppor-
tunità per una più profonda conoscenza del cardinale da
parte di Giovanni Paolo II: in Vaticano, dal 26 settembre
al 25 ottobre, fu relatore generale della quinta assemblea
del Sinodo dei vescovi sul tema “La famiglia cristiana”; in
Germania, per il primo viaggio pontificio dal 15 al 19 no-
vembre, preparò per lui diverse bozze di discorsi e omelie.
A quei giorni si riferisce l’aneddoto che, una volta, Ratzin-
ger mi raccontò: vedendo il Papa affaticato, gli offrì una
stanza in episcopio per una pennichella pomeridiana, ma
Wojtyła rispose sorridendo che «ci sarà tanto tempo per
riposarsi in Cielo!»; e poi gli lasciò cadere l’idea che l’a-
vrebbe voluto a Roma come nuovo prefetto della Congre-
gazione per la Dottrina della fede.
Il 6 gennaio 1981 il cardinale giunse in Vaticano per la
consacrazione episcopale di monsignor Ennio Appigna-

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nesi, il parroco di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone
della quale Ratzinger era titolare (come tutti i porporati, in
questo modo era divenuto idealmente membro del clero
romano). Giovanni Paolo II volle incontrarlo privatamente
e tornò alla carica, ma l’arcivescovo di Monaco si era pre-
parato una via di fuga e gli rispose che avrebbe accettato la
nomina unicamente se avesse potuto continuare a scrivere
saggi teologici a propria firma, in aggiunta ai documenti
ufficiali del dicastero.
Papa Wojtyła chiese ai collaboratori di verificare e venne
a sapere che anche il cardinale Garrone, da prefetto dell’E-
ducazione cattolica, aveva pubblicato diversi libri: a quel
punto Ratzinger sentì di non avere scampo! In un’occa-
sione, il cardinale mi confidò che già la nomina a Monaco
andava oltre ogni sua aspettativa, figurarsi il trasferimento
a Roma in una Congregazione… Ma poi si convinse che
non poteva fare resistenza dinanzi alla reiterata richiesta di
Giovanni Paolo II e comprese che in quel ruolo avrebbe
perfino potuto proseguire meglio gli studi personali e il
servizio alla Chiesa universale.
Quarant’anni fa, porre al Pontefice una simile condizione
poteva sembrava un peccato di hybris, di superbia, atteggia-
mento del tutto contrario allo stile di Ratzinger. In realtà,
sin da allora lui vedeva nella propria produzione saggistica
una dote da sfruttare per farla divenire uno strumento pa-
storale. Non c’era in gioco la vanagloria del grande teologo,
bensì la consapevolezza del servizio che poteva essere reso
alla Chiesa. Avrebbe vissuto il rinunciare a questa possi-
bilità di influire a livello personale nel dibattito teologico
come un’amputazione, dannosa per sé, ma pure per gli altri.
Ho avuto occasione di comprenderne ulteriormente le
motivazioni ragionando con lui riguardo alle critiche che gli
venivano fatte quando pubblicava i volumi su Gesù Cristo:
Benedetto XVI è stato risoluto nel contestare chi affermava

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che il tempo da lui dedicato alla scrittura veniva sottratto
al governo della Chiesa, poiché questo avrebbe dovuto
essere il suo compito primario. Facendo riferimento a san
Bonaventura e al proprio predecessore Benedetto XIV,
mi ha sempre sottolineato che pure quella della scrittura è
una forma di governo, poiché dà cibo spirituale ai fedeli,
in aggiunta agli atti magisteriali.
Con un riferimento spero non eccessivamente azzardato,
il 7 giugno 2013 ero seduto di fianco a Papa Francesco,
durante l’incontro in Vaticano con gli studenti delle scuole
gestite dai Gesuiti, e mentre lo ascoltavo rispondere diver-
tito a una ragazzina che la scelta di vivere a Santa Marta
era «per motivi psichiatrici, perché è la mia personalità»,
ho pensato che la stessa osservazione avrebbe potuta farla
Ratzinger, sia da cardinale sia da Papa, riguardo la sua scelta
di continuare a scrivere. In molteplici occasioni Benedetto
XVI mi ha infatti detto con forza: «Per me la scrittura non
è un impegno, ma una liberazione che mi fa bene. Non
mi toglie forza, ma piuttosto me la genera. Si tratta di due
energie diverse, e ambedue devono essere esercitate». In
sostanza, direi che, senza lo sfogo della produzione teolo-
gica, la “pentola a pressione” del suo intelletto non avrebbe
avuto una valvola di sicurezza e sarebbe esplosa.

Cane da guardia o promotore?

La nomina a prefetto della Congregazione per la Dot-


trina della fede venne ufficializzata il 25 novembre 1981 e
l’addio a Monaco si celebrò il 28 febbraio 1982. Con una
commossa immagine, Ratzinger un giorno mi ha descritto
di aver visto in quei momenti i suoi diocesani «con un oc-
chio ridente per la gioia della promozione del loro arcive-
scovo e con l’altro piangente per il dispiacere di vederlo

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andar via». Il primo ministro bavarese Franz Josef Strauss
lo disse a chiare lettere: «Preferiremmo non lasciarla an-
dare a Roma». E lui replicò: «Rimarrò sempre bavarese
anche quando sarò in Vaticano».
Lavorando in Congregazione, ho potuto ascoltare dalla
viva voce dei colleghi più anziani i ricordi relativi ai primi
tempi del prefetto, con le speranzose attese da parte di
alcuni e le acute apprensioni da parte di altri riguardo a
come avrebbe agito. Tutti avevano infatti la curiosità di
vedere concretamente i cambiamenti che avrebbe appor-
tato, a quella che da molti era ancora soprannominata “la
Suprema”, colui che aveva ispirato il discorso nel quale, l’8
novembre 1963, il cardinale Joseph Frings ne aveva stig-
matizzato «i modi di procedere non allineati ai tempi sotto
diversi aspetti, risultando dannosi per la Chiesa e scanda-
losi per molti», parole che avevano suscitato un boato di
plauso fra i partecipanti al Vaticano II.
Probabilmente Giovanni Paolo II aveva scelto un teologo
e un pastore, al contrario della tradizione che aveva privi-
legiato diplomatici e canonisti, perché, quando il cardinale
ne prese la guida, la Congregazione si trovava “a metà del
guado”. Il 7 dicembre 1965 Paolo VI ne aveva infatti mu-
tato il nome, da Sacra Congregazione del Sant’Offizio a Sa-
cra Congregazione per la Dottrina della fede, conservando
però la presidenza del Sommo Pontefice, mentre la dire-
zione continuava a essere affidata a un cardinale segretario.
Sempre Papa Montini, il 15 agosto 1967, aveva rifor-
mato la Congregazione, stabilendo che a capo ci fosse un
cardinale prefetto e conferendole il compito di «tutelare la
dottrina riguardante la fede e i costumi in tutto il mondo
cattolico». Le mansioni erano però ancora sbilanciate sul
versante negativo: «Essa prende in esame le nuove dottrine
e le nuove opinioni, in qualsiasi modo divulgate; promuove
studi su questa materia, e favorisce congressi di dotti; con-

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danna quelle dottrine che risultano essere contrarie ai prin-
cipi della fede, dopo aver tuttavia sentito il parere dei ve-
scovi di quelle regioni, se ne sono interessati. Esamina con
diligenza i libri che le vengono segnalati, e, se necessario,
li condannerà, dopo aver tuttavia sentito l’autore e avergli
data la facoltà di difendersi. A essa spetta pure giudicare
circa gli errori riguardanti la fede, secondo le norme del
processo ordinario».
L’impegno di Ratzinger per l’aggiornamento delle nor-
mative, in sintonia con le richieste di Giovanni Paolo II, si
concentrò dapprima sul Codice di Diritto canonico, che
venne promulgato nel 1983 e dove si può riconoscere un
suo influsso in alcuni canoni connessi con l’ecclesiologia,
il Magistero, le Conferenze episcopali, le relazioni tra i ve-
scovi e la Curia romana. Quindi si adoperò per la ridefini-
zione in positivo del compito della Congregazione, sancito
il 28 giugno 1988 all’interno della costituzione apostolica
Pastor bonus: «Promuovere e tutelare la dottrina sulla fede
e i costumi in tutto l’orbe cattolico».
Nell’adempimento di tale indirizzo, veniva precisato,
«essa favorisce gli studi volti a far crescere l’intelligenza
della fede e perché, ai nuovi problemi scaturiti dal pro-
gresso delle scienze o della civiltà, si possa dare risposta
alla luce della fede. Essa è di aiuto ai vescovi, sia singoli che
riuniti nei loro organismi, nell’esercizio del compito per cui
sono costituiti come autentici maestri e dottori della fede e
per cui sono tenuti a custodire e a promuovere l’integrità
della medesima fede. Al fine di tutelare la verità della fede
e l’integrità dei costumi, si impegna fattivamente perché
la fede e i costumi non subiscano danno a causa di errori
comunque divulgati. Pertanto: ha il dovere di esigere che i
libri e altri scritti, pubblicati dai fedeli e riguardanti la fede
e i costumi, siano sottoposti al previo esame dell’autorità
competente; esamina gli scritti e le opinioni che appaiono

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contrari alla retta fede e pericolosi, e, qualora risultino
opposti alla dottrina della Chiesa, data al loro fautore la
possibilità di spiegare compiutamente il suo pensiero, li ri-
prova tempestivamente, dopo aver preavvertito l’ordinario
interessato, e usando, se sarà opportuno, i rimedi adeguati;
si adopera, infine, affinché non manchi un’adeguata con-
futazione degli errori e dottrine pericolose, che vengano
diffusi nel popolo cristiano».
Il 22 aprile 2007, durante la visita pastorale nella dio-
cesi di Pavia (dove sono custodite le ossa di Agostino d’Ip-
pona), Benedetto XVI sembrerà quasi offrire una nota au-
tobiografica descrivendo la vita del santo teologo dopo la
consacrazione episcopale e citando un significativo passo
dai suoi Sermoni: «Il bel sogno della vita contemplativa era
svanito, la vita di Agostino ne risultava fondamentalmente
cambiata. Ciò che ora costituiva la sua quotidianità, lo ha
descritto così: “Correggere gli indisciplinati, confortare i
pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori…
stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi,
liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tol-
lerare i cattivi e amare tutti”».
Tali parole descrivono ciò che io stesso ho potuto quoti-
dianamente sperimentare al fianco del prefetto, verificando
la totale inconsistenza di quelle descrizioni del “Panzerkar-
dinal” o del “Rottweiler di Dio” spacciate senza pudore
da critici del cardinale totalmente estranei a una sua reale
conoscenza. Tutti i collaboratori riscontrarono in lui un
nuovo stile, poiché l’applicazione del regolamento di una
Congregazione dipende molto da chi la dirige e dal clima
che lui riesce a creare.
Ratzinger ha sempre avuto la convinzione che, per con-
solidare la fiducia reciproca, ci si debba conoscere bene.
Perciò incentivò molto le personali relazioni umane e gli
incontri ad ampio raggio, per esempio con le Commissioni

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teologiche delle diverse nazioni, con le Conferenze episco-
pali e con i superiori generali di ordini e istituti religiosi,
nell’obiettivo di eliminare alcuni pregiudizi che nel corso
del tempo si erano accumulati sulla Congregazione.
Il cardinale inaugurò anche il metodo dell’appuntamento
del venerdì con tutti i collaboratori della Congregazione,
in vista del quale entro ogni giovedì pomeriggio ciascuno
di noi doveva preparare un appunto sulle questioni che sa-
rebbero state discusse, cosicché lui potesse studiare quelle
note a casa, in modo da discuterne con cognizione di causa
al mattino successivo. E c’era la prassi di cominciare il di-
battito a partire dal meno alto in grado, così che non ci
fosse in nessuno il timore reverenziale di contraddire l’o-
pinione di un officiale superiore.
Il prefetto aveva l’ultima parola, però era sempre rispet-
toso dei diversi pareri, che ascoltava sino in fondo. Se la
proposta di soluzione lo convinceva, l’accettava con pia-
cere; in caso contrario, elegantemente ripeteva in sintesi ciò
che il collaboratore aveva ipotizzato e concludeva: «Lei ha
valutato secondo una prospettiva che di per sé è giusta, ma
forse non è completa. C’è quest’altro aspetto che potrebbe
portare a una diversa soluzione, in questa maniera…». In
tal modo non umiliava mai nessuno e il risultato finale ap-
pariva a tutti il migliore.
Il lunedì c’era poi la Consulta degli esperti, sotto la guida
del segretario, e il mercoledì l’incontro dei membri cardi-
nali e vescovi (la cosiddetta feria quarta), presieduta dal
prefetto. L’atmosfera era sempre molto serena e informale,
tanto che non di rado ci si lanciava anche una battuta. Una
caratteristica importante di Ratzinger, che non molti cono-
scono, era infatti il fine senso dell’umorismo. Al punto che,
il 4 gennaio 1989, ricevette con piacere a Monaco l’ono-
rificenza intitolata al comico Karl Valentin e nel discorso
d’accettazione richiamò l’affermazione di san Paolo «Noi

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stolti a causa di Cristo» (1 Corinzi 4,10) sottolineando che
«alle corti degli antichi potentati, il giullare era spesso l’u-
nico a potersi permettere il lusso della verità. E, siccome
per la mia occupazione mi accade di dover dire la verità,
sono davvero felice di essere stato or ora accettato nella
categoria di coloro i quali godono di quel privilegio. Chi,
dicendo la verità, non si sentisse un po’ un clown, di certo
diverrebbe troppo facilmente un autocrate».
Ricordo in particolare una volta in cui lui e il cardinale
Carlo Maria Martini – due pensatori molto diversi, ma ac-
comunati dalla reciproca stima – si punzecchiarono a vi-
cenda. L’arcivescovo milanese sosteneva di non aver mai
scritto un libro, mentre il prefetto ribatteva che soltanto
tradotti in tedesco ne aveva letti almeno una quindicina
con la sua firma. Allora Martini replicò: «Ma io non devo
mettermi alla scrivania, come fa lei, e faticare: parlo, mi
registrano, qualcuno trascrive e redige il testo, ed è fatta».
Con un ammiccamento sornione Ratzinger concluse il sim-
patico duello facendo capire che la qualità un po’ disomo-
genea di quelle opere gli aveva permesso di immaginare un
tale modus operandi!

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Il filosofo e il teologo

Due anime in sintonia

«Rendo grazie a Dio per la presenza e l’aiuto del car-


dinale Ratzinger, che è un amico fidato»: parole scolpite
nella pietra, quelle mediante le quali Giovanni Paolo II,
nel libro di memorie Alzatevi, andiamo del 2004, rievocò
il suo pluridecennale rapporto con il prefetto della Con-
gregazione per la Dottrina della fede. Al punto da ispirare
a Joaquín Navarro-Valls, lo storico portavoce e confidente
di Papa Wojtyła, un emblematico commento: «Non hanno
precedenti le parole che il Pontefice scrisse un anno prima
di morire, dove per la prima volta menziona con una lode
esplicita e molto eloquente un collaboratore vivo, al quale
esprime gratitudine per la sincera amicizia. Proprio questo
lascia pensare a un rapporto strettissimo».
Da parte sua, Benedetto XVI non ha lesinato opportunità
per ricambiare. Posso personalmente testimoniare che una
delle prime sollecitudini da Papa fu quella di adempiere
quanto programmato dal suo predecessore, a cominciare
dalla visita pastorale a Bari per la conclusione del Con-
gresso eucaristico nazionale (29 maggio 2005) e dal viaggio
apostolico a Colonia in occasione della Giornata mondiale
della gioventù (18-21 agosto 2005).
Ma anche nell’ambito più privato mi diede disposizione
di portare a compimento, per quanto possibile, ciò che era
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rimasto in sospeso. Mi piace ricordare qui la testimonianza
del giornalista Filippo Anastasi, all’epoca coordinatore
dell’informazione religiosa nel Giornale radio Rai: «Poco
prima che morisse, avevo espresso a Wojtyła il desiderio di
fargli conoscere i miei collaboratori. Il Papa ci aveva con-
cesso un’udienza privata, però proprio quel giorno fu ri-
coverato al Gemelli, e poi sappiamo com’è finita. Un paio
di mesi dopo l’elezione di Benedetto XVI, ricevetti una
telefonata dal suo segretario: “Benedetto ha piacere e in-
tenzione di mantenere gli impegni del suo predecessore e
quindi vi invita al Palazzo apostolico per un’udienza pri-
vata”. E così andammo tutti».
In seguito, Papa Ratzinger volle espressamente che il suo
primo viaggio all’estero lo conducesse in Polonia, dal 25
al 28 maggio 2006. Nel discorso alla Curia vaticana, il 22
dicembre di quell’anno, il Papa confidò che si era trattato
di «un intimo dovere di gratitudine per tutto ciò che Gio-
vanni Paolo II, durante il quarto di secolo del suo servizio,
ha donato a me personalmente e soprattutto alla Chiesa e
al mondo. Il suo dono più grande per tutti noi è stata la
sua fede incrollabile e il radicalismo della sua dedizione».
Pochi sanno che, nel museo realizzato nella casa natale
di Karol Wojtyła a Wadowice, sono esposti diversi oggetti
inviati da Benedetto XVI: tre anelli che Giovanni Paolo II
gli aveva regalato quando era prefetto, tre lettere del Pon-
tefice polacco e una fotografia che li ritrae insieme durante
la celebrazione per il decimo anniversario del pontificato
di Papa Wojtyła il 30 ottobre del 1988. Benedetto visitò
personalmente quel luogo il 27 maggio 2006, durante il
viaggio in Polonia, e vi lasciò un bassorilievo raffigurante
la Madonna e un pensiero nel libro degli autografi.
Tra loro c’era una chiara differenza caratteriale e di
stile: in quanto a formazione, Karol Wojtyła era un filo-
sofo, mentre Joseph Ratzinger era un teologo (il cardinale

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una volta mi raccontò che lo stesso Giovanni Paolo II gli
aveva confidato di sentirsi più ferrato riguardo alla filoso-
fia, piuttosto che alla teologia). In fondo, si potrebbe dire
che Papa Wojtyła era più indirizzato verso l’interrogazione
filosofica e la ricerca intellettuale, mentre Ratzinger più alla
chiarezza teologica e al rigore interpretativo. Ma a tutti noi
appariva con evidenza come questi elementi si fondessero
in una complementarità.
Un’interessante sintesi è quella del professor Alfred Läp-
ple, suo antico responsabile nel seminario di Frisinga: «La
base filosofico-teologica comune a entrambi era il perso-
nalismo, che – all’inizio indipendente nei due – in Polonia
mosse il pensiero e la speranza in un futuro di libertà come
alternativa politico-culturale al dominio statale sovietico-
marxista. Il personalismo dialogico costituiva il permanente
accordo fondamentale, che si rafforzava reciprocamente,
fra il Papa polacco e il prefetto tedesco: l’uomo non è un
qualcosa, ma è un io che nel dialogo vive come tu divino
la Persona che gli sta di fronte».
In diverse occasioni ho avuto l’opportunità di osservare
come, quando non c’era la totale condivisione di una presa
di posizione o di una specifica iniziativa, fra i due ci fosse
costantemente una fiduciosa apertura di credito, che poi
ovviamente portava il cardinale a fare tutto ciò che gli com-
peteva per assecondare la volontà del Pontefice. In qualche
modo, per Ratzinger quegli anni rappresentarono anche una
sorta di apprendistato: «Senza di lui il mio cammino spi-
rituale e teologico non è neanche immaginabile», dichiarò
il 4 luglio 2015, ricevendo a Castel Gandolfo il dottorato
honoris causa dalla Pontificia università Giovanni Paolo II
e dall’Accademia di musica di Cracovia.
A tale consapevolezza attribuisco la volontà di corrispon-
dere alla pressante sollecitazione dell’entourage di Giovanni
Paolo II, da cui, sull’onda del «santo subito» acclamato a

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gran voce durante i funerali di Papa Wojtyła, venne pe-
rorata la dispensa dai regolamentari cinque anni di attesa
per l’apertura del processo di canonizzazione. Anche Be-
nedetto XVI si sentì stimolato dal grande entusiasmo po-
polare, cosicché chiese al cardinale José Saraiva Martins,
prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, di pre-
parare il decreto che venne letto il 13 maggio 2005 nella
basilica di San Giovanni in Laterano, al termine dell’in-
contro con il clero di Roma, e che ha consentito la rapida
proclamazione a beato, il 1° maggio 2011, e a santo, il 27
aprile 2014, di Karol Wojtyła.
Papa Ratzinger lo ha pubblicamente dichiarato sin dai
primi tempi dopo l’elezione: «Che Giovanni Paolo II fosse
un santo, negli anni della collaborazione con lui mi è dive-
nuto di volta in volta sempre più chiaro. C’è innanzitutto da
tenere presente naturalmente il suo intenso rapporto con
Dio, il suo essere immerso nella comunione con il Signore,
da cui veniva la sua letizia, in mezzo alle grandi fatiche che
doveva sostenere, e il coraggio con il quale assolse il suo
compito in un tempo veramente difficile. Giovanni Paolo
II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno pre-
occupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte.
Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni
ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della ve-
rità è ai miei occhi un criterio di primo ordine della santità.
Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire
anche il suo indefesso impegno pastorale. Il mio ricordo
di Giovanni Paolo II è colmo di gratitudine. Non potevo
e non dovevo provare a imitarlo, ma ho cercato di portare
avanti la sua eredità e il suo compito meglio che ho potuto.
Perciò sono certo che ancora oggi la sua bontà mi accom-
pagna e la sua benedizione mi protegge».
Di commovente intimità risultano tuttora le considera-
zioni che Ratzinger propose nel testo commemorativo del

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ventesimo anniversario di pontificato di Papa Wojtyła:
«Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo
II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati atti-
rare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non
quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giac-
ché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò
che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola.
A partire da questo centro ci si spiega perché egli, pur es-
sendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del
mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e
importante, ha conservato anche quella semplicità che gli
permette di comunicare con ogni singola persona».

Un appuntamento settimanale

Estremamente importante, per il consolidamento del


loro legame, fu la cosiddetta “udienza di tabella”, che alle
ore 18 di ogni venerdì li vedeva impegnati a discutere da
soli non soltanto i documenti in preparazione, ma anche la
situazione più generale della Chiesa e del mondo. Ratzinger
mi raccontava poi che in varie occasioni la conversazione si
era dilatata pure all’ambito culturale, poiché Papa Wojtyła
apprezzava la letteratura tedesca e voleva confrontarsi con
lui su opere di autori contemporanei che l’avevano colpito.
Oltre a quelle udienze ufficiali, al martedì mattina il
cardinale veniva spesso convocato per incontri più infor-
mali, dove personalità ecclesiastiche volta a volta diverse
ragionavano sulle catechesi del mercoledì, su questioni
d’attualità, sulle tematiche proposte dai vescovi di una
determinata nazione in visita ad limina (l’incontro quin-
quennale con il Papa, N.d.A.), su nuove riflessioni che
emergevano in ambito teologico… E descriveva quegli
appuntamenti, che spesso si dilatavano al pranzo, come

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momenti anche di buonumore e occasioni di sentirsi in
ottima compagnia.
Ratzinger avvertiva come problematica una situazione
che si era creata con la riforma della Curia romana voluta
da Paolo VI. Il sostanziale coordinamento dei dicasteri vati-
cani da parte della Segreteria di Stato, guidata da Agostino
Casaroli fino al 1991 e successivamente da Angelo Sodano,
imponeva talvolta una scelta su cosa privilegiare fra la sal-
dezza della dottrina e la duttilità della diplomazia. Anche
se il prefetto cercava di mantenere buoni rapporti con tutti,
smussando gli spigoli più acuti, ogni tanto qualche situa-
zione locale si imponeva maggiormente all’attenzione e lui
si trovava a dover caldeggiare con Giovanni Paolo II solu-
zioni divergenti da quelle proposte dal segretario di Stato.
Ricordo per esempio, nella seconda metà degli anni No-
vanta, il fitto scambio di lettere tra la Segreteria di Stato,
la nostra Congregazione e la Conferenza episcopale tede-
sca in relazione ai consultori ecclesiastici che in Germania
dovevano decidere se continuare a rilasciare i certificati di
colloquio alle donne che intendevano abortire. La natura
di questa attestazione risultava ambigua, poiché – anche
se in origine era un modo per aprire un dialogo e far ri-
flettere chi voleva abortire (inoltre, grazie ai relativi sussidi
statali, permetteva ai consultori ecclesiastici di proseguire
l’attività di consulenza in favore della vita) – si era di fatto
trasformata in un’autorizzazione all’esecuzione depenaliz-
zata dell’aborto nelle prime dodici settimane di gravidanza.
Tra i cardinali Sodano e Ratzinger c’era diversità di ve-
dute su come affrontare la problematica: il primo più at-
tento ai risvolti politici della vicenda e ai buoni rapporti
con la presidenza di quella Conferenza episcopale, men-
tre il secondo aveva innanzitutto a cuore l’intera questione
etico-morale e le conseguenze dottrinali e pastorali che ne
sarebbero scaturite. Cosicché si andò avanti a lungo nel

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dibattito “dietro le quinte” e alla fine, l’11 gennaio 1998,
Papa Wojtyła inviò ai vescovi tedeschi una lettera nella
quale stabilì «che un certificato di tale natura non venga
più rilasciato nei consultori ecclesiali o dipendenti dalla
Chiesa». Ma nel contempo, e a mia memoria non conosco
altri esempi espliciti del genere, faceva capire a chiare let-
tere quanto fosse stata accesa la diatriba fra i due blocchi
di pensiero: «Da persone, che per la Chiesa e nella Chiesa
si impegnano, si è messo in guardia con forza da una simile
decisione, che lascerebbe le donne in situazioni conflittuali
senza l’appoggio della comunità di fede. Altrettanto con
forza si è denunciato che il certificato coinvolge la Chiesa
nell’uccisione di bambini innocenti e rende meno credi-
bile la sua assoluta contrarietà all’aborto. Ho preso in seria
considerazione entrambe le voci e rispetto l’appassionata
ricerca da ambedue le parti della giusta via per la Chiesa
in questa questione importante».
In precedenza, un momento di dissonanza fra Ratzin-
ger e Giovanni Paolo II era stato l’incontro interreligioso
per la pace del 27 ottobre 1986 ad Assisi, al quale il cardi-
nale non ritenne opportuno partecipare. Il rischio da lui
intravisto era che si manifestasse confusione tra le diverse
espressioni di culto dei 62 capi religiosi convenuti nella
cittadina di san Francesco: di conseguenza temeva che la
sua semplice presenza potesse venire equivocata come una
valutazione favorevole. Effettivamente in alcune chiese si
svolsero cerimonie inappropriate, per esempio con l’espo-
sizione della statua di Budda vicino a un tabernacolo, op-
pure con la preparazione del calumet della pace su un al-
tare; e anche riguardo all’appuntamento pomeridiano nella
piazza inferiore della basilica, dove i diversi gruppi si ritro-
varono insieme, la sequenza di preghiere, seppur scandite
da una pausa fra ciascuna di esse, diede avvio a polemiche
su sensazioni di sincretismo o di cedimenti al relativismo.

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Per quello che ho percepito da qualche sua confidenza
in merito, Ratzinger aveva riferito a Papa Wojtyła le pro-
prie perplessità, ma il Pontefice era pienamente convinto
dell’opportunità di quell’incontro e gli chiese semplice-
mente di contribuire alla migliore preparazione fattibile.
Il cardinale aveva chiaro il proprio compito di far presenti
le possibili derive, ma poi non si tirava indietro quando
Giovanni Paolo II gli manifestava una esplicita volontà.
Secondo Ratzinger, comunque, il Papa si rese conto, con il
senno di poi, che i timori espressi dal cardinale non erano
del tutto peregrini, al punto che nella seconda edizione
del 24 gennaio 2002 chiese di curare maggiormente i det-
tagli delle cerimonie, cosicché Ratzinger, che pure fino al
giorno precedente non era nella lista dei partecipanti, alla
fine ritenne di poter intervenire dopo una personale richie-
sta del Pontefice.
I collaboratori di Papa Wojtyła ripetevano sempre che
nessuna decisione significativa era stata presa da Giovanni
Paolo II senza la consultazione previa del cardinale, e io
stesso ho avuto spesso fra le mani lettere a lui indirizzate
che venivano inoltrate in Congregazione con la scritta di
suo pugno: «Chiedere al cardinale Ratzinger», «Per favore,
inviare al prefetto Ratzinger». In questi casi, noi collabora-
tori della Congregazione leggevamo con attenzione la lettera
per comprendere la fattispecie della richiesta e ipotizzare
una proposta da sottoporre al cardinale, in modo da con-
sentirgli di valutare l’opportunità di illustrarla a propria
volta al Pontefice nell’udienza settimanale.
Quando sono diventato segretario particolare del pre-
fetto, ricevevo frequentemente telefonate dai segretari mon-
signor Stanisław Dziwisz (“don Stanislao”) e monsignor
Mieczysław Mokrzycki (“don Mietek”), i quali a nome di
Papa Wojtyła chiedevano che Ratzinger si recasse nel Pa-
lazzo apostolico per una riunione con altri cardinali o da

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solo con il Santo Padre. Erano invece scarsi gli appunta-
menti per pranzi di lavoro, poiché il Papa aveva ormai dif-
ficoltà anche nella deglutizione. Però ne venne organizzato
uno quando divenni segretario particolare del cardinale,
il quale volle presentarmi ufficialmente a Giovanni Paolo
II e ai suoi collaboratori dell’Appartamento papale. Io ero
abbastanza intimidito dalla circostanza, ma sia il Papa che
i segretari furono molto cordiali e dopo un po’ mi sentii
completamente a mio agio.

Le sfide del prefetto

Poco dopo il suo arrivo in Congregazione, Ratzinger si


era trovato dinanzi a una delle tematiche più spinose di
quegli anni. Nel Codice di Diritto canonico promulgato da
Benedetto XV nel 1917 si stabiliva infatti, al canone 2335,
che «chi si ascrive alla massoneria o altra setta che trama
contro la Chiesa o il potere civile, incorre la scomunica ri-
servata alla Sede apostolica». Nel nuovo Codice, firmato
da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983, le parole del ca-
none 1374 risultavano decisamente più blande: «Chi dà il
nome a una associazione che complotta contro la Chiesa
sia punito con una giusta pena; chi poi tale associazione
promuove o dirige sia punito con l’interdetto». Questa in-
novazione aprì una polemica che coinvolse diversi fronti,
sia all’interno che all’esterno della Chiesa cattolica. Così il
prefetto ritenne opportuna una esplicita dichiarazione, ap-
provata da Papa Wojtyła e pubblicata il 26 novembre 1983
(il giorno precedente l’entrata in vigore del nuovo Codice).
Il testo chiariva definitivamente che la non espressa
menzione della massoneria «è dovuta a un criterio reda-
zionale seguìto anche per altre associazioni ugualmente
non menzionate in quanto comprese in categorie più am-

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pie», restando invece «immutato il giudizio negativo della
Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché
i loro princìpi sono stati sempre considerati inconciliabili
con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse ri-
mane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni
massoniche sono in stato di peccato grave e non possono
accedere alla santa comunione». Per di più, essendo state
rese note in quel tempo le prese di posizione di alcuni ve-
scovi favorevoli a una revisione del giudizio sulla massone-
ria, Ratzinger affermava perentoriamente che «non com-
pete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla
natura delle associazioni massoniche con un giudizio che
implichi deroga a quanto sopra stabilito».
L’anno successivo rincarò la dose con una riflessione
della Congregazione sulla «inconciliabilità tra fede cristiana
e massoneria», nella quale venivano messe in luce le sue
«idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina
cattolica», nonostante «il dialogo intrapreso da parte di per-
sonalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che
si dichiaravano non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa».
Dunque con la dichiarazione del 1983, «prescindendo dalla
considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse
logge, la sacra Congregazione ha inteso collocarsi al livello
più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul
piano cioè dell’inconciliabilità dei princìpi, il che significa
sul piano della fede e delle sue esigenze morali».
Quando venne eletto Pontefice, risultò evidente il di-
sappunto (per non dire altro) della massoneria nei con-
fronti di Benedetto XVI. Perciò, leggendo nel 2013 il ca-
loroso saluto di Gustavo Raffi, il gran maestro del Grande
Oriente d’Italia – «Forse nella Chiesa nulla sarà più come
prima. Il nostro auspicio è che il pontificato di Francesco
possa segnare il ritorno della Chiesa-Parola rispetto alla
Chiesa-istituzione, [nella speranza che] una Chiesa del po-

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polo ritrovi la capacità di dialogare con tutti gli uomini di
buona volontà e con la Massoneria» – fui certo che, più di
un “benvenuto” a Papa Bergoglio, che francamente non
credo gli fosse particolarmente familiare, si trattasse di un
“benservito” a Papa Ratzinger!
Un’altra grande sfida per la Congregazione fu la cosid-
detta “Teologia della liberazione”, che dagli anni Settanta
si stava diffondendo ampiamente in America latina e che in
Europa e America del Nord veniva interpretata come una
giusta presa di posizione in favore dei poveri. Il problema
era la parzialità della prospettiva, come Ratzinger spiegava
con chiarezza: «Le forme di aiuto immediato ai poveri e le
riforme che migliorano le condizioni venivano condannate
come riformismo che ha l’effetto di consolidare il sistema.
Occorreva invece un grande rivolgimento, dal quale do-
veva scaturire un mondo nuovo. La fede cristiana veniva
usata come motore per questo movimento rivoluzionario,
trasformandola così in una forza di tipo politico e indebo-
lendo anche il vero amore per i poveri».
Il cardinale si confrontò ampiamente con Giovanni
Paolo II. Avendo ben chiara l’ideologia marxista su cui
si fondava quella prospettiva teologica, il Papa diede in-
dicazioni molto precise, affermando che la Chiesa deve
agire per la libertà e la liberazione non in modo politico,
ma risvegliando negli uomini, attraverso la fede, le forze
dell’autentica liberazione. Ha documentato Ratzinger: «Il
Pontefice ci guidò a trattare entrambi gli aspetti: da un
lato a smascherare una falsa idea di liberazione, dall’altro
esporre l’autentica vocazione della Chiesa alla liberazione
dell’uomo». Da qui prese avvio la riflessione che portò alla
stesura delle due istruzioni sulla Teologia della liberazione,
Libertatis nuntius nel 1984 e Libertatis conscientia nel 1986.
Anche quando le critiche della Congregazione motiva-
vano dei provvedimenti nei confronti di qualche teologo,

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il prefetto cercava sempre di farlo con amore e con giusti-
zia. «I miei collaboratori e io ci sforziamo di non perdere
di vista la dignità dell’uomo che stiamo sanzionando e fac-
ciamo in modo tale che lui stesso possa riconoscere ciò che
ci preme. Non vogliamo semplicemente colpirlo con una
scomunica, ma porci al servizio della comunità nel suo in-
sieme e quindi, in ultima analisi, anche al suo servizio. E ci
sentiamo innanzitutto in obbligo di difendere la fede dei
semplici», ripeteva con convinzione.
Io credo che proprio per fare estrema chiarezza Ratzin-
ger si fece promotore nel 1990 dell’istruzione Donum ve-
ritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, dove si legge
che «l’esigenza critica non va identificata con lo spirito
critico, che nasce piuttosto da motivazioni di carattere af-
fettivo o da pregiudizio. Il teologo deve discernere in se
stesso l’origine e le motivazioni del suo atteggiamento cri-
tico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla fede.
[…] Il teologo, non dimenticando mai di essere anch’egli
membro del popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi
confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento
che non leda in alcun modo la dottrina della fede».
Fra le tante tematiche al centro della riflessione del car-
dinale Ratzinger, quella della politica e dell’impegno che
i cattolici vi devono riversare a partire dalla fede fu sem-
pre presente. Il 26 novembre 1981, proprio il giorno suc-
cessivo alla formalizzazione della sua nomina in Vaticano,
pronunciò un’omelia da arcivescovo di Monaco, durante
una celebrazione liturgica per i deputati cattolici nel Par-
lamento tedesco, che in questi tempi di crisi della diplo-
mazia risulta quanto mai sfidante: «Lo Stato non è la tota-
lità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza
umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello
Stato e oltre la sfera dell’azione politica. […] Il primo ser-
vizio che la fede fa alla politica è dunque la liberazione

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dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il
vero rischio del nostro tempo. […] La morale politica
consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle
grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo
e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’av-
ventura, che intende realizzare da sé le cose di Dio. Lo è
invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie,
entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di
ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera
morale dell’attività politica».
Tale consapevolezza di fondo lo spinse a firmare il 24
novembre 2002, come prefetto della Congregazione, una
nota dottrinale, tuttora di estrema attualità, sull’impegno
e il comportamento dei cattolici nella vita politica, che era
stata caldeggiata da Giovanni Paolo II per rispondere alle
sollecitazioni di vescovi di varie parti del mondo. Partendo
dalla constatazione che «la storia del XX secolo basta a di-
mostrare che la ragione sta dalla parte di quei cittadini che
ritengono del tutto falsa la tesi relativista secondo la quale
non esiste una norma morale, radicata nella natura stessa
dell’essere umano, al cui giudizio si deve sottoporre ogni
concezione dell’uomo, del bene comune e dello Stato», il
cardinale precisava che «il cristiano è tenuto ad ammettere
la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali,
ma è ugualmente chiamato a dissentire da una concezione
del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per
la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fonda-
menti veri e solidi, vale a dire, di princìpi etici che per la
loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita so-
ciale non sono “negoziabili”».
A scanso d’equivoci, Ratzinger affermava che «con il suo
intervento in questo ambito, il Magistero della Chiesa non
vuole esercitare un potere politico né eliminare la libertà
d’opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso in-

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tende invece istruire e illuminare la coscienza dei fedeli,
soprattutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita po-
litica, perché il loro agire sia sempre al servizio della pro-
mozione integrale della persona e del bene comune. L’in-
segnamento sociale della Chiesa non è un’intromissione
nel governo dei singoli Paesi [in quanto] gli orientamenti
contenuti nella presente nota intendono illuminare uno
dei più importanti aspetti dell’unità di vita del cristiano: la
coerenza tra fede e vita, tra Vangelo e cultura». Tutto ciò,
sempre in linea con il concilio Vaticano II, che aveva esor-
tato i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni,
facendosi guidare dallo spirito del Vangelo».

Come un direttore d’orchestra

Per il cardinale Ratzinger, le quattordici encicliche fir-


mate da Giovanni Paolo II rappresentavano le molteplici
tessere di un mosaico, inscindibili l’una dall’altra all’interno
del complessivo Magistero di Papa Wojtyła. In particolare
considerava la Redemptor hominis (1979), la prima in or-
dine cronologico cui non aveva potuto collaborare poiché
era ancora a Monaco, il punto di partenza per tutte le altre.
In essa vedeva anticipati tutti i temi successivi della ve-
rità e del suo legame con la libertà, con una presentazione
anche dei tratti principali – il sacrificio, la redenzione e
la penitenza – della fondamentale Ecclesia de Eucharistia
(2003), insieme con un cenno all’antropologia riguardo ai
problemi sociali del nostro tempo, che caratterizza le en-
cicliche sociali Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei so-
cialis (1987) e Centesimus annus (1991), dove è centrale la
dignità dell’uomo che è sempre un fine e mai un mezzo.
Ma le encicliche alle quali Ratzinger collaborò in maniera
particolare e che gli stavano più a cuore sono certamente

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le tre dottrinali: Veritatis splendor (1993), Evangelium vi-
tae (1995) e Fides et ratio (1998). In ogni caso il prefetto
era convinto che qualsiasi documento doveva essere con-
testualizzato nel tempo della sua promulgazione, poiché il
primo scopo era quello di rispondere a una problematica
di uno specifico momento della Chiesa, per evitare il ri-
schio di ridurlo a un mero esercizio teorico.
L’indicazione di Giovanni Paolo II riguardo alla Veritatis
splendor fu di affrontare la crisi interna della teologia mo-
rale nella Chiesa, riformulando la sua prospettiva positiva
dal centro della fede piuttosto che da un elenco di divieti,
ma ampliando la riflessione anche al dibattito etico di di-
mensioni globali che era già all’epoca una questione di vita
o di morte per l’umanità. Il cardinale spiegò dunque che
l’imitazione di Cristo e il principio dell’amore erano stati
individuati come linee guida per organizzare i vari elementi
della dottrina morale, contrastando quella razionalità posi-
tivista incapace di riconoscere il bene come tale.
L’ardita affermazione di un teologo che «il buono è
sempre solo migliore di…» diede lo spunto a Ratzinger
per sottolineare che – se il criterio basilare diventa il cal-
colo delle conseguenze e se la morale viene fondata su ciò
che sembra più positivo, tenendo conto delle conseguenze
prevedibili – ciò che è morale si dissolve, poiché il bene
in quanto tale non esiste, cosicché il cristianesimo inteso
come “via” sarebbe un fallimento.
In accordo con Papa Wojtyła, come spiegò lo stesso
prefetto, a quel punto «si diede con grande decisione le-
gittimità alla prospettiva metafisica, che è solo una conse-
guenza della fede nel creato. Ancora una volta, partendo
dalla fede nella creazione, riesce a collegare e fondere an-
tropocentrismo e teocentrismo: “La ragione trova la sua
verità e la sua autorità nella legge eterna, che non è altro
che la stessa sapienza divina. […] Infatti, la legge naturale

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[…] non è altro che la luce dell’intelligenza infusa in noi
da Dio” (VS 40). […] Una perla dell’enciclica, significativa
sia filosoficamente che teologicamente, è il grande brano
sul martirio. Se non c’è più nulla per cui valga la pena mo-
rire, anche la vita diventa vuota. Solo se c’è il bene asso-
luto, per il quale vale la pena morire, e il male eterno che
non si trasforma mai in bene, l’uomo è confermato nella
sua dignità e siamo protetti dalla dittatura delle ideologie».
Ratzinger indicava questi aspetti come fondamentali
anche nella Evangelium vitae, espressione dell’appassio-
nato impegno di Giovanni Paolo II per il rispetto assoluto
della dignità della vita umana. Spiegava il prefetto: «La vita
umana, laddove viene trattata come una mera realtà bio-
logica, diventa oggetto del calcolo delle conseguenze. Ma
il Papa, con la fede della Chiesa, vede l’immagine di Dio
nell’uomo, in ogni uomo, piccolo o grande che sia, debole
o forte, utile o apparentemente inutile. Cristo, lo stesso
Figlio di Dio fatto uomo, è morto per tutti gli uomini. Ciò
conferisce a ogni uomo un valore infinito, una dignità as-
solutamente intoccabile».
Per il cardinale era anche importante affermare a chiare
lettere che «dopo tutte le crudeli esperienze di abuso
dell’uomo, anche se le motivazioni possono sembrare mo-
ralmente elevate, quelle parole erano e sono necessarie. È
evidente che la fede è la difesa dell’umanità. Nella situa-
zione di ignoranza metafisica in cui ci troviamo, e che allo
stesso tempo sfocia nell’atrofia morale, la fede si mostra la
cosa umana che salva. Il Pontefice, portavoce della fede,
difende l’uomo da una morale apparente che minaccia di
schiacciarlo».
La Fides et ratio rappresentò infine una summa sul tema
della verità, che ha contraddistinto il pensiero di Giovanni
Paolo II e dello stesso Ratzinger, anche perché quel docu-
mento andava al cuore di un serio problema: l’annuncio

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del messaggio cristiano in quanto verità riconosciuta ve-
niva definito, all’epoca e ancora oggi, come un attacco alla
tolleranza e al pluralismo.
Proprio qui entra in gioco, sosteneva il cardinale, la di-
gnità umana poiché, «se l’uomo non è capace di arrivare
alla verità, allora tutto ciò che pensa e fa è pura conven-
zione. Se la fede non ha la luce della ragione, si riduce a
pura tradizione, e così dichiara la sua profonda arbitra-
rietà. Ancora una volta si vede che la fede difende l’uomo
nella sua realtà di essere umano, e giustamente il Papa ri-
tiene che la fede sia chiamata a incoraggiare la ragione ad
avere ancora una volta il coraggio della verità. Senza ra-
gione, la fede viene meno; senza la fede, la ragione rischia
di atrofizzarsi».
Dietro a ciascuno di questi documenti c’era sempre
molto lavoro, che Ratzinger guidava come un vero diret-
tore d’orchestra. Dopo la stesura di un primo schema, si
chiedevano commenti e integrazioni a specifici consultori
della Congregazione, e spesso anche ad altri teologi par-
ticolarmente competenti in una determinata materia. Poi
c’era un costante vaglio da parte dei membri cardinali e
vescovi, che durante l’incontro della feria quarta offrivano
le proprie opinioni. Il prefetto forniva sempre un proprio
resoconto per iscritto, in modo che a tutti fosse chiaro il
suo giudizio e si ritrovassero nero su bianco anche i co-
stanti avanzamenti della riflessione comune.
In Segreteria di Stato, l’allora monsignor Paolo Sardi era
incaricato di un controllo stilistico sulla stesura finale, prima
che venisse inoltrata a Giovanni Paolo II. Oltre a formu-
lare delle modifiche di abbellimento, talvolta però inter-
veniva indebitamente sul testo, cosicché fu esplicitamente
data indicazione che, quando si trattava di un documento
delicato riguardante la dottrina, la Congregazione dovesse
venire sempre consultata prima di apportare cambiamenti.

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Le certezze della fede

Un faro magistrale del binomio Ratzinger-Wojtyła fu


certamente la Dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e
l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, pubbli-
cata nel contesto del grande Giubileo del 2000. All’origine
di quel documento c’erano diverse sollecitazioni, da parte
di Conferenze episcopali e di singoli vescovi, in favore di
un chiarimento dei dubbi, sorti ben prima della celebra-
zione di quell’Anno santo, riguardo ai rapporti ecumenici
e a quelli con le altre religioni. Il testo fu cesellato mediante
un accurato studio realizzato da numerosi consultori e la
bozza venne ulteriormente migliorata durante gli incontri
dei cardinali e vescovi membri della Congregazione, fon-
dando tutto sulla teologia conciliare di Dei Verbum e Lu-
men gentium.
Ratzinger spiegò così il senso e il contenuto di questo
documento: «Nel vivace dibattito contemporaneo sul rap-
porto tra il cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più
strada l’idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie
ugualmente valide di salvezza. […] La conseguenza fonda-
mentale di questo modo di pensare e sentire in relazione
al centro e al nucleo della fede cristiana è il sostanziale ri-
getto dell’identificazione della singola figura storica, Gesù
di Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente.
[…] Ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e
valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù
Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene consi-
derato una specie di fondamentalismo che costituirebbe
un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe
una minaccia contro la tolleranza e la libertà».
Ribadendo «la stima e il rispetto verso le religioni del
mondo, così come per le culture che hanno portato un
obiettivo arricchimento alla promozione della dignità

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dell’uomo e allo sviluppo della civiltà», il cardinale af-
fermò nel contempo con forza che «la convinzione che la
pienezza, universalità e compimento della rivelazione di Dio
sono presenti soltanto nella fede cristiana non risiede in una
presunta preferenza accordata ai membri della Chiesa, né
tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel
suo pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo,
vero Dio e vero Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa
di unicità e universalità salvifica del cristianesimo proviene
essenzialmente dal mistero di Gesù Cristo che continua la
sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa. Perciò
la Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella evan-
gelizzazione dei popoli».
Ovviamente le reazioni negative non si fecero attendere.
Come sempre più spesso il prefetto ripeteva ironicamente,
quasi per “esorcizzare” gli attacchi dai fronti contrapposti,
«poiché oggi per i teologi che tengono alla propria fama
sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione ne-
gativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina
della fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche,
da cui ben poco riuscì a salvarsi».
In quella circostanza, però, ciò che diede più fastidio fu
l’accusa al cardinale di aver forzato la mano a Giovanni Pa-
olo II, sostenendo che si era approfittato della stanchezza
manifestata dal Pontefice in quei mesi. Fu allora Papa
Wojtyła in persona a chiedere – durante un incontro con
i cardinali Ratzinger e Re e con l’arcivescovo Bertone – di
preparare un sintetico discorso che rendesse esplicita la
propria completa approvazione, in modo da poterlo leg-
gere durante l’Angelus domenicale del 1° ottobre 2000.
Anche in tale circostanza emerse l’aspetto conciliante e
poco polemico del cardinale, che, come rivelò in un’inter-
vista, quando portò il testo al Pontefice, si sentì chiedere
se realmente fosse “a tenuta stagna” e non consentisse al-

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cuna interpretazione diversa: «Non intendevo essere troppo
brusco, e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza
durezza. Dopo averlo letto, il Papa mi chiese ancora una
volta: “È veramente chiaro a sufficienza?”. Io risposi di sì.
Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, cionono-
stante, in seguito ci fu chi sostenne che il Papa aveva pru-
dentemente preso le distanze da quella Dichiarazione!».
Fra i compiti più significativi che, su mandato di Gio-
vanni Paolo II, impegnarono a fondo il prefetto c’era già
stata la preparazione del Catechismo della Chiesa cattolica,
ispirato da una raccomandazione del Sinodo dei vescovi
del 1985 di realizzare una presentazione organica di tutta
la dottrina cattolica riguardo sia alla fede che alla morale.
Nel luglio del 1986 Papa Wojtyła istituì la commissione di
cardinali e vescovi che si sarebbe occupata di realizzare il
documento e ne nominò presidente Ratzinger, che per sei
anni si immerse in un intenso lavoro, nell’intento di realiz-
zare un testo significativo per la vita corrente dei cristiani.
Quando la voluminosa opera fu pubblicata, nell’autunno
del 1992, alcune voci critiche lamentarono che la Chiesa
aveva voluto dire agli uomini soprattutto cosa non avreb-
bero dovuto fare, come se fosse unicamente fissata sulla
ricerca dei peccati. Il cardinale, pur considerando queste
obiezioni del tutto inappropriate e ingenerose, ritenne co-
munque che in tal modo si stava avviando un interessante
dibattito e decise di intervenire personalmente in più oc-
casioni per spiegare innanzitutto che «la questione di cosa,
come uomini, dovremmo fare per rendere giusti noi stessi
e il mondo è la questione essenziale di ogni tempo; e pro-
prio nel nostro tempo, a fronte di tutte le catastrofi e le
minacce e nella ricerca di un’autentica speranza con nuova
passione, è vissuta come la questione fondamentale, che ri-
guarda ciascuno di noi».
Ratzinger si preoccupava soprattutto di far compren-

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dere che il Catechismo era un testo unitario: «Si leggono
in modo sbagliato i passaggi sulla morale se li si stacca dal
loro contesto, cioè dalla confessione di fede, dalla dottrina
dei sacramenti e della preghiera. L’affermazione fondamen-
tale sull’uomo, infatti, nel Catechismo suona così: l’uomo
è creato a immagine di Dio, è a somiglianza di Dio. Tutto
ciò che viene detto sulla retta condotta dell’uomo si fonda
su questa prospettiva centrale. I dieci comandamenti sono
solo un’esposizione delle vie dell’amore e li leggiamo cor-
rettamente solo se li sillabiamo insieme con Gesù Cristo».
Una decina d’anni più tardi, nel 2002, dal Congresso
catechistico internazionale giunse la richiesta di elaborare
un compendio del Catechismo, con una formulazione più
sintetica dei medesimi contenuti di fede. Ancora una volta,
al prefetto venne affidato da Giovanni Paolo II il compito
di coordinarne la realizzazione, ma quando, il 20 marzo
2005, Ratzinger firmò l’introduzione al testo, non imma-
ginava che proprio lui, il successivo 28 giugno, lo avrebbe
anche ufficialmente presentato da Pontefice.

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3
La caduta della scure

La campagna elettorale “a rovescio”

Nei primi mesi del 2005, mentre si aggravavano co-


stantemente le condizioni di salute di Giovanni Paolo II,
il cardinale Ratzinger si trovò proiettato in primo piano in
alcuni eventi pubblici molto significativi. A quel tempo,
oltre al ruolo di prefetto della Congregazione più impor-
tante nella Curia vaticana, ricopriva anche l’incarico di
decano del Collegio cardinalizio: il 30 novembre 2002 era
infatti stato eletto dai confratelli al posto del dimissiona-
rio cardinale Bernardin Gantin, che al compimento degli
ottant’anni aveva deciso di rientrare in Benin.
Quando, nella mattinata del 22 febbraio, giunse la no-
tizia della morte di monsignor Luigi Giussani, il cardi-
nale non si aspettava che Giovanni Paolo II gli chiedesse
di presiederne i funerali, che si sarebbero svolti dopo due
giorni nel Duomo di Milano. Probabilmente all’origine ci
fu la consapevolezza del Papa della fraterna amicizia che
da decenni legava Ratzinger al fondatore del movimento
di Comunione e liberazione.
Don Stanislao me lo comunicò telefonicamente e io su-
bito glielo andai a riferire, cosicché il prefetto, quello stesso
pomeriggio, lavorò a casa per stendere l’omelia. In realtà,
ci fu poi qualche eccesso di protagonismo, poiché il car-
dinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo ambrosiano, volle
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a ogni costo presiedere la celebrazione, mentre l’arcive-
scovo Stanisław Ryłko, presidente del Pontificio consiglio
per i laici, riservò a sé la lettura di una lettera di cordoglio
a firma del Pontefice. Ratzinger, con la consueta benevo-
lenza, non si formalizzò, limitandosi a pronunciare la pro-
grammata omelia.
Di fatto, se si fosse trattato dell’avvio di una campagna
elettorale in vista dell’ormai prossimo Conclave, Ratzinger
mostrò di volerla svolgere “al contrario”, per convincere gli
eventuali supporter ad accantonarlo, piuttosto che a soste-
nerlo. Le sue parole, trasmesse in diretta sulla prima rete
televisiva della Rai, risultarono una volta ancora l’esplicita-
zione di un’idea coerente, quasi a dire: «E poi non lamen-
tatevi che non vi avevo chiarito come la penso!».
Dopo aver affermato che «il cristianesimo non è un si-
stema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo,
ma un incontro, una storia d’amore, un avvenimento», il
cardinale stigmatizzò la tentazione «di trasformare il cri-
stianesimo in un moralismo e il moralismo in una politica,
di sostituire il credere con il fare. […] Di questo passo si
cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli
orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide». E
concluse con una nota di crudo realismo: «Chi crede deve
attraversare anche la “valle oscura”, le valli oscure del di-
scernimento, e così anche delle avversità, delle opposizioni,
delle contrarietà ideologiche».
Appena un mese più tardi, nel Venerdì santo del 25
marzo, i suoi testi vennero letti durante la Via crucis al Co-
losseo, la tradizionale cerimonia religiosa che quell’anno
si svolse tristemente nell’assenza fisica di Giovanni Paolo,
che vi assistette tramite la televisione e fu ripreso di spalle
mentre abbracciava il crocifisso all’interno della cappella
privata nel Palazzo apostolico.
Anche in questo caso la decisione era stata presa perso-

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nalmente dal Papa, e Ratzinger accolse con grande dispo-
nibilità il suo desiderio, dedicandosi in maniera intensa
alla stesura delle meditazioni e delle preghiere. Non chiese
pareri né diede il testo in lettura a qualcuno. Mi ha strap-
pato un sorriso, a tale proposito, l’aneddoto raccontato dal
cardinale Angelo Scola nel libro-intervista Ho scommesso
sulla libertà: «Ricordo un incontro privato con lui, negli
anni Ottanta, durante il quale mi venne spontaneo dar-
gli un suggerimento. Al momento non reagì, ma alla fine
della conversazione, prima di congedarmi, mi disse con un
tono al tempo stesso bonario e severo: “Caro don Angelo,
ricordati che non c’è peggior cosa che dare consigli a chi
non te li chiede”».
Il triduo pasquale è sempre stato un tempo liturgico
percepito e vissuto molto intensamente dal cardinale, che
amava ricordare di essere nato proprio in un Sabato santo, il
16 aprile 1927: «Al Venerdì santo, il nostro sguardo rimane
sempre puntato sul Crocifisso; il Sabato santo, invece, è il
giorno della “morte di Dio”, il giorno che esprime e anti-
cipa l’inaudita esperienza del nostro tempo; la sensazione
che Dio è semplicemente assente, che la tomba lo ricopre,
che egli non è più desto, non parla più, sicché non c’è più
nemmeno bisogno di contestarne l’esistenza, ma si può
tranquillamente farne a meno», scrisse nella sua celebre
Introduzione al cristianesimo. E commentando i dipinti di
William Congdon, nel volume Il Sabato della storia, narrò
di aver compreso sin dalla giovinezza che «il messaggio del
giorno in cui venni al mondo aveva un legame particolare
con la liturgia della Chiesa; e la mia vita era fin dall’inizio
orientata a questo singolare intreccio di oscurità e di luce,
di dolore e di speranza, di nascondimento e di presenza
di Dio».
Le affermazioni di quella Via crucis rappresentano una
“fotografia” del pensiero di Ratzinger, anche come risposta

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alle sfide dell’attualità di quel momento. Ovviamente l’at-
tenzione dei mass media si focalizzò su alcune specifiche
tematiche, però ancora oggi l’intero testo merita di essere
riletto e approfondito. Era una riflessione estremamente
ampia, che certamente non aveva come obiettivo quello di
togliersi qualche sassolino dalle scarpe o di tracciare bilanci
in chiaroscuro. E nel contempo non si trattava di parole
“ecclesiasticamente corrette”, visto il polverone che alza-
rono dentro e fuori la Chiesa.
Di fatto, il maggior scalpore lo suscitò la meditazione
della nona stazione, quella sulla terza caduta di Gesù: «Non
dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire
nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo
sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattive-
ria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo
soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui!
Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta
poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta
sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che,
nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a
Lui!». Fu un’esternazione del cuore, che anticipò con le
parole tutte le azioni da lui poi intraprese durante il pon-
tificato.
Ma altri brani risultano un preciso giudizio, per stimo-
lare una adeguata risposta da parte della comunità eccle-
siale: «Possiamo pensare, nella storia più recente, anche a
come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbando-
nato il Signore: le grandi ideologie, come la banalizzazione
dell’uomo che non crede più a nulla e si lascia semplice-
mente andare, hanno costruito un nuovo paganesimo, un
paganesimo peggiore, che volendo accantonare definiti-
vamente Dio, è finito per sbarazzarsi dell’uomo»; «Sen-
tire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme

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che lo seguono e piangono su di lui, ci fa riflettere. Non è
forse un rimprovero rivolto a una pietà puramente senti-
mentale, che non diventa conversione e fede vissuta? Non
serve compiangere a parole, e sentimentalmente, le sof-
ferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua
come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo
in cui noi stessi siamo. Ci mostra la serietà del peccato e la
serietà del giudizio»; sino all’accorato appello conclusivo:
«Signore Gesù Cristo, ti sei fatto inchiodare sulla croce,
accettando la terribile crudeltà di questo dolore, la distru-
zione del tuo corpo e della tua dignità. Ti sei fatto inchio-
dare, hai sofferto senza fughe e senza compromessi. Aiu-
taci a non fuggire di fronte a ciò che siamo chiamati ad
adempiere. Aiutaci a farci legare strettamente a te. Aiutaci
a smascherare quella falsa libertà che ci vuole allontanare
da te. Aiutaci ad accettare la tua libertà “legata” e a trovare
nello stretto legame con te la vera libertà».
Comunque, Ratzinger era da sempre estremamente disin-
cantato riguardo alla prospettiva di un Conclave. Al vatica-
nista del Tg1 Giuseppe De Carli, che nel 2004 lo stuzzicò
dicendogli che aveva già preso parte a due elezioni e forse
se ne sarebbe aggiunta una terza, reagì icasticamente: «Se
sarò ancora vivo!». Nel 1997, interpellato dalla televisione
bavarese sulla responsabilità dello Spirito Santo nell’ele-
zione del Papa, aveva chiarito: «Lo Spirito non prende pro-
priamente controllo della situazione, ma piuttosto, come un
buon educatore, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza
abbandonarci completamente. Pertanto, il ruolo dello Spi-
rito dovrebbe essere inteso in senso molto più elastico, e
non come se dettasse il candidato per il quale votare. Pro-
babilmente l’unica sicurezza che offre è che non si possa
rovinare tutto. Ci sono troppi esempi di Papi che eviden-
temente lo Spirito Santo non avrebbe scelto…».

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La sfida lanciata a Subiaco

Come decano del Collegio cardinalizio, Ratzinger veniva


tenuto costantemente al corrente del peggioramento delle
condizioni di salute di Giovanni Paolo II. Subito dopo Pa-
squa la situazione fu sostanzialmente considerata irrever-
sibile, perciò mi chiese di sfoltire l’agenda dagli impegni
che potevano essere cancellati o rimandati. L’unico dubbio
riguardò un appuntamento fuori Roma che già da tempo
aveva concordato per il 1° aprile a Subiaco, nel monastero
di Santa Scolastica, per ricevere il Premio San Benedetto
“per la promozione della vita e della famiglia in Europa”
e pronunciare una conferenza sul tema “L’Europa nella
crisi delle culture”.
Ratzinger ne parlò con il cardinale Angelo Sodano, se-
gretario di Stato, il quale gli consigliò di andare, in modo
da non suscitare quegli interrogativi che sarebbero imme-
diatamente sorti sulla stampa nel caso di una sua disdetta.
Nel contempo concordò che ci sarebbe stato un filo diretto
telefonico tra me e monsignor Piero Pioppo, il segretario
personale di Sodano, in modo da poter ricevere un aggior-
namento se fosse successo qualcosa di importante.
Fu una conferenza molto articolata e le parole del car-
dinale risultarono ancor più significative col senno di poi.
In particolare affermò che «ciò di cui abbiamo soprattutto
bisogno in questo momento della storia sono uomini che,
attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credi-
bile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani
che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscu-
rato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità.
Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto
verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bi-
sogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di
Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto

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possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa
aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che
sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».
In quel tempo Ratzinger rifletteva molto sulla situazione
dell’Europa e in particolare lamentava lo sviluppo di «una
cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’uma-
nità, esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga
negato del tutto, sia che la sua esistenza venga giudicata
non dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’am-
bito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque irrile-
vante per la vita pubblica».
In particolare era rimasto colpito dal dibattito sul pre-
ambolo della Costituzione europea, durante il quale si era
messa in luce una contrapposizione di giudizi sul riferi-
mento esplicito a Dio e sulla menzione delle radici cristiane
del continente: «Le motivazioni per questo duplice “no”
sono più profonde di quel che lasciano pensare le motiva-
zioni avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cul-
tura illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno
sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per
l’identità europea», annotò con amarezza.
Con la lucidità che sempre lo contraddistinse, esplicitò
che «la contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi
non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la
radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della
vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra.
Se si arriverà a uno scontro delle culture, non sarà per lo
scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une
contro le altre ma che, alla fine, hanno anche sempre sa-
puto vivere le une con le altre –, ma sarà per lo scontro tra
questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi cul-
ture storiche».
Di qui un’intrigante proposta che, come un sasso nello
stagno dell’indifferenza che gli sembrava di cogliere, lan-

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ciò in particolare ai laici: «Nell’epoca dell’illuminismo si è
tentato di intendere e definire le norme morali essenziali
dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur,
anche nel caso che Dio non esistesse. Il tentativo, portato
all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completa-
mente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo
dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Do-
vremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e
dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione
di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare
la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». Un
messaggio che nel corso del pontificato ha più volte ripreso
e approfondito.
Durante l’incontro mi ero sistemato in una posizione
strategicamente laterale, con il cellulare impostato sulla
vibrazione. Ed effettivamente, quando mancava poco alla
conclusione del discorso, Pioppo mi informò di un ulteriore
aggravamento del Pontefice e suggerì di tornare in serata a
Roma, piuttosto che restare anche per la Messa della mat-
tina successiva. In genere, quando rientravamo in auto da
un viaggio, con il cardinale commentavamo com’era andato
il convegno: quella sera invece lui si chiuse nei suoi pensieri,
cosicché l’autista e io restammo in un rispettoso silenzio.
Il giorno seguente andai a lavorare come al solito in
Congregazione e a metà mattinata mi telefonò don Mie-
tek, chiedendo di passargli il cardinale. Poi l’ho visto an-
dar via di corsa e ho immaginato che si recasse nell’Ap-
partamento papale. Nel pomeriggio di quel sabato 2 aprile
non l’ho più visto né sentito. A quel tempo abitavo a Santa
Marta e durante la cena, intorno alle 20.30, ho notato che
un monsignore polacco della Segreteria di Stato si stava
alzando con aria preoccupata, senza finire di mangiare. In
quel momento ho compreso che davvero Giovanni Paolo
II era agli sgoccioli. Sono subito andato in piazza San Pie-

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tro e lì ho ascoltato l’annuncio della morte del Pontefice.
Poi sono rimasto fino a tarda sera a pregare insieme con le
decine di migliaia di persone che via via si erano radunate
sotto la finestra dalla quale eravamo abituati a vedersi af-
facciare Papa Wojtyła.
Con Ratzinger ci siamo sentiti telefonicamente dome-
nica mattina e mi ha raccontato che il giorno precedente
era stato convocato al capezzale di Giovanni Paolo II per
riceverne un’ultima benedizione. Durante il periodo della
Sede vacante tutti i capi dei dicasteri vaticani cessavano
dall’incarico, cosicché mi confermò che non sarebbe più
venuto in ufficio e mi chiese di “fargli da postino”, prele-
vando a casa sua le lettere da spedire e portandogli la cor-
rispondenza in arrivo. Perciò andavo almeno un paio di
volte al giorno nell’appartamento al quarto piano di piazza
della Città Leonina 1, proprio di fianco al colonnato di de-
stra, dove abitava sin dall’arrivo a Roma.
Come decano, il primo suo compito fu quello previsto
dalla costituzione apostolica di Giovanni Paolo II Universi
Dominici gregis di comunicare ufficialmente la notizia della
morte del Papa a tutti i cardinali, convocandoli nel con-
tempo per le Congregazioni del Collegio, al Corpo diplo-
matico accreditato presso la Santa Sede e ai capi supremi
delle rispettive nazioni, invitandoli ai funerali. Suoi stretti
collaboratori erano l’arcivescovo Francesco Monterisi, se-
gretario del Sacro Collegio, e il suo vice, monsignor Mi-
chele Castoro. Informalmente, come segretario del cardi-
nale, mi trovai a fare da trait d’union fra loro e Ratzinger.
In vista dei funerali, il cardinale si mise subito al lavoro
per stendere l’omelia delle esequie. La commozione che
aveva pervaso il mondo intero, mostrata plasticamente
dall’interminabile fila di persone che erano giunte da ogni
angolo del globo per poter rendere omaggio al Pontefice
che aveva condotto la Chiesa nel terzo millennio (a un

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certo punto la lunghezza era di 5 chilometri, con un tempo
di attesa di 24 ore per entrare nella Basilica vaticana), lo
aveva colpito nell’intimo e l’aveva reso consapevole della
necessità di scrivere quel testo con la mente, ma ancor più
con il cuore.
Dopo qualche giorno mi consegnò alcune pagine, che
lui aveva vergato a matita ed erano poi state scritte al com-
puter da suor Birgit Wansing (familiarmente chiamata
anche suor Brigida), spiegandomi che aveva preferito re-
digere l’omelia in tedesco per poter formulare corretta-
mente i propri pensieri. A tradurla in italiano provvide,
come di consueto, monsignor Damiano Marzotto Cao-
torta, all’epoca capoufficio nella Congregazione per la
Dottrina della fede.

Una benedizione dal paradiso

In quella mattinata dell’8 aprile confluirono a Roma più di


un milione di pellegrini, mentre centinaia di milioni di spet-
tatori di 81 nazioni poterono assistere in diretta alla trasmis-
sione di 137 reti televisive. Ben 169 furono le delegazioni
straniere presenti al rito (con, in particolare, 10 sovrani e 59
capi di Stato), mentre a livello religioso c’erano le rappresen-
tanze di 23 Chiese ortodosse, di 8 Comunioni occidentali,
di 3 organizzazioni cristiane internazionali, di 17 religioni
non cristiane, insieme con vari esponenti dell’ebraismo.
Mentre i cardinali raggiungevano in processione l’altare,
le raffiche di vento toccarono eccezionalmente i 78 chilome-
tri orari, una velocità mai più superata in quell’intero anno a
Roma, e furono capaci di sollevare in un turbinio i paramenti
dei concelebranti e di scompigliare le pagine dell’evange-
liario poggiato sulla bara di Giovanni Paolo II. Un vero e
proprio “soffio dello Spirito”, fu la definizione di molti.

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Il cardinale Ratzinger cesellò l’omelia tracciando un
rapido ritratto biografico di Karol Wojtyła sulla filigrana
dell’invito “Seguimi!”, fatto da Gesù a Pietro: «Questa pa-
rola lapidaria di Cristo può essere considerata la chiave per
comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro
compianto e amato Papa Giovanni Paolo II, le cui spoglie
deponiamo oggi nella terra come seme di immortalità, con
il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e
di profonda gratitudine. […] Nel primo periodo del suo
pontificato il Santo Padre, ancora giovane e pieno di forze,
sotto la guida di Cristo andava fino ai confini del mondo.
Ma poi sempre più è entrato nella comunione delle sof-
ferenze di Cristo, sempre più ha compreso la verità delle
parole: “Un altro ti cingerà…”. E proprio in questa co-
munione col Signore sofferente ha instancabilmente e con
rinnovata intensità annunciato il Vangelo, il mistero dell’a-
more che va fino alla fine».
Poi concluse con un afflato lirico, inusuale per il suo stile,
ma in quel momento vissuto intensamente, che stimolò le
più profonde corde della commozione in tutti i presenti:
«Rimane indimenticabile come in questa ultima domenica
di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla soffe-
renza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Pa-
lazzo apostolico e un’ultima volta ha dato la benedizione
“Urbi et Orbi”. Possiamo essere sicuri che il nostro amato
Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede
e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi affidiamo
la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti ha
guidato ogni giorno e ti guiderà adesso alla gloria eterna
del Suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore».
Il 14 aprile, secondo quanto prescritto dalla normativa
sul Conclave, il cappuccino Raniero Cantalamessa, pre-
dicatore della Casa pontificia, propose la prima delle due
meditazioni «circa i problemi della Chiesa e la scelta il-

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luminata del nuovo Pontefice». A questo appuntamento
nell’aula nuova del Sinodo poterono assistere tutti i com-
ponenti del Collegio cardinalizio, compresi gli ultraottan-
tenni, mentre al secondo, il 18 aprile nella Cappella Sistina
con il cardinale Tomáš Špidlík, furono presenti unicamente
i conclavisti votanti.
Ampi stralci della riflessione di padre Cantalamessa
vennero riportati sulla stampa dell’epoca e, alla luce della
successiva elezione di Ratzinger, mi sembrarono molto in-
teressanti, poiché mettevano in luce aspetti strettamente
legati alle idee e al Magistero del cardinale. Addirittura
qualche commentatore lo definì il “lodo Cantalamessa”,
caricandolo quasi della responsabilità di aver descritto un
identikit del nuovo Papa.
Resta il fatto, evidente per chi avesse all’epoca buona co-
noscenza del pensiero del prefetto della Dottrina della fede,
che a diversi punti sottolineati da Cantalamessa poteva es-
sere agganciata una precisa riflessione del teologo Ratzinger,
come in estrema sintesi provo a proporre di seguito offrendo
in uno sguardo sinottico cinque esempi, con le affermazioni
del cappuccino affiancate da testi dell’allora cardinale:

«La Chiesa deve concen- «Ci sono oggi dei cristiani “ta-
trare sempre più gli sforzi gliati fuori”, che si pongono
per creare un’alternativa fuori da questo strano con-
senso dell’esistenza moderna,
reale al mondo con una
che tentano nuove forme di
comunità, magari minori- vita; essi, indubbiamente, non
taria, ma che ha scoperto richiamano particolare atten-
“la legge dello Spirito che zione a livello dell’opinione pub-
dà la vita in Cristo”.» blica, ma fanno qualcosa che
davvero indica il futuro.» (Il sale
della terra, 1997)

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«Ogni iniziativa pastorale, Già quando, dopo la morte
ogni missione, ogni impresa dell’arcivescovo di Monaco nel
religiosa, anche il Conclave 1976, si diffusero voci che lui ne
sarebbe stato il successore, la
può essere Babele o Pente-
sua posizione fu che «non po-
coste. È Babele se uno vi tevo prenderle molto sul serio,
cerca la propria afferma- dato che i limiti della mia sa-
zione, di farsi un nome; è lute erano altrettanto noti come
Pentecoste se cerca la gloria la mia estraneità a compiti di
di Dio e l’avvento del Suo governo e di amministrazione:
Regno.» mi sentivo chiamato a una
vita di studioso e non avevo
mai avuto in mente niente di
diverso.» (La mia vita, 1997)

«La Lumen gentium ha ri- «Ecco, all’improvviso, qualcosa


portato i carismi nel cuore che nessuno aveva progettato.
della Chiesa. Il Signore sem- Ecco che lo Spirito Santo aveva
chiesto di nuovo la parola. E
bra aver voluto confermare
in giovani uomini e donne ri-
questa decisione del Con- sbocciava la fede, senza “se”
cilio perché dopo di esso né “ma”, senza sotterfugi né
abbiamo assistito a un va- scappatoie, vissuta nella sua
sto risveglio di carismi nella integralità come dono, come un
Chiesa.» regalo prezioso che fa vivere.»
(I movimenti ecclesiali e la loro
collocazione teologica, 1998)

«Alcuni credono che sia «Ritenere che vi sia una verità


possibile, anzi necessario, universale, vincolante e valida
rinunciare oggi alla tesi nella storia stessa, che si com-
pie nella figura di Gesù Cristo
dell’unicità di Cristo per
ed è trasmessa dalla fede della
favorire il dialogo tra le va- Chiesa, viene considerato una
rie religioni. Ora, procla- specie di fondamentalismo che
mare Gesù Signore signi- costituirebbe un attentato con-
fica proprio proclamare la tro lo spirito moderno e rappre-
sua unicità. La grande sfida senterebbe una minaccia con-

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che deve affrontare il cri- tro la tolleranza e la libertà. […]
stianesimo oggi, e in primo La stima e il rispetto verso le
luogo il Papa, è di coniu- religioni del mondo, così come
per le culture che hanno por-
gare la più leale e convinta
tato un obiettivo arricchimento
partecipazione al dialogo alla promozione della dignità
interreligioso con una fede dell’uomo e allo sviluppo della
indiscussa sul significato civiltà, non diminuisce l’ori-
salvifico universale di Gesù ginalità e l’unicità della rive-
Cristo.» lazione di Gesù Cristo e non
limita in alcun modo il com-
pito missionario della Chiesa.»
(Presentazione della dichiara-
zione “Dominus Iesus”, 2000)

«La formula canonica at- «Il primato del vescovo di Roma,


tuale del rapporto fra il nel suo senso originario, non si
Papa e i vescovi è cum Pe- oppone alla Costituzione colle-
giale della Chiesa, ma si tratta
tro et sub Petro. Finora è
di un primato di comunione
stato accentuato soprat- che si colloca all’interno di una
tutto il sub Petro. I tempi Chiesa che vive e si comprende
sono forse maturi per ri- come comunità comunionale.
dare tutto il suo signifi- Questa istanza autorevole della
cato al cum Petro. Si tratta collegialità dei vescovi non esi-
di creare organismi oppor- ste per una mera utilità umana
(anche se questa la richiede),
tuni per attuare questo, che
ma perché il Signore stesso,
non potranno ispirarsi più accanto e con il ministero dei
rigidamente a vecchie ri- Dodici, ha istituito il ministero
partizioni dell’orbe catto- speciale dell’ufficio petrino. […]
lico. Non possiamo più ra- Sono sempre più in dubbio che
gionare in termini di antichi questa (dei patriarcati, N.d.A.)
possa essere la forma orga-
patriarcati.»
nizzativa adeguata a raggrup-
pare grosse unità continen-
tali.» (Il nuovo popolo di Dio,
1971 - Dio e il mondo, 2001)

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Gli effimeri pronostici

Sarà che “nemo propheta in patria”, sarà che ci ha fatto


velo la certezza della volontà di Ratzinger di tornare alla
tranquillità dei suoi amati studi teologici, ma devo confes-
sare che in Congregazione non gli accreditavamo grandi
possibilità nella successione a Giovanni Paolo II. Indub-
biamente lo consideravamo un candidato autorevole per
le prime votazioni, al quale certamente avrebbero guar-
dato diversi cardinali che ne avevano ben conosciuto le
doti. Non pensavamo però che il suo nome avrebbe retto
a lungo nel susseguirsi degli scrutini, a causa dell’ostilità
che immaginavamo da parte di quanti non ne avevano mai
apprezzato la coerenza del pensiero e la fermezza delle po-
sizioni teologiche.
Ancor più eravamo certi che non si sarebbe nemmeno
curato di ritagliarsi il ruolo del “popemaker”, che nel se-
condo Conclave del 1978 aveva caratterizzato l’austriaco
Franz König, l’ispiratore dell’elezione di Karol Wojtyła.
Non era mai stato negli interessi di Ratzinger partecipare a
cordate curiali, poiché riteneva che in questo modo avrebbe
perso la propria libertà; ancor meno capeggiarne una, come
pure talvolta qualche confratello gli aveva, più o meno al-
lusivamente, sollecitato. E pure quando si era spinto a cal-
deggiare qualche nomina, lo aveva fatto con discrezione
e senza sforzarsi nel creare consenso attorno alla propria
proposta, limitandosi a segnalare la figura che riteneva più
adatta a uno specifico compito.
Che anche lui fosse del tutto inconsapevole di ciò che
si stava preparando, lo documentarono diversi episodi di
quei giorni. Per esempio, ricordo bene quando monsignor
Bruno Forte, il vescovo di Chieti-Vasto, venne a portargli
il libro sul Volto santo di Manoppello appena pubblicato
da «Famiglia Cristiana» e lo invitò a visitare il santuario:

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Ratzinger gli assicurò che lo avrebbe fatto subito dopo il
Conclave, mentre poi, per mantenere la promessa, dovette
attendere il 1° settembre 2006. E ancora il 16 aprile 2005,
nel giorno del suo 78° compleanno, ribadì ai collaboratori
della Congregazione che stava ormai pregustando il tanto
a lungo atteso giorno del pensionamento.
A mia discolpa, potrei comunque dire di essere stato in
buona compagnia, visto che anche i diplomatici statuni-
tensi dell’ambasciata romana di via Veneto, secondo uno
dei cablogrammi resi pubblici nel database di Wikileaks,
affermavano che il prefetto della Dottrina della fede «non
ha il supporto per ottenere i due terzi dei voti necessari,
data la forte opposizione delle fazioni che lo considerano
troppo rigido e geloso delle prerogative di Roma»!
Ripensando ai giorni del pre-Conclave, ho ancora ne-
gli occhi una rubrica del «Corriere della Sera» intitolata
Il borsino dei vaticanisti. Sono andato in archivio per rin-
frescarmi la memoria e sono rimasto colpito, a distanza di
quasi vent’anni, nel rendermi nuovamente conto di quanto
effettivamente anche la valutazione dei giornalisti fosse in-
certa riguardo al nome su cui puntare.
Lunedì 4 aprile, subito dopo la morte di Giovanni Paolo
II, il titolo era: «Occhi puntati su Tettamanzi, l’italiano, e
Arinze, l’outsider nero»; il giorno successivo: «Arinze in
testa, sale la stella di Maradiaga»; il 6 aprile compare per
la prima volta il prefetto: «Salgono Ratzinger e le quota-
zioni dei sudamericani». Poi svanisce per una settimana, fin
quando il 13 e il 14 viene citato come “il decano” («Occhi
puntati sul decano. Cresce Sodano» e «Una corsa a due tra
il decano e un progressista»), salvo cambiare radicalmente
idea il giorno seguente: «Un patto italiano (senza Ruini)
contro Ratzinger», per poi rispuntare soltanto il giorno
dell’ingresso nella Sistina: «Il decano favorito. E spunta
Sodano come terzo polo».

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Rievocammo quel concitato periodo con l’attuale diret-
tore del «Corriere» Luciano Fontana (all’epoca era vicedi-
rettore di Paolo Mieli) e con l’editorialista Massimo Franco
quando vennero, il 27 febbraio 2021, a trovare il Papa eme-
rito nel monastero “Mater Ecclesiae” con il dono di due
caricature del disegnatore Emilio Giannelli: nella prima,
abbraccia simbolicamente una piazza San Pietro gremita
di fedeli; nell’altra, consegna a Francesco le chiavi della
Chiesa dicendogli: «Mi raccomando…».
Durante la cena di quella sera, commentando l’incontro,
Benedetto XVI ripensò divertito alla vignetta che Giannelli
aveva pubblicato sulla prima pagina del quotidiano mila-
nese il 20 aprile 2005, dove il neoeletto Pontefice si rivol-
geva alla folla in piazza San Pietro e scandiva, con l’indice
della mano destra alzato a mo’ di ammonimento: «E se
sbaglio, guai se mi correggerete!». E la sua ilarità contagiò
immediatamente me e le Memores…
Successivamente ebbe la responsabilità di presiedere,
fra il 4 e il 16 aprile, i dodici incontri delle Congregazioni
generali dei cardinali e di convocare tutti gli elettori, i car-
dinali di età inferiore agli ottant’anni, al Conclave per l’e-
lezione del nuovo Pontefice, che si sarebbe aperto il 18
aprile. Nell’ufficio alla Dottrina della fede mi veniva reca-
pitata dalla Segreteria di Stato tutta la corrispondenza da
inoltrare al cardinale per la firma, una mole di lettere im-
pressionante. Lui lavorava a casa, leggeva, studiava. L’ar-
civescovo Angelo Amato, il segretario della Congrega-
zione, provvedeva invece all’ordinaria amministrazione,
decidendo che cosa inoltrargli e di cosa occuparsi invece
direttamente lui.
Avevamo preso l’abitudine che ogni mattina andavo
ad attenderlo in auto sotto casa, per accompagnarlo poi
all’aula del Sinodo ed evitare così la ressa dei giornalisti
che cercavano di strappargli qualche dichiarazione. Lui

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in quei giorni si sottrasse a ogni contatto non necessario.
Non so con certezza se abbia ricevuto visite, mi sembrava
indelicato chiederglielo, ma l’idea che mi sono fatta è che
non incontrò privatamente confratelli cardinali né parte-
cipò a momenti conviviali di consultazione. Anzi annullò
ogni appuntamento che aveva in calendario, indicandomi
di cancellarli anche dalla mia agenda-specchio.
Qualche giorno prima dell’inizio del Conclave, il cardi-
nale mi disse che desiderava lo accompagnassi come assi-
stente, secondo quanto previsto dalla n. 46 della Universi
Dominici gregis: «Per venire incontro alle necessità perso-
nali e d’ufficio connesse con lo svolgimento dell’elezione,
dovranno essere disponibili e quindi convenientemente
alloggiati in locali adatti […] un ecclesiastico scelto dal
cardinale decano, perché lo assista nel proprio ufficio».
Nel pomeriggio di domenica 17 aprile sono andato per-
ciò a prenderlo sotto casa con la mia Golf e l’ho accompa-
gnato a Santa Marta, dove avrebbero alloggiato i cardinali
partecipanti al Conclave, poi ho parcheggiato l’auto in ga-
rage e quindi sono rientrato in una stanza diversa da quella
che occupavo normalmente, che si trovava al quarto piano,
mentre adesso ero al quinto. Non avrei avuto un compito
preciso: perciò mi limitai a dirgli che avrei badato a non
intromettermi di mia iniziativa, e che quindi mi chiamasse
lui ogni qualvolta potesse avere bisogno.
Nella sala per i pasti c’erano diversi tavoli da otto po-
sti, dove i cardinali potevano sedersi casualmente, intrec-
ciando le conversazioni come meglio desideravano. Noi
collaboratori – i cerimonieri, i confessori, il personale sa-
nitario – eravamo sistemati invece in un tavolo lungo, di
lato. Potevamo osservare cosa accadeva, ma era difficile
udire qualcosa, poiché il brusio di 130 persone in diverse
lingue risultava davvero “una Babele”…
Se ci fosse stato il minimo dubbio sulla volontà di Ratzin-

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ger di tirarsi fuori dalla “corsa al pontificato”, l’omelia che
pronunciò durante la Messa “pro eligendo Romano Pon-
tifice”, nella mattinata del 18 aprile, tranciò radicalmente
qualsiasi idea. La fermezza delle convinzioni espresse e la
forte riproposizione dei propri “cavalli di battaglia” lo ave-
vano reso sicuro che un significativo numero di confratelli
si sarebbe adoperato per evitare la sua elezione. Bastavano
infatti 39 voti in quel Conclave, dei 115 totali nella circo-
stanza, per organizzare un “blocco” che avrebbe impe-
dito il raggiungimento dei due terzi dei voti necessari per
la maggioranza richiesta.
In particolare, un paragrafo del testo fu quello sul quale
tutti i mass media si fiondarono per commentare «il mani-
festo di Joseph», come lo definì Aldo Cazzullo sulla prima
pagina del «Corriere della Sera» del mattino seguente.
Scandì Ratzinger, nel suo ultimo discorso da cardinale:
«Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa,
viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre
il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsi-
asi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento
all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una ditta-
tura del relativismo che non riconosce nulla come defini-
tivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le
sue voglie. Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio
di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo.
“Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e
l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente
radicata nell’amicizia con Cristo».

Quel maglione nero

Durante le due prime tornate del Conclave, nel pomerig-


gio del 18 e nella mattinata del 19, non ebbi compiti par-

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ticolari da svolgere. Mi tenevo a distanza di sguardo dal
cardinale, che però non ebbe mai bisogno di me. Il tempo
lo trascorrevo pregando, leggendo e scambiando qualche
parola con il medico papale, Renato Buzzonetti, e con qual-
che cerimoniere pontificio.
Nella cena del 18 notai una certa agitazione tra i cardi-
nali: probabilmente il primo scrutinio aveva suscitato la
consapevolezza dell’importante compito cui erano chiamati.
Nel pranzo del 19 mi sembrò invece che il clima generale
fosse divenuto più rilassato. Però inaspettatamente, mentre
si avviava all’ascensore per rientrare in stanza, Ratzinger mi
chiese la disponibilità ad accompagnarlo a piedi verso la
Cappella Sistina (in precedenza aveva sempre utilizzato il
minibus), e ovviamente io risposi di sì. La prima votazione
pomeridiana era fissata per le ore 16, così mi diede appun-
tamento nell’atrio d’ingresso di Santa Marta alle 15.30.
Il tempo era incerto, e quando ci avviammo lungo via
delle Fondamenta, che costeggia il lato posteriore della ba-
silica di San Pietro ed è un punto sempre un po’ ventoso,
ricordo di essere rabbrividito per l’aria fresca. Il cardinale
mi aveva detto di aver avuto freddo al mattino nella Sistina,
per cui si era messo un maglione sotto la talare porpora e
la cotta bianca previste dal cerimoniale.
Era molto pensieroso e mostrava chiaramente di non
aver voglia di parlare, così io mi limitai a camminare al suo
fianco, osservandolo di sottecchi e pregando per lui. A li-
vello psicologico, è stata la passeggiata più lunga e faticosa
della mia vita. Intuivo di stare vivendo un momento storico
e quasi drammatico, con Ratzinger che mi dava l’impres-
sione di camminare verso un burrone.
Nei dintorni non c’era praticamente nessuno, tranne le
guardie svizzere e i gendarmi che controllavano i varchi
d’accesso sigillati per il Conclave. Abbiamo attraversato i
cortili che conducono all’ascensore di San Damaso, siamo

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saliti alla Prima loggia e l’ho accompagnato fino all’aula
delle Benedizioni, dove i cardinali dovevano radunarsi
prima di avviarsi verso la Sistina. Poi ho raggiunto il dot-
tor Buzzonetti e con lui ho trascorso un po’ di tempo, spo-
standoci lentamente attraverso la sala Ducale, la sala Regia
e l’aula delle Benedizioni, dove sostavano alcuni cerimo-
nieri, confessori e infermieri.
Per far passare quegli interminabili minuti mi ero portato
qualche libro e alcuni fogli d’appunti, e mi venne naturale
rileggere le parole che il cardinale aveva pronunciato nel
2003, presentando il Trittico romano di Giovanni Paolo
II: «La contemplazione del Giudizio universale, nell’epi-
logo della seconda tavola, è forse la parte che commuove
di più il lettore. Dagli occhi interiori del Papa emerge nuo-
vamente il ricordo dei Conclavi dell’agosto e dell’ottobre
1978. Poiché anch’io ero presente, so bene come eravamo
esposti a quelle immagini nelle ore della grande decisione,
come esse ci interpellavano; come insinuavano nella nostra
anima la grandezza della responsabilità. Il Papa parla ai car-
dinali del futuro Conclave “dopo la mia morte” e dice che
a loro parli la visione di Michelangelo. La parola Conclave
gli impone il pensiero delle chiavi, dell’eredità delle chiavi
lasciate a Pietro. Porre queste chiavi nelle mani giuste: è
questa l’immensa responsabilità in quei giorni». Pensai che
in quel momento tutto ciò stava accadendo in tempo reale,
a pochi metri da me…
D’improvviso, intorno alle 17.15, nel silenzio ovattato
di quelle ampie sale, abbiamo udito un leggero applauso,
che non è durato a lungo. Ci siamo guardati l’un l’altro e
tutti abbiamo compreso che il Papa doveva essere stato
eletto. L’attesa però è durata ancora poiché, ho rapida-
mente focalizzato, quel primo battimani era risuonato al
raggiungimento dei 77 voti necessari per l’elezione, ma poi
lo spoglio delle schede era andato avanti, con i successivi

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adempimenti delle verifiche procedurali e dell’accettazione
da parte dell’eletto.
Una ventina di minuti più tardi, quando nella Cappella
Sistina risuonò un secondo applauso, fummo finalmente
certi che tutto si era concluso. Difatti, dopo un po’, udimmo
il rumore del chiavistello e vedemmo spuntare Attilio Ni-
cora (era l’ultimo in ordine di precedenza tra i cardinali
diaconi e dunque gli spettava il compito di aprire e chiu-
dere le porte della Sistina), che ci lasciò ancora con il fiato
sospeso poiché si limitò a confermare l’elezione del Papa,
senza però rivelarne il nome.
Come in un flash, in quell’attimo mi venne in mente
l’immagine del maglione nero che Ratzinger aveva indos-
sato sotto la talare. Raggiunsi subito monsignor France-
sco Camaldo, che era il decano dei cerimonieri e anche il
suo personale, e gli dissi: «Se il nuovo Papa è Ratzinger,
per favore assicurati che il maestro delle Celebrazioni li-
turgiche pontificie (l’arcivescovo Piero Marini, n.d.A.) gli
faccia togliere il maglione o almeno gli rimbocchi le ma-
niche». Lui mi assicurò che avrebbe provveduto, ma pur-
troppo, nella concitazione dei successivi momenti, se ne
dimenticò. E così, più tardi, durante la benedizione dalla
Loggia del novello Pontefice, sotto i suoi paramenti appar-
vero quelle maniche nere che, in diretta televisiva, fecero
il giro del mondo.
La fibrillazione salì alle stelle. Sotto il Giudizio univer-
sale si scorgeva una figura bianca seduta su un tronetto,
ma il compatto blocco dei cardinali che sfilavano per fare
l’atto di obbedienza al Santo Padre impediva di vedere
bene chi fosse. Pian piano ha cominciato a diffondersi il
bisbiglio «Ratzinger, Ratzinger, Ratzinger… Benedetto,
Benedetto, Benedetto…» e tutto mi si è improvvisamente
come appannato davanti agli occhi per un misto di com-
mozione e di apprensione.

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Quando percepii il nome Benedetto, per me fu imme-
diato il riferimento al santo di Norcia, ben più di quello al
Pontefice suo predecessore di inizio Novecento. Proprio
pochi giorni prima a Subiaco, Ratzinger aveva affermato:
«Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il
quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si spro-
fondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte
le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ri-
tornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che,
con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò
un mondo nuovo».
Lui stesso, nella prima Udienza generale del 27 aprile,
dettaglierà quella scelta fondendo le due figure: «Ho vo-
luto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi ideal-
mente al venerato Pontefice Benedetto XV, che ha gui-
dato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo
conflitto mondiale. Sulle sue orme desidero porre il mio
ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia
tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il
grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono
purtroppo fragile e prezioso da invocare, tutelare e costru-
ire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti. Il nome Be-
nedetto evoca, inoltre, la straordinaria figura del grande
“patriarca del monachesimo occidentale”, san Benedetto
da Norcia, compatrono d’Europa [che] costituisce un fon-
damentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e
un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della
sua cultura e della sua civiltà».
Nel frattempo erano giunti dalla Segreteria di Stato il
sostituto Leonardo Sandri e il segretario Giovanni Lajolo,
insieme con il prefetto della Casa pontificia James Michael
Harvey, che si aggiunsero alla fila; subito dopo, abbiamo
potuto accodarci il dottor Buzzonetti e io. Quando final-
mente sono giunto al cospetto del Papa ho visto quanto

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fosse provato dalla tensione dell’evento, per cui gli ho sol-
tanto detto in tedesco: «Santo Padre, tanti auguri per l’e-
lezione come successore di Pietro. Le offro tutta la mia di-
sponibilità. Può contare su di me in vita et in morte». Non
si è trattato di un discorso particolarmente elaborato, ma
lui ha compreso la mia emozione e ha semplicemente ri-
sposto: «Grazie, grazie».

Nella vigna del Signore

Da piazza San Pietro era intanto salito il boato della


folla che, dopo aver visto alle 17.50 la fumata bianca dal
camino della Sistina, alle 18.43 aveva ascoltato dalla voce
del cardinale protodiacono Jorge Arturo Medina Estévez
la comunicazione ufficiale riguardo all’identità e al nome
scelto dal neoeletto Pontefice. Con il passare dei minuti,
mentre si formava la processione per accompagnarlo alla
Loggia esterna della Benedizione della Basilica vaticana,
vedevo Benedetto XVI che acquistava colore in viso e di-
stendeva i lineamenti.
Evidentemente la tensione si stava sciogliendo, come
poco dopo dimostrò la serenità con cui alle 18.48 pro-
nunciò un breve saluto, prima della benedizione aposto-
lica: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa Giovanni
Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice
e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il
fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti
insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere.
Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto per-
manente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua
santissima Madre starà dalla nostra parte. Grazie».
Recentemente, sistemando alcune carte dell’archivio
personale di Benedetto XVI, mi sono reso conto che la sua

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espressione, quasi a livello di ricordo subliminale, richia-
mava di fatto le parole vergate da Paolo VI nella bolla con
la quale nel 1977 aveva nominato Ratzinger arcivescovo di
Monaco e Frisinga: «Nello Spirito guardiamo a te, diletto
figlio. Tu sei fornito di straordinari doni dello Spirito e sei
un maestro della teologia. […] Ora ti chiediamo: lavora
nella vigna del Signore».
Dopo un ultimo saluto alla folla, con il gesto per lui
inusuale delle braccia agitate in alto, il Papa si avviò con il
cardinale Angelo Sodano, nel suo ruolo di vicedecano del
Collegio cardinalizio, verso l’ascensore e scese nel cortile
di San Damaso, dove ad attenderlo c’era l’automobile tra-
dizionalmente targata SCV 1, guidata da Pietro Cicchetti,
che per tanti anni sarà poi il suo fedele autista. Benedetto
XVI seguì l’indicazione di accomodarsi sul lato destro del
sedile posteriore, quindi mi cercò con lo sguardo e mi fece
cenno di raggiungerlo dall’altro lato.
Quando il Papa entrò nel refettorio, i cardinali in coro
intonarono Tu es Petrus e Oremus pro Pontifice, guidati
dalla possente voce dell’arcivescovo palermitano Salvatore
De Giorgi. Vicino al neoeletto, nel tavolo principale, oltre a
Sodano e a Medina Estévez, sedeva il camerlengo Eduardo
Martínez Somalo. Ma i festeggiamenti si limitarono a un
brindisi, poiché Benedetto si ritirò subito nella sua stanza
per mettere a punto l’omelia che avrebbe pronunciato in
latino la mattina seguente, nella concelebrazione eucari-
stica nella Cappella Sistina.
Una bozza ovviamente era stata preparata in anticipo dal
competente ufficio della Segreteria di Stato, e rimaneggiata
in quel tardo pomeriggio tenendo conto della sensibilità
del nuovo Pontefice. Ma Papa Ratzinger non si sottrasse
al desiderio di arricchirla con i sentimenti di quelle intense
ore, affermando innanzitutto che convivevano nel proprio
animo due sentimenti contrastanti: «Da una parte, un senso

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di inadeguatezza e di umano turbamento per la responsabi-
lità che ieri mi è stata affidata, quale successore dell’apostolo
Pietro in questa sede di Roma, nei confronti della Chiesa
universale. Dall’altra parte, sento viva in me una profonda
gratitudine a Dio, che non abbandona il suo gregge, ma lo
conduce attraverso i tempi, sotto la guida di coloro che Egli
stesso ha eletto vicari del suo Figlio e ha costituito pastori».
Nella commossa memoria del predecessore Giovanni Pa-
olo II affermò «di sentire la sua mano forte che stringe la
mia; mi sembra di vedere i suoi occhi sorridenti e di ascol-
tare le sue parole, rivolte in questo momento particolar-
mente a me: “Non avere paura!”» e chiese al Signore «di
supplire alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso
e fedele pastore del suo gregge, sempre docile alle ispira-
zioni del suo Spirito. Mi accingo a intraprendere questo
peculiare ministero, il ministero petrino al servizio della
Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della
Provvidenza di Dio».
Espresse poi la consapevolezza che «la Chiesa di oggi
deve ravvivare in se stessa la consapevolezza del compito
di riproporre al mondo la voce di Colui che ha detto: “Io
sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle
tenebre, ma avrà la luce della vita” (Giovanni 8,12). Nell’in-
traprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo com-
pito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne
di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di
Cristo» e che al Papa «è stato affidato il compito di con-
fermare i fratelli (cfr. Luca 22,32)».
Ancor più significative furono le parole pronunciate du-
rante la Messa per l’inizio del ministero petrino, il 24 aprile.
Benedetto si mise a nudo dinanzi all’intera umanità, non
per un gesto di falsa modestia o di finta umiltà, ma per in-
dicare realmente quale fosse l’orizzonte nel quale sentiva
di doversi immettere: «In questo momento, io debole ser-

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vitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che
realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare
questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici,
avete appena invocato l’intera schiera dei santi, rappresen-
tata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli
uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consa-
pevolezza: non sono solo. […] Il mio vero programma di
governo è quello di non fare la mia volontà, di non perse-
guire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta
la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi
guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa
in questa ora della nostra storia».
Cuore dell’omelia fu la spiegazione dei due segni con cui
viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del mini-
stero petrino. Il pallio, il paramento liturgico a forma cir-
colare e con due lembi pendenti davanti e dietro, è «un’im-
magine del giogo di Cristo, che il vescovo di questa città,
il servo dei servi di Dio, prende sulle sue spalle. La lana
d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o
anche quella malata e quella debole, che il pastore mette
sulle sue spalle e conduce alle acque della vita». L’anello
d’oro, detto “del pescatore”, perché «la chiamata di Pietro
a essere pastore fa seguito alla narrazione di una pesca ab-
bondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le
reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore
Risorto. Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori
degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e
di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo, a
Dio, a Cristo, alla vera vita». L’incisione raffigurava ap-
punto san Pietro mentre getta le reti.
Anche in quel caso, però, la frase che venne ripresa dai
mass media fu una sola: «Pregate per me, perché io non
fugga, per paura, davanti ai lupi». Certamente erano parole
inquietanti, ma posso affermare con tranquillità che in quel

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momento non si riferivano a specifici timori relativi al futuro
del suo pontificato, oppure a difficili problematiche di cui
ovviamente aveva consapevolezza, come gli abusi sessuali
dei chierici o le difficoltà nelle finanze vaticane. Era piut-
tosto la risonanza di un’immagine forte e quasi paradossale
del suo amato san Giovanni Crisostomo, il dottore della
Chiesa del IV secolo che nelle sue omelie si scagliò contro
i vizi e il malaffare del suo tempo. Nell’udienza generale
del 26 ottobre 2011, citerà il suo commento al brano evan-
gelico in cui Gesù inviò i discepoli «come agnelli in mezzo
ai lupi» (Luca 10,3): «Finché saremo agnelli, vinceremo e,
anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo
a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, per-
ché saremo privi dell’aiuto del pastore».

La lettera di Schönborn

Ovviamente, come in tutti i più recenti Conclavi, le il-


lazioni e le ipotesi sull’andamento delle votazioni e sul ri-
sultato finale sono state numerose e anche contraddittorie.
Ciò che è indubitabile è la rapidità dell’elezione: per Be-
nedetto XVI sono stati necessari soltanto quattro scrutini
(come per Giovanni Paolo I nel 1978), un primato superato
nell’ultimo secolo unicamente da Pio XII (cui nel 1939 ne
bastarono tre), mentre per gli altri si va dai cinque di Paolo
VI nel 1963 e di Francesco nel 2013 fino ai sette di Pio X
nel 1903, agli otto di Giovanni Paolo II nel 1978, ai dieci
di Benedetto XV nel 1914, agli undici di Giovanni XXIII
nel 1958 e ai quattordici di Pio XI nel 1922.
Sul fatto che il nome di Ratzinger fosse emerso sin dall’i-
nizio come il più votato, concordarono da subito tutte le
indiscrezioni. Il cardinale Julián Herranz, nel libro di me-
morie Nei dintorni di Gerico, ha dettagliato: «Perché con-

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fluirono così rapidamente sul nome di Ratzinger più di due
terzi dei voti necessari? Si è parlato e scritto giustamente
di una quadruplice legittimità: il prestigio intellettuale del
grande teologo; la legittimità istituzionale del prefetto della
Congregazione per la Dottrina della fede e decano del Sa-
cro Collegio; la legittimità romana in quanto membro della
Curia da tanti anni; e la legittimità wojtyliana dell’uomo di
fiducia di Giovanni Paolo II. Oserei aggiungere un’ulteriore
ragione: la legittimità spirituale di un sacerdote di profonda
vita interiore (è un contemplativo) e, nel contempo, di vi-
brante spirito apostolico, il quale, come Giovanni Paolo II,
è sempre disposto a portare la dottrina e l’amore di Cristo
a tutti gli areopaghi del mondo».
Parlando con il biografo Peter Seewald, Benedetto pre-
cisò di essere rimasto colpito, durante il pre-Conclave, dal
fatto che «molti cardinali abbiano, per così dire, implorato
colui che stava per essere eletto di prendere su di sé la croce
anche se non se ne sentiva all’altezza, di piegarsi al voto
della maggioranza di due terzi e di vedere in ciò un segno.
Era un dovere interiore, dicevano. Hanno posto il tema
con tanta serietà da convincermi che se davvero la mag-
gioranza dei cardinali avesse espresso questo voto la scelta
sarebbe stata del Signore e io avevo il dovere di accettare».
In particolare, nell’udienza del 25 aprile con i pellegrini
tedeschi, Papa Ratzinger confidò: «Quando, lentamente,
l’andamento delle votazioni mi ha fatto capire che, per
così dire, la scure sarebbe caduta su di me, la mia testa ha
incominciato a girare. Ero convinto di aver svolto l’opera
di tutta una vita e di poter sperare di finire i miei giorni
in tranquillità. Con profonda convinzione ho detto al Si-
gnore: non farmi questo! Disponi di persone più giovani
e migliori, che possono affrontare questo grande compito
con tutt’altro slancio e tutt’altra forza. Allora sono rimasto
molto toccato da una breve lettera scrittami da un confra-

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tello del Collegio cardinalizio. Mi ha ricordato che in occa-
sione della Messa per Giovanni Paolo II avevo incentrato
l’omelia sulla parola che il Signore disse a Pietro presso il
lago di Genesaret: “Seguimi!”. Il confratello mi ha scritto:
“Se il Signore ora dovesse dire a te ‘seguimi’, allora ricorda
ciò che hai predicato. Non rifiutarti! Sii obbediente come
hai descritto il grande Papa, tornato alla casa del Padre”.
Questo mi ha colpito nel profondo. Le vie del Signore non
sono comode, ma noi non siamo creati per la comodità,
bensì per le cose grandi, per il bene. Così alla fine non ho
potuto fare altro che dire sì».
A scrivere quelle parole era stato il cardinale Christoph
Schönborn, che conosceva Ratzinger sin dal 1972, quando,
da giovane domenicano, era andato a seguirne i corsi a Ra-
tisbona, restando poi nella cerchia ristretta dei suoi ex al-
lievi. Di fatto, tolti gli amici di gioventù, è stato una delle
poche persone che si scambiavano il “tu” con Ratzinger:
fra loro, i cardinali Cordes, Kasper, Meisner e Müller. Ma,
per esempio, restò sempre il “lei” con Amato, Bertone, Co-
mastri, Ruini, Scola, Sodano e Vallini, che pure furono tra
i suoi principali riferimenti sia da cardinale sia da Papa.
Su quali parole abbia esattamente pronunciato per ri-
spondere alla domanda, proposta dal vicedecano Sodano,
riguardo all’accettazione, sono girate diverse varianti, tutte
fantasiose, anche perché completamente estranee alla sua
sensibilità. Da quella attribuita al cardinale Michele Gior-
dano («Propter voluntatem Dei accepto»), alla più com-
plessa formulazione riferita dal cardinale Cormac Murphy-
O’Connor («No, non posso. Accetto come volontà di Dio»).
Su questo posso permettermi di essere preciso, avendolo
esplicitamente chiesto al diretto interessato, l’unico a di-
sporre della facoltà di violare il vincolo del segreto. La sua
risposta fu semplicemente: «Accepto» (accetto, in latino); e
anche relativamente al nome si limitò a dire: «Benedictus».

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In quel momento si annullava un plurisecolare pregiu-
dizio: era infatti esattamente da quattro secoli che non ve-
niva eletto Papa il responsabile del Sant’Uffizio. L’ultimo
era stato Camillo Borghese (1552-1621), eletto il 16 mag-
gio 1605 con il nome di Paolo V, quando da due anni era
al vertice dell’Inquisizione romana. Ed è singolare che an-
che l’ultimo decano del Collegio cardinalizio eletto Papa
prima di Ratzinger era stato responsabile della medesima
Congregazione: Gian Pietro Carafa (1476-1559), divenuto
Paolo IV il 23 maggio 1555 all’età di 79 anni.
Una curiosità di molti riguardò quale potesse essere stato
il nome votato da Ratzinger. Personalmente, alla fine mi
sono convinto della verosimiglianza di un aneddoto rela-
tivo al fatto che il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di
Bologna dal 1985 al 2003, avrebbe ricevuto un voto sin
dal primo scrutinio. A pranzo, dopo la terza votazione,
Biffi si sarebbe sfogato con l’arcivescovo partenopeo Gior-
dano (secondo una testimonianza del vaticanista Francesco
Grana): «Se scopro chi è che si ostina a votarmi lo prendo
a schiaffi»; ricevendone come replica: «Siamo vicini all’e-
lezione del nuovo Papa ed è abbastanza evidente che sia
lui a darle sempre il voto. Vuole allora prendere a schiaffi
il Papa?».
In effetti, Ratzinger aveva conosciuto molto bene il cardi-
nale di Bologna, che partecipava assiduamente agli incontri
in Congregazione, della quale era membro. Ne aveva letto
e apprezzato numerosi libri e riteneva molto qualificati i
suoi interventi nei dibattiti della feria quarta. Per mostrar-
gli esplicitamente la propria stima, nel 2007 lo invitò a pre-
dicare gli esercizi spirituali alla Curia romana: Biffi è stato
così l’unico cardinale ad averne guidati due, dopo quello
del 1989 per Giovanni Paolo II. E a un anno dalla morte,
per il volume commemorativo del 2016 Ubi fides ibi liber-
tas, Benedetto XVI inviò un commosso messaggio: «Nella

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mia memoria il cardinal Biffi è un pastore esemplare della
Chiesa di Dio in tempi tempestosi. Biffi era una persona-
lità tutta d’un pezzo, uomo di un coraggio straordinario,
senza paura di popolarità o impopolarità, orientato solo
dalla luce della verità, che in Gesù Cristo ci appare in per-
sona. La sua intelligenza straordinaria e la sua formazione
culturale e teologica, collegata con una buona dose di umo-
rismo, erano convincenti, perché era totalmente al servizio
della verità, al servizio del Signore, e così degli uomini del
nostro tempo. Mi auguro che persone di questa grandezza
umana non manchino mai nella Chiesa di Dio».

Il diario e altre polemiche

Nei giorni successivi all’elezione, un amico commentò


con una battuta forse un po’ rude, ma probabilmente
espressiva di alcune sensibilità in Conclave, che i cardi-
nali avevano preferito “l’usato sicuro”, piuttosto che “il
nuovo che avanza”. In questo senso, a me è sembrato che
non pochi ritenessero così denso il Magistero proposto in
ventisette anni da Giovanni Paolo II da rendere necessario
un tempo di assimilazione, affidando perciò al successore
il compito di favorirne la piena comprensione e di portarlo
a compimento: e chi, più che il suo strettissimo collabora-
tore dal punto di vista teologico, ne avrebbe potuto essere
il protagonista?
Nell’arco di qualche mese vennero poi alla luce diverse
ricostruzioni sugli scrutini, ma ciò che fece più clamore
fu il diario di un misterioso cardinale, pubblicato dal va-
ticanista Lucio Brunelli, che attribuiva a Ratzinger il risul-
tato finale di 84 suffragi su 115 votanti. Personalmente ri-
tengo tuttora che fosse una cifra sottostimata, a giudicare
dalla gioia che avevo visto sui volti di quasi tutti i concla-

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visti e da qualche frase detta a mezza voce da molti di loro
quando avevamo avuto occasione di salutarci nei giorni
successivi, come anche da altre loro dichiarazioni pubbli-
che e private di cui sono venuto a conoscenza in seguito.
Secondo le mie sensazioni, fra i più attivi a muoversi nel
promuoverne la candidatura erano stati il colombiano Al-
fonso López Trujillo, il cileno Jorge Medina Estévez, gli
spagnoli Julián Herranz e Antonio María Rouco Varela, il
tedesco Joachim Meisner, l’austriaco Christoph Schönborn,
il nigeriano Francis Arinze e l’indiano Ivan Dias. Ma poi
numerosi altri si erano convintamente aggiunti.
Le ipotesi circolate fra i giornalisti riguardo all’autore
di quel diario coinvolsero i nomi del brasiliano Cláudio
Hummes (l’obiettivo sarebbe stato quello di rendere noto,
a futura memoria, l’ottimo risultato di Bergoglio e un ul-
teriore indizio poteva essere l’assenza del proprio risul-
tato nella prima votazione, dove avrebbe ottenuto cinque
voti); dell’italiano Mario Francesco Pompedda (il vatica-
nista Sandro Magister scrisse che «voci non controllate
individuano in lui il suggeritore del diario», anche se ri-
sulta difficile che potesse compiere l’errore di attribuire
al cardinale Camillo Ruini il ruolo di “vicario apostolico”
anziché di “vicario generale” per la diocesi di Roma); del
portoghese José Saraiva Martins (si sarebbe tradito per
eccesso di protagonismo quando il diario lo cita come
uno dei «possibili candidati del giorno dopo», accostati
dal cardinale Martini per un sondaggio informale); del
belga Godfried Danneels (che orgogliosamente svelò di
aver partecipato dal 1999 al “gruppo di San Gallo”, per
discutere su possibili riforme progressiste nella Chiesa,
con cardinali come Martini, Silvestrini, Kasper, Lehmann
e Murphy-O’Connor). Ma, ovviamente, gli indizi sparsi
nel testo potevano anche essere una “polpetta avvele-
nata”, come la definiscono i cronisti più navigati, messi

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apposta per indirizzare i sospetti in una direzione e di-
stoglierli da un’altra.
Devo confessare che, nella serenità del Monastero, qual-
che volta ho provato a stuzzicare Papa Benedetto riguardo
a quel diario, ma lui si è sempre limitato a stigmatizzare
l’iniziativa dell’eventuale cardinale, dicendo che – nel caso
fosse stato vero – ne avrebbe dovuto rispondere alla propria
coscienza. E non si lasciò scappare alcunché riguardo a quel
testo, nemmeno per confermare o smentire le mie azzardate
affermazioni: «Però qualcuno deve pur aver parlato…»,
sperando almeno in un suo «Eh, sì», che non venne mai!
Comunque, anche in seguito, mistificazioni, disinforma-
zioni e vicende equivoche attorno al tempo del Conclave
ce ne sono state molteplici. Nel tempo libero ho letto tanti
libri, usciti successivamente all’elezione di Benedetto XVI,
che promettevano rivelazioni o fornivano valutazioni discu-
tibili. Io, piuttosto, ne ho tratto la consapevolezza che gli
autori avevano una pregiudiziale visione da affermare a ogni
costo, anche in barba all’evidenza. Per evitare di risultare
pedante, mi limito a proporre tre esempi di diversa natura.
Il primo è una vera e propria assurdità. L’ex frate do-
menicano Matthew Fox, nel libro La guerra del Papa, de-
nuncia che «la “smania di potere” sia un problema che ri-
guarda Ratzinger in modo particolare, come si può dedurre
dalla storia – vera – che segue. Pochi anni fa stavo parlando
con un teologo americano che aveva studiato sotto Ratzin-
ger per ottenere il dottorato in teologia in una università
tedesca. Lui lo conosceva bene, ed era così preoccupato
per quel che questi stava facendo come capo inquisitore
– metteva a tacere ed espelleva teologi a destra e a manca
– che si recò a Roma apposta per affrontarlo. Lo incontrò
ed ebbero una seria conversazione in tedesco. Uscendo dal
Vaticano, questo ex studente di Ratzinger scosse la testa e
disse, disgustato: “Il suo unico scopo è la porpora”». Ora,

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considerando che il prefetto giunse a Roma nel 1981, e dun-
que aveva già la porpora da almeno quattro anni quando
questo fantomatico ex studente lo avrebbe incontrato, si
tratta di un presunto desiderio carrieristico che lascia evi-
dentemente il tempo che trova…
Il vaticanista Marco Politi, nel saggio Crisi di un papato,
lancia una precisa accusa: «I fautori della Chiesa in trincea
non vogliono nemmeno una pubblica discussione sul futuro
Papa. Danneels fa appena in tempo a incontrare i giorna-
listi in un istituto religioso non lontano dalla via Aurelia
che sugli incontri pubblici cade la mannaia. Probabilmente
il cardinale belga ha dei presentimenti, perché chiude la
conferenza stampa scherzando: “La libertà di parola è un
diritto dell’uomo”. Alla riunione plenaria dei cardinali, il
giorno dopo i funerali di Papa Wojtyła, passa invece la li-
nea auspicata da Ratzinger che vincola i porporati al silen-
zio stampa». Il 7 aprile fu effettivamente annunciato che
nella Congregazione generale i cardinali avevano deciso un
silenzio stampa dal giorno del funerale di Giovanni Paolo
II, l’8 aprile, fino a che non si fossero riuniti in Conclave,
il 18 aprile. Peccato però che, come testimoniato dal vati-
canista John Allen nel libro The Rise of Benedict XVI, lo
stesso cardinale belga Godfried Danneels gli precisò che
«Ratzinger aveva detto nelle riunioni della Congregazione
generale che era un “diritto umano” dei cardinali parlare
con chiunque volessero. Altri cardinali hanno confermato
questo racconto. Invece di un esplicito divieto, dunque, i
cardinali fecero tra loro una sorta di “accordo fra genti-
luomini” in favore della discrezione».
Lo scrittore francese Olivier Le Gendre, nel libro-in-
tervista Confession d’un cardinal scritto con un anonimo
dai tratti riconducibili in apparenza ad Achille Silvestrini
(seppur con numerosi cenni biografici incoerenti), cita un
commento del porporato riguardo ai 35-40 voti dati dai

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conclavisti al cardinale Jorge Mario Bergoglio: «È un dato
da tenere in considerazione per il futuro, nel caso in cui il
pontificato di Benedetto XVI non durasse a lungo». Ma,
nella biografia di Papa Francesco Tempo di misericordia,
il saggista Austen Ivereigh dettaglia autorevolmente che
all’epoca Bergoglio «era molto irritato per il fatto di es-
sere stato ritratto come uno che doveva fermare Ratzin-
ger o fungere da candidato civetta contro di lui. Era così
seccato che confessò ai giornalisti di essere “confuso e un
poco risentito per quelle indiscrezioni”, che, disse, avevano
fornito un falso quadro della situazione».

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La famiglia (pontificia e non)

Le radici nella Baviera

C’è una risposta di Benedetto XVI, nel libro-intervista


Luce del mondo, che mi sembra estremamente significativa
per descrivere come l’uomo e il Papa Joseph Ratzinger ab-
bia costantemente percepito i rapporti umani più stretti,
che con il trascorrere degli anni si erano naturalmente evo-
luti dal vincolo affettivo con i famigliari d’origine al legame
del cuore con quanti collaboravano da vicino al suo mini-
stero: «Mi è molto cara la famiglia pontificia. E ci sono le
visite di amici dei vecchi tempi. In generale, dunque, posso
affermare di non vivere in un mondo artificiale circondato
da cortigiani, bensì – attraverso numerosi incontri – di vi-
vere il mondo normale direttamente e in prima persona,
di sperimentare la quotidianità di questo nostro tempo».
Il fortissimo sentimento presente all’interno del nucleo
famigliare di Ratzinger affondava le radici nella storia ini-
ziale del ventesimo secolo, con le vicende belliche che ave-
vano consentito soltanto un matrimonio in età avanzata, il
9 novembre 1920, al quarantatreenne gendarme Joseph e
alla trentaseienne casalinga Maria Paintner. La prima figlia,
Maria, venne alla luce il 7 dicembre 1921 e il secondogenito,
Georg, il 15 gennaio 1924. Il futuro Pontefice, Joseph (così
annotato sul registro battesimale, com’è usanza in Baviera al
posto del più tradizionale Josef), nacque il 16 aprile 1927.
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Dopo che entrambi i maschi avevano percepito la vo-
cazione al sacerdozio, l’ingresso in seminario rappresentò
un sacrificio economico di non poco conto, poiché l’esi-
gua pensione del padre non era sufficiente a saldare le due
rette, nonostante le agevolazioni concesse dalla diocesi.
Perciò, sia la mamma sia la sorella cominciarono a lavo-
rare per contribuire al pagamento: la prima come cuoca
in un albergo di Reit im Winkl, la seconda in un ufficio
di Traunstein.
Anche per questo motivo Joseph, come pure il fratello
Georg (i due condivisero la cerimonia dell’ordinazione sa-
cerdotale, il 29 giugno 1951), fu sempre molto grato ai ge-
nitori (papà Joseph morirà nel 1959 e mamma Maria nel
1963) e alla sorella Maria. Nell’autobiografia La mia vita,
il cardinale confidò che «la luce della bontà della mamma
è rimasta e per me è divenuta sempre più una concreta
dimostrazione della fede da cui lei si è lasciata plasmare.
Non saprei indicare una prova della verità della fede più
convincente della sincera e schietta umanità che la fede
ha fatto maturare nei miei genitori». Mentre riguardo alla
sorella scrisse che «con la sua presenza, il suo modo di vi-
vere la fede, la sua umiltà ha preservato il clima della fede
comune, quella in cui siamo cresciuti, che è maturata con
noi e si è imposta col tempo».
Maria non si sposò mai e, dopo aver aderito a vent’anni
alle terziarie francescane con il nome di Chiara, lo accompa-
gnerà costantemente, curando la vita domestica nelle varie
residenze in cui via via si sposterà, sino a Roma. Sull’imma-
ginetta-ricordo per la sua morte, avvenuta il 2 novembre
1991 dopo un ictus sopraggiunto mentre stava recandosi
a Ziegetsdorf, nel cui cimitero c’è la tomba dei genitori, si
legge: «Per 34 anni ha servito il fratello Joseph in tutte le
tappe del suo percorso, con instancabile dedizione, bontà
e umiltà».

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Il cardinale Schönborn ha raccontato un toccante aned-
doto relativo a quel tempo: «Ratzinger aveva avuto un
ictus nel settembre del 1991. Andò in ospedale, non era
grave e recuperò rapidamente. Poco più di un mese dopo,
la sua cara sorella Maria ebbe un ictus terribile e morì lo
stesso giorno. Eravamo molto commossi perché non sa-
pevamo come Ratzinger avrebbe reagito alla morte della
sorella. Il giorno dopo il Conclave, quando il nostro caro
professore e amico è entrato nella sala per la colazione di
Santa Marta vestito di bianco, ci ha salutati e gli ho detto:
“Santo Padre, ieri durante la sua elezione ho molto pen-
sato a sua sorella Maria e mi sono chiesto se sua sorella
avesse chiesto al Signore di prendere la sua vita e di la-
sciare quella di suo fratello”. Lui mi rispose: “Penso di
sì”. Questo fu il momento più commovente di tutti i no-
stri incontri».
Io non ho conosciuto personalmente Maria, che morì
ben prima del mio arrivo a Roma. Però in diverse occa-
sioni, da cardinale e da Papa, Ratzinger me ne ha rievo-
cato la figura con profondo affetto e ho compreso quanto
fosse intenso il legame affettivo con lei, al punto che restò
molto turbato per il fatto di non aver potuto raggiungere
il suo capezzale per un ultimo saluto.
Questo episodio si è di fatto collegato a uno dei momenti
più intensamente emotivi degli ultimi anni della sua vita,
quando volle a ogni costo recarsi dal fratello, ormai in fin
di vita a Ratisbona. Monsignor Georg doveva venire in Va-
ticano a marzo del 2020, ma a causa del Covid non fu pos-
sibile. Poi si ammalò e cominciò a peggiorare, e a un certo
punto Benedetto si rese conto che la situazione era divenuta
critica. Però intanto il Pontefice emerito aveva fastidi agli
occhi e alle orecchie, e l’otorino si accorse che si trattava
di una forma acuta di herpes zoster (il cosiddetto “fuoco
di sant’Antonio”), che gli aveva sfigurato il viso e succes-

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sivamente gli provocò intensi dolori al trigemino (secondo
il medico era segno di forte stress). A questo si aggiunge-
vano i problemi di deambulazione, che lo costringevano
sulla sedia a rotelle. Perciò il dottor Patrizio Polisca, suo
medico personale dal 15 giugno 2009, e gli altri specialisti
interpellati non erano favorevoli al viaggio. Ma lui fu irre-
movibile, cosicché, dopo aver informato Papa Francesco
(che si mise a disposizione per qualsiasi cosa potesse essere
d’aiuto), quel viaggio si fece tra il 18 e il 22 giugno 2020
– grazie alla collaborazione dell’Aeronautica militare ita-
liana per i voli e del Governo bavarese per gli spostamenti
in Germania – appena pochi giorni prima della morte di
monsignor Georg, il 1° luglio.
Quando, il 21 agosto 2008, era stata conferita a Georg
Ratzinger la cittadinanza onoraria di Castel Gandolfo, Be-
nedetto XVI aveva pronunciato parole di estrema tene-
rezza: «Dall’inizio della mia vita mio fratello è stato sem-
pre per me non solo compagno, ma anche guida affidabile.
È stato per me un punto di orientamento e di riferimento
con la chiarezza, la determinazione delle sue decisioni. Mi
ha mostrato sempre la strada da prendere, anche in situa-
zioni difficili. Mio fratello ha accennato al fatto che nel
frattempo siamo arrivati all’ultima tappa della nostra vita,
alla vecchiaia. I giorni da vivere si riducono progressiva-
mente. Ma anche in questa tappa mio fratello mi aiuta ad
accettare con serenità, con umiltà e con coraggio il peso
di ogni giorno».
Per Benedetto, quella perdita fu umanamente pesante,
ma nel contempo mi disse più volte di aver anche provato
la consolazione del Signore, nella certezza che Georg vi-
veva nel Suo abbraccio. E il Papa emerito continuò a con-
cretizzarne la presenza anche attraverso il frequente ascolto
delle registrazioni di concerti del coro dei Regensburger
Domspatzen, a lungo diretto dal fratello.

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Con l’Introduzione sotto il braccio

Come è accaduto a innumerevoli altre persone, anch’io


ebbi il primo “incontro” con Ratzinger attraverso il suo li-
bro Introduzione al cristianesimo. L’aveva scritto nel 1968,
ma io ne venni a conoscenza soltanto nel 1974, quando
stavo per compiere 18 anni. Fu il mio parroco a sugge-
rirmi di leggerlo per fare più chiarezza in me stesso, in un
tempo nel quale cominciavo a prendere in considerazione
l’idea di entrare in seminario, ma nel contempo ero ancora
immerso nella mia tranquilla vita a Riedern am Wald, un
piccolo paese con poche centinaia di abitanti nel sud-ovest
della Germania.
Papà Albert era fabbro e mamma Gertrud casalinga,
mentre io ero il primogenito di cinque figli (con due fra-
telli e due sorelle). Non conoscevo molto del mondo e da
adolescente mi piaceva fare un po’ il trasgressivo, con lun-
ghi capelli riccioluti e l’aria da anticonformista. Ascoltavo
il rock, dai Beatles ai Pink Floyd a Cat Stevens, ma anche
la musica popolare, tant’è che suonavo il clarinetto nella
banda del paese. Con Ratzinger talvolta ne abbiamo par-
lato e io, sentendolo al pianoforte, gli confermai che aveva
fatto bene a non smettere mai di esercitarsi: a me, dopo
aver abbandonato lo strumento all’ingresso in seminario,
era risultato impossibile riprenderlo in seguito, sia perché
ormai mi ero “arrugginito”, sia in quanto il clarinetto ha
bisogno almeno di un piccolo gruppo con cui suonare. Fra
i miei sogni giovanili, c’era quello di diventare un agente
di Borsa e guadagnare tanti soldi. Nel frattempo frequen-
tavo il liceo, racimolavo qualche spicciolo consegnando la
posta con la bicicletta e facevo molto sport: sci, calcio e in
seguito anche tennis.
Per non deludere il parroco, cominciai a leggere il libro
di Ratzinger e l’entusiasmante sfida che l’allora quarantu-

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nenne professore universitario a Tubinga lanciava nella pre-
fazione, spiegando l’intento di quel testo, mi appassionò:
«Comprendere in maniera nuova la fede, quale possibilità
di umanità autentica nel nostro mondo odierno, interpre-
tandola, senza degradarne il valore a chiacchiera che solo
con fatica maschera un totale vuoto spirituale».
La lettura di quelle pagine non mi risultò facile, ma co-
munque mi resi conto che affrontavano questioni impor-
tanti e delicate, a partire dalla situazione dell’uomo di fronte
al problema di Dio. Però alcuni apologhi che Ratzinger
aveva inserito qua e là – come lo stolto Hans che scam-
biava le sue proprietà sempre peggiorando le perdite op-
pure il clown che tentava invano di lanciare l’allarme per
un incendio – mi fecero comprendere che l’autore di quel
volume era una persona di spirito, capace anche di sdram-
matizzare la riflessione su fondamentali tematiche di fede.
Dopo aver superato l’esame di maturità, mi interrogai
sulla strada da intraprendere all’università e pensai di stu-
diare teologia e filosofia a Friburgo in Brisgovia. Contem-
poraneamente, decisi di entrare nel seminario diocesano e
mi ritrovai l’Introduzione come testo d’obbligo: ogni setti-
mana veniva assegnato un numero di pagine da leggere e
poi si dialogava insieme fra docenti e studenti. Questa volta
la comprensione di quei ricchi contenuti fu molto migliore
e da allora la prospettiva presentata da Ratzinger divenne
per me una bussola dottrinale.
Una terza volta l’ho letto poco prima dell’ordinazione
sacerdotale, quando collaboravo in una parrocchia e con
i fedeli abbiamo approfondito le affermazioni del Credo,
utilizzando proprio lo schema dell’Introduzione. Una ul-
teriore lettura è avvenuta nel 1999, durante una settimana
di esercizi spirituali, e in quella occasione mi risuonava in
mente la voce del cardinale, come se stesse pronunciando
lui quelle parole, dato che ormai lavoravo da qualche anno

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in Congregazione e lo frequentavo quotidianamente. Ri-
spetto a tutte le circostanze precedenti, il diverso conte-
sto e la mia maggiore maturità hanno fatto sì che quelle
riflessioni mi parlassero in modo diretto e personale, con
un vigore più nutriente per la mia vita spirituale.
In sostanza, ogni tappa è corrisposta alla sempre più
precisa contestualizzazione del fondamentale interrogativo
proposto da Ratzinger: «Quale significato e quale portata ha
la professione di fede cristiana “io credo” oggi, nelle con-
dizioni in cui versa la nostra esistenza attuale e nella posi-
zione da noi assunta al presente nei confronti del reale in
genere?». Mi ha costantemente sollecitato la sua certezza
che «ogni essere umano deve in qualche maniera prendere
posizione rispetto all’ambito delle decisioni fondamentali, e
nessuno è in grado di farlo se non nella forma di una fede».
E mi ha rassicurato e incoraggiato la sua spiegazione che
«credere cristianamente significa abbandonarsi con fiducia
al senso che sostiene me e il mondo; significa accoglierlo
come il solido fondamento su cui io posso stare senza ti-
more. La fede cristiana è l’incontro con l’uomo-Gesù, e in
tale incontro percepisce il senso del mondo come persona».
Il 31 maggio 1984, solennità dell’Ascensione del Signore,
venni ordinato sacerdote dall’arcivescovo Oskar Saier,
della mia diocesi di Friburgo in Brisgovia, e pochi mesi
più tardi lessi la traduzione tedesca del dialogo fra Ratzin-
ger e lo scrittore Vittorio Messori, pubblicato in italiano
con il titolo Rapporto sulla fede. Mi colpì la libertà con cui
il prefetto parlava di tante problematiche sia interne che
esterne alla Chiesa e addirittura giungeva a criticare talune
derive successive al Concilio Vaticano II, particolarmente
negli ambiti della liturgia e della pastorale.
Ricordo che, quando comprai il libro, lo portai con me
nell’escursione che facevo nella Foresta Nera ogni mar-
tedì, il giorno in cui non avevo impegni di insegnamento a

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scuola e il parroco mi esentava dal servizio in parrocchia.
Portavo con me un panino con qualcosa da bere e mi siste-
mavo in un bel posto nel bosco: quella volta tornai tardis-
simo in canonica perché ero rimasto assorto nella lettura
fino a quando non aveva cominciato a fare buio, tanto mi
avevano appassionato quelle pagine.
Dopo due anni da viceparroco, venni inviato a Monaco
di Baviera per studiare Diritto canonico nell’università
Ludwig Maximilian. Agli inizi questa materia non era per
nulla la mia passione, ma pian piano ne ho compreso me-
glio il senso e lo scopo, cosicché, dopo aver conseguito la
licenza e il dottorato, nel 1993 rientrai in diocesi per vo-
lontà di monsignor Saier, come suo collaboratore perso-
nale e con l’incarico di vicario nella cattedrale.
Nell’autunno del 1994 venni informato che il nunzio in
Germania aveva chiesto al mio arcivescovo di inviarmi a
Roma per collaborare con la Congregazione per il Culto
divino e la Disciplina dei sacramenti, dato che serviva pro-
prio un esperto in Diritto canonico. Monsignor Saier non
era per nulla contento di lasciarmi andare e cercò di resi-
stere. Ma l’insistenza vaticana fu motivata con due precisi
ragionamenti: innanzitutto si sottolineò che l’arcidiocesi di
Friburgo, la più grande della Germania come numero di
battezzati dopo Colonia, non aveva mai fornito un sacerdote
per gli uffici della Santa Sede; quindi, rivolgendosi più per-
sonalmente a monsignor Saier (che aveva espresso qualche
riserva riguardo alla Curia vaticana), venne osservato che
non si può criticare il centralismo romano se poi non si è
disposti a offrire persone adatte per migliorarne la qualità.
Di fatto, era una valutazione diffusa nel mio Paese, visto
che lo stesso cardinale Ratzinger, nel libro-intervista con
Vittorio Messori, aveva affermato senza reticenza: «Dalla
mia Germania, guardavo spesso con scetticismo, magari
con diffidenza e impazienza, all’apparato romano. Arri-

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vato qui mi sono accorto che questa Curia è ben superiore
alla sua fama. In grande maggioranza è composta da per-
sone che vi lavorano per autentico spirito di servizio. Non
può essere altrimenti, vista la modestia di stipendi che da
noi sarebbero considerati alla soglia della povertà. E visto
anche il fatto che il lavoro dei più è ben poco gratificante,
svolgendosi dietro le quinte, in modo anonimo, a prepa-
rare documenti o interventi che saranno attribuiti ad altri,
ai vertici della struttura».
Il 7 gennaio 1995 mi presentai dunque al cardinale pre-
fetto Antonio María Javierre Ortas, il quale mi destinò
alla sezione disciplinare, che all’epoca si occupava fra l’al-
tro della laicizzazione dei sacerdoti che avevano chiesto la
dispensa dal celibato e dei casi dei matrimoni rati e non
consumati. Per me non era un impegno particolarmente
entusiasmante, poiché in sostanza avevo quotidianamente
a che fare con la documentazione sulle vicende di persone
la cui esistenza affrontava un momento molto delicato, che
erano deluse riguardo alla propria vocazione e incerte sul
futuro. Mi tranquillizzava però sapere che l’impegno era
circoscritto a un triennio, il limite temporale che Saier era
stato disposto a concedere prima del rientro in diocesi.

Una proroga illimitata

A quel tempo alloggiavo in Vaticano, nel Collegio teu-


tonico situato fra l’aula Paolo VI e il lato sinistro della Ba-
silica vaticana. La Messa quotidiana nella attigua chiesa
dell’arciconfraternita di Nostra Signora era alle 7 e ogni
giovedì mattina veniva a celebrarla il cardinale Ratzinger,
che poi si fermava a colazione. Quando gli fui presentato,
ebbi occasione di raccontargli che avevo studiato a Monaco
ed ero stato anche collaboratore pastorale nella parrocchia

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di San Pietro, la più antica della città, che lui ovviamente
conosceva bene. Col passare delle settimane, le chiacchie-
rate si fecero più specifiche: si informava del mio lavoro al
Culto divino e mi chiedeva notizie più precise sugli studi
che avevo compiuto.
Intorno a metà settembre 1995, salutandomi alla fine di
quella celebrazione, Ratzinger mi disse di andarlo a tro-
vare in Congregazione, perché voleva parlarmi. Non sa-
pevo cosa pensare, così chiamai il suo segretario, monsi-
gnor Josef Clemens, per fissare un appuntamento e – dato
che c’eravamo già conosciuti – gli chiesi amichevolmente
se conoscesse il motivo della convocazione, ma lui non ne
aveva idea. Quando entrai nello studio del prefetto ero un
po’ nervoso, poiché temevo di aver combinato qualcosa:
lui invece mi accolse con molta cordialità e mi spiegò che a
breve un collaboratore di lingua tedesca sarebbe rientrato
in diocesi, per cui gli serviva un sostituto. Il mio curriculum
era adatto e dunque mi chiese la disponibilità a trasferirmi.
Ovviamente io espressi il mio entusiasmo, ma chiarii an-
che la necessità che tutto venisse concordato sia con il pre-
fetto del Culto divino, sia con il mio arcivescovo. Ratzinger
parlò personalmente con Javierre Ortas, mentre io scrissi a
Saier, il quale mi rispose che non avrebbe potuto opporsi
a una richiesta del prefetto della Dottrina della fede, con-
fermando però la durata triennale. Così, a marzo del 1996,
mi trasferii presso l’ex Sant’Uffizio e venni assegnato alla
sezione dottrinale, quella che si occupa delle materie che
hanno attinenza con la promozione e la tutela della dot-
trina della fede e della morale.
Mi trovai subito a mio agio, dato che erano ottimi sia
la collaborazione tra i vari colleghi, sia il rapporto con i
superiori. Il mio compito specifico era quello di aiutare
nella preparazione delle bozze sia delle numerose lettere
che partivano dalla Congregazione come sollecitazioni di

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chiarimenti o come risposte a richieste da ogni parte del
mondo, sia dei documenti nei quali la Dottrina della fede
veniva coinvolta da altri organismi vaticani.
Nel 1997 mi giunse un’altra inattesa proposta, che mi
riempì di gioia. Monsignor Juan Ignacio Arrieta, l’allora
decano della facoltà di Diritto canonico della Pontificia uni-
versità della Santa Croce, mi offrì un incarico da docente.
La nostra conoscenza era maturata proprio nel lavoro della
Congregazione, poiché lui veniva spesso coinvolto da una
richiesta di parere su qualcuna delle problematiche giuridi-
che di cui ci occupavamo. Cosicché mi risultò ovvio rivol-
germi immediatamente al cardinale Ratzinger per averne il
consenso: lui mi domandò soltanto se mi sentissi in grado
di svolgere adeguatamente quel compito, senza sottrarre
tempo alla Dottrina della fede, e alla mia risposta afferma-
tiva replicò semplicemente con un «allora, va bene».
Dopo il preventivato triennio, il mio arcivescovo si sentì
un po’ in soggezione nei riguardi di Ratzinger e mi comu-
nicò che, se lui avesse chiesto il prolungamento fino al con-
sueto quinquennio, il permesso sarebbe stato accordato.
Alla scadenza del marzo 2001, il prefetto espresse con una
lettera ufficiale il ringraziamento per la disponibilità ac-
cordata in precedenza e sollecitò a Saier un ulteriore rin-
novo di cinque anni, ottenendolo. Così, nel 2003, potei
subentrare a monsignor Clemens nel ruolo di segretario
particolare del prefetto. Quindi, prima che quella proroga
giungesse a conclusione nel marzo del 2006, il cardinale
divenne Pontefice e per l’arcivescovo non fu più il caso di
sollevare problemi…
Da segretario di Ratzinger smisi di occuparmi del prece-
dente lavoro d’ufficio, poiché era molto impegnativo seguire
la fitta corrispondenza e gli appuntamenti del prefetto. Sin
dagli inizi mi diede totale fiducia nell’apertura della posta e
nella gestione della sua agenda, di cui io avevo un duplicato-

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specchio, che costantemente verificavamo per organizzare
le giornate successive. Quando non si trattava di lettere de-
licate, che inoltravo direttamente a lui, provavo a imbastire
una risposta o affidavo la tematica a un collaboratore più
specializzato, in modo da potergli sottoporre una bozza
sulla quale intervenire. Per ogni richiesta di colloquio pre-
paravo invece un memo per riferirgli di quale argomento si
trattasse e se fosse una questione istituzionale o personale.
In quel tempo abitavo a Santa Marta e talvolta il cardinale
veniva a pranzo con me nel refettorio. La nostra frequen-
tazione, oltre che alla Dottrina della fede, si dilatava nel
tempo dei viaggi per manifestazioni ufficiali, conferenze e
celebrazioni liturgiche, nelle quali fui anche il suo cerimo-
niere. Il rapporto di cordialità è gradualmente cresciuto e
per lui sono stato sino alla fine “don Giorgio” (anzi “don
Ciorcio”, con la sua tipica inflessione tedesca), anche se non
ha mai voluto rivolgersi a me con il “tu”: pure durante il
tempo da Papa emerito ha continuato a dare del “lei” sia
a me, sia alle Memores, per una forma di rispetto che lo ha
sempre caratterizzato.
Devo confessare di aver provato una forte emozione
quando recuperò e mi fece leggere il testo dell’omelia che
aveva pronunciato da diacono domenica 23 aprile 1950
nella Messa dei bambini a Frisinga, incentrata proprio sul
santo del quale festeggio l’onomastico (un nome che mi
ha accomunato al fratello maggiore di Benedetto XVI):
«Il drago è il terribile incubo dell’intera umanità, è il mo-
stro davanti al quale tremiamo, è la forza tremenda del
male che chiamiamo demonio. Chi possiede la corazza e
la spada non deve temere, perché le armi di Dio sono più
forti del drago. San Giorgio non è lì affinché noi possiamo
ammirarlo, ma per farci capire che cosa dobbiamo fare. Ci
dice che c’è un drago e ci dice che siamo tutti chiamati a
diventare coloro che uccidono il drago».

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In generale, Ratzinger entrava in Congregazione pun-
tuale alle 9, dopo aver celebrato la Messa a casa e recitato il
breviario, con una precisa idea delle questioni da affrontare
in quella giornata, avendo studiato nel pomeriggio prece-
dente la documentazione che avevo provveduto a fornir-
gli. Quando arrivava, avevamo l’abitudine di scherzare su
come si sentisse, con un “punteggio” che parafrasava cin-
que voti accademici: summa cum laude, magna cum laude,
cum laude, sufficit, per arrivare a non sufficit, quando pro-
prio tutto andava male… L’ultimo caso era abbastanza
raro, ma già il sufficit esprimeva l’implicita richiesta che
non gli sottoponessi problematiche impegnative e sostan-
zialmente sgradevoli. Il voto aveva anche a che fare con la
qualità del sonno nella nottata precedente, poiché lui ebbe
sempre un riposo molto precario. Una volta Papa France-
sco gli disse che dormiva soltanto sei ore, come un sasso.
E Benedetto rispose con un mesto sorriso: «Questo è un
dono che il suo predecessore purtroppo non ha avuto!».

La quotidianità del servizio

Nella serata in cui il cardinale Ratzinger venne eletto e


io mi trovai automaticamente coinvolto al suo fianco, mi
resi conto di colpo che nessuno ti insegna a fare il segre-
tario del Papa: non c’è un manuale di comportamento, né
un tirocinio da frequentare, perché da un attimo all’altro
vieni catapultato dalla retroguardia alla prima linea. Inti-
mamente provavo la medesima sensazione che mi avevano
descritto i miei fratelli e amici quando si erano trovati per
la prima volta un neonato in braccio e non sapevano bene
come comportarsi, temendo piuttosto di fare danni…
Agli inizi il principale aiuto me lo diede don Mietek,
che come secondo segretario mi affiancò per un paio

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d’anni: l’ottimo suggerimento di sceglierlo era giunto a
Benedetto dal cardinale Marian Franciszek Jaworski, che
dal 16 luglio 2007 lo accolse a Leopoli come arcivescovo
coadiutore e poi suo successore. Io dovetti imparare ra-
pidamente tantissime cose, dalla gestione dei rapporti
con la Segreteria di Stato al coordinamento dell’agenda
del Papa in sintonia con il prefetto della Casa pontificia
e il maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie. C’e-
rano poi anche questioni minute, ma ugualmente impor-
tanti, come la logistica dell’Appartamento e il disbrigo
delle faccende più pratiche, compreso il controllo finale
che tutto funzionasse nello studio papale per l’Angelus
della domenica!
La giornata era davvero senza fine, cominciando con
la sveglia intorno alle 6, lo stesso orario del Papa, e poi la
Messa, la meditazione e il breviario. Dopo colazione, af-
frontavo la corrispondenza interna, che giungeva in grandi
borse di pelle nera, ormai sformate dal peso, mentre Be-
nedetto XVI andava nello studio per leggere la documen-
tazione riguardante le questioni più attuali e la rassegna
stampa internazionale. Per una mezz’ora lo raggiungevo,
così da aggiornarlo su tutto ciò che era importante e per
dargli informazioni sugli appuntamenti che lo attende-
vano. Quindi lo accompagnavo alla Seconda loggia per
le udienze private, oppure nei luoghi degli incontri con
gruppi più ampi, e nel resto della mattinata ricevevo per-
sone e rispondevo a telefonate e mail.
Dopo il pranzo alle 13.30, una camminata di una de-
cina di minuti sul terrazzo, protetti da sguardi indiscreti
da archi con l’edera (perché si potrebbe essere visti dalla
cupola panoramica di San Pietro), e una breve pausa di
riposo, per riprendere nuovamente con le ulteriori borse
di posta che intanto erano state depositate nel mio studio,
in modo da sottoporre al Papa i documenti che doveva

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personalmente leggere e firmare. Prima delle cosiddette
“udienze di tabella” con i principali responsabili vati-
cani, che si svolgevano ogni giorno alle 18, lo informavo
delle cose più rilevanti che erano sopraggiunte e pren-
devo nota di ciò che mi chiedeva di fare al riguardo. Per
le 18.45 ci avviavamo in auto, se le condizioni atmosferi-
che lo consentivano, verso la grotta di Lourdes nei Giar-
dini vaticani, dove facevamo una passeggiata recitando il
Rosario. Con il tempo brutto, ci recavamo nel giardino
pensile all’ultimo piano, dove c’è una zona dalla quale si
domina tutta Roma.
Era questo il momento nel quale scambiavamo qualche
parola in libertà e gli raccontavo, per esempio, le domande
che inviavano i bambini nelle letterine adornate dai loro
ingenui disegni: «Quando il Papa sta da solo a casa, si to-
glie la veste bianca e rimane in tuta o in vestaglia? Ho letto
che gli piacciono i film di don Camillo e Peppone, è vero?
Ma davvero le scarpe rosse che indossa sono di Prada?».
Ora, posso perfino consentirmi di rispondere: no, Bene-
detto indossava sempre la talare bianca, perché don Mie-
tek aveva precisato che così faceva già Giovanni Paolo II,
e lui aveva deciso di adeguarsi; sì, tant’è nel gennaio 2011
parteciparono all’udienza generale in Vaticano il parroco e
il sindaco di Brescello, gli “eredi” dei protagonisti di Gua-
reschi, portando in dono il cofanetto con i cinque dvd della
saga cinematografica; no, l’associazione di idee si doveva
probabilmente al colore rosso, caratteristico di una linea
della casa di moda Prada, che aveva erroneamente spinto
la rivista «Esquire» a premiare quelle scarpe come “acces-
sorio elegante” nel 2007.
Intorno alle 19.30 c’era la cena e dopo in genere guar-
davamo il telegiornale. Infine Benedetto si ritirava in pri-
vato per qualche lettura e le ultime preghiere, mentre io
rientravo in segreteria o nella mia stanza nel mezzanino

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superiore per portare a termine le ultime incombenze. Di
domenica, talvolta vedevamo un film d’epoca (ma gli piace-
vano anche gli episodi di don Matteo), oppure ascoltavamo
musica classica (in particolare Mozart, Bach e Beethoven),
e qualche volta era egli stesso a suonare il pianoforte (Schu-
bert e Mozart erano tra gli spartiti più utilizzati).
Mi sono presto reso conto che il ritmo che mi ero impo-
sto era troppo elevato: partire in pole position a pieno gas è
una cosa, compiere tutti i giri e arrivare al traguardo è ben
altro. Ho dovuto faticare un po’ per riuscire a trovare la
giusta cadenza nella miriade di impegni quotidiani. In par-
ticolare, nei primi mesi mi dava problemi la gestione delle
innumerevoli richieste di udienza privata e di altri incon-
tri, tutti accompagnati da motivazioni onorevoli: «Soltanto
un’eccezione… Il Papa mi conosce da tanto tempo… Sarà
sicuramente contento di una rimpatriata…». So di aver
scontentato numerose persone, certamente degne di ogni
riguardo, ma il mio compito era quello di fare lo “spazza-
neve del Papa”, per tutelarlo da una valanga di carte e di
pressioni.
Ho riscoperto in una vecchia agenda gli appunti che
avevo scritto per una breve testimonianza diversi anni fa e
mi sono ritrovato in quelle parole: «Più pulito è un vetro,
più raggiunge il suo scopo. Se un vetro comincia a sporcarsi
o a rompersi, rimane sempre un vetro, ma non funziona
come dovrebbe. E io confesso francamente che ho visto,
vedo e vedrò sempre il mio ruolo, il mio servizio, come un
vetro: devo lasciar entrare il sole, ma non apparire, se pos-
sibile. Il vetro, infatti, meno appare e meglio è. Questo è,
non voglio dire il mio motto, ma la dietrologia della mia
comprensione del ruolo del segretario particolare di Sua
Santità. E cercherò di mettere in pratica questo concetto,
ogni giorno, tutti i giorni, con il cuore, con il cervello, con
l’anima, con tutte le forze che ho».

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Nell’Appartamento del Papa

Nella mattinata del 20 aprile 2005, il giorno successivo


all’elezione, un momento molto emozionante fu l’ingresso
dalla scala Nobile nell’Appartamento papale alla Terza
loggia, dopo che il camerlengo Martínez Somalo aveva
rotto i sigilli che lui stesso aveva precedentemente appo-
sto sulla porta d’accesso. Benedetto XVI conosceva bene
quelle stanze, dove era entrato tante volte per dialogare
con Giovanni Paolo II, e mosse i primi passi quasi timida-
mente, come se non volesse rompere il delicato equilibrio
che in quel luogo si era stabilito nei quasi ventisette anni
di Papa Wojtyła. Come mi ha detto in seguito, varcando
quella soglia gli erano tornati in mente innumerevoli ricordi
che quasi fisicamente gli facevano riapparire nello sguardo
della memoria il suo predecessore.
Si percepiva un forte sentore di ospedale, anche perché
le finestre erano restate chiuse a lungo e la moquette che
ricopriva il pavimento si era impregnata degli odori dei
medicinali che avevano ristagnato durante la lunga agonia
del Pontefice polacco. Ci si rese tutti conto che era im-
possibile trasferirsi immediatamente lì, soprattutto dopo
la spiegazione dei tecnici, che dettagliarono come da de-
cenni non si effettuavano lavori di ristrutturazione, al punto
che l’impianto elettrico era ancora suddiviso in due linee
di differente voltaggio, mentre sul soffitto era stata realiz-
zata un’intercapedine con dei contenitori per raccogliere
l’acqua proveniente dalle infiltrazioni.
Facemmo anche un sopralluogo nella torre di San Gio-
vanni, che già ai tempi di Giovanni XXIII era stata riadat-
tata per poter ospitare personalità illustri in visita alla Santa
Sede. Però risultava troppo umida e, per di più, gli spazi
circolari si dimostravano decisamente scomodi. Dunque la
decisione fu scontata: Benedetto si sarebbe trasferito per il

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momento nel cosiddetto Appartamento patriarcale di Casa
Santa Marta (quello attualmente utilizzato da Francesco,
contrassegnato dal numero 201), mentre io mi sarei siste-
mato nella stanza di fianco.
A Santa Marta ci fermammo sino al 30 aprile, lo ricordo
bene perché in quella data si celebra la memoria liturgica
di san Pio V, il patrono del Sant’Uffizio. In quella decina
di giorni venne effettuata una profonda pulizia dell’Appar-
tamento, in modo da poterci restare nel successivo paio di
mesi, cominciando pian piano a organizzarci.
L’ingegner Paolo Sagretti, responsabile della Floreria
(la struttura che si occupa fra l’altro dell’arredamento nei
locali vaticani), ci spiegò che Paolo VI aveva voluto una
tonalità grigia per la tappezzeria e Giovanni Paolo II non
aveva chiesto particolari modifiche. Benedetto chiese di
eliminare la moquette e di ripristinare gli splendidi marmi
risalenti al XVI secolo, che rendevano il pavimento molto
luminoso, dando per il momento soltanto una rinfrescata
alle pareti, sulle quali spiccavano alcuni quadri molto belli.
Espresse poi il desiderio che nel suo studio venissero si-
stemate la scrivania, che lo aveva sempre seguìto da quando
era professore in Germania, e una parte delle librerie di
piazza della Città Leonina, in modo da avere a portata di
mano i testi che potevano servirgli (dopo la rinuncia al pon-
tificato, tutto venne trasferito nel monastero “Mater Eccle-
siae” in Vaticano, la sua residenza fino alla morte). Bene-
detto amava dire che si sentiva come circondato da amici,
quando osservava i libri sugli scaffali. Però non era gelosa-
mente legato a essi, tant’è che da molto tempo aveva preso
la decisione che, se ne entrava uno in casa, un altro doveva
uscirne in regalo. Addirittura, in Congregazione c’era un
apposito tavolo dove lui poggiava i volumi che potevano
liberamente venire prelevati da chiunque lo desiderasse.
Dall’11 al 28 luglio ci trasferimmo a Les Combes, in

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Valle d’Aosta, per una pausa di riposo che, nell’Angelus
del 17 luglio, definì schiettamente «un dono di Dio davvero
provvidenziale, dopo i primi mesi dell’esigente servizio pa-
storale che la Provvidenza divina mi ha affidato». In effetti
era stato un periodo decisamente intenso, e anche in quel
solo mese non gli mancò l’angoscia a causa di numerosi at-
tentati terroristici in giro per il mondo: il 2, l’ambasciatore
egiziano sequestrato e poi ucciso in Iraq; il 7, cinquantadue
morti a Londra (e il 21 ulteriori esplosioni senza vittime);
il 12, cinque morti a Netanya (Israele); il 14, assassinato il
vescovo Luigi Locati in Kenya; il 16, cinque vittime a Ku-
sadasi (Turchia); il 23, ottantotto morti a Sharm el-Sheikh
(Egitto); il 27, due diplomatici algerini assassinati in Iraq.
Poco dopo, il 16 agosto, ci fu anche l’assassinio del fon-
datore della Comunità di Taizé, frère Roger Schutz, per
mano di una squilibrata, mentre era in corso la recita dei
vespri. In quella stessa mattinata, Benedetto aveva ricevuto
una sua lettera, nella quale esprimeva il desiderio di venire
quanto prima a Roma per incontrarlo e gli assicurava che
«la nostra Comunità di Taizé vuole camminare in comu-
nione con il Santo Padre».
Il rientro dalla montagna avvenne direttamente al Pa-
lazzo apostolico di Castel Gandolfo, dove restammo fino
a tutto settembre. Al ritorno in Vaticano trovammo tutti i
lavori completati, realmente in tempo record, al punto che
Papa Benedetto volle ricevere in udienza particolare tutti
quelli che avevano collaborato alla ristrutturazione, per
ringraziarli personalmente. E lo fece con parole particolar-
mente amorevoli: «Sono convinto – perché in Germania ho
fatto costruire una piccola casa per me – che altrove questi
lavori sarebbero durati almeno un anno o probabilmente
di più. Posso soltanto ammirare le cose che avete fatto,
come questi bei pavimenti. Poi mi piace, in modo parti-
colare, la mia nuova biblioteca, con quel soffitto antico. È

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il momento di dire “grazie” per tutto questo, per il vostro
lavoro che mi incoraggia – come voi avete dato tutto – a
dare da parte mia, in questa ora tarda della mia vita, tutto
quanto posso dare».
La configurazione dell’Appartamento era funzionale
alle attività del Papa e della famiglia pontificia. Dopo l’in-
gresso dalla scala Nobile, sul cui pianerottolo vigilava sem-
pre una Guardia svizzera, c’era un atrio con l’ascensore.
Ogni sera giungeva uno dei massimi responsabili vaticani
per l’udienza di tabella nella Biblioteca privata: lunedì il
segretario di Stato, martedì il sostituto per gli Affari gene-
rali, mercoledì il segretario per i Rapporti con gli Stati, gio-
vedì il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione
dei popoli, venerdì il prefetto della Congregazione per la
Dottrina della fede, sabato il prefetto della Congregazione
per i vescovi. Per rispetto del ruolo, il segretario di Stato lo
andavo a rilevare io nel suo appartamento alla Prima log-
gia e lo accompagnavo con l’ascensore Nobile, mentre gli
altri venivano autonomamente davanti all’Appartamento e
suonavano alla porta, dove li andavo ad accogliere.
Nell’atrio d’ingresso c’era la porta verso la Biblioteca
privata; sempre sull’affaccio in piazza San Pietro c’erano
uno studiolo, la stanza del segretario particolare (di fronte,
verso l’interno, c’era la cappella), lo studio privato del Papa,
la camera da letto d’angolo. Sul lato verso via di Porta An-
gelica si trovavano il bagno, una biblioteca più riservata
(dove in precedenza c’era lo studio medico attrezzato per
Giovanni Paolo II), un salotto, la sala da pranzo, la cucina
e gli alloggi delle Memores.
In questa zona a nord-ovest è situato il cosiddetto ascen-
sore di Sisto V, che permette l’accesso diretto all’Apparta-
mento dall’omonimo cortile. Ma l’utilizzo è strettamente
riservato ai possessori della chiave elettronica che consente
di aprire la portina e di avviare il meccanismo, sotto il co-

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stante controllo della Gendarmeria: al tempo di Benedetto,
come era consuetudine durante il pontificato di Giovanni
Paolo II, l’avevano soltanto i membri della ristretta fami-
glia pontificia.
L’ascensore di Sisto V può fermarsi alla Prima loggia
nell’appartamento del segretario di Stato e alla Seconda log-
gia per consentire al Papa di recarsi nella Biblioteca dove
vengono ricevute le personalità. Dopo l’Appartamento alla
Terza loggia, prosegue verso il quarto piano, dove c’erano
le stanze dei segretari e per eventuali ospiti, e finisce sul
terrazzo, fatto realizzare da Paolo VI insieme con una strut-
tura in muratura che noi rinominammo “lo chalet”: c’era
ancora il televisore a tubo catodico mediante il quale Papa
Montini assistette all’allunaggio della missione Apollo 11, il
20 luglio 1969. Era stata attrezzata con una piccola cucina
e un televisore a colori ricevuti in regalo da Benedetto XVI
e tradizionalmente, ogni domenica sera, cenavamo tutti lì.
C’era anche un locale con una piccola piscina idromassag-
gio, voluta da Paolo VI, ma non fu mai utilizzata.

Con tre aiutanti di camera

Per la gestione ordinaria dell’Appartamento potei imme-


diatamente contare su Angelo Gugel, che lavorava in Va-
ticano dal 1955 e nel 1978 era stato personalmente scelto
da Giovanni Paolo I come aiutante di camera poiché gli
aveva fatto da autista a Roma durante il concilio Vaticano
II e diverse volte lo aveva ospitato a cena a casa, dato che si
conoscevano a livello familiare sin da quando era vescovo
di Vittorio Veneto.
Dopo la morte di Papa Luciani, Giovanni Paolo II lo
aveva confermato nell’incarico e la sua signorile figura
risaltava in innumerevoli fotografie durante tutti gli ap-

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puntamenti pubblici del pontificato. Mi raccontava che
agli inizi Papa Wojtyła gli leggeva i discorsi in italiano per
farsi indicare dove mettere il corretto accento; e poi citava
aneddoti divertentissimi, come quando il presidente San-
dro Pertini si rifiutò di dire che stavano gustando a tavola
gli “strozzapreti”, poiché temeva di offendere il Pontefice
che era al suo fianco!
Fu lui, conoscendone il meccanismo, ad aiutarmi per
aprire la vecchia cassaforte a muro situata nella Biblio-
teca privata, della quale don Stanislao agli inizi di giugno
mi aveva fornito le due chiavi e la combinazione durante
un rapido passaggio di consegne (un’altra più piccola era
nello studio del Papa, nel caso avesse voluto custodire ri-
servatamente qualcosa, ma Benedetto non l’utilizzò mai).
Con l’esperienza dei ventisette anni in Vaticano come se-
gretario di Giovanni Paolo II, don Stanislao fu molto netto
nel dirmi: «Posso suggerirti soltanto due cose. La più im-
portante è che dovrai fare da tetto al Santo Padre, dovrai
proteggerlo da tutto ciò che può schiacciarlo. Poi devi tro-
vare il giusto ritmo per collaborare con lui, con il cervello,
con il cuore e anche con il fiuto per tenere sotto controllo
la situazione: tutto il mondo ora è suo amico e molti vor-
ranno da lui qualcosa».
All’interno della cassaforte c’era un bel disordine, con
tanti oggetti che risalivano anche ai Papi precedenti: anelli
episcopali, croci pettorali, medaglie coniate dalla Zecca
vaticana per gli ultimi pontificati. È servito un bel po’ di
tempo per riuscire a fare un inventario completo, ma alla
fine ci siamo riusciti, utilizzando anche le annotazioni che
si trovavano insieme a molti degli oggetti, in modo da ri-
condurli il più possibile all’originario offerente.
Don Stanislao mi consegnò inoltre una busta con le co-
ordinate e la consistenza del conto presso lo ior intestato
alla segreteria particolare di Sua Santità, la cui firma era

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riservata al Papa, con delega soltanto al segretario. Da que-
sto conto, alimentato da donazioni esplicitamente destinate
alla carità del Santo Padre, venivano prelevate le somme
per la beneficenza in favore di casi particolarmente signi-
ficativi, riguardo ai quali Benedetto XVI riteneva oppor-
tuno intervenire sollecitamente e di persona.
Infine don Stanislao mi accompagnò nella piccola cap-
pella al mezzanino del quarto piano, che era stata allestita
da monsignor Pasquale Macchi ai tempi di Paolo VI, dove
c’era una quantità enorme di reliquiari, in ordine un po’
sparso, accumulatisi soprattutto a motivo delle moltissime
beatificazioni e canonizzazioni durante il pontificato di
Giovanni Paolo II. Si trovavano lì anche numerosi calici
e paramenti liturgici, che Benedetto stabilì di conferire in
gran parte al segretario di Papa Wojtyła, affinché potesse
utilizzarli come doni in memoria del santo Pontefice.
Proprio nei giorni dell’elezione, Gugel aveva compiuto
settant’anni, l’età massima per la pensione in Vaticano, ma
lui accettò di restare per qualche altro mese, in modo da
consentire una ordinata transizione con il suo successore.
Nel frattempo era stato avviato qualche sondaggio per in-
dividuare un sostituto, e il più autorevole suggerimento
giunse dall’arcivescovo James Michael Harvey, che pro-
pose Paolo Gabriele, un dipendente vaticano assunto ini-
zialmente come uomo delle pulizie in Segreteria di Stato.
L’uomo aveva talvolta prestato servizio come cameriere
nella residenza in Vaticano di Harvey, all’epoca capuffi-
cio della sezione anglofona e poi assessore, che ne aveva
apprezzato i modi. Così, quando nel 1998 l’arcivescovo fu
promosso alla guida della Casa pontificia, chiamò Gabriele
come collaboratore, al posto di un dipendente che era an-
dato in pensione. Gugel se lo affiancò per un periodo di
prova e, dopo qualche settimana, diede una valutazione
non proprio favorevole. Però non c’erano altre persone

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immediatamente ipotizzabili e forse in quel momento l’er-
rore fu di non aver cercato alternative migliori.
In seguito alle vicende del Vatileaks, quando nel 2012
Gabriele fu condannato con le attenuanti generiche a di-
ciotto mesi di reclusione per il furto e la diffusione di do-
cumenti riservati della Santa Sede, gli subentrò Sandro
Mariotti (detto “Sandrone” per la sua imponente stazza),
che già lo aveva sostituito nell’anticamera pontificia, dopo
essere stato a lungo in Floreria. Devo dire che, quando gli
proposi l’incarico, lui mi rispose con molta onestà: «Non
ho fatto studi particolari, sono un semplice lavoratore. È
troppo bello per me, ma non ne sono degno». Gli diedi
perciò due settimane per pensarci e per consultarsi riser-
vatamente: alla fine, dopo aver parlato personalmente an-
che con il Santo Padre, accettò e poi ha proseguito in quel
ruolo anche con Papa Francesco.
Fu dietro consiglio dell’arcivescovo Harvey pure la scelta
di monsignor Alfred Xuereb come secondo segretario al
posto di don Mietek. Dal 2003 era impegnato nella Pre-
fettura della Casa pontificia come prelato di anticamera
e si occupava di accompagnare nella Biblioteca privata
della Seconda loggia le personalità in udienza dal Santo
Padre. Perciò Benedetto lo aveva già potuto conoscere,
anche perché parlava bene il tedesco, e ne aveva apprez-
zato i tratti distintivi, la cortesia e la discrezione. Un suo
compito specifico fu quello di raccogliere per la preghiera
personale del Papa le intenzioni che giungevano da ogni
parte del mondo e di porre i foglietti con i nomi delle per-
sone e i motivi della richiesta in una cassetta accanto al suo
inginocchiatoio.
Mi ha commosso quando, in un’intervista successiva
alla rinuncia, ho letto questa sua testimonianza: «Quello
che mi colpiva era che il Papa, dopo alcuni giorni, mi chie-
deva: “Ha avuto poi notizie di quel signore/signora – e spe-

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cificava il cognome – di cui mi aveva parlato?”. In alcuni
casi ho dovuto rispondere che purtroppo la persona era
defunta, e mi colpiva la reazione del Santo Padre, perché
di solito, quando sappiamo che qualcuno sta male e arriva
il messaggio che è morto, ci fermiamo lì. Ma non il Papa.
Recitava subito L’eterno riposo e poi invitava anche me a
pregare. Quindi non solo memoria, ma anche presenza. Il
Papa, che aveva in mente mille cose e pensieri, conside-
rava la sua preghiera per i malati un ministero pastorale
importantissimo».

Gli altri membri della famiglia

Nel mezzanino al quarto piano, dove era ospite anche


monsignor Georg quando veniva a trovare il fratello, don
Mietek continuò ad abitare nella camera che già aveva in
precedenza (e dove successivamente lo sostituì don Alfred),
mentre io mi sistemai in quella che utilizzava don Stanislao.
Nei primi mesi, aveva occupato una stanza anche la signora
Ingrid Stampa, che per una quindicina d’anni aveva fatto
da governante al cardinale Ratzinger.
Qualche settimana dopo la scomparsa della sorella Ma-
ria, nel novembre del 1991, il cardinale si era infatti trovato
a parlare con il dottor Renato Buzzonetti, che era anche
il suo medico curante (oltre che di Giovanni Paolo II), il
quale gli disse che, se ne avesse avuta utilità, avrebbe po-
tuto presentargli la donna, all’epoca quarantunenne, che
– dopo essere stata insegnante di viola da gamba in Ger-
mania – si era trasferita a Roma e aveva accudito fino alla
morte, il precedente 24 agosto, l’arcivescovo Cesare Zac-
chi, già presidente della Pontificia accademia ecclesiastica.
Il cardinale la ritenne una buona soluzione per la gestione
del suo appartamento e la risposta fu favorevole. Così la

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signora Stampa divenne una presenza costante nella sua
quotidianità, pur svolgendo nel contempo lavori dome-
stici anche nell’abitazione a Palazzo San Carlo dell’allora
monsignore Paolo Sardi (divenuto in seguito arcivescovo
e cardinale), che aveva conosciuto partecipando alle sue
Messe mattutine in San Pietro.
Io non ebbi significative occasioni di frequentazione con
lei fino al momento in cui divenni segretario del prefetto,
nel 2003. E dovetti con sorpresa rendermi conto che aveva
un carattere forte. Il problema era che si sentiva in diritto
di far prevalere la propria idea, e il cardinale cercava spesso
di essere accomodante pro bono pacis. Il suo più autorevole
biografo, Peter Seewald, ha esplicitamente parlato di «una
caratteristica che si sarebbe rivelata il suo tallone d’Achille.
In generale Ratzinger non concedeva facilmente la sua fi-
ducia, ma è vero anche che non respingeva le persone che
la Provvidenza metteva sulla sua strada. Il problema con-
seguente fu che si trovò quasi indifeso di fronte a quelle
persone attorno a lui che avevano la tendenza a prevari-
care, a uscire dal loro ambito di competenza, esercitando
una sorta di violenza psicologica. Aveva inoltre un forte
senso di lealtà, che gli impediva di reagire a tono ai com-
portamenti inadeguati».
Quando, nei primi giorni del pontificato, abbiamo co-
minciato a studiare con i tecnici i lavori da eseguire nell’Ap-
partamento, lei a un certo punto affermò con piglio deci-
sionista: «Bisogna invertire la camera da letto e lo studio
privato, perché Benedetto ha bisogno di più spazio e di
più luce per il suo luogo di lavoro». Monsignor Paolo De
Nicolò, reggente della Casa pontificia, e l’ingegner Sagretti
incrociarono i loro sguardi stupefatti e le spiegarono che
nello studio, posto di fianco alla segreteria in modo da
permettere un immediato contatto, c’era la tradizionale fi-
nestra dell’Angelus domenicale e che accanto alla camera

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da letto c’era il bagno. Data l’insistenza della signora, alla
fine De Nicolò rispose: «Bene, ci riflettiamo e poi faremo
la proposta al Papa», e ovviamente l’irragionevole idea
non andò avanti.
Il suo spirito di rivalsa nei riguardi dell’entourage papale,
che secondo lei stava soppiantandola, fu probabilmente
all’origine del legame che via via si intensificò con Josef
Clemens, che avrebbe fortemente desiderato venire nuova-
mente nominato da Benedetto come segretario particolare.
Personalmente avevo già percepito una certa gelosia
nei miei confronti da parte di Clemens, sin da quando lo
avevo sostituito nella segreteria del prefetto. Nonostante
la promozione lo avesse condotto in un’altra Congrega-
zione, cercava di mantenere voce in capitolo riguardo agli
impegni di Ratzinger e con me era divenuto più brusco,
mentre in precedenza eravamo in rapporti amichevoli. La
certezza di questo cambiamento di comportamento la ebbi
quando fui praticamente l’unico della Dottrina della fede
a non ricevere l’invito alla cerimonia della sua consacra-
zione episcopale!
Subito dopo l’elezione di Benedetto mi giunsero noti-
zie di sue sgradevoli valutazioni su di me, ma non vi diedi
particolare peso: comunque, cominciai ad aguzzare le orec-
chie per salvaguardare il Papa da qualsiasi mira di potere,
in particolare se si trattava di “fuoco amico” intorno a lui.
Posso comunque smentire con forza la voce che qualcuno
fece girare su contrasti pubblici fra Clemens e me: addi-
rittura si è parlato di scontri fisici o di un rifiuto di dargli
il numero del mio cellulare. Non ne aveva bisogno, poi-
ché il Papa stesso gli aveva dato il numero privato del suo
telefono fisso nell’Appartamento, da cui rispondeva per-
sonalmente: lui non ha mai avuto un cellulare personale e,
in caso di necessità, utilizzava il mio o quello del secondo
segretario. Oltre ai massimi vertici vaticani, lo conoscevano

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soltanto pochi altri amici italiani o tedeschi e il fratello Ge-
org, che il Papa chiamava spesso per dargli almeno un sa-
luto, su una linea esclusiva per loro due.
Durante il pontificato, Benedetto volle benevolmente
assecondare gli inviti di Clemens per una cena a casa sua
tre o quattro volte l’anno, in circostanze come onomastici e
compleanni o particolari festività, come accadeva ai tempi
in cui era prefetto. Però Clemens commise il grave errore
di vantarsi pubblicamente di quelle cene, alle quali parte-
cipavano spesso la Stampa e Sardi (oltre a qualche altro
ospite), aggiungendo addirittura che il Papa apprezzava
tali occasioni «perché qui posso aprire il cuore, posso re-
spirare, mentre a casa è tutto un po’ opprimente». Quando
Benedetto lo venne a sapere, gli scrisse una lettera, nei suoi
modi eleganti ma decisi, invitandolo a evitare qualsiasi pub-
blicità riguardo al passato e comunicando la decisione di
abolire incontri futuri.
Nel 2003 Ingrid Stampa dovette assentarsi da Roma per
qualche mese a causa della malattia della mamma e a occu-
parsi della casa del cardinale ci pensò Carmela Galiandro,
consacrata tra le Memores Domini di Comunione e libe-
razione. Ratzinger si era trovato bene, cosicché nei primi
giorni del pontificato, tramite il sostituto Sandri, fu chiesto
all’allora presidente di cl don Julián Carrón se ci fosse la
possibilità di avere quattro Memores per l’Appartamento
papale. A Carmela si aggiunsero così Loredana Patrono,
Cristina Cernetti e Manuela Camagni, che purtroppo morì
il 24 novembre 2010 a causa di un incidente stradale a
Roma: si era recata con le amiche a un incontro di Memo-
res in una residenza in via Nomentana e, attraversando la
strada, fu investita da un’automobile. Le condizioni appar-
vero subito gravissime e, nonostante un intervento chirur-
gico d’urgenza, morì poco dopo: non potei fare altro che
andare a benedirla nell’obitorio del Policlinico.

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Benedetto fu enormemente addolorato da questa disgra-
zia e il 29 novembre mi inviò a San Piero in Bagno di Roma-
gna per il funerale, durante il quale lessi il suo partecipato
messaggio, nel quale fra l’altro confidava: «Ho potuto be-
neficiare della sua presenza e del suo servizio nell’Appar-
tamento pontificio, negli ultimi cinque anni, in una dimen-
sione familiare. Per questo desidero ringraziare il Signore
per il dono della vita di Manuela, per la sua fede, per la
sua generosa risposta alla vocazione. Il distacco da lei, così
improvviso, e anche il modo in cui ci è stata tolta, ci hanno
dato un grande dolore, che solo la fede può consolare».
Il 2 dicembre il Papa volle poi celebrare una Messa di
suffragio nella Cappella paolina, ricordando in particolare
che nei giorni precedenti Manuela gli aveva detto che il 29
novembre, esattamente il giorno che fu quello delle sue
esequie, avrebbe compiuto trent’anni nella comunità delle
Memores Domini, «e lo disse con grande gioia, preparan-
dosi a una festa interiore per questo cammino trentennale
verso il Signore, nella comunione degli amici del Signore.
[…] Manuela non era di quelli che avevano dimenticato la
memoria: è vissuta proprio nella viva memoria del Creatore,
nella gioia della sua creazione, vedendo la trasparenza di
Dio in tutto il creato, anche negli avvenimenti quotidiani
della nostra vita, e ha saputo che da questa memoria – pre-
sente e futuro – viene la gioia».
Per sostituirla giunse la lombarda Rossella Teragnoli,
che con le altre ha poi mantenuto la preziosa presenza
delle Memores anche nel Monastero: lei si occupava delle
stanze dei segretari e del loro guardaroba, la marchigiana
Cristina di sacrestia e cappella, mentre la pugliese Lore-
dana era più impegnata in cucina e la conterranea Carmela
collaborava con lei per la preparazione di dolci e curava
il guardaroba del Papa. Durante la giornata veniva inol-
tre, sia nell’Appartamento che in Monastero, suor Birgit

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Wansing, del movimento di Schönstatt, sua segretaria dal
lontano 1984. Infine, per accudire amorevolmente monsi-
gnor Georg Ratzinger nelle sue visite in Vaticano, si univa
periodicamente al gruppo suor Christina Felder, della fa-
miglia spirituale L’Opera.

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5
Le pietre d’inciampo del complesso governo

Decisioni a 360 gradi

Sin dai primissimi giorni del pontificato, mi resi conto


di quanto sia enorme la responsabilità che grava sul Papa
riguardo alle nomine, sulle quali spetta in sostanza a lui la
scelta finale: più di tremila circoscrizioni ecclesiastiche in
ogni parte del mondo, con quasi duecento rappresentanze
diplomatiche, per un totale di circa quattromila vescovi in
attività, fra diocesani, ausiliari e nunzi; e poi tutte le cari-
che nei molteplici organismi della Curia vaticana, che indi-
rizzano le attività della Santa Sede nell’ambito spirituale e
pastorale, ma anche in quello amministrativo e caritativo,
tenendo conto di un orizzonte complessivo di un miliardo
e trecentomila cattolici con tradizioni culturali, situazioni
economiche e prospettive sociali del tutto variegate.
Le decisioni sottoposte al vaglio del Pontefice erano ad
ampio spettro, secondo quanto determinato da Giovanni
Paolo II all’articolo 18 della costituzione apostolica sulla
Curia romana Pastor bonus del 1988 (sostanzialmente con-
fermate anche nella Praedicate Evangelium del 2022): «De-
vono essere sottoposte all’approvazione del Sommo Pon-
tefice le decisioni di maggiore importanza. […] I dicasteri
non possono emanare leggi o decreti generali aventi forza
di legge, né derogare alle prescrizioni del diritto universale
vigente, se non in singoli casi e con specifica approvazione
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del sommo Pontefice. Sia norma inderogabile di non far
nulla di importante e straordinario, che non sia stato prima
comunicato dai capi dei dicasteri al Sommo Pontefice».
Benedetto certamente non affrontò questo compito a
cuor leggero, e lo fece seguendo l’insegnamento del suo
amato san Bonaventura, per il quale «governare non era
semplicemente fare, ma era soprattutto pensare e pregare:
tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero
illuminato dalla preghiera». Sapeva bene infatti che, uma-
namente parlando, è molto difficile giudicare le persone
e decidere a loro riguardo, poiché, diceva, «nessuno può
leggere nel cuore dell’altro».
Mi sembra interessante, a tale proposito, recuperare un
brano dell’intervento che il 27 febbraio 2000 l’allora car-
dinale propose nel convegno internazionale sull’attuazione
del Concilio Vaticano II: «Noi ci soffermiamo sul nostro
tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di
precedenza. Questo non vuol dire che nella Chiesa non
si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla as-
segnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno
sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può
verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come
tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali que-
stioni non possono distrarre dal vero e proprio compito
della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di
se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo
puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i
quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio co-
mune deve dare la direzione. In conclusione, non a caso
ritorna nella tradizione evangelica in diversi contesti la pa-
rola di Gesù secondo cui l’ultimo diverrà il primo e il primo
l’ultimo, come uno specchio, che riguarda sempre tutti».
Anche se è vero che Papa Ratzinger non aveva uno spic-
cato interesse per le questioni di governo, non si deve

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comunque dimenticare un fatto importante: il cardinale
Ratzinger fu, praticamente sin dall’inizio della sua pre-
senza a Roma, membro della Congregazione per i Vescovi
e, quasi ogni giovedì, partecipò alla riunione della feria
quinta nella sala Bologna. Ricevette tutti i dossier sui can-
didati all’episcopato, fu in diverse occasioni anche il “po-
nente” (cioè il cardinale che illustra le caratteristiche degli
ecclesiastici individuati per una specifica diocesi), maturò
una ricchezza di esperienze riguardo alle persone nomi-
nate, e anche a quelle non nominate.
Da Pontefice, prima di incontrare ogni sabato sera il
responsabile dei vescovi, si preparava accuratamente leg-
gendo la documentazione, che gli veniva inoltrata con al-
cuni giorni di anticipo. Ascoltava con attenzione il cardinale
prefetto (Giovanni Battista Re fino al 2010 e successiva-
mente Marc Ouellet), che gli sottoponeva le varie proposte
e gli comunicava chi aveva fatto la ponenza e quali erano
stati i voti finali.
Normalmente, Benedetto confermava la designazione
scaturita in Congregazione, ma prestava particolare cura
quando due candidati erano stati entrambi considerati “de-
gni”, per individuare chi di loro fosse più idoneo a quel
particolare ufficio. Ovviamente, più la diocesi era rile-
vante, per ampiezza di popolazione o per importanza sto-
rica, maggiore era l’approfondimento che veniva svolto.
Per i nunzi (i rappresentanti della Santa Sede negli oltre
180 Stati e Organizzazioni con cui esistono relazioni di-
plomatiche), invece, la presentazione gli veniva fatta dalla
Segreteria di Stato.
Ovviamente la prima nomina impegnativa riguardò la
scelta del successore alla guida della Dottrina della fede, e
fin da subito cominciarono a circolare sui giornali le ipotesi
più disparate e talvolta fantasiose. In particolare emerge-
vano i nomi dei vescovi italiani considerati in sintonia, sia

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umana sia teologica, con il cardinale Ratzinger, come per
esempio Tarcisio Bertone, Bruno Forte e Angelo Scola.
Ma per ciascuno di loro c’era un impedimento: il numero
due era già un salesiano, Angelo Amato, per cui non si sa-
rebbe potuto affiancargli il confratello Bertone; Scola era
patriarca di Venezia da soli tre anni, mentre Forte era stato
nominato arcivescovo di Chieti-Vasto appena dieci mesi
prima, e ambedue erano teologi di fama, cosa che si pre-
feriva evitare proprio per non favorire indebiti paragoni
con i tempi di Ratzinger.
Comunque, essendo italiano il segretario della Congre-
gazione, Benedetto aveva già deciso che come prefetto
avrebbe chiamato un extraeuropeo. E il suo sguardo puntò
sugli Stati Uniti, per dare un segnale forte e chiaro sulla
volontà di procedere speditamente nelle indagini relative
alla pedofilia del clero, una questione particolarmente pres-
sante in ambito americano. Così, il 13 maggio 2005, fu resa
nota dalla Sala stampa la nomina dell’arcivescovo di San
Francisco, William Joseph Levada. Molti furono sorpresi,
ma in realtà Ratzinger ne conosceva bene il curriculum: dal
1976 al 1982 aveva lavorato come officiale nella Dottrina
della fede, fra il 1986 e il 1993 era stato l’unico vescovo
statunitense nel Comitato editoriale del Catechismo della
Chiesa cattolica, dal 2000 era divenuto membro della Con-
gregazione e dal 2003 presiedeva la Commissione dottri-
nale della Conferenza episcopale statunitense.

Rispettoso delle persone

Qualche spostamento, dovuto al desiderio di rimodellare


alcuni dicasteri secondo la propria visione teologica e litur-
gica più che per mettere in atto una vera riforma della Cu-
ria (anche perché Benedetto riteneva che il suo pontificato

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sarebbe stato breve), venne attuato evitando di penalizzare
le persone coinvolte. Ovviamente le singole sensibilità pos-
sono interpretarla diversamente, ma per il Pontefice non
fu affatto una diminutio il passaggio dell’arcivescovo Do-
menico Sorrentino, segretario della Congregazione per il
Culto divino e la Disciplina dei sacramenti alla guida della
prestigiosa diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino,
oppure il subentro del cardinale Crescenzio Sepe alla guida
dell’arcidiocesi di Napoli, dopo che alcune problematiche
emerse nella Congregazione per l’Evangelizzazione dei po-
poli, di cui era prefetto, avevano suggerito l’opportunità di
un cambiamento al vertice, con l’inserimento del cardinale
indiano Ivan Dias.
Anche la nomina del presidente del Pontificio Consi-
glio per il Dialogo interreligioso Michael Louis Fitzgerald
alla strategica carica di nunzio apostolico nella Repubblica
Araba d’Egitto e delegato presso l’Organizzazione della
lega degli Stati arabi (con l’annesso obiettivo di favorire il
dialogo con l’università islamica di Al-Azhar, definita “il
Vaticano dell’Islam”) fu sostanzialmente collegata al de-
siderio del Papa di avviare uno snellimento dei dicasteri
curiali, che vide il primo tentativo nel marzo del 2006 con
l’accorpamento del Dialogo interreligioso al Pontificio
Consiglio della Cultura, al fine, come fu precisato, «di fa-
vorire un dialogo più intenso fra gli uomini di cultura e gli
esponenti delle varie religioni». Ma gli eventi del settembre
successivo a Ratisbona, quando alcune affermazioni di Be-
nedetto vennero equivocate e causarono violente reazioni
nel mondo islamico, spinsero a rivedere il progetto, facendo
ripristinare nel giugno del 2007 la preesistente situazione.
Proseguendo un’usanza degli anni in cui era prefetto alla
Dottrina della fede, nella primavera del 2009 Benedetto
ebbe un incontro con i cardinali Ruini, Scola, Schönborn
e Bagnasco per uno scambio di vedute informale su alcune

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questioni dell’attualità ecclesiale. Contrariamente alle in-
discrezioni emerse sulla stampa, non ci fu alcun cenno ri-
guardo al cardinale Bertone e alla sua permanenza nell’in-
carico di segretario di Stato: il Papa aveva esplicitamente
chiarito che di questa tematica non si sarebbe parlato. Dal
dialogo emerse invece la problematica della fede nei Pa-
esi europei, divenuta sempre più flebile. A un certo punto
fu Scola a lanciare l’idea di un dicastero che si affiancasse
all’Evangelizzazione dei popoli per prendersi cura di quanti,
pur essendo già stati evangelizzati, non praticavano più.
Fu così che si avviò l’istituzione del Pontificio Consiglio
per la Promozione della nuova evangelizzazione, per la cui
guida Benedetto rifletté a lungo, scegliendo alla fine l’arci-
vescovo Rino Fisichella, che conosceva e stimava a motivo
di una lunga collaborazione in Congregazione. Nel 2008
il Papa lo aveva preso in considerazione anche come suo
vicario per la diocesi di Roma, dopo il cardinale Camillo
Ruini. Bertone aveva però espresso qualche dubbio in re-
lazione alla sua vicinanza alla sensibilità del predecessore.
Così si preferì il cardinale Agostino Vallini, che aveva avuto
maggiori esperienze pastorali come vescovo.
In ogni caso, Benedetto non ebbe mai intenzione di
“blindare” le nomine soltanto in favore di personalità ec-
clesiastiche totalmente in linea con la propria visione teo-
logica. Anzi esplicitò la convinzione che «temperamenti e
posizioni diverse dalla mia avrebbero dovuto trovare spazio
nel Collegio dei cardinali, nella misura in cui queste posi-
zioni restavano comunque fedeli alla Chiesa cattolica». E
di fatto ben 67 dei 115 cardinali elettori presenti nel Con-
clave 2013 erano stati nominati da lui.
D’altra parte, anche molti di quelli che vengono consi-
derati esponenti più “liberali”, per utilizzare un termine
di comprensione comune, furono promossi a ruoli impor-
tanti proprio durante il suo pontificato. Qualche esempio

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soltanto: Mario Grech (vescovo di Gozo, 2005), Cláudio
Hummes (prefetto della Congregazione per il Clero, 2006),
Odilo Pedro Scherer (arcivescovo di San Paolo, 2007),
Reinhard Marx (arcivescovo di Monaco e Frisinga, 2007),
Joseph William Tobin (segretario della Congregazione per
gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica,
2010), João Braz de Aviz (prefetto della Congregazione per
gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica,
2011), Jean-Claude Hollerich (arcivescovo di Lussemburgo,
2011), Luis Antonio Tagle (arcivescovo di Manila, 2011),
Matteo Maria Zuppi (vescovo ausiliare di Roma, 2012).
Papa Ratzinger si era interrogato, sin dai primi giorni
dopo l’elezione, se avrebbe dovuto in qualche modo por-
tare avanti alcune tradizioni ormai consuetudinarie sotto
Giovanni Paolo II, come la partecipazione di fedeli alla
Messa del mattino nella cappella privata, la presenza di
ospiti al tavolo della colazione e degli altri pasti, l’invito
a pranzo ai parroci prima delle visite nelle parrocchie ro-
mane, e così via. La sua risposta fu che lui e Wojtyła ave-
vano uno stile e una psicologia, ma anche un’età, diversi:
perciò ritenne più opportuno evitare di aprire una porta
che poi pian piano avrebbe dovuto gradualmente socchiu-
dere, limitandosi invece a fare soltanto ciò che poteva ri-
manere stabile.
Per Ratzinger i pranzi di lavoro erano una fatica, come si
è evidenziato durante il suo pontificato, quando venivano
organizzati soltanto in occasioni particolari. Una delle ec-
cezioni a lui gradite era al ritorno da un viaggio apostolico,
quando il pranzo rappresentava l’opportunità per ricevere
un feedback da alcuni dei principali collaboratori. In genere,
oltre a qualche invitato occasionale, c’erano l’assessore per
gli Affari generali della Segreteria di Stato, Gabriele Gior-
dano Caccia fino a metà 2009 e poi Peter Bryan Wells; i di-
rettori dell’«Osservatore Romano», Giovanni Maria Vian,

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e della Sala stampa, padre Federico Lombardi; il responsa-
bile dell’organizzazione Alberto Gasbarri (che Benedetto
XVI definiva affettuosamente Reisemarschall, cioè “mare-
sciallo di viaggio”).
Li consideravamo gli incontri della “critica di manovra”,
poiché ciascuno doveva esprimere una valutazione di ciò
che era andato bene o che invece doveva essere miglio-
rato nei successivi viaggi. Io ho imparato molto da questi
incontri, perché potevo vedere un significativo confronto
di esperienze, da cui alla fine emergeva un qualificato giu-
dizio realmente utile per il futuro. E si finiva sempre per
raccontare ciascuno qualche aneddoto o curiosità che con-
sentiva di salutarci con un sorriso.

La scelta del “numero due”

Certamente, fra tutte le nomine del pontificato, la più


discussa e problematica fu quella del segretario di Stato
Tarcisio Bertone, sia per le sue caratteristiche personali ed
ecclesiali, sia per il modo concreto con il quale esercitò il
suo ministero. Perciò è opportuno approfondire adegua-
tamente la questione, in modo da rendere chiari la moti-
vazione, il contesto e l’obiettivo di tale scelta.
Il dato di fondo da cui occorre partire è a mio parere
sintetizzato nella “confessione” che Benedetto fece du-
rante l’incontro con i sacerdoti e i diaconi permanenti della
Baviera svolto a Frisinga il 14 settembre 2006, proprio il
giorno precedente l’entrata in carica di Bertone: «Quante
cose dovrebbero essere fatte, vedo che non ne sono capace.
Ciò vale anche per il Papa: egli dovrebbe fare tante cose!
E le mie forze semplicemente non bastano. Così devo im-
parare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei
collaboratori. […] E avere poi la fiducia: Egli mi donerà

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anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello
che io non riesco a fare».
Perciò, prima di accogliere la rinuncia del cardinale
Angelo Sodano per raggiunti limiti di età, rifletté bene e si
convinse che il suo successore avrebbe dovuto rispondere
a due requisiti: innanzitutto, possedere sia capacità pasto-
rali, sia conoscenze diplomatiche; allo stesso tempo essere
dotato di qualità umane che facilitassero una totale sintonia
nella condivisione quotidiana del lavoro. Così, dopo più di
un anno di pontificato, il 22 giugno 2006 venne resa nota la
nomina di Bertone, che, sebbene preceduta da numerose
indiscrezioni giornalistiche, suscitò comunque stupore.
In realtà, il suo curriculum appariva adeguato alle neces-
sità. Negli anni romani, aveva diretto la facoltà di Diritto
canonico della Pontificia università salesiana, insegnando
anche Diritto pubblico ecclesiastico e Diritto internazio-
nale, materie molto affini alle questioni della diplomazia
vaticana; inoltre era stato docente di Diritto dei minori e
di Legislazione e organizzazione catechistica e di pastorale
giovanile, tematiche di stretta attualità in quel momento
storico della Chiesa. Come segretario alla Dottrina della
fede aveva poi tenuto costanti rapporti telefonici ed epi-
stolari con i nunzi, che incontrava regolarmente nei perio-
dici appuntamenti in Congregazione.
L’aspetto più personale era invece perfettamente messo
a punto grazie all’ultradecennale collaborazione alla Dot-
trina della fede, dove Bertone, che già dal 1984 era apprez-
zato consultore della Congregazione (per esempio, nel 1988
aveva fatto parte del gruppo di periti che affiancò Ratzin-
ger nelle trattative per la riconciliazione con monsignor
Marcel Lefebvre, il fondatore della Fraternità sacerdotale
San Pio X, sospeso da Papa Paolo VI nel 1976 dall’eser-
cizio del ministero sacerdotale per aver disobbedito alla
proibizione di ordinare nuovi sacerdoti), era stato nomi-

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nato arcivescovo segretario il 13 giugno 1995, anche die-
tro suggerimento del capufficio della sezione disciplinare
Gianfranco Girotti.
Quando il cardinale Dionigi Tettamanzi fu trasferito
da Giovanni Paolo II a Milano e si rese vacante la diocesi
genovese, anche in Congregazione si vociferava, con un
modo di dire popolare, che Bertone aveva “aperto la fine-
stra per udire la chiamata”, per significare che si era pre-
sentato come candidato idoneo. Lo stesso Ratzinger com-
mentò ironicamente: «Si è liberata una sede cardinalizia.
Ci saranno candidati!», facendo capire che nel ristretto
elenco era ben presente Bertone, il quale effettivamente il
10 dicembre 2002 venne nominato arcivescovo di Genova
e il 21 ottobre 2003 fu creato cardinale. In effetti si trattò
di un caso eccezionale, poiché fino a quel momento tutti i
superiori della Dottrina della fede divenuti cardinali erano
rimasti nell’ambito della Curia romana.
Per di più, con un Papa tedesco e numerosi prefetti di
Congregazione stranieri, Benedetto riteneva opportuno
che il segretario di Stato fosse un italiano (Angelo Scola,
che qualcuno aveva suggerito, il Papa lo vedeva piuttosto
come possibile presidente della Conferenza episcopale
italiana). E Bertone, subito dopo il Conclave, cominciò a
frequentare periodicamente l’Appartamento, avvalendosi
del preesistente rapporto di confidenza che gli permetteva
di salire riservatamente, senza dare nell’occhio, tramite l’a-
scensore Sisto V, suggerendo al Papa opinioni riguardo ad
alcune vicende della Curia e facendogli comprendere che
poteva contare su di lui.
Ricordo che sin da maggio del 2005 alcune persone au-
torevoli, per esempio il cardinale Schönborn e il vescovo
Boccardo, raccontavano in Vaticano che Bertone andava
dicendo in giro con convinzione che sarebbe diventato se-
gretario di Stato. Bisogna comunque precisare che la sua

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nomina non rappresentò una novità assoluta: anche il car-
dinale francese Jean-Marie Villot, segretario di Stato dal
1969 al 1979 (con Paolo VI e nel primo anno di pontificato
di Giovanni Paolo II), era stato ausiliare a Parigi e arcive-
scovo di Lione, prima di giungere in Vaticano.
Il passaggio di consegne non fu indolore. Sodano non
vedeva bene che a sostituirlo fosse un cardinale che non
proveniva dalla carriera diplomatica ed espresse i propri
dubbi a Benedetto. Quando, poco prima dell’estate, si rese
conto che la decisione era ormai definitiva, chiese di poter
restare fino al viaggio in Baviera, previsto dal 9 al 14 set-
tembre 2006; nel contempo Bertone confidava che la no-
mina fosse ufficializzata al più presto.
Il Papa cominciò a dormire male per la tensione che av-
vertiva, cosicché si giunse a un accordo intermedio: l’annun-
cio sarebbe stato fatto il 22 giugno, con l’entrata effettiva
in carica spostata al 15 settembre, in modo da contempe-
rare le rispettive sollecitazioni. E poi ci si dovette adat-
tare a qualche strascico, con la prolungata occupazione
dell’appartamento di rappresentanza alla Prima loggia da
parte di Sodano, costringendo Bertone ad alloggiare per
un po’ nella torre di San Giovanni, e le fastidiose opere di
ristrutturazione volute dal nuovo segretario di Stato, che
per qualche tempo crearono un rumore di fondo poco gra-
devole per le udienze nella Seconda loggia.

Fra lo ior e la sanità cattolica

Col senno di poi, un errore di valutazione compiuto da


Bertone fu quello di prendere sin dagli inizi troppi impe-
gni esterni, con viaggi che lo distoglievano dal compito
essenziale di presiedere il lavoro della Segreteria di Stato,
con la cura delle attività riguardanti il servizio quotidiano

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del Sommo Pontefice e il disbrigo degli affari che devono
essere trattati con i Governi nell’azione diplomatica della
Santa Sede.
A causa di ciò, una lamentela nella sezione italiana della
Segreteria di Stato era che lavoravano più per le conferenze
del segretario che per i discorsi del Papa. Sodano era un
timoniere e lavorava molte ore ogni giorno inchiodato alla
scrivania, mentre l’assenza di Bertone comportava l’accu-
mulo delle decisioni da prendere, cosicché la macchina
ne fu rallentata. Dopo un po’, anche Benedetto se ne rese
conto e gli chiese di diminuire quelle uscite. Ricordo che
una volta commentò con un mesto sorriso: «Quando Ber-
tone era arcivescovo a Vercelli e a Genova stava spesso a
Roma, da segretario di Stato è spesso fuori sede…».
Di fatto, non svelo alcunché di segreto ricordando che fra
i più duri documenti resi noti durante il Vatileaks c’erano
proprio quelli con le contestazioni a Bertone provenienti
dall’interno del mondo ecclesiastico e inviati direttamente
a Papa Ratzinger: da Paolo Sardi (il 5 febbraio 2009, co-
munica che «da un mese il lavoro è fermo. In compenso si
muove il cardinale segretario di Stato: a parte gli sposta-
menti in Italia, giorni fa è andato in Messico, al presente è
in Spagna, e già si appresta ad andare in Polonia»), a Dino
Boffo (il 6 gennaio 2010, riferendosi alla divulgazione di un
falso documento sul proprio conto attribuita al direttore
dell’«Osservatore Romano» Giovanni Maria Vian, scrive
che «quest’ultimo forse poteva contare, come già in altri
frangenti, di interpretare la mens del suo superiore»); da
Dionigi Tettamanzi (il 28 marzo 2011, dopo aver ricevuto
da Bertone indicazioni riguardanti l’Università Cattolica
attribuite al Papa, esprime «motivi di profonda perples-
sità rispetto all’ultima missiva e a quanto viene attribuito
direttamente alla sua persona»), fino alla lettera anonima
dell’estate 2011 (nella quale si lanciano velate minacce

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contro il porporato, accusandolo di non saper decidere e
di scegliere i collaboratori soltanto sulla base delle perso-
nali simpatie).
Per di più, in quegli anni si andarono accavallando pro-
blematiche di diversa natura, e non sempre Benedetto ve-
niva messo nelle condizioni migliori per prendere una de-
cisione oculata. Per esempio, ai tempi di Sodano venivano
indicate, su ogni progetto che doveva ricevere una risposta,
le opinioni del segretario di Stato e dei suoi due vice, in
modo che il Papa potesse avere un quadro completo. Con
Bertone questa dettagliata valutazione previa si attenuò, li-
mitandosi a una succinta opinione positiva o negativa, che
poi eventualmente veniva approfondita a voce nell’udienza
di tabella del lunedì.
In particolare, due questioni spinose furono la gestione
dell’Istituto per le opere di religione e il progetto di un
polo sanitario cattolico, in cui il cardinale Bertone ebbe
un ampio coinvolgimento e, soprattutto per quest’ultima
iniziativa, probabilmente mostrò un eccesso di ambizione.
La condizione degli ospedali in qualche modo collegati alla
Santa Sede era troppo precaria per poterci fare carico della
ristrutturazione dei bilanci e della riorganizzazione opera-
tiva. I tentativi ci furono e le analisi vennero condotte con
molta cura, ma alla fine si preferì desistere.
Quando nel settembre del 2009 si trattò di sostituire An-
gelo Caloia, dopo ben vent’anni di presidenza dello ior,
fu proprio Bertone a suggerire il nome di Ettore Gotti Te-
deschi, che nei mesi precedenti era stato consulente nella
gestione finanziaria del Governatorato della Città del Va-
ticano e aveva dato un contributo per l’enciclica Caritas in
veritate sulla dottrina sociale della Chiesa. Ma con il passar
del tempo il rapporto di Gotti Tedeschi con il Consiglio
di sovrintendenza si logorò, fino a giungere alla sfiducia,
il 24 maggio 2012, con la rimozione dalla carica di presi-

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dente «per non avere svolto varie funzioni di primaria im-
portanza per il suo ufficio».
Benedetto non ne venne a conoscenza a cose fatte, come
qualche giornalista riferì. Il segretario di Stato gli aveva il-
lustrato l’intera questione durante una udienza di tabella
e il Papa aveva esplicitamente approvato. Forse l’equivoco
sorse per una errata interpretazione di una frase in una mia
intervista al «Messaggero», dove parlavo della sorpresa del
Papa per l’atto di sfiducia al professore, ma intendendo che
era dovuta alla rapida, e in qualche modo inattesa, evolu-
zione delle divergenze d’opinione in seno al board dello ior.
Successive dichiarazioni di Gotti Tedeschi, invece che ten-
tare di rasserenare gli animi, contribuirono a intensificare
la polemica, cosicché Benedetto preferì evitare ulteriori
contatti: perciò non risponde a verità l’indiscrezione che
fosse programmato un “gesto di riparazione”, con un in-
contro negli ultimi tempi del suo pontificato.
Con il trascorrere degli anni, un’ulteriore critica fu l’ac-
centramento del potere che si verificò nelle mani di Ber-
tone, il quale riuscì a farsi nominare nel 2007 camerlengo
di Santa Romana Chiesa (ruolo importante nel passaggio
da un pontificato a un altro) e nel 2008 presidente della
Commissione cardinalizia di vigilanza dello ior (che fra
l’altro nomina i vertici dell’Istituto).
Nel tentativo di placare le rimostranze che mi giungevano
da più parti, ricordo che una volta ne parlai con il cardi-
nale Raffaele Farina, suo amico da una vita soprattutto per
i comuni trascorsi alla Pontificia università salesiana, chie-
dendogli di farsi carico, insieme con i confratelli Angelo
Amato ed Enrico dal Covolo, di spiegare al segretario di
Stato che doveva comportarsi con più cautela, e lui mi ri-
spose: «Bertone fa ciò che vuole e non riusciamo più nem-
meno noi a farci ascoltare perché ha perso le proporzioni».
Alla fine, credo che lo stesso cardinale si sia reso conto

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di tutto, come testimoniato dalle parole che pronunciò a
Siracusa il 1° settembre 2013, all’indomani della nomina
ufficiale da parte di Papa Francesco del suo successore
Pietro Parolin: «Certamente ho avuto i miei difetti, se do-
vessi ripensare adesso a certi momenti agirei diversamente.
Però questo non vuol dire che non si sia cercato di servire
la Chiesa».

L’insospettabile tradimento

In quell’orizzonte contrastato del 2011-2012 si inserì la


fuga di documenti riservati che rappresentò una delle pa-
gine più nere per la nostra famiglia pontificia. Di fatto, la
sensazione che conservo ancora oggi dentro di me è quella
di essermi trovato nei panni di un padre che non si accorge
che il figlio ruba i gioielli della mamma e che, anche quando
il furto viene alla luce, non riesce a nutrire alcun sospetto
su di lui… Tuttora, se ripenso ai protagonisti di quella tri-
ste vicenda, non riesco a staccare da un angolino del cer-
vello l’idea che si sentissero in buona fede. Ma la quantità
di azioni negative che furono messe in atto fu indubbia-
mente qualcosa che si approssima al diabolico.
Agli inizi, dopo che il 25 gennaio 2012 la trasmissione
Gli intoccabili su La7 aveva reso note alcune lettere dell’ar-
civescovo Carlo Maria Viganò relative al suo trasferimento
dal Vaticano alla nunziatura della Santa Sede negli Stati
Uniti, era sembrato trattarsi unicamente dello spiacevole
esito di screzi connessi a promozioni e rimozioni in alcuni
ruoli di vertice della Curia romana. Ma la cosa si complicò
quando sul quotidiano «Il Fatto» venne pubblicato un testo
che il cardinale colombiano Darío Castrillón Hoyos aveva
consegnato, il 30 dicembre 2011, in Segreteria di Stato per
informare di presunte indiscrezioni attribuite da impren-

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ditori tedeschi al cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di
Palermo, durante un viaggio in Cina da lui compiuto nel
novembre precedente.
Secondo quelle anonime fonti, Romeo aveva fornito ai
suoi interlocutori cinesi quattro informazioni: per le que-
stioni più importanti, Benedetto consultava lui e il cardi-
nale Scola; il rapporto del Papa con il segretario di Stato era
molto conflittuale e addirittura Benedetto odiava Bertone;
in segreto il Santo Padre si stava occupando della sua suc-
cessione e aveva già scelto il cardinale Scola come idoneo
candidato; infine, il preannuncio della morte del Pontefice
entro dodici mesi, probabilmente a causa di un attentato.
Una rapida consultazione portò alla secca dichiarazione di
padre Federico Lombardi: «Una cosa talmente fuori dalla
realtà e poco seria che non voglio nemmeno prenderla in
considerazione».
Su indicazione di Benedetto, incontrai sia Castrillón
sia Romeo, e la mia netta impressione fu che il cardinale
colombiano avesse ingenuamente dato credito a persone
poco autorevoli, motivate da oscuri interessi. Romeo pre-
cisò che ovviamente aveva avvertito la Segreteria di Stato
del suo viaggio privato: in precedenza era stato nunzio e
sapeva bene come comportarsi. La valutazione conclu-
siva fu che il cardinale palermitano era stato coinvolto
soltanto perché in quel periodo era la più alta personalità
ecclesiastica giunta in Cina, e nessuno di noi ebbe il mi-
nimo dubbio che le dichiarazioni a lui attribuite fossero
una totale fandonia.
Il vero “colpo di scena” fu l’intervista del 22 febbraio
2012, sempre su Gli intoccabili, dove il cosiddetto “corvo”
spiegava di far parte di un gruppo di dipendenti che vole-
vano far emergere la verità su vicende oscure e scandalose.
Ascoltando quella voce modificata elettronicamente, non
riconobbi inflessioni a me familiari, per cui pensai che si

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trattasse di una persona che non conoscevo, se non addirit-
tura di un attore che aveva interpretato una testimonianza
verosimile. Ma certamente rappresentava il preannuncio di
ulteriori rivelazioni, come veniva chiaramente fatto com-
prendere nel corso di quella trasmissione.
Sin dagli inizi della vicenda, la Gendarmeria pontifi-
cia aveva iniziato a indagare: il 3 febbraio il comandante
Domenico Giani inviò una informativa al promotore di
giustizia Picardi e dopo tre giorni venne formalizzata la
prima denuncia contro ignoti. Ma la fuoruscita degli ulte-
riori documenti spinse Benedetto a costituire, il 24 aprile,
una Commissione cardinalizia che, «in forza del mandato
pontificio a tutti i livelli» (come fu esplicitamente preci-
sato), potesse interrogare riservatamente chiunque venisse
ritenuto in grado di offrire tasselli per il raggiungimento
della verità.
Era composta da tre autorevoli cardinali, tutti ultraot-
tantenni e dunque in grado di operare senza “conflitti di
interessi”: Julián Herranz, esperto di Diritto canonico, Jo-
zef Tomko, ottimo conoscitore della Curia romana, e Sal-
vatore De Giorgi, più esterno all’ambito vaticano. Come
segretario fu scelto il francescano Luigi Martignani, della
Segreteria di Stato. Bertone aveva provato a suggerire
che la Commissione riferisse a lui, ma Benedetto decise
invece che il rapporto fosse diretto, sorpassando il segre-
tario di Stato.
Fu soltanto la pubblicazione, il 19 maggio seguente, del
libro Sua Santità, firmato dal giornalista Gianluigi Nuzzi, a
segnare la definitiva svolta. Appena sfogliai quel volume,
mi resi conto che alcuni dei documenti citati, e addirittura
fotografati, non erano passati per altri uffici vaticani se non
il mio. Li avevo mostrati al Papa, che vi aveva apposto la
sua sigla e indicato come procedere, e li avevo conservati
sullo scaffale alle spalle del mio tavolo di lavoro.

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A quel punto feci mente locale su come si svolgesse il
nostro lavoro nella stanza della segreteria situata di fianco
allo studio del Papa e visualizzai che sostanzialmente, oltre
al secondo segretario Xuereb e all’aiutante Gabriele, non
vi entrava nessuno. Comunque, per affrontare di petto la
situazione, in accordo con Benedetto XVI, convocai per
la mattinata del 21 loro due, insieme con le quattro Me-
mores e anche suor Birgit. Chiesi a ciascuno se fosse stato
lui a consegnare quei documenti, e tutti negarono con fer-
mezza. A quel punto fui molto duro e, rivolgendomi di-
rettamente a Paolo, lo accusai del furto, approfittando del
fatto che nella stanza aveva una scrivania con un computer
per lavori di archiviazione. Quando al mattino arrivava la
borsa dalla Segreteria di Stato, io smistavo il contenuto e
sottoponevo al Papa la documentazione da valutare per-
sonalmente; lui leggeva, annotava qualche appunto e tal-
volta domandava chiarimenti, e alla fine mi restituiva tutto
con il suo responso. Documenti e lettere rimanevano in un
posto riservato del mio ufficio, nel tempo in cui accompa-
gnavo Benedetto alla Seconda loggia per le udienze, fino
a quando, prima di pranzo, un addetto della Segreteria di
Stato veniva a riprendere la borsa con il materiale visionato.
Paolo veniva con noi, ma poi spesso risaliva per sbri-
gare i suoi compiti. Avendo la chiave dell’ascensore Sisto
V poteva salire e scendere senza dare nell’occhio e, poiché
nel frattempo anche Xuereb si muoveva, lui poteva restare
spesso solo. Pensandoci in seguito, mi sono reso conto che,
dopo il pranzo, costantemente rientrava in ufficio e se ne
andava verso le 15 (in genere, arrivava intorno alle 7 per
la Messa), dando l’impressione che dovesse recuperare
lavoro arretrato, cosicché aveva tempo disponibile per le
sue “cose”.
Perciò non avevo dubbi nell’incolparlo, contestandogli
che almeno due lettere pubblicate nel volume – relative alle

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donazioni di un giornalista e di un banchiere in favore della
carità del Papa – certamente le aveva avute soltanto lui per
le mani, in quanto erano arrivate direttamente a me e non
erano mai uscite dall’ufficio; per di più, gli avevo chiesto
personalmente di fare la fotocopia e di abbozzare una ri-
sposta di ringraziamento. Ma lui ebbe la prontezza di ne-
gare assolutamente il fatto, addirittura facendo l’offeso e
chiedendomi come fossero nati in me tali sospetti.
Dopo il pranzo, entrai in cappella e non mi aspettavo
di trovarlo lì. Lo avvicinai e gli chiesi di dirmi la verità su
cosa avesse combinato. Fu quello il momento in cui co-
minciò ad ammettere di aver incontrato Nuzzi e di aver-
gli consegnato qualche documento. Io restai scioccato da
questa rivelazione. In seguito ho saputo che subito dopo
si recò da monsignor Harvey per raccontargli cosa era ac-
caduto, forse nella folle speranza di ricevere un sostegno,
lasciando anche lui senza parole.
Quello che ancora oggi mi sconcerta, quando ci ripenso,
è l’atteggiamento che Paolo mostrò quando gli comunicai
la sospensione cautelare dal lavoro, in attesa che si chia-
risse la situazione. Lui sostenne che si stava soltanto indi-
viduando un capro espiatorio e, con freddezza, affermò di
sentirsi sereno e a posto con la coscienza, avendo avuto un
colloquio con il suo padre spirituale, don Giovanni Luzi.
Effettivamente, pur permanendo qualche ombra in re-
lazione al segreto confessionale, durante il processo si evi-
denziò che il sacerdote aveva ricevuto da Gabriele della
documentazione, che dichiarò di aver bruciato dopo es-
sersi reso conto della provenienza illegittima e disonesta.
Ma soprattutto emerse che il sacerdote gli aveva dato la
«censurabile indicazione», come la definirono con un eu-
femismo i giudici vaticani, di «attendere le circostanze e,
salvo che fosse stato il Santo Padre a chiedermelo di per-
sona, di non affermare ancora questa mia responsabilità».

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Un insieme di miserie umane

Nel frattempo, le indagini della Gendarmeria avevano


puntato su Gabriele, anche attivando discretamente una te-
lecamera puntata sull’ingresso della sua abitazione a pochi
passi da Porta Sant’Anna, in modo da verificare eventuali
tentativi di portar via materiali compromettenti. Il 22 maggio
fu una giornata di sospensione, nella quale Giani e i suoi ra-
gionarono su come comportarsi, e alla fine chiesero e otten-
nero la perquisizione che il 23 venne svolta sia in Vaticano
che a Castel Gandolfo, dove venne trovata una vasta docu-
mentazione, in originale e in fotocopia, di cui una significa-
tiva parte era tratta da internet in relazione a questioni mas-
soniche e di intelligence, con il conseguente arresto di Paolo.
La conferma dei sospetti fu un duro colpo anche per Be-
nedetto, che sotto l’aspetto affettivo lo considerava quasi
come un figlio, come per noi membri della famiglia ponti-
ficia era praticamente un fratello, oltre che un collega nel
lavoro quotidiano. Il Papa volle confidare a cuore aperto i
propri sentimenti durante l’udienza generale del 30 maggio:
«Gli avvenimenti successi in questi giorni, circa la Curia e
i miei collaboratori, hanno recato tristezza nel mio cuore,
ma non si è mai offuscata la ferma certezza che, nonostante
la debolezza dell’uomo, le difficoltà e le prove, la Chiesa
è guidata dallo Spirito Santo e il Signore mai le farà man-
care il suo aiuto per sostenerla nel suo cammino. Si sono
moltiplicate, tuttavia, illazioni, amplificate da alcuni mezzi
di comunicazione, del tutto gratuite e che sono andate ben
oltre i fatti, offrendo un’immagine della Santa Sede che non
risponde alla realtà. Desidero, per questo, rinnovare la mia
fiducia e il mio incoraggiamento ai miei più stretti collabo-
ratori e a tutti coloro che, quotidianamente, con fedeltà,
spirito di sacrificio e nel silenzio, mi aiutano nell’adempi-
mento del mio Ministero».

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Nei giorni precedenti, essendo di fatto il superiore di-
retto di Gabriele, avevo offerto le mie dimissioni a Bene-
detto, chiedendogli di assegnarmi un altro incarico esterno
alla Casa pontificia, ma lui mi rispose semplicemente che
non se ne parlava. E ancor più mi espresse la sua solida-
rietà agli inizi di giugno, quando il quotidiano «la Repub-
blica» mostrò due documenti resi illeggibili, ma dove era
visibile la mia firma in calce. L’anonimo mittente dichia-
rava: «Non pubblichiamo in modo integrale per non of-
fendere la persona del Santo Padre, già molto provata dai
suoi inetti collaboratori. Per correttezza ci riserviamo di
pubblicare i testi integrali nel caso ci si ostini a nascondere
la verità dei fatti».
Come mostrato dai fatti successivi, questa minaccia non
ha mai avuto sviluppi, anche perché l’unico documento che
avevo potuto verificare, che portava la data del 19 febbraio
2009, era semplicemente una comunicazione alla Segrete-
ria di Stato relativa a impegni di lavoro. Perciò mi convinsi
che quei fogli fossero stati appositamente “sbianchettati”
per far pensare a chissà quali segreti, mentre si trattava di
banalità.
Ma la cosa più assurda, connessa alla richiesta «cacciate
dal Vaticano i veri responsabili di questo scandalo: mons.
Gänswein e il card. Bertone», era l’accusa che dal mio ar-
chivio privato «fuoriescono di continuo innumerevoli do-
cumenti riservati a favore del segretario di Stato cardinale
Tarcisio Bertone». Ovviamente, per il suo ruolo di vertice,
Bertone non aveva alcun bisogno di me per conoscere il
contenuto di documenti che normalmente passavano prima
in Segreteria di Stato, o che altrimenti il Papa stesso gli sot-
toponeva nelle udienze di tabella.
Il 26 luglio 2012 si svolse un incontro a Castel Gandolfo,
nel quale la Commissione cardinalizia fece a Benedetto un
resoconto a voce sui risultati provvisori dell’inchiesta. In

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sostanza era emerso che c’erano state alcune persone che,
per vari interessi particolari, avevano avuto contatti con
Paolo e in qualche modo lo avevano sostenuto nella deci-
sione di divulgare documenti, instillandogli quei dubbi che
lo condussero a scelte dannose, senza però che ci fosse alle
spalle un vero e proprio complotto.
In particolare, ci si rese conto di quanto intensi fossero
stati i contatti di Paolo con Ingrid Stampa, anche perché
abitavano nel medesimo edificio. Forse, non so dire quanto
consapevolmente, si influenzò Gabriele approfittando del
suo carattere, che lo psichiatra Roberto Tatarelli definì
«contraddistinto da marcati elementi di tipo persecutorio»,
e che «più volte fa riferimento a complotti e macchinazioni
a favore e/o danno di personaggi di rilievo sia laici sia, più
frequentemente, prelati».
Il 6 ottobre 2012 il Tribunale vaticano condannò Pa-
olo Gabriele a tre anni di reclusione, ridotti a uno e mezzo
per una serie di attenuanti, «per aver operato, con abuso
della fiducia derivante dalle relazioni di ufficio connesse
alla sua prestazione d’opera, la sottrazione di cose che in
ragione di tali relazioni erano lasciate o esposte alla fede
dello stesso».
Nonostante per Benedetto fosse stata umanamente una
grande delusione, soprattutto perché Paolo aveva avuto
costantemente la possibilità di parlargli personalmente e
chiarirsi qualsiasi dubbio, la decisione di condonargli la
pena venne presa ancor prima che lui chiedesse formal-
mente la grazia, mediante una lettera a inizio settembre
nella quale riconosceva il proprio errore e implorava al
Papa perdono per aver tradito la sua fiducia. Benedetto
rispose personalmente, inviandogli un libro dei Salmi con
la propria benedizione apostolica vergata sul frontespizio
del volume.
Per rendere pubblicamente nota la concessione della

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grazia, si ritenne però opportuno attendere un momento
spiritualmente significativo e venne scelto il periodo nata-
lizio. Così, il 22 dicembre successivo, accompagnai il Papa
nella caserma della Gendarmeria dove era recluso e poi li
lasciai soli. Non ho mai saputo cosa si siano detti, ma ho
visto Paolo molto provato e ho avuto la sensazione che si
fosse reso conto di quanti danni la sua improvvida inizia-
tiva avesse causato.
Ovviamente, non poteva riprendere il precedente lavoro
né continuare a risiedere in Vaticano, ma l’abbiamo aiutato
trovandogli un impiego nella nuova sede dell’ambulatorio
Bambino Gesù di San Paolo. Successivamente andò a la-
vorare nella segreteria dell’arciprete della basilica di San
Paolo fuori le mura, il cardinale Harvey.
Per diversi anni non ne ebbi notizie, finché a metà no-
vembre del 2020 mi telefonò la signora Stampa per infor-
marmi che Paolo era gravemente malato e per chiedermi se
potessi andare a trovarlo. Per essere certo che fosse oppor-
tuno, domandai alla moglie e lei mi confermò questo desi-
derio. Lo trovai molto dimagrito e affaticato, ma fu molto
contento di vedermi. Mi disse che voleva riconciliarsi in
pieno con me, parlammo confidenzialmente a quattr’occhi
e mi chiese di ricevere il Viatico; poi pregammo insieme con
la moglie e i tre figli. Qualche giorno dopo, il 24 novembre
2020, morì e io, Harvey e De Nicolò abbiamo assistito alla
Messa funebre presieduta dal cardinale Konrad Krajewski.
Successivamente non abbiamo fatto mancare qualche aiuto
alla famiglia, con la discrezione del caso.
Pochi giorni prima dell’ufficializzazione della grazia, il
17 dicembre, era stata consegnata a Papa Benedetto la re-
lazione della Commissione dei tre cardinali, che alla fine
aveva ascoltato una ventina di persone, compresi tutti noi
membri della famiglia pontificia. Le conclusioni furono
sufficientemente rasserenanti, poiché, alla fin fine, non si

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confermò alcun sospetto di una strategia di sabotaggio per
colpire il Santo Padre, il cardinale Bertone o me. Piuttosto,
emerse la miseria personale di alcuni collaboratori vaticani,
che avevano sviluppato l’idea di dover combattere qual-
cosa di non ben precisato, strumentalizzando e restando
poi strumentalizzati. Ma in sostanza, come fu detto nel co-
municato dopo l’ultimo incontro del 25 febbraio 2013 con
Benedetto XVI, la Commissione rilevò «accanto a limiti e
imperfezioni propri della componente umana di ogni isti-
tuzione, la generosità, rettitudine e dedizione di quanti la-
vorano nella Santa Sede a servizio della missione affidata
da Cristo al Romano Pontefice».
Il 23 marzo 2013, durante il primo incontro del Papa
emerito con il suo successore, avvenne la consegna di tutta
la documentazione, immortalata nella famosa foto con lo
scatolone bianco. Per facilitarne la consultazione, avevo
preparato un dettagliato indice, al primo punto del quale
c’era una esauriente lettera di Benedetto XVI nella quale
offriva la propria valutazione dell’accaduto. C’erano poi il
rapporto conclusivo dei tre cardinali, i verbali delle audi-
zioni con le relative cassette registrate, memorie e relazioni
presentate da alcune delle persone ascoltate.
Nelle sue osservazioni, il Papa emerito non utilizzò mai
il termine Vatileaks né avanzò proposte o suggerimenti,
lasciando al nuovo Pontefice la totale libertà di azione. Lo
confermò Papa Francesco nell’intervista con Gian Marco
Chiocci del 30 ottobre 2020: «Nel passare le consegne mi
diede una scatola grande: “Qui dentro c’è tutto, ci sono
gli atti con le situazioni più difficili, io sono arrivato fino a
qua, sono intervenuto in questa situazione, ho allontanato
queste persone e adesso… tocca a te”. Ecco, io non ho
fatto altro che raccogliere il testimone di Papa Benedetto,
ho continuato la sua opera».

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Il mistero di Emanuela

Ovviamente, nel contesto del Vatileaks, non poteva man-


care l’aggancio con la terribile vicenda del sequestro di
Emanuela Orlandi, che da decenni riemerge periodica-
mente sulla stampa, con rivelazioni più o meno attendibili
e significative. Il 22 febbraio 2012 fu la volta della divul-
gazione, nella trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, di al-
cuni stralci di una nota che mi aveva inviato padre Lom-
bardi, al tempo direttore della Sala stampa. Dalla sintesi
giornalistica, sembrava come se improvvisamente i vertici
della Santa Sede avessero concentrato una particolare at-
tenzione su un evento che risaliva a trent’anni prima, dato
che la sparizione era avvenuta il 22 giugno 1983.
In realtà, l’antefatto era decisamente più ordinario, poi-
ché si collegava all’incontro che il 9 dicembre 2011 avevo
avuto con Pietro Orlandi, che desiderava consegnarmi una
copia del suo libro Mia sorella Emanuela e voleva raggua-
gliarmi su alcuni sviluppi del caso. Mi informò anche che
aveva invitato a partecipare all’Angelus del 18 dicembre in
piazza San Pietro quanti avevano firmato la sua petizione
per sollecitare ulteriori approfondimenti delle indagini e
mi chiese di verificare la possibilità che Papa Benedetto
rivolgesse loro un saluto.
La mia conoscenza dei fatti era molto limitata, cosicché
chiesi a padre Lombardi di fornirmi una valutazione su
quanto affermato nel volume, mentre monsignor Giampiero
Gloder, della Segreteria di Stato, esaminò i dettagli della
questione. La risposta di quest’ultimo, che venne poi foto-
copiata da Paolo Gabriele e resa nota nel libro di Nuzzi, fu
che non sarebbe stato opportuno un cenno pubblico, con
una motivazione che risultò ragionevole: «Il fratello della
Orlandi sostiene fortemente che ai vari livelli vaticani ci

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sia omertà sulla questione e si nasconda qualcosa. Il fatto
che il Papa anche solo nomini il caso può dare un appog-
gio all’ipotesi, quasi mostrando che il Papa “non ci vede
chiaro” su come è stata gestita la questione».
Nell’appunto di padre Lombardi, da lui redatto tra fine
dicembre 2011 e inizio gennaio 2012 (e presumibilmente
consegnato a Pietro Orlandi sempre da Gabriele, poiché si
conoscevano), era sottolineato con umana partecipazione
che «si percepisce che la tragedia della famiglia non è solo
quella di una figlia scomparsa, ma anche quella della tor-
tura prolungata di messaggi, rivendicazioni, informazioni
contraddittorie, che tengono sempre in dubbio e risve-
gliano la questione fino ai nostri giorni con presunti nuovi
elementi». Venivano quindi esaminati i diversi aspetti del
tragico evento e offerte le possibili risposte ad alcuni in-
terrogativi proposti in quel libro.
Sviluppando tali considerazioni, il 14 aprile 2012 la Sala
stampa vaticana fornì un’ampia nota, dopo che «in alcune
iniziative e interventi, che hanno avuto eco sulla stampa, è
stato avanzato il dubbio se da parte di istituzioni o perso-
nalità vaticane si sia fatto veramente tutto il possibile per
contribuire alla ricerca della verità su quanto avvenuto»,
precisando che era stato possibile «grazie ad alcune testi-
monianze particolarmente attendibili e a una rilettura della
documentazione disponibile, verificare nella sostanza con
quali criteri e atteggiamenti i responsabili vaticani proce-
dettero ad affrontare quella situazione».
Personalmente avevo espresso la mia massima disponi-
bilità e solidarietà a Pietro Orlandi, come lui stesso attestò
alla conduttrice Federica Sciarelli in quella trasmissione
della Rai, ma naturalmente le dichiarazioni di padre Lom-
bardi rappresentarono la ricostruzione più autorevole sulla
quale basare qualsiasi presa di posizione: «La sostanza della
questione è che purtroppo non si ebbe in Vaticano alcun

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elemento concreto utile per la soluzione del caso da for-
nire agli inquirenti. A quel tempo le autorità vaticane, in
base ai messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali
Agca – che, come periodo, coincisero praticamente con
l’istruttoria sull’attentato al Papa – condivisero l’opinione
prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una oscura
organizzazione criminale per inviare messaggi od operare
pressioni in rapporto alla carcerazione e agli interrogatori
dell’attentatore del Papa. Non si ebbe alcun motivo per
pensare ad altri possibili moventi del sequestro. L’attribu-
zione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso
da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane,
senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi
ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sem-
bra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione
per il non riuscire a trovare la verità».
Mi fu anche garantito che, nel corso degli anni, era stato
fatto quanto possibile per aiutare la famiglia Orlandi e di
tutte queste informazioni feci la dovuta comunicazione
a Papa Benedetto. Pure il comandante Giani consultò la
documentazione dell’epoca e concluse che non c’era stata
alcuna notizia tenuta nascosta alla magistratura italiana e
che nel frattempo non erano maturate ulteriori ipotesi ri-
guardo alle quali poter approfondire le indagini in Vaticano.
Le diverse e contrastanti piste – dalla connessione con
l’attentato a Giovanni Paolo II al tentativo di avviare uno
scambio con Ali Agca, dagli scontri fra servizi segreti
dell’Est e dell’Ovest alle vicende criminali della banda
della Magliana, dalle questioni connesse allo ior del tempo
di Marcinkus ai presunti finanziamenti al movimento po-
lacco Solidarnosc – hanno avuto ciascuna indizi a favore e
contro, senza che fossero mai raggiunte definitive prove. E
un dubbio aleggia ancora: se la sollecita e partecipata pre-
occupazione di Papa Wojtyła, che lanciò un pubblico ap-

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pello sin dall’Angelus del 3 luglio 1983, abbia avuto come
indesiderato corollario gli sporchi maneggi di criminali
privi di scrupoli, che si sono insinuati in questa tragedia
dove l’innocente vittima è stata una cittadina vaticana di
appena 15 anni (senza dimenticare la coetanea Mirella Gre-
gori, anche lei scomparsa nel nulla in quei mesi).
Da parte mia posso serenamente affermare che è total-
mente inventato quanto venne scritto dal giornalista Pino
Nicotri sul sito www.blizquotidiano.it il 13 gennaio 2015:
«Qualche mese fa i magistrati sono venuti a sapere in via
confidenziale che “durante il processo la Segreteria di Stato
e la Gendarmeria del Vaticano erano semplicemente terro-
rizzate dall’idea che Paolo Gabriele avesse fotocopiato an-
che il dossier preparato con estrema cura da Gänswein”. Il
dossier comunque non risulta tra le fotocopie consegnate
a Nuzzi e neppure tra quelle trovate nell’appartamento in
Vaticano dell’ex maggiordomo. Segno che non è stato foto-
copiato. Negli ultimi tempi però i magistrati si sono chiesti
il perché di tanta paura che ce ne fosse invece in giro una
copia. Inevitabile l’ipotesi che il dossier contenesse l’in-
tera verità su cosa è successo e per mano di chi». Molto
più semplicemente, io non ho mai compilato alcunché in
relazione al caso Orlandi, per cui questo fantomatico dos-
sier non è stato reso noto unicamente perché non esiste.
Ugualmente infondata fu la polemica innescata nel di-
cembre del 2021 dalle dichiarazioni dell’ex magistrato
Giancarlo Capaldo su un paio di incontri che aveva avuto
a gennaio del 2012, nell’ufficio di piazzale Clodio, con Do-
menico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini. I ver-
tici della Gendarmeria si erano recati da lui per affrontare
la problematica relativa alla tomba di Renatino De Pedis,
esponente della banda della Magliana, nella cripta della
basilica romana di Sant’Apollinare. Nei mesi precedenti
era stato ipotizzato che vi fosse seppellita anche Emanuela

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Orlandi, cosicché si era voluta manifestare la disponibilità
della Santa Sede per l’apertura della bara e la verifica del
contenuto, in modo da sgombrare il campo da qualsiasi
sospetto.
L’offerta di collaborazione, concordata con il cardinale
Bertone e della quale anch’io ero stato messo al corrente,
venne però evidentemente fraintesa, tant’è che l’ex magi-
strato ha impropriamente rievocato che «in quella occa-
sione, chiesi la possibilità del rinvenimento del corpo di
Emanuela Orlandi o almeno di sapere, di conoscere la sua
fine. Si mostrarono disponibili e mi dissero: “Le faremo sa-
pere”». Come ribadito più volte, questa sintetica ricostru-
zione è fuori dalla realtà, tant’è che in tempi recenti pure
l’allora procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe
Pignatone, ha precisato che all’epoca «il dottor Capaldo
non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle
sue asserite interlocuzioni con “emissari” del Vaticano»,
riferendone invece «solo dopo essere andato in pensione
(23 marzo 2017)».

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Un Magistero a tutto tondo

Un pontificato cristocentrico

Ovviamente non è possibile sintetizzare in poche pagine


un Magistero come quello di Benedetto XVI, così denso
dal punto di vista qualitativo, come ampio dal punto di
vista quantitativo. Però vorrei almeno sottolineare alcuni
punti essenziali del pontificato, che già rappresentano la
sua più significativa eredità. E il cuore decisivo, a mio pa-
rere, è stata la testimonianza cristocentrica nel suo annun-
cio e nel suo operare.
La Parola di Dio è Cristo stesso, che è e deve essere al
centro della Chiesa e della sua vita. Considerato sotto que-
sta luce, è cristiano colui che crede in Gesù Cristo e vive
un’amicizia personale con Lui. Anche e proprio per que-
sto motivo, un Papa non può precedere il Signore e voler
stabilire egli la via che Gesù stesso ha definito. Come ogni
cristiano, anzi più di chiunque altro, il Papa deve seguire
Cristo, anteponendolo alla propria persona e ai propri in-
teressi e obiettivi.
In questo permanente rimando al Salvatore e all’annun-
cio cristocentrico, si può individuare il motivo più profondo
per cui Benedetto sottrasse al logorante lavoro quotidiano
del servizio petrino il tempo e l’energia per scrivere il li-
bro in tre volumi su Gesù di Nazaret. Come Pietro a Ce-
sarea di Filippi, a nome di tutti gli apostoli, testimoniò il
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Signore «Messia, Figlio del Dio vivo», così anche Bene-
detto, come successore di Pietro, ha voluto confessare la
personale professione di fede in Cristo nell’odierna Cesa-
rea di Filippi, per convincere gli uomini della verità e della
bellezza della fede cristiana, per introdurli a un rapporto
personale con il Signore.
Nella testimonianza del Papa per Gesù Cristo si ren-
dono ancora una volta visibili il significato e la necessità
del servizio petrino nella Chiesa, cosicché il ministero pa-
pale, illuminato dalla luce della fede, appare come dono
dello Spirito Santo alla comunità ecclesiale.
Papa Ratzinger è stato fermamente convinto di dover
scrivere la trilogia su Cristo come una sintesi della propria
visione teologica incentrata sulla convinzione che il mes-
saggio salvifico di Gesù non è semplicemente una dot-
trina, bensì il concreto incontro con la sua persona, con il
Dio che si è realmente fatto uomo e che continua a essere
presente in ogni tempo. E lo ha voluto fare firmando con
il proprio nome, poiché metteva in gioco l’autorevolezza
della competenza e non l’autorità magisteriale.
La cosa per me impressionante era la capacità che mani-
festava ogni martedì, dopo una settimana di sospensione,
quando si sedeva alla scrivania e riprendeva immediata-
mente a scrivere seguendo il precedente filo del discorso,
come se avesse interrotto il lavoro appena un attimo prima.
Scherzando, gli dicevo che il suo modo di agire era come
quello di una ricamatrice, che poteva fermare in qualsiasi
momento la propria opera per poi riprenderla senza diffi-
coltà. Di fatto, il progetto è diventato una trilogia soltanto
perché Papa Ratzinger volle spezzettare l’opera in modo da
essere certo di portarne a termine almeno una parte, nella
preoccupazione che l’età e le forze non gli consentissero il
definitivo completamento.
Come egli stesso scrisse nella premessa al primo volume,

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la riflessione sul rapporto tra il Gesù della fede e il Gesù
della storia rappresentò per lui «un lungo cammino inte-
riore» nella «ricerca personale del volto del Signore». Ri-
pensandoci, mi tornano alla mente le parole che pronun-
ciò davanti al Volto Santo durante il pellegrinaggio privato
del 1° settembre 2006 nel santuario di Manoppello: «Per
“vedere Dio” bisogna conoscere Cristo e lasciarsi plasmare
dal suo Spirito che guida i credenti “alla verità tutta in-
tera”. Chi incontra Gesù, chi si lascia da Lui attrarre ed è
disposto a seguirlo sino al sacrificio della vita, sperimenta
personalmente, come Egli ha fatto sulla croce, che solo il
“chicco di grano” che cade nella terra e muore porta “molto
frutto”. Questa è la via di Cristo, la via dell’amore totale
che vince la morte».
E anche il 2 maggio 2010, nella meditazione dinanzi alla
Sacra Sindone durante la visita pastorale a Torino, sottoli-
neò che «dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata
la luce di una speranza nuova: la luce della risurrezione. Ed
ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli
occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. […]
Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo
dei dolori” – che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni
tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre
sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – promana
una solenne maestà, una signoria paradossale».
Nel secondo volume, a calamitare l’attenzione di Bene-
detto fu il tema della risurrezione del Signore, in quanto
punto decisivo del cristianesimo: «Se Gesù sia soltanto
esistito nel passato o invece esista anche nel presente, ciò
dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo inter-
rogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento
accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale. […] La
fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza
secondo cui Cristo è risorto dai morti». Per di più, se com-

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mentando l’Ultima Cena il Pontefice aveva già affermato
che «con l’Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita», qui
andò ancor più a fondo precisando che «il racconto della
risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l’incontro
con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente
la sua forma».
Insieme con la risurrezione, è la nascita verginale di Gesù
il tema più scandaloso per lo spirito moderno. Cosicché,
nel volume conclusivo della trilogia, quello sull’infanzia di
Gesù, Papa Ratzinger volle proporre una convinta dichia-
razione: «Naturalmente non si possono attribuire a Dio
cose insensate o irragionevoli o in contrasto con la sua crea-
zione. Ma qui non si tratta di qualcosa di irragionevole e di
contraddittorio, bensì proprio di qualcosa di positivo: del
potere creatore di Dio, che abbraccia tutto l’essere. Perciò
questi due punti – il parto verginale e la reale risurrezione
dal sepolcro – sono pietre di paragone per la fede. Se Dio
non ha anche potere sulla materia, allora Egli non è Dio.
Ma Egli possiede questo potere, e con il concepimento e
la risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova
creazione. Così, in quanto Creatore, è anche il nostro Re-
dentore. Per questo, il concepimento e la nascita di Gesù
dalla Vergine Maria sono un elemento fondamentale della
nostra fede e un segnale luminoso di speranza».
Di qui anche la sua ammirazione e devozione per la Ma-
donna che, nel momento dell’annuncio dell’Angelo, di-
viene Madre di Dio e della Chiesa esprimendo il suo “sì” a
Dio con «l’obbedienza libera, umile e insieme magnanima,
nella quale si realizza la decisione più elevata della libertà
umana». Per Papa Ratzinger, nell’Immacolata incontriamo
l’essenza della Chiesa in modo non deformato» e da Lei
«dobbiamo imparare a diventare noi stessi “anime eccle-
siali”, così si esprimevano i Padri, per poter anche noi, se-
condo la parola di san Paolo, presentarci “immacolati” al

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cospetto del Signore, così come Egli ci ha voluto fin dal
principio».

L’evangelico servizio petrino

Vigorosa e ferma in tutto il pontificato è stata la solle-


citazione di Benedetto XVI affinché al centro della vita
della Chiesa tornasse a esserci una realtà della quale sol-
tanto la Chiesa conserva l’identità: la Parola di Dio. Essa
di certo non risiede semplicemente in un passato lontano,
in un mero ricordo storico; piuttosto, la Parola parla “al”
e “nel” nostro presente e ci sollecita nel vissuto personale
e quotidiano.
Papa Ratzinger si dedicò alla Parola di Dio con la co-
scienza che, come disse nell’omelia della Messa per l’i-
nizio del ministero petrino, egli non si proponeva alcun
programma di governo, per lo meno non così come lo si
intende comunemente. Piuttosto, vedendo come compito
primario del proprio ministero quello di vincolare l’intera
Chiesa alla Parola di Dio e di garantirne l’obbedienza a
essa, egli era cosciente del fatto che il suo primo dovere
consisteva nel vivere lui stesso nell’obbedienza esemplare.
Poiché ha amato così tanto la Sacra Scrittura e ha gui-
dato gli uomini, con l’annuncio e la predicazione, alla co-
noscenza del Vangelo, il suo servizio petrino si è caratteriz-
zato come un pontificato in tutto e per tutto evangelico. Per
questo motivo, nell’ultima udienza generale con la quale si
congedò come vescovo di Roma, Benedetto poté confes-
sare con franchezza di essere stato accompagnato sempre
nel suo ministero di successore di Pietro dalla solida co-
scienza che «la Parola di verità del Vangelo è la forza della
Chiesa, è la sua vita».
Egli intese il pontificato secondo il significato che a

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esso attribuiva sant’Ignazio di Antiochia, il quale, nella
sua lettera ai Romani (circa nell’anno 110), indicò e visse
la Chiesa di Roma come colei che ha la «presidenza nell’a-
more», e questo nella convinzione che la presidenza nella
fede e nella sua dottrina debba essere anche e soprattutto
presidenza nell’amore; perché una fede senza amore non
sarebbe fede nel Dio biblico e la dottrina della Chiesa rag-
giunge i cuori degli uomini soltanto se conduce all’amore.
Risplende qui il motivo più profondo per cui nel Magi-
stero di Benedetto XVI verità e amore non sono termini in
contraddizione, piuttosto si esigono e si alimentano vicen-
devolmente, poiché la verità senza l’amore può diventare
brutale e l’amore senza verità può diventare banale. Papa
Benedetto ha, per questo, riassunto nella loro unità inscin-
dibile la verità della fede nell’amore di Dio per l’uomo e
nell’amore dell’uomo verso Dio e verso i suoi fratelli, po-
nendo tutto il suo pontificato al servizio dell’annuncio di
questa fede.
Di fatto, il primo Sinodo dei vescovi da lui personalmente
indetto ebbe a tema proprio “La Parola di Dio nella vita e
nella missione della Chiesa” (ottobre 2008), con l’esplicito
obiettivo di «indicare alcune linee fondamentali per una
riscoperta della divina Parola nella vita della Chiesa, sor-
gente di costante rinnovamento». E nell’esortazione apo-
stolica Verbum Domini, che sintetizzò i frutti di quel dibat-
tito, Benedetto volle una specifica sottolineatura del dovere
dei cristiani di annunciare la Parola di Dio nel mondo in
cui vivono e operano.
Quattro gli aspetti di particolare attenzione. Innanzi-
tutto, la consapevolezza che la missione della Chiesa ha
come punti di partenza e di arrivo il mistero di Dio Padre:
la sua Parola coinvolge tutti i battezzati non soltanto come
destinatari ma anche come suoi annunciatori, e la credibilità
dell’annuncio della Buona Notizia dipende dalla testimo-

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nianza della vita cristiana. In secondo luogo, l’impegno nel
mondo chiede un particolare servizio dei cristiani in favore
della riconciliazione, della giustizia e della pace tra i popoli,
con una carità operosa e creativa per alleviare le sofferenze,
sia materiali sia spirituali, di quanti sono in difficoltà.
Importante, quindi, è il ruolo della Parola di Dio nel rap-
porto con le culture, anche in ambienti secolarizzati e fra
i non credenti, poiché la Bibbia è universalmente ricono-
sciuta come un “grande codice” nel quale sono contenuti
valori antropologici e filosofici che hanno influito positi-
vamente su tutta l’umanità: di qui l’impegno per l’incultu-
razione, incrementando anche le traduzioni e la diffusione
del testo. Infine, la spinta al dialogo interreligioso, in quanto
parte essenziale dell’annuncio della Parola sono l’incontro
e la collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà,
in particolare con le persone appartenenti alle diverse tra-
dizioni religiose dell’umanità, ovviamente evitando forme
di sincretismo e di relativismo e includendo sempre un
autentico rispetto per la libertà religiosa di ogni persona.
Da quel Sinodo venne un ulteriore impulso: «Il nostro
dev’essere sempre più il tempo di un nuovo ascolto della
Parola di Dio e di una nuova evangelizzazione. Riscoprire
la centralità della divina Parola nella vita cristiana ci fa […]
continuare la missio ad gentes e intraprendere con tutte le
forze la nuova evangelizzazione». Perciò Benedetto XVI,
nel giugno del 2010, istituì un Pontificio Consiglio «con il
compito precipuo di promuovere una rinnovata evange-
lizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio
della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma
che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della
società e una sorta di “eclissi del senso di Dio”, che costi-
tuiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre
la perenne verità del Vangelo di Cristo». Come il Pontefice
affermò nella prima assemblea plenaria del dicastero, «il

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Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata
da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio
e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza
affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della
storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evange-
lizzazione vuol dire intensificare l’azione missionaria per
corrispondere pienamente al mandato del Signore».
Però mi sembra ancor più interessante e attuale ripren-
dere quanto Benedetto affermò nell’ottobre del 2012,
dando avvio al nuovo appuntamento del Sinodo dei ve-
scovi proprio sul tema “Nuova evangelizzazione e trasmis-
sione della fede cristiana”. Si trattò di una sintetica ma
acuta riflessione sul rapporto fra nuova evangelizzazione,
evangelizzazione ordinaria e missione ad gentes, «tre aspetti
dell’unica realtà di evangelizzazione che si completano e
fecondano a vicenda».
Però all’origine, chiarì, c’è sempre l’iniziativa dall’Alto:
«La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il
“fare” e il “parlare” di Dio. Se Dio non agisce, le nostre
cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può
testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste
è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio
prima ha agito, gli apostoli possono agire con Lui e con la
sua presenza e far presente quanto fa Lui. Dio ha parlato
e questo “ha parlato” è il perfetto della fede, ma è sempre
anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un pas-
sato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il
presente e il futuro».

Il ministero dell’annuncio

Già da professore e da cardinale prefetto, Ratzinger


aveva ben chiaro il compito specifico del suo ministero,

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sempre al servizio della fede e della verità. Ancor più da
Papa maturò questa consapevolezza, come dichiarò espli-
citamente a San Giovanni in Laterano il 7 maggio 2005,
durante la celebrazione di insediamento sulla Cathedra ro-
mana quale Vescovo di Roma: «La Cattedra è il simbolo
della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è
parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere confe-
rito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici». Di fatto,
come ribadirà nel marzo del 2016 in una lettera al Centro
studi di Bydgoszcz, «non ho mai voluto sviluppare una te-
ologia mia propria, ma ho voluto semplicemente servire la
fede della Chiesa e la sua comprensione nel nostro tempo».
Fu perciò una felice coincidenza che, proprio nel tempo
della sua elezione al pontificato, si concludessero i lavori
per la stesura del Compendio del Catechismo della Chiesa
cattolica, avviati nel febbraio del 2003 da Giovanni Paolo
II, il quale – a dieci anni dalla promulgazione del grande
Catechismo – ne aveva voluto anche una autorevole sintesi
che contenesse gli elementi essenziali della fede e della mo-
rale cattolica, formulati in una maniera semplice e accessi-
bile a tutti. E presentandolo, il 28 giugno 2005, Benedetto
XVI lo definì «un rinnovato annuncio del Vangelo oggi»,
esposto in forma dialogica per «riproporre un dialogo ide-
ale tra il maestro e il discepolo, mediante una sequenza in-
calzante di interrogativi, che coinvolgono il lettore invitan-
dolo a proseguire nella scoperta dei sempre nuovi aspetti
della verità della sua fede».
Un’esigenza del cuore di Papa Ratzinger fu la coltiva-
zione del dialogo con l’arte, in quanto mondo della bel-
lezza, ma anche e soprattutto egli si adoperò per portare
alla luce la bellezza della fede stessa. Perciò una partico-
lare sottolineatura la diede all’apparato iconografico pre-
sentato nel Compendio, da lui espressamente voluto per-
ché «immagine e parola s’illuminano così a vicenda. L’arte

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“parla” sempre, almeno implicitamente, del divino, della
bellezza infinita di Dio, riflessa nell’Icona per eccellenza:
Cristo Signore, Immagine del Dio invisibile. Le immagini
sacre, con la loro bellezza, sono anch’esse annuncio evan-
gelico ed esprimono lo splendore della verità cattolica,
mostrando la suprema armonia tra il buono e il bello, tra
la via veritatis e la via pulchritudinis. Mentre testimoniano
la secolare e feconda tradizione dell’arte cristiana, solleci-
tano tutti, credenti e non, alla scoperta e alla contempla-
zione del fascino inesauribile del mistero della Redenzione,
dando sempre nuovo impulso al vivace processo della sua
inculturazione nel tempo».
Sempre chiarissima in Benedetto XVI fu la convinzione
che la fede cristiana, per poter essere e rimanere una fede
umana, deve cercare costantemente il dialogo con la ra-
gione umana. Il Pontefice era profondamente convinto
che fede e ragione dipendono l’una dall’altra e soltanto
nel dialogo reciproco possono essere superate le patologie
della ragione e possono essere evitate le malattie della fede:
senza la fede, la ragione minaccia di diventare unilaterale e
unidimensionale; senza la ragione, la fede minaccia di na-
scondere la propria verità e di diventare fondamentalista.
Convinto com’era che la domanda su Dio è di vitale
significato per tutte le questioni che attengono al futuro
dell’umanità, Papa Benedetto contribuì instancabilmente a
tenere viva la questione di Dio in ogni ambito della società
moderna. Il dialogo tra fede e ragione fu essenziale per lui
soprattutto perché Dio stesso è logos e l’intera creazione
è testimone di questa ragione. Il logos non è soltanto una
ragione matematica, ma ha anche un cuore ed è amore. Da
ciò trasse la seguente conclusione: «La verità è bella, verità
e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità».
Nel contempo, nel suo Magistero non perse mai di vi-
sta la fede dei semplici. Si potrebbe anzi sostenere che lui

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era piuttosto convinto che la verità della fede, in ultima
analisi, si manifesta meglio ai cuori più umili e può essere
colta unicamente con gli occhi della fede, come egli stesso
precisò nel messaggio “Urbi et Orbi” del Natale 2010: «Se
la verità fosse solo una formula matematica, in un certo
senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore,
domanda la fede, il “sì” del nostro cuore».
Si può tranquillamente dire che tutto questo spiega il
motivo per cui l’ultima grande iniziativa del suo pontificato
fu l’indizione dell’Anno della fede, che inaugurò mentre
era ancora in carica, l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo
anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, ma che
poi “lasciò in eredità” al suo successore, stabilendo che si
sarebbe concluso il 24 novembre 2013, nella solennità di
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo.
Nella lettera di indizione Porta fidei confidò di aver ri-
cordato, sin dall’inizio del suo ministero come successore
di Pietro, «l’esigenza di riscoprire il cammino della fede
per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia
e il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo». Ma
riconobbe con grande onestà che «capita ormai non di
rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le
conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno,
continuando a pensare alla fede come un presupposto ov-
vio del vivere comune», mentre «questo presupposto non
solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre
nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale
unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti
della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più
essere così in grandi settori della società, a motivo di una
profonda crisi di fede che ha toccato molte persone».
Perciò Benedetto espresse la volontà di «delineare un
percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo
non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche

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l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in
piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto
con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso.
[…] La conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per
dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con
l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla
Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità
del mistero salvifico rivelato da Dio. L’assenso che viene
prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta li-
beramente tutto il mistero della fede, perché garante della
sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere
il suo mistero di amore».
Di conseguenza, la fede «proprio perché è atto della
libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si
crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta
evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’an-
nunciare senza timore la propria fede a ogni persona. È il
dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica
la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa. La
stessa professione della fede è un atto personale e insieme
comunitario. […] Professare con la bocca indica che la
fede implica una testimonianza e un impegno pubblici. Il
cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto pri-
vato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere
con Lui. E questo “stare con Lui” introduce alla compren-
sione delle ragioni per cui si crede».

L’amore al primo posto

La tradizione cattolica, come richiamato anche dal Ca-


techismo (n. 1813), definisce le virtù teologali – cioè quelle
che «fondano, animano e caratterizzano l’agire morale
del cristiano» e «sono infuse da Dio nell’anima dei fedeli

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per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la
vita eterna» – secondo la sequenza: fede, speranza, carità.
Quando Benedetto XVI cominciò a riflettere sulla tematica
da proporre nell’enciclica di inizio pontificato, il suo pen-
siero corse però alla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi
(13,13), dove l’“apostolo delle genti” sottolineava che «ora
dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e
la carità», aggiungendo però immediatamente: «Ma la più
grande di tutte è la carità!».
Perciò decise di partire proprio da quest’ultima virtù,
con la Deus caritas est, anche su sollecitazione dell’amico
cardinale Paul Josef Cordes, all’epoca presidente del Pon-
tificio Consiglio “Cor unum”, che da tempo aveva prepa-
rato una bozza sul tema della carità: fu questa la traccia di
lavoro sulla quale venne elaborata la seconda parte dell’en-
ciclica, mentre la prima parte fu sostanzialmente frutto del
pensiero di Papa Ratzinger. Comunque, nel suo intento ini-
ziale, non c’era quello di realizzare una trilogia sulle virtù,
ma piuttosto di affrontare via via le tematiche più signifi-
cative per un rinnovato annuncio del Vangelo nel mondo
contemporaneo.
Datata 25 dicembre 2005, fu resa nota il 25 gennaio 2006
e in quei giorni Benedetto spiegò che «la parola “amore”
oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si
teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure è una
parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi
non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo
riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore origi-
nario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla
retta via. È stata questa consapevolezza che mi ha indotto
a scegliere l’amore come tema della mia prima enciclica».
Benedetto XVI era consapevole che, a prima vista, il te-
sto poteva apparire un po’ difficile e teorico. Offrì dunque
lui stesso una schematica traccia di lettura, in una lettera

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pubblicata sul settimanale «Famiglia Cristiana»: «Ho vo-
luto rispondere a un paio di domande molto concrete per
la vita cristiana. La prima è: si può davvero amare Dio? E
ancora: l’amore può essere imposto? Non è un sentimento
che abbiamo o non abbiamo? La risposta alla prima do-
manda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non è ri-
masto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed
entra nella nostra vita. La seconda domanda è: possiamo
davvero amare il “prossimo”, che ci è estraneo o addirit-
tura antipatico? Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio, e
in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci
ha amato e ci ama, benché spesso noi distogliamo da lui
il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti.
Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i
suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell’eros,
dell’essere amati, che ci spinge all’altro e vuole diventare
unione? Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che la pro-
messa più profonda dell’eros può maturare solo quando
non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario
troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l’altro
nel profondo, nella totalità di corpo e anima, di modo che
da ultimo la felicità dell’altro diventi più importante della
mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare e
proprio in questa liberazione dall’io l’uomo trova se stesso
e diviene colmo di gioia».
Proseguiva il Pontefice: «Nella seconda parte si parla
della carità, il servizio d’amore comunitario della Chiesa
per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno
bisogno del dono dell’amore. Qui si presentano anzitutto
due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio
alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in
molti modi? La risposta è: no, la Chiesa non lo può fare.
Essa deve praticare l’amore per il prossimo anche come
comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo

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incompleto e insufficiente. La seconda domanda: non bi-
sognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia
in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità di-
venta superflua? Ecco la risposta: indubbiamente il fine
della politica è creare un giusto ordinamento della società,
in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre
di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della
politica, così come lo è la pace che non può esistere senza
giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima
persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo
ordinamento, però partecipa appassionatamente alla bat-
taglia per la giustizia. Questa, però, è solo la prima metà
della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a
me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la giu-
stizia non può mai rendere superfluo l’amore. Il mondo si
aspetta la testimonianza dell’amore cristiano che ci viene
ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio,
con questo amore brilla la luce di Dio».

Nel segno della speranza

Dopo meno di due anni (in data 30 novembre 2007),


anche la seconda enciclica Spe salvi prese spunto da un
brano di san Paolo, la Lettera ai Romani (8,24): «Nella spe-
ranza infatti siamo stati salvati». Indubbiamente questo te-
sto fu maggiormente collegato all’esperienza teologica più
profonda di Ratzinger, che nel 1977 aveva redatto il libro
Escatologia. Morte e vita eterna, l’unico manuale che riuscì
a completare nella collana “Piccola dogmatica cattolica”,
prima della nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga.
Se posso permettermi, a livello personale questa enciclica
sarebbe il testo che porterei con me nel caso del famige-
rato “naufragio sull’isola deserta”, poiché – rileggendola e

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meditandola – fa scoprire sempre dettagli nuovi e risponde
alle domande esistenziali più intense di qualsiasi donna e
uomo di ogni tempo.
Benedetto XVI chiarì immediatamente il nocciolo della
questione, spiegando che con l’opera della redenzione
compiuta da Gesù Cristo «ci è stata donata una speranza
affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il
nostro presente: il presente, anche un presente faticoso,
può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta
e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa
meta è così grande da giustificare la fatica del cammino».
Da questo, scaturiva la sua impellente domanda: «Di che
genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affer-
mazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente
perché essa c’è, noi siamo redenti? E di quale tipo di cer-
tezza si tratta?».
Papa Ratzinger andò subito al cuore di un tema che nella
società moderna viene ipocritamente accantonato perché
c’è la paura di porre la domanda e soprattutto l’incapacità di
offrire una risposta: «Il vivere e morire dell’uomo». La sua
riflessione prese spunto dal dialogo nel rito del Battesimo
fra il sacerdote e i genitori: «Che cosa chiedi alla Chiesa?»,
«La fede»; «E che cosa ti dona la fede?», «La vita eterna».
Con arguzia, proseguì: «Vogliamo noi davvero questo, vi-
vere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la
fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro
una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna,
ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per
questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere
in eterno – senza fine – appare più una condanna che un
dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più
possibile. Ma vivere sempre, senza un termine, questo, tutto
sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile».
Ed è qui che Benedetto pose una domanda fra le più

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intriganti del suo pontificato, che in un certo senso, a mio
modo di vedere, vale un intero Magistero: «Allora, che
cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro
stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda:
che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa vera-
mente “eternità”?». La risposta risulta una vera “summa”
della sua teologia: «La parola “vita eterna” cerca di dare
un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessa-
riamente è una parola insufficiente che crea confusione.
“Eterno”, infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e
questo ci fa paura; “vita” ci fa pensare alla vita da noi co-
nosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tutta-
via, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento,
cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro
non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col
nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigio-
nieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un
continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa
come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità
ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità».
Ne consegue la definitiva e confortante conclusione of-
ferta da Benedetto XVI: «Noi abbiamo bisogno delle spe-
ranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno,
ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza,
che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa
grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’uni-
verso e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non
possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un
dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della
speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede
un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni sin-
golo e l’umanità nel suo insieme».
Tenendo ben presenti ambedue le dimensioni umane,
quella materiale e quella spirituale, Benedetto XVI volle

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dedicare la terza enciclica a una tematica che ha acqui-
sito sempre più valore con il passar del tempo: lo sviluppo
umano integrale nella carità e nella verità. La Caritas in
veritate era inizialmente rivolta a commemorare nel 2007
il quarantesimo anniversario della Populorum progressio.
Ma una serie di problematiche, fra cui i venti di crisi che
colpirono l’intero ambito economico-finanziario in quegli
anni, fecero slittare i tempi di redazione, cosicché la data
formale del documento fu il 29 giugno 2009 e la presenta-
zione avvenne il successivo 7 luglio.
Per offrire un’analisi più adeguata, furono consultati
diversi economisti: oltre ai professori Stefano Zamagni ed
Ettore Gotti Tedeschi, venne coinvolto pure l’allora gover-
natore della Banca d’Italia Mario Draghi. Il collegamento
con l’enciclica sociale di Papa Montini risultò comunque
ben chiaro, grazie a tre precedenti prospettive ribadite con
forza nel nuovo testo. Innanzitutto l’idea che «il mondo
soffre per mancanza di pensiero», quindi la consapevolezza
che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Asso-
luto», infine il giudizio che «all’origine del sottosviluppo
c’è una mancanza di fraternità».
L’amore-carità nella verità, spiegò Benedetto, è «il prin-
cipio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un
principio che prende forma operativa in criteri orientativi
dell’azione morale, fra cui, in particolare, la giustizia e il
bene comune» ed è anche «una grande sfida per la Chiesa
in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione: il
rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto
tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica
delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emer-
gere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo
con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede,
è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una
valenza più umana e umanizzante».

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La crisi mondiale, sollecitò Papa Ratzinger, «ci obbliga
a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e
a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle espe-
rienze positive e a rigettare quelle negative». Soltanto così
«diventa occasione di discernimento e di nuova progettua-
lità: in questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata,
conviene affrontare le difficoltà del momento presente».
Ma il suo principale appello fu a sperimentare la stu-
pefacente esperienza del dono: «La gratuità è presente
nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute
a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica
dell’esistenza». E nel contempo, a mostrare «a livello sia
di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizio-
nali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’one-
stà e la responsabilità non possono venire trascurati o at-
tenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio
di gratuità e la logica del dono come espressione della fra-
ternità possono e devono trovare posto entro la normale
attività economica».

Secondo il cuore di Dio

L’attenzione nei riguardi delle consacrate e dei consacrati


in generale, e in modo specifico verso i sacerdoti, caratte-
rizzò numerose esortazioni e iniziative di Benedetto XVI.
In particolare, il segno più evidente del suo desiderio di ri-
centrare l’identità del presbitero, meditando sul significato
della vita ministeriale e della formazione ecclesiastica, fu
l’indizione dell’Anno sacerdotale, che volle esplicitamente
focalizzato attorno alla figura di Jean-Marie-Baptiste Vi-
anney, più noto come il “santo curato d’Ars”, nella circo-
stanza del 150° anniversario della morte.
Per Papa Ratzinger, questo umile sacerdote di un paesino

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francese con poche centinaia di fedeli – dove trascorse 44
anni di ministero senza risparmiarsi sull’altare e nel confes-
sionale, tanto da essere indicato come modello e patrono
dei parroci – rappresentava il modello dell’«innamorato di
Cristo» e il suo successo pastorale aveva alle spalle come
segreto «l’amore che nutriva per il Mistero eucaristico an-
nunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il
gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cer-
cano Dio». Nelle varie riflessioni a lui dedicate, il Ponte-
fice mise specificamente in primo piano una sua citazione:
«Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il
più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una
parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia
divina».
Perciò stabilì di iniziare l’Anno sacerdotale nella solen-
nità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il 19 giugno 2009, in
quanto giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera
per la santificazione del clero, con la conclusione nella me-
desima solennità del 2010. Come titolo scelse “Fedeltà di
Cristo, fedeltà del sacerdote”, per evidenziare che il dono
della grazia divina precede qualsiasi risposta umana e re-
alizzazione pastorale, e così, nella vita del sacerdote, an-
nuncio missionario e culto non sono mai separabili, come
non vanno mai separati identità sacramentale e missione
evangelizzatrice.
Benedetto aveva infatti maturato sempre più la con-
sapevolezza che la visione comune della vita nel mondo
moderno comprende con difficoltà il sacro, mentre l’u-
nica decisiva categoria diventa la funzionalità, cosicché «la
concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di
perdere la sua naturale considerazione, talora anche all’in-
terno della coscienza ecclesiale». Riprendendo un prece-
dente testo sul ministero e la vita del sacerdote, spiegò con
determinazione: «Non di rado, sia negli ambienti teologici,

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come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione
del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due dif-
ferenti concezioni del sacerdozio. Esistono da una parte
una concezione sociale-funzionale che definisce l’essenza
del sacerdozio con il concetto di servizio alla comunità,
nell’espletamento di una funzione; dall’altra parte, vi è la
concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non
nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però an-
corato all’essere del ministro e ritiene che questo essere è
determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la
mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento».
Il preciso intento, di conseguenza, fu quello di ribadire
che «il sacerdote è servo di Cristo, nel senso che la sua esi-
stenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un
carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per
Cristo e con Cristo al servizio degli uomini. Proprio perché
appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio
degli uomini: è ministro della loro salvezza, della loro feli-
cità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa
progressiva assunzione della volontà del Cristo, nella pre-
ghiera, nello “stare cuore a cuore” con Lui. È questa allora
la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che com-
porta la partecipazione all’offerta sacramentale dell’Euca-
ristia e la docile obbedienza alla Chiesa».
La sua puntualizzazione fu estremamente netta: «Il sa-
cerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio,
come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa
possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa
qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronun-
cia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri
peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della
nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le
parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di tran-
sustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso,

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il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così
gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo
a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non
semplicemente “ufficio”, ma sacramento: Dio si serve di
un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente
per gli uomini e di agire in loro favore».
Anche per questi motivi volle ribadire con forza l’im-
portanza e l’obbligatorietà dell’abito ecclesiastico, sottoli-
neando nella nuova edizione del Direttorio per il ministero
e la vita dei presbiteri (n. 61) che «la veste talare – anche
nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente op-
portuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici
e fa capire meglio il carattere sacro del loro ministero, ri-
cordando allo stesso presbitero che è sempre e in ogni
momento sacerdote, ordinato per servire, per insegnare,
per guidare e per santificare le anime, principalmente at-
traverso la celebrazione dei sacramenti e la predicazione
della Parola di Dio. Indossare l’abito clericale funge inoltre
da salvaguardia della povertà e della castità».

Il sacerdozio non è un “job”

Soprattutto nel dialogo con i sacerdoti il 10 giugno 2010


in piazza San Pietro e nell’omelia per la Messa del giorno
seguente, Papa Ratzinger non si tirò indietro riguardo alle
questioni più urgenti e problematiche, a cominciare dall’im-
portanza della formazione teologica: «Nel nostro tempo
dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche pro-
prio contro gli attacchi delle sette; dobbiamo essere real-
mente amici della Parola. Dobbiamo conoscere anche le
correnti del nostro tempo per poter rispondere ragionevol-
mente, per poter dare – come dice san Pietro – “ragione
della nostra fede”». Con questi obiettivi in mente, decise

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di promulgare il motu proprio Ministrorum institutio, tra-
sferendo dalla Congregazione per l’Educazione cattolica a
quella per il Clero «la promozione e il governo di tutto ciò
che riguarda la formazione, la vita e il ministero dei pre-
sbiteri e dei diaconi: dalla pastorale vocazionale e la sele-
zione dei candidati ai sacri ordini, inclusa la loro forma-
zione umana, spirituale, dottrinale e pastorale nei seminari
e negli appositi centri per i diaconi permanenti, fino alla
loro formazione permanente».
Si soffermò poi sul valore del celibato: «Può sorprendere
questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel
quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma il non
sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi:
è quindi un “no” al vincolo, un “no” alla definitività, un
avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio
il contrario: è un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in
mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo “io”,
e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia». E propose una
sfidante riflessione sulla mancanza di vocazioni: «La ten-
tazione è grande: di prendere noi stessi in mano la cosa, di
trasformare il sacerdozio in una normale professione, in un
“job” che ha le sue ore, e per il resto uno appartiene solo a
se stesso; e così rendendolo come una qualunque altra vo-
cazione. Ma è una tentazione che non risolve il problema.
Tre punti: ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vi-
vere il proprio sacerdozio in maniera tale da risultare con-
vincente; dobbiamo invitare all’iniziativa della preghiera,
ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio
con forza; dobbiamo avere il coraggio di parlare con i gio-
vani se possono pensare che Dio li chiami, perché spesso
una parola umana è necessaria per aprire l’ascolto alla vo-
cazione divina».
Non si sottrasse nemmeno a un duro giudizio sul dramma
della pedofilia nel clero, che in quei mesi esplose in diverse

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parti del mondo e in seguito innescò ulteriori aspre pole-
miche: «Era da aspettarsi che al “nemico” questo nuovo
brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe
preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio
fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio
in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio,
siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’a-
buso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come
compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene
volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistente-
mente perdono a Dio e alle persone coinvolte, mentre in-
tendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché
un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che
nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione
durante il cammino di preparazione a esso faremo tutto ciò
che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che
vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro
cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in
situazioni penose e nei pericoli della vita».
Benedetto individuò e valorizzò, fra gli importanti soste-
gni che la comunità dei fedeli può offrire ai sacerdoti per il
compimento del loro ministero, l’esercizio della maternità
spirituale di religiose e laiche, incarnata in preghiere, peni-
tenze, comunioni quotidiane e adorazioni eucaristiche per
la santificazione dei presbiteri. E mostrò apprezzamento
per quanto affermato dalla Congregazione per il Clero nella
Lettera del 2008 in occasione della Giornata mondiale di
preghiera per la santificazione sacerdotale: «Si delinea, ul-
timamente, una ulteriore forma di maternità spirituale, che
sempre ha silenziosamente accompagnato, nella storia della
Chiesa, l’eletta schiera sacerdotale: si tratta del concreto
affidamento del nostro ministero a un volto determinato, a
un’anima consacrata, che sia da Cristo chiamata e, quindi,
scelga di offrire se stessa, le necessarie sofferenze e le ine-

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vitabili fatiche della vita, per intercedere in favore della
nostra sacerdotale esistenza, vivendo, in questo modo alla
dolce presenza di Cristo. Una tale maternità, nella quale
s’incarna il volto amorevole di Maria, va domandata nella
preghiera, poiché solo Dio può suscitarla e sostenerla». E
nell’udienza generale dedicata alla figura di santa Caterina
da Siena, il 24 novembre 2010, egli stesso sottolineò che
«anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’eser-
cizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate
e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio,
rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana
verso vette sempre più elevate».

Il dialogo al servizio della pace

Con risoluta fedeltà al Concilio Vaticano II, Benedetto


XVI pose un particolare accento sui temi correlati al rap-
porto della Chiesa con il mondo contemporaneo, cioè l’e-
cumenismo, il dialogo interreligioso e la libertà religiosa.
Sebbene dopo tutti questi decenni il movimento ecume-
nico non sia riuscito a raggiungere l’unità visibile dei cri-
stiani, anzi quell’obiettivo nel frattempo sia piuttosto di-
venuto sempre meno chiaro e realizzabile, Papa Ratzinger
restò saldo sulla necessità di mantenere il dialogo dell’a-
more. Per questo motivo dedicò molto tempo a incontri
con rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali,
appuntamenti che sono stati continuamente ideati, pro-
mossi e cercati, realizzando già in questo modo un pri-
mato ecumenico.
In lui era chiarissima l’idea che «la fraternità tra i cri-
stiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno
nasce da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è
fondata sulla realtà soprannaturale dell’unico battesimo,

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che ci inserisce tutti nell’unico Corpo di Cristo. Insieme
confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo
riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gli uomini,
sottolineando la nostra comune appartenenza a Lui». E af-
fermò che «grazie a questo ecumenismo spirituale (santità
della vita, conversione del cuore, preghiere private e pub-
bliche), la comune ricerca dell’unità ha registrato in questi
decenni un grande sviluppo, che si è diversificato in molte-
plici iniziative: dalla reciproca conoscenza al contatto fra-
terno tra membri di diverse Chiese e Comunità ecclesiali,
da conversazioni sempre più amichevoli a collaborazioni
in vari campi, dal dialogo teologico alla ricerca di concrete
forme di comunione e di collaborazione».
Papa Ratzinger fu molto attento a promuovere anche
il dialogo interreligioso, in quanto «per la Chiesa il dia-
logo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno stru-
mento importante per collaborare con tutte le comunità
religiose al bene comune» ed essa «nulla rigetta di quanto
è vero e santo nelle varie religioni». Ovviamente, con la
lucidità dell’ex prefetto della Dottrina della fede, fu netto
nel chiarire che «quella indicata non è la strada del relati-
vismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, an-
nuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, ve-
rità e vita”, in cui gli uomini devono trovare la pienezza
della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso
tutte le cose»; ma ciò «non esclude il dialogo e la ricerca
comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come
recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’A-
quino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo
Spirito Santo”».
Un particolare riscontro ci fu nell’appuntamento di
Assisi dell’ottobre 2011, al quale egli invitò le Chiese cri-
stiane, le altre religioni e anche persone agnostiche, per
sensibilizzare tutti all’impegno per l’affermazione sempre

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nuova della pace nel mondo, dando insieme testimonianza
pubblica che la gemella della religione è la pace e mai la
violenza. L’occasione fu il 25° anniversario della Giornata
mondiale di preghiera per la pace, convocata nel 1986 da
Giovanni Paolo II per testimoniare come la religione sia
un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di con-
flitto. L’auspicio di Benedetto fu che il ricordo di quell’e-
sperienza potesse imporsi come «motivo di speranza per
un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano au-
tenticamente operatori di giustizia e di pace». Gettando
uno sguardo retrospettivo, si pone in questo ambito anche
il fatto che l’ultimo viaggio apostolico del suo pontificato
lo abbia condotto in Libano, dunque in Medio Oriente,
dove egli portò speranza a uomini sofferenti a causa del
terrore e si adoperò per la pace in quella regione dura-
mente provata.
Per il Pontefice, tutto ciò si poneva comunque in corre-
lazione con il dialogo interculturale, che lui poneva persino
all’inizio del rapporto fra culture e religioni, come affermò
nel dicembre del 2008 in occasione dell’Anno europeo del
dialogo interculturale: «Nel contesto odierno, in cui sem-
pre più spesso i nostri contemporanei si pongono le do-
mande essenziali sul senso della vita e sul suo valore, ap-
pare più che mai importante riflettere sulle antiche radici
dalle quali è fluita linfa abbondante nel corso dei secoli.
Il tema del dialogo interculturale e interreligioso, perciò,
emerge come una priorità per l’Unione Europea e interessa
in modo trasversale i settori della cultura e della comuni-
cazione, dell’educazione e della scienza, delle migrazioni e
delle minoranze, fino a raggiungere i settori della gioventù
e del lavoro. Una volta accolta la diversità come dato po-
sitivo, occorre fare in modo che le persone accettino non
soltanto l’esistenza della cultura dell’altro, ma desiderino
anche riceverne un arricchimento».

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Liberi di vivere la propria fede

In riferimento al rispetto della libertà religiosa, Papa


Ratzinger, oltre a molteplici iniziative riservate, si spese
pubblicamente con dichiarazioni coraggiose e inequivoca-
bili, precisando che essa «non è patrimonio esclusivo dei
credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È
elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si
può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le
libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice». Paralle-
lamente denunciò con forza, come fece per esempio a gen-
naio del 2011, che «i cristiani sono attualmente il gruppo
religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a mo-
tivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente
offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca
della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero
appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto
ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa
a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla si-
curezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un au-
tentico sviluppo umano integrale».
È poi fondamentale ricordare la poderosa lettera ai cat-
tolici della Repubblica popolare cinese, da lui scritta nel
terzo anno di pontificato, con la quale espresse «come mio
intimo e irrinunciabile dovere e come espressione del mio
amore di padre, l’urgenza di confermare nella fede i cattolici
cinesi e di favorire la loro unità con i mezzi che sono pro-
pri della Chiesa». Benedetto affermò chiaramente che «la
soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita
attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità
civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile un’arren-
devolezza alle medesime quando esse interferiscano inde-
bitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina
della Chiesa» e specificamente chiese ai governanti cinesi

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«di garantire ai cittadini cattolici il pieno esercizio della
loro fede, nel rispetto di un’autentica libertà religiosa».
Purtroppo all’epoca quel testo non trovò molta risonanza,
ma tuttora rappresenta una bella testimonianza della sua
preoccupazione di pastore che, pur definendosi volentieri
vescovo di Roma, aveva contemporaneamente sempre di
fronte agli occhi l’universalità della Chiesa cattolica.
Nella complessiva azione della Chiesa in favore della
pace, Papa Ratzinger inserì anche l’impegno per la salva-
guardia del creato, puntualizzando il vero pensiero cristiano
circa il tema ecologico: «Poiché la fede nel Creatore è una
parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e
non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il
messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il
creato e deve far valere questa responsabilità anche in pub-
blico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’ac-
qua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti.
Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se
stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia
dell’uomo, intesa nel senso giusto». Alla base, la consape-
volezza che «lo sviluppo umano integrale è strettamente
collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con
l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a
tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso
l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le gene-
razioni future».
Nessuna ambiguità, però, nella considerazione della ge-
rarchia dei valori: «Una corretta concezione del rapporto
dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la na-
tura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se
il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi a una
concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al bio-
centrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza
ontologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In

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tal modo, si viene di fatto a eliminare l’identità e il ruolo
superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica
della dignità di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, a un
nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare
dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico,
la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, a impo-
stare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della
“grammatica” che il Creatore ha inscritto nella sua opera,
affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore re-
sponsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare,
ma da cui non può nemmeno abdicare».

Tra politica e cultura

Lungo il corso del pontificato, Benedetto XVI è stato


chiamato a confrontarsi con i leader politici e culturali di
numerose nazioni e delle principali istituzioni internazio-
nali. Da tale confronto è scaturito un consistente com-
plesso di riflessioni sull’ordinamento politico e giuridico,
che tocca le problematiche fondamentali della società, del
rapporto tra fede e ragione, tra legge e diritto, tra giustizia
e libertà religiosa.
Fra i quattro discorsi che considero più rappresentativi
in questo ambito, emblematico fu quello che pronunciò
il 18 aprile 2008 dinanzi all’Assemblea generale delle Na-
zioni Unite a New York, nel quale il Pontefice valorizzò il
progetto dei diritti umani, sviluppatosi in particolare nel
secondo dopoguerra, con l’approvazione della Dichiara-
zione universale del 1948. Riassumendo i princìpi fondativi
dell’Onu – il desiderio della pace, la ricerca della giustizia,
il rispetto della dignità della persona, la cooperazione uma-
nitaria e l’assistenza – ribadì che essi «esprimono le giuste
aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali

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che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali»
e sottolineò che il rispetto dei diritti e le garanzie che ne
conseguono «servono a valutare il rapporto fra giustizia e
ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto: la pro-
mozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace
per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali,
come pure per un aumento della sicurezza».
Papa Ratzinger si coinvolse in prima persona in tale im-
pegno, confermando che «le Nazioni Unite rimangono un
luogo privilegiato nel quale la Chiesa è impegnata a portare
la propria esperienza “in umanità”, sviluppata lungo i se-
coli fra popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a dispo-
sizione di tutti i membri della comunità internazionale». E
precisò che «questa esperienza e attività, dirette a ottenere
la libertà per ogni credente, cercano inoltre di aumentare la
protezione offerta ai diritti della persona. Tali diritti sono
basati e modellati sulla natura trascendente della persona,
che permette a uomini e donne di percorrere il loro cam-
mino di fede e la loro ricerca di Dio in questo mondo. Il
riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vo-
gliamo sostenere la speranza dell’umanità in un mondo
migliore, e se vogliamo creare le condizioni per la pace, lo
sviluppo, la cooperazione e la garanzia dei diritti delle ge-
nerazioni future».
Dopo pochi mesi, nel discorso del 12 settembre 2008 al
Collège des Bernardins di Parigi, Benedetto si rivolse alle
élites culturali di una Francia oggi generalmente secolarista
e diffidente verso le religioni, per descrivere il contributo
della fede cristiana allo sviluppo della civiltà europea, al ri-
sanamento della ragione, alla rinascita di una civiltà, sepolta
sotto le rovine della devastazione della barbarie, che aveva
fatto crollare vecchi ordini e antiche sicurezze. L’esempio
da lui portato fu quello dei monaci benedettini, affascinati
e impegnati in una continua ricerca di Dio utilizzando an-

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che le scienze profane: scrittura, studio della grammatica,
biblioteca, scuola, sono tutte componenti che fanno parte
del monachesimo occidentale. Insieme con la cultura della
parola, essi espressero la cultura del lavoro, senza la quale
lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione
del mondo sono impensabili.
Ma il Papa andò più in profondità, spiegando che c’era
un preciso obiettivo di questa loro missione: «Quaerere
Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente
sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: im-
pegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, tro-
vare la Vita stessa. Dalle cose secondarie volevano passare
a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante
e affidabile». Di qui la sua sfida: «Cercare Dio e lasciarsi
trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in
tempi passati. Una cultura meramente positivista, che ri-
muovesse nel campo soggettivo come non scientifica la do-
manda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione,
la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo
dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere
che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ri-
cerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche
oggi il fondamento di ogni vera cultura».
Nella Westminster Hall di Londra, il 17 settembre 2010,
Benedetto si trovò a parlare nel Parlamento più antico fra
quelli delle democrazie occidentali. Risuonano tuttora con
limpidezza le parole di vivo apprezzamento per la tradi-
zione democratica liberale da lui pronunciate, senza però
sottacere preoccupazioni e premure affinché un’autentica
libertà di religione fosse preservata, anche nel futuro, in
Occidente, da ogni forma di sottile minaccia: «Il mondo
della ragione e il mondo della fede – il mondo della secola-
rità razionale e il mondo del credo religioso – hanno biso-
gno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di en-

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trare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della
nostra civiltà. La religione, in altre parole, per i legislatori
non è un problema da risolvere, ma un fattore che contri-
buisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione».
In quella circostanza, Papa Ratzinger sgombrò il campo
da un equivoco persistente nella cultura contemporanea,
basato sull’idea che il cristianesimo e, in particolare, la
Chiesa cattolica, intervenendo nei dibattiti pubblici, si ap-
pellino a un “principio di autorità” nella decisione sulle
questioni giuridiche e politiche. La visione da lui proposta,
invece non permette ai fedeli di esimersi dalle fatiche, né
consente loro di privarsi dell’uso della ragione, trinceran-
dosi dietro precetti o comandi religiosi. Per la fiducia nu-
trita nella possibilità che il divino, come logos, possa essere
incontrato nella ricerca razionale della verità, Benedetto
XVI non esitò a richiamare il fatto che le fonti ultime del
diritto sono da ricercarsi nella ragione e nella natura, non
in un comando, di chiunque esso sia.
Infine, nel discorso al Reichstag di Berlino del 22 settem-
bre 2011, andò alla radice della questione, toccando il tema
del fondamento dell’ordine giuridico e dei limiti del positi-
vismo giuridico, dominante in tutto il continente europeo
lungo il corso del xx secolo. Dettagliando come sia possi-
bile riconoscere ciò che è giusto, spiegò che «nella storia,
gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati
in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità
si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad
altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto
allo Stato o alla società un diritto rivelato, mai un ordina-
mento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece
rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del di-
ritto, ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e sog-
gettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue
le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».

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In questo passaggio si evidenzia l’originalità del cristia-
nesimo, per il quale «la politica deve essere un impegno
per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la
pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza
il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione
politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio
della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelli-
genza del diritto. Servire il diritto e combattere il dominio
dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del po-
litico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato
un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa
particolarmente urgente».

Le citazioni senza il contesto

Nel libro The Vatican Diaries del giornalista statuni-


tense John Thavis c’è una annotazione che mi ha colpito:
«Quando Papa Benedetto arrivò alla sua conferenza stampa
nel settore economy si levò un brusio frenetico. Ecco il
motivo per cui le nostre aziende ci pagavano profumata-
mente: l’accesso all’uomo in bianco. Ecco come la nostra
esperienza di vaticanisti sarebbe tornata davvero utile:
pungolare il Pontefice su questioni spinose e interpretare
le sue risposte improvvisate. […] Anni prima, fare marcia
indietro quando il Papa faceva qualche gaffe era facile,
semplicemente perché i reporter non potevano inviare i
loro pezzi finché l’aereo non atterrava, diverse ore dopo.
Ma il 777 di Alitalia era munito di telefoni, e il genio era
già uscito dalla lampada».
Di fatto, è la “fotografia” di uno di quei delicati momenti
che hanno periodicamente caratterizzato il rapporto dei
mass media con il Magistero di Papa Ratzinger, quando i
vaticanisti andavano alla ricerca di una notizia che potesse

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rappresentare “l’osso per il brodo” dei loro articoli, qual-
cosa che entrasse nel trending topic di Twitter o che avviasse
una polemica capace di polarizzare per giorni l’attenzione
dell’opinione pubblica. Spesso l’estrapolazione di un sin-
golo pensiero o citazione del Pontefice, senza contestualiz-
zare la complessità del suo ragionamento, innescò reazioni
che tenevano conto unicamente della stringata sintesi delle
agenzie di stampa. E l’ovvio risultato era che chiunque si
sentiva autorizzato, in buona o cattiva fede che fosse, a
esprimere d’istinto la propria vibrante critica, salvo poi
doverla ritrattare una volta messo a fuoco l’intero quadro.
Un tipico esempio fu ciò che accadde nel viaggio del
marzo 2009 in Camerun e Angola, quando, durante il volo
fra Roma e Yaoundé, un reporter francese pose la domanda:
«Santità, tra i molti mali che travagliano l’Africa, vi è anche
e in particolare quello della diffusione dell’aids. La posi-
zione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro di
esso viene spesso considerata non realistica e non efficace.
Lei affronterà questo tema, durante il viaggio?». Coraggio-
samente, Benedetto XVI non si tirò indietro, rivendicando
innanzitutto che «la realtà più efficiente, più presente sul
fronte della lotta contro l’aids è proprio la Chiesa catto-
lica»; poi scandì poche, ma precise parole: «Direi: non si
può superare questo problema dell’aids solo con soldi. […]
Non si può superare con la distribuzione di preservativi:
al contrario, aumentano il problema».
Come prevedibile, i titoli giornalistici risultarono tutti
schierati nella medesima direzione: «Papa in Africa: aids,
i preservativi non servono» («Corriere della Sera»), «Con-
tro l’aids no ai preservativi» («la Repubblica»), «Benedetto
XVI contesta l’efficacia del preservativo» («Le Monde»), «Il
Papa afferma che i preservativi non sono il modo di com-
battere l’hiv» («New York Times») … Nessuno spazio, in-
vece, per la soluzione da lui indicata, mediante un duplice

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impegno: «Primo, una umanizzazione della sessualità, cioè
un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo
modo di comportarsi l’uno con l’altro; secondo, una vera
amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la
disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, a
essere con i sofferenti». In realtà, il Papa fondava il pro-
prio ragionamento su dati scientifici e sociologici, come
per esempio uno studio dell’autorevole rivista britannica
«The Lancet», che nel gennaio del 2000 affermava: «Ci
sono tre modi in cui un forte aumento dell’uso del pre-
servativo potrebbe non influenzare la trasmissione della
malattia. In primo luogo, la promozione del preservativo
si rivolge maggiormente agli individui avversi al rischio,
che contribuiscono poco alla trasmissione dell’epidemia.
In secondo luogo, l’aumento dell’uso del preservativo au-
menterà il numero di trasmissioni risultanti dal fallimento
del preservativo. In terzo luogo, esiste un meccanismo di
compensazione del rischio: un maggiore uso del preserva-
tivo potrebbe riflettere le decisioni degli individui di pas-
sare da strategie intrinsecamente più sicure di selezione del
partner o meno partner alla strategia più rischiosa di svilup-
pare o mantenere tassi più elevati di cambio del partner».

Polemiche e incomprensioni

Questo modo di agire da parte dei cosiddetti opinion le-


ader è stato costantemente presente in diverse circostanze,
con polemiche o incomprensioni che alla prova dei fatti
si sono poi rivelate inconsistenti. La prima avvenne il 12
settembre 2006, quando Papa Ratzinger si recò nell’ate-
neo di Ratisbona, dove aveva insegnato Dogmatica e storia
del dogma dal 1969 al 1977, ricoprendo anche l’incarico
di vicerettore. Era stata una gioia per lui ricevere l’invito a

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pronunciare una lectio magistralis sul tema “Fede, ragione
e università” e ricordo che si preparò con molta serietà,
approntando una vera e propria lezione accademica, da
considerare perciò con un filo unitario, nell’intento di far
emergere la necessità per l’Europa di riscoprire le proprie
radici cristiane.
Il dramma fu che una citazione da lui utilizzata – «Mo-
strami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi
troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua
direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che
egli predicava» – venne estrapolata dal contesto, il dialogo
dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo con un
sapiente della legge islamica, e rilanciata come un’affer-
mazione personale del Pontefice, diventando così un caso
politico. In diversi Paesi islamici ci furono anche gravi tu-
multi, che causarono persino delle vittime innocenti, e fu-
rono necessarie due precisazioni, del direttore della Sala
stampa Lombardi e del segretario di Stato Bertone, per
tamponare nell’immediato una situazione che era divenuta
incandescente. In ogni caso, nessuno di quanti avevano
letto in anticipo il testo aveva manifestato al Papa qualche
perplessità in merito, proprio perché era per tutti chiaro
l’ambito in cui si sarebbe svolta quella lettura.
Sta di fatto che, passata la tempesta e calmate le acque,
soprattutto molti studiosi islamici lessero integralmente il
discorso e si resero conto della reale consistenza di quelle
parole. Ci vollero un po’ di mesi, ma alla fine 138 esponenti
musulmani di 43 nazioni inviarono una lettera a Benedetto
per ribadire l’importanza di un confronto sincero e reci-
procamente rispettoso e, a dimostrazione di una ritrovata
serenità, il 6 novembre 2007 giunse per la prima volta in
Vaticano il re dell’Arabia Saudita Abdallah bin Abdula-
ziz Al Saud, titolare anche dell’altissima carica religiosa di
custode delle due sacre moschee della Mecca e di Medina.

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Un altro ambiente universitario, questa volta in Italia, fu
al centro dell’assurda contestazione che portò all’annulla-
mento della visita di Benedetto nell’ateneo romano La Sa-
pienza, programmata per il 17 gennaio 2008. La prepara-
zione era partita di lontano, addirittura l’invito ufficiale del
rettore Renato Guarini era giunto il Vaticano il 17 marzo
2006, e il saluto alla comunità universitaria si collegava a
dei restauri effettuati nella cappella interna all’ateneo.
A innescare la polemica fu la comunicazione al Senato
accademico, il 23 ottobre 2007, che il Papa avrebbe pro-
nunciato una lectio magistralis. Nonostante il formale chia-
rimento dato dal rettore il 13 novembre seguente, specifi-
cando che si sarebbe trattato unicamente di una allocuzione,
mentre la lezione magistrale era stata affidata al professor
Mario Caravale sul tema della pena di morte, un gruppo di
docenti di fisica chiese che l’evento venisse annullato, ad-
ducendo come motivazione che Ratzinger, in un discorso
del 15 marzo 1990, aveva ripreso un’affermazione di Feye-
rabend: «All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più
fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro
Galileo fu ragionevole e giusto».
Praticamente era il duplicato di quanto avvenuto a Ra-
tisbona, poiché, in quella conferenza sul tema “La Chiesa
e la modernità” (come ricostruì il responsabile della cap-
pella universitaria padre Vincenzo D’Addamo), «il relatore
non condivideva la posizione del filosofo citato. Il cardi-
nale Ratzinger evidenziava le implicazioni, sulla Chiesa,
del cambiamento di paradigma culturale nei vari passaggi
storici della modernità e considerava l’immagine che di
Chiesa derivava, sia all’interno sia all’esterno del mondo
ecclesiale. In questo contesto si collocava anche il passag-
gio critico su Feyerabend, e il suo giudizio controverso, di
“modernità” e di “ragionevolezza”, del comportamento
della Chiesa nei confronti di Galileo».

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In ogni caso, Benedetto preferì rinunciare alla presenza
fisica e inviò il testo scritto, che fu letto in aula magna dal
prorettore alle attività sociali Piero Marietti. E posso con
serenità rispondere a Carlo Cosmelli, uno dei fisici firma-
tari della lettera, che chiese provocatoriamente se avrebbe
detto le stesse cose durante l’intervento di persona: «Sì,
non una virgola venne cambiata!». Ma il Papa serbò co-
munque il dispiacere – più che per la mancata accoglienza
in quel centro culturale cui, non dimentichiamolo, aveva
dato vita il suo predecessore Bonifacio VIII, istituendo il
20 aprile 1303 lo “Studium Urbis” – per la chiusura intel-
lettuale di studiosi che di fatto avevano cancellato con un
tratto di penna la libertà accademica.

Una clemenza malintesa

Su un altro piano di incomprensione si situò invece la


polemica relativa alla revoca della scomunica a quattro ve-
scovi consacrati senza mandato pontificio dall’arcivescovo
Marcel Lefèbvre: un gesto che il Pontefice adottò per sbloc-
care lo stallo che da anni perdurava nei rapporti tra la Santa
Sede e la Fraternità sacerdotale San Pio X.
Da prefetto della Congregazione per la Dottrina della
fede, il cardinale Ratzinger aveva a lungo dialogato con
monsignor Lefèbvre: il 5 maggio 1988 entrambi avevano ad-
dirittura firmato un protocollo d’accordo, ma il giorno suc-
cessivo il presule francese cambiò idea e il 30 giugno proce-
dette all’ordinazione episcopale di Bernard Fellay, Bernard
Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Ga-
larreta, ricadendo tutti nella scomunica latae sententiae riser-
vata alla Sede apostolica (è la pena in cui si incorre automati-
camente dopo aver trasgredito una legge ecclesiastica, senza
necessità che venga pronunciata una esplicita sentenza).

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In seguito a ulteriori colloqui, monsignor Bernard Fel-
lay, superiore generale della Fraternità, il 15 dicembre 2008
inviò al cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della
Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, una lettera nella
quale affermava, tra l’altro: «Siamo sempre fermamente
determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere
tutte le nostre forze al servizio della Chiesa di Nostro Si-
gnore Gesù Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Noi
accettiamo i suoi insegnamenti con animo filiale. Noi cre-
diamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue preroga-
tive, e per questo ci fa tanto soffrire l’attuale situazione». Di
conseguenza, come gesto di benevolenza, Benedetto XVI
decise di riconsiderare la situazione canonica dei quattro
vescovi scomunicati e dispose la remissione della censura
latae sententiae.
Per comprendere quanto accadde è però necessario te-
nere a mente la tempistica, ricostruita dal cardinale Ca-
strillón: «Il 14 gennaio 2009 ho ricevuto il decreto appro-
vato dal Santo Padre e firmato dal cardinale Re. A casa mia,
il 17 gennaio l’ho consegnato a monsignor Fellay, pregan-
dolo di informare gli altri tre vescovi della Fraternità. Solo
allora essi seppero che a partire dal 21 gennaio sarebbero
stati liberi dalla scomunica, e si chiese loro di conservare
il segreto fino al giorno 24, quando sarebbe stato pubbli-
cato ufficialmente il decreto».
Ma il 20 gennaio il settimanale tedesco «Der Spiegel»
rese nota una dichiarazione rilasciata, il 1° novembre 2008,
da monsignor Williamson a un giornalista svedese (poi tra-
smessa dalla rete Sveriges Television proprio nella serata
del 21 gennaio), nella quale il vescovo negava che durante
l’Olocausto fossero stati uccisi ebrei nelle camere a gas. La
polemica immediatamente divampò e oggettivamente si ve-
rificarono errori di comunicazione a livello vaticano: ci fu
una imprecisa spiegazione del senso di quella remissione

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dalla scomunica, che aveva un valore unicamente ecclesiale
e non coinvolgeva altri aspetti, e soprattutto non si chiarì
con forza che quella dichiarazione Benedetto e io non la
conoscevamo (e che anzi risultava sospetta un’attesa così
prolungata prima della messa in onda, come se si fosse at-
teso il momento giusto…).
In aggiunta, Castrillón aveva comunicato a Benedetto e
a Bertone che Williamson era molto ammalato di cancro
e in poco tempo sarebbe morto, per cui si accelerò la pro-
cedura per consentirgli di avere rapidamente la remissione
della scomunica. La notizia risultò falsa e suscitò ulteriore
irritazione in Vaticano, ma anche nella Fraternità la pre-
senza del vescovo negazionista non deve essere risultata
opportuna, visto che, il 24 ottobre 2012, il vescovo sarà
formalmente «dichiarato escluso per decisione del supe-
riore generale e del suo Consiglio».
Comunque, alla fine il Pontefice decise di dare un de-
finitivo taglio alla questione e, con la consueta signorilità,
prese sulle proprie spalle la colpa. Ci fu un incontro nel
quale si discusse a lungo, e diversi di noi ritenevamo che
chi non aveva prestato l’opportuna attenzione avrebbe do-
vuto assumersi la responsabilità dell’accaduto. Ma Bene-
detto non volle che qualcuno potesse sostenere che si era
nascosto dietro ai collaboratori, cosicché si ritirò nello stu-
dio e ne uscì con una lettera totalmente scritta da lui, che
venne pubblicata il 10 marzo 2009, con la presa d’atto del
fatto che «il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato
origine a un grande chiasso, trasformandosi proprio così
nel contrario di una riconciliazione».
Nel contempo, Papa Ratzinger volle esternare la pro-
pria tristezza perché «anche cattolici, che in fondo avreb-
bero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano
pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’at-
tacco» e, citando la frase di san Paolo «se vi mordete e

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vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi
del tutto gli uni gli altri!» (Galati 5,15), concluse lucida-
mente: «Sono stato sempre incline a considerare questa
frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si
trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche
così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste
anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà
mal interpretata».

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La storica rinuncia che ha segnato un’epoca

I motivi della decisione

Parafrasando il famoso verso di Dante «galeotto fu ’l li-


bro e chi lo scrisse» (Inferno V,136), si potrebbe dire che
«galeotto fu il Mondiale e chi lo indisse». Mi spiego subito:
il 30 ottobre 2007 la Fifa aveva assegnato al Brasile l’orga-
nizzazione della Coppa del mondo di calcio per il 2014,
cosicché, quando il 21 agosto 2011 a Madrid, al termine
della 26a Giornata mondiale della gioventù, Benedetto rese
noto che la sede della successiva edizione sarebbe stata Rio
de Janeiro, venne precisato anche che era stato ritenuto op-
portuno anticipare la 27a gmg al 2013, non rispettando la
consueta cadenza triennale, per evitare la coincidenza dei
due affollati eventi.
Si potrà condividere o meno la convinzione del Papa, ma
– e lo dico con estrema chiarezza per sgombrare il campo
da qualsiasi equivoco – fu proprio la questione della par-
tecipazione personale a quella gmg a innescare in lui una
riflessione, che via via si fece sempre più stringente, ri-
guardo alla prosecuzione o meno del suo pontificato. La
gioia che aveva visto negli occhi degli innumerevoli ragazzi
e ragazze presenti sulla spianata dell’aeroporto madrileno
Cuatro Vientos, per la veglia di preghiera e la santa Messa,
avevano infatti indelebilmente consolidato la sua certezza
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che un incontro dei giovani senza la presenza fisica del
Pontefice sarebbe stato monco.
Era rimasta scolpita nei suoi occhi e nella sua mente
l’immagine di quell’immenso popolo, si calcolarono due
milioni di presenze, che cantava e lo incitava sotto una tre-
menda tempesta. A un certo punto gli era volato via lo zuc-
chetto bianco dalla testa e il nubifragio lo aveva inzuppato
al punto che le scarpe rosse gli avevano macchiato perfino
la pelle dei piedi. Ma quando, sollecitato da un cardinale,
ero andato a proporgli di ritirarsi, mi aveva risposto con
fermezza: «Io rimango!». E a voce alta aveva detto sorri-
dendo ai ragazzi: «Il Signore con la pioggia ci manda tante
benedizioni».
A Madrid, Papa Ratzinger aveva manifestato esplici-
tamente il proprio pensiero: nel saluto finale, riferendosi
all’appuntamento di Rio, aveva invocato il Signore affinché
spianasse «il cammino ai giovani di tutto il mondo perché
possano riunirsi nuovamente col Papa in questa bella città
brasiliana». Perciò sono tuttora convinto che, se l’appun-
tamento fosse normalmente stato confermato per il 2014,
Benedetto non avrebbe indugiato nel corso del 2012 a ra-
gionare sulla propria stanchezza fisica e mentale, ma sa-
rebbe tranquillamente andato avanti per tutto il 2013.
Mi sembra che possano documentarlo proprio alcune
sue affermazioni di inizio 2012. Durante il Concistoro del
18 febbraio, Benedetto nell’allocuzione chiese di pregare
per lui «affinché possa sempre offrire al popolo di Dio
la testimonianza della dottrina sicura e reggere con mite
fermezza il timone della santa Chiesa»: parole che non ri-
vestono alcun presagio di rinuncia. Il 16 aprile, giorno
dell’85° compleanno, salutò i connazionali bavaresi espri-
mendo un legittimo dubbio, semplicemente collegato alla
sua età avanzata: «Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del
percorso della mia vita e non so cosa mi aspetta». Dall’in-

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contro del 28 marzo con Fidel Castro, quasi suo coetaneo
ma decisamente più malridotto (infatti morì novantenne
nel 2016), venne riportata la battuta del Papa: «Sono an-
ziano, ma posso fare ancora il mio dovere».
Purtroppo però il viaggio apostolico in Messico e a Cuba,
fra il 23 e il 29 marzo 2012, lo rese all’improvviso consa-
pevole di quanto le sue forze stessero costantemente dimi-
nuendo, imponendogli una seria valutazione sull’immediato
futuro. Di fatto la visita pastorale era andata molto bene,
ma rispondere all’entusiasmo della gente nei tanti incontri
pubblici (oltre ai diversi appuntamenti privati), conside-
rando la notevole differenza di fuso orario e la tempistica
dei trasferimenti in aereo e in automobile, era risultato
ovviamente molto faticoso per un uomo di ormai 85 anni.
Per di più, in Messico, il Papa inciampò in un tappetino
mentre era in bagno per farsi la barba e cadde di spalle,
battendo la testa sul rialzo della cabina della doccia. Non
ebbe perdita di conoscenza o problemi particolari, ma fu-
rono necessari un paio di punti per suturare la ferita. Nono-
stante la medicazione il sanguinamento proseguì, al punto
da costringere monsignor Guido Marini a non togliergli lo
zucchetto, che copriva la garza macchiata, nei momenti in
cui la liturgia lo avrebbe richiesto durante la Messa nel Par-
que del bicentenario di León, tant’è che qualcuno pensò
che il maestro delle Celebrazioni si fosse distratto!
Al rientro in Vaticano, il dottor Polisca fu netto nello
sconsigliare un altro viaggio transatlantico, suggerendogli di
limitarsi a percorrenze meno impegnative. Benedetto prese
sul serio questa indicazione, ampliando la propria medita-
zione anche riguardo agli altri aspetti del ministero ponti-
ficio, e dialogò più volte con il medico personale, per com-
prendere bene il possibile evolversi della situazione di salute.
Come ho saputo in seguito, già nell’udienza del 30 aprile
2012 accennò al cardinale Bertone l’idea di rinunciare al

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ministero petrino, ma nell’immediato non ci furono ulte-
riori sviluppi. In effetti, in quell’occasione il segretario di
Stato, uscendo dall’incontro, mi aveva fatto una domanda
molto vaga: «Il Papa mi ha detto una cosa strana riguardo
alla sua stanchezza e al timore di non farcela ad andare
avanti. Ne ha parlato anche con te?». Io risposi che non
sapevo nulla e non fui particolarmente colpito da tali pa-
role. Nel frattempo era cominciato il cosiddetto Vatileaks
e i nostri pensieri vennero assorbiti dalle preoccupazioni
legate a questa vicenda e alle contemporanee questioni
relative alle polemiche attorno allo ior e alle notizie sullo
scandalo della pedofilia nel clero.
Fra il 30 maggio e il 3 giugno andammo a Milano per il
7° Incontro mondiale delle famiglie e anche in questo caso
ci fu un clima molto festoso, che persuase ulteriormente
Benedetto riguardo alla necessità della presenza fisica del
Papa in mezzo ai fedeli. Devo però smentire una rievoca-
zione del gesuita Silvano Fausti in relazione all’incontro
del 2 giugno, nell’arcivescovado di Milano, fra il Papa e
il cardinale Carlo Maria Martini, che era gravemente am-
malato di Parkinson e morirà il 31 agosto successivo. Se-
condo padre Fausti, Martini avrebbe fatto riferimento ai
problemi della Curia vaticana, suggerendo a Benedetto di
dimettersi: «È proprio ora, sai, perché qui non si riesce a
fare nulla». Io ricordo bene che il cardinale quel giorno
era sulla sedia a rotelle in pessime condizioni, non riusciva
praticamente a parlare e dalla gola gli uscivano soltanto
suoni indistinguibili. Effettivamente ci fu un incontro di
pochi minuti a quattr’occhi con Benedetto, ma non avvenne
un vero dialogo, come mi disse il Papa stesso. Purtroppo
non mi è stato possibile un riscontro sulla veridicità della
cosa, poiché padre Fausti morì il 24 giugno 2015 e l’in-
tervista con quelle sue dichiarazioni fu resa nota, sul sito
www.glistatigenerali.com soltanto il 12 luglio 2015.

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In quel periodo cominciai a notare in Benedetto una ten-
sione inconsueta. In particolare dopo la celebrazione della
Messa in cappella, durante il tempo del ringraziamento, lo
vedevo molto concentrato nella preghiera. Sull’inginocchia-
toio si prendeva la testa fra le mani e quasi si accasciava
su se stesso, un atteggiamento estraneo al suo stile, poiché
normalmente aveva una postura più composta e rigida.
Attribuii questi segnali di inquietudine alle problematiche
del momento e poi, quando dal 3 luglio ci trasferimmo a
Castel Gandolfo, pensai anche che si trattasse dello sforzo
mentale che stava compiendo per ultimare la terza parte
del libro su Gesù, quella sul periodo dell’infanzia.
Nella seconda metà di agosto cominciai a vederlo più
sereno, ma a fine mese si accese in me un piccolo campa-
nello d’allarme, poiché il cardinale Bertone, al termine di
un’udienza, mi accennò nuovamente al fatto che il Papa
gli aveva parlato con più concretezza del suo sentirsi affati-
cato. Il segretario di Stato non precisò oltre, poiché anche
lui non sapeva cosa pensare. Nel suo libro autobiografico,
così ha descritto quella circostanza: «Feci fatica a credere
che avrebbe preso veramente tale decisione e, con rispetto
ma con forza, gli presentai una serie di ragionamenti che
ritenevo fossero fondati per il bene della Chiesa e per sven-
tare una generale depressione del popolo di Dio, davanti
al suo buon Pastore».
Per il 1° ottobre era programmato il nostro rientro defi-
nitivo in Vaticano e la settimana precedente giunse il mo-
mento in cui volle informare anche me. Lo ricordo perfet-
tamente: dopo la colazione del 25 settembre mi disse di
andare da lui un poco prima del consueto appuntamento
mattutino, quello in cui esaminavamo la posta e controlla-
vamo gli eventuali appuntamenti della giornata, anticipan-
domi che doveva parlarmi di un argomento importante. An-
che altre volte era accaduto qualcosa di simile, per esempio

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quando c’era una problematica che doveva essere affron-
tata con specifica attenzione. Perciò nuovamente non restai
particolarmente impensierito da tale richiesta.
Quando mi sedetti di fronte a lui, vidi che la sua espres-
sione era nel contempo seria e serena. Poi, senza giri di
parole, mi disse: «Ho riflettuto, ho pregato e sono giunto
alla conclusione che, a causa del diminuire delle forze,
devo rinunciare al ministero petrino». Di getto, reagii con
il cuore: «Padre Santo, se le forze non sono più adeguate,
si può diminuire il carico di lavoro, si possono ridimen-
sionare gli impegni nell’arco della giornata, delegando e
accentrando meno».
Con pacatezza, scandì in estrema sintesi le motivazioni
della sua decisione, dimostrandomi nei fatti quanto a lungo
e con scrupolosità avesse ponderato ogni aspetto. Immedia-
tamente mi resi conto che ogni mio tentativo di convinci-
mento sarebbe stato del tutto vano. Ormai conoscevo Be-
nedetto a fondo, da molti anni, e sapevo bene che quando
aveva preso una decisione – particolarmente, come in que-
sto caso, dopo intensa preghiera e riflessione – era deter-
minato nel portarla a compimento.
Il primo punto che mi sottopose fu proprio quello re-
lativo alla Giornata mondiale della gioventù, e io provai a
dirgli che, con i maxischermi e i collegamenti via internet,
sarebbe stata possibile una presenza costante e in tempo re-
ale, calcolando che comunque la quasi totalità dei presenti
lo avrebbe guardato tramite un video anche a Rio, a motivo
dell’estensione degli spazi e del numero dei partecipanti
previsti. Ma non riuscii a far breccia nella sua considera-
zione che un conto era sapere che il Papa era fisicamente
lì tra loro, e un conto che invece si trovava in Vaticano e il
suo intervento era soltanto virtuale.
Benedetto mi propose poi un confronto con Giovanni
Paolo II, morto proprio a quasi 85 anni d’età, e sottolineò:

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«Io ormai sono Papa da tanti anni quanti sono stati quelli
della sua malattia e non vorrei finire come lui. Del resto,
quello che potevo fare l’ho fatto e per la Chiesa sarebbe
meglio la mia rinuncia, con l’elezione di un nuovo Ponte-
fice più giovane ed energico. È questo il momento giusto
in cui, dopo che hanno trovato conclusione le problemati-
che vicende di questi ultimi mesi, posso passare il timone
a un altro senza troppe difficoltà».
Di fatto, una sua evidente preoccupazione era di evitare
che ci fosse l’acquisizione di spazi di potere da parte di
qualsiasi suo collaboratore, ben consapevole com’era che
Papa Wojtyła, nel tempo finale del pontificato, non aveva
più mantenuto pienamente le redini del governo. Ratzin-
ger all’epoca si era tenuto fuori dai giochi, ma aveva visto
come sostanzialmente i principali esponenti vaticani ave-
vano conquistato sempre più influenza, talvolta anche in
competizione fra loro: oltre al segretario particolare don
Stanislao e al segretario di Stato Sodano, c’erano il sosti-
tuto Leonardo Sandri e il prefetto della Congregazione per
i Vescovi Giovanni Battista Re, e poi nell’ambito italiano il
presidente della Cei Camillo Ruini. Nel 2012 le chiacchiere
sul potere che avremmo esercitato il cardinale Bertone e
io già erano cominciate e Benedetto intendeva stroncarle
sul nascere!

In segreto a piccoli passi

L’idea originaria di Benedetto era di comunicare la ri-


nuncia a conclusione dell’udienza alla Curia romana per gli
auguri natalizi, fissata quell’anno per il 21 dicembre, indi-
cando come data conclusiva del pontificato il 25 gennaio
2013, festa della conversione di san Paolo. Quando me lo
disse, a metà ottobre, replicai: «Santo Padre, mi permetta

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di dirlo, se farà così, quest’anno non si festeggerà il Natale,
né in Vaticano né altrove. Sarà come un manto di ghiaccio
su un giardino in fioritura».
Di fatto, l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’aper-
tura del Concilio Vaticano II, era stato inaugurato l’Anno
della fede, che si sarebbe concluso il 24 novembre 2013.
Per l’occasione, Papa Ratzinger aveva avviato la stesura di
un’enciclica proprio sul tema della fede, e inoltre in quei
giorni stava correggendo le bozze del volume sull’infan-
zia di Gesù, in vista dell’uscita in libreria il 21 novembre.
Perciò, ragionando insieme con il cardinale Bertone, ci tro-
vammo d’accordo sul fatto che riguardo alla rinuncia, pur
avendo compiuto il possibile, non eravamo più in grado di
fargli cambiare opinione, mentre almeno sulla data dell’an-
nuncio fummo concordi nel perorare uno spostamento
all’anno seguente.
Benedetto comprese le nostre motivazioni e alla fine
scelse l’11 febbraio, giorno festivo in Vaticano per l’anni-
versario dei Patti lateranensi fra l’Italia e la Santa Sede, nel
quale era già previsto un Concistoro cosiddetto “bianco”,
per l’annuncio di alcune canonizzazioni (mentre il Conci-
storo “rosso” è quello per la creazione dei nuovi cardinali).
Per di più, era anche la memoria della beata Vergine Ma-
ria di Lourdes e in quel giorno, nel santuario di Altötting
a lui carissimo, si celebrava la Giornata mondiale del ma-
lato: spiritualmente, il Papa esprimeva anche così la vici-
nanza a quanti vivevano «un difficile momento di prova a
causa dell’infermità e della sofferenza», come aveva scritto
nel messaggio per l’occasione, associandosi idealmente alla
loro fatica.
Il tempo liturgico era propizio, poiché dopo due giorni
c’era il Mercoledì delle ceneri e in questa ricorrenza poté
celebrare l’ultima Messa pubblica, lasciando intendere an-
cora una volta quale fosse il centro del suo messaggio: ciò

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che più conta nella vita ecclesiale è la conversione a Gesù
Cristo e il volgersi verso la sua Pasqua di risurrezione, senza
la quale il cristianesimo non avrebbe alcun senso. Quindi,
dal 15 al 23 febbraio, si sarebbero tenuti gli esercizi spiri-
tuali di Quaresima per la Curia romana, che consentivano
un “cuscinetto”, un “tempo di digestione”, sia all’interno
sia all’esterno. Il predicatore sarebbe stato il cardinale
Gianfranco Ravasi, cosicché si decise di informare anche
lui per tempo, in modo da consentirgli la preparazione di
meditazioni adeguate alla circostanza.
Nell’ultima settimana prima della rinuncia, Benedetto
informò i componenti della Casa pontificia. Il 5 febbraio
ricevette il secondo segretario don Xuereb, che in un’in-
tervista ha ricordato così quel momento: «Papa Benedetto
mi invita ad accomodarmi nel suo studio e mi annuncia la
grande decisione della sua rinuncia. A me, lì per lì, quasi
veniva spontaneo di chiedergli: “Ma perché non ci pensa
un po’?”. Ma poi mi sono trattenuto poiché ero convinto
che aveva pregato a lungo». Nel medesimo giorno, in un
momento separato, lo disse anche a suor Birgit, mentre alle
Memores parlò il 7 febbraio: per ciascuna fu ovviamente
un momento di grande commozione.
Fra i pochi altri a essere messi a conoscenza, oltre ovvia-
mente al fratello Georg, ci furono monsignor Guido Ma-
rini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, e pa-
dre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della
Santa Sede. Ambedue ricevettero la notizia dal cardinale
Bertone, in modo da essere preparati il primo a guidare la
cerimonia del Concistoro e il secondo ad affrontare il pre-
vedibile assalto dei giornalisti.
Naturalmente, venne ufficialmente informato il cardinale
Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio: il Ponte-
fice lo incontrò a quattr’occhi l’8 febbraio e gli diede per-
sonalmente la notizia. Contrariamente a quello che qualche

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giornalista ha ipotizzato, il testo che il decano pronunciò
nella sala Clementina, come risposta alla dichiarazione della
rinuncia, non era stato concordato con Benedetto (né tanto
meno scritto direttamente dal Papa): non era abitudine di
Sodano far leggere i suoi discorsi in anticipo, comporta-
mento del resto simile a quello di Ratzinger con Giovanni
Paolo II quando era lui il decano.
Benedetto aveva cominciato a fine gennaio a stendere
la bozza del testo che avrebbe letto in Concistoro. La sua
decisione di scrivere in latino fu ovvia, poiché da sempre
è questa la lingua dei documenti ufficiali della Chiesa cat-
tolica. La formula della rinuncia venne ultimata dal Papa
il 7 febbraio. Portai personalmente il foglio nell’apparta-
mento del cardinale Bertone, dove lo leggemmo insieme con
monsignor Giampiero Gloder, coordinatore in Segreteria
di Stato della redazione finale dei testi pontifici. Vennero
suggerite piccole correzioni ortografiche e qualche pre-
cisazione giuridica, cosicché il testo definitivo fu pronto
per domenica 10 febbraio, quando si provvide anche alle
traduzioni in italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo,
portoghese e polacco.
L’estrema segretezza con cui fu elaborato il testo com-
portò il coinvolgimento di pochissime persone. Come è
ovvio, la competenza linguistica spesso privilegia la capa-
cità di leggere da una lingua straniera e di comprenderne
le sfumature. Non sempre è altrettanto perfetta la scrittura
direttamente in quella lingua, particolarmente se non c’è
un costante esercizio. Perciò, cercando di dare un anda-
mento armonioso alla costruzione latina, non ci si accorse
che una concordanza latina non era corretta: l’accusativo
commissum collegato al dativo ministerio, al posto di com-
misso, nella frase «declaro me ministerio Episcopi Romae,
Successoris Sancti Petri, mihi per manus cardinalium die 19
aprilis MMV commissum» («dichiaro di rinunciare al mi-

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nistero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me
affidato per mano dei cardinali il 19 aprile 2005»).
Per una inappropriata digitazione, la prima versione resa
nota dalla Sala stampa recava altri due errori, come il pre-
cedente rapidamente sistemati sul sito vaticano nel primo
pomeriggio di quell’11 febbraio: un pro Ecclesiae vitae al
posto di pro Ecclesiae vita («per la vita della Chiesa»), e un
hora 29 invece di hora 20. Ma questi non erano presenti
sul foglio che Benedetto tenne fra le mani, poiché, come
si rileva dalla videoregistrazione, ambedue furono invece
pronunciati correttamente.
In realtà, esisteva già una lettera di rinuncia sottoscritta
da Benedetto, che l’aveva mutuata da quelle redatte da
Paolo VI e da Giovanni Paolo II (è nota una dichiara-
zione dell’allora cardinale Ratzinger, nell’aprile del 2002,
al «Münchner Kirchenzeitung», il settimanale diocesano
dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga: «Se il Papa [Wojtyła]
vedesse di non poter assolutamente farcela più, allora si-
curamente si dimetterebbe»). Nel 2006, Benedetto firmò
una dichiarazione nella quale esprimeva previamente la
volontà di rinunciare nel caso in cui non fosse stato più
nelle condizioni fisiche o mentali per fare il Papa, consen-
tendo che in quel momento venisse divulgato il testo, in
modo da rendere libera la Sede apostolica e avviare la suc-
cessione pontificia.
A evidenziarne l’opportunità era stata la lettera di un
vecchio amico medico, che aveva attirato l’attenzione sui
suoi problemi di salute e sul rischio che si ripetesse un epi-
sodio trombotico, per cui gli aveva suggerito che sarebbe
stato un atto di responsabilità fornire qualche esplicita in-
dicazione in merito. Anche in quel caso, Benedetto pre-
parò il testo personalmente, chiedendo al cardinale Julián
Herranz – presidente emerito del Pontificio Consiglio per
i Testi legislativi – di verificarne il contenuto per aggiustare

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forma e sostanza giuridica. Una copia la trattenne proprio
Herranz, che gliela restituì nel 2013 ed è poi finita nell’ar-
chivio della Segreteria di Stato.
Una precisa determinazione di Benedetto fu quella di
porre un intervallo di separazione fra il giorno dell’annun-
cio e la data di conclusione del pontificato, poiché repu-
tava essenziale che i cardinali potessero avere un tempo
di pausa e di preparazione, corrispondente psicologica-
mente in qualche modo a ciò che in precedenza era stato
il periodo dell’agonia del Papa e dei Novendiali, i nove
giorni di lutto successivi alla morte e al funerale, durante
il quale sono previste specifiche celebrazioni nella Basilica
vaticana. Inoltre doveva esserci la possibilità di rendere
noto il motu proprio Normas nonnullas, su alcune modifi-
che alle regole della costituzione apostolica Universi do-
minici gregis relative all’elezione del Romano Pontefice,
dopo l’opportuna verifica da parte del Pontificio Consi-
glio per i Testi legislativi e della Segreteria di Stato, una
cosa impossibile da fare in precedenza, poiché avrebbe
dato troppo nell’occhio.

Il sorprendente annuncio

Al risveglio dell’11 febbraio 2013, dopo una notte un


po’ agitata per la tensione, mi resi conto che stavo per vi-
vere un evento che sarebbe rimasto nella storia. Ma sin dal
primo incontro con Benedetto XVI, in cappella per la pre-
parazione alla Messa, potei notare che lui era invece estre-
mamente calmo. Certo, sul suo viso ogni tanto si palesava
un attimo di sospensione, come un flash per riflettere su
ciò che stava per concretizzarsi. Ma lo sapevo bene: una
volta che aveva raggiunto una determinazione, tutto il suo
essere restava in perfetta pace.

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La serenità con cui attraversò quella impegnativa gior-
nata, e che posso garantire si è mantenuta intatta sino alla
morte, mi consente oggi di esprimere per la prima volta
– “sommessamente”, come è d’uso nel linguaggio curiale –
la convinzione che Benedetto avesse anche lui dei tratti
mistico-ascetici, in continuità spirituale con Giovanni Pa-
olo II, e che tutte le sue decisioni fossero dovute a un rap-
porto diretto con Dio, da cui realmente si sentiva ispirato
e costantemente guidato.
Del resto, lui stesso lo ha fatto capire “tra le righe” in
molteplici occasioni e forse bastava dare più attenzione e
credibilità alle sue parole. Per esempio, in Introduzione al
cristianesimo (da teologo professore nel 1968) spiegò che
«ciò che non può essere visto, quello che non può asso-
lutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto
l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà: quella che sorregge
e rende possibile ogni altra realtà»; in Dio e il mondo (da
cardinale prefetto nel 2001), alla sollecitazione di Peter See-
wald: «Per lei che parla personalmente con Dio, la comuni-
cazione con lui è diventata così naturale come telefonare?»,
replicò: «Sotto certi aspetti il paragone può reggere. So
che Lui è sempre presente. E Lui sa comunque chi sono e
che cosa sono. A maggior ragione avverto l’esigenza di in-
vocarLo, di comunicare con Lui, di parlare con Lui. Con
Lui posso misurarmi sulle questioni più semplici e interiori
come su quelle più grandi e gravose. Per me è in qualche
modo normale avere sempre la possibilità, nel quotidiano,
di rivolgermi a Lui»; in Luce del mondo (da Papa nel 2010),
rispondendo alla domanda di Seewald: «Esiste ora un suo
“rapporto privilegiato” con il Cielo, qualcosa di simile a gra-
zie di diritto legate al suo ministero?», affermò: «Sì, a volte
ho questa impressione. Nel senso che penso: “Ecco, ho
potuto fare una cosa che non veniva da me. Ora mi affido
a Te e mi accorgo che, sì, c’è un aiuto, succede qualcosa

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che non viene da me”. In questo senso esiste l’esperienza
della grazia del ministero».
Anche se non mi parlò mai di esplicite illuminazioni so-
prannaturali, come visioni o locuzioni interiori (del resto
fu sempre molto cauto in materia di rivelazioni private),
in questo specifico caso espresse costantemente la certezza
morale che – riflettendo, pregando e soffrendo – aveva rag-
giunto la convinzione di dover rinunciare per mancanza
delle forze. Oggi, riflettendoci, provo una sensazione come
di un indiretto déjà-vu, in relazione all’episodio di maggio
del 1945, quando durante la guerra il giovane Joseph de-
cise di tornare a casa rischiando di passare per disertore e
di essere fucilato su due piedi: forse, in quella esperienza
determinante che gli salvò la vita, c’è la chiave segreta per
intendere il passo che compì alla fine del suo pontificato,
quando – superando mille ostacoli e molte buone ragioni
– una seconda volta, semplicemente e rinchiudendosi nel
silenzio, decise di tornare a casa…
Quando entrai nella sala del Concistoro, subito dietro
Benedetto, vidi in attesa, allineati lungo le pareti, una cin-
quantina di cardinali e qualche altro vescovo e monsignore.
Mi venne spontaneo pensare che mi sarebbe piaciuto con-
gelare in quel momento il tempo, con i volti sorridenti e
distesi di quanti consideravano quella riunione una delle
tante cerimonie che caratterizzavano da secoli le consuetu-
dini della Santa Sede. Il brusio di sottofondo si tacitò im-
mediatamente e gli sguardi di tutti si fissarono sul Papa,
per la naturale curiosità di osservare come camminava e
che aspetto aveva. La salute del Pontefice è da sempre uno
dei principali argomenti di chiacchiericcio in Vaticano…
L’appuntamento era per le 11 e si cominciò in perfetto
orario. Il Concistoro era stato convocato, secondo prassi,
per il cosiddetto “voto” su alcune cause di canonizzazione.
Nella procedura per la proclamazione dei nuovi santi è in-

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fatti prevista un’ultima tappa, quando il Pontefice conferma
il parere positivo dei cardinali e dei vescovi riguardo alla
santità di un beato e annuncia la data in cui presiederà la
cerimonia. La circostanza, sebbene relativamente rapida,
è comunque un evento solenne, in quanto con il decreto
di canonizzazione il Pontefice si esprime ex cathedra, cioè
esercita la propria infallibilità, secondo la definizione del
Concilio Vaticano I.
I protagonisti di quella mattinata erano Antonio Pri-
maldo e circa ottocento compagni testimoni della fede cri-
stiana, martirizzati a Otranto nell’agosto del 1480 durante
un’incursione degli Ottomani sulle coste pugliesi, Laura di
Santa Caterina da Siena Montoya y Upegui (1874-1949),
fondatrice della Congregazione delle suore missionarie
della Beata Vergine Maria Immacolata e di santa Caterina
da Siena, e Maria Guadalupe García Zavala (1878-1963),
cofondatrice della Congregazione delle Serve di santa Mar-
gherita Maria e dei poveri. La data della celebrazione sul sa-
grato della Basilica vaticana per la loro iscrizione nell’Albo
dei santi venne fissata per domenica 12 maggio 2013. Dopo
questo annuncio, Benedetto avrebbe dovuto alzarsi, pro-
nunciare la formula della benedizione e andare via.
Invece, come avevo riservatamente preannunciato al ce-
rimoniere Guido Marini, porsi al Papa un altro foglio. Era
un testo in latino che l’acustica degli ampi spazi rendeva
di non facile comprensione, ma, nell’arco di meno di tre
minuti, risuonarono alcune parole dal chiarissimo signifi-
cato, che causarono un sempre più crescente stupore nei
presenti: «decisionem magni momenti» («una decisione di
grande importanza»), «ingravescente aetate» («per l’età
avanzata», rievocando il titolo del motu proprio con cui
Paolo VI, nel 1970, aveva emanato alcune norme connesse
all’età dei cardinali), «incapacitatem meam ad ministerium
mihi commissum» («la mia incapacità di amministrare bene

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il ministero a me affidato»), «declaro me renuntiare» («di-
chiaro di rinunciare»), «Conclave ad eligendum novum Sum-
mum Pontificem» («il Conclave per l’elezione del nuovo
Sommo Pontefice»).
Nella traduzione italiana, la dichiarazione integrale re-
citava così: «Carissimi fratelli, vi ho convocati a questo
Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche
per comunicarvi una decisione di grande importanza per
la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la
mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza
che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per
esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben
consapevole che questo ministero, per la sua essenza spi-
rituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con
le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia,
nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato
da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per
governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo,
è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo,
vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo
tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare
bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consape-
vole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro
di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore
di San Pietro, a me affidato per mano dei cardinali il 19
aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,
la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e do-
vrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave
per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi fra-
telli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro
con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e
chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la
santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Si-
gnore Gesù Cristo, e imploriamo la sua Santa Madre Maria,

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affinché assista con la sua bontà materna i padri cardinali
nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi ri-
guarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con
una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio».
In questo modo, Benedetto adempì esattamente quanto
stabilito dal Codice di Diritto canonico (can. 332 §2): «Nel
caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si ri-
chiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e
che venga debitamente manifestata, non si richiede invece
che qualcuno la accetti». Ovviamente, per rispondere a chi
tuttora sostiene che non c’è riscontro formale di quell’atto,
sul foglio vennero apposte la data e la firma autografe del
Papa e la sua dichiarazione fu verbalizzata da un protono-
tario apostolico, che redasse il rogito del Concistoro, cu-
stodito nell’apposito archivio a perpetua memoria.
Con voce a tratti rotta per l’emozione, il cardinale So-
dano lesse una risposta nella quale si alternarono passaggi
nel contempo drammatici e lirici, riuscendo, a mio parere,
a trasmettere i sentimenti che aleggiavano nella sala, misti
di gratitudine e di preoccupazione, ed esprimendo anche
la consapevolezza che non si poteva mettere in discussione
una convinta decisione del Papa: «Come un fulmine a ciel
sereno, ha risuonato in quest’aula il suo commosso messag-
gio. L’abbiamo ascoltato con senso di smarrimento, quasi
del tutto increduli. […] A nome di questo cenacolo apo-
stolico, il Collegio cardinalizio, a nome di questi suoi cari
collaboratori, permetta che le dica che le siamo più che mai
vicini, come lo siamo stati in questi luminosi otto anni del
suo pontificato. […] Quel giorno ella ha detto il suo “sì” e
ha iniziato il suo luminoso pontificato nel solco della con-
tinuità coi suoi 265 (sic, in realtà 264, N.d.A.) predecessori
sulla Cattedra di Pietro, nel corso di duemila anni di storia,
dall’apostolo Pietro, l’umile pescatore di Galilea, fino ai
grandi Papi del secolo scorso, da san Pio X al beato Gio-

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vanni Paolo II. […] In questo mese ci saranno tante occa-
sioni ancora di sentire la sua voce paterna. La sua missione
però continuerà. Ella ha detto che ci sarà sempre vicino
con la sua testimonianza e con la sua preghiera. Certo, le
stelle nel cielo continuano sempre a brillare e così brillerà
sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato».
Pochi minuti più tardi, alle 11.46, Giovanna Chirri, la
vaticanista dell’agenzia giornalistica italiana Ansa che aveva
assistito in Sala stampa all’evento attraverso il circuito te-
levisivo interno, lanciò per prima la notizia che subito fece
il giro del mondo: «+++ flash +++ Papa lascia ponti-
ficato dal 28/2 +++ flash +++». Da quel momento fui
subissato da una quantità incredibile di telefonate, mes-
saggi e mail, cui non ho ovviamente avuto alcuna possibi-
lità di rispondere. Ogni tanto davo uno sguardo a quelli
che provenivano da autorevoli personalità, compresi car-
dinali e vescovi che non erano presenti nella sala del Con-
cistoro, e notavo che molti di loro esprimevano incredulità
e chiedevano conferma, come se non riuscissero proprio a
ritenere possibile una tale situazione…
Comunque, per noi la giornata proseguì in una surreale
routine: tutto procedeva secondo consuetudine, ma come
se l’atmosfera si fosse improvvisamente rarefatta. Dopo il
Concistoro siamo usciti verso la sala dei Sediari e dietro di
noi è stata chiusa la porta, poi con l’ascensore Sisto V siamo
saliti nell’appartamento pontificio e qui ho aiutato il Papa
a togliere la stola, la mozzetta, il rocchetto e la croce petto-
rale. Quindi sono tornato alla mia scrivania, ma la testa era
altrove e neanche con don Alfred ho commentato qualcosa.
Subito è arrivata l’ora del pranzo, durante il quale ha re-
gnato il silenzio. Dopo una breve passeggiata sul terrazzo,
il riposino pomeridiano e alle 16 il Rosario alla grotta di
Lourdes nei Giardini vaticani. Il lavoro per sistemare la
corrispondenza mi ha impegnato fino alla cena, mentre il

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Papa nel suo studio esaminava documenti e rifletteva sui
discorsi per gli appuntamenti dei giorni successivi. Dopo
cena, il Tg1 ha ovviamente dedicato ampio spazio alla noti-
zia, ma neanche in questo caso Benedetto ha espresso qual-
che osservazione. L’unico con cui ha parlato quel giorno
penso sia stato il fratello, nella consueta telefonata serale,
ma per quanto ne so non ha avuto ulteriori contatti, né te-
lefonici né di persona.

Le antiche radici dell’idea

Ancora prima di diventare lui il Papa, anzi perfino


quando era arcivescovo in Germania, Ratzinger aveva ben
presente quanta fatica richiedesse la guida della Chiesa e
implicitamente si mostrava grato a Paolo VI per il motu
proprio con cui aveva stabilito che ogni vescovo fosse te-
nuto a presentare le dimissioni al compimento dei 75 anni
d’età e che perfino i cardinali dovessero abbandonare ogni
ufficio, compresa la possibilità di entrare in Conclave, su-
perati gli 80 anni.
Nell’omelia del 10 agosto 1978, pronunciata nella cat-
tedrale di Monaco di Baviera nella Messa di suffragio per
Papa Montini, morto quattro giorni prima a quasi 81 anni
e dopo 15 anni di pontificato, commentava: «Paolo VI si
è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo,
non voleva andare. Sempre più il pontificato ha signifi-
cato per lui farsi cingere la veste da un altro ed essere in-
chiodato alla croce. Possiamo immaginare quanto debba
essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a
se stessi. Di non avere più un momento privato. Di essere
incatenati fino all’ultimo, con il proprio corpo che cede, a
un compito che esige, giorno dopo giorno, il pieno e vivo
impiego di tutte le forze di un uomo».

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Un paio d’anni più tardi, dialogando con il filosofo Ul-
rich Hommes su come un cristiano debba reagire quando
sente di non poter personalmente fare più nulla, chiarì in-
nanzitutto che «questo momento viene per ognuno, non
certo nel momento della morte, bensì in molte situazioni
nel corso della vita» e quindi affermò che «il senso della
vita deve essere più forte di ciò che noi possiamo produrre,
deve essere qualcosa che già mi attende. Dobbiamo essere
consapevoli che nessun uomo può realizzare tutto; la fede
è una rinuncia a qualcosa, ma è proprio questa rinuncia
che ci conduce al cambiamento e ci consente di procedere
in avanti».
Negli anni da prefetto in Vaticano, fra i temi che lo
appassionarono ci fu quello del primato petrino e della
sua “struttura martiriologica”. Riprendendo quanto aveva
scritto il cardinale inglese Reginald Pole a metà Cinque-
cento, Ratzinger sottolineò che «la sede del Vicario di Cristo
è quella su cui si è seduto Pietro a Roma quando vi piantò
la croce di Cristo. Da essa egli non è mai disceso durante
tutto l’esercizio del suo pontificato, bensì, innalzato con
Cristo secondo lo spirito, le sue mani e i suoi piedi erano
a tal punto fissati ai chiodi che non volle andare dove lo
portava la sua volontà, ma rimanere là dove lo manteneva
la volontà di Dio: là stavano inchiodati ormai il suo senti-
mento e il suo pensiero».
Intervistato da Peter Seewald per il libro Dio e il mondo
nel 2001, quando Giovanni Paolo II era ormai già eviden-
temente malato, il cardinale rifletté: «Possiamo chiederci se
il compito non rimanga eccessivamente oneroso. La massa
dei contatti impostigli dalle responsabilità nei confronti
della Chiesa universale; le decisioni da prendere; la neces-
sità di non trascurare lo stato contemplativo, di radicare la
propria missione nella preghiera – tutto questo rimane un
grosso dilemma». E il 7 maggio 2005 a San Giovanni in La-

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terano, nell’omelia di insediamento sulla Cattedra romana
come Vescovo di Roma, Benedetto XVI non ebbe timore
nel dire che «colui che è il titolare del ministero petrino
deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e de-
bole – come sono fragili e deboli le proprie forze – costan-
temente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma
egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli
viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e te-
nerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto».
Lui è stato sempre molto consapevole che la forza
dell’uomo non proviene dalle capacità personali, bensì
dalla grazia divina. In tante sue omelie c’è questa affer-
mazione della debolezza umana che viene sostenuta dalla
forza del Signore, per cui non mi stupì la risposta che nel
luglio del 2010 diede, ancora a Seewald per il libro Luce
del mondo, alla domanda se avesse mai pensato di dimet-
tersi: «Quando il pericolo è grande non si può scappare.
Ecco perché questo sicuramente non è il momento di di-
mettersi. È proprio in momenti come questo che bisogna
resistere e superare la situazione difficile. Questo è il mio
pensiero. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o
quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può
scappare proprio nel momento del pericolo e dire: “Se ne
occupi un altro”. Quando un Papa giunge alla chiara con-
sapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicolo-
gicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli,
allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere
di dimettersi».
Certamente la sua rinuncia si è posta in un contesto di-
verso rispetto a quella che il 13 dicembre 1294 fece Ce-
lestino V, il Papa eremita da tanti richiamato in questa
circostanza. Però è indubbio che Benedetto ha più volte
incrociato la propria vita con quel monaco «che fece per
viltade il gran rifiuto» (Inferno III,60), come l’avrebbe apo-

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strofato Dante nella Divina commedia, o piuttosto che la
Chiesa ha proclamato santo e che il Martirologio romano
ricorda così: «Esercitata la vita eremitica in Abruzzo, rino-
mato per fama di santità e di miracoli, a 80 anni fu eletto
Romano Pontefice e assunse il nome di Celestino V, ma
nello stesso anno abdicò dal suo ufficio e preferì ritirarsi
in solitudine».
Sugli schermi televisivi sono state riproposte più volte
le immagini del 28 aprile 2009, quando Papa Ratzinger,
durante la visita nelle zone terremotate dell’Abruzzo, si
recò nella basilica di Collemaggio a L’Aquila per venerare
le spoglie di Papa Celestino. Tutti furono colpiti dal fatto
che Benedetto depose sull’urna il suo pallio da Pontefice,
ma assolutamente non si trattò di un gesto simbolico che
voleva preannunciare l’idea della rinuncia. Piuttosto fu un
garbato modo per onorare il suo santo predecessore e rico-
noscerne la coraggiosa decisione, e nel contempo valoriz-
zare con quella esposizione un paramento che non aveva
più in animo di indossare.
Infatti quel pallio era stato utilizzato da Benedetto per
iniziativa del maestro delle Celebrazioni Piero Marini, che
lo aveva fatto realizzare prima della morte di Giovanni
Paolo II su un modello risalente ai primi secoli cristiani,
in relazione a una propria convinzione teologico-liturgica.
Però, incrociato sul lato sinistro con la sua forma allungata
e asimmetrica, come il carattere Ч, quel pallio risultava
decisamente scomodo, poiché spesso cadeva dalla spalla,
mentre la preferenza del Pontefice andava a quello di forma
più simmetrica e ovale con il lembo pendente al centro del
petto, simile alla lettera .
Cosicché, quando l’arcivescovo diocesano Giuseppe
Molinari gli propose di fare un atto d’omaggio a Celestino
V, Benedetto accettò volentieri e partì da Roma già con la
precisa idea di donare quel pallio, che esplicitamente chiese

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al nuovo maestro Guido Marini di portare con sé, non es-
sendo previste celebrazioni che ne avrebbero richiesto l’u-
tilizzo. E ricordo bene come con monsignor Guido sorri-
demmo riguardo al modo in cui il Pontefice aveva risolto
con finezza una situazione sgradita. Benedetto comunque
non commentò in alcun modo l’episodio, poiché era appena
rimasto molto scosso dalle immagini dei danni causati dal
sisma del 6 aprile e per di più, da tedesco, provava anche
costernazione per l’eccidio che era stato compiuto proprio
a Onna nel giugno del 1944 dai soldati nazisti.
Il 4 luglio 2010, poi, compì una visita pastorale a Sul-
mona, in occasione degli ottocento anni dalla nascita di Ce-
lestino V. A causa del sentiero disagevole, non poté recarsi
all’eremo di Sant’Onofrio al Morrone, dove nel 1294 il mo-
naco Pietro Angelerio venne raggiunto dai cardinali che gli
comunicarono l’elezione a Pontefice. Ma accolse l’invito
del vescovo diocesano Angelo Spina e andò a omaggiarne
le reliquie nella cripta della cattedrale.
Anche qui c’era il collegamento a un antico ricordo, poi-
ché il battaglione del fratello Georg, costretto nel 1942 ad
arruolarsi nell’esercito tedesco (durante la ritirata venne
anche ferito), si era attestato da queste parti, lungo la co-
siddetta “linea Gustav”. Nel 2008 monsignor Georg si era
recato a rivedere quei luoghi ed era stato accolto dalla co-
munità locale, potendo così fare in qualche modo anche
pace con se stesso e il suo passato. Tornato in Vaticano,
Georg raccontò durante il pranzo questa sua esperienza al
fratello Joseph, il quale perciò, quando ricevette l’invito dal
vescovo Spina, lo accettò subito e volentieri.
Infine, è singolare la coincidenza tra gli ultimi giorni di
Benedetto da Pontefice e la ricognizione canonica sulle
spoglie di Celestino V, prelevate il 21 febbraio 2013 a Col-
lemaggio, in occasione del 700° anniversario della sua ca-
nonizzazione. Quando la reliquia è tornata nella basilica, i

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paramenti settecenteschi che rivestivano il santo sono stati
sostituiti con altri, di fattura moderna ma stilisticamente
ispirati a quelli dei Pontefici medioevali, per i quali è de-
gno coronamento il pallio lasciato da Benedetto.

Gli incompresi segni premonitori

Nei giorni successivi alla rinuncia, i mass media si sbiz-


zarrirono nel cercare riferimenti a quanto era avvenuto,
in particolare negli ambiti del cinema e della letteratura.
Il più menzionato, ovviamente, fu il film Habemus Papam,
realizzato da Nanni Moretti appena due anni prima, con
la drammatica affermazione di Michel Piccoli: «Chiedo
perdono al Signore per quello che sto per fare… Ho ca-
pito di non essere in grado di sostenere il ruolo che mi è
stato affidato».
In quel caso, però, la situazione era stata immaginata dal
regista nell’immediato contesto del Conclave, con una crisi
di panico del neoeletto e il ricorso a una rapida e inefficace
psicoterapia analitica. In sostanza, si trattava di una mani-
festazione di debolezza dinanzi a una nomina inattesa. Al
contrario per Benedetto, che comunque non fece mai ri-
corso a psicoanalisi o a psicofarmaci, fu evidentemente la
coraggiosa presa di coscienza della diminuzione di energie
fisiche e spirituali dopo otto anni di governo sulla cattedra
di Pietro, ormai quasi ottantaseienne.
Qualcun altro recuperò un’antologia di racconti fan-
tasy, pubblicata dalla rivista Urania della Mondadori nel
marzo del 1978 e intitolata Il dilemma di Benedetto XVI,
come l’omonimo racconto di Herbie Brennan. Qui però il
ricorso a uno psichiatra per risolvere la questione al cen-
tro della vicenda non riguardava la permanenza o meno
del Pontefice alla guida della Chiesa, bensì la sua sanità

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mentale. L’obiettivo era di comprendere se fosse concreta
o illusoria la visione mistica che gli aveva imposto di agire
militarmente contro il feroce dittatore immaginario Victor
Ling, considerandolo un anticristo alla stregua di Nerone
e di Hitler. E l’evoluzione della storia seguiva, ovviamente,
una strada completamente estranea a quella percorsa da
Papa Ratzinger.
Analizzando i fatti a posteriori, molti commentatori
hanno invece riconosciuto di aver sottovalutato un impor-
tante evento vaticano del precedente novembre, quando si
era svolto un mini-Concistoro con la creazione di sei nuovi
cardinali elettori, dopo che appena a febbraio ne erano stati
creati ben diciotto. All’epoca, la spiegazione dei vaticanisti
aveva fatto riferimento alla predominanza di europei (tre-
dici, e fra loro addirittura sette italiani) nell’appuntamento
di inizio 2012, cui si era voluto rimediare successivamente
con l’inserimento di cinque extraeuropei.
Non fu però adeguatamente percepita la presenza dell’ar-
civescovo James Michael Harvey, unico a ricoprire un ruolo
curiale fra i nominati. È vero che l’ecclesiastico posto a capo
della Casa pontificia – denominato nel corso del tempo
maestro di camera della Corte pontificia, maggiordomo
dei Sacri Palazzi e prefetto della Casa pontificia – è quasi
sempre divenuto membro del Collegio cardinalizio, come
documentano ben 92 porporati, su un totale di 97 respon-
sabili che si sono succeduti negli ultimi quattro secoli. Ma
questo è accaduto generalmente al termine del loro inca-
rico, non mentre erano ancora in attività.
In effetti, questa fu una personale idea di Benedetto
XVI, il quale me l’aveva accennata per la prima volta a
fine settembre 2012, spiegandomi che riteneva il posto di
prefetto della Casa pontificia, che Harvey avrebbe lasciato
in seguito alla nomina cardinalizia, come il più adatto per
me. La mia prima sensazione fu che in tal modo riteneva

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che, dopo la sua rinuncia, avrei potuto ricoprire una fun-
zione di trait d’union con il successore. Quando, qualche
settimana più tardi, ritornò sull’argomento, lo ringraziai,
ma gli risposi che avrei accettato solo in obbedienza, poi-
ché mi sembrava un incarico certamente di grande presti-
gio ma troppo formale per le mie caratteristiche. Poi gli
ricordai che, al momento dell’elezione, gli avevo promesso
fedeltà «in vita et in morte» e che dunque desideravo con-
tinuare il mio impegno con lui, cosa che apprezzò molto
e accolse volentieri.
In realtà, già precedentemente Benedetto mi aveva
espresso l’intenzione di nominarmi segretario della Con-
gregazione delle Cause dei santi in sostituzione dell’arcive-
scovo Michele Di Ruberto (dimissionario per età nell’au-
tunno del 2010), elevandomi di conseguenza all’episcopato.
Il Papa ne aveva parlato anche con il cardinale prefetto
Angelo Amato, che si era mostrato pienamente d’accordo.
Ma, quando lo annunciò a me, io confermai che si sarebbe
trattato di un grande onore, ma che sentivo più impor-
tante continuare a essere fedele all’impegno preso con lui
e restare suo segretario particolare. Cosicché, la seconda
volta, Benedetto fu risoluto nel dirmi che me lo chiedeva in
obbedienza e io dovetti perciò rispondere positivamente.
Di fatto, non era consuetudine in Vaticano che il segreta-
rio particolare del Papa diventasse vescovo mentre svolgeva
ancora tale servizio, anche se un precedente c’era stato du-
rante il pontificato precedente, con la nomina di don Stani-
slao, il più stretto collaboratore di Giovanni Paolo II (cui
fu attribuito l’inedito ufficio di prefetto aggiunto della Casa
pontificia). Ma in quella circostanza Papa Wojtyła gli af-
fiancò nella consacrazione episcopale anche il maestro delle
Celebrazioni Piero Marini, cosa che invece Papa Ratzinger
non attuò con il nuovo maestro, monsignor Guido Marini
(omonimo, ma non parente del predecessore).

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Confidenzialmente, Benedetto mi fece comprendere che
tra le motivazioni, in quel tempo che praticamente coinci-
deva con la grazia concessa a Paolo Gabriele, c’era anche
l’intenzione di documentare pubblicamente, ad abundan-
tiam, che lui non condivideva le accuse che da qualche
parte mi erano state rivolte per una presunta mancata vi-
gilanza nella vicenda del Vatileaks, riconfermando la sua
piena fiducia nei miei confronti.
In ogni caso, non ci fu un “trattamento di favore” nei
miei riguardi, poiché la consueta inchiesta si svolse secondo
le regole, con l’intervento anche della Segreteria di Stato,
e al termine mi venne comunicata la nomina, annunciata il
7 dicembre 2012. Fra le tre diocesi titolari che mi furono
proposte, scelsi Urbisaglia, oggi piccolo Comune in provin-
cia di Macerata, ma durante l’Impero romano florido cen-
tro posto lungo la via Salaria Gallica: grazie alla vicinanza
a Roma ho avuto la possibilità di recarmi in visita e ideal-
mente “prendere possesso” della sede episcopale (mentre
le altre due diocesi storiche erano località ormai scomparse
nell’Africa del Nord e in Medio Oriente).
La mia ordinazione fu presieduta da Benedetto il 6 gen-
naio 2013 e certamente, a livello personale, ha rappresen-
tato la cerimonia liturgica più solenne cui io abbia mai
partecipato, commovente come null’altro, sia precedente-
mente che in seguito. Nell’omelia, Papa Ratzinger indicò
con chiarezza che il vescovo «deve soprattutto essere un
uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo al-
lora egli si interessa veramente anche degli uomini» e deve
avere «il coraggio di restare fermamente con la verità, ine-
vitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come
agnelli in mezzo ai lupi». Quando il Pontefice mi diede la
pax, dopo la consacrazione, mi sussurrò una semplice ma
significativa esortazione: «Da vescovo rimanga sempre nella
fedeltà al Signore».

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Verso metà ottobre Benedetto mi comunicò di aver ri-
flettuto su dove andare a vivere dopo la rinuncia e di aver
avuto l’idea di trasferirsi nel “Mater Ecclesiae”, il mona-
stero di clausura voluto da Giovanni Paolo II. Si era infor-
mato e aveva scoperto che le monache Visitandine erano
appena andate via, secondo quanto concordato tre anni
prima, mentre non era ancora giunta la nuova comunità
religiosa che avrebbe dovuto rimpiazzarle.
Perciò, durante un’udienza di tabella, il Papa informò
il sostituto Angelo Becciu riguardo alla rinuncia, espri-
mendogli anche il proprio desiderio per l’abitazione. Con
l’arcivescovo, quasi da congiurati, una sera di novembre
ci recammo senza dare nell’occhio a visitare la struttura e
ci rendemmo conto che occorreva realizzare una ristrut-
turazione degli spazi. Venne incaricato un architetto per
la progettazione e poco dopo cominciarono i lavori. L’a-
spetto divertente fu che man mano la voce si sparse in Va-
ticano, attribuendo però l’iniziativa al cardinale Bertone,
che secondo la vox populi stava preparando la residenza
dove ritirarsi in pensione: di comune accordo, lasciammo
correre il pettegolezzo, in modo da depistare ogni possi-
bile sospetto…
Meno facile da cogliere tra i “preavvisi non rilevati” ci
fu l’inusuale concessione, nell’arco di pochissimi mesi, di
diverse onorificenze mediante le quali Benedetto volle mo-
strare la propria gratitudine ai principali collaboratori laici.
Il 29 settembre 2012 concesse la Commenda con placca
dell’Ordine di san Gregorio Magno al comandante Dome-
nico Giani e lo stesso fece il 27 novembre con Giuseppe
Bellapadrona, responsabile della fattoria pontificia di Ca-
stel Gandolfo, e il 18 gennaio 2013 con il medico perso-
nale Patrizio Polisca; mentre il Cavalierato dell’Ordine di
San Gregorio Magno fu concesso il 15 novembre 2012 a
Francesco Cavaliere e a Sandro Mariotti, dell’Anticamera

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pontificia, e il 18 gennaio 2013 al fotografo dell’Osserva-
tore Romano Francesco Sforza. Ma erano provvedimenti
che non venivano particolarmente pubblicizzati, cosicché
non suscitarono particolari interrogativi, né posero qual-
cuno in stato d’allerta.
Infine, rappresentò quasi un presagio il concerto dell’or-
chestra del Maggio musicale fiorentino diretta dal maestro
Zubin Mehta, che si svolse il 4 febbraio nell’aula Paolo VI,
promosso dall’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede in
onore di Benedetto XVI e del presidente della Repubblica
italiana Giorgio Napolitano in occasione dell’84° anniver-
sario dei Patti lateranensi. In programma c’erano infatti due
titoli che potevano essere interpretati alla luce di quanto
stava per accadere: la sinfonia da La forza del destino di
Giuseppe Verdi e la sinfonia n. 3 Eroica di Ludwig van
Beethoven!

Il congedo dal Palazzo

Non credo che Benedetto si attendesse qualche gesto


da parte dei cardinali per convincerlo a cambiare idea, ma
sono certo che non sarebbe comunque tornato indietro.
Quindi, anche se qualcuno avesse provato a sondarlo, si
sarebbe reso conto dell’inutilità di un appello pubblico o
qualcosa del genere, poiché avrebbe inutilmente creato ten-
sioni. Perciò, in quei pochi giorni fino all’inizio degli eser-
cizi spirituali della Curia romana, si svolsero unicamente
gli incontri già previsti in agenda.
Dopo la consueta pausa del martedì, il 13 febbraio era
l’inizio del tempo quaresimale e Papa Ratzinger utilizzò la
catechesi dell’Udienza generale e l’omelia della Messa per
il Mercoledì delle ceneri per proporre alcune riflessioni dal
sapore autobiografico, incentrate sulla liturgia del giorno.

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Al mattino, ai numerosi fedeli raccolti nell’aula Paolo VI,
parlò del deserto dove Gesù si ritira e viene sottoposto alle
tentazioni del diavolo: «È il luogo del silenzio, della po-
vertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si
trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza,
è spinto ad andare all’essenziale e proprio per questo gli è
più facile incontrare Dio. […] Riflettere sulle tentazioni a
cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno
di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che cosa
conta davvero nella mia vita? […] Il nocciolo delle tre ten-
tazioni che subisce Gesù è la proposta di strumentalizzare
Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e
per il proprio successo. E dunque, in sostanza, di mettere
se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esi-
stenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe
chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il
Signore o sono io?».
Al pomeriggio poi, nella Basilica vaticana, la sua voce
risuonò ferma: «Il “ritornare a Dio con tutto il cuore” nel
nostro cammino quaresimale passa attraverso la croce, il
seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al dono
totale di sé. È un cammino in cui imparare ogni giorno ad
uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiu-
sure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore.
[…] Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rap-
porto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto
religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il
comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che
cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non
serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella
semplicità e nella generosità. La nostra testimonianza al-
lora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la
nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del
giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cam-

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mino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella
luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre».
Secondo consuetudine, il giorno successivo al Mercoledì
delle ceneri fu dedicato all’incontro con i sacerdoti della
diocesi di Roma, un appuntamento fissato già da diversi
mesi per una riflessione intitolata “Riviviamo il Concilio
Vaticano II - Ricordi e speranze di un testimone”. La te-
matica era stata scelta dai parroci romani, che desidera-
vano ascoltare la rievocazione di quell’evento dalla viva
voce dell’ultimo protagonista ancora in attività.
Benedetto si era preparato molto bene, aveva scritto di
suo pugno l’intero discorso e aveva fissato nella mente la
sequenza di punti che desiderava affrontare. Molti rima-
sero stupiti dalla lucidità con cui andò avanti a parlare per
circa un’ora senza tenere neanche un foglietto d’appunti
fra le mani. Ma la sua prodigiosa memoria e la competenza
sull’argomento gli consentirono di analizzare compiuta-
mente ciò che accadde durante e dopo il Concilio, espri-
mendo anche le proprie convinzioni riguardo all’ermeneu-
tica dei testi conciliari.
«Siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con
entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo
che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova
Pentecoste. Si pensava di trovare di nuovo l’unione tra la
Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro
dell’umanità, per aprire il vero progresso», furono le parole
con cui diede avvio a un’ampia disamina delle intenzioni
dei padri conciliari: «La prima, apparentemente semplice,
era la riforma della liturgia; la seconda, l’ecclesiologia; la
terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; infine, anche l’ecu-
menismo». Le idee essenziali, spiegò, erano diverse: «So-
prattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cri-
stiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo
cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica

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che è sempre il giorno della risurrezione». Poi c’erano dei
princìpi: «L’intelligibilità e la partecipazione attiva. Pur-
troppo, questi princìpi sono stati anche male intesi».
Qui esplicitò una serrata critica che già altre volte aveva
manifestato e che, come prevedibile, fu l’unico brano che
fece notizia sulla stampa: «C’era il Concilio dei Padri, il
vero Concilio, ma c’era anche il Concilio dei media. Era
quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio
tramite questi, tramite i media. E mentre il Concilio dei
Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio
della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi
e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che
cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di
trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, il
Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente,
all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei
media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica
diversa: per i media, il Concilio era una lotta politica, una
lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio
che i media prendessero posizione per quella parte che a
loro appariva quella più confacente con il loro mondo».
Ma la sua conclusione fu venata comunque di ottimismo:
«Il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a rea-
lizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale.
Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si
realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche
vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa».
Gli esercizi spirituali per la Curia romana si tennero,
fra il 17 e il 23 febbraio, nella cappella “Redemptoris Ma-
ter”. Il Papa, don Alfred e io assistemmo dalla cappella di
San Lorenzo, posta sul lato destro, dove c’era un grande
inginocchiatoio per il Papa e due piccoli per noi segretari,
con le sedie, ma senza tavolini. Il Papa non prendeva ap-
punti, però ascoltava con grande interesse e concentrazione

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le meditazioni proposte dal cardinale Gianfranco Ravasi,
presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Durante quella settimana, in tutti i pasti non parlammo
mai e, per mantenere un’atmosfera di raccoglimento, ascol-
tavamo musica classica. Nella sala da pranzo c’era un im-
pianto stereo e Benedetto dava ogni giorno precise dispo-
sizioni su quali cd mettere: in particolare mottetti di Bach e
concerti di Mozart e Beethoven, ma non Passioni o Messe,
che preferiva riservare ad altri momenti. In quel periodo
anche la corrispondenza era filtrata e gli sottoponevo sol-
tanto le lettere più importanti e i documenti che richiede-
vano la sua firma.
Ravasi riuscì effettivamente a dare respiro, offrendo
icone bibliche dal grande valore spirituale, ma anche ben
sintonizzate sul momento che stavamo vivendo. Mi è ri-
masta particolarmente impressa la sua introduzione, con il
brano dell’Esodo dove Mosè prega sulla vetta di un colle,
mentre nella valle sottostante il popolo d’Israele combatte
contro Amalek. Rivolgendosi direttamente a Benedetto,
sottolineò: «Questa immagine rappresenta la sua funzione
principale per la Chiesa, cioè l’intercessione. Noi rimar-
remo nella “valle”, quella valle dove c’è la polvere, dove ci
sono le paure, i terrori anche, gli incubi, ma anche le spe-
ranze, dove lei è rimasto in questi otto anni con noi. D’ora
in avanti, però, noi sapremo che, sul monte, c’è la sua in-
tercessione per noi». E concluse formulando un auspicio
a nome di tutti: «Mosè aveva 120 anni quando morì. I suoi
occhi però non gli si erano mai appannati e il vigore della
sua mente non era mai venuto meno. Questo è certamente
un grande augurio che vogliamo rivolgerle. Anche perché
la tradizione ebraica, attorno a questo momento, ha intes-
suto dei racconti deliziosi, molto teneri nei confronti di
Mosè e di questo suo attendere tutto il percorso della sua
esistenza».

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Memore di quelle parole, nell’Angelus di domenica 24
Papa Ratzinger pronunciò un pensiero profondamente
scolpito nel suo cuore e che diede il “la” a una serie di os-
servazioni polemiche che non si spensero praticamente
fino al termine della sua vita: «Il Signore mi chiama a “sa-
lire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera
e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare
la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché
io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo
stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in
un modo più adatto alla mia età e alle mie forze».
Nella medesima linea ideale, all’Udienza generale di
mercoledì 27 in piazza San Pietro, descrisse il percorso dei
suoi otto anni di pontificato: «Un tratto di cammino della
Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche
momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con
gli apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha
donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui
la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti
in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in
tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire.
Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e
ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non
è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è
Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini
che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è
una certezza, che nulla può offuscare».
Poi, tornando ancora una volta col pensiero al 19 aprile
2005, la data dell’elezione, fece altre affermazioni sulle quali
sono state versate tonnellate d’inchiostro: «La gravità della
decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel mo-
mento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore.
Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna
privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la

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Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la
dimensione privata. […] Il “sempre” è anche un “per sem-
pre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione
di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca
questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, in-
contri, ricevimenti, conferenze, eccetera. Non abbandono la
croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso».
In sostanza era una “licenza poetica”, che Benedetto
utilizzò poiché rispecchiava il suo stato d’animo di quel
momento. Ma evidentemente, col senno di poi, dopo un
po’ di anni il “sempre e per sempre” acquisì una non vo-
luta ambiguità. Presentando un libro, provai a rendere più
sfumata quell’espressione, parlando di “pontificato allar-
gato” e devo riconoscere che la toppa fu peggiore del buco,
come recita un simpatico proverbio. Comunque, il signifi-
cato originario era semplicemente che lui non avrebbe più
fatto il teologo o il professore, non sarebbe più tornato a
quello che gli piaceva veramente.
Per evitare ulteriori equivoci, mi limito a riportare le
sagge parole di Joaquín Navarro-Valls, lo storico porta-
voce di Giovanni Paolo II e anche del primo periodo di
Benedetto, nell’autobiografia A passo d’uomo: «Il Papa in
quanto tale non va mai del tutto in vacanza. Perché l’istitu-
zione che egli porta con sé non lo abbandona mai, essendo
impressa per sempre dentro di lui e permanendo scolpita
nel suo interno dall’inizio del mandato sino alla fine della
sua vita. Essere Papa è come avere un tatuaggio impresso
definitivamente e indelebilmente nell’anima».

L’uscita di scena

L’ultimo giorno del pontificato l’ho vissuto quasi in ap-


nea. Al mattino, nella sala Clementina, ci fu l’incontro di

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Benedetto con i cardinali presenti a Roma. Era stato un
suo vivo desiderio poter dare loro un saluto di congedo
collettivo e la scelta di prorogare al 28 febbraio la perma-
nenza sulla Cattedra di Pietro aveva tenuto conto anche
della necessità di consentire ai più lontani il tempo per si-
stemare le cose in diocesi prima di raggiungere Roma. Dei
207 membri del Collegio cardinalizio, di cui 90 creati da
lui nei suoi cinque Concistori, erano presenti 144 porpo-
rati, fra i quali 103 di età inferiore agli ottant’anni e che
dunque sarebbero entrati in Conclave (insieme agli altri
che giunsero successivamente alla spicciolata).
«Per me è stata una gioia camminare con voi in questi
anni, nella luce della presenza del Signore risorto. La vostra
vicinanza e il vostro consiglio mi sono stati di grande aiuto
nel mio ministero», furono le grate parole pronunciate da
Papa Ratzinger. E, rifacendosi al teologo Romano Guar-
dini, propose un pensiero che gli stava molto a cuore: «La
Chiesa è un corpo vivo, animato dallo Spirito Santo e vive
realmente dalla forza di Dio. Essa è nel mondo, ma non
è del mondo: è di Dio, di Cristo, dello Spirito. La Chiesa
vive, cresce e si risveglia nelle anime, che – come la Vergine
Maria – accolgono la Parola di Dio e la concepiscono per
opera dello Spirito Santo; offrono a Dio la propria carne
e, proprio nella loro povertà e umiltà, diventano capaci
di generare Cristo oggi nel mondo. Attraverso la Chiesa,
il Mistero dell’Incarnazione rimane presente per sempre.
Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luo-
ghi. Rimaniamo uniti, cari fratelli, in questo Mistero: nella
preghiera, specialmente nell’Eucaristia quotidiana, e così
serviamo la Chiesa e l’intera umanità. Questa è la nostra
gioia, che nessuno ci può togliere».
A nome del Collegio, il decano Angelo Sodano propose
un indirizzo di omaggio pervaso anche di emozioni per-
sonali: «Padre Santo, con profondo amore noi abbiamo

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cercato di accompagnarla nel suo cammino, rivivendo l’e-
sperienza dei discepoli di Emmaus, i quali, dopo aver cam-
minato con Gesù per un buon tratto di strada, si dissero l’un
l’altro: “Non era forse ardente il nostro cuore, quando ci
parlava lungo il cammino?” (Luca 24,32). Sì, Padre Santo,
sappia che ardeva anche il nostro cuore quando cammina-
vamo con lei in questi ultimi otto anni. Oggi vogliamo an-
cora una volta esprimerle tutta la nostra gratitudine». Se-
condo me riuscì a esprimere la sensibilità della stragrande
maggioranza dei cardinali, rappresentandone le emozioni
che anch’io avevo percepito in seguito ad alcuni colloqui
e alle lettere giunte da numerosi di loro. Si percepiva in
quell’incontro una sincerità nel dolore, nell’incompren-
sione, anche nell’imbarazzo, forse risolti poi con il trascor-
rere del tempo.
Devo dire però che qualche giorno più tardi, nell’omelia
della Messa “pro eligendo Romano Pontifice”, risuonarono
alcune espressioni che a molti parvero un contraltare ai
buoni sentimenti precedenti. Soffermandosi sul significato
della missione del Papa, il cardinale Sodano affermò: «L’at-
teggiamento fondamentale di ogni buon Pastore è dunque
dare la vita per le sue pecore. Questo vale soprattutto per
il Successore di Pietro, Pastore della Chiesa universale.
Perché quanto più alto e più universale è l’ufficio pasto-
rale, tanto più grande deve essere la carità del Pastore».
Io ero presente a quella celebrazione e mi resi conto, per
gli sguardi lanciatimi da altri confratelli, di quanto queste
parole venissero percepite anche da loro come una non
troppo velata critica. Benedetto comunque non vide la ce-
rimonia in televisione, né gliene accennai, poiché compresi
che non desiderava essere messo al corrente di quanto stava
accadendo in vista del Conclave.
Nel pomeriggio, mentre le Memores si erano già re-
cate a Castel Gandolfo, con don Alfred controllammo che

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nell’Appartamento pontificio fosse tutto in ordine. Poco
prima delle 17, demmo con Benedetto un ultimo sguardo
a quelle stanze e quindi scendemmo con l’ascensore No-
bile. Fu un addio, devo riconoscerlo, che mi fece soffrire
e mi colpì nell’intimo, al punto che non potei far altro che
lasciar libero corso alle lacrime.
Al piano terra c’erano i due cardinali vicari per la dio-
cesi di Roma e per la Città del Vaticano, Agostino Vallini,
che si accorse del mio turbamento e cercò di confortarmi,
e Angelo Comastri, che disse a Benedetto di aver pianto,
ricevendo come risposta un tranquillizzante: «Un Papa va e
un Papa viene, l’importante è che Cristo c’è». In attesa per
un saluto, nel cortile di San Damaso, c’erano i responsabili
della Segreteria di Stato e altri fra i principali collaboratori
del Pontefice, mentre la Guardia svizzera era schierata con
il picchetto d’onore. Ma tutt’intorno si erano radunati mol-
tissimi dipendenti vaticani, che con un intenso applauso
espressero il loro affetto. Poi tutto si svolse molto rapida-
mente, mentre sull’account @Pontifex di Twitter, inaugu-
rato nel dicembre del 2012, compariva il suo ultimo mes-
saggio: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno.
Possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al
centro della vostra vita».
Salimmo in automobile verso l’eliporto e decollammo,
mentre le campane della Basilica vaticana e delle altre chiese
romane suonavano a distesa. In elicottero, silenzio assoluto:
guardavamo quello che ci scorreva sotto gli occhi, anche
perché era la prima volta che passavamo sul centro storico
di Roma, dato che in occasioni precedenti, giungendo da
Ciampino o da Castel Gandolfo, il pilota aveva percorso
una rotta più limitrofa alla città.
Soltanto mesi dopo abbiamo visto con Benedetto le im-
magini che erano state trasmesse in mondovisione da un
secondo elicottero che ci seguì per tutto il viaggio, in un

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documentario curato dal Centro televisivo vaticano. Per
me fu molto emozionante rievocare quel giro attorno alla
cupola di San Pietro che il pilota fece senza averci preav-
visati, ma il Papa emerito mantenne il suo atteggiamento
impassibile e non commentò affatto.
Giunti nella residenza di Castel Gandolfo, poco dopo le
17.30, Benedetto si affacciò dal balcone esterno per salutare
i fedeli e pronunciò le sue ultime parole da Papa regnante:
«Cari amici, sono felice di essere con voi, circondato dalla
bellezza del creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto
bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto. Voi
sapete che questo mio giorno è diverso da quelli prece-
denti; non sono più Sommo Pontefice della Chiesa catto-
lica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono
semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del
suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con
il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con
la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare
per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E
mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia. Andiamo
avanti insieme con il Signore per il bene della Chiesa e del
mondo».
Erano momenti di tensione estrema, che anche Bene-
detto XVI viveva con emozione. Parlando a braccio in ita-
liano, fece perciò alcuni errori, poi corretti come d’abitu-
dine nel bollettino ufficiale della Sala stampa. Ma su uno
di questi – l’inversione tra “Sommo Pontefice” e “Ponte-
fice Sommo” – sarebbe poi stata ricamata un’assurda elu-
cubrazione, affermando che, come i già discussi errori in
latino nella lettera di rinuncia, fosse in realtà un modo per
inviare un messaggio subliminale relativo all’autenticità
e alla validità della rinuncia al proprio ufficio petrino. In
realtà, è sufficiente ascoltare integralmente quel discorso
per rendersi conto che, subito prima, aveva invertito an-

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che le parole “mio giorno” con “giorno mio”, mentre alla
fine, impartendo la benedizione, era partito con il lapsus
“Sia benedetto Dio onnipote…” al posto di “Ci benedica
Dio onnipotente”.
Rientrato in casa, si ritirò in camera da letto per sistemare
le cose personali e per pregare da solo i vespri. Alle 19.30
ci fu la consueta cena e alle 20 sentimmo il rumore della
chiusura del portone. Subito dopo ci recammo davanti al
televisore per il Tg1, con i vari servizi dedicati alla gior-
nata. Durante il telegiornale non c’erano mai commenti, al
massimo capitava di scambiare qualche opinione durante la
successiva passeggiata. E quella sera il silenzio regnò ancor
più sovrano. D’altra parte, cosa si sarebbe potuto dire in
quei frangenti? Al termine, facemmo una passeggiata attra-
verso diverse stanze del primo piano: la biblioteca privata,
la sala del Concistoro, la galleria e altre sale fino alla sala
degli Svizzeri, dove c’è un bel terrazzino affacciato verso il
lago Albano. Infine, recitata la compieta in cappella, Bene-
detto rientrò nella sua stanza. Dopo 2.873 giorni, si conclu-
deva così il pontificato del 264° successore di san Pietro.

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8
Il rapporto fra i due Papi

Una laboriosa telefonata

Al mattino del 1° marzo 2013, Benedetto XVI diede visi-


bilmente inizio al suo nuovo status, indossando unicamente
la talare e lo zucchetto bianchi, ma tralasciando – oltre ov-
viamente le scarpe rosse – la mantelletta “pellegrina” e la
fascia con lo stemma: di fatto, pur non essendoci alcuna
norma scritta al riguardo, informalmente questi due orna-
menti vengono rispettivamente considerati simboli dell’an-
nuncio evangelico e del governo pontificio.
Si era anche tolto dall’anulare destro l’anello “del pesca-
tore”, che mi affidò affinché lo portassi al cardinale Ber-
tone, il quale, nella sua funzione di camerlengo, il 6 marzo
lo annullò mediante biffatura. A monsignor Marini conse-
gnai invece la stola “degli apostoli”, quella di colore rosso
che il Papa indossa in specifiche cerimonie. Successiva-
mente diedi a don Alfred, quando andò a collaborare con
Papa Francesco, l’antico strumento con il timbro a secco
«Segreteria particolare di Sua Santità», utilizzato special-
mente per le pergamene con la benedizione apostolica fir-
mata dal Pontefice.
Da quel momento, il Papa emerito generalmente uti-
lizzò l’anello che gli era stato regalato dai canonici della
cattedrale di Monaco quando divenne arcivescovo dio-
cesano, con sopra inciso un gregge. Lo scelse fra alcuni
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che gli avevo sottoposto a Castel Gandolfo, preferendolo
a quello datogli da Paolo VI al momento della creazione
cardinalizia, che indossò raramente. Da cardinale aveva in-
fatti continuato a portare l’anello regalatogli dalla sorella
e dal fratello per la consacrazione a vescovo, che però nel
settembre del 2006, quando si recò in pellegrinaggio nel
famoso santuario bavarese, volle offrire alla Madonna di
Altötting, tuttora visibile all’anulare destro della statua
mariana. Negli ultimi anni utilizzò anche il dono del ve-
scovo emerito Gino Reali, nato nella diocesi di Norcia, il
cui anello episcopale d’argento recava simboli benedettini:
«Desidero regalarglielo perché ci unisce», gli scrisse, e Be-
nedetto lo accettò volentieri.
Durante il tempo di avvicinamento al Conclave, non si
mostrò particolarmente interessato a quanto stava acca-
dendo. In generale, continuava a informarsi assistendo al
Tg1 o al Tg2, a seconda dell’orario in cui finiva di cenare,
e io gli segnalavo nella rassegna stampa qualche articolo
particolarmente significativo. Ma era determinato a non
influire in alcun modo sull’elezione del nuovo Pontefice,
per cui evitò qualsiasi contatto con l’esterno, sia telefonico
sia personale.
Per lui era stato sufficiente chiarire che, pur nell’origina-
lità della situazione del momento, il prescelto dai cardinali
sarebbe stato senza dubbio alcuno il 266° Pontefice. Lo
fece in anticipo, in diverse occasioni: «Continuate a pregare
per me, per la Chiesa, per il futuro Papa» (Udienza gene-
rale, 13 febbraio 2013); «Vi chiedo di ricordarmi davanti
a Dio, e soprattutto di pregare per i cardinali, chiamati ad
un compito così rilevante, e per il nuovo successore dell’apo-
stolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza
del suo Spirito» (Udienza generale, 27 febbraio); «Conti-
nuerò a esservi vicino con la preghiera, specialmente nei
prossimi giorni, affinché siate pienamente docili all’azione

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dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che il Si-
gnore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il
Collegio cardinalizio, c’è anche il futuro Papa» (Incontro
con i cardinali, 28 febbraio).
Ad abundantiam, in quest’ultima circostanza pronunciò
una significativa aggiunta a braccio, che non era presente
nel testo scritto: «al quale già oggi prometto la mia incon-
dizionata reverenza e obbedienza». Lo ribadì successiva-
mente, rivolgendosi a Francesco – negli incontri o per let-
tera – con l’espressione “Santo Padre”. E poi ha sempre
celebrato la santa Messa, durante la settimana in italiano
e la domenica in latino, utilizzando il Messale romano di
Paolo VI e pronunciando ovviamente la preghiera eucari-
stica con l’esplicita menzione della comunione con il Papa
regnante, Francesco, come possono testimoniare tutti quelli
che hanno concelebrato con lui.
In quel periodo mi recavo ogni mattina in Prefettura e
rientravo a Castel Gandolfo nel primo pomeriggio. Ma il
13 marzo decisi di fermarmi sino alla fumata serale, cosic-
ché, non appena il colore bianco rese evidente che il nuovo
Papa era stato eletto, mi recai in sala Regia e quindi mi
misi in fila nella Cappella Sistina per esprimergli l’atto di
obbedienza. Francesco, quando giunsi a salutarlo, non mi
lasciò nemmeno aprire la bocca per fargli gli auguri, anti-
cipandomi con la richiesta: «Vorrei parlare con Benedetto.
Lei può aiutarmi?». Lì dentro i cellulari non funzionavano,
cosicché mi affrettai in una stanza limitrofa, dove era stato
predisposto un telefono dei servizi tecnici.
Mentre il Pontefice proseguiva nei saluti, ho digitato il
numero fisso della residenza a Castel Gandolfo, quindi il
cellulare di don Alfred, ma nessuno rispondeva perché,
come poi ho saputo, erano tutti davanti al televisore e ave-
vano silenziato gli apparecchi telefonici. Nessuno di loro
immaginava che potesse giungere subito una tale chia-

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mata… A quel punto ho avvertito Papa Francesco e lui mi
ha detto di continuare a provare, in modo da potersi mettere
in collegamento più tardi, dopo essersi presentato ai fedeli.
Alla fine ho contattato il posto di guardia della Gendar-
meria pontificia e mi ha risposto il vicecommissario Mauro
De Horatis, che si è recato fisicamente nell’Appartamento
e ha avvisato della telefonata che sarebbe arrivata appena
possibile. Al rientro dalla Loggia delle benedizioni, Papa
Francesco mi ha raggiunto vicino al telefono, io ho fatto
di nuovo il numero del fisso e, dopo la risposta di don Al-
fred, gli ho passato la cornetta, mentre dall’altra parte Be-
nedetto prendeva il cordless. Ovviamente mi sono allon-
tanato e non ho ascoltato quanto Papa Bergoglio diceva,
mentre don Alfred sentì la risposta di Benedetto: «La rin-
grazio, Santo Padre, perché ha pensato a me. Io le pro-
metto fin da subito la mia obbedienza. Io prometto la mia
preghiera per lei!».
Dagli scarni commenti che il Papa emerito si lasciò
sfuggire nei giorni immediatamente successivi, potei com-
prendere che il nome di Jorge Mario Bergoglio gli giunse
inatteso. Ho pensato, ricordandomi che voci attribuite a
cardinali presenti nel Conclave del 2005 avevano citato
l’arcivescovo di Buenos Aires come un protagonista di
quel momento, che forse Benedetto si era fatto il conto
che gli anni erano trascorsi anche per il confratello argen-
tino. Piuttosto, mi è sembrato che i suoi pronostici guar-
dassero verso tre figure (ben presenti, del resto, anche nei
“tabellini” dei vaticanisti): il settantunenne italiano Angelo
Scola, arcivescovo di Milano, il sessantottenne canadese
Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi,
e il sessantatreenne brasiliano Odilo Pedro Scherer, arci-
vescovo di San Paolo.
Comunque Benedetto conosceva sufficientemente bene
l’arcivescovo di Buenos Aires, che curiosamente era stato

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protagonista di una delle sue ultime nomine dopo la ri-
nuncia: appena venti giorni prima, il 23 febbraio, lo aveva
infatti inserito fra i membri della Pontificia Commissione
per l’America latina, dove sarebbe dovuto rimanere fino
al compimento degli ottant’anni. Nel dicembre del 2011,
quando Bergoglio compì 75 anni e presentò la consueta
lettera di dimissioni, Papa Ratzinger aveva concesso la pro-
roga di un biennio, usuale per i cardinali. Ma le occasioni
di incontro non erano state molte, poiché l’arcivescovo ar-
gentino non amava venire in Vaticano.
Un significativo, anche se indiretto, rapporto fra loro si
era avuto nel 2007, quando il preposito generale dei Ge-
suiti, padre Peter Hans Kolvenbach – che aveva comuni-
cato a Benedetto la volontà di dimettersi al compimento
degli ottant’anni, nel 2008, conservando il titolo di pre-
posito emerito – avviò la preparazione della Congrega-
zione che avrebbe eletto il suo successore. Papa Ratzinger
espresse, tramite una lettera inviata dal cardinale Bertone,
alcune sollecitazioni, in particolare riguardo alla prepara-
zione spirituale ed ecclesiale dei giovani gesuiti, nonché
sul valore e sull’osservanza del quarto voto, quello della
“speciale obbedienza al Pontefice”. La Segreteria di Stato
suggerì allora a padre Kolvenbach di coinvolgere nei lavori
preparatori il cardinale gesuita Bergoglio, chiedendogli un
parere sullo stato della Compagnia di Gesù e sull’ipotesi
di un commissariamento, che ogni tanto tornava ad affac-
ciarsi. Il successore di Kolvenbach, padre Adolfo Nicolás,
racconterà che il 17 marzo 2013, nel primo incontro con
Papa Francesco, aveva ascoltato dalla sua viva voce la con-
fidenza che si era tenacemente opposto a questa idea, coin-
volgendo lo stesso Kolvenbach e chiedendogli di riferire a
Benedetto XVI, anche a proprio nome, l’inopportunità di
procedere in questa problematica direzione, ottenendone
la promessa che ciò non sarebbe avvenuto.

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Devo dire che personalmente rimasi colpito dalle parole
che Papa Francesco pronunciò il 15 marzo 2013 dinanzi ai
cardinali, che non furono “di circostanza”, ma sgorgarono
realmente dal profondo del suo cuore, come mi ripeté più
volte in quei primi giorni quando gli fui spesso al fianco, nel
mio ruolo di prefetto della Casa pontificia: «Un pensiero
colmo di grande affetto e di profonda gratitudine rivolgo
al mio venerato predecessore Benedetto XVI, che in que-
sti anni di pontificato ha arricchito e rinvigorito la Chiesa
con il suo Magistero, la sua bontà, la sua guida, la sua fede,
la sua umiltà e la sua mitezza. Rimarranno un patrimonio
spirituale per tutti! Il ministero petrino, vissuto con totale
dedizione, ha avuto in lui un interprete sapiente e umile,
con lo sguardo sempre fisso a Cristo, Cristo risorto, pre-
sente e vivo nell’Eucaristia. Lo accompagneranno sempre
la nostra fervida preghiera, il nostro incessante ricordo, la
nostra imperitura e affettuosa riconoscenza. Sentiamo che
Benedetto XVI ha acceso nel profondo dei nostri cuori una
fiamma: essa continuerà ad ardere perché sarà alimentata
dalla sua preghiera, che sosterrà ancora la Chiesa nel suo
cammino spirituale e missionario».

Dall’Appartamento a Santa Marta

Per i primissimi tempi dopo l’elezione, Papa Francesco


non ebbe un segretario particolare, anche perché a Buenos
Aires era abituato a gestire direttamente lui gli appunta-
menti, le telefonate e la posta. Perciò, su sua richiesta, gli
consegnai direttamente la documentazione del conto riser-
vato della Segreteria particolare di Sua Santità e le chiavi
delle due casseforti nell’Appartamento papale. Soltanto
dopo qualche giorno venne chiamato come segretario don
Alfred, in favore del quale anche Benedetto aveva scritto

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una lettera personale a Papa Francesco, e così feci con lui
un semplicissimo passaggio di consegne.
Al mattino del 15 marzo lo accompagnai anch’io nel Pa-
lazzo apostolico per la sua presa di possesso dell’Apparta-
mento alla Terza loggia, dopo la rottura dei sigilli da parte
del cardinale camerlengo Bertone, e gli feci vedere come
erano disposte le stanze. Gli dissi pure che non ci sareb-
bero stati problemi per il trasloco da Casa Santa Marta,
poiché era tutto a posto e bastava una normale ripulitura
dei locali. Sul momento non mi diede alcuna risposta, fa-
cendomi capire che ci avrebbe pensato. Ho letto che il
preposito generale dei Gesuiti, padre Adolfo Nicolás, ri-
cevette un invito da Papa Bergoglio per il pomeriggio di
domenica 17: «Vieni a Santa Marta, perché domani devo
trasferirmi al Palazzo apostolico e qui ho più libertà». Da
queste parole sembrerebbe di capire che avesse concluso
in questa direzione, però a me questa idea relativa al 18
marzo non fu mai esplicitata.
Dopo un paio di settimane gli riproposi l’interrogativo
e il Papa mi disse queste testuali parole: «Normalmente io
dormo come un sasso, ma la notte dopo aver visto l’Ap-
partamento ho dormito malissimo. Rimuginavo dentro di
me che non sono abituato a vivere in spazi così ampi. Po-
treste trovare una sistemazione più piccola in Vaticano?».
Mi consultai con il sostituto Becciu e concordammo sul
fatto che qualsiasi soluzione – c’erano per esempio dispo-
nibilità nel palazzo dell’Arciprete, in quello del Sant’Uf-
fizio o nella vecchia Santa Marta – sarebbe risultata poco
funzionale e avrebbe comunque creato problemi gestionali
e di sicurezza.
Provai anche a sottoporgli la questione dal punto di vi-
sta emotivo, dicendogli che per tutti quelli che passavano
di sera davanti alla Basilica vaticana era un punto di rife-
rimento la luce accesa nell’Appartamento pontificio e che

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ci sarebbe sicuramente stata nostalgia, se si fosse modifi-
cata la residenza: però ebbi l’impressione che le migliaia di
chilometri di distanza da Roma non lo avevano reso par-
tecipe di tale sensibilità. Anche Benedetto ne fu sorpreso,
ma la sua saggia conclusione fu che, se non voleva, non lo
si poteva certo obbligare!
Alla fine, la decisione fu presa direttamente da lui, con
la conferma della permanenza nell’Appartamento patriar-
cale di Santa Marta. Il motivo lo spiegò il 7 giugno 2013,
durante l’incontro con gli studenti delle scuole gestite dai
Gesuiti in Italia e Albania: «Per me è un problema di per-
sonalità: è questo. Io ho necessità di vivere fra la gente,
e se io vivessi solo, forse un po’ isolato, non mi farebbe
bene. Questa domanda me l’ha fatta un professore: “Ma
perché lei non va ad abitare là? (nell’Appartamento ponti-
ficio, N.d.A.)”. Io ho risposto: “Ma, mi senta, professore:
per motivi psichiatrici”».
Non tenendo conto di questo chiarimento, soprattutto
nei primi tempi ci fu chi volle contrapporre Francesco e
Benedetto anche sotto l’aspetto della residenza, affermando
che il nuovo Pontefice non voleva il fasto del Palazzo apo-
stolico, ma si accontentava di una stanza in albergo. Senza
alcuna polemica, devo però contestare questa interpreta-
zione, poiché gli spazi personali degli ultimi Pontefici – stu-
dio, salotto, stanza da letto e bagno – sono stati equivalenti
a quelli di Francesco nell’Appartamento di Santa Marta;
mentre tutti gli altri ambienti – dalla cucina alla sala da
pranzo, dalla cappella ai locali per la Segreteria particolare
e gli altri collaboratori – a Santa Marta sono ugualmente
disponibili, anche se come parte del complesso alberghiero.
Di fatto, posso testimoniare che, per come trovammo
l’Appartamento pontificio nel 2005, Giovanni Paolo II
non aveva certamente vissuto in agi principeschi. E pure i
miglioramenti successivi furono poco onerosi per la Santa

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Sede poiché, grazie a Dio, verso il Papa c’è molta benevo-
lenza e generosità anche da parte di non cattolici, cosicché
diverse attrezzature di servizio per la sua residenza vengono
donate da ditte o da privati che quasi sempre chiedono ad-
dirittura di restare anonimi. Proprio per evitare il deterio-
ramento delle stanze e delle suppellettili, l’Appartamento
deve comunque venire tuttora curato, dunque in gioco non
c’è per nulla la questione del risparmio economico, quanto
appunto quella della psicologia personale.
Questo aspetto della contrapposizione fra il regnante
Francesco e l’emerito Benedetto, che da opposte sponde è
stato costantemente sostenuto, ha sempre rattristato Ratzin-
ger, soprattutto quando l’osservazione proveniva dall’in-
terno del Vaticano. Parafrasando il noto modo di dire, tanti
hanno provato a tirare Benedetto XVI “per la talare” (non
potendolo fare “per la giacchetta”). E non sempre era facile
comprendere chi agiva in buona fede, animato da inten-
zioni almeno in origine positive, e chi invece cercava piut-
tosto di fomentare confusione e ribellione, per salvaguar-
dare consolidate posizioni di potere o per conquistarne di
migliori. Tra le migliaia di persone che spendono la vita
per la Santa Sede la quasi totalità è devota al Papa e alla
Chiesa. Ma, come in tutte le grandi strutture, sono proprio
quelle poche “pecore nere” le più pericolose, capaci spesso
di mascherarsi come “angeli di luce”.
Anche a Francesco venne posta direttamente una do-
manda riguardo alla questione dei “due Papi”, nella confe-
renza stampa del 26 giugno 2016 sul volo di ritorno dall’Ar-
menia, e lui efficacemente rispose: «Ho sentito – ma non
so se è vero questo – sottolineo: ho sentito, forse saranno
dicerie, ma concordano con il suo carattere, che alcuni
sono andati lì a lamentarsi perché “questo nuovo Papa…”,
e lui li ha cacciati via! Con il migliore stile bavarese: edu-
cato, ma li ha cacciati via. E se non è vero, è ben trovato,

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perché quest’uomo è così: è un uomo di parola, un uomo
retto, retto, retto!». Posso personalmente confermare che
è stato così.
Tranne rari casi dei pochissimi amici di vecchia data,
invitati singolarmente, tutte le altre visite che Benedetto
ha ricevuto da Papa emerito sono state preventivamente
richieste: lui in persona decideva se accoglierle o meno, e
in diverse occasioni ha rifiutato di incontrare anche cardi-
nali, vescovi e politici, se lo riteneva inopportuno in que-
sta sua nuova situazione. Soltanto qualche volta è capitato
che sia giunta una lettera da qualche autorevole persona-
lità ecclesiastica e Benedetto abbia preferito un incontro,
piuttosto che una semplice risposta per iscritto. Comun-
que, è sempre stato chiaro a tutti, senza neanche bisogno
di precisarlo, che al Monastero non si veniva a chiedere
pareri sull’operato di Papa Francesco, né tantomeno a la-
mentarsi di qualcosa.
Per fare un solo esempio, devo dire di aver letto con
estremo stupore la risposta che lo scrittore Vittorio Mes-
sori diede, sul «Corriere della Sera» del 2 marzo 2021, a
Stefano Lorenzetto che gli chiedeva se incontrasse ancora
il Papa emerito: «Non oserei mai disturbarlo. Un giorno
mi telefonò il suo segretario Georg Gänswein: “Sua San-
tità la rivedrebbe volentieri, ma lei dovrà dimenticarsi di
essere un giornalista”. Peccato, perché fece commenti sulla
situazione della Chiesa che erano da prima pagina». Più
recentemente, è stata resa nota la trascrizione di alcune af-
fermazioni che lo scrittore aveva fatto il 23 maggio 2016,
in un incontro pubblico nel Centro francescano Rose-
tum a Milano, raccontando del suo incontro avvenuto alle
12.30 del 9 settembre 2015: «Il suo segretario mi ha tele-
fonato dicendo: “Sua Santità sarebbe lieto di rivederla in
nome dei vecchi trascorsi, venga a trovarlo nel suo ritiro,
però resta inteso che Sua Santità la aspetta come amico e

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non come giornalista. Il vostro sarà un incontro privato e
quindi non ci saranno cose pubbliche da propalare”. […]
Quando Ratzinger mi ha chiesto il mio parere sulla situa-
zione attuale della Chiesa, io gli ho espresso, con sincerità,
questo clima di perplessità (per usare un eufemismo), di
inquieta curiosità su come andrà a finire, di fronte a certi
esperimenti. Comunque, gli ho detto come la pensavo ed
è abbastanza significativo come, dopo avermi ascoltato, lui
abbia aperto le mani, alzato gli occhi al cielo e abbia detto:
“Io posso solo pregare”».
Ora, comprendo che suona bene poter dire di essere
stato cercato dal Papa emerito, ma in realtà Benedetto
semplicemente accolse con benevolenza il desiderio di un
incontro, espresso per iscritto da Messori. E certamente le
parole a me attribuite non corrispondono a quelle realmente
da me pronunciate, poiché né in questa né in qualsiasi al-
tra occasione mi sono mai permesso di imporre qualcosa
riguardo alla riservatezza dell’incontro e delle tematiche
trattate. Benedetto ha avuto stima di Messori, con il quale
realizzò il noto libro-intervista del 1984 Rapporto sulla fede.
Ma, almeno da quando sono stato suo segretario particolare,
i loro rapporti furono sporadici, per cui sarebbe stato deci-
samente improprio da parte mia riferire la parola “amico”,
una definizione che il Papa emerito riservava a pochissime
persone. E la drammatica gestualità attribuita a Benedetto
mi risulta del tutto forzata, soprattutto se caricata del rela-
tivo giudizio di critica che viene spontaneo trarne.
Ovviamente sono state a tutti evidenti le diversità nelle
modalità di comportamento e nelle sfumature di giudizio
teologico con cui entrambi i Papi hanno rispettivamente
affrontato le problematiche emerse durante i loro pontifi-
cati. Ma Benedetto, anche se qualcuno ha provato a stuz-
zicarlo, non ha mai ipotizzato spiegazioni per la strategia
di Francesco. In effetti, mi sembra che l’analisi più corretta

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possa individuare come problema non tanto quello della co-
esistenza di due Papi, uno regnante e uno emerito, quanto
la nascita e lo sviluppo di due tifoserie, poiché con il pas-
sar del tempo ci si rese conto sempre di più che effettiva-
mente c’erano due visioni della Chiesa. E queste due tifo-
serie – ciascuna fondandosi su affermazioni, gesti, o anche
soltanto impressioni riguardo ad atteggiamenti di France-
sco e di Benedetto (per di più, talvolta con invenzioni del
tutto gratuite) – hanno creato quella tensione che si è poi
riverberata anche su quanti non erano sufficientemente
consapevoli delle dinamiche ecclesiastiche.
Il primo incontro a quattr’occhi fra loro due avvenne il
23 marzo 2013 nella biblioteca-studio di Castel Gandolfo,
per la consegna della documentazione dell’inchiesta svolta
dalla Commissione cardinalizia. Presentandogli le conside-
razioni che aveva espresso per iscritto, Benedetto diede a
voce qualche ulteriore dettaglio a Papa Francesco, rispon-
dendo alle sue richieste di chiarimento. Durante il pranzo,
cui partecipammo anche don Alfred e io, si affrontarono
argomenti più generici e non particolarmente impegnativi,
come in una normale conversazione tra commensali, in un
clima di grande affabilità. E ambedue, mi venne detto per-
sonalmente in seguito, ne rimasero molto contenti.
Qualche settimana dopo, il Papa emerito fu colpito dalla
sorpresa che ebbe al rientro in Vaticano con l’elicottero da
Castel Gandolfo, il 2 maggio. A nostra insaputa, davanti
alla porta d’ingresso del Monastero c’era Papa Francesco
in attesa. Quella improvvisata gli spalancò il cuore dalla
gioia, poiché si sentì pienamente accolto «nel recinto di
Pietro», in quella sua inedita situazione. Lo sottolineò lui
stesso il 28 giugno 2016, nel discorso durante la commemo-
razione del 65° anniversario dell’ordinazione sacerdotale,
con parole profondamente impregnate di calore e di stima:
«Grazie soprattutto a lei, Santo Padre! La sua bontà, dal

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primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia
vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente.
Più che nei Giardini vaticani, con la loro bellezza, la sua
bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto».
Francesco è venuto in visita diverse altre volte in Mo-
nastero, soprattutto nei momenti di festa: onomastico e
compleanno del Papa emerito, Pasqua e Natale; nei primi
tempi arrivava per un saluto anche prima di partire per un
viaggio apostolico. Lo ha sempre invitato ai Concistori per
i nuovi cardinali e, quando Benedetto non è più potuto
andare per i suoi problemi alle gambe, Francesco decise
che sarebbero venuti loro. Due volte lo avemmo ospite al
“Mater Ecclesiae” a pranzo e una volta Benedetto e io an-
dammo a Santa Marta.
Papa Bergoglio portava generalmente in dono del vino
e un barattolo di dulce de leche, la gustosa crema a base di
latte originaria dell’Argentina. Probabilmente l’idea derivò
da una volta in cui mi aveva chiesto che cosa Benedetto
mangiasse volentieri, e io avevo risposto: «I dolci», cosic-
ché lui deve aver mentalmente fatto riferimento a quella
omonimia. Benedetto ricambiava con il limoncello fatto
dalle Memores con i limoni del nostro giardino e con i
dolci tipici della Baviera, per esempio nel tempo natalizio
i biscotti Lebkuchen.

L’enciclica e l’intervista

Il 17 ottobre 2011, con la lettera apostolica Porta fidei


(datata all’11 ottobre, per ricordare l’anniversario dell’aper-
tura del Concilio Vaticano II), Benedetto aveva reso nota
la volontà di programmare un Anno della fede dall’11 ot-
tobre 2012 al 24 novembre 2013. Nel momento di quella
decisione non c’era ancora all’orizzonte l’idea della con-

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clusione anticipata del pontificato, cosicché Papa Ratzin-
ger aveva stabilito di accompagnare quel cammino con una
enciclica sulla tematica della fede, che idealmente avrebbe
completato la trilogia delle virtù teologali.
La fatica dei mesi successivi gli impedì però di dedicarsi
alla stesura come avrebbe voluto, cosicché, approssiman-
dosi la data prevista per la rinuncia, si rese conto che il te-
sto non era per nulla maturo e preferì lasciarlo in eredità
al suo successore. Il testo definitivo, sul quale avevano
intanto continuato a lavorare gli organismi competenti,
venne firmato da Papa Francesco il 29 giugno 2013 e fu
pubblicato il 5 luglio seguente. Rispetto all’ultima bozza
vista da Benedetto prima della rinuncia c’erano state al-
cune modifiche, in particolare inserendo nell’ultima parte
tematiche più consone al nuovo Pontefice, ma la sostanza
restò la medesima.
Lo affermò pubblicamente anche Papa Bergoglio,
nell’Angelus del 7 luglio: «Per l’Anno della fede, il Papa
Benedetto XVI aveva iniziato questa enciclica, che fa se-
guito a quelle sulla carità e sulla speranza. Io ho raccolto
questo bel lavoro e l’ho portato a termine. Lo offro con
gioia a tutto il popolo di Dio: tutti infatti, specialmente
oggi, abbiamo bisogno di andare all’essenziale della fede
cristiana, di approfondirla e di confrontarla con le proble-
matiche attuali. Ma penso che questa enciclica, almeno in
alcune parti, può essere utile anche a chi è alla ricerca di
Dio e del senso della vita. La metto nelle mani di Maria,
icona perfetta della fede, perché possa portare quei frutti
che il Signore vuole».
Sei mesi dopo l’elezione, fece notizia l’ampia intervista
concessa da Papa Francesco al direttore de «La Civiltà Cat-
tolica» padre Antonio Spadaro. Contrariamente a quanto
fatto trapelare all’epoca, e divenuto ormai una certezza
consolidata («Arrivarono al Monastero le bozze di un’in-

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tervista. […] Il testo si concludeva con due pagine bianche
e un appunto scritto di suo pugno da Jorge Mario Bergo-
glio. […] Era una richiesta a Benedetto di inserire even-
tuali osservazioni critiche», ha affermato in un recente libro
anche il pur informato Massimo Franco), il Pontefice mi
consegnò la busta con una copia del quindicinale dei Ge-
suiti soltanto dopo la pubblicazione, il 19 settembre 2013,
chiedendomi di riferire a Benedetto il suo desiderio che
ci desse uno sguardo ed eventualmente proponesse anche
qualche commento.
Il Papa emerito prese molto sul serio la richiesta, lesse
attentamente quella trentina di pagine e appuntò le proprie
riflessioni. Quindi preparò una lettera, la cui stesura defi-
nitiva portò la data del successivo 27 settembre, quando
la diedi personalmente a Papa Francesco. Nelle prime ri-
ghe Benedetto spiegava subito la specificità delle proprie
sottolineature: «Santo Padre, vorrei dirle grazie di cuore
per la trasmissione della sua lunga intervista pubblicata
su “La Civiltà Cattolica”. Ho letto il testo con gioia e con
vero guadagno spirituale e con un consenso completo. Lei
mi ha invitato anche a eventuali osservazioni critiche. In
realtà sono d’accordo con tutto quanto lei ha detto, ma in
due punti vorrei aggiungere un aspetto complementare. Il
primo punto concerne i problemi legati all’aborto e all’uso
dei metodi contraccettivi. Il secondo punto concerne il
problema dell’omosessualità».
Sul primo, Benedetto precisava: «Circa i tre problemi
che lei dice a pagina 463 e seguenti, che lei non ha “parlato
molto di queste cose”, che “bisogna parlarne in un conte-
sto” e che “una pastorale missionaria non è ossessionata
dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dot-
trine… dobbiamo trovare un nuovo equilibrio…”, sono
assolutamente d’accordo con questo e io stesso ho detto
queste cose molte volte con parole simili. Anch’io, perciò,

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non ho parlato molto di questi temi nel mio pontificato.
Tuttavia vorrei aggiungere un aspetto complementare.
Avendo vissuto 23 anni accanto al beato Giovanni Paolo
II, sono stato testimone del modo appassionato con il quale
ha realizzato la lotta per la vita. Ho capito che il Papa be-
ato ha visto nella lotta pro vita, insieme con la lotta per i
diritti umani, un nucleo essenziale della sua missione. E ho
anche capito che per Giovanni Paolo II questo non era un
moralismo, ma era la lotta per la presenza di Dio nella vita
umana. Giovanni Paolo II, così ho imparato, aveva com-
preso che l’aborto e le forme di procreazione artificiale,
di manipolazione e di distruzione di vite umane, erano so-
stanzialmente un “no” al Creatore. L’uomo da solo si crea
e si distrugge. In questo senso la grande lotta pro vita era
la lotta per il Creatore. È vero che in diversi rami dei mo-
vimenti pro vita questa grande prospettiva non era suffi-
cientemente presente e non mancavano unilateralità. Un
riequilibrio è quindi necessario, Ma la lotta pubblica con-
tro questa negazione concreta e pratica del Dio vivente ri-
mane certamente una necessità».
Riguardo invece al secondo punto, sottolineava: «Alla
pagina 463 lei parla del problema difficile della pastorale
per gli omosessuali. Anche qui sono totalmente d’accordo
con quanto lei dice. Già nel Catechismo della Chiesa catto-
lica avevamo cercato di trovare, dopo lunghi dibattiti con
correnti diverse, l’equilibrio tra il rispetto della persona,
l’amore pastorale e la dottrina della fede. Ritrovo questo
equilibrio nelle sue parole, ma anche qui vorrei aggiun-
gere un aspetto che risulta dai problemi della propaganda
pubblica su questo punto. La filosofia del gender che qui
è in gioco ci insegna che è la singola persona stessa che si
fa uomo o donna. L’essere uomo o donna non è più una
realtà della natura che ci precede. L’uomo è un prodotto
di se stesso. La filosofia di Sartre viene concretizzata in un

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modo in quel momento ancora non prevedibile. Si tratta
di una radicale negazione del Creatore e di una manipo-
lazione dell’essere nella quale solo l’uomo è padrone di se
stesso. In questa propaganda non ci si interessa per niente
del bene delle persone omosessuali, ma di una voluta ma-
nipolazione dell’essere e una radicale negazione del Crea-
tore. Io so che molte persone omosessuali con queste ma-
nipolazioni non sono d’accordo e sentono che il problema
della loro vita diventa un pretesto per una guerra ideologica.
Perciò, la resistenza forte e pubblica contro questa pres-
sione è necessaria. Dobbiamo realizzare questa resistenza
senza perdere nella vita pastorale l’equilibrio tra amore del
pastore e verità della fede».
Prima di concludere con i saluti, il Papa emerito pro-
pose due ulteriori precisazioni: «Santità, mi permetta an-
cora una breve annotazione. A pagina 464 lei dice che le
questioni di mancanza di ortodossia “si trattano meglio sul
posto”. Quanto ho desiderato questo negli anni nei quali
sono stato prefetto della Congregazione per la Dottrina
della fede. Purtroppo, la mia esperienza di 23 anni dice che
normalmente i vescovi o anche le Conferenze episcopali
hanno poca voglia di prendere seriamente in mano questi
problemi e preferiscono lasciare la “patata bollente” nelle
mani della Congregazione. Infine, vorrei dire con gioia e
gratitudine come sono d’accordo con la sua distinzione tra
“ottimismo” e “speranza” a pagina 470. Ripetutamente ho
detto lo stesso e sono molto felice di sentire questa distin-
zione dalla bocca di Vostra Santità». Papa Francesco mi
incaricò di portare i suoi ringraziamenti a Benedetto, ma
ignoro se e come abbia fatto proprie tali considerazioni.
Il 25 novembre giunse a Benedetto una copia, rilegata
in pelle bianca, del documento che, come di consueto,
era stato redatto dal Pontefice dopo il Sinodo dei vescovi
dell’ottobre 2012 su “La nuova evangelizzazione per la

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trasmissione della fede cristiana”. La dedica autografa re-
citava: «Adesso sono lieto di far avere a Sua Santità copia
dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per favore,
non si dimentichi di pregare per me. Che il Signore la bene-
dica e la Madonna la custodisca. Fraternamente… e anche
filialmente, Francesco». Anche in seguito Papa Francesco
ha inviato a Benedetto tutte le sue encicliche ed esortazioni
apostoliche, accompagnandole sempre con un bigliettino
di saluti e la dicitura «filialmente e fraternamente», cui il
Papa emerito ha sempre risposto ricambiando ogni augu-
rio. Tuttavia, richieste specifiche di osservazioni in merito
a questi testi non sono più giunte.
Alla sensibilità teologica di Benedetto, alcune afferma-
zioni di Francesco nella Evangelii gaudium suonarono estra-
nee. In particolare il sogno di «una scelta missionaria capace
di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli
orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un
canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale,
più che per l’autopreservazione» (n. 27), «Le diverse linee
di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano
armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono
far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare me-
glio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano
una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature,
ciò può sembrare un’imperfetta dispersione» (n. 40), «A
volte, ascoltando un linguaggio completamente ortodosso,
quello che i fedeli ricevono, a causa del linguaggio che essi
utilizzano e comprendono, è qualcosa che non corrisponde
al vero Vangelo di Gesù Cristo» (n. 41).
Ma la sua costante linea di condotta fu quella di dare il
“beneficio d’inventario” al primo Pontefice latino-ameri-
cano nella storia della Chiesa e di non giudicare mai le sue
espressioni con lo sguardo “romanocentrico”: «Ciascuno
ha la sua natura, il suo carattere, il suo comportamento,

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e il Signore lavora con qualunque persona. Se pensiamo
ai dodici apostoli, c’erano problemi di ogni tipo, ma la
Chiesa è ugualmente cresciuta. Anche nella storia dei
Papi ce ne sono diversi che non sono stati santi, eppure
la Chiesa esiste ancora. Papa Francesco agisce secondo
l’indirizzo che lui ritiene sia il migliore per la Chiesa at-
tuale, nella sua responsabilità di successore di Pietro. Si
può essere totalmente d’accordo o meno, però questo si
deve concedere a tutti i Papi, come è stato concesso a me
e ai precedenti».
D’altronde basterebbe rileggere i testi del Magistero
di Papa Ratzinger per rendersi conto della radicalità del
suo pensiero riguardo al ministero petrino (applicabile di
conseguenza come giudizio riguardo ad alcune dibattute
prese di posizione del suo successore), come aveva chia-
rito per esempio il 7 maggio 2005 a San Giovanni in Late-
rano: «La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un
impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non
è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge.
Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbe-
dienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve
proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente
se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio,
di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacqua-
mento, come di fronte a ogni opportunismo. […] Il Papa
è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato
alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle inter-
pretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegri-
nante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra,
ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la
responsabilità di far sì che questa Parola continui a rima-
nere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua
purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cam-
biamenti delle mode».

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Il “pasticciaccio” di Sarah

La bomba mediatica esplose d’improvviso, il 12 gen-


naio 2020, con un’intervista apparsa sul quotidiano fran-
cese «Le Figaro», nella quale il cardinale Robert Sarah,
all’epoca prefetto della Congregazione per il Culto divino
e la disciplina dei sacramenti, annunciava al vaticanista
Jean Marie Guénois che, tre giorni dopo, avrebbe pubbli-
cato con Benedetto XVI «un libro a quattro mani dove i
due prelati esprimono una medesima visione della Chiesa
e un’identica avversione per la polemica».
Sin dalla prima domanda risultavano chiari la tematica
del volume, il suo scopo e anche un giudizio di fondo:
«Come si spiega il fatto che il Papa emerito Benedetto XVI
abbia pubblicato assieme a lei un’opera in difesa del celibato
sacerdotale, supplicando Papa Francesco di non modificare
questa regola nella Chiesa? Questo libro è un grido, un grido
di amore per la Chiesa, il Papa, i preti e tutti i cristiani. Noi
vogliamo che questo libro sia letto da più gente possibile.
La crisi che attraversa la Chiesa è sorprendente».
Sottolineando la co-autorialità del testo, il cardinale su-
bito dopo rispondeva a un delicatissimo quesito, che so-
stanzialmente diede il via a immediate reazioni, ovviamente
di tono positivo o negativo a seconda della posizione di chi
interveniva (e del suo relativo giudizio sull’operato di Papa
Francesco): «Il Papa si era votato al silenzio, perché esce dal
suo riserbo? Con questo libro, il Papa emerito Benedetto
XVI non rompe il silenzio. Ci offre il suo frutto. Quel che
ha scritto in questo libro non è una teologia loquace, una
teologia che vuole incantare i media, ma una lettura con-
templativa delle Scritture. Non creda che agisca in pole-
mica, né che questa sia una disputa accademica lontana
dalla realtà. Credo che, nella preghiera, il suo cuore di pa-
dre abbia provato grande compassione per i sacerdoti di

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tutto il mondo che si sono sentiti disprezzati, sconvolti e
abbandonati. Ha anche voluto rassicurare le decine di mi-
lioni di fedeli cristiani che si sentono disorientati e perduti».
La correlazione immaginata da tutti i commentatori fu
con il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, nel quale si era
anche discussa la possibilità del sacerdozio per uomini
sposati. Sebbene fosse stata la proposizione più conte-
stata dai padri sinodali, con ben 41 contrari su 169 vo-
tanti, al n. 111 del documento finale, consegnato a Papa
Francesco il 26 ottobre 2019, fu comunque inserito il
suggerimento di ordinare sacerdoti «uomini della comu-
nità idonei e riconosciuti, che abbiano un diaconato per-
manente fruttuoso e ricevano un’adeguata formazione al
sacerdozio, potendo avere una famiglia legittimamente
costituita e stabile».
Il timore dei critici era che potesse verificarsi una stru-
mentalizzazione della situazione nella regione amazzonica,
dove venivano rilevate difficoltà ad avere sacerdoti suffi-
cienti per il servizio alle comunità disperse su un vastissimo
territorio. Il titolo del testo conclusivo parlava di «Nuovi
cammini per la Chiesa»: perciò qualsiasi apertura rispetto
alla tradizionale legge del celibato sacerdotale – ribadita
anche recentemente dai santi Papi Paolo VI e Giovanni
Paolo II – fu considerata una possibile breccia che, come
tante altre innovazioni nella disciplina ecclesiastica, in breve
tempo da eccezione si sarebbe trasformata in regola.
Di fatto, già nei primi tempi del pontificato di Benedetto
la problematica era balzata all’attenzione mondiale, quando
a fine 2006 il cardinale Cláudio Hummes – appena nomi-
nato prefetto della Congregazione per il Clero – ipotizzò
con il quotidiano «O Estado de São Paulo» che «la man-
canza di vocazioni sacerdotali possa portare il Vaticano a
discutere dell’ordinazione degli uomini sposati». Hummes,
all’epoca arcivescovo di San Paolo in Brasile, venne chia-

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mato in Vaticano perché era desiderio di Papa Ratzinger
ampliare le voci autorevoli da varie parti del mondo.
Per chiarire la situazione, il 4 dicembre dovette essere
pubblicata dalla Sala stampa una dichiarazione, concordata
con il segretario di Stato Bertone, nella quale il cardinale
Hummes precisava che «la norma del celibato per i sacer-
doti nella Chiesa latina è molto antica e poggia su una tra-
dizione consolidata e su forti motivazioni, di carattere sia
teologico-spirituale sia pratico-pastorale, ribadite anche dai
Papi. […] Tale questione non è quindi attualmente all’or-
dine del giorno delle autorità ecclesiastiche, come recen-
temente ribadito dopo l’ultima riunione dei capidicastero
con il Santo Padre».
Ma evidentemente la questione non era stata accan-
tonata dal porporato brasiliano, nominato da Francesco
nel 2018 membro del Consiglio pre-sinodale che preparò
quell’assemblea sull’Amazzonia: in tale veste poté avere
un significativo ruolo nel processo di elaborazione dell’e-
sortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia. La
pubblicazione del documento era stabilita per la fine del
2019, ma l’approvazione definitiva di Papa Bergoglio –
come dettagliò il cardinale Michael Czerny in un’intervista
a Vatican News – si ebbe soltanto il 27 dicembre, cosicché
la pubblicazione avvenne il 12 febbraio 2020 (sebbene con
la data ufficiale del 2 febbraio). Questo ritardo, in appa-
renza irrilevante, ebbe invece non poca importanza nella
sfortunata vicenda del libro di Sarah e delle relative pole-
miche, poiché già dall’autunno era stato preventivato che
questo volume sarebbe stato inviato in libreria dalla casa
editrice Fayard dopo l’Epifania del 2020 (la data esatta fu
il 15 gennaio).
Nel pomeriggio del 12 gennaio giunse in Monastero una
copia-staffetta e, non appena aprii la busta, mi si gelò il
sangue: in copertina il nome Benoît XVI spiccava in alto,

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con la stessa grandezza di quello del cardinale Sarah, e le
immagini erano due loro fotografie affiancate (addirittura
quella di Benedetto era ancora del tempo da Pontefice, con
la mantellina ben visibile). Portai immediatamente il vo-
lume al Papa emerito e anche lui rimase stupefatto, com-
prendendo immediatamente quali polemiche ne sarebbero
scaturite. Sfogliando le pagine, non risultava infatti con
chiarezza la descrizione della diversità di intervento e, per
giustificare la doppia firma, ci si limitava alla enigmatica
precisazione: «Testo scritto dal cardinale Robert Sarah,
letto e approvato da Benedetto XVI» (e anche la Conclu-
sione segnalava questa doppia attribuzione).
Effettivamente la prevista tempesta mediatica tuonò
con tutto il vigore possibile, sulla base dell’idea che, non
essendo ancora uscita l’esortazione post-sinodale, i due
volessero fare pressione su Francesco riguardo ai temi del
celibato ecclesiastico e dell’ordinazione di uomini sposati.
Benedetto ritenne perciò necessario un chiarimento pub-
blico, che riassunsi nel comunicato diffuso dalle agenzie
giornalistiche il 14 gennaio: «Posso confermare che questa
mattina, su indicazione del Papa emerito, ho chiesto al car-
dinale Sarah di contattare gli editori del libro pregandoli
di togliere il nome di Benedetto XVI come coautore del
libro stesso e di togliere la sua firma anche dall’Introdu-
zione e dalla Conclusione. Il Papa emerito, infatti, sapeva
che il cardinale stava preparando un libro e aveva inviato il
suo breve testo sul sacerdozio autorizzandolo a farne l’uso
che voleva. Ma non aveva approvato alcun progetto per un
libro a doppia firma, né aveva visto e autorizzato la coper-
tina. Si tratta di un malinteso, senza mettere in dubbio la
buona fede del cardinale Sarah».
Le parole erano state attentamente studiate per consen-
tire un’onorevole via d’uscita al cardinale, sia per l’amicizia
personale con Benedetto, sia perché all’epoca ricopriva an-

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cora l’incarico di prefetto della Congregazione per il Culto
divino e la Disciplina dei sacramenti e non si voleva met-
terlo in difficoltà in un momento in cui la sua posizione in
Vaticano era delicata. In risposta, il cardinale emanò un suo
comunicato, nel quale affermava: «A seguito di vari scambi
in vista della preparazione del libro, il 19 novembre ho fi-
nalmente inviato al Papa emerito un manoscritto completo
comprendente, come avevamo deciso di comune accordo,
la copertina, un’Introduzione e una Conclusione comune,
il testo di Benedetto XVI e il mio testo». Ho controllato e
posso ribadire che, in quell’incartamento, della copertina
non v’è traccia. Il cardinale dichiarava poi che «la polemica
che mira a sporcarmi insinuando che Benedetto XVI non
era informato della pubblicazione del libro Des profondeurs
des nos coeurs è profondamente abietta»: un patetico ten-
tativo di spostare il tiro, poiché in questione non c’era la
conoscenza, bensì la modalità, della pubblicazione.
Comunque, nella telefonata Sarah mi aveva promesso
che avrebbe agito secondo la richiesta del Papa emerito e
chiese di poterlo incontrare di persona. L’appuntamento
fu fissato in Monastero per le 17.15 del 17 gennaio e Be-
nedetto volle che fossi presente anch’io. Il cardinale si la-
mentò per l’accaduto, giunse quasi alle lacrime e poi tirò
fuori dalla borsa un foglio con la bozza di un comunicato
che voleva far rilasciare con la firma di Benedetto: «“Il sa-
cerdozio cattolico” è probabilmente l’ultimo testo che ho
scritto prima di andare a incontrare il Signore. Approvo e
accetto tutto ciò che è contenuto in questo libro intitolato
Dal profondo del nostro cuore e ringrazio il cardinale Sa-
rah per averlo pubblicato così come lo ha fatto, compresa
la copertina. Prego tutti di smetterla con questa assurda
polemica e calunnia che macchia questo uomo di Dio e di-
vide la Chiesa su una questione così essenziale. Incoraggio
i sacerdoti e tutti a leggere questo libro».

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Io subito sono sbottato, sottolineando che non era mai
stato emesso un comunicato stampa del Papa emerito e
attirando l’attenzione sul fatto che qualsiasi sua presa di
posizione pubblica avrebbe aggiunto benzina sul fuoco.
Per cercare una soluzione, Benedetto disse al cardinale
che voleva riflettere ed eventualmente riformulare il testo,
chiedendogli di tornare un’ora dopo, intorno alle ore 19.
Al rientro di Sarah, il Papa emerito gli spiegò che aveva
fatto alcuni aggiustamenti sostanziali, in particolare elimi-
nando il riferimento alla copertina, ma chiarì che il suo
status di Papa emerito non gli consentiva la pubblicazione
del testo senza prendere contatti con la Segreteria di Stato
e con Papa Francesco. Il cardinale mostrò la propria delu-
sione, ma dovette forzosamente accettare questa decisione.
Quando l’accompagnai all’uscita dal Monastero, giunse al
punto di dirmi: «Per cortesia, non lasci cadere nel cestino
questo comunicato». E io reagii con decisione: «Eminenza,
lei pensa che, se Benedetto mi affida un incarico, io potrei
ingannarlo?».
La sera stessa, seguendo l’indicazione del Papa eme-
rito, telefonai al sostituto della Segreteria di Stato, l’arci-
vescovo Edgar Peña Parra, il quale mi disse di raggiun-
gerlo di buon’ora il mattino successivo nel suo ufficio alla
Seconda loggia, per ragguagliarlo su quanto era accaduto,
poiché alle 9.15 aveva appuntamento con il Santo Padre
e gliene avrebbe parlato. Lo attesi all’uscita dall’udienza e
mi comunicò: «Papa Francesco ha deciso che il comuni-
cato non viene pubblicato. Lei deve riferire questo a Sarah
e dirgli che per ora non si fa nulla».
Io provvidi subito a informare il cardinale e soltanto al
rientro in Monastero venni informato che nella serata pre-
cedente, subito dopo l’incontro, Sarah aveva pubblicato in
sequenza due post su Twitter: «A motivo delle incessanti,
nauseabonde e false polemiche, che non si sono mai ar-

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restate dall’inizio della settimana, riguardanti il libro Dal
profondo dei nostri cuori, questa sera ho incontrato il Papa
emerito Benedetto XVI» e «Con il Papa emerito Benedetto
XVI abbiamo potuto constatare come non ci sia alcun ma-
linteso fra noi. Sono uscito da questo bell’incontro molto
felice, pieno di pace e di coraggio».
Ovviamente la ritenni un’azione del tutto inopportuna,
come lo era stata il 14 gennaio la diffusione non autoriz-
zata delle lettere personali che gli aveva inviato il Papa
emerito, e il mio sconcerto crebbe qualche ora più tardi,
quando il giornalista Guénois mi contattò per verificare
se era vero che Benedetto aveva letto e addirittura modi-
ficato e integrato l’intervista che gli aveva concesso Sarah.
Gli spiegai che il Papa emerito aveva visto quel testo sol-
tanto dopo la pubblicazione e lui mi informò che la men-
zognera affermazione gliel’aveva fatta Diat, il collabora-
tore del cardinale che era dietro a questo libro («Opera
pubblicata sotto la direzione di Nicolas Diat», si legge nel
retrofrontespizio).
Anche Davide Cantagalli, responsabile della casa edi-
trice che aveva acquisito i diritti di pubblicazione per l’I-
talia, mi raccontò di aver contattato Fayard e di aver rice-
vuto l’indicazione che copertina e testo dovevano restare
come nell’edizione originaria. Gli spiegai quanto era stato
concordato con Sarah e lui chiamò nuovamente l’editore
francese, ricevendo come replica: «Il collegamento fra noi e
il cardinale è Nicolas Diat, che ha ribadito di lasciare tutto
inalterato». Alla fine, il 22 gennaio venne emesso un comu-
nicato distensivo, sottolineando che «l’Introduzione e la
Conclusione sono state scritte dal cardinale Robert Sarah
e sono state lette e condivise dal Papa emerito», a signifi-
care che Benedetto XVI non aveva espresso obiezioni al
testo di Sarah, anche perché il contenuto non era partico-
larmente originale e innovativo.

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Le spiegazioni di Benedetto

Il 12 febbraio 2020 Benedetto ricevette da Papa Fran-


cesco una copia dell’esortazione apostolica Querida Ama-
zonia e il giorno seguente gli rispose con una lettera di
ringraziamento. Il Papa emerito era consapevole che quel
testo era rimasto immutato dopo l’approvazione data dal
Pontefice il 27 dicembre: dunque, il volume del cardinale
Sarah non aveva avuto alcun influsso, diretto o indiretto,
sull’assenza nel documento di riferimenti all’ordinazione di
uomini sposati. Sentiva comunque la necessità di chiarire
definitivamente la questione, cosicché gli assicurò: «Per lei,
Santo Padre, elaborerò una breve storia e mi permetterò
di trasmetterla quanto prima».
Dopo soli quattro giorni, il 17 febbraio, la ricostruzione
fu pronta e Benedetto poté inviarla a Papa Francesco: «Caro
Santo Padre, come avevo promesso nella mia lettera del 13
febbraio scorso, le comunico oggi la storia del mio testo
sul sacerdozio cattolico pubblicato nel libro del cardinale
Sarah. Intorno al 20 luglio 2019 avevo cominciato a ela-
borare un testo sul sacerdozio cattolico, senza intenzione
di pubblicarlo, ma soltanto per mio interesse personale. Il
motivo fu che il Concilio Vaticano II, nel suo ottimo de-
creto sul sacerdozio cattolico, non aveva toccato il punto
centrale della controversia con Lutero, cioè il fatto che la
Chiesa cattolica, nel tardo secondo secolo o all’inizio del
terzo, aveva cominciato a considerare il ministero dei pre-
sbiteri e dei vescovi anche come sacerdozio e non soltanto
come ministero pastorale, in conseguenza del fatto che la
santa Eucaristia non era soltanto considerata come cena,
ma come presenza e partecipazione al sacrificio della croce.
Questo sviluppo della dottrina cattolica è stato condannato
da Lutero come ricaduta nella Legge, come errore gravis-
simo incompatibile con la fine della Legge. Su questo punto

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centrale della controversia tra Riforma e Chiesa cattolica, il
Vaticano II non parla. Pochi ecumenisti hanno affermato
che la riforma liturgica del Vaticano II avrebbe ritirato la
dottrina sulla Messa come sacrificio e restituito l’interpreta-
zione della Messa come cena senza carattere sacrificale. Di
conseguenza anche i ministeri della Chiesa non sarebbero
più da considerare come sacerdozio, ma solo come servizio
pastorale. Anche se questa posizione fra i teologi cattolici
è rimasta marginale, la questione non è comunque definita
con sufficiente chiarezza. Questo problema mi occupa da
tanto tempo. Non avevo intenzione di preparare un testo
da pubblicare, volevo soltanto darmi personalmente una
chiarezza storico-teologica».
Definita questa premessa, Benedetto entrò nel dettaglio:
«Mentre stavo ancora lavorando su questo punto, il 5 set-
tembre 2019 mi è arrivata una lettera del cardinale Sarah,
nella quale mi chiedeva una mia riflessione sul sacerdozio,
con particolare attenzione al celibato, all’obbedienza e alla
povertà. Sorpreso da questa richiesta, ho risposto il suc-
cessivo 20 settembre che già prima della sua lettera avevo
cominciato a scrivere qualche riflessione sul sacerdozio,
ma scrivendo ho sentito sempre più che le mie forze non
mi permettono più la redazione di un testo teologico. Ho
ripreso il mio lavoro e l’ho trasmesso al cardinale, dicendo:
“Lascio a lei se queste note, la cui insufficienza sento for-
temente, possono avere qualche utilità”».
In effetti, dopo una rapida revisione, il 12 ottobre Bene-
detto inviò a Sarah il proprio testo, cui il cardinale diede
riscontro il 31 ottobre: «Porgo di tutto cuore il mio vivo
ringraziamento per l’invio delle sue stupende e preziose
riflessioni sul sacerdozio. Sono certo che potranno essere
per tutta la Chiesa un contributo assai prezioso e soprat-
tutto un sostegno paterno per tutti i sacerdoti del mondo.
Sono davvero grato per la sua premurosa e paterna atten-

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zione che sempre mi riserva e che mi commuove grande-
mente. Sto studiando e lavorando per esaminare il modo
migliore di presentarlo e farlo conoscere ai sacerdoti e a
tutta la Chiesa. Appena finito il progetto, sottometterò la
bozza a Vostra Santità per giudicarla e approvarla».
Proseguiva Benedetto nella spiegazione a Papa Francesco:
«Sarah, grato per il testo, mi ha trasmesso poi alcune righe
nelle quali interpretava l’intenzione particolare del mio testo
per offrire così un aiuto ai lettori per capire l’intenzione e i
limiti del mio scritto. Quando il cardinale ha saputo che in
modo strettamente privato avevo scritto sette pagine come
chiave di interpretazione del mio testo, ha chiesto questo
scritto. Io ho risposto che la sua chiara interpretazione di
una mezza pagina serviva meglio del mio lungo documento
di sette pagine, e che soltanto queste sue parole sono da con-
siderare come scritte da me (intendendo sottolineare che, ol-
tre a quella “mezza pagina”, nessun altro testo doveva essere
attribuito a lui, N.d.A.). Nella sua lettera del 20 novembre,
il cardinale Sarah aggiungeva ancora alcune piccole precisa-
zioni. Alle mie riflessioni sul sacerdozio avevo aggiunto tre
interpretazioni di testi fondamentali come espressioni della
mia esperienza personale. Così pensavo di toccare anche il
problema del celibato, senza entrare nelle dispute attuali».
La lettera di Sarah del 20 novembre, cui Benedetto fa-
ceva riferimento, permette di comprendere bene a chi siano
da attribuire i singoli testi: «Il mio desiderio è di poter far
uscire la pubblicazione per il prossimo 6 gennaio, solen-
nità dell’Epifania, sempre se Vostra Santità sia d’accordo
(dunque è chiaramente indicata la volontà di uscire dopo la
prevista pubblicazione dell’esortazione di Papa Francesco,
N.d.A.). Come può notare, il testo completo è formato da
quattro parti: una introduzione, la sua riflessione, il mio te-
sto e una conclusione (qui si evince senza ombra di dubbio
che l’unico testo di Benedetto è “la sua riflessione”, N.d.A.).

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Nel suo testo ho ardito fare alcune aggiunte che troverà in
rosso. Innanzitutto ho aggiunto un paragrafo introduttivo
con l’intenzione di meglio aiutare a entrare nella riflessione
proposta. Inoltre, alla pagina 5 ho inserito una citazione di
san Clemente da Roma per sottolineare la continuità storica.
Infine, alle pagine 9 e 10 ho aggiunto una sua citazione per
meglio sottolineare la riflessione sul celibato. Come le ho
già detto, la mia è soltanto una proposta e Vostra Santità
può apportare qualsiasi modifica».
Il 25 novembre il Papa emerito rispose: «Cara eminenza,
di tutto cuore vorrei dire grazie per il suo testo aggiunto al
mio contributo e per tutta l’elaborazione che lei ha fatto.
Mi ha toccato profondamente come lei ha capito le mie ul-
time intenzioni. Avevo scritto sette pagine di chiarimento
metodologico del mio testo e sono realmente felice di dire
che lei ha saputo dire l’essenziale in una mezza pagina. non
vedo quindi una necessità di trasmettere le sette pagine
dato che lei ha espresso nella mezza pagina l’essenziale.
Da parte mia il testo può essere pubblicato nella forma da
lei prevista (il chiaro riferimento è sempre, e unicamente,
al proprio testo iniziale con l’aggiunta della mezza pagina
esplicativa di Sarah, N.d.A.)».
La conclusione di quella lettera del 17 febbraio a Papa
Francesco metteva in luce tutta l’amarezza di Benedetto per
l’accaduto e poneva una definitiva pietra: «Ho già deciso
di non pubblicare più niente durante la mia vita in que-
sta terra. Santo Padre, spero di aver chiarito la storia del
mio testo per il libro del cardinale Sarah e posso soltanto
esprimere la mia tristezza sull’abuso del mio articolo nella
discussione pubblica». Non c’era necessità di una specifica
risposta, cosicché da parte di Papa Francesco ci fu unica-
mente il riscontro della ricezione. Ma, per quanto ne so,
comprese la totale buona fede del suo predecessore e ne
apprezzò la trasparenza nel comportamento.

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Comunque, la certezza che le cose fossero andate nel
modo qui documentato è attestata ad abundantiam da un
elemento essenziale: sin dal 31 maggio 2005, Benedetto
XVI-Joseph Ratzinger aveva affidato alla Libreria editrice
vaticana la gestione dei diritti d’autore e, riguardo a que-
sto libro, non fu mai approntato un contratto né ci furono
contatti con la lev, a testimonianza che si trattava unica-
mente di una libera espressione del pensiero del Papa eme-
rito, limitata alle pagine del suo contributo.
Intanto, il 12 febbraio, il vaticanista Sandro Magister
aveva pubblicato sul suo blog un articolo molto dettagliato,
dal titolo “Il silenzio di Francesco, le lacrime di Ratzinger
e quella sua dichiarazione mai pubblicata”. Commentando
Querida Amazonia, pubblicata quel giorno, sottolineava
l’assenza nel testo di qualsiasi riferimento al celibato ec-
clesiastico e all’ordinazione di uomini sposati, proponendo
un indebito e scorretto collegamento: «La curiosità che
sorge immediata è dunque di capire in quale misura il li-
bro bomba scritto dal Papa emerito Benedetto XVI e dal
cardinale Robert Sarah in difesa del celibato del clero, pub-
blicato a metà gennaio, abbia influito sull’esortazione».
Per di più, veniva presentata una drammatica ricostru-
zione dello scambio telefonico avvenuto tra Benedetto e
Sarah nella mattinata del 15 gennaio: «Mentre Papa Fran-
cesco stava tenendo la sua udienza generale settimanale
e Gänswein sedeva come di regola al suo fianco nell’aula
Paolo VI, lontano quindi dal monastero “Mater Ecclesiae”
che è la residenza del Papa emerito di cui egli è segretario,
Benedetto XVI alzò di persona il telefono e chiamò Sarah
prima a casa, dove non lo trovò, e poi in ufficio, dove il car-
dinale rispose. Benedetto XVI espresse, accorato, a Sarah
la sua solidarietà. Gli confidò di non riuscire a compren-
dere le ragioni di un’aggressione così violenta e ingiusta.
E pianse. Anche Sarah pianse. La telefonata si chiuse con

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entrambi in lacrime». Appena lessi queste parole, andai
ovviamente a chiedere a Benedetto cosa fosse accaduto e
lui mi informò che aveva semplicemente voluto rincuorare
Sarah a livello personale dicendogli che non comprendeva
l’accanimento contro il contenuto del libro, ma una scena
così patetica non si era assolutamente verificata.
Per dare un taglio alla vicenda, il 27 febbraio ebbi un
incontro nell’appartamento del cardinale Sarah in piazza
della Città leonina, alla presenza come testimone di un sa-
cerdote da ambedue conosciuto e stimato. Di fatto, alle
mie contestazioni riguardo al mancato adempimento della
promessa di modificare copertina e attribuzioni dei testi
e alla divulgazione dei contatti fra lui e il Papa emerito, il
cardinale replicò di aver riferito tutto a Nicolas Diat e che
la responsabilità era di quest’ultimo. E quando gli espressi
tutta la mia delusione per il suo comportamento, che aveva
fortemente danneggiato sia Benedetto che me, lui balbettò
che poteva soltanto chiedere scusa per ciò che non era as-
solutamente nelle sue intenzioni.

Il prefetto dimezzato

Nel mio duplice ufficio di segretario particolare del Papa


emerito e di prefetto della Casa pontificia per Papa Fran-
cesco, mi sono trovato a ricoprire un ruolo che mi ha fatto
sentire – per elevare il tono della riflessione con un riferi-
mento alla letteratura colta – talvolta nei panni del goldo-
niano “servitore di due padroni” e talaltra come il manzo-
niano “vaso di terracotta tra i vasi di ferro”.
La speranza di Benedetto che io sarei stato l’anello di col-
legamento fra lui e il successore fu un po’ troppo ingenua,
poiché, già dopo qualche mese, ho avuto l’impressione che
tra me e il nuovo Pontefice non si riuscisse a creare l’op-

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portuno clima di affidamento, necessario per poter portare
avanti in modo adeguato un tale impegno.
Probabilmente, quando ebbi la conferma quinquennale
a fine 2017, volle mantenermi nell’incarico essenzialmente
per rispetto alla nomina fatta da Benedetto, anche se fin
dall’inizio era accaduto sempre più spesso che venissi sca-
valcato nelle mie responsabilità, poiché Papa Francesco
preferiva piuttosto prendere accordi direttamente con il
mio vice, il reggente padre Leonardo Sapienza.
Ricordo, per esempio, la visita del 15 giugno 2014 alla
Comunità di Sant’Egidio a Trastevere: il giorno precedente,
quando ci salutammo a Santa Marta dopo le udienze, il
Pontefice mi disse, alla presenza dei comandanti della Gen-
darmeria e della Guardia svizzera, oltre che degli autisti,
che non era necessaria la mia presenza e che avrei potuto
prendermi un giorno libero, ribadendolo con decisione
dinanzi alle mie osservazioni stupite. Il giorno seguente
ovviamente mi telefonò il fondatore Andrea Riccardi per
chiedermi se io o Benedetto avessimo qualche problema
con Sant’Egidio, poiché questa era la voce sparsa dopo che
era stata notata la mia assenza all’evento, senza che fossero
state date motivazioni da qualcuno.
Appena mi fu possibile, riferii a Papa Francesco il con-
tenuto di questa telefonata e gli spiegai che tutto ciò ren-
deva problematica la gestione dell’ufficio e sminuiva la mia
autorità, e che per di più a livello personale mi ero sentito
umiliato sia perché non mi aveva chiarito il motivo della
sua decisione, sia perché aveva parlato alla presenza di al-
tre persone, cosicché il pettegolezzo si era immediatamente
diffuso in Vaticano, con interpretazioni di vario tipo. Lui mi
rispose che avevo ragione e che non si era reso conto della
questione, si scusò, ma poi aggiunse che le umiliazioni fanno
molto bene… E purtroppo una simile situazione si ripeté al-
tre volte, in particolare per le visite nelle parrocchie romane.

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Che Francesco non considerasse strategica la Prefettura
della Casa pontificia lo avevo comunque compreso anche
da altri segnali, in apparenza piccoli, ma significativi in-
vece nella dinamica curiale. Un esempio evidente riguardò
l’appartamento che tradizionalmente spetta al prefetto, si-
tuato nella vecchia ala del Palazzo apostolico, risalente ai
tempi di Papa Giulio II e di cui la Cappella Nicolina, che
talvolta viene mostrata in visite riservate nei Musei vaticani,
sarebbe la cappella privata.
Quando il mio predecessore, monsignor Harvey, di-
venne cardinale arciprete di San Paolo fuori le mura, decise
di andare ad abitare nel complesso della basilica, ma era
necessario ristrutturare i locali della residenza. Perciò mi
chiese di poter restare per qualche altro mese nell’appar-
tamento del prefetto e io ovviamente non ebbi difficoltà.
I lavori però durarono più del previsto e soltanto tre anni
più tardi restituì le chiavi al Governatorato. Dopo qualche
piccola opera di rifinitura, a metà 2016 l’allora segreta-
rio generale Fernando Vérgez Alzaga mi disse che potevo
prenderne possesso, cosicché cominciai a organizzare il
trasloco delle mie cose, che fino a quel momento avevo la-
sciato nell’ufficio del prefetto a Castel Gandolfo, al piano
terra di Villa Barberini.
Al mattino del 22 luglio 2016 attendevo come di consueto
Papa Francesco a San Damaso, dove si prende l’ascensore
Nobile. Lui scese dall’automobile e subito mi disse: «Ho
sentito che lei ha l’appartamento nel Palazzo apostolico».
Io precisai che si trattava dell’appartamento del prefetto
della Casa pontificia, assegnato temporaneamente a me
per ragioni d’ufficio. «Per favore, non ne prenda possesso
ora», aggiunse. Quando lo informai che era normale che
il prefetto risiedesse lì, per poter svolgere bene il suo com-
pito – poiché, anche se al momento vivevo nel Monastero
con il Papa emerito, questa era comunque una residenza

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provvisoria –, lui replicò: «Attenda, prima devo parlare con
i miei stretti collaboratori; non faccia nulla finché non ri-
ceverà da me una risposta». La cosa mi dispiacque perché
intuii che dietro c’era qualcuno che stava manovrando per
appropriarsi di quell’appartamento.
Il 2 settembre successivo, nella medesima circostanza,
il Pontefice mi disse: «Lei attendeva da me una risposta e
ora le dico di lasciar stare. Quando avrà bisogno di un ap-
partamento ci penserò io». Alla mia espressione di grande
meraviglia, mi spiegò che gli era stato fatto notare che nel
Palazzo apostolico abitavano il segretario di Stato (il car-
dinale Pietro Parolin) e il sostituto della prima Sezione per
gli Affari generali (all’epoca l’arcivescovo Giovanni Angelo
Becciu), ma non il segretario della seconda Sezione per i
rapporti con gli Stati. Concluse con fermezza: «Ho deciso»;
e infatti, qualche tempo dopo, vidi che in quell’apparta-
mento era appunto andato ad abitare l’arcivescovo Paul
Richard Gallagher.
Nel 2018 però ritenni opportuno ricordare a Papa Fran-
cesco la sua promessa, cosicché lui diede disposizioni a
monsignor Vérgez e alla fine mi venne assegnato un ap-
partamento nella vecchia Santa Marta, al confine con l’aula
Paolo VI. L’allontanamento fisico dal Palazzo apostolico
rappresentò comunque il preannuncio degli sviluppi suc-
cessivi.
A fine gennaio 2020, sempre per restare nel paragone let-
terario, mi ritrovai infatti a essere un “prefetto dimezzato”,
parafrasando il titolo della famosa opera di Italo Calvino Il
visconte dimezzato. Dopo quei torridi giorni di polemiche
attorno al libro del cardinale Sarah, lunedì 20 chiesi a Papa
Francesco di potergli parlare e lui mi diede appuntamento
per fine mattinata, al termine delle udienze. Gli fornii nel
dettaglio i particolari su quanto era accaduto e gli chiesi
consiglio su come agire in futuro, poiché non sempre mi

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era facile riuscire a prevenire problemi come quello che si
era appena verificato. Lui mi guardò con espressione seria
e disse a sorpresa: «D’ora in poi rimanga a casa. Accom-
pagni Benedetto, che ha bisogno di lei, e faccia scudo».
Restai scioccato e senza parole. Quando provai a repli-
care, dicendogli che lo facevo ormai da sette anni, per cui
potevo continuare ugualmente anche per il futuro, chiuse
seccamente il discorso: «Lei rimane prefetto, ma da domani
non torni al lavoro». In modo dimesso replicai: «Non rie-
sco a capirlo, non lo accetto umanamente, ma mi adeguo
soltanto in obbedienza». E lui di rimando: «Questa è una
bella parola. Io lo so perché la mia esperienza personale è
che “accettare in obbedienza” è una cosa buona». La mia
preoccupazione fu riguardo al modo in cui si sarebbe co-
municata la notizia all’esterno, poiché sarebbero certamente
stati sollevati interrogativi sulla mia assenza, ma il Ponte-
fice affermò che non era necessario fare nulla e andò via.
Tornai al Monastero e durante il pranzo lo raccontai alle
Memores e a Benedetto, il quale commentò, tra il serio e il
faceto, in modo ironico: «Sembra che Papa Francesco non
si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode!».
Gli ho risposto, sorridendo anch’io: «Proprio così…, ma
dovrei fare il custode o il carceriere?». Poi ho aggiunto
che presumibilmente era un pretesto in correlazione con
la spinosa vicenda Sarah, poiché non era cambiato nulla
da un giorno all’altro.
Come avevo preventivato, dopo alcuni giorni di assenza
pubblica cominciai a ricevere mail e messaggi nei quali mi
veniva domandato che fine avessi fatto, e ovviamente non
risposi a nessuno. Sabato 25 gennaio scrissi un biglietto di
poche righe a Papa Francesco, comunicandogli che stavo ri-
cevendo queste richieste di informazione e suggerendo che
ormai erano passati diversi giorni di sospensione, dunque
potevo eventualmente riprendere il lavoro. Il 1° febbraio

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mi rispose per iscritto: «Caro fratello, grazie tante per la
sua lettera. Per il momento credo che è meglio mantenere
lo status quo. La ringrazio per tutto quello che fa per Papa
Benedetto: che non gli manchi nulla. Prego per lei, per fa-
vore lo faccia per me. Che il Signore la benedica e la Ma-
donna la custodisca. Fraternamente, Francesco».
Il 5 febbraio l’effimera cappa di silenzio venne infranta
da un articolo del vaticanista Guido Horst sul «Tagespost»,
che rappresentò l’innesco dell’incendio, con una quantità
incredibile di post, commenti e variegate opinioni su cosa
fosse accaduto nei rapporti fra il Papa, me ed eventual-
mente Benedetto. Mi contattò Matteo Bruni, il direttore
della Sala stampa vaticana, per informarmi che i giornali-
sti sollecitavano un chiarimento e che i superiori stavano
concordando una risposta. In effetti, nel pomeriggio del 6
febbraio, i giornalisti ricevettero un comunicato stampa,
che io vidi soltanto quando fu reso noto, nel quale si di-
ceva che «l’assenza di monsignor Gänswein, durante de-
terminate udienze nelle ultime settimane, è dovuta a una
ordinaria ridistribuzione dei vari impegni e funzioni del
prefetto della Casa Pontificia, che ricopre anche il ruolo
di segretario particolare del Papa emerito».
Benedetto restò dispiaciuto per questa evoluzione della
vicenda e, nella citata lettera del 13 febbraio a Papa Fran-
cesco, aggiunse un paragrafo finale che mi riguardava: «Mi
permetto ora di esprimere anche una domanda. Monsignor
Gänswein soffre profondamente e in modo crescente sotto
il peso del suo stato fuori senza prospettive di soluzione.
Oso perciò pregare Vostra Santità di chiarire la situazione
con un colloquio paterno. Da parte mia posso soltanto dire
che monsignor Gänswein non ha avuto alcuna parte nell’e-
laborazione del mio contributo al libro del cardinale Sarah.
Avendo visto il progetto del cardinale che sembrava fare di
me un coautore del libro, e questo in una prospettiva che

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poteva insinuare un’eventuale contrarietà fra me e il suo
insegnamento pontificio, Gänswein ha subito compreso
la gravità di questa ipotesi e ha chiarito con una forte insi-
stenza l’inaccettabilità di questa presentazione. Adesso si
sente attaccato da tutte le parti e ha bisogno di una parola
paterna». Un paio di giorni più tardi, il Pontefice mi fissò
un incontro a Santa Marta, nel quale mi confermò che non
sarebbe cambiato nulla. Nessuna ulteriore risposta ebbe
invece il rinnovato appello del Papa emerito a conclusione
della lettera del 17 febbraio: «Chiedo ancora umilmente
una parola sua per monsignor Gänswein».
All’inizio di settembre del 2020 fui ricoverato nel Cam-
pus biomedico e mi venne diagnosticata una sindrome re-
nale, che il primario di Medicina interna associò anche a
un disturbo psicosomatico. Al rientro in Monastero dopo
due settimane, Papa Francesco mi telefonò per informarsi
della mia salute e ne approfittai per chiedergli un appunta-
mento, che mi fissò per il 23 settembre alle ore 16. Gli dissi
che avevo inteso la mia sospensione come una punizione,
ma lui mi rispose che non era così. Ribattei che tutti la in-
terpretavano in questo modo, a cominciare dai giornalisti, e
la sua replica fu che non dovevo preoccuparmene, poiché,
mi disse testualmente, «ci sono tanti che scrivono contro
di lei e contro di me, ma non meritano considerazione».
Tuttavia, quando provai a ipotizzare il mio rientro, se
era vero che quella non era una punizione, reagì invitan-
domi a non fare progetti per il futuro e suggerendomi ad-
dirittura di dedicarmi a qualche attività pastorale, cosa
che ovviamente si scontrava con la logica che mi era stata
descritta, quella di dover restare nel Monastero al fianco
di Benedetto XVI. Poi, una volta ancora, Papa Francesco
mi raccontò alcune sue faticose esperienze in Argentina,
dicendo che le volte in cui lo avevano stoppato gli erano
servite per maturare.

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Alla fine, abbiamo anche ragionato sull’opportunità di
nominare un pro-prefetto, per rispondere alle necessità
formali dei rapporti con le autorità ricevute dal Santo Pa-
dre. Ma lui concluse che si poteva tranquillamente andare
avanti come stabilito in precedenza. Soltanto con la pub-
blicazione nel 2022 della costituzione apostolica Praedicate
Evangelium sulla Curia romana ne compresi il motivo, poi-
ché il ruolo del Prefetto della Casa pontificia risultava net-
tamente ridimensionato: nell’omologo documento Pastor
bonus del 1988 si precisava che «assiste il Sommo Pontefice
sia nel Palazzo apostolico sia quando viaggia in Roma o in
Italia»; ora invece «lo assiste solo in occasione di incontri
e visite nel territorio vaticano».
Riguardo al mio futuro, comunque, quel che penso l’ho
già affermato in tempi decisamente non sospetti, addirit-
tura nel 2016, per cui mi limito a riproporlo: «Come plu-
riennale collaboratore della Congregazione per la Dottrina
della fede, segretario del cardinale Ratzinger e di Papa Be-
nedetto, evidentemente mi porto addosso un “marchio di
Caino”. Verso l’esterno sono perfettamente “identificabile”.
Effettivamente è così: non ho mai nascosto le mie convin-
zioni. In qualche modo si è riusciti a marchiarmi pubbli-
camente come quello molto a destra o “falco”, senza mai
citare esempi concreti al riguardo. Lo confermo. Oggi e an-
che in futuro. Non ho fatto e non faccio piani di carriera».

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9
Nel Monastero il silenzio operoso

Il ritmo della preghiera

Inutile girarci attorno: anche se risulta brutale e inele-


gante detta così, è la pura verità. Quando, il 28 febbraio
2013, ci trasferimmo a Castel Gandolfo, Benedetto era in-
timamente convinto che la sua esistenza non sarebbe du-
rata a lungo. E così la pensavamo il dottor Polisca e io, che
ne avevamo percepito il progressivo deperimento, mentre
pure il fratello Georg sosteneva che Joseph sarebbe certa-
mente morto prima di lui.
In quel periodo, l’unica circostanza nella quale facemmo
riferimento alla rinuncia fu quando agli inizi di marzo gli
mostrai la famosa fotografia del fulmine che aveva colpito
la cupola di San Pietro nella serata dell’11 febbraio, scat-
tata dal reporter Alessandro Di Meo dell’agenzia Ansa.
Ovviamente nel Palazzo apostolico avevamo udito l’im-
perversare del violento temporale, ma non avevamo visto
quel lampo. Restò colpito e mi chiese se si trattasse di un
fotomontaggio. Gli risposi di no e provai a pungolarlo di-
cendogli: «Sembra che la natura abbia voluto dire qual-
cosa!». Lui però non replicò alcunché.
Nelle prime settimane dopo la rinuncia, il Papa eme-
rito era totalmente esausto, camminava curvo, parlava po-
chissimo. Il medico non diagnosticò problematiche di de-
pressione psicologica, quanto un sovraffaticamento fisico
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e mentale che doveva venire gradualmente smaltito. La
tranquillità di quell’ambiente lo aiutò molto, gli permise di
leggere senza vincoli di tempo (Gregorio Magno, Agostino,
ma anche autori più recenti, come Romano Guardini ed
Eric Peterson) e di ascoltare musica sacra e sinfonica con
un lettore cd che aveva nella camera da letto (Bach, Mo-
zart, Beethoven, Liszt, Bruckner, Schubert, Brahms…). E
in seguito ha ripreso anche a suonare il pianoforte.
Di fatto, Ratzinger aveva avuto nel corso degli anni alcuni
problemi di salute, in particolare con l’ictus del 1991 che
gli aveva causato una riduzione del campo visivo nell’oc-
chio sinistro. Qualche caduta aveva richiesto dei punti di
sutura alla testa, nel 1992 e nel 2012, e un intervento chi-
rurgico per ridurre una frattura al polso destro, nel 2009.
Per la stabilizzazione del ritmo cardiaco gli venne impian-
tato nel 2003 un pacemaker, sostituito nell’autunno del
2012 e del 2022.
Però malattie degenerative non l’hanno mai colpito e il
lento spegnimento che lo ha condotto alla morte è stato il
normale decorso dell’invecchiamento naturale. Addirittura,
da lungo tempo era iscritto nel registro per la donazione di
organi, e soltanto dopo l’elezione al pontificato quell’au-
torizzazione all’espianto venne ovviamente annullata, a
motivo del nuovo status. La maggiore difficoltà negli ul-
timi tempi di vita riguardò la capacità dell’eloquio, dovuta
all’affaticamento polmonare. Ma lui reagì con il consueto
humor, dicendo in più occasioni: «Dio mi ha tolto la pa-
rola per farmi apprezzare sempre più il silenzio».
La vita nel Monastero è in effetti stata scandita dalla pre-
ghiera, secondo quanto aveva stabilito con una frase che
esprimeva il suo programma di massima: «Ogni giorno ini-
zio dal Signore e finisco con il Signore, e vedremo quanto
dura». Un’affermazione in linea con quanto già nel 1996
aveva dichiarato a Peter Seewald nel libro-intervista Il sale

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della terra: «Quanto più si diventa vecchi, tanto più ci si
accorge che le forze non bastano più a fare quello che si
dovrebbe fare, che si è troppo deboli, troppo incapaci, o
anche non all’altezza delle situazioni. E allora ci si rivolge
a Dio, dicendo: “Adesso devi aiutarmi Tu, ora non ce la
faccio più”».
A me piace sempre sottolineare che il “Mater Ecclesiae”
non è stata una casa “di riposo”, bensì “di lavoro” soprat-
tutto spirituale. È unicamente questo il senso di una mia
osservazione poco compresa, quando parlai di «un mini-
stero papale allargato, con un membro attivo e un membro
contemplativo». La scelta di Benedetto si orientò in dire-
zione del Colle vaticano proprio perché lui aveva chiara la
sua missione futura. Io infatti gli avevo proposto qualche
alternativa, come un edificio nel complesso di Castel Gan-
dolfo che era possibile rendere autonomo: gliene parlai un
pomeriggio durante la consueta passeggiata, ma lui aveva
già deciso e non ha mai avuto il minimo dubbio.
Qualche volta, da cardinale e anche durante il pontifi-
cato, il Papa emerito si era recato nella cappella del Mona-
stero per celebrare la Messa e, nel tempo della riflessione
sulla rinuncia, si era reso conto che quel luogo avrebbe
corrisposto perfettamente alla sua indole e al desiderio di
vita sobria che più volte aveva fatto presagire. Per esempio
nell’ottobre del 2011, nel discorso ai certosini di Serra San
Bruno, aveva sottolineato che «ogni monastero è un’oasi in
cui, con la preghiera e la meditazione, si scava incessante-
mente il pozzo profondo dal quale attingere l’“acqua viva”
per la nostra sete più profonda». E nel marzo del 2012, ai
benedettini camaldolesi sul Celio, confidò, secondo la te-
stimonianza del priore Enzo Gargano: «Mi sento monaco
come voi. Fra i monaci mi sento a casa».
Quando si trattò di definire esattamente il progetto di
ristrutturazione del Monastero, Benedetto mi disse che era

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indeciso se restare con tutte le quattro Memores, poiché
temeva di “approfittare” della loro benevolenza. Anche
dietro le mie insistenze e dopo averle consultate personal-
mente, concordò che si era creata una vera e propria fami-
glia e che era dunque opportuno mantenerla sino alla sua
morte. Perciò il secondo piano venne destinato alla loro
vita comunitaria, con quattro stanze e il salone comune. Al
primo piano c’erano invece la camera da letto, la sala e la
biblioteca utilizzate dal Papa emerito; la mia stanza e uno
studio per suor Birgit. Al piano terra, da un lato la cap-
pella e l’appartamento che periodicamente ospitò monsi-
gnor Georg Ratzinger; dall’altro lato la cucina, la sala da
pranzo e il salottino di ricevimento.
Scherzando, durante il periodo di lockdown per la pan-
demia del Covid, ci dicevamo che noi avevamo precorso i
tempi, memori del celebre aforisma di Cicerone all’amico
Varrone: «Se accanto alla biblioteca avrai un orto, non ti
mancherà nulla». Ma in realtà, anche per Benedetto, non
si è mai trattato di una completa clausura, poiché Fran-
cesco sin dagli inizi rivelò di aver parlato personalmente
con il Papa emerito e di aver «deciso insieme che sarebbe
stato meglio che vedesse gente, uscisse e partecipasse alla
vita della Chiesa». Anzi, sorridemmo per il saluto che Papa
Bergoglio gli rivolse pubblicamente il 28 settembre 2014
dal sagrato di San Pietro nella Giornata per la terza età: «Io
ho detto tante volte che mi piaceva tanto che lui abitasse
qui in Vaticano, perché era come avere il nonno saggio a
casa!», dato che Benedetto commentò simpaticamente:
«Mah, in fondo abbiamo soltanto nove anni di differenza.
Forse era più corretto definirmi “fratello maggiore”…».
Comunque, in tutti questi anni il Papa emerito è restato
in costante contatto con le vicende del mondo, contraria-
mente a quanto affermato da alcuni, e purtroppo anche
da Vittorio Messori nel già citato intervento del 2016 al

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Rosetum di Milano, quando disse che «a lui le notizie non
arrivano. Lui non vede la tv, non ascolta la radio, gli ar-
riva solo il “Corriere della Sera”». Ora, a parte che il quo-
tidiano milanese è oggettivamente il più diffuso in Italia,
Benedetto ha sempre visto il telegiornale e ha potuto con-
sultare l’ampia rassegna stampa della Segreteria di Stato,
oltre a ricevere anche il quotidiano vaticano «L’Osserva-
tore Romano» e quello tedesco «Frankfurter Allgemeine
Zeitung» e il settimanale cattolico «Die Tagespost».
Inoltre lo abbiamo sempre aggiornato su ciò che poteva
essere di suo interesse o che in qualche modo lo coinvol-
geva. Per esempio, io l’ho informato sia delle serie televi-
sive The Young Pope e The New Pope, sia del film I due
Papi, seppur senza riscontrare in lui particolare attenzione.
Quando girarono il film a Roma, l’attore Anthony Hopkins,
che interpretava la figura ispirata a Benedetto, desiderava
incontrarlo, ma la cosa non fu ritenuta opportuna poiché
certamente quell’appuntamento sarebbe stato reso noto,
magari citandolo come un’approvazione implicita della
sceneggiatura, che invece propone come vere vicende mai
avvenute. E anche nel libro da cui era tratto, L’anno dei
due Papi di Anthony McCarten, si leggono affermazioni
del tutto prive di fondamento, e persino squallide, come
quella che Papa Ratzinger «aveva commissionato a un pro-
fumiere la creazione di una fragranza esclusiva, che non
mancava di usare».

Una sequenza di indizi infondati

Benedetto per primo, e io in subordine, non avremmo


mai pensato che i suoi gesti e parole sarebbero stati disse-
zionati in maniera abnorme nell’illusorio tentativo di avva-
lorare elucubrazioni personali instradate più sulla scia del

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Codice da Vinci di Dan Brown che su binari logici e ragio-
nevoli. Talvolta mi sono addirittura trovato a pensare alla
famosa frase dei poliziotti americani: «Tutto quello che
dici potrà essere utilizzato contro di te».
La prima contestazione, cavallo di battaglia specialmente
del giornalista Andrea Cionci, ha riguardato l’utilizzo con-
temporaneo, nella Dichiarazione della rinuncia, dei voca-
boli latini munus e ministerium, poi entrambi tradotti nelle
lingue comuni con la parola “ministero”. Si è perfino so-
stenuto che, in accordo fra Giovanni Paolo II e il prefetto
Joseph Ratzinger, sin dal 1983, con il nuovo Codice di Di-
ritto canonico, l’incarico papale fosse stato giuridicamente
scomposto, attribuendo al primo termine il titolo petrino
e al secondo l’esercizio pratico del relativo potere (una di-
stinzione assolutamente inesistente in quel testo).
Decisamente un’assurda idea, fondata sull’avveniristica
certezza di una triplice sequenza di fatti. Innanzitutto l’e-
lezione del cardinale Ratzinger al pontificato (nel 1983 lui
aveva appena 56 anni e Papa Wojtyła soltanto 63, dunque
le prospettive erano tutt’altro che in questa direzione);
quindi uno sviluppo delle vicende personali ed ecclesiali
che lo avrebbe successivamente spinto all’atto della ri-
nuncia; infine una futura situazione eccezionale, addirit-
tura identificata da Cionci nella “sede impedita”, che il
Codice di Diritto canonico, al n. 412, definisce: «Se il ve-
scovo diocesano è totalmente impedito di esercitare l’uf-
ficio pastorale (munere pastorali) nella diocesi a motivo di
prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado
di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani».
Manco a dirlo, quanto di più lontano dalla evidente mo-
dalità con cui ha vissuto Benedetto XVI nel Monastero,
dove ha incontrato a quattr’occhi chi ha voluto, ha scritto
a chiunque desiderasse e ha pubblicato tutto ciò che ha
ritenuto opportuno.

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In realtà, Benedetto volle semplicemente comunicare
in uno stile elegante la rinuncia a ciò che gli era stato con-
ferito tramite l’elezione e la sua accettazione, utilizzando
due sinonimi. Forse un Papa canonista avrebbe utilizzato
unicamente munus. Ma Benedetto, essendo di formazione
un teologo, mise anche in questo caso in campo la propria
competenza: per lui, la parola munus era stata un’applica-
zione del Concilio Vaticano II con l’obiettivo di spiegare
più precisamente il concetto dei tria munera, cioè la par-
tecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione di Cristo,
sacerdotale, profetica e regale.
Però il teologo Ratzinger non concordava con la tesi che
rinveniva nei padri della Chiesa e anche nel Catechismo
del Concilio di Trento i fondamenti della dottrina dei tria
munera. Lui riteneva invece che la teologia classica fosse
estranea a questa teoria, fatta sostanzialmente propria per
la prima volta dal Magistero conciliare. Perciò ha privile-
giato il concetto di ministerium, che invece era secondo
lui la parola giusta e più forte nella tradizione teologica.
Traducendo dal latino la Dichiarazione, qualcuno ha
forzato interpretazioni diverse. Ma nessuno di noi, nean-
che il canonista Bertone, ritenne possibili equivoci reali.
In ogni caso, percependo qualche segnale di osservazioni
in tal senso, nell’udienza generale del 27 febbraio Bene-
detto XVI chiarì ad abundantiam, utilizzando apposita-
mente la parola “officio” con cui il Codice di Diritto ca-
nonico traduce in italiano il termine “munus”: «Non porto
più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma
nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto
di san Pietro».
Ugualmente per quanto concerne un’altra terminolo-
gia in latino occorre ribadire l’intenzione di Benedetto: mi
riferisco a quando puntualizzò la convocazione del Con-
clave «da coloro a cui compete». È la precisa traduzione

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proposta in tutte le lingue comuni e corrisponde a quanto
sancito nell’articolo 18 della costituzione apostolica Uni-
versi Dominici gregis: la convocazione dei cardinali elet-
tori fatta «dal Decano, o da altro cardinale a suo nome»,
che sono appunto «coloro a cui compete». L’espressione
venne scelta come sinonimo della parola “cardinali”, più
volte ripetuta: se si vuole, si potrà criticare lo stile, ma non
la proprietà del linguaggio.
Pure riguardo allo stemma e all’abito bianco conservati
dopo la rinuncia sono state fatte delle sottolineature inele-
ganti, per utilizzare un eufemismo. Ribadisco che il Papa
emerito non pensava che sarebbe vissuto così a lungo, per
cui, anche se ovviamente non poteva esplicitarlo ad alta
voce, riteneva inutile mettersi a modificare simboli che sa-
rebbero “scomparsi” rapidamente insieme con lui.
Ovviamente, destò curiosità la risposta che diede il 18
febbraio 2014 al vaticanista Andrea Tornielli: «Il manteni-
mento dell’abito bianco e del nome Benedetto è una cosa
semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non
c’erano a disposizione altri vestiti». Voleva essere una bat-
tuta nel suo sottile stile umoristico, poiché lui era consa-
pevole di indossare la talare bianca in modo chiaramente
distinto da quello del Papa regnante: se col senno di poi
risultò un’espressione infelice, devo però sottolineare che
– una volta che l’aveva scritta – io non potevo certamente
permettermi di suggerirgli un cambiamento.
Il vero problema fu puntualizzato da Benedetto negli
scambi con il cardinale Walter Brandmüller, che gli aveva
manifestato alcune perplessità riguardo sia alla rinuncia,
sia alla scelta del titolo di “Papa emerito” (e che incarnò
la figura del “fuoco amico”, facendo vedere “per caso” la
corrispondenza con il Papa emerito a un giornalista che
poi la divulgò): «Se lei conosce un modo migliore, e quindi
ritiene di poter censurare quello che ho scelto, la prego di

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parlarmene». L’inedita situazione, in sostanza, aveva reso
necessario prendere alcune decisioni sapendo bene che non
erano perfette. Ma qualunque scelta, ne eravamo certi, alla
fine sarebbe stata contestata da qualcuno.
Purtroppo, anch’io sono stato tirato a forza dentro que-
ste polemiche. Di fatto, talvolta in buona fede ma in molti
altri casi no, alcune mie dichiarazioni un po’ enfatiche sono
state utilizzate come supporto per fantasticherie prive di
sostanza. In particolare, ciò accadde quando nel 2016 pre-
sentai il saggio di don Roberto Regoli Oltre la crisi della
Chiesa, sul pontificato di Benedetto XVI. Avevo messo
in conto la possibilità di qualche incomprensione, ma l’e-
spressione del «ministero petrino allargato», seppure un
po’ azzardata, non mi sembrava così fuori luogo al punto da
consentire il capovolgimento del mio pensiero. La ritenevo
un’immagine utile per descrivere l’attualità che stavamo vi-
vendo in ambito ecclesiale, e devo dire che nel momento
della conferenza non notai specifiche reazioni, che si sono
sviluppate soltanto a distanza di tempo. Comunque, posso
qui rivelare che al Papa emerito ho sempre dato i testi delle
mie conferenze soltanto dopo averli pronunciati, per non
farlo sentire obbligato a mettervi mano come professore e
per poter affermare senza problemi che stavo esprimendo
il mio pensiero e non facevo da suo portavoce, come molti
hanno ipotizzato, più o meno velatamente.
In seguito è però stato raggiunto il ridicolo, quando ci
si è chiesti perché sulla mia carta da lettere ci fosse ancora
il vecchio stemma episcopale, inquartato con quello di Be-
nedetto, affermando che nel 2017 lo avevo sostituito in-
quartando quello di Francesco. La spiegazione è sempli-
cissima, anche perché il mio stemma l’avevo modificato
subito dopo l’elezione di Papa Bergoglio, sostituendo la
metà su cui precedentemente c’era lo stemma di Benedetto.
Ma poche settimane prima mi erano stati consegnati dalla

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Tipografia vaticana i fogli da lettera e i cartoncini con il
vecchio stemma (ovviamente non avrei potuto dare l’indi-
cazione di non realizzarli, in vista dell’imminente rinuncia
di Benedetto, senza suscitare inopportuni interrogativi…).
Perciò ho continuato a utilizzarli per la corrispondenza da
segretario particolare del Papa emerito, mentre per quella
da Prefetto della Casa pontificia mi sono servito dei nuovi
fogli con lo stemma cambiato. Consideravo infatti uno
spreco buttare tutto al macero, e mai avrei pensato che
questo ingenuo gesto avrebbe potuto innescare un’insen-
sata speculazione.

La famiglia al centro dello scontro

Nei primi tempi del pontificato di Francesco, Benedetto


XVI leggeva con attenta curiosità sull’«Osservatore Ro-
mano» tutto ciò che il successore faceva e diceva. Ricordo
che restò subito colpito dalle parole del suo primo Angelus,
il 17 marzo 2013, quando Papa Bergoglio citò un libro sulla
misericordia scritto dal cardinale Walter Kasper, anche per-
ché lui stesso, per esempio nel Regina Caeli del 30 marzo
2008, aveva affermato con determinazione che «la misericor-
dia è il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome
stesso di Dio» (come ricorderà anche Francesco, ricono-
scendo a Benedetto l’ispirazione del titolo per il suo libro-in-
tervista con Andrea Tornielli Il nome di Dio è misericordia).
Fra il 2014 e il 2015, il Papa emerito seguì con interesse
le due fasi del Sinodo sulla famiglia e, con una certa pre-
veggenza, si rese conto – ben prima dell’apertura dell’As-
semblea sul tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel con-
testo dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014), cui fece
seguito il Sinodo ordinario su “La vocazione e la missione
della famiglia nella Chiesa nel mondo contemporaneo” (4-

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25 ottobre 2015) – che le linee teologico-pastorali erano
già state ampiamente indicate nella relazione presentata
nel febbraio del 2014 dal cardinale Walter Kasper al Con-
cistoro straordinario dei cardinali.
Benedetto conosceva da decenni il porporato tedesco e
qualche volta aveva avuto anche delle dispute teologiche
con lui, cosicché valutò con qualche preoccupazione ciò che
Kasper aveva detto. Di fatto, quel testo si presentava come
un faro per il successivo dibattito assembleare e lo stupore
di Benedetto fu dovuto alla scelta di Papa Francesco di far
pronunciare una simile relazione, che ovviamente avrebbe
in qualche modo condizionato i padri sinodali, dando nel
contempo l’indicazione di «approfondire la teologia della
famiglia e la pastorale che dobbiamo attuare nelle condi-
zioni attuali. Facciamolo con profondità e senza cadere
nella “casistica”, perché farebbe inevitabilmente abbassare
il livello del nostro lavoro».
L’attenzione del Papa emerito era dovuta anche al fatto
che il cardinale Kasper lo aveva direttamente chiamato in
causa, sia come prefetto sia come Pontefice, con un pre-
ciso riferimento: «Un avvertimento ci ha dato la Congre-
gazione per la Dottrina della Fede già nel 1994 quando ha
stabilito – e Papa Benedetto XVI lo ha ribadito durante
l’incontro internazionale delle famiglie a Milano nel 2012
– che i divorziati risposati non possono ricevere la comu-
nione sacramentale, ma possono ricevere quella spirituale.
Certo, questo non vale per tutti i divorziati, ma per coloro
che sono spiritualmente bene disposti. Nondimeno molti
saranno grati per questa risposta, che è una vera apertura.
Essa solleva però diverse domande. Infatti, chi riceve la co-
munione spirituale è una cosa sola con Gesù Cristo; come
può quindi essere in contraddizione con il comandamento
di Cristo? Perché, quindi, non può ricevere anche la co-
munione sacramentale?».

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Indubbiamente l’intera questione è seria e delicata, ma
Ratzinger non si tirò mai indietro di fronte a tali interro-
gativi e mantenne sempre fermo, anche da Papa, il com-
mento sintetico da lui proposto in relazione alla citata let-
tera della Congregazione del 1994: «Una serie di obiezioni
critiche contro la dottrina e la prassi della Chiesa concerne
problemi di carattere pastorale. Si dice ad esempio che il
linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo lega-
listico, che la durezza della legge prevarrebbe sulla com-
prensione per situazioni umane drammatiche. L’uomo di
oggi non potrebbe più comprendere tale linguaggio. Gesù
avrebbe avuto un orecchio disponibile per le necessità di
tutti gli uomini, soprattutto per quelli al margine della so-
cietà. La Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come
un giudice, che esclude dai sacramenti e da certi incarichi
pubblici persone ferite. Si può senz’altro ammettere che
le forme espressive del Magistero ecclesiale talvolta non
appaiano proprio come facilmente comprensibili. Queste
devono essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in un
linguaggio, che corrisponda alle diverse persone e al loro
rispettivo ambiente culturale. Il contenuto essenziale del
Magistero ecclesiale in proposito deve però essere mante-
nuto. Non può essere annacquato per supposti motivi pa-
storali, perché esso trasmette la verità rivelata. Certamente
è difficile rendere comprensibili all’uomo secolarizzato le
esigenze del Vangelo. Ma questa difficoltà pastorale non
può condurre a compromessi con la verità».
In riferimento a ciò, dopo la pubblicazione nel marzo
del 2016 dell’esortazione apostolica postsinodale Amoris
laetitia, maturò in lui qualche perplessità leggendo il testo
poiché, pur apprezzandone molti passaggi, si interrogò sul
senso di alcune note, che in genere segnalano la citazione
di una fonte, mentre in questo caso esprimevano contenuti
significativi. Seguendo il dibattito che si sviluppò nei mesi

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successivi, continuava a non comprendere il motivo per cui
si era lasciata aleggiare in quel documento una certa ambi-
guità, consentendo interpretazioni non univoche.
Certamente Benedetto non scrisse mai nulla a tale ri-
guardo, né rispose agli interrogativi che pur gli erano giunti,
poiché sarebbe stata una illecita intromissione. Però, te-
nendo conto di qualche fugace osservazione, compren-
devo che la sua sensibilità non condivideva la strategia di
lasciar correre varie interpretazioni per poi favorirne una,
come si evidenziò con la pubblicazione sugli Acta Aposto-
licae Sedis, l’organo ufficiale della Santa Sede, della lettera
inviata da Papa Bergoglio ai vescovi argentini, nella quale
si affermava che il loro commento all’esortazione «è molto
buono e spiega in modo esauriente l’VIII capitolo dell’A-
moris laetitia. Non sono possibili altre interpretazioni».
Il suo silenzio riguardo a questa vicenda divenne rigo-
roso quando fu resa pubblica la lettera dei Dubia, che i
quattro cardinali Walter Brandmüller, Raymond L. Burke,
Carlo Caffarra e Joachim Meisner avevano inviato a Papa
Francesco nel settembre del 2016, diffondendola dopo che
per un paio di mesi non avevano ricevuto alcuna risposta.
Nessuno di loro ebbe mai occasione di parlarne al Papa
emerito, né in quel periodo e nemmeno in seguito, quando
nella primavera del 2017 i porporati tornarono alla carica
chiedendo a Papa Francesco un’udienza di chiarificazione.
Benedetto restò soltanto umanamente sorpreso per l’as-
senza di qualsiasi cenno di replica da parte del Pontefice,
nonostante Francesco normalmente si mostrasse disponi-
bile a incontrare e a parlare con chiunque.
Non è comunque in riferimento a ciò, che il Papa eme-
rito volle inviare un messaggio di cordoglio per la scom-
parsa del cardinale Joachim Meisner, nel luglio del 2017.
Fu il cardinale Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Colo-
nia, a proporglielo, e Benedetto lo fece volentieri, per l’an-

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tica amicizia che lo legava a Meisner al punto che, appena
qualche giorno precedente la morte, si erano sentiti telefo-
nicamente. Proprio ricordando questo colloquio, scrisse:
«Quello che mi ha impressionato di più in queste ultime
conversazioni con il defunto cardinale era la sua rilassata
serenità, la sua gioia interiore e la fiducia che aveva tro-
vato. Sappiamo che per lui, pastore appassionato e padre
spirituale, fu difficile lasciare l’ufficio e questo proprio in
un momento in cui la Chiesa ha bisogno di pastori convin-
centi e che sappiano resistere alla dittatura dello spirito del
tempo e sappiano vivere decisamente con fede e ragione».
E fu in qualche modo anche un invito che Benedetto
intese rivolgere a se stesso la considerazione finale (che
pure suscitò alcune critiche): «Ma anche questo mi com-
muove, l’aver imparato a lasciarsi andare nell’ultimo pe-
riodo della sua vita, e aver saputo viverla con la certezza
profonda che il Signore non abbandona la sua Chiesa, an-
che se a volte la barca sta per capovolgersi». Citando la
“barca”, il Papa emerito si riferiva alla realtà ecclesiale te-
desca, dove il cardinale Meisner aveva dovuto affrontare
situazioni difficili. D’altronde lui sapeva bene che anche
Francesco aveva stima dell’arcivescovo emerito di Colonia
perché, come Papa Bergoglio mi disse personalmente, «è
sincero, chiaro, cattolico».

La lettera “sbianchettata”

Sul finire del 2017, monsignor Dario Edoardo Viganò,


all’epoca prefetto della Segreteria per la comunicazione
della Santa Sede, mi informò che la Libreria Editrice Va-
ticana stava per pubblicare alcuni volumi, scritti da diversi
teologi, sul Magistero di Papa Francesco e mi chiese se
sarebbe stato possibile avere da Benedetto XVI una pre-

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sentazione. Gli suggerii di inviarmi i testi e una richiesta
scritta, specificando cosa desiderasse, e il 12 gennaio 2018
mi giunse il plico che consegnai al Papa emerito.
Dopo alcuni giorni, Benedetto mi disse che aveva dato
uno sguardo a quel materiale ed era rimasto stupito per la
presenza fra gli autori di Peter Hünermann, che durante
il suo pontificato, ma anche prima, era stato un acceso av-
versario (proprio lui, dopo che nel 1979 ad Hans Küng era
stata revocata la facoltà di insegnare come teologo catto-
lico, ne aveva preso il posto sulla cattedra dell’università
di Tubinga). «Per amore di Papa Francesco, vorrei venire
incontro alla richiesta di monsignor Viganò, ma non sono
in grado di leggere adeguatamente i libretti, poiché sono
troppi. E poi non potrei tacere riguardo a Hünermann»,
mi precisò.
Poiché il prefetto Viganò aveva fatto la richiesta diret-
tamente a me, a quel punto dissi al Papa emerito che avrei
potuto rispondere io, confrontando ovviamente con lui la
bozza. Ma Benedetto replicò che ci avrebbe pensato lui e
si mise al lavoro per stendere la lettera che fu inviata il 7
febbraio con la dicitura sulla busta “personale-riservata”,
poiché Benedetto era consapevole di quanto la questione
fosse delicata e richiedesse accortezza. Viganò mi telefonò
per domandare la possibilità di citare pubblicamente la let-
tera e Benedetto diede l’autorizzazione.
Il 12 marzo si svolse la presentazione della collana e la
sera, nel servizio del Tg1, vedemmo la lettera poggiata sul
tavolo, parzialmente nascosta sotto la pila degli undici li-
bretti. Ma l’attenzione era stata riservata unicamente a due
capoversi del testo: «Plaudo a questa iniziativa che vuole
opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Fran-
cesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare
formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato uni-
camente un teorico della teologia che poco avrebbe capito

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della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi
mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di pro-
fonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a
vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con
tutte le differenze di stile e di temperamento».
Il giorno seguente, il vaticanista Sandro Magister mise
in risalto anche un altro brano, decisamente meno com-
piacente: «Tuttavia non mi sento di scrivere su di essi “una
breve e densa pagina teologica”. In tutta la mia vita è sem-
pre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso sol-
tanto su libri che avevo anche veramente letto. Purtroppo
anche solo per ragioni fisiche non sono in grado di leggere
gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi
attendono altri impegni che ho già assunti».
Fu sufficiente qualche altro giorno perché venisse alla
luce l’intero documento, il cui paragrafo finale diceva: «Solo
a margine vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra
gli autori figuri anche il professor Hünermann, che durante
il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato
iniziative antipapali. Egli partecipò in misura rilevante al
rilascio della “Kölner Erklärung” (la “Dichiarazione di Co-
lonia”, N.d.A.), che, in relazione all’enciclica Veritatis splen-
dor, attaccò in modo virulento l’autorità magisteriale del
Papa specialmente su questioni di teologia morale. Anche
la “Europäische Theologengesellschaft”, che egli fondò,
inizialmente da lui fu pensata come un’organizzazione in
opposizione al Magistero papale. In seguito, il sentire ec-
clesiale di molti teologi ha impedito quest’orientamento,
rendendo quell’organizzazione un normale strumento d’in-
contro fra teologi».
Non ho idea di come Magister venne a conoscenza del
testo originario e non varrebbe nemmeno la pena di smen-
tire, ma purtroppo è necessario, che fossi stato io a divul-
garla: una bugia diffamatoria nei miei confronti, che fu

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propalata pure da un responsabile di lingua tedesca della
Radio Vaticana. Questa narrazione giunse anche a Santa
Marta, sostenendo che io l’avrei fatto non soltanto per
danneggiare Viganò, ma anche per attaccare l’opera di ri-
forma della Curia avviata da Papa Francesco, della quale
la ristrutturazione della comunicazione vaticana era ampia
parte. Cosicché da quel momento si cercò l’opportunità
più adatta per una rivalsa nei miei confronti.
Ma chi conosceva Benedetto non poteva avere la mi-
nima speranza che facesse qualcosa ad usum delphini, ta-
cendo la propria opinione per compiacere il successore
o qualche suo collaboratore. A prescindere dalla qualità
dei rapporti personali, il teologo Ratzinger non guardò
mai in faccia a nessuno e, nelle sue recensioni, proponeva
senza scrupoli ogni osservazione critica ritenesse oppor-
tuna, in relazione ai testi che valutava, sempre motivando
le proprie argomentazioni. Comunque, Benedetto prese
atto di questa polemica, ma senza particolare interesse,
pur manifestando dispiacere e incomprensione per l’in-
ganno che era stato perpetrato con l’esibizione parziale
della sua lettera.
Ricordo che monsignor Viganò mi telefonò sul cellu-
lare durante la visita di Papa Francesco a San Giovanni
Rotondo, il 17 marzo 2018, e ci demmo appuntamento
dopo il rientro a Roma, quando mi chiese cosa fare. Cercò
di giustificare l’accaduto con l’autorizzazione che gli ave-
vamo dato, ma ovviamente reagii controbattendo che era
stata improvvidamente creata una fake news, e da quel mo-
mento non ci siamo più sentiti. Francesco non mi accennò
mai nulla sulla questione, però ho sentito da diverse fonti,
e anch’io personalmente ho percepito, che gli era costato
dover affrontare le dimissioni che il 19 marzo il prefetto
gli presentò, poi accolte il 21 marzo con la creazione per
lui del nuovo ruolo di assessore nella medesima Segreteria.

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La pacificazione interrotta

Il 16 luglio 2021 Benedetto XVI scoprì, sfogliando


«L’Osservatore Romano» di quel pomeriggio, che Papa
Francesco aveva reso noto il motu proprio Traditionis cu-
stodes sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma
del 1970. La tematica era identica a quella del motu pro-
prio Summorum Pontificum, che lui aveva promulgato il
7 luglio 2007, e anche la modalità di comunicazione fu la
medesima, mediante l’accompagnamento di una lettera per
illustrare i contenuti del nuovo testo. Perciò il Papa eme-
rito lesse con attenzione il documento, per comprenderne
la motivazione e i dettagli dei cambiamenti.
Quando gli chiesi un parere, mi ribadì che il Pontefice
regnante ha la responsabilità di decisioni come questa e
deve agire secondo ciò che ritiene come il bene della Chiesa.
Ma, a livello personale, riscontrò un deciso cambio di rotta
e lo ritenne un errore, poiché metteva a rischio il tentativo
di pacificazione che era stato compiuto quattordici anni
prima. Benedetto in particolare ritenne sbagliato proibire
la celebrazione della Messa in rito antico nelle chiese par-
rocchiali, in quanto è sempre pericoloso mettere un gruppo
di fedeli in un angolo, così da farli sentire perseguitati e da
ispirare in loro la sensazione di dover salvaguardare a ogni
costo la propria identità di fronte al “nemico”.
Dopo un paio di mesi, leggendo quanto Papa France-
sco aveva detto il 12 settembre 2021 durante la conversa-
zione con i gesuiti slovacchi a Bratislava, il Papa emerito
corrugò la fronte dinanzi a una sua affermazione: «Adesso
spero che con la decisione di fermare l’automatismo del
rito antico si possa tornare alle vere intenzioni di Bene-
detto XVI e di Giovanni Paolo II. La mia decisione è il
frutto di una consultazione con tutti i vescovi del mondo
fatta l’anno scorso».

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E ancor minore apprezzamento riscosse in lui l’aneddoto
raccontato subito dopo dal Pontefice: «Un cardinale mi
ha detto che sono andati da lui due preti appena ordinati
chiedendo di studiare il latino per celebrare bene. Lui, che
ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono
tanti ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare.
Poi, quando avete studiato lo spagnolo, tornate da me e vi
dirò quanti vietnamiti ci sono in diocesi, e vi chiederò di
studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato il vie-
tnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”.
Così li ha fatti “atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra».
Da perito del Vaticano II, Benedetto ricordava bene
come il Concilio avesse invece insistito sull’opportunità
che «l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia
conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium 36) e
che tutti i seminaristi acquisissero «quella conoscenza della
lingua latina che è necessaria per comprendere e utilizzare
le fonti di tante scienze e i documenti della Chiesa» (Op-
tatam totius 13). Non per nulla, aveva annotato nel motu
proprio Latina lingua, «in tale lingua sono redatti nella loro
forma tipica, proprio per evidenziare l’indole universale
della Chiesa, i libri liturgici del rito romano, i più impor-
tanti documenti del Magistero pontificio e gli atti ufficiali
più solenni dei Romani Pontefici».
Come è evidente nei suoi scritti, in particolare La festa
della fede (1984) e Introduzione allo spirito della liturgia
(2000), il teologo Ratzinger agli inizi era favorevole riguardo
alla riforma liturgica: questo tema fu sempre tra i suoi pre-
diletti, poiché lo riteneva fondamentale per la fede catto-
lica, e non per caso volle che la prima pubblicazione della
sua Opera omnia fosse quella dedicata alla liturgia, anche
se nel piano progettuale era l’undicesimo volume. Però, ve-
dendo i successivi sviluppi di quella riforma, si rese conto
delle diversità fra ciò che il Vaticano II voleva e quanto in-

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vece fu fatto dalla Commissione per la realizzazione della
Sacrosanctum Concilium, con la liturgia che è diventata un
campo di battaglia per opposti schieramenti, in particolare
rendendo la celebrazione in latino il baluardo da difendere
o il bastione da abbattere.
Benedetto si è impegnato soprattutto affinché la litur-
gia fosse celebrata nella sua bellezza, poiché essa è la ce-
lebrazione della presenza e dell’opera del Dio vivente, ve-
dendo nell’Eucaristia il gesto di adorazione più elementare
e grande della Chiesa. Ai suoi occhi, ogni riforma della
Chiesa doveva derivare dalla liturgia, in quanto essa sol-
tanto può incarnare un rinnovamento della fede che parte
dal centro. E da teologo affermava: «Come ho imparato
a intendere il Nuovo Testamento come l’anima della teo-
logia, così ho colto la liturgia come il suo motivo di vita,
senza la quale quella inaridisce».
Fondandosi su tale consapevolezza, con il Summorum
Pontificum volle rendere più agevole la possibilità per un
sacerdote di celebrare con il rito antico, superando la ne-
cessità del riferimento al vescovo diocesano e accordando
la competenza alla Commissione “Ecclesia Dei”. Restò co-
munque sempre chiaro per lui che esisteva un unico rito,
seppure con la compresenza di quello ordinario e di quello
straordinario. La sua unica motivazione era il desiderio di
riparare la grande ferita che via via si era creata, volonta-
riamente o involontariamente che fosse.
Non fu un’operazione svolta clandestinamente, come
pur qualcuno in cattiva fede ha sostenuto. A occuparsi
del testo del motu proprio fu infatti la Congregazione per
la Dottrina della fede, con il coinvolgimento dei membri
della feria quarta e della plenaria. Benedetto seguiva costan-
temente i progressi del testo attraverso gli aggiornamenti
che gli faceva il cardinale prefetto Levada nelle udienze di
tabella e, dopo la pubblicazione, chiese regolarmente ai ve-

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scovi, in occasione delle visite ad limina, come procedesse
l’applicazione di quella normativa nella loro diocesi, rica-
vandone sempre una sensazione positiva.
Per questo motivo a Papa Ratzinger apparve incongruo
quel riferimento alle sue «vere intenzioni», poiché, come
si legge in Luce del mondo, egli aveva voluto «rendere più
facilmente accessibile la forma antica soprattutto per pre-
servare il profondo e ininterrotto legame che sussiste nella
storia della Chiesa. Non possiamo dire: prima era tutto sba-
gliato, ora invece è tutto giusto. In una comunità, infatti,
nella quale la preghiera e l’Eucaristia sono le cose più im-
portanti, non può considerarsi del tutto errata quella che
prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della ricon-
ciliazione con il proprio passato, della continuità interna
della fede e della preghiera nella Chiesa».
Restò misterioso anche per Benedetto il motivo per cui
non vennero divulgati i risultati della consultazione dei ve-
scovi fatta dalla Congregazione per la Dottrina della fede,
che avrebbero consentito di comprendere più precisamente
ogni risvolto della decisione di Papa Francesco. Allo stesso
modo si rivelò sorprendente, per tutto il lavoro di analisi e
di approfondimento fatto in precedenza, il trasferimento e
lo spezzettamento della competenza sulla questione dalla
Dottrina della fede al Dicastero per il Culto divino e la
Disciplina dei sacramenti e a quello per gli Istituti di vita
consacrata e le Società di vita apostolica.

Da sempre contro ogni abuso

L’orribile questione degli abusi sessuali compiuti da


ecclesiastici ha attraversato in filigrana gli anni vaticani di
Ratzinger, che combatté energicamente questo crimine sia
da cardinale sia da Papa. In particolare, come prefetto della

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Congregazione per la Dottrina della fede (e ancor prima
da arcivescovo di Monaco), contribuì alla elaborazione del
Codice di Diritto canonico promulgato nel 1983, dove il
canone 1395 afferma perentoriamente: «Il chierico che ab-
bia commesso altri delitti contro il sesto precetto del De-
calogo […] con un minore al di sotto dei 16 anni, sia pu-
nito con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato
clericale, se il caso lo comporti».
Sin da allora gli era chiara la diagnosi, che sintetizzò a
Peter Seewald in Luce del mondo: «A partire dalla metà
degli anni Sessanta [il Diritto penale canonico] semplice-
mente non è stato più applicato. Dominava la convinzione
che la Chiesa non dovesse essere una Chiesa del diritto, ma
una Chiesa dell’amore; che non dovesse punire. Si spense
in tal modo la consapevolezza che la punizione può essere
un atto d’amore». Contemporaneamente vedeva che nel
contesto sociale dell’epoca i criteri validi sino a quel mo-
mento in tema di sessualità erano totalmente venuti meno,
causando conseguenze anche nella formazione e nella vita
dei sacerdoti.
Quel giudizio venne poi esplicitato nei famosi “Ap-
punti”, inizialmente scritti dal Papa emerito come rifles-
sione personale, che scaturirono da una sua preoccupa-
zione pastorale costante, emersa con forza durante tutto il
pontificato, cioè la preoccupazione per la vita e il ministero
dei presbiteri. Il dramma degli abusi, infatti, rappresenta
una crisi della credibilità sacerdotale dinanzi al mondo,
così come dell’identità degli stessi sacerdoti riguardo alla
loro missione e alla loro capacità di annunciare il Vangelo.
Quando ebbe notizia che, dal 21 al 24 febbraio 2019,
si sarebbe svolta in Vaticano una riunione dei presidenti
di tutte le Conferenze episcopali per riflettere sulla crisi
della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a se-
guito dello scandalo degli abusi, Benedetto inviò il testo a

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Papa Francesco, tramite il cardinale segretario di Stato Pie-
tro Parolin, chiedendogli l’assenso a renderlo noto. Dopo
alcuni giorni, il cardinale Parolin mi telefonò a nome del
Pontefice, chiedendomi di comunicare al Papa emerito che
Francesco concordava sull’idea che venisse pubblicato.
Nella sua dettagliata ricostruzione, Benedetto non si sot-
trasse alla dura denuncia di quanto era stato originato dalla
cosiddetta “rivoluzione del ’68”, che «voleva conquistare
anche la completa libertà sessuale» e della cui fisionomia
«faceva parte il fatto che la pedofilia fosse stata diagnosti-
cata come permessa e conveniente» (restano ancora nella
memoria e negli archivi i “manifesti” di quel tempo firmati
da noti esponenti dell’élite culturale), mentre «nello stesso
periodo si è verificato un collasso della teologia morale cat-
tolica che ha reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi
nella società», con l’affermazione della tesi «per cui la mo-
rale dovesse essere definita solo in base agli scopi dell’agire
umano: non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento
e a seconda delle circostanze è relativamente meglio».
Successivamente, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta,
«la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale
cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio 1989
fu pubblicata la “Dichiarazione di Colonia” firmata da 15
professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi
punti critici del rapporto fra Magistero episcopale e com-
pito della teologia. Giovanni Paolo II, che conosceva molto
bene la situazione della teologia morale e la seguiva con at-
tenzione, dispose che s’iniziasse a lavorare a un’enciclica che
potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il
titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 e in effetti conte-
neva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai
diventare buone, […] ci sono valori che non è mai lecito
sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno
al di sopra anche della conservazione della vita fisica».

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Facendo un salto temporale in relazione a ciò, il 5 marzo
2014 Benedetto lesse sul «Corriere della Sera» l’intervista
di Ferruccio De Bortoli a Papa Francesco e si chiese cosa il
Pontefice non avesse compreso quando, rispondendo alla
domanda sui «valori non negoziabili soprattutto in bioetica
e nella morale sessuale», aveva dichiarato: «I valori sono
valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano
ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco
in che senso vi possano esser valori negoziabili». Senza
permettersi di esprimere un giudizio, a livello personale il
Papa emerito intese però quell’affermazione come un cam-
biamento di rotta e una velata critica nei riguardi del pre-
cedente comportamento di Giovanni Paolo II e suo, come
se volesse dire che si può negoziare su tutto.
A livello pratico, sul finire degli anni Ottanta il cardi-
nale Ratzinger cominciò a ricevere appelli da vescovi di va-
rie parti del mondo (in particolare dagli Stati Uniti), con
la richiesta di aiuto nell’affronto della problematica, in
quanto il Diritto canonico non appariva comunque suffi-
ciente per adottare le misure necessarie, garantendo ugual-
mente la protezione giuridica dell’accusato, della vittima
e del bene in gioco.
Spiegò Benedetto in quegli “Appunti”: «In sé, per i
delitti commessi dai sacerdoti è responsabile la Congre-
gazione per il Clero. Poiché tuttavia in essa il garantismo
allora dominava ampiamente la situazione, concordammo
con Papa Giovanni Paolo II sull’opportunità di attribuire
la competenza su questi delitti alla Congregazione per la
Dottrina della fede, con la titolatura “Delicta maiora con-
tra fidem”. Con questa attribuzione diveniva possibile an-
che la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato lai-
cale, che invece non sarebbe stata comminabile con altre
titolature giuridiche. Tuttavia, in questo modo si chiedeva
troppo sia alle diocesi che alla Santa Sede. E così stabi-

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limmo una forma minima di processo penale e lasciammo
aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé
il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fos-
sero in grado di svolgerlo».
Lo confermano le lettere, pubblicate nel dicembre del
2010 sull’«Osservatore Romano», inviate decenni prima
dal cardinale Ratzinger al confratello José Rosalío Castillo
Lara, presidente della Pontificia Commissione per l’inter-
pretazione autentica del Codice di Diritto canonico. In
particolare, in quella del 19 febbraio 1988 lamentava che,
giudicando petizioni di dispensa dagli oneri sacerdotali da
parte di ecclesiastici che si erano resi colpevoli di compor-
tamenti scandalosi, la riduzione allo stato laicale veniva di
fatto considerata una “grazia” e non una “punizione”, com-
promettendo così il bene dei fedeli in presenza di eventi
delittuosi gravi.
Una forzatura del Codice non era però lecita, dunque
Ratzinger provò a mettere in campo l’articolo 52 della Pa-
stor bonus, che attribuiva alla sua Congregazione il giudi-
zio sui «delitti più gravi commessi sia contro la morale sia
nella celebrazione dei sacramenti». Ma l’assenza di preci-
sazione di quali fossero questi delitti “più gravi” impediva
una precisa applicazione della norma. Dietro sua sollecita-
zione, il vuoto di formulazione venne finalmente riempito
ad aprile del 2001 con il motu proprio di Giovanni Paolo II
Sacramentorum sanctitatis tutela, cui in maggio fece seguito
la lettera De delictis gravioribus per dare esecuzione pratica
alle nuove procedure nei casi di pedofilia del clero. Quindi,
nel 2003, la Congregazione adottò linee guida interne per
il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di
minori da parte di chierici, rese pubblicamente note nel
2010 con un aggiornamento che estendeva la prescrizione
da 10 a 20 anni (tra le più lunghe al mondo e per di più, nel
caso di minorenni, con decorrenza dal momento del rag-

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giungimento della maggiore età), definendo come delitto
canonico anche il possesso di materiale pedopornografico.
L’emblematica dimostrazione del fatto che intendeva
smascherare le malefatte anche di chi in precedenza aveva
goduto di protezioni ad alto livello fu lo sviluppo dell’in-
chiesta su padre Marcial Maciel, il fondatore dei Legionari
di Cristo, cui fu risparmiato un processo canonico unica-
mente per l’età avanzata e la salute cagionevole. Ma la do-
cumentazione raccolta ne aveva chiaramente evidenziato la
colpevolezza, cosicché a maggio del 2006 gli venne imposta
una vita riservata di preghiera e di penitenza, rinunciando
a ogni ministero pubblico, fino alla morte (avvenuta il 30
gennaio 2008). Del resto, Ratzinger aveva già documentato
in precedenza come la pensasse, evitando di partecipare ai
festeggiamenti che si svolsero a Roma nell’autunno del 2004
per il sessantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale
del sacerdote messicano, omaggiato invece dagli altri più
importanti porporati della Curia romana.
Anche Papa Francesco gliene diede una pubblica atte-
stazione il 18 febbraio 2016, rientrando dal viaggio aposto-
lico in Messico, in risposta alla domanda di un giornalista
sul “caso Maciel”: «Mi permetto di rendere un omaggio
all’uomo che ha lottato in un momento in cui non aveva
forza per imporsi, finché è riuscito ad imporsi. Il cardinale
Ratzinger – un applauso per lui! – è un uomo che ha avuto
tutta la documentazione. Quando era prefetto della Con-
gregazione per la Dottrina della fede ha avuto tutto nelle
sue mani, ha fatto le indagini ed è andato avanti, avanti,
avanti… ma non è potuto andare più in là nell’esecuzione.
[…] È stato l’uomo coraggioso che ha aiutato tanti ad aprire
questa porta. Così che voglio ricordarvelo, perché a volte ci
dimentichiamo di questi lavori nascosti che sono stati quelli
che hanno preparato le basi per scoperchiare la pentola».
Durante il pontificato, Papa Benedetto agì drasticamente

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per la riduzione allo stato laicale dei sacerdoti riconosciuti
colpevoli di abusi sui minori: nei cinque anni fra il 2008 e il
2012 furono oltre 550, e tra loro figurarono anche diversi
vescovi (mentre altri vennero fatti dimettere anticipata-
mente per aver coperto le responsabilità di preti della loro
diocesi). Senza dimenticare che Benedetto è stato il primo
Papa a incontrare vittime di abuso da parte di sacerdoti
durante i suoi viaggi apostolici. Lo fece ben cinque volte:
negli Stati Uniti (aprile 2008), in Australia (luglio 2008), a
Malta (aprile 2010), nel Regno Unito (settembre 2010) e in
Germania (settembre 2011). E sempre lontano dai riflettori,
nello stile di riservatezza da lui voluto in quelle circostanze.

Accuse infondate da Monaco

Considerato tutto ciò, è comprensibile che Benedetto


XVI sia rimasto fortemente addolorato dalle accuse che nel
2010 vennero rivolte a suo fratello Georg, relative al periodo
in cui era stato direttore del coro di Ratisbona. Le indagini
appurarono che gli abusi erano avvenuti nella scuola fre-
quentata dai giovani cantori e che monsignor Georg era
estraneo a tali eventi. Ma ovviamente il suo nome fu l’unico
pubblicizzato dalla stampa descrivendo quella vicenda.
E decisamente restò ancor più scioccato nel gennaio del
2022, quando gli addebiti lo coinvolsero in prima persona,
relativamente ai cinque anni in cui era stato arcivescovo di
Monaco di Baviera fra il 1977 e il 1982, in seguito alla pre-
sentazione del dossier di 1.893 pagine, commissionato dalla
stessa diocesi per far luce sul periodo dal 1945 al 2019: 74
anni nei quali erano stati rilevati 497 abusi commessi da
235 persone (173 sacerdoti, 9 diaconi, 48 dipendenti sco-
lastici e 5 referenti pastorali).
I casi nei quali a Ratzinger veniva attribuita negligenza

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erano unicamente quattro, ma, quando si svolse la confe-
renza, su questi si appuntò immediatamente l’attenzione
delle agenzie giornalistiche e divenne impossibile, nell’arco
di poche ore, reagire al fuoco di fila di notizie che conti-
nuavano ad andare in rete. In realtà, Benedetto aveva già
in precedenza risposto a una ventina di pagine di domande
che gli erano state inviate dagli avvocati che avevano re-
datto il dossier, inviando 82 pagine di risposta il 15 dicem-
bre 2021. Ad aiutarlo dal punto di vista giuridico furono
alcuni esperti, uno dei quali commise un errore di data-
zione, scrivendo che nella riunione del Consiglio dell’or-
dinariato del 15 gennaio 1980, nella quale uno di quei casi
era all’ordine del giorno, il cardinale era assente.
Uno sbaglio banale, del quale il Papa emerito si scusò
appena ne venimmo a conoscenza, ma che non voleva as-
solutamente essere un mascheramento dei fatti. Lo cer-
tifica il verbale d’archivio di quell’incontro, nel quale la
sua presenza era segnalata nero su bianco, e ancor più lo
documenta la biografia pubblicata nel 2020 da Peter See-
wald, nella quale si legge a chiare lettere: «In veste di ve-
scovo, durante una riunione del Consiglio dell’ordinariato
nel 1980 aveva soltanto acconsentito ad accogliere il sacer-
dote in questione a Monaco affinché potesse sottoporsi a
sedute di psicoterapia» (Benedikt XVI. Ein Leben, Droe-
mer Verlag, p. 938 dell’edizione originale tedesca; p. 1051
dell’edizione italiana Benedetto XVI. Una vita per Gar-
zanti). Eppure fu sufficiente per accusarlo di menzogna,
al punto che lui stesso volle confidare, nella lettera datata
6 febbraio 2022: «Mi ha profondamente colpito che la svi-
sta sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e
addirittura per presentarmi come bugiardo».
Con accorate parole, Benedetto mise a nudo i propri
sentimenti: «In tutti i miei incontri, soprattutto durante i
tanti viaggi apostolici, con le vittime di abusi sessuali da

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parte di sacerdoti, ho guardato negli occhi le conseguenze di
una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi
veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la
trascuriamo o quando non l’affrontiamo con la necessaria
decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto
e accade. Come in quegli incontri, ancora una volta posso
solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi ses-
suali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la
mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi respon-
sabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio do-
lore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il
tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo
caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime
degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi
rammarico per ogni singolo caso».
Ovviamente Benedetto, il 3 febbraio, aveva trasmesso
per conoscenza la lettera a Papa Francesco. Due giorni
dopo il Pontefice – che già il 26 gennaio precedente aveva
comunicato telefonicamente vicinanza personale, appog-
gio totale e sostegno nella preghiera – espresse il suo rin-
graziamento riguardo a quel testo e confermò il sostegno
umano e spirituale, dichiarandosi anche addolorato per
certi commenti di alcuni vescovi e sacerdoti.
Il caso più citato dalla stampa fu quello riguardante un
sacerdote della diocesi di Essen che, nel 1980, doveva es-
sere inviato a Monaco per venire sottoposto a una terapia
medica. Il suo vescovo, senza precisare la motivazione delle
cure, auspicò che gli fosse data ospitalità in una canonica
della diocesi, all’epoca guidata da Ratzinger, e nella citata
riunione del 15 gennaio di quell’anno tale richiesta venne
accolta. Dal verbale di quel giorno emerge però con chia-
rezza che non si parlò di un impiego del sacerdote in atti-
vità pastorali, né venne menzionata alcuna imputazione a
suo carico riguardo ad abusi sessuali su bambini.

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Anche nei rimanenti tre casi non si trattò di accuse ri-
guardanti sacerdoti direttamente coinvolti in abusi sessuali
durante il periodo di episcopato di Ratzinger a Monaco.
Uno si riferiva all’autorizzazione a tornare da pensionato
in diocesi concessa dal vicario generale a un anziano sa-
cerdote, che aveva concluso un periodo di detenzione per
cattiva condotta sessuale, come atto di grazia per consen-
tirgli di morire nel suo paese natale. Un altro riguardò un
sacerdote che aveva fotografato alcune bambine mentre si
spogliavano per indossare i costumi di una rappresenta-
zione teatrale e che fu immediatamente spostato dal cardi-
nale Ratzinger in una casa per anziani, con la proibizione
di avere ulteriori contatti con minori.
L’ultimo ebbe come protagonista un giovane prete, ni-
pote di un vescovo, che desiderava proseguire gli studi
nell’università di Monaco: essendo stato visto nuotare nudo
nel locale fiume Isar, venne rispedito a casa. Relativamente
a questo caso, nel dossier si sostenne che Benedetto XVI,
nella sua memoria difensiva, avrebbe minimizzato gli eventi,
poiché nel testo si diceva che il sacerdote «è stato notato
come esibizionista, ma non come abusatore in senso pro-
prio». In realtà si trattava di una frase avulsa dall’intero con-
testo, dove il Papa emerito definiva invece con la massima
chiarezza gli abusi, esibizionismo incluso, come «terribili»,
«peccaminosi», «moralmente riprovevoli» e «irreparabili».
Semplicemente, gli esperti che avevano collaborato alla ste-
sura intendevano soltanto offrire una precisazione storica,
ricordando che per il Diritto canonico allora vigente l’e-
sibizionismo non era un delitto in senso stretto, poiché la
relativa norma penale non comprendeva tra le fattispecie
comportamenti di quel tipo.
Per rispetto della verità storica, è comunque opportuno
specificare che l’affermazione presente nel dossier riguardo
alla conoscenza di quei casi da parte dell’arcivescovo non

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era supportata da alcuna prova. Anzi, quando – durante la
conferenza stampa successiva alla presentazione del dossier
– una giornalista chiese se lo studio legale potesse dimo-
strare che il cardinale Ratzinger era allora a conoscenza del
fatto che il sacerdote fosse un abusatore e che cosa signifi-
casse in quel contesto l’annotazione «maggiormente pro-
babile», un perito rispose candidamente: «Maggiormente
probabile significa che lo presumiamo con una maggiore
probabilità»!

“Profezie” per i nostri tempi

Nel novembre del 2004, pochi mesi prima di essere


eletto al pontificato, Joseph Ratzinger rispose con deter-
minazione al vaticanista Marco Politi, che lo interrogava
sul suo atteggiamento dinanzi al futuro, che «ottimismo e
pessimismo sono categorie emozionali: io penso di essere
realista». È stata proprio questa la cifra che lo ha sempre
guidato, sia da teologo e da professore, come da cardinale
e da Pontefice, nell’elaborazione di giudizi qualificati e
nell’esposizione di ragionevoli posizioni.
In quegli stessi giorni, usciva in libreria Senza radici, uno
scambio di idee con l’allora presidente del Senato Marcello
Pera, nel quale Ratzinger propose una perspicace analisi su-
gli attuali tempi, con folgoranti parole che “fotografavano”
le cause per cui la fede cristiana oggi stenta a raggiungere,
con il suo grande messaggio, gli uomini in Europa.
A suo parere, la prima motivazione era che il cristiane-
simo risulta un modello di vita non convincente, poiché
«sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia
di vivere, che limiti la sua libertà così preziosa e lo conduca
non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello
stretto». Come risposta, indicò l’urgenza di «mostrare un

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modello cristiano di vita che offra un’alternativa vivibile
ai divertimenti sempre più vuoti della società del tempo li-
bero, che deve fare sempre più ricorso alla droga perché è
sazia dei miseri piaceri abituali. Il modello cristiano di vita
deve manifestarsi come una vita in tutta la sua ampiezza e
libertà, che non sperimenta il vincolo dell’amore come di-
pendenza e limitazione, ma come apertura alla grandezza
della vita».
La seconda ragione era che il cristianesimo sembra or-
mai superato dalla scienza e disarmonico rispetto alla ra-
zionalità dell’età moderna, anche per colpa di correnti
teologiche che «hanno sprecato troppo tempo in piccole
schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non
si sono abbastanza impegnate nel porre le domande di
fondo: Che cos’è la Rivelazione? In che modo combaciano
la Rivelazione che parte da Dio e l’elaborazione della sto-
ria umana? Come si manifesta nella lunga via della storia,
con tutti i suoi travagli, la guida di un Altro, che agisce in
questa storia e crea qualcosa di nuovo che non può scatu-
rire dall’agire dell’uomo stesso nella storia?». Dunque, fu
il suo auspicio, «nel confronto con la scienza e nel dialogo
con i filosofi dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione
di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. Una va-
lida religione civile comporterà anche il non concepire
Dio come un’entità mitica, ma come la Ragione stessa che
precede e che rende possibile che la nostra ragione cerchi
di riconoscerla».
In qualche conversazione, durante i pasti o le passeg-
giate nei Giardini vaticani, mi sono ritrovato ad ascoltare
le sue considerazioni relative agli incontri che aveva con i
vescovi giunti da tutto il mondo in Vaticano per le perio-
diche visite ad limina, dai quali era scaturita in lui la consa-
pevolezza di quanto fosse grande la sfida pastorale relativa
a sacramenti divenuti ormai consuetudinari: il battesimo

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di neonati i cui genitori non hanno rapporti con la fede e
con la comunità ecclesiale, la prima comunione di bambini
che non sanno Chi ricevono in quell’ostia consacrata, la
cresima di adolescenti per i quali questo sacramento non
rappresenta la piena adesione alla Chiesa cattolica quanto
il loro congedo da essa, il matrimonio che serve a solen-
nizzare una festa familiare.
La sua conclusione era che occorreva rispondere alla
manifesta crisi di fede ponendo nuovamente la questione
di Dio al centro della vita ecclesiale e dell’annuncio, piut-
tosto che provando a mettere in campo riforme delle strut-
ture organizzative che comunque restano freddi organismi,
sempre a rischio di conformarsi al mainstream del mondo
e del tempo. Questo “distacco dal mondo”, però, non si-
gnifica un “ritiro dal mondo”: al contrario, è la prerogativa
affinché la testimonianza missionaria della Chiesa, anche
rivedendo eventuali privilegi ottenuti nel corso del tempo,
non soltanto si manifesti più chiaramente, bensì risulti più
credibile.
Ma le diagnosi risalivano a un ben lontano passato, do-
cumentando uno sguardo incredibilmente lungimirante.
Già nel 1958, in un ampio articolo intitolato I nuovi pagani
e la Chiesa, Ratzinger esprimeva la convinzione che «con
o senza il volere della Chiesa, dopo una trasformazione
strutturale interiore, presto o tardi si realizzerà pure una
trasformazione esteriore verso il “piccolo gregge”» e che
alla lunga la Chiesa «non potrà evitare di dover smantel-
lare pezzo dopo pezzo la congruenza con il mondo per tor-
nare a essere ciò che è: una comunità di credenti. In effetti
la sua forza missionaria non potrà che crescere attraverso
tali perdite esteriori. Solamente quando smetterà di essere
un’ovvietà a buon mercato, soltanto quando comincerà a
presentarsi di nuovo quale essa realmente è, sarà ancora in
grado di raggiungere con il suo messaggio le orecchie dei

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nuovi pagani, che fin qui hanno potuto compiacersi nell’il-
lusione di non essere per nulla pagani».
Nel 1969, poi, offrì in alcune conferenze radiofoniche
su un’emittente tedesca un’analisi nella quale sosteneva
che «il futuro della Chiesa verrà fuori dai nuovi santi. E
dunque da uomini la cui capacità di percezione va al di là
delle frasi e proprio per questo sono moderni. Da uomini
che sanno vedere più lontano degli altri, perché la loro vita
abbraccia spazi più ampi».
Come risultato, secondo la visione di Ratzinger, «uscirà,
da una Chiesa interiorizzata e semplificata, una grande
forza. Gli uomini infatti saranno indicibilmente solitari in
un mondo totalmente pianificato. Essi sperimenteranno,
quando Dio sarà per loro interamente sparito, la loro to-
tale e paurosa povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola
comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo.
Come una speranza che li riguarda, come una risposta a do-
mande che essi da sempre di nascosto si sono poste. A me
sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi
molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si
deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono
anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa
del culto politico, ma la Chiesa della fede. Certo essa non
sarà mai più la forza dominante della società, nella misura
in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà
una nuova fioritura e apparirà agli uomini come la patria
che a essi dà vita e speranza oltre la morte».
La sua lucidità di osservazione gli permise di anticipare
diverse questioni che agitano i nostri giorni anche in ambito
ecclesiale, come testimoniano alcuni suoi giudizi espressi
nel libro-intervista del 1996 Il sale della terra, per esempio
sul gender: «La pretesa rivoluzione contro le forme storiche
della sessualità culmina in una rivoluzione contro i presup-
posti biologici: non si ammette più che la “natura” abbia

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qualcosa da dire; la persona umana dovrebbe modellare se
stessa a proprio piacimento; l’uomo dovrebbe essere libero
da tutti i presupposti del suo essere: egli fa di se stesso ciò
che vuole»; oppure sull’ambientalismo: «Si può fare ecolo-
gia in modo cristiano, a partire dalla fede nella creazione,
che pone dei limiti all’arbitrio dell’uomo, che dà dei criteri
alla libertà; la si può fare in modo anticristiano, sul modello
del New Age, a partire dalla divinizzazione del cosmo»; o
ancora sul culto di Gaia e della Pachamama: «L’idea di
“inculturazione”, in particolare in America latina, vuole
ridestare la cultura e la religione precolombiana, liberan-
dosi, in qualche modo, dalla penetrazione eccessiva di
elementi europei, imposta dall’esterno. In rilievo vengono
messi il culto della Madre Terra e, in generale, quello del
femminile in Dio. L’elemento cosmico di questo rinnova-
mento dell’antica religione si incontra poi con le tendenze
del New Age, che mira a una fusione di tutte le religioni e
a una nuova unità di uomo e cosmo».
Questi sguardi sul futuro lo portarono gradualmente
a prestare maggiore attenzione all’ambito delle profezie
mariane, che in realtà non lo avevano mai intrigato parti-
colarmente in gioventù. Anzi, su tutto ciò che riguardava
le rivelazioni private, il cardinale Ratzinger si mostrava
cauto. Se gli eventi andavano avanti, in Congregazione ci
si occupava di raccogliere e di esaminare accuratamente la
documentazione, giungendo infine a informare degli svi-
luppi anche il Santo Padre. Pure riguardo alle vicende delle
presunte apparizioni a Medjugorje, per indagare sulle quali
volle comunque costituire una Commissione internazionale
di esperti (che hanno successivamente relazionato a Papa
Francesco), e delle lacrimazioni della Madonnina a Civi-
tavecchia affidò a qualificati teologi e canonisti il compito
di analizzare e di valutare, senza però assumere decisioni
perentorie in merito.

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Più articolato fu il suo coinvolgimento riguardo alle
apparizioni di Fatima, di cui si occupò in maniera appro-
fondita per incarico di Giovanni Paolo II, che gli chiese
personalmente di spiegare il testo della terza parte del Se-
greto nella conferenza stampa del 26 giugno 2000 durante
la quale venne reso noto il documento vergato da suor Lu-
cia il 3 gennaio 1944 (dove riportava le parole che aveva
udito dalla Vergine il 13 luglio 1917).
Sia all’epoca, come prefetto della Congregazione per la
Dottrina della fede, sia in seguito da Pontefice, non detta-
gliò mai alcun ragionamento sull’enigmatica descrizione:
«E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di
simile a come si vedono le persone in uno specchio quando
vi passano davanti” un vescovo vestito di bianco “abbiamo
avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”». Un’im-
magine che, dopo la sua rinuncia e l’elezione di Francesco,
è stata interpretata da alcuni commentatori come il presagio
della coesistenza di due Pontefici, in particolare riferen-
dosi alle affermazioni che Papa Bergoglio ha sempre pro-
posto sul suo sentirsi innanzitutto Vescovo di Roma («Voi
sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo
a Roma», disse già nel suo primo saluto dopo l’elezione).
Piuttosto, con l’andar del tempo Benedetto maturò la
consapevolezza che i preannunci della Madonna devono
venire considerati con diligenza, prestando attenzione alle
sue precise parole. Per esempio, in questa parte finale del
Segreto si parla di una persecuzione della Chiesa che cul-
mina nel martirio di molte persone, compreso il Papa che
«attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tre-
mulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pre-
gava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cam-
mino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai
piedi della grande croce venne ucciso da un gruppo di sol-
dati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce».

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Pur se Giovanni Paolo II aveva in qualche modo asso-
ciato quelle parole all’attentato da lui subìto il 13 maggio
1981, al punto da donare al santuario di Fatima la pallot-
tola che lo aveva colpito in piazza San Pietro per mano di
Ali Agca, è vero però che il Pontefice non era stato ucciso
(un riferimento a questo evento è piuttosto la profezia data
dalla Vergine il 19 settembre 1846 a Mélanie Calvat e Ma-
ximin Giraud, i veggenti di La Salette in Francia: «Il Papa
sarà perseguitato da ogni parte: gli si sparerà addosso, si
vorrà metterlo a morte, ma non gli si potrà far nulla»).
Fu all’interno di tale considerazione, fondata sull’ipo-
tesi di una profezia non ancora realizzata e quindi spalan-
cata su un futuro più o meno prossimo, che il 13 maggio
2010, nell’omelia della Messa a Fatima, pronunciò parole
che ebbero risonanza: «Si illuderebbe chi pensasse che la
missione profetica di Fatima sia conclusa». A scanso di
equivoci, posso comunque aggiungere con certezza che
Joseph Ratzinger non ebbe mai illuminazioni soprannatu-
rali riguardo a simili vicende.

La catechesi in famiglia

Il ritmo cadenzato della vita nel Monastero consentì


a Benedetto la tranquillità per una costante meditazione
anzitutto della liturgia quotidiana e, più in particolare,
per la preparazione di significative omelie sulle Letture
domenicali, che le Memores hanno amorevolmente regi-
strato e trascritto. È stato un percorso rivolto essenzial-
mente alla nostra piccola famiglia (in alcuni periodi era
presente anche il fratello Georg e, molto più raramente,
qualche ospite), come il Papa emerito volle rimarcare in-
troducendo sempre le sue parole con un affettuoso «cari
amici». Si potrebbe persino dire che, in qualche modo,

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era la dilatazione dei colloqui spirituali che avvenivano
anche nella normalità della giornata domestica, a tavola o
durante le passeggiate.
Sin dal lunedì precedente si accingeva alla riflessione, uti-
lizzando il testo di base in greco: per l’Antico Testamento
la Septuaginta e per il Nuovo Testamento la versione cu-
rata da Erwin Nestle e Kurt Aland. Ovviamente aveva a
disposizione anche traduzioni in lingue correnti, come la
Bibbia di Gerusalemme in tedesco e il Messale in italiano
realizzato nel 2008 dalla Cei. Nei giorni successivi conti-
nuava a meditare quelle letture e il sabato mattina, infine,
dedicava un paio d’ore a scrivere su un apposito quaderno
la traccia dell’omelia, che però poi pronunciava a braccio
senza avere davanti agli occhi appunti scritti.
Talvolta, nei giorni di festa in cui nella liturgia si faceva
memoria di santi significativi, all’inizio della Messa propo-
neva anche un breve richiamo alle loro figure, poiché, di-
ceva, «i migliori interpreti del Vangelo non sono gli esegeti
con i loro studi critici, ma quelli che sono diventati santi,
con la testimonianza della loro vita».
Le prime omelie “private” da emerito le pronunciò nella
cappella del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, in quel
periodo subito dopo la rinuncia. Furono generalmente di
breve durata e Benedetto volle centrare l’attenzione, con
parole molto sentite, sugli aspetti più essenziali della fede:
«Imparate una fede gioiosa, imparate che realmente vivere
con il Padre, vivere secondo la parola di Dio, è la vera fe-
licità e l’abbondanza della vita» (10 marzo 2013); «Con-
versione non è semplicemente un atto autonomo del sog-
getto, ma è il frutto di un incontro e in questo senso è un
dono, che poi implica naturalmente la mia attività: sono
conquistato per conquistare» (17 marzo 2013); «Dio trova
gli uomini in tutte le parti del mondo e della storia. E così
traspare la realtà della Chiesa: sul globo appare sempre

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povera e semplice, ma, se vediamo il mondo nella sua to-
talità, vediamo una famiglia che supera tutte le frontiere»
(21 aprile 2013); «L’orazione implica due doni: il Salvatore
e lo Spirito Santo. Ma dobbiamo aggiungere che questi due
doni principali sono preceduti da un dono fondamentale:
la creazione. Il primo dono di Dio è la vita, e dobbiamo
prendere atto di questa realtà» (28 aprile 2013).
Rientrati in Vaticano, la cappella del “Mater Ecclesiae”
divenne il luogo definitivo per lo sviluppo di queste ri-
flessioni, che si dilatarono dall’ambito catechetico alla più
ampia dimensione dell’attualità, offrendo anche giudizi
precisi sulle vicende del nostro presente. Per esempio, la
prima omelia in Monastero vide il Papa emerito denunciare
«la persecuzione più sottile del cristianesimo, cioè la sua
emarginazione intellettuale, con la creazione di una cultura
anticristiana» (12 maggio 2013), con una successiva espli-
citazione di «due minacce contro la Chiesa: i venti delle
ideologie, che vogliono distruggere il nostro cosmo, e le
onde dei poteri politici e militari, che sono persecuzioni e
distruzione della fede» (10 agosto 2014). A chiare lettere,
stigmatizzò le leggi su aborto, suicidio assistito e matrimo-
nio omosessuale: «Dicono tutte e tre che io prendo per me
la vita, posso distruggerla, è mia proprietà, sovranità, auto-
nomia. Ma, se guardiamo più in profondità, dobbiamo dire
che questa triade implica anche un no al futuro: aborto,
non vogliamo avere figli; suicidio; matrimonio omosessuale,
necessariamente senza figli» (22 settembre 2013).
Dinanzi a questa complessa situazione, siamo aiutati
dalla parola del Vangelo: «Gesù non chiede se abbiamo
sale in noi, ma afferma con decisione: “Voi siete il sale della
terra” (Matteo 5,13). In sostanza, noi cristiani dobbiamo
essere sale per questa storia, dobbiamo mostrare in noi la
forza della croce di Cristo, a difesa della vita contro le forze
della distruzione. Altrimenti, sottolinea il Signore, il nostro

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cristianesimo sarà un conformarsi al mondo, senza più il
coraggio della passione per la verità. Un cristianesimo che
sembra moderno, all’altezza dei tempi, ma in realtà è senza
sapore e privo di ogni forza di novità» (9 febbraio 2014).
Interrogandosi sui motivi che spiegano la vittoria sor-
prendente del cristianesimo, nel grande confronto tra le
religioni dell’antichità, precisò che il più importante è «la
testimonianza della vita. In un mondo dove erano normali
la corruzione, la violenza, l’immoralità, la mancanza di un
comune impegno per il bene, i cristiani hanno vissuto con
rettitudine, con integrità, con bontà, soffrendo ma senza
fare il male. Una tale vita era un segno così radicale ed evi-
dente che ha convinto, poiché un vivere così non si spiega
con le pure forze umane, ma dimostra realmente che è Dio
a donare questa vita. Così la testimonianza della vita cri-
stiana è decisiva per la vittoria del cristianesimo anche in
futuro» (25 maggio 2014). A tale proposito, fu netto nel
ribadire che «la fede non è una invenzione nostra, ma un
dono di Dio da custodire e da vivere, perciò non è a dispo-
sizione nostra, non possiamo cambiarla come vogliamo, è
un dono di Dio e così cresce nella sua profondità. Anche il
Papa non è un monarca assoluto, che potrebbe fare quanto
vuole, ma è il garante dell’obbedienza al dono di Dio, che
è il vero tesoro del mondo» (29 giugno 2014).
Un’articolata disamina Benedetto la dedicò proprio
all’immagine evangelica del pastore che guida le pecore
e alla contestazione nei tempi moderni da parte di chi af-
ferma che non si può mettere l’autonomia dell’uomo sotto
questo giogo: «Sì, è vero che siamo persone libere con ra-
gione, volontà e amore, ma è anche vero che questa nostra
libertà ha bisogno di illuminazione, poiché non conosciamo
la strada e ci occorre una bussola per trovarla. Nella sua
parabola il Signore parla anche di mercenari e di lupi, e
nel nostro tempo abbiamo visto questi lupi. Pensiamo ai

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grandi dittatori – Hitler, Stalin, Pol Pot, Mao Tze Tung –
che dicevano: noi portiamo l’umanità alla sua vera felicità.
Erano lupi, che hanno distrutto il mondo in modo incre-
dibile, e dietro di loro i filosofi che hanno creato queste
idealità erronee: pensiamo a Nietzsche, che ha beffeggiato
i cristiani come deboli, contrapponendo l’uomo forte che
distrugge; a Marx, con la sua promessa del paradiso senza
Dio, che è divenuto un grande campo di concentramento;
a Freud, che ha messo in campo la distruzione dell’anima.
Il mondo va sempre a cadere nelle mani dei lupi e in que-
sto momento possiamo soltanto gridare al Signore: non la-
sciare la tua creatura ai lupi, non lasciare che distruggano
con le loro menzogne la verità, con il loro odio l’amore,
con la loro dispersione l’unità» (26 aprile 2015).
Di fatto, il rapporto tra libertà e sequela fu sempre uno
dei suoi temi di riflessione: «Sono due idee apparentemente
contrastanti. Seguire Cristo vuol dire camminare dietro di
Lui, prendere la Sua strada, lasciare la propria volontà e
conformarsi alla Sua volontà; mentre libertà vuol dire se-
guire soltanto la propria volontà, mirando a realizzare il
proprio progetto di vita. In realtà, seguire Cristo è entrare
nel fuoco dell’amore e così entrare nella libertà che ci li-
bera da tutti i pretesti esteriori. Sant’Agostino ha utilizzato
una espressione realmente audace, ma vera: “Ama e fa’ ciò
che vuoi”. Se abbiamo il vero amore di Cristo crocifisso,
facendo quanto ci dice questo amore saremo sempre sulla
retta strada, in comunione con Colui che è l’Amore. E così
comprendiamo che seguire Cristo è realizzare noi stessi,
poiché in tal modo diventiamo immagine di Dio e realiz-
ziamo pienamente la nostra vocazione personale» (30 giu-
gno 2013).
Fra i richiami al passato, fu particolare quello relativo
a una delle frasi che più avevano colpito negli ultimi di-
scorsi di Benedetto da Pontefice: la “salita sul monte”.

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Chiarì il Papa emerito: «Credere è uscire dalla pianura
di ogni giorno, da tutte queste cose che ci preoccupano e
che oscurano il nostro cuore, salire sul monte come Cri-
sto è salito sul monte per pregare, per essere col Padre,
lasciando cadere tutti questi pensieri che distruggono
la nostra anima» (6 ottobre 2013). E in seguito esplicitò
ugualmente il senso del cammino a ritroso: «Anche scen-
dere fa parte della vocazione cristiana. Dobbiamo salire,
ma dobbiamo anche sempre di nuovo avere l’umiltà, la di-
sponibilità a scendere nella valle della quotidianità, delle
nostre occupazioni di ogni giorno. Proprio in questa di-
scesa siamo sulla strada di Cristo, il quale, prima di aprire
la strada in alto, è sceso dalla gloria di Dio, è sceso fino
alla croce» (16 marzo 2014).
Fra le riflessioni più articolate ci fu quella del 17 no-
vembre 2013, partendo dal “discorso escatologico” del
brano evangelico di Luca 21, dove Gesù «non ci offre un
ritratto dell’ultimo periodo della storia, ma ci indica alcuni
elementi di questa ultima fase della storia del mondo. Se
consideriamo con un po’ di curiosità che cosa ci dice, c’è
una sorpresa, poiché non appare l’elemento fondamentale
della moderna filosofia della storia, che ha come concetto
fondamentale il “progresso”. Secondo questa visione, la
storia è ascendente: ci sono aberrazioni, piccole ricadute,
ma tutto sommato alla fine si arriva alla società fraterna e
giusta, a un mondo migliore, a una specie di paradiso ter-
restre. Gesù invece parla di catastrofi naturali, di violenza
crescente, di guerre e anarchia, di persecuzioni e di un
raffreddarsi della fede, indicandoci sostanzialmente che
la storia dell’uomo rimane identica sino alla fine. Perciò è
importante prendere sul serio quanto Lui ci dice su come
dobbiamo rispondere».
Tre gli elementi fondamentali indicati dal Papa emerito:
«Innanzitutto la sobrietà: non credere a fantasticherie, a

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messianismi sbagliati, ma lavorare con pazienza e umiltà.
Il lavoro è il compito dell’uomo, e non soltanto dopo il
peccato, come pensano alcuni, poiché sin da prima del
peccato il Signore incaricò l’uomo di dominare la terra,
non nel senso di un abuso della creazione, ma per dare
alla creazione la perfezione voluta dal Creatore. Lavoro
implica quindi fede nella volontà di Dio e fiducia nella
nostra capacità di trasformare in positivo la terra. In se-
condo luogo il coraggio: dinanzi all’odio contro la fede, la
luce di Dio è più forte delle oscurità umane. Il Dio Crea-
tore è anche il Salvatore e non si lascia sfuggire la storia
dalle mani, poiché, anche se il potere è nelle mani della
menzogna, il potere di Dio è più forte. Infine la perseve-
ranza: anche dopo la conversione, resta la fatica del cam-
mino, che occorre superare continuando a procedere sulla
strada buona».
E forse non per caso, l’ultima omelia che propose il 2
aprile 2017, quando già ormai aveva difficoltà a parlare ad
alta voce, si incentrò sul tema della vita eterna: «L’uomo
sembra fatto per vivere sempre, vuole vivere sempre, nello
stesso tempo vive in una struttura del mondo dove morire
è essenziale. Cosa dire? Il Signore, nel dialogo con Marta
(Giovanni 11,21-27), risponde a queste cose facendo un
nuovo passo nella realtà umana, e soltanto così si può su-
perare la contraddizione. Gesù dice a Marta: “Tuo fratello
risorgerà”; e lei risponde: “So che risorgerà nella risurre-
zione dell’ultimo giorno”. Ma il Signore replica: “Io sono
la risurrezione e la vita; e chi crede in me, anche se muore,
vivrà”. Lui ci dice, cioè, che non si tratta di una vita che
ricomincerà in un futuro indefinito, poiché non sappiamo
quando giungerà questo “ultimo giorno”. No, è una vita
che comincia sin da ora ed è indistruttibile, poiché siamo
tenuti in mano da Lui e perciò non possiamo cadere nella
morte».

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Un fiducioso “a Dio”

In tutti questi anni, le giornate sono sostanzialmente tra-


scorse secondo una scansione stabilizzata dalla consuetu-
dine, cominciando verso le 6.30, quando Benedetto si al-
zava. Negli ultimi tempi, a motivo della sua difficoltà nei
movimenti, veniva aiutato a lavarsi e a vestirsi da un reli-
gioso della comunità dei Fatebenefratelli in attività presso
la Farmacia vaticana, e ugualmente alla sera un altro con-
fratello lo assisteva nella preparazione per dormire.
Alle 7.30 celebrava la santa Messa (negli anni recenti l’ho
presieduta io e lui concelebrava da seduto), seguita dalla
recita delle Lodi e dalla prima colazione. Durante la mat-
tinata, il Papa emerito leggeva, curava la corrispondenza
e scriveva o dettava appunti, con la collaborazione di suor
Birgit. Intorno alle 12.45, recitavamo insieme l’Ufficio delle
letture e l’Ora media. Dopo il pranzo alle 13.15, un breve
giro sul terrazzo e la siesta.
Nel pomeriggio, c’era la passeggiata nei Giardini va-
ticani con la recita del Rosario nei pressi della Grotta di
Lourdes (con orario variabile in relazione alle stagioni),
aggiungendo, in alcuni venerdì, il rito della Via Crucis di-
nanzi alle belle raffigurazioni in cappella. Quando non è
più riuscito a camminare bene, le passeggiate le ha fatte in
sedia a rotelle, e negli ultimi anni ha utilizzato quella elet-
trica che a suo tempo aveva donato al fratello Georg.
Al rientro in Monastero, la recita dei Vespri e qualche
ulteriore opportunità di lettura, di scrittura o di incontro
con ospiti. Più recentemente, preferiva che gli venissero
letti ad alta voce articoli di giornale o libri: di solito alter-
nava una narrazione biografica e un saggio teologico (fra
i testi che Benedetto apprezzò tanto ci furono le memorie
del cardinale George Pell sul processo e la carcerazione
in Australia).

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Una volta la settimana gli veniva praticato un massaggio
posturale e due volte la settimana svolgeva gli esercizi di
ginnastica respiratoria, mentre negli altri giorni utilizzava
una macchinetta che lo aiutava a eliminare il muco bron-
chiale. La situazione di salute è stata tenuta costantemente
sotto controllo grazie all’assidua presenza del dottor Patri-
zio Polisca, il medico personale che nel corso degli anni è
divenuto un amico di fiducia, coadiuvato da altri compe-
tenti specialisti e da alcuni fidati infermieri.
La cena era fissata per le 19.30, seguita dalla visione del
telegiornale. Quindi c’era la recita della Compieta, anche
con il memento dei sacerdoti dell’arcidiocesi di Monaco di
Baviera defunti negli ultimi cinquant’anni (ricordava tanti
di loro e me li descriveva con una lucidità mentale rima-
sta intatta praticamente sino alla morte), e infine il riposo
notturno dalle 21 in poi.
Di domenica e nelle festività liturgiche c’era un pro-
gramma un po’ diversificato, con la Messa alle 8.30 e la
recita dell’Angelus alle 12, seguendo in televisione Papa
Francesco. Il pomeriggio era dedicato all’attività cultu-
rale: nei primi tempi ascoltavamo opere liriche e concerti
in cd, mentre negli ultimi anni li abbiamo visti in dvd. Al
termine, una delle Memores leggeva ad alta voce un libro, e
una delle scelte predilette da Benedetto era la serie di rac-
conti di Giovannino Guareschi su don Camillo e Peppone.
Durante la settimana la dieta era la classica mediterra-
nea: prima colazione con un thè al limone, accompagnato
da pane con marmellata e uno yogurt; pranzo e cena con
alternanza di primi di pasta o di riso, secondi di pesce o
carne bianca (più raramente un filetto), un contorno di
verdure o patate cucinate in vario modo, frutta e qualche
volta un dolce. Soltanto la cena della domenica era in stile
bavarese, un po’ più rustica, con pane nero, salsicce e sa-
lumi, talvolta il polpettone leberkäse e, ovviamente, la birra

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(ma lui continuava a bere la sua consueta limonata, “mac-
chiata” con uno schizzo di birra). E devo dire che non ha
mai avuto problemi di digestione!
La sua preparazione alla morte era cominciata da tempo,
con serietà, come confidò nel 2016 nelle ultime conversa-
zioni con Peter Seewald: «Pur con tutta la fiducia che ho
nel fatto che il buon Dio non può abbandonarmi, più si
avvicina il momento di vedere il suo volto, tanto più forte
è la percezione di quante cose sbagliate si sono compiute.
Perciò uno si sente oppresso dal peso della colpa, sebbene
naturalmente la fiducia di fondo non venga mai meno».
Più di recente, nel 2022, affermò pubblicamente: «Ben
presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita.
Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso
avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque
con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore
non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il
fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e
perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato. In
vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia
dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la cono-
scenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi
consente di attraversare con fiducia la porta oscura della
morte».
Certamente non era angosciato dalla questione, anzi
viveva questa attesa dell’ultimo momento pregustando in
qualche modo quanto la fede consente di sperare, come
scrisse in alcune lettere a vecchi amici: «La prossima volta
ci incontreremo dove potremo dirci tutto ciò che a causa
dell’età oggi non possiamo dirci di persona».
Il 24 dicembre 2022, nella cappella del “Mater Eccle-
siae”, ho presieduto la consueta Messa del mattino e il
Papa emerito ha concelebrato all’altare, seduto sulla sedia
a rotelle. Alle 18.30 della sera e alle 9 di domenica 25 di-

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cembre abbiamo celebrato nel medesimo modo le Messe di
Natale, sempre alla presenza anche delle quattro Memores
e di suor Birgit. Quindi abbiamo assistito alla benedizione
“Urbi et Orbi” di Papa Francesco in televisione e abbiamo
sobriamente festeggiato la ricorrenza a pranzo.
In quelle ore, la salute del Papa emerito era sufficien-
temente buona, cosicché confermai il viaggio di qualche
giorno per andare a salutare i miei familiari in Germania.
Sono partito in aereo nel pomeriggio di martedì 27, ma
all’alba successiva sono stato raggiunto da una telefonata
che dal Monastero mi avvertiva dell’improvviso aggrava-
mento delle sue condizioni, dovuto a una crisi respirato-
ria. Ho subito parlato con il dottor Polisca, che intanto era
intervenuto con altri sanitari stabilizzando la situazione, e
quindi sono rientrato a Roma nella medesima mattinata.
Nel frattempo era stato avvertito Papa Francesco, il
quale, al termine dell’Udienza generale di quel mercoledì,
chiese «una preghiera speciale per il Papa emerito Bene-
detto, che nel silenzio sta sostenendo la Chiesa. Ricordarlo
– è molto ammalato – chiedendo al Signore che lo consoli,
e lo sostenga in questa testimonianza di amore alla Chiesa,
sino alla fine». Subito dopo il Pontefice si recò al capezzale
di Benedetto, pregò e gli diede la sua benedizione. Intanto
la notizia aveva cominciato a diffondersi a macchia d’olio
in tutto il mondo.
Nel pomeriggio il Papa emerito aveva un grande affanno,
ma era lucidissimo. Gli proposi di amministrargli l’unzione
degli infermi, e lui accettò immediatamente. L’ultimo in-
contro con il suo confessore, un penitenziere di San Pietro,
era stata appena qualche giorno prima.
Da quel momento noi membri della famiglia pontificia
cominciammo ad alternarci costantemente nella sua camera
da letto, al primo piano del Monastero, insieme con gli in-
fermieri e i medici che, fra giovedì 29 e venerdì 30, consta-

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tarono un leggero miglioramento, anche se l’età avanzata
faceva prevedere il lento spegnimento delle sue condizioni
vitali.
Non è mai stato ipotizzato un ricovero in ospedale, poi-
ché tutto ciò che era necessario l’avevamo già disponibile
in Monastero: un medico rianimatore, le attrezzature per la
fleboclisi, il respiratore con l’ossigeno, l’assistenza sanitaria
costante. Né, sono convinto, Benedetto lo avrebbe voluto,
senza nemmeno la necessità di chiederglielo.
Intorno alle 3 del mattino di sabato 31 dicembre, me-
moria liturgica di Papa san Silvestro, l’infermiere che vigi-
lava vide Benedetto XVI rivolgere lo sguardo al Crocifisso
posto sulla parete di fronte al suo letto e lo udì pronun-
ciare in italiano, con un filo di voce, ma in modo ben di-
stinguibile: «Signore, ti amo!». Sono state le sue ultime
parole comprensibili, perché poi non è stato più in grado
di esprimersi. Quando provavo a fargli qualche domanda,
la comprendeva e cercava di rispondere a cenni. Ho pre-
gato ad alta voce le lodi vicino a lui, finché, intorno alle 9,
è entrato in agonia.
Abbiamo cominciato a recitare le litanie e le preghiere di
accompagnamento di un moribondo, e gli ho dato l’assolu-
zione plenaria in punto di morte. Il suo cuore si è fermato
alle 9.34. In quel momento eravamo presenti tutti noi mem-
bri della famiglia pontificia, insieme con il dottor Polisca e
gli altri sanitari. Dopo l’ultimo respiro la preghiera finale
l’ho pronunciata in tedesco e gli ho dato la benedizione.
Immediatamente ho telefonato al cellulare a Papa Fran-
cesco, che nell’arco di una decina di minuti è giunto in Mo-
nastero, si è seduto accanto alla salma, ha fatto un segno di
benedizione e si è soffermato in preghiera. Con lui abbiamo
concordato come dare la notizia attraverso la Sala stampa
vaticana e le procedure per l’esposizione in San Pietro, i
funerali e la sepoltura.

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La sera stessa, nella celebrazione del “Te Deum”, ha
proposto una sentita testimonianza: «Con commozione
ricordiamo la sua persona così nobile, così gentile. E sen-
tiamo nel cuore tanta gratitudine: gratitudine a Dio per
averlo donato alla Chiesa e al mondo; gratitudine a lui, per
tutto il bene che ha compiuto, e soprattutto per la sua te-
stimonianza di fede e di preghiera, specialmente in questi
ultimi anni di vita ritirata. Solo Dio conosce il valore e la
forza della sua intercessione, dei suoi sacrifici offerti per il
bene della Chiesa».
Nella cappella del “Mater Ecclesiae” abbiamo allestito
la camera ardente e alle ore 20 del 31 dicembre ho cele-
brato la Messa di suffragio. Per tutta la notte ci siamo poi
alternati nella preghiera, in modo che fosse presente sem-
pre qualcuno di noi della famiglia pontificia. La mattina
del 1° gennaio 2023 ho celebrato una nuova Messa e al ter-
mine hanno cominciato a giungere per un ultimo saluto le
personalità vaticane e altre persone.
All’alba del 2 gennaio ho celebrato la Messa e poi il mesto
corteo della ristretta famiglia pontificia ha accompagnato
a piedi il furgone con il feretro verso la basilica di San Pie-
tro, all’interno della quale il corpo è stato esposto alla de-
vozione dei fedeli fino al 4. Nel nostro cuore e negli occhi,
tanta tristezza; ma nella mente e nel ricordo la gratitudine
per il suo esempio di grande fede e il suo insegnamento e la
gioia per aver potuto vivere accanto a lui per così tanti anni.
Giovedì 5 gennaio, Papa Francesco ha presieduto la
solenne Messa esequiale al cui termine il Papa emerito è
stato seppellito all’interno delle Grotte vaticane, nel luogo
dove in precedenza erano stati collocati Giovanni XXIII
(dal 1963 al 2000) e Giovanni Paolo II (dal 2005 al 2011),
prima di essere traslati nella Basilica vaticana. All’interno
della cassa, Benedetto è stato seppellito con i suoi para-
menti rossi che aveva indossato durante la Giornata mon-

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diale della gioventù nel 2008 in Australia e nella Domenica
delle palme del 2009, con la croce episcopale utilizzata nel
tempo da Papa emerito, l’anello raffigurante simboli be-
nedettini, il suo rosario e un crocifisso che è stato il mio
dono per la sepoltura.
Qualcuno mi ha chiesto che cosa ne avrei fatto, dopo
la morte di Benedetto XVI, delle sue carte. In realtà, que-
sto per me non rappresenta un problema, poiché ho rice-
vuto da lui precise istruzioni, con indicazioni di consegna
che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative
alla sua biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla docu-
mentazione relativa al Concilio e alla corrispondenza. Per
quanto riguarda poi gli altri scritti, la loro sorte è segnata:
«I fogli privati di ogni tipo devono essere distrutti. Que-
sto vale senza eccezioni e senza scappatoie», ha esplicitato
nero su bianco.
Sono stato anche interpellato su quale sia il mio pensiero
riguardo a una eventuale causa di beatificazione e cano-
nizzazione. Personalmente non ho dubbi sulla sua santità,
però, ben conoscendo anche la sensibilità espressami pri-
vatamente da Benedetto XVI, non mi permetterò di fare
alcun passo per accelerare un processo canonico. Il mio
suggerimento sarà piuttosto di lasciar sedimentare tutte le
questioni sorte in tanti anni di vita, e particolarmente nel
periodo di pontificato e di emeritato, in modo che il giudi-
zio sulle virtù eroiche di Joseph Ratzinger – che io reputo
indiscutibili – possa essere totalmente cristallino e ampia-
mente dimostrato e condiviso.
Le sue ultime volontà le racchiuse in due scritti, custo-
diti in una busta che tenne sempre in un cassetto della scri-
vania. Le annotazioni relative ad alcuni lasciti e doni per-
sonali, per il cui adempimento ho il compito di esecutore
testamentario, sono state via via aggiornate nel corso degli
anni, fino alla più recente aggiunta del 2021.

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Il sobrio Testamento spirituale, invece, lo cesellò nella
madrelingua tedesca durante i primi mesi di pontificato,
fino alla stesura definitiva manoscritta e firmata il 29 ago-
sto 2006 nel Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, senza
più modifiche in seguito. Questo è il testo integrale, nella
traduzione italiana:

«Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai


decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ra-
gioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro
Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha
donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di
confusione, rialzandomi sempre ogni volta che incomin-
ciavo a scivolare e donandomi sempre di nuovo la luce del
suo volto. Retrospettivamente vedo e capisco che anche
i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la
mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene.
Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita
in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con
il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora
che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a
oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a
credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a
tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione
e la grande bontà di mia madre rappresentano un’eredità
per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza. Mia so-
rella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e con
affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi
giudizi, la sua vigorosa risolutezza e la serenità del cuore,
mi ha sempre spianato il cammino: senza questo suo con-
tinuo precedermi e accompagnarmi non avrei potuto tro-
vare la via giusta.
Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne,
che Egli mi ha sempre posto a fianco; per i collaboratori in

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tutte le tappe del mio cammino; per i maestri e gli allievi
che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua bontà.
E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle
Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire
lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della
mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo spe-
rimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra
terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti:
non lasciatevi distogliere dalla fede. E finalmente ringrazio
Dio per tutto il bello che ho potuto sperimentare in tutte
le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma e in
Italia che è diventata la mia seconda patria.
A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto,
chiedo di cuore perdono.
Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico
ora a tutti quelli che nella Chiesa sono stati affidati al mio
servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confon-
dere! Spesso sembra che la scienza – le scienze naturali
da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della
Sacra Scrittura) dall’altro – sia in grado di offrire risultati
inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto
le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lon-
tani e ho potuto constatare come, al contrario, siano sva-
nite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere
non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparen-
temente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel
dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha impa-
rato a comprendere meglio il limite della portata delle sue
affermazioni, e dunque la sua specificità. Sono ormai ses-
sant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in
particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle
diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano
incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la gene-
razione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esi-

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stenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho
visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed
emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cri-
sto è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa, con
tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.
Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il
Signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi
accolga nelle dimore eterne. A tutti quelli che mi sono af-
fidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera».

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Postfazione

Nessuno più del suo fedele segretario particolare, l’arci-


vescovo Georg Gänswein, ha conosciuto e sostenuto Be-
nedetto XVI durante tutto il pontificato e il tempo dell’e-
meritato. L’ininterrotta condivisione della vita in Vaticano,
dapprima nel Palazzo apostolico e successivamente nel
monastero “Mater Ecclesiae”, gli ha consentito di entrare
in piena sintonia con il pensiero e con l’azione di uno dei
più colti e teologicamente preparati Pontefici nella storia
della Chiesa.
Joseph Ratzinger è stato un uomo e un Papa non pie-
namente compreso anche per queste sue peculiari doti in-
tellettuali e spirituali. Qualità che disturbano l’instabile
equilibrio di una società troppo sbilanciata sull’edonismo
e sull’effimero, speranzosa soltanto di «trovare un senso a
questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha»
(con la felice espressione del cantautore Vasco Rossi), o
compiaciuta di essere post-moderna e liquida, dove cioè
«il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza
è l’unica certezza» (come recita l’aforisma che sintetizza la
prospettiva del sociologo Zygmunt Bauman).
Quotidianamente a contatto, nei miei lunghi anni da
vaticanista, con il Magistero pontificio dapprima da lui
ispirato, sotto san Giovanni Paolo II, e successivamente
direttamente enunciato come Benedetto XVI, ho potuto

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rendermi personalmente conto di quanto l’intera esistenza
di Ratzinger sia stata connotata da una coerenza estrema.
Di fatto, l’unica sua preoccupazione è stata quella di in-
carnare in ogni tappa del ministero la piena testimonianza
della Verità. E proprio questo ha stabilito il denominatore
comune fra lui e monsignor Gänswein, come evidenziato
anche dalla concordanza nei loro motti episcopali: rispet-
tivamente, «Cooperatores veritatis» («Collaboratori della
verità») e «Testimonium perhibere veritati» («Dare testi-
monianza alla verità»).
Verità con la maiuscola, poiché Ratzinger-Benedetto
XVI ha inteso proporre e riattualizzare la fede di sempre;
ma anche con la minuscola, in quanto da queste pagine
scaturisce tutta la freschezza della quotidianità di un per-
sonaggio del quale si sono spesso offerte narrazioni inap-
propriate, forse perché dotato di così tante sfaccettature da
non poter essere racchiuso in una sola definizione.
Il saggista Roberto Rusconi ha suggerito che Ratzinger
abbia come vissuto diverse vite: «La prima, in cui è divenuto
un teologo accademico; la seconda, in cui si è dimostrato
l’inflessibile cardinale prefetto della Congregazione per la
Dottrina della fede; la terza, durante la quale è asceso al
vertice della Chiesa universale, per essere stato eletto Papa
assumendo il nome di Benedetto XVI. Peraltro, avendo egli
accettato di essere assurto anche a “Papa emerito” dopo
la rinuncia al pontificato, continuando a indossare la veste
talare bianca, a lui si è aperto una sorta di quarto tempo».
L’arcivescovo Gänswein evidenzia invece qui che non si
tratta di tante vite, ma piuttosto di diverse fasi di un’unica
esistenza, anche se il periodo su cui questo libro si incen-
tra è quello che lui ha potuto conoscere in prima persona,
a partire cioè dalla presenza in Vaticano.
Fondandomi sulla squisita disponibilità e sulla totale
fiducia di don Georg, una sola garanzia gli ho chiesto nel

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corso di questo lavoro: di essere totalmente sincero; di non
“indorare la pillola”, per dirla con parole più sbrigative. Il
rischio che ho più volte riscontrato in simili testi, a cavallo
tra la biografia e l’autobiografia, è infatti che l’affetto del
cuore annebbi il rigore della memoria, rendendo un pes-
simo servizio sia al protagonista sia all’autore. L’indimen-
ticabile prefetto della Dottrina della fede, il Pontefice che
ha indelebilmente legato il proprio nome con la spontanea
rinuncia al ministero petrino non ha bisogno di ciò.
È una narrazione in prima persona, non un libro-inter-
vista, per una precisa scelta. Avendone realizzato diversi,
so bene che in quest’ultimo caso il giornalista conduce – e
qualche volta addirittura forza in maniera determinante –
il tono e il contenuto del dialogo. Nel primo caso, invece,
si assume unicamente il compito di accompagnare l’au-
tore nell’andare più a fondo in ciò che già desidera comu-
nicare, riportando alla luce quelle considerazioni che nel
corso di decine di anni si sono via via cristallizzate nella
sua mente e che hanno reso di fatto monsignor Gänswein
il più autorevole testimone ed esegeta di un uomo di fede,
di un sacerdote secondo il cuore di Dio, di un protagoni-
sta della storia dei nostri difficili ed entusiasmanti tempi.
Ed è questa l’essenza delle pagine che seguono, sul cui ri-
sultato l’unico giudice sarà ciascun lettore.
Un’ultima annotazione. Quando scrissi nel 2010, con
il postulatore monsignor Sławomir Oder, la biografia di
Giovanni Paolo II Perché è santo, ebbi l’opportunità di
consultare le testimonianze riservate offerte da autorevoli
personalità ecclesiastiche nel suo processo di canonizza-
zione. Uno dei più amati figli spirituali di padre Pio da
Pietrelcina raccontò una profezia che, negli anni Sessanta,
aveva ascoltato da lui riguardo al futuro della Chiesa. Rie-
vocando indirettamente l’incontro che qualche anno prima
aveva avuto a San Giovanni Rotondo con Karol Wojtyła,

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il frate stimmatizzato gli descrisse un Papa polacco che sa-
rebbe stato «un grande pescatore di uomini», seguìto da un
Pontefice «che avrebbe ampiamente confermato i fratelli
nella fede». E poi in un sussurro soggiunse che ambedue
un giorno sarebbero stati proclamati santi.
Saverio Gaeta

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Indice

Prologo .................................................................................................. 5

1. Il “predestinato” fuori dagli schemi ..................................... 7


Una perenne provvisorietà .............................................................. 7
Fiducioso nella Provvidenza ........................................................... 11
Il “profeta giusto” ............................................................................... 17
Un binomio vincente ........................................................................ 21
Cane da guardia o promotore? ...................................................... 24

2. Il filosofo e il teologo .................................................................. 31


Due anime in sintonia ...................................................................... 31
Un appuntamento settimanale ...................................................... 35
Le sfide del prefetto ........................................................................... 39
Come un direttore d’orchestra ....................................................... 44
Le certezze della fede ........................................................................ 48

3. La caduta della scure .................................................................. 53


La campagna elettorale “a rovescio” ............................................ 53
La sfida lanciata a Subiaco .............................................................. 58
Una benedizione dal paradiso ........................................................ 62
Gli effimeri pronostici ...................................................................... 67
Quel maglione nero .......................................................................... 71
Nella vigna del Signore .................................................................... 76
La lettera di Schönborn .................................................................... 80
Il diario e altre polemiche ............................................................... 84

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4. La famiglia (pontificia e non) .................................................. 89
Le radici nella Baviera ...................................................................... 89
Con l’Introduzione sotto il braccio .............................................. 93
Una proroga illimitata ...................................................................... 97
La quotidianità del servizio ............................................................ 101
Nell’Appartamento del Papa .......................................................... 105
Con tre aiutanti di camera .............................................................. 109
Gli altri membri della famiglia ..................................................... 113

5. Le pietre d’inciampo del complesso governo ................... 119


Decisioni a 360 gradi ........................................................................ 119
Rispettoso delle persone .................................................................. 122
La scelta del “numero due” ............................................................. 126
Fra lo ior e la sanità cattolica ......................................................... 129
L’insospettabile tradimento ............................................................ 133
Un insieme di miserie umane ........................................................ 138
Il mistero di Emanuela .................................................................... 143

6. Un Magistero a tutto tondo ..................................................... 149


Un pontificato cristocentrico .......................................................... 149
L’evangelico servizio petrino .......................................................... 153
Il ministero dell’annuncio ............................................................... 156
L’amore al primo posto .................................................................... 160
Nel segno della speranza ................................................................. 163
Secondo il cuore di Dio .................................................................... 167
Il sacerdozio non è un “job” ........................................................... 170
Il dialogo al servizio della pace ...................................................... 173
Liberi di vivere la propria fede ...................................................... 176
Tra politica e cultura ......................................................................... 178
Le citazioni senza il contesto .......................................................... 182
Polemiche e incomprensioni .......................................................... 184
Una clemenza malintesa .................................................................. 187

7. La storica rinuncia che ha segnato un’epoca ..................... 191


I motivi della decisione .................................................................... 191
In segreto a piccoli passi .................................................................. 197

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Il sorprendente annuncio ................................................................ 202
Le antiche radici dell’idea ............................................................... 209
Gli incompresi segni premonitori ................................................. 214
Il congedo dal Palazzo ...................................................................... 219
L’uscita di scena ................................................................................. 225

8. Il rapporto fra i due Papi .......................................................... 231


Una laboriosa telefonata ................................................................. 231
Dall’Appartamento a Santa Marta ............................................... 236
L’enciclica e l’intervista ................................................................... 243
Il “pasticciaccio” di Sarah ................................................................ 250
Le spiegazioni di Benedetto ............................................................ 257
Il prefetto dimezzato ......................................................................... 262

9. Nel Monastero il silenzio operoso ......................................... 271


Il ritmo della preghiera .................................................................... 271
Una sequenza di indizi infondati .................................................. 275
La famiglia al centro dello scontro ............................................... 280
La lettera “sbianchettata” ................................................................ 284
La pacificazione interrotta .............................................................. 288
Da sempre contro ogni abuso ......................................................... 291
Accuse infondate da Monaco ......................................................... 297
“Profezie” per i nostri tempi ........................................................... 301
La catechesi in famiglia .................................................................... 307
Un fiducioso “a Dio” ......................................................................... 314

Postfazione ........................................................................................... 325

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Piemme usa carta certificata PEFC
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