A Ponte Buggianese, un piccolo centro situato a sudovest della provincia
di Pistoia, mi ci portava mio padre quando ero piccolo e con l’intera famiglia lasciavamo Roma per trascorrere le vacanze estive nella Valdinievole, a Montecatini Terme, dove mio padre era nato nel 1921. A Ponte Buggianese c’era nata la nonna Cesira, la nonna materna di mio padre, e ci viveva ancora suo fratello Guglielmo, un vecchio con due baffi enormi di zucchero filato e occhi luccicanti come diamanti. A me appariva bellissimo lo Zio Guglielmo e quando mi baciava per salutarmi mi sentivo addosso il calore di un santo. Era un falegname. Lui come suo figlio Silio. Facevano Scatizzi di cognome, come la nonna Cesira. Andavamo a trovarli tutti gli anni quando tornavamo in Toscana. Prima passavamo a casa dalle donne. Poi se gli uomini tardavano a rientrare, provavamo alla bottega. Ritornare al “Ponte” era ogni volta un’emozione nuova, un misto di curiosità e di paura. Il fascino dei luoghi – che riscoprivo ogni anno diversi – si confondeva con il timore per quella casa piena di mistero dove abitavano lo zio Guglielmo, la zia Emilia, e i loro figli, Silio e la Nella. La Nella. Così la chiamava mio padre, alla toscana, con l’articolo davanti e l’intercalare pistoiese delle origini. Tutti vecchi erano. Genitori e figli. Scatizzi era il cognome degli zii. Ma per mio padre non era un cognome qualunque. Non era una parola come tante. Quel cognome evocava in lui ricordi incancellabili di un’infanzia intensa e difficile vissuta nelle paludose campagne della Valdinievole. Scatizzi era uno dei cognomi di quelle grandi famiglie di contadini dalla cui unione nacque e che costituirono per sempre il suo scudo, il suo modello di vita, i suoi preziosi ricordi. Scatizzi, Lenzi, Mariotti, Bertini erano per lui versi da recitare, da scandire coll’intensità di una preghiera. Nei cognomi di quelle terre riscopriva ogni volta il profumo di un mondo povero e sincero fatto di tante piccole storie che si portava dentro da sempre e che per sempre avrebbe narrato. Quando la zia Nella apriva la porta della vecchia casa appariva coi capelli spettinati e il mento delle vecchie. Sembrava una strega, e io trattenevo il respiro. Lei rimaneva immobile sull’uscio e ci fissava entrambi. O Nella! Declamava mio padre. Lei lo scrutava con gli occhi pungenti e incavati e in un attimo ripercorreva nell’animo il suo passato. Poi finalmente ci salutava: “Remo!...Entra!” Sussurrava. Si, potevano entrare quei due! Erano Remo e Paoletto. Il “bimbo” che né lei né suo fratello Silio avevano mai avuto. C’era affetto sincero verso di noi. Potevamo entrare e anche vedere dove vivevano. Ci inoltravamo con pudore in quella casa. Una casa che non voleva ospiti. Poca luce, odore di muffa aggrappata ai muri umidi e freschi e un silenzio che spaccava i timpani. Potevano permettersi molto di più gli Scatizzi. Da quando la pialla aveva preso il posto della vanga le cose erano migliorate di molto e al “Ponte” avevano acquistato forse più di un immobile. Ma loro per viverci volevano quella: piccola, fredda, buia. Lì dentro Silio poteva nascondere meglio la sua gobba e Nella restare zoppa in santa pace. Figli non ne avevano. Morti loro morti tutti. A che valeva alzare la testa? A che aprire gli occhi? La sosta al Ponte era breve. Mezz’ora. Poco più. Si parlava di me di mia sorella Marina di mia Madre e poi si passavano in rassegna i parenti toscani comuni, dei quali sapevamo più noi che lì vedevamo una volta l’anno piuttosto che loro che abitavano soltanto a qualche chilometro di distanza. Chissà se altri oltre noi varcavano la soglia di quel vecchio portone? O se c’era qualcuno che li informava sulle cose di famiglia… Perché qualcosa sapevano… Forse più di quanto non lasciassero intendere. Gli Scatizzi dal Ponte Buggianese non si allontanavano. Probabilmente erano anni che non oltrepassavano i confini del loro paese, come se la vita per loro a un certo punto avesse imboccato un’altra via e li avesse crocifissi in quella casa, rinchiusi a dimenticare un passato fatto di rimpianti e di rinunce. Al punto che pronunciare il nome di un cugino o di un altro parente era come trafiggergli il petto, come ripercorrere in un attimo le tappe di una gioventù da scordare per sempre. Eppure negli occhi taglienti della zia Nella si nascondeva un desiderio di sapere dei propri cari tanto profondo e buono quanto era forte il terrore di sentirne parlare. Ogni nome che veniva pronunciato da mio padre allorché raccontava delle nostre visite a zii e cugini era subito da lei ripetuto e scandito sottovoce e accompagnato da una pausa e da un cenno della testa che sembravano voler annuire a qualcosa che soltanto lei conosceva. A ricordi da tenere spenti nel cuore. Non ho mai saputo cosa balenasse nella sua mente in quelle circostanze. Se un rimorso, un rimpianto, un lutto o magari una colpa mai espiata o qualcos’altro di inconfessabile. Cosa si nascondeva oltre gli occhi imperscrutabili di quella donna? Quale segreto albergava nelle stanze chiuse di quella casa umida e buia? Quale mistero riparava dietro il portone quando si schiudeva pian piano cigolando al nostro arrivo? Forse niente di quanto io immaginavo. E forse era la mia fantasia di ragazzo a rimanere troppo suggestionata da quei vecchi che – nati contadini – avevano semplicemente mantenuto intatti quel pudore e quella riservatezza propri della gente umile di campagna che, a una certa età, riusciva finalmente a trasferirsi nel centro del paese. E non c’era niente da dover nascondere né da rimpiangere, né alcun rimorso per cui rinunciare a vivere. Più che ventenne ancora mi recavo al Ponte Buggianese in visita agli zii. Spesso da solo. In bicicletta. Con gli anni la loro famiglia si riduceva per quella curiosa legge di natura che ci vuole mortali. E con gli anni la mia raggiunta maturità e la più profonda conoscenza delle cose umane mi consentivano di entrare nella loro casa con maggiore serenità e di interpretare il loro stile di vita con la giusta filosofia. Ma quando giungeva il momento dei saluti e la zia Nella fissandomi negli occhi pronunciava il mio nome, un’improvvisa inquietudine mi pervadeva l’anima. Chiuso il portone dietro di me, l’aria di colpo si faceva opaca e densa ed io e la mia bicicletta – come trattenuti alle spalle – a stento guadagnavamo metri sull’asfalto caldo di agosto.