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Edizioni e/o

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00195 Roma
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www.edizionieo.it
Titolo originale: Le bal des folles
Copyright © 2019 by Editions Albin Michel – Paris
Copyright © 2021 by Edizioni e/o
Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
Foto in copertina © Francesco Carta/Getty Images
ISBN 9788833573052
Victoria Mas
IL BALLO DELLE PAZZE
Traduzione dal francese
di Alberto Bracci Testasecca
IL BALLO DELLE PAZZE
1
3 marzo 1885

L
ouise, è ora che ti alzi».
Con una mano Geneviève tira via la coperta dal corpo addormentato
dell’adolescente raggomitolata sullo stretto materasso. Folti capelli scuri
coprono il cuscino e parte del suo viso. Louise sta russando piano con la
bocca semiaperta. Non sente le altre donne già in piedi nel dormitorio. Tra
le file dei letti di ferro figure femminili si stiracchiano, si raccolgono i
capelli in uno chignon, si abbottonano i vestiti neri sulle camicie da notte
bianche e si avviano con passo monotono verso il refettorio sotto l’occhio
attento delle infermiere. Timidi raggi di sole penetrano dalle finestre
ricoperte di condensa.
Louise è l’ultima ad alzarsi. Ogni mattina un’infermiera o un’alienata
vanno a svegliarla. L’adolescente accoglie la notte con sollievo e crolla in
sonni così profondi che non sogna mai. Dormire le permette di non
preoccuparsi più di quello che è successo e che deve ancora succedere.
Dormire è il suo unico momento di requie dopo gli eventi di tre anni
prima che l’hanno condotta in quel luogo.
«In piedi, Louise, ti stanno aspettando».
Geneviève le scuote il braccio finché la ragazza apre un occhio. Per
prima cosa si stupisce di vedere ai piedi del letto quella che le alienate
hanno soprannominato l’Anziana, poi esclama:
«C’è la lezione!».
«Vèstiti, hai dormito abbastanza».
«Sì!».
La ragazza balza dal letto a piedi uniti e prende dalla sedia il vestito di
lana nera. Geneviève fa un passo di lato e la osserva. I suoi occhi si
soffermano sui gesti frettolosi, sui movimenti incerti della testa, sul
respiro rapido. Il giorno prima Louise ha avuto un attacco: non è proprio il
caso che ne abbia un altro prima della lezione.
L’adolescente si affretta ad abbottonarsi il colletto del vestito e si volta
verso la soprintendente del reparto. Perennemente dritta nel camice
bianco di servizio, con i capelli biondi raccolti in uno chignon, Geneviève
la intimidisce. Negli anni Louise ha dovuto imparare a fare i conti con la
sua rigidità. Non le si può rimproverare di essere ingiusta o cattiva,
semplicemente non ispira affetto.
«Così, signora Geneviève?».
«Sciogli i capelli, il dottore preferisce».
Louise si porta le braccia tornite allo chignon fatto in fretta ed esegue. È
adolescente suo malgrado. A sedici anni, ha ancora un entusiasmo
infantile. Il corpo le è cresciuto troppo in fretta; seno e fianchi, comparsi a
dodici anni, non l’hanno avvertita delle conseguenze di quell’improvvisa
voluttà. L’innocenza ha lasciato un po’ i suoi occhi, ma non del tutto: è per
questo che si può ancora sperare il meglio per lei.
«Ho paura».
«Non fare resistenza e andrà tutto bene».
«Sì».
 
Le due donne percorrono un corridoio dell’ospedale. La luce mattutina
di marzo entra dalle finestre e si riflette sulle mattonelle del pavimento,
una luce dolce che annuncia la primavera e il ballo di mezza quaresima,
una luce che fa venire voglia di sorridere e sperare di uscire presto da lì.
Geneviève percepisce il nervosismo di Louise. L’adolescente cammina a
capo chino con le braccia lungo il corpo e il respiro affannato. Le ragazze
del reparto sono sempre ansiose di incontrare Charcot in persona, tanto
più quando vengono designate per partecipare a una seduta. È una
responsabilità che le sopraffà, una ribalta che le turba. In quelle donne che
la vita non ha mai messo in luce, un interesse così poco consueto ha un
effetto che sconvolge. Di nuovo.
Dopo altri corridoi e porte oscillanti raggiungono l’anticamera
dell’auditorium. Alcuni medici e infermieri sono in attesa, tutti uomini.
Penna e taccuino alla mano, baffi che solleticano il labbro superiore, corpi
rigidi in vestito scuro e camicia bianca, si voltano tutti insieme verso il
soggetto di studio del giorno. Scrutano attentamente Louise con occhio
clinico: sembra che le vedano attraverso il vestito. Quegli sguardi
voyeuristici finiscono per farle abbassare le palpebre.
Una sola faccia le è familiare, quella di Babinski, l’assistente del dottore,
che si avvicina a Geneviève.
«La sala è quasi piena. Cominciamo tra dieci minuti».
«Avete bisogno di qualcosa in particolare per Louise?».
Babinski guarda l’alienata dall’alto in basso.
«Va bene così».
Geneviève annuisce e si accinge a uscire dalla stanza. Ansiosa, Louise le
va dietro per un passo.
«Torna a prendermi, vero, signora Geneviève?».
«Come sempre, Louise».
 
Geneviève guarda l’auditorium da dietro le quinte. Un’eco di voci
profonde si leva dalle panche di legno e si diffonde per la sala, più
somigliante a un museo o a una mostra di curiosità che a un ambiente
ospedaliero. Pareti e soffitto sono tappezzati di quadri e stampe che
rappresentano anatomie e corpi, scene in cui si mischiano anonimi nudi o
vestiti, angosciati o smarriti. In prossimità delle panche, pesanti armadi
che il tempo fa scricchiolare mettono in mostra dietro le ante a vetri tutto
ciò che un ospedale può tenere per ricordo: crani, tibie, omeri, bacini,
dozzine di barattoli di vetro, busti di pietra e strumenti vari. Già
dall’arredamento la sala promette allo spettatore di farlo assistere a
qualcosa di particolare.
Geneviève osserva il pubblico. Certe facce le sono note, riconosce
medici, scrittori, giornalisti, interni, politici, artisti, tutti allo stesso tempo
curiosi, già convertiti o scettici. Prova fierezza. È fiera che a Parigi un
uomo solo riesca a suscitare un tale interesse da riempire ogni settimana
le panche dell’auditorium. Eccolo che entra in scena. Nella sala scende il
silenzio. Charcot impone senza esitazioni la sua grossa e seria figura a quel
pubblico di sguardi affascinati. Il suo profilo allungato ricorda l’eleganza e
la dignità delle statue greche. Ha lo sguardo preciso e impenetrabile del
medico che da anni studia le vulnerabilità più profonde di donne rifiutate
dalla famiglia e dalla società. Sa la speranza che suscita in quelle alienate.
Sa che tutta Parigi conosce il suo nome. Gli è stata accordata autorità, e lui
la esercita ormai con la convinzione che gli sia stata data per una ragione:
che sarà il suo talento a far progredire la medicina.
«Buongiorno, signori. Grazie di essere venuti. La lezione che seguirà è
una dimostrazione di ipnosi su una paziente affetta da isteria grave. Ha
sedici anni. Da tre anni che è alla Salpêtrière abbiamo registrato più di
duecento suoi attacchi isterici. Lo stato di ipnosi ci permetterà di ricreare
un attacco e studiarne i sintomi. A loro volta i sintomi ci diranno di più sul
processo fisiologico dell’isteria. È grazie a pazienti come Louise che
medicina e scienza possono fare progressi».
Geneviève accenna un sorriso. Ogni volta che lo vede rivolgersi agli
spettatori avidi della dimostrazione che seguirà ripensa agli esordi
dell’uomo in quel reparto. L’ha visto studiare, prendere appunti, curare,
cercare, scoprire ciò che nessuno prima di lui aveva scoperto, pensare
come fino a quel momento nessuno aveva pensato. Da solo Charcot
incarna la medicina in tutta la sua integrità, tutta la sua verità, tutta la sua
utilità. Che bisogno c’è di idolatrare dèi quando esistono uomini come
Charcot? No, non è esatto. Non esiste nessuno come Charcot. Si sente
fiera, sì, fiera e privilegiata di collaborare da più di vent’anni al lavoro e ai
progressi del più famoso neurologo di Parigi.
Babinski fa entrare in scena Louise. Morta di paura fino a dieci minuti
prima, l’adolescente ha cambiato atteggiamento: con le spalle dritte, il
petto in fuori e il mento sollevato avanza verso il pubblico che aspettava
solo lei. Non ha più paura, è il suo momento di gloria e di riconoscimento.
Per lei e per il maestro.
Geneviève conosce ogni tappa del rituale. Prima il pendolino che viene
fatto oscillare lentamente davanti alla faccia di Louise, la fissità dei suoi
occhi azzurri, il diapason che viene fatto risuonare una volta, la ragazza
che cade all’indietro, il suo corpo letargico ripreso per un pelo da due
infermieri. Con gli occhi chiusi, Louise si sottomette a ogni minima
richiesta del dottore. Per cominciare effettua gesti semplici, alza il
braccio, gira su se stessa, piega una gamba come un soldatino ubbidiente.
Poi assume delle pose in base alle richieste, giunge le mani per pregare,
solleva la testa per supplicare il cielo, imita la crocifissione. Gradualmente
ciò che sembrava essere una semplice dimostrazione di ipnosi evolve
verso il grande spettacolo, «la fase dei grandi movimenti», come annuncia
Charcot. Louise è ormai a terra, non le viene ordinato più niente. Da sola si
agita, piega braccia e gambe, oscilla col corpo a sinistra e a destra, si gira
sulla schiena, sulla pancia, contrae mani e piedi fino a non muoverli più,
altera il viso in espressioni che vanno dal dolore alla gioia, e le sue
contorsioni sono accompagnate da respiri rauchi. Un superstizioso
penserebbe di trovarsi di fronte a una donna posseduta dal demonio, e del
resto molti nel pubblico si fanno con discrezione il segno della croce...
Un’ultima convulsione la rimette sulla schiena, piedi e testa fanno leva sul
pavimento e spingono in alto il resto del corpo fino a formare un arco che
va dal collo alle ginocchia. I capelli scuri spazzano la polvere del
palcoscenico, la schiena inarcata scrocchia per lo sforzo. Poi, alla fine di
un attacco che le è stato imposto, crolla con un rumore sordo sotto gli
occhi sbalorditi dei presenti.
È grazie a pazienti come Louise che medicina e scienza possono fare
progressi.
 
Oltre le mura della Salpêtrière, nei salotti e nei caffè, si fanno illazioni
su come possa essere il reparto di Charcot, detto il “reparto delle
isteriche”. Immaginano donne nude che corrono nei corridoi, sbattono la
fronte sul pavimento, allargano le gambe per accogliere un amante di
fantasia, urlano a squarciagola dall’alba al tramonto. Descrivono corpi di
pazze che scoppiano in convulsioni sotto lenzuola bianche, espressioni
alterate sotto capelli irsuti, facce di vecchie, di obese, di brutte, donne che
è sacrosanto tenere a distanza, anche se non si sa bene perché, visto che
non hanno arrecato offesa o commesso delitti. In quella gente spaventata
dalla minima eccentricità, che siano borghesi o proletari, pensare alle
alienate eccita il desiderio e alimenta i timori. Sono affascinati e inorriditi
dalle pazze. Ci resterebbero sicuramente male se andassero a fare un giro
nel reparto in quella fine di mattinata.
Nell’ampio dormitorio le attività quotidiane vengono svolte in tutta
calma. Alcune donne passano lo straccio sotto e fra i letti metallici, altre si
lavano col guanto di fronte a un lavabo d’acqua fredda, qualcuna è a letto
schiacciata dalla stanchezza e dai pensieri, e non ha voglia di parlare con
nessuno, qualcun’altra si spazzola i capelli parlando da sola sottovoce o
guardando dalla finestra il sole che illumina il giardino in cui resiste
ancora un po’ di neve. Sono di tutte le età, dai tredici ai sessantacinque
anni, sono brune, bionde o rosse, magre o grasse, vestite e pettinate come
lo sarebbero in città, e si muovono con pudore. Lungi dall’essere
l’ambiente depravato di cui si fantastica all’esterno, il dormitorio sembra
più una casa di riposo che un’ala d’ospedale dedicata alle isteriche. Solo
guardando più da vicino sopravviene il turbamento: si nota una mano
chiusa e ritorta, un braccio contratto contro il petto, palpebre che si
alzano e si abbassano veloci come il battito d’ali di una farfalla. Certe
palpebre sono chiuse da un lato, e quello che guarda è un occhio soltanto.
Ogni suono di ottoni o diapason è bandito per evitare che alcune crollino
sul posto in piena catalessi. Un’alienata sbadiglia in continuazione,
un’altra è preda di movimenti incontrollati. Si vedono sguardi abbattuti,
assenti o immersi in una profonda malinconia. Poi, di quando in quando, il
famoso attacco isterico viene a scuotere il dormitorio nel quale aleggiava
una calma temporanea: a letto o per terra, un corpo di donna si piega, si
contrae, lotta contro una forza invisibile, si dimena, si inarca, si torce,
tenta di sfuggire alla propria sorte senza riuscirci. Il personale medico le si
fa intorno, un infermiere le applica due dita contro le ovaie e poco a poco
la pressione calma la pazza. Nei casi più gravi le viene applicata sul naso
una garza imbevuta di etere, allora la donna chiude gli occhi e la crisi
cessa.
Non c’è nessun’isterica che balla scalza nei corridoi freddi, solo una
preponderante battaglia muta e quotidiana per la normalità.
 
Alcune donne si sono radunate intorno a un letto e guardano Thérèse
mentre fa uno scialle a maglia. Una giovane con una corona di capelli
intrecciati sulla testa si avvicina a colei che hanno soprannominato la
Magliaia.
«Questo è per me, vero Thérèse?».
«L’ho promesso a Camille».
«Sono mesi che devi farmene uno».
«Ti ho regalato uno scialle due settimane fa e non ti è piaciuto,
Valentine. Ora aspetti».
«Cattiva!».
La giovane si allontana dal gruppo con aria offesa, senza più fare caso
alla mano destra che si torce nervosamente né alla gamba percorsa da
scosse regolari.
Da parte sua Geneviève, accompagnata da un’altra infermiera, sta
aiutando Louise a rimettersi a letto. La ragazza, indebolita, trova ancora la
forza di sorridere.
«Sono stata brava, signora Geneviève?».
«Come sempre, Louise».
«Il dottor Charcot è contento di me?».
«Sarà contento quando sarai guarita».
«Mi guardavano tutti... Diventerò famosa come Augustine, vero?».
«Ora riposati».
«Sarò la nuova Augustine... Tutta Parigi parlerà di me...».
Geneviève stende la coperta sul corpo sfinito dell’adolescente
pallidissima, che si addormenta sorridendo.
 
Su rue Soufflot è sceso il buio. Il Panthéon, culla di nomi insigni onorati
all’interno delle massicce pietre, veglia dall’alto sul giardino del
Lussemburgo addormentato in fondo alla strada.
Al sesto piano di un edificio è aperta una finestra. Geneviève osserva la
strada calma delimitata a sinistra dalla solenne sagoma del monumento
agli uomini illustri e a destra dal giardino con le statue in cui fin dalla
mattina presto gente a passeggio, innamorati e bambini percorrono i viali
alberati e costeggiano i prati fioriti.
Tornata dal lavoro al calar della sera Geneviève ha seguito il suo
consueto rituale. Per prima cosa si è sbottonata il camice bianco, ha
controllato meccanicamente che non avesse macchie, per lo più di sangue,
e l’ha appeso in un piccolo armadio. Poi si è lavata sul pianerottolo, dove
talvolta si imbatte negli abitanti dello stesso piano: madre con figlia di
quindici anni, tutte e due lavandaie, rimaste sole dopo che il marito è
morto durante la Comune. Tornata nel suo modesto monolocale ha
riscaldato una minestra e l’ha bevuta silenziosamente seduta sul bordo del
letto spartano alla luce di una lampada a olio, poi è andata a mettersi dieci
minuti alla finestra come ogni sera. Immobile ed eretta come se indossasse
ancora lo stretto camice di servizio, osserva la strada dall’alto,
imperturbabile come una vedetta su un faro. Non lo fa per contemplare le
luci della via o perdersi in fantasticherie, non possiede quel tipo di
romanticismo, si limita a usare quel momento di pace per seppellire la
giornata trascorsa tra le mura dell’ospedale. Apre la finestra e fa
disperdere nel vento tutto ciò che la accompagna dalla mattina alla sera,
le facce tristi e ironiche, gli odori di etere e di cloroformio, il rumore dei
tacchi sul pavimento, gli echi dei gemiti e dei lamenti, il cigolio dei letti
sotto corpi agitati. Non pensa alle alienate, si stacca soltanto dal luogo. Le
alienate non le interessano. Nessun destino la commuove, nessuna storia
la turba. Dopo l’incidente in cui è incappata ai suoi esordi come
infermiera, ha rinunciato a vedere persone dietro le pazienti. Spesso le
torna in mente l’episodio, rivede aggravarsi l’attacco di cui era preda
quell’internata che somigliava a sua sorella, la faccia alterata, le mani che
la afferravano al collo e stringevano con accanimento da indemoniata.
Geneviève era giovane, pensava che per aiutare bisognasse provare
affetto. Erano intervenute due infermiere per liberarla dalle mani di colei
nella quale aveva riposto la sua fiducia e la sua empatia. Lo shock era stato
una lezione, e i successivi vent’anni passati accanto alle alienate non
avevano fatto che confermare la sua sensazione: la malattia disumanizza
rende quelle donne marionette alla mercé di sintomi grotteschi, bambole
molli tra le mani di medici che le maneggiano e le esaminano in ogni
minima piega, bestiole curiose che suscitano solo un interesse clinico. Non
sono più mogli, madri o adolescenti, non sono donne da guardare o da
prendere in considerazione, non saranno mai donne da desiderare o a cui
volere bene: sono malate. Pazze. Fallite. E il suo lavoro nei casi migliori è
curarle, nei casi peggiori mantenerle internate in condizioni decenti.
 
Geneviève chiude la finestra, prende la lampada a olio e si siede davanti
alla consolle su cui posa la lampada. Nella camera in cui vive da quando è
arrivata a Parigi l’unico lusso è una stufa che riscalda piacevolmente
l’ambiente. Niente è cambiato in vent’anni. Ai quattro angoli c’è sempre lo
stesso letto semplice, lo stesso armadio con due vestiti da città e una
vestaglia, la stessa cucina a carbone e la stessa consolle con sedia che
costituisce il suo piccolo spazio per scrivere. Una carta da parati rosa che
il tempo ha ingiallito e gonfiato qua e là fornisce gli unici colori della
stanza dal mobilio scuro. Il soffitto a volta le fa istintivamente abbassare la
testa in certi punti, quando si sposta.
Prende un foglio, intinge la penna nel calamaio e comincia a scrivere:
 
Parigi, 3 marzo 1885
 
Mia cara sorella,
è già qualche giorno che non ti scrivo, spero che tu non ce l’abbia con me. Le
alienate erano particolarmente agitate questa settimana. Basta che una abbia un
attacco e tutte le vanno dietro. Spesso la fine dell’inverno fa loro quest’effetto. Il
cielo plumbeo sopra le nostre teste per mesi, il dormitorio gelido che le stufe non
riescono a riscaldare abbastanza e le malattie invernali sono tutte cose che
influiscono in maniera notevole sulle loro menti, come puoi immaginare. Per
fortuna oggi abbiamo avuto i primi raggi di sole della bella stagione, cosa che
insieme al ballo di mezza quaresima che ci sarà fra due settimane – sì, ci siamo già
– dovrebbe calmarle. Presto tireremo fuori i costumi dell’anno scorso. Ciò
migliorerà un po’ il loro umore e, di conseguenza, quello delle infermiere.
Oggi il dottor Charcot ha dato una lezione pubblica. Ancora una volta la piccola
Louise. La povera pazza immagina già che avrà lo stesso successo di Augustine.
Dovrei ricordarle che quest’ultima ha talmente goduto del proprio successo da
fuggire dall’ospedale, per giunta vestita da uomo! È stata proprio ingrata, dopo
tutti gli sforzi che tutti noi, e soprattutto il dottor Charcot, abbiamo fatto per
curarla. Un’alienata lo è per la vita, l’ho sempre detto.
Comunque la seduta è andata bene. Charcot e Babinski sono riusciti a ricreare
un bell’attacco, il pubblico è stato soddisfatto. L’auditorium era pieno, come ogni
venerdì. Il dottor Charcot si merita il successo che ha. Non oso immaginare le
scoperte che farà ancora. Ogni volta quest’idea mi riconduce a me stessa, semplice
figlia di un medico di campagna dell’Alvernia che oggi assiste il più grande
neurologo di Parigi. È un pensiero che mi riempie di fierezza e di umiltà, ti
assicuro.
Si avvicina la data del tuo compleanno. Cerco di non pensarci, sennò mi
intristisco troppo. Siamo di nuovo a questo giorno, ebbene sì. Mi troverai sciocca,
ma gli anni non aggiustano un bel niente, mi mancherai per tutta la vita, cara
Blandine. Ora devo andare a dormire. Ti abbraccio e ti bacio affettuosamente.
Tua sorella, che pensa a te ovunque tu sia.
 
Geneviève rilegge la lettera prima di piegarla, poi la infila in una busta
sulla quale, in alto a destra, scrive 3 marzo 1885. Si alza e apre l’armadio.
Varie scatole rettangolari sono allineate ai piedi dei vestiti appesi.
Geneviève prende quella sopra le altre. All’interno ci sono un centinaio di
buste come quella che ha in mano, tutte in fila con la data scritta in alto a
destra. Guarda l’ultima, quella datata 20 febbraio 1885, e davanti inserisce la
nuova busta.
Rimette il coperchio sulla scatola e la scatola nell’armadio, poi richiude
le ante.
2
20 febbraio 1885

N
evica da tre giorni. Nell’aria i fiocchi sembrano formare tende di perle.
Uno strato bianco e scricchiolante ricopre marciapiedi e giardini, si
attacca alle pellicce e agli stivaletti di chi cammina.
Intorno al tavolo da pranzo i Cléry non fanno più caso alla neve che
cade serena dietro le portefinestre e atterra sul tappeto bianco di
boulevard Haussmann. I cinque membri della famiglia, concentrati sulla
cena, stanno tagliando la carne rossa che il domestico ha appena servito.
Soffitti stuccati, mobili, quadri, oggetti in marmo e in bronzo, lampadari e
candelieri costituiscono l’arredo dell’appartamento borghese. È un inizio
di serata come tanti altri: le posate tintinnano contro le stoviglie di
porcellana, le gambe delle sedie cigolano per i movimenti di chi le occupa
e nel caminetto crepita il fuoco che il cameriere mantiene vivace
aggiustandolo di quando in quando con l’aiuto di un ferro a punta.
Nel silenzio si eleva la voce del capofamiglia.
«È venuto Fochon, oggi. L’eredità della madre non l’ha soddisfatto.
Sperava di avere il castello in Vandea, che invece è andato alla sorella. La
madre gli ha lasciato solo l’appartamento in rue de Rivoli. Magra
consolazione!».
Non ha sollevato gli occhi dal piatto. Ora che il padre ha parlato, anche
gli altri possono prendere la parola. Eugénie dà un’occhiata al fratello di
fronte a sé, che ha la testa china sul piatto. Non si lascia sfuggire
l’occasione.
«Dicono che Victor Hugo stia molto male. Ne sai qualcosa, Théophile?».
Stupito, il fratello alza gli occhi su di lei masticando la carne.
«Ne so quanto te».
Anche il padre guarda la figlia, ma non nota l’ironia che le fa luccicare
gli occhi.
«Dove l’hai sentito?».
«Dai giornalai. Nei caffè».
«Non mi piace che tu frequenti i caffè, non sta bene».
«Ci vado solo per leggere».
«Fa lo stesso. E ti prego di non nominare quell’uomo in questa casa. È
tutto tranne che un repubblicano, nonostante ciò che alcuni sostengono».
La diciannovenne trattiene un sorriso. Se non lo provocasse, il padre
non la degnerebbe di uno sguardo. Sa che la sua esistenza interesserà il
capofamiglia solo quando un buon partito, ovvero un uomo appartenente
a una famiglia di avvocati o notai, come la loro, chiederà di sposarla.
Quello sarà allora l’unico valore che avrà agli occhi del padre, il valore di
figlia da dare in moglie. Eugénie pensa a quanto si arrabbierà quando gli
dirà che non intende sposarsi. È una decisione che ha preso da tempo. Non
vuole una vita come quella della madre, seduta alla sua destra: confinata
tra le pareti di un appartamento borghese, sottomessa agli orari e alle
decisioni di un uomo, senza ambizioni né passioni, senza vedere altro che
il proprio riflesso nello specchio, con l’unico scopo di fare figli, con la sola
preoccupazione di scegliere l’abito del giorno. Quella è la vita che non
desidera. In compenso desidera tutto il resto.
A sinistra del fratello, la nonna paterna le fa un sorriso. È l’unico
membro della famiglia che la veda com’è: fiduciosa e fiera, pallida e bruna,
con la fronte intelligente, l’occhio attento e l’iride sinistra segnata da una
macchiolina scura, una ragazza che osserva e registra tutto, ansiosa di non
sentirsi limitata nel sapere né nelle aspirazioni, con tale forza da starci
quasi male.
Il notaio Cléry guarda il figlio che sta continuando a mangiare con
appetito. Quando si rivolge a lui, il tono paterno è meno burbero.
«Théophile, sei riuscito a studiare i nuovi testi che ti ho dato?».
«Non ancora, sono rimasto un po’ indietro. Mi ci metto a marzo».
«Fra tre mesi entri da noi come giovane di studio, voglio che per allora
tu abbia finito di ripassare tutto quello che hai».
«Sarà fatto. Ora che ci penso, domani pomeriggio non ci sarò. Vado a un
salotto di discussione. Ci sarà anche il figlio di Fochon».
«Non accennargli all’eredità del padre, rischi di ferirlo. Ma certo, vai a
far lavorare la mente, la Francia ha bisogno di una gioventù che pensa».
Eugénie solleva il viso verso il padre.
«Quando parli di gioventù che pensa intendi ragazzi e ragazze, vero,
papà?».
«Te l’ho già detto, il posto delle donne non è in pubblico».
«È triste immaginare una Parigi fatta soltanto di uomini».
«Smettila, Eugénie».
«Gli uomini sono troppo seri, non sanno divertirsi. Le donne sanno
essere serie, ma sanno anche ridere».
«Non contraddirmi».
«Non ti sto contraddicendo, stiamo discutendo, cioè quello che faranno
Théophile e i suoi amici domani, di cui sei così contento...».
«Basta così! Non tollero insolenze sotto il mio tetto. Puoi alzarti da
tavola».
Il padre sbatte le posate sul piatto e sfida Eugénie con lo sguardo. I nervi
scoperti gli fanno drizzare i peli dei favoriti e dei folti baffi che gli
delineano il viso. Ha la fronte e le tempie rosse. Se non altro quella sera
Eugénie sarà riuscita a suscitargli un’emozione.
La giovane posa il tovagliolo sul tavolo. Si alza, saluta con un cenno del
capo sotto lo sguardo prostrato della madre e divertito della nonna, poi
lascia la sala da pranzo non scontenta di aver sollevato un po’ di
scompiglio.
 
«Stasera non potevi proprio farne a meno, eh?».
È notte. In una delle cinque camere dell’appartamento Eugénie sta
sprimacciando i cuscini. Dietro di lei, in camicia da notte, la nonna aspetta
che finisca di prepararle il letto.
«Quella cena era di una noia abissale, dovevamo pur divertirci un po’.
Siediti, nonna».
Prende la mano rugosa dell’anziana e la aiuta a sedersi sul letto.
«Tuo padre è rimasto nervoso fino al dessert. Dovresti avere più
riguardo per il suo umore. Lo dico per te».
«Non ti preoccupare, non posso cadere più in basso di così nella stima
di papà».
Eugénie solleva le gambe nude e magre della nonna e la aiuta a infilarsi
sotto le coperte.
«Hai freddo? Vuoi che aggiunga un copriletto?».
«No, cara, va bene così».
La ragazza si accovaccia di fronte al viso benevolo di colei alla quale
ogni sera rincalza le lenzuola. Gli occhi azzurri dell’anziana le fanno bene,
il sorriso che le rialza le rughe e le fa strizzare gli occhi slavati è il più
dolce che ci sia. Eugénie vuole più bene a lei che alla madre, forse anche
perché la nonna le vuole più bene che se fosse sua figlia.
«Piccola mia. La tua maggior qualità sarà il tuo maggior difetto: sei uno
spirito libero».
Tira fuori la mano da sotto le coperte per accarezzare i capelli bruni
della nipote, ma Eugénie non la guarda più, i suoi occhi stanno fissando
un’altra cosa. Osserva l’angolo della camera. Non è la prima volta che si
immobilizza su un punto invisibile, ma sono momenti che non durano mai
tanto da destare preoccupazione. Si tratta di un ricordo, un’idea che le
attraversa la mente e sembra turbarla in profondità. O è come quella volta
che Eugénie, a dodici anni, aveva giurato di vedere qualcosa? L’anziana
guarda nella stessa direzione della nipote: nell’angolo della stanza ci sono
solo un cassettone, un vaso di fiori e alcuni libri.
«Che succede, Eugénie?».
«Niente».
«Vedi qualcosa?».
«No, niente».
Eugénie torna in sé e accarezza la mano della nonna con un sorriso.
«Sono solo stanca».
Non le confesserà certo che vede effettivamente qualcosa. O meglio,
qualcuno. Era un bel po’ che non lo vedeva e, benché avesse sentito che
sarebbe arrivato, la sua presenza l’ha sorpresa. Lo vede da quando ha
dodici anni. Era morto due settimane prima del suo compleanno. Tutta la
famiglia era riunita in salotto, e lì le è apparso per la prima volta.
«Guardate, c’è il nonno, è seduto in poltrona, guardate!» aveva esclamato,
convinta che anche gli altri lo vedessero, e più le dicevano che non era
vero, più lei insisteva: «C’è il nonno, giuro!», finché il padre l’aveva
rimproverata con tale asprezza e violenza che le volte successive non
aveva più osato menzionare la sua presenza. La sua e quella degli altri,
perché dopo il nonno avevano cominciato ad apparire altri, come se il
fatto di averlo visto una volta avesse di colpo sbloccato qualcosa che fino
ad allora era rimasto chiuso, una specie di passaggio che Eugénie situa
all’altezza dello sterno: è lì che lo sente. Non conosceva le altre persone
che le si erano rivelate, uomini e donne di ogni età del tutto sconosciuti.
Non apparivano di botto, li sentiva arrivare per gradi. Una sensazione di
stanchezza le appesantiva le membra e lei scivolava in una specie di
dormiveglia, come se le venisse tolta l’energia a vantaggio di qualcos’altro.
Allora diventavano visibili: in piedi in salotto, seduti su un letto, accanto
al tavolo da pranzo guardandoli cenare. Da piccola quelle visioni la
terrorizzavano e la isolavano in un silenzio doloroso. Se avesse potuto si
sarebbe gettata tra le braccia del padre e avrebbe nascosto la faccia nella
sua giacca fino a che l’apparizione non l’avesse lasciata in pace. Per
quanto confusa, aveva tuttavia una certezza: non si trattava di
allucinazioni. La sensazione che le provocavano quelle visioni non dava
adito a dubbi: erano persone morte che venivano a trovarla.
Un giorno il nonno le aveva parlato. Per la precisione, Eugénie aveva
sentito la sua voce nella testa, perché le facce delle apparizioni erano
sempre impassibili e mute. Le aveva detto di non avere paura, che non
volevano farle del male, che doveva temere più i vivi dei morti. Aveva
anche detto che lei aveva un dono, e che i defunti andavano a trovarla per
una ragione. All’epoca aveva quindici anni, ma il terrore iniziale non
l’aveva lasciata. A parte il nonno, di cui aveva finito per accettare le visite,
supplicava gli altri di andarsene appena apparivano, e loro ubbidivano.
Non aveva scelto lei di vederli. Non aveva scelto lei di avere quel “dono”
che le sembrava più una disfunzione psichica che un regalo. Si
tranquillizzava pensando che sarebbe passato, che il giorno in cui avrebbe
lasciato la casa paterna tutto sarebbe sparito, che le apparizioni non
l’avrebbero più disturbata e che nel frattempo doveva solo continuare a
mantenere il silenzio, anche con la nonna, perché se avesse di nuovo
menzionato una cosa del genere l’avrebbero portata seduta stante alla
Salpêtrière.
 
Il pomeriggio del giorno dopo la neve concede una tregua alla capitale.
Nelle strade imbiancate gruppi di bambini si tirano palle di neve tra le
panchine e i lampioni. Parigi è illuminata da una luce bianca, quasi
accecante.
Théophile esce dal portone e si dirige verso il fiacre in attesa lungo il
marciapiede. Riccioli rossi gli sfuggono da sotto il cilindro. Si alza il
colletto fino al mento, si infila in fretta i guanti di pelle, apre la portiera e
con una mano aiuta Eugénie a salire. La sorella indossa un lungo cappotto
nero col cappuccio, dalle maniche svasate. Due penne d’oca sono piantate
nello chignon: non le piacciono i cappellini a punta fioriti che vanno di
moda in quel momento. Théophile si avvicina all’uomo a cassetta.
«Boulevard Malesherbes numero 9. E per piacere, Louis, se mio padre te
lo chiede ero solo».
Il domestico fa il gesto di cucirsi la bocca e Théophile sale a bordo
accanto alla sorella.
«Sei sempre irritato, fratello?».
«Sei tu a essere irritante».
Poco dopo pranzo, pasto che in assenza del padre era più sereno,
Théophile era andato in camera sua a fare i quotidiani venti minuti di
pisolino prima di uscire. Si era appena messo il cilindro davanti allo
specchio quando avevano bussato alla porta. Quattro colpi, era la sorella.
«Avanti».
Eugénie aveva aperto la porta. Era vestita e pettinata da città.
«Vai di nuovo al caffè? Papà non sarà d’accordo».
«No, vengo al salotto di discussione con te».
«Ma proprio no».
«Perché no?».
«Non sei invitata».
«Allora invitami».
«Ci sono soltanto uomini».
«Che tristezza».
«Vedi, non ti va nemmeno».
«Mi piacerebbe vedere com’è, almeno una volta».
«Stiamo in un salotto, fumiamo, beviamo caffè e whisky e facciamo
finta di filosofare».
«Se è barboso come lo descrivi perché ci vai?».
«Bella domanda. Le convenzioni sociali, presumo».
«Fammi venire con te».
«Non ho nessuna intenzione di prendermi le folgori di papà quando
verrà a saperlo».
«Dovevi pensarci prima di avere la storia con la Lisette di rue Joubert».
Théophile era rimasto di stucco e aveva fissato a lungo la sorella, che
aveva sorriso.
«Ti aspetto al portone».
Nel fiacre che si fa strada a fatica tra i solchi di neve Théophile è
pensieroso.
«Sei sicura che mamma non ti abbia visto uscire?».
«Mamma non mi vede mai».
«Sei ingiusta. Nessuno cospira contro di te, in famiglia».
«Eccetto te».
«Esatto. Aiuterò papà a trovarti un marito, così andrai in tutti i salotti
che vorrai e la smetterai di scocciare».
Eugénie guarda il fratello e sorride. L’ironia è l’unica cosa che hanno in
comune. Sebbene non siano legati da un particolare affetto, nessuna
animosità li divide. Più che fratello e sorella, si sentono due conoscenti
che hanno un rapporto cordiale e vivono sotto lo stesso tetto. Eppure
Eugénie avrebbe avuto tutte le ragioni per essere invidiosa del fratello: lui
figlio maggiore, quindi figlio adorato, figlio che viene spinto a studiare,
futuro notaio; lei, futura moglie di qualcuno. Alla fine aveva capito che il
fratello subiva la situazione tanto quanto lei. Anche Théophile doveva
sottostare agli obblighi paterni, anche lui doveva dimostrarsi all’altezza
delle aspettative che gli venivano imposte, e anche lui doveva tenere
segrete le sue personali aspirazioni, perché se fosse stato per lui,
Théophile avrebbe fatto la valigia e si sarebbe messo a viaggiare
dappertutto, possibilmente lontano. Forse il non aver scelto il proprio
posto è un’altra cosa che li lega, ma anche in quello sono diversi:
Théophile si è adattato alla situazione, sua sorella la rifiuta.
 
Il salotto borghese è simile al loro. Un lampadario di cristallo appeso al
soffitto domina la stanza. Un cameriere circola tra gli ospiti offrendo
bicchieri di whisky da un vassoio d’argento, un altro serve il caffè in
tazzine di porcellana.
In piedi accanto al caminetto o seduti su divani del secolo prima,
giovani uomini conversano sottovoce fumando sigari o sigarette: è la
nuova élite parigina, benpensante e conformista. Sui volti si legge la
fierezza di essere nati nella famiglia giusta. La noncuranza dei gesti rivela
il privilegio di non aver mai dovuto conoscere la fatica. Per loro il termine
“valore” ha senso solo riferito ai quadri che decorano le pareti e allo
status di cui godono senza aver fatto niente per conquistarselo.
Un giovanotto dal sorriso ironico si avvicina a Théophile. Eugénie è
rimasta in disparte e osserva la riunione mondana.
«Ehi, Cléry, non sapevo che saresti stato in dolce compagnia, oggi».
Théophile arrossisce sotto i riccioli rossi.
«Ciao Fochon, posso presentarti mia sorella Eugénie?».
«Tua sorella? Non vi assomigliate per niente. Molto piacere, Eugénie».
Fochon si avvicina per prenderle la mano inguantata. Il suo sguardo
insistito suscita nella donna un leggero fastidio. Il giovanotto si rivolge a
Théophile.
«Ti ha detto tuo padre dell’eredità della nonna?».
«Ho saputo, sì».
«Papà c’è rimasto malissimo. Non faceva altro che parlare del castello in
Vandea. Il più offeso di tutti dovrei essere io, la vecchia non mi ha lasciato
niente. Il suo unico nipote! Bah. Bevi qualcosa, Eugénie?».
«Un caffè. Senza zucchero».
«Carine le penne d’oca sulla testa. Allieteranno il nostro salotto, oggi».
«Perché, vi capita anche di essere allegri?».
«Insolente, per giunta! Fantastico».
 
In quel luogo ovattato le ore passano con lentezza opprimente. Le
conversazioni dei gruppetti si mischiano fino a diventare un’eco di voci
basse e monotone inframmezzata da tintinnii di tazze e bicchieri. Il fumo
del tabacco ha formato un velo trasparente e vellutato sospeso sopra le
loro teste. L’alcol ha infiacchito corpi già pigri. Eugénie, seduta sul
morbido velluto di una poltrona, sbadiglia coprendosi la bocca con la
mano. Il fratello non le aveva detto bugie: solo le convenzioni sociali
possono spiegare l’interesse per quei salotti. Le discussioni non sono tanto
discussioni quanto discorsi convenuti, idee imparate a memoria che le
cosiddette menti istruite ripetono con diligenza. Naturalmente parlano di
politica, la colonizzazione, il presidente Grévy, le leggi Jules Ferry, e anche
un po’ di letteratura e teatro, ma senza profondità, perché ai loro occhi
sono campi che appartengono alla sfera del divertimento, più che a quella
dell’arricchimento intellettuale. Eugénie ascolta in modo distratto. Non è
tentata di scuotere un po’ quel mondo dal pensiero ristretto, anche se ogni
tanto le viene voglia di intervenire, sviluppare un’idea, sottolineare le
contraddizioni di certi concetti, perché sa in anticipo la risposta che
otterrebbe: gli uomini la guarderebbero con ironia scartando il suo
intervento con un gesto della mano e relegandola al posto che le compete.
Gli uomini dalle menti fiere non vogliono essere messi in discussione,
tantomeno da una donna. Stimano le donne solo quando l’aspetto fisico è
di loro gusto. Quanto a quelle capaci di nuocere alla loro virilità, non le
tengono da conto o, ancora meglio, se ne sbarazzano. Eugénie ricorda un
fatto di cronaca risalente a una trentina d’anni prima: una certa Ernestine
aspirava a emanciparsi dal proprio ruolo di moglie prendendo lezioni di
cucina dal cugino capocuoco, con la speranza di arrivare un giorno a
mettersi lei stessa ai fornelli di un ristorante. Il marito, messo in
discussione nel suo ruolo dominante, l’aveva fatta internare alla
Salpêtrière. Dal principio del secolo sono molte le storie che fanno eco a
quella e vengono raccontate nei caffè di Parigi o sulle rubriche di cronaca
dei giornali: una donna infuriata per le infedeltà del marito internata
come fosse una stracciona che esibisce il pube ai passanti, una
quarantenne che si faceva vedere al braccio di un giovanotto con
vent’anni meno di lei internata per depravazione, una giovane vedova
fatta internare dalla suocera perché troppo malinconica dopo che le era
morto il marito. La Salpêtrière è un deposito per tutte quelle che
disturbano l’ordine costituito, un manicomio per tutte quelle la cui
sensibilità non corrisponde alle aspettative, una prigione per donne
colpevoli di avere un’opinione. Dall’arrivo di Charcot, vent’anni prima,
pare che la situazione sia cambiata, che alla Salpêtrière vengano internate
solo le autentiche isteriche, ciò nonostante il dubbio sussiste. Vent’anni
sono pochissimi per cambiare mentalità ancorate in una società dominata
da padri e mariti. Nessuna donna è mai del tutto certa che le sue parole, la
sua individualità e le sue aspirazioni non la condurranno tra le temute
quattro mura del XIII arrondissement. Allora ci stanno attente. Anche
Eugénie, per quanto audace, sa di non poter varcare certi limiti, tanto più
in un salotto pieno di uomini influenti.
 
«Quell’uomo era un eretico. I suoi libri andrebbero messi al rogo!».
«Significherebbe dargli troppa importanza».
«È una moda, cadrà presto nell’oblio. Del resto, ormai sono in pochi a
sapere chi sia».
«State parlando di quello che afferma l’esistenza dei fantasmi?».
«Degli “spiriti”».
«Un pazzo!».
«Va contro ogni logica sostenere che lo spirito sopravviva alla materia,
è un’affermazione che nega tutte le leggi della biologia!».
«A parte le suddette leggi, se gli spiriti esistessero perché non si
manifesterebbero più spesso?».
«Controlliamo! Sfido gli spiriti presenti in questa stanza, posto che ce
ne siano, a far cadere un libro o muovere un tavolino!».
«Smettila, Mercier. Lo so che è assurdo, ma non mi piace scherzarci
sopra».
Eugénie si raddrizza sulla poltrona, tende il collo verso i presenti, per la
prima volta da quando è arrivata ascolta con attenzione quello che si sta
dicendo.
«Non è soltanto assurdo, è pure pericoloso. Avete letto Il libro degli
spiriti?».
«Perché dovremmo perdere tempo con quelle fandonie?».
«Per poter criticare bisogna informarsi. Io l’ho letto, e vi assicuro che
certe affermazioni feriscono profondamente le mie più intime credenze
cristiane».
«Che te ne fai delle parole di un uomo che sostiene di comunicare con i
defunti?».
«Osa dire che inferno e paradiso non esistono. Minimizza l’interruzione
di gravidanza sostenendo che un feto è privo di anima!».
«Blasfemo!».
«Pensieri del genere meriterebbero l’impiccagione!».
«Come si chiama l’uomo di cui parlate?».
Eugénie si è alzata dalla poltrona. Un cameriere si avvicina per
prenderle la tazzina vuota che ha in mano. Gli uomini si sono voltati e la
guardano, sorpresi di sentir parlare la giovane che fino a quel momento
non aveva aperto bocca. Théophile si irrigidisce: la sorella è imprevedibile
e i suoi interventi non sono mai innocui.
In piedi dietro un divano, col sigaro in mano, Fochon accenna un
sorriso.
«La ragazza dalle penne d’oca finalmente parla. Perché lo chiedi? Non
sarai una spiritista, spero!».
«Mi dite come si chiama, per piacere?».
«Allan Kardec. Perché? Ti interessa?».
«Lo demolite con un tale ardore! Un uomo che suscita così tante
passioni deve pur aver visto giusto da qualche parte».
«O essersi grossolanamente sbagliato».
«Giudicherò io stessa».
Théophile si fa strada tra gli ospiti, si avvicina a Eugénie, le prende il
braccio e parla sottovoce.
«Ti consiglio di andartene, se non vuoi farti crocifiggere sul posto».
Lo sguardo del fratello è più preoccupato che autoritario. Eugénie si
accorge di essere scrutata con disapprovazione dalla testa ai piedi. Fa un
cenno con il capo al fratello e saluta i presenti. Per la seconda volta in due
giorni esce da una stanza in un silenzio di piombo.
3
22 febbraio 1885

È
bella la neve. Mi piacerebbe andare nel parco».
Con la spalla contro il vetro, malinconica, Louise struscia la suola sul
pavimento. Ha il broncio e le braccia conserte. Dall’altra parte della
finestra uno strato di neve perfettamente piatto copre il prato del parco.
Quando nevica tanto le alienate hanno il divieto di uscire. I vestiti a
disposizione non sono abbastanza caldi e i corpi sono troppo fragili, si
prenderebbero subito la polmonite. Inoltre, permettere loro di divertirsi
sulla neve rischierebbe di eccitarle, così ogni volta che il suolo si imbianca
i loro spostamenti sono circoscritti al dormitorio. Ciondolano, parlano con
chi è disponibile ad ascoltare, si muovono senza brio, giocano a carte
senza averne davvero voglia, si specchiano nel vetro delle finestre o
intrecciano i capelli delle altre, il tutto in una noia mortale. Fin da quando
si svegliano, la prospettiva di dover attraversare un’intera giornata le
opprime nella mente e nel corpo. L’assenza di orologi fa di ogni giorno un
momento sospeso e interminabile. Tra quelle pareti in cui aspettano di
essere viste da un medico il nemico fondamentale è il tempo, perché fa
sgorgare pensieri rimossi, smuove ricordi, solleva angosce, richiama
rimpianti, e quel tempo che non sanno se finirà mai è più temuto del male
di cui soffrono.
«Smettila di lamentarti, Louise, e vieni a sederti con noi».
Thérèse, sul suo letto, sta sferruzzando uno scialle circondata da occhi
curiosi. È una donna grossa e rugosa, con le mani un po’ ritorte che
lavorano instancabilmente a maglia. Le altre indossano le sue creazioni
con piacere e fierezza, come fosse l’unico segno di interesse e affetto che
viene loro rivolto da molto tempo.
Louise fa spallucce.
«Preferisco restare alla finestra».
«Ti fa male guardare fuori».
«Non è vero, mi sembra di avere il parco tutto per me».
Nel vano della porta appare una figura maschile. Immobile, il giovane
infermiere fa scorrere lo sguardo sul dormitorio e vede Louise. Anche lei
lo vede, allora scioglie le braccia, si raddrizza e trattiene un sorriso. Lui le
fa un cenno con la testa e scompare. Louise dà un’occhiata intorno a sé,
incrocia lo sguardo di disapprovazione di Thérèse, si volta ed esce dal
dormitorio.
 
La stanza è vuota. Le persiane sono chiuse. Louise si chiude la porta alle
spalle con cautela. Il giovane la sta aspettando in piedi nella penombra.
«Jules...».
L’adolescente si getta nelle sue braccia. Il sangue le pulsa nelle tempie.
L’uomo le accarezza i capelli e la nuca. Louise è percorsa da un brivido.
«Dove sei stato in questi giorni? Ti aspettavo».
«Ho avuto molto lavoro. Anche adesso devo andare a una lezione, non
posso trattenermi a lungo».
«Oh no».
«Devi avere pazienza, Louise, presto staremo sempre insieme».
L’infermiere prende il viso della ragazza tra le mani, le accarezza le
guance con i pollici.
«Fatti baciare, Louise».
«No, Jules...».
«Mi farebbe piacere. Mi rimarrebbe il sapore del tuo bacio per tutto il
giorno».
Louise non ha il tempo di rispondere, l’uomo piega la testa e posa le
labbra su quelle della ragazza. Sente in lei una reticenza, tuttavia
continua, perché per far cedere bisogna forzare. I suoi baffi le accarezzano
le labbra carnose. Non contento del bacio rubato fa scendere la mano e le
prende un seno. Louise lo respinge con un gesto brusco e indietreggia. È
scossa da tremiti. Non si regge più sulle gambe, fa due passi e va a sedersi
sul bordo del letto. Jules si avvicina con aria indifferente e si inginocchia
di fronte a lei.
«Non fare così, tesoro. Ti amo, lo sai».
Louise non lo ascolta. Ha lo sguardo fisso. Quelle che sente sul suo corpo
sono le mani dello zio.
 
Tutto è cominciato con l’incendio in rue de Belleville. Louise aveva
appena compiuto quattordici anni. Dormiva nella portineria con i genitori
quando al pianterreno si era scatenato il fuoco. Il calore delle fiamme
aveva svegliato tutti. Ancora insonnolita, aveva sentito le braccia del
padre sollevarla per farla uscire dalla finestra. Alcuni vicini l’avevano
recuperata sul marciapiede. Le girava la testa, respirava a fatica. Era
svenuta e aveva ripreso conoscenza in casa della zia. «Siamo noi i tuoi
genitori, adesso». La ragazza non aveva pianto. Immaginava che la morte
fosse una cosa passeggera, che i genitori sarebbero guariti dalle ferite e
presto sarebbero venuti a prenderla. Non c’era motivo di essere tristi,
bastava aspettarli.
Viveva ormai con la zia e il marito di lei in un alloggio con soppalco
dietro le Buttes-Chaumont. Poco tempo dopo la tragedia le si erano
sviluppati seno e fianchi. Nel giro di un mese la bambina, che tale non era
più, non riusciva più a entrare nell’unico vestito che possedeva. La zia era
stata costretta a disfare e ricucire uno dei suoi vestiti. «D’estate metti
questo, poi penseremo a qualcosa per l’inverno». La zia era lavandaia, il
marito operaio. Lo zio non rivolgeva mai la parola alla nipote, ma da
quando si era fatta formosa Louise aveva notato che i suoi occhi scuri la
osservavano con insistenza. Vi percepiva un sentimento che non
conosceva, ma che intuiva ancora troppo adulto per lei, fuori dalla propria
portata, e quell’attenzione fuori luogo che non aveva cercato le causava
un profondo imbarazzo. Le sue rotondità la mettevano a disagio. Non
aveva più controllo sul corpo né sulla maniera in cui veniva percepito, sia
per strada che a casa. Lo zio non diceva niente, non la toccava, ma la notte
Louise aveva difficoltà ad addormentarsi, come se, basandosi su un istinto
puramente femminile, temesse un’azione da parte sua. Stesa su un
materasso sotto il tetto, si svegliava al minimo scricchiolio degli scalini di
legno che salivano da lei.
 
Era arrivata l’estate. Louise andava in giro con altri adolescenti del
quartiere. Ogni giorno il gruppetto ammazzava il tempo come poteva:
correvano sulle discese di Belleville, agguantavano e si nascondevano in
tasca dolciumi da drogheria, tiravano i sassi a topi e piccioni e passavano i
pomeriggi all’ombra degli alberi tra le collinette del parco delle Buttes. Un
giorno d’agosto in cui il caldo era opprimente e il selciato sembrava
squagliarsi gli amici avevano deciso di andare a rinfrescarsi al laghetto.
Altra gente aveva avuto la stessa idea, e il verde parco si era ritrovato ad
accogliere tutti gli abitanti del quartiere alla ricerca di ombra e frescura.
In un angolo appartato gli adolescenti si erano tolti i vestiti ed erano
entrati in acqua con addosso soltanto la biancheria intima. Il bagno era
stato allegro, aveva fatto dimenticare il caldo, la noia dell’estate e
l’incertezza dell’età.
Erano usciti dall’acqua solo a fine pomeriggio. Tornati a riva avevano
visto lo zio di Louise nascosto dietro un albero. Da quanto tempo era lì a
guardarli? Non lo sapevano. La grossa e umida mano dell’uomo aveva
afferrato Louise per un braccio e l’aveva scossa con violenza
rimproverandole la sua mancanza di pudore. Sotto gli occhi spaventati
degli amici l’aveva trascinata fino a casa. La ragazza aveva il vestito poco
abbottonato, i capelli neri bagnati le ricadevano sui seni che si
intravedevano sotto la leggera sottoveste. Varcata la porta, l’uomo l’aveva
gettata sul letto in cui dormiva con la moglie.
«È così che ti fai vedere in pubblico? Ora vedrai. Ti meriti una lezione».
Riversa sul letto, Louise l’aveva guardato togliersi la cintura pensando
che volesse prenderla a cinghiate. Le avrebbe fatto male, ma sarebbero
state ferite superficiali. L’uomo aveva lasciato cadere a terra la cintura.
«No, zio! No!» aveva urlato Louise.
Si era alzata, e lui l’aveva presa a schiaffi facendola ricadere sul letto. Si
era steso su di lei per impedirle di muoversi, le aveva strappato il vestito e
allargato le gambe, poi si era sbottonato i pantaloni.
Stava ancora forzando dentro di lei, e Louise stava ancora urlando,
quando la zia era rincasata e aveva scoperto la scena.
«Aiuto, zia! Aiuto!» aveva invocato Louise tendendo una mano verso di
lei.
L’uomo si era subito rialzato mentre la moglie si precipitava su di lui.
«Schifoso! Mostro! Vattene, non farti più vedere per stasera!».
Lo zio si era rimesso in fretta pantaloni e camicia e aveva imboccato la
porta. Nel sollievo della liberazione Louise non si era accorta che lenzuola
e vagina erano imbrattate del rosso vivo del sangue. La zia era andata da
lei e le aveva dato uno schiaffo.
«E tu, puttanella! Ecco che succede a forza di provocarlo! Guarda, mi hai
pure macchiato le lenzuola. Rivestiti e vai subito a lavarle!».
Louise l’aveva guardata senza capire. C’era voluto un altro schiaffo per
farla rivestire e mandarla a fare il bucato.
 
Lo zio era tornato l’indomani e la quotidianità aveva ripreso a scorrere
come se l’episodio fosse stato dimenticato. Louise stava ormai stesa sul
soppalco, scossa da convulsioni che non riusciva a controllare. Ogni volta
che la zia le ordinava di scendere a lavare i piatti o fare le faccende si
costringeva ad andare da lei piegata in due e, arrivata in basso, vomitava
subito. La zia si metteva a urlare e Louise sveniva. Quattro o cinque giorni
erano trascorsi in quel modo. Una sera, a forza di sentire le urla che
agitavano il piccolo stabile, il vicino del piano di sotto era andato a
bussare alla loro porta. La zia aveva aperto pazza di rabbia, e il vicino
aveva visto Louise a terra con la faccia in una chiazza di vomito e il corpo
in preda a violente scosse che le facevano dondolare la testa all’indietro e i
piedi in avanti. Aveva rialzato la ragazza e insieme alla moglie l’aveva
portata alla Salpêtrière. Non ne era più uscita. Succedeva tre anni prima.
In seguito, le rare volte in cui aveva parlato dell’accaduto l’aveva
riassunto così: «Mi ha fatto più male essere sgridata dalla zia che
violentata dallo zio».
Nell’ala delle alienate era la paziente con gli attacchi più frequenti e più
gravi. Presentava gli stessi sintomi di Augustine, un’ex internata che
Charcot aveva fatto conoscere al pubblico di Parigi durante le sue lezioni
aperte. Quasi ogni settimana il suo corpo era preda di convulsioni e
contrazioni, si contorceva, si inarcava, perdeva i sensi; altre volte, seduta
sul letto, assumeva un’espressione estatica, alzava le braccia al cielo e si
rivolgeva a Dio o a un amante immaginario. L’interesse che Charcot aveva
per lei e il successo delle lezioni pubbliche di cui ogni settimana Louise era
l’attrazione l’avevano portata a pensare di essere la nuova Augustine, e si
cullava in quell’idea che rendeva il suo internamento e i suoi ricordi meno
dolorosi. Poi, da tre mesi, c’era Jules. Il giovane infermiere la amava, lei
amava lui, l’avrebbe sposata e tirata fuori da lì. Louise non avrebbe avuto
più niente da temere, sarebbe guarita e avrebbe finalmente conosciuto la
felicità.
 
Nel dormitorio Geneviève sta camminando lungo i letti accuratamente
allineati per controllare che tutto sia tranquillo e in ordine quando vede
Louise rientrare nella stanza. Se avesse un minimo di empatia si
accorgerebbe dello sguardo turbato dell’adolescente e delle sue mani
strette a pugno.
«Louise! Dov’eri?».
«Avevo lasciato la spazzola in refettorio, sono andata a prenderla».
«Chi ti ha autorizzato ad andare in giro da sola?».
«Io, Geneviève, non si arrabbi».
Geneviève si volta verso Thérèse, che ha smesso di lavorare a maglia e
la guarda con aria placida. La soprintendente ha un’espressione di
disappunto.
«Le ricordo, Thérèse, che lei qui è un’internata, non un’interna».
«Conosco il regolamento meglio di tutte le sue giovani reclute. Louise
sarà mancata meno di tre minuti. Vero, Louise?».
«Sì».
Thérèse è l’unica che l’Anziana non può contraddire. Le due donne si
frequentano tra quelle mura d’ospedale da vent’anni. Non che per questo
siano entrate in confidenza – idea inconcepibile per Geneviève – ma la
vicinanza alla quale le obbligano quei luoghi e le prove morali a cui le
sottopongono hanno fatto sì che tra l’infermiera e l’ex puttana si
sviluppasse un rispetto reciproco, un’intesa cordiale di cui non parlano,
ma che non ignorano. Ognuna ha trovato il proprio posto e interpreta il
proprio ruolo con dignità: Thérèse madre adottiva delle alienate,
Geneviève madre insegnante delle infermiere. Tra loro si svolge spesso
uno scambio di cortesie: la Magliaia tranquillizza o allerta Geneviève su
una particolare internata, l’Anziana informa Thérèse sui progressi di
Charcot e su quello che succede a Parigi. D’altronde Thérèse è l’unica con
cui Geneviève si sia ritrovata a parlare di argomenti che esulano dalla
Salpêtrière. All’ombra di un albero in un giorno d’estate o in un angolo del
dormitorio durante un pomeriggio piovoso, l’alienata e la soprintendente
hanno parlato con pudore degli uomini che non frequentano, dei figli che
non hanno, del Dio in cui non credono e della morte che non temono.
 
Louise va a sedersi accanto a Thérèse. Tiene gli occhi fissi a terra.
«Grazie, Thérèse».
«Non mi piace che tu abbia una tresca con quell’infermiere. Non ha
occhi buoni».
«Ha detto che mi sposa».
«Ti ha chiesto in moglie?».
«Lo farà il mese prossimo, al ballo di mezza quaresima».
«Staremo a vedere».
«Davanti a tutte le ragazze e tutti gli ospiti».
«E tu credi a quello che dice un uomo? Povera Louise... Gli uomini sono
bravissimi a dire le cose che servono per ottenere quello che vogliono».
«Mi ama, Thérèse».
«Nessuno ama un’alienata».
«Sei invidiosa perché sto per diventare la moglie di un futuro medico».
Louise si alza, ha le guance rosse, le batte il cuore. «Uscirò da qui, vivrò a
Parigi, avrò figli, e tu no!».
«I sogni sono pericolosi, Louise, soprattutto quando dipendono da
qualcun altro».
Louise scuote la testa per scacciare quelle parole. Gira i tacchi, va a
mettersi a letto e si tira la coperta sulla faccia.
4
25 febbraio 1885

B
ussano alla porta. Seduta sul letto, con i capelli lisci che le ricadono su un
lato del petto, Eugénie chiude il libro e lo nasconde sotto il cuscino.
«Avanti».
Il domestico apre la porta.
«Il suo caffè, signorina».
«Grazie, Louis, mettilo lì».
L’uomo avanza a passi felpati sul tappeto e posa il piccolo vassoio
d’argento sul comodino, accanto alla lampada a olio. Un filo di fumo esce
dalla caffettiera, l’odore fragrante e vellutato del caffè caldo profuma la
camera della giovane.
«Serve altro?».
«Vai pure a dormire, Louis».
«Cerchi di dormire un po’ anche lei, signorina».
Il domestico esce e chiude la porta senza rumore. La casa è immersa nel
sonno. Eugénie versa il caffè nella tazza e riprende il libro da sotto il
cuscino. Da quattro giorni aspetta che la famiglia e la città dormano per
leggere il testo che la sta sconvolgendo. Il pomeriggio in salotto o in un
caffè pieno di gente non è possibile leggere con tranquillità. Basterebbe la
copertina del libro a suscitare il panico della madre e la disapprovazione
degli sconosciuti.
 
Il giorno dopo il pietoso salotto di discussione a cui aveva assistito, e di
cui per fortuna il padre non aveva saputo niente, Eugénie era andata alla
ricerca del libro dell’autore il cui nome occupava la sua mente da quando
il giovane Fochon l’aveva pronunciato. Dopo alcune visite infruttuose
nelle librerie del quartiere un libraio le aveva detto che a Parigi poteva
trovare quello che cercava in un solo posto: da Leymarie, al numero 42 di
rue Saint-Jacques.
Preferendo non chiedere a Louis di accompagnarla in fiacre, aveva
deciso di sfidare le intemperie e andarci da sola. Gli stivaletti calpestavano
il tappeto di neve che ricopriva i marciapiedi. Man mano che avanzava,
l’andatura vivace e il freddo le pungevano le guance facendole arrossare.
Il vento gelido che circolava tra i boulevard la costringeva a camminare a
testa bassa. Aveva seguito le indicazioni del libraio: dopo aver costeggiato
la chiesa della Madeleine aveva attraversato place de la Concorde e risalito
boulevard Saint-Germain in direzione della Sorbona. La città era bianca, la
Senna grigia. A cassetta delle carrozze rallentate dalla strada innevata i
cocchieri tenevano mezza faccia sprofondata nel colletto del cappotto. Sui
lungosenna i venditori di libri usati sfidavano il freddo dandosi
regolarmente il cambio nel caffè dall’altra parte della strada. Eugénie
camminava più svelta che poteva. Le sue mani inguantate tenevano i
lembi del pesante cappotto il più possibile stretti al corpo. Il bustino la
infastidiva terribilmente. Se avesse saputo di dover percorrere una
distanza tanto lunga l’avrebbe lasciato nell’armadio. Quell’indumento,
anziché consentire alle donne di muoversi liberamente, aveva l’unico
chiaro intento di immobilizzarle in una postura che dovrebbe farle
apparire desiderabili! Come se non bastassero le pastoie intellettuali, ci
volevano pure i limiti fisici. Date le barriere che gli uomini imponevano,
veniva da pensare che, più che disprezzare le donne, le temessero.
 
Varcò la porta della piccola libreria. Il calore dell’ambiente la investì
dando sollievo alle membra intorpidite dal freddo. Aveva le guance
bollenti. In fondo al negozio due uomini erano chini su fasci di carta. Uno
dimostrava una quarantina d’anni, probabilmente era il libraio. L’altro era
più vecchio, elegante, stempiato, con una folta barba bianca. Entrambi la
salutarono.
A prima vista la libreria non era diversa dalle altre: sugli scaffali
trovavano posto sia libri antichi e rari che pubblicazioni recenti. Il
connubio tra la vecchia carta ingiallita dal tempo e il legno dei ripiani
inscurito dagli anni conferiva al luogo un profumo che Eugénie adorava.
Solo osservando i titoli da vicino si capiva che non era una libreria come le
altre: anziché i consueti romanzi, raccolte di poesia o saggi, gli argomenti
trattati erano spiritismo, scienze occulte, astrologia, esoterismo,
misticismo e spiritualità, opere di autori che avevano spinto la loro ricerca
altrove, lontano, al di là di confini in cui pochi osano avventurarsi. C’era
qualcosa che intimidiva a mettere piede in quel mondo, era come uscire
dai tracciati tradizionali per entrare in un universo distinto, abbondante e
seducente, un universo nascosto e passato sotto silenzio, ma che tuttavia
esisteva eccome. La verità era che quella libreria aveva l’aspetto proibito e
affascinante delle realtà che non vengono menzionate.
«Possiamo aiutarla, signorina?».
I due uomini la osservavano dal fondo del negozio.
«Sto cercando Il libro degli spiriti».
«Le copie sono qui».
Eugénie si era avvicinata. Sotto le folte sopracciglia bianche, il vecchio
la guardava con curiosità e simpatia strizzando gli occhi.
«È la prima volta che legge questo autore?».
«Sì».
«Gliel’ha raccomandato qualcuno?».
«A dire il vero no. Mi è capitato di sentire dei giovani benpensanti che
lo demolivano e mi è venuta voglia di leggerlo».
«Un aneddoto che sarebbe piaciuto al mio amico».
Eugénie l’aveva guardato senza capire. L’uomo si era portato la mano al
petto.
«Mi chiamo Pierre-Gaëtan Leymarie. Allan Kardec era mio amico».
In quel momento l’editore aveva notato la macchiolina scura nell’iride
di Eugénie. In un primo momento era apparso sorpreso, poi aveva sorriso.
«Credo che questo libro potrà illuminarla su molte cose, signorina».
Eugénie era uscita turbata. Il luogo era strano, come se il contenuto dei
libri depositasse tra le pareti un’energia particolare. Inoltre i due uomini
non erano come quelli che era abituata a incontrare a Parigi, avevano un
altro sguardo, uno sguardo niente affatto ostile o fanatico, ma benevolo e
attento. Sembravano sapere cose che gli altri ignoravano. Del resto
l’editore l’aveva fissata con attenzione, come se in lei avesse riconosciuto
qualcosa, anche se Eugénie non sapeva cosa. Troppo scombussolata, aveva
deciso di non pensarci.
Aveva infilato il libro sotto il cappotto e rifatto la strada in senso
inverso.
 
È notte fonda. L’orologio della camera segna le tre. La caffettiera è
vuota, rimane solo un po’ di caffè ormai freddo sul fondo della tazza.
Eugénie chiude il libro che ha appena finito di leggere e lo tiene fra le
mani. Resta immobile. Nella stanza silenziosa non sente il ticchettio
dell’orologio, non sente neanche la pelle d’oca che le fa prudere le braccia
nude e fredde. È strano il momento in cui le certezze più intime e il mondo
come lo si è pensato finora vacillano, il momento in cui nuove
informazioni ti mettono al corrente di una nuova realtà. A Eugénie sembra
di aver sempre guardato nella direzione sbagliata, e che finalmente
qualcuno la stia facendo guardare altrove, proprio dove avrebbe sempre
dovuto guardare. Ripensa alle parole dell’editore di pochi giorni prima:
«Questo libro potrà illuminarla su molte cose, signorina». Ripensa alle
parole del nonno, che le aveva detto di non aver paura di ciò che vedeva.
Ma come si fa a non aver paura di una cosa così insensata, così assurda?
Non aveva mai cercato un’altra spiegazione: le sue visioni non potevano
che essere frutto di un disturbo interno, vedere i defunti è un chiaro
segnale di pazzia, sono sintomi che non ti portano dal medico, ma alla
Salpêtrière, parlarne con chiunque significa essere immediatamente
internata. Eugénie guarda il libro che ha tra le mani. Ha dovuto aspettare
sette anni perché quelle pagine la rivelassero a se stessa, sette anni per
non sentirsi anormale in mezzo alla gente. Per lei tutte quelle frasi hanno
senso: l’anima sopravvive alla morte del corpo, il nulla e il paradiso non
esistono, i disincarnati vegliano e guidano gli uomini come suo nonno
veglia su di lei, e certe persone, come lei, hanno la facoltà di vedere e
sentire gli spiriti. Certo, nessun libro e nessuna dottrina possono
pretendere di detenere la verità assoluta. Ci sono solo tentativi di
spiegazioni e scelte fatte per accettare o meno quelle spiegazioni, poiché
per natura l’uomo ha bisogno di fatti concreti.
I concetti cristiani non l’hanno mai convinta: non che negasse la
possibilità dell’esistenza di Dio, ma preferiva credere in se stessa che in
un’entità astratta. Aveva difficoltà a immaginare un paradiso e un inferno
eterni: la vita è già una condanna, sembra assurdo e ingiusto che la
condanna si protragga dopo la morte. E quindi sì, non le pare impossibile
che gli spiriti esistano e che gli uomini siano loro intimamente legati, può
concepire che la ragione dell’esistenza sulla terra sia evolversi
moralmente, e il fatto che qualcosa continui a esistere dopo la fine della
vita corporea è un pensiero che la tranquillizza e non le fa più temere né
la vita né la morte. Mai le sue convinzioni sono state messe tanto
sottosopra, e mai Eugénie ne ha provato un così profondo e sereno
sollievo.
Finalmente sa chi è.
 
Nei giorni successivi è pervasa da una calma interiore, tanto che in
famiglia si stupiscono di quanto sia tranquilla. I pasti si svolgono senza
turbolenze, le osservazioni paterne vengono accolte con un sorriso.
Eugénie non si è mai comportata così bene, talmente bene da far pensare
agli altri, ingenuamente, che si sia finalmente decisa a maturare e trovarsi
un buon partito. Eppure il segreto che si porta dentro non ha fatto che
convincerla della decisione già presa. Sa che ormai non ha più niente da
fare in quella casa, che deve avvicinarsi a persone che condividono le sue
idee. Il suo posto è con loro, la sua via deve tracciarsi nel solco di quella
filosofia. Senza lasciar trapelare niente, il cambiamento che si sta
operando in lei la spinge a riflettere sul prosieguo e sui successivi passi da
fare.
In primavera non sarà più lì.
 
«Stai facendo la brava da vari giorni».
La nonna è stesa sul letto con la testa sul cuscino. Eugénie adagia la
coperta sul fragile corpo.
«Dovresti essere contenta. Papà non è più di malumore per colpa mia».
«Sembri pensierosa. Hai conosciuto un ragazzo?».
«Grazie a Dio non sono i ragazzi a rendermi pensierosa. Vuoi una tisana
prima di dormire?».
«No, cara, grazie. Siediti».
Eugénie si siede sul bordo del letto. La nonna le prende la mano. La luce
diffusa dalla lampada a olio illumina le loro figure e i mobili della camera
creando giochi d’ombre e chiaroscuri.
«Vedo che qualcosa ti preoccupa. Con me puoi parlare, lo sai».
«Non sono preoccupata, tutt’altro».
Eugénie sorride. Negli ultimi giorni si è chiesta se confidarle il suo
segreto. La nonna è con tutta probabilità la meno reticente ad ascoltarla e
rispetterebbe le sue parole senza prenderla per pazza. L’entusiasmo da cui
è animata la tenta: non le dispiacerebbe rivelare ciò che porta in sé,
condividere ciò che ha visto e sentito fino a quel momento, il silenzio le
peserebbe meno se avesse qualcuno a cui esprimere il suo turbamento e la
sua gioia. Tuttavia si trattiene. Basterebbe che la madre passasse davanti
alla porta nel momento delle confidenze e la sentisse, basterebbe che la
nonna le chiedesse di farle leggere Il libro degli spiriti e poi lo lasciasse
distrattamente in giro. Eugénie non si fida di quella casa. Dirà sì tutto alla
nonna, ma solo quando non abiterà più lì.
Nella stanza si sente un profumo. Seduta accanto alla nonna, Eugénie ne
riconosce la fragranza: è un profumo che sa di legno, con una venatura di
fico, un’essenza particolare che sentiva sulla camicia quando da piccola il
nonno la prendeva in braccio. Il suo respiro rallenta. Una stanchezza che
lei ben conosce le pervade poco a poco le membra, a ogni espirazione
perde un po’ di energia. Sfinita dalla pesantezza che si abbatte sul suo
corpo chiude gli occhi. Quando li riapre il nonno è in piedi davanti a lei
con la schiena contro la porta chiusa. Lo vede perfettamente, con la stessa
chiarezza con cui vede la nonna accanto a sé, che dal canto suo la guarda
con aria stupita. Riconosce i capelli bianchi pettinati all’indietro, le rughe
che gli scavano guance e fronte, i baffi bianchissimi di cui arrotolava le
estremità rigirandole tra indice e pollice, il colletto della camicia ornato
da un foulard, il gilet di cachemire grigiazzurro abbinato ai pantaloni di
chiné che vestono le sue lunghe gambe e la consueta redingote rosso
porpora. È immobile.
«Eugénie?».
Non sente la voce della nonna, ma sente nella testa quella del nonno.
«Il pendente non è stato rubato. È nel cassettone. Sotto il cassetto basso, sulla
destra. Diglielo».
Sentendosi scuotere, Eugénie si volta verso la nonna, che si è tirata a
sedere e le ha preso le braccia con tutte e due le gracili mani.
«Piccola, ma che hai? Sembra che Dio ti stia parlando».
«Il pendente».
«Scusa?».
«Il tuo pendente, nonna».
La ragazza si alza, prende la lampada a olio e va verso il massiccio
cassettone di palissandro. Si inginocchia e toglie uno a uno i sei pesanti
cassetti che posa con attenzione sul pavimento. La nonna si è alzata e
messa uno scialle sulle spalle. Non osa fare un gesto, guarda la nipote darsi
da fare in ginocchio di fronte al mobile.
«Eugénie, mi spieghi che succede? Perché hai nominato il pendente?».
Tolti tutti i cassetti, Eugénie tasta il fondo, sulla destra. Da principio
non sente niente, poi il suo dito trova un buco, un buco non abbastanza
grande da infilarci la mano, ma quanto basta perché un oggettino vi possa
cadere. Tasta la tavola di fondo vecchia e rovinata, batte qualche colpetto:
suona a vuoto.
«È sotto. Dì a Louis di portare qui il fil di ferro».
«Ma cara...».
«Ti prego, nonna, fidati».
L’anziana donna la guarda un attimo, turbata, poi esce dalla stanza.
Eugénie non vede più il nonno, ma sa che è ancora lì, il suo profumo si è
avvicinato al cassettone. È accanto a lei.
«A lei puoi dirlo, Eugénie».
Chiude gli occhi. Il corpo le pesa. Sente la nonna e Louis tornare con
discrezione in camera e chiudere la porta senza fare rumore. Louis non fa
domande, porge il fil di ferro a Eugénie, che ne srotola un pezzo, piega a
uncino un’estremità e lo infila nel buco. Sotto la prima tavola ce n’è
un’altra più grossa, e tra le due uno spazio che lei sonda delicatamente col
gancio centimetro per centimetro.
A un certo punto tocca qualcosa. Fa una cauta pressione sul fil di ferro
per piegarlo in orizzontale e sente la punta grattare contro una catenina.
Col cuore che le batte tenta di agganciare ciò che tocca l’uncino ruotando
l’attrezzo di fortuna intorno a quello che sa essere il gioiello. Dopo varie
manovre tira su il fil di ferro grigio sulla punta del quale è agganciato
qualcosa e lo porta alla luce: quella che mostra alla nonna, avvolta intorno
al gancio, è la catenina d’oro con il pendente di vermeil. L’anziana, colta
da un’emozione che non provava dalla morte del marito, si porta le mani
alla bocca per trattenere un singhiozzo.
 
Il giorno in cui i nonni si erano conosciuti lui, che aveva diciott’anni,
aveva giurato a lei, che ne aveva sedici, di sposarla. Prima ancora di darle
l’anello di fidanzamento aveva rinforzato la promessa regalandole un
gioiello di famiglia risalente a parecchie generazioni prima, un pendente
ovale di vermeil con il bordo ornato da perle incastonate su un fondo blu
notte. Al centro era raffigurata una miniatura di donna che attingeva
acqua dal fiume con un vaso. Dall’altra parte c’era un piccolo sportellino
di vetro dietro il quale lui aveva messo una ciocca di capelli biondi della
futura moglie.
La nonna se l’era allacciato intorno al collo ogni mattina della sua vita,
dal giorno in cui gliel’aveva regalato a quando si erano sposati, dalla
nascita del loro unico figlio a quella dei nipoti. Sennonché alla Eugénie di
pochi mesi piaceva afferrare e tirare a sé il pendente con le sue manine
curiose, e per timore che la bambina finisse per romperlo la nonna l’aveva
messo nell’ultimo cassetto del comò proponendosi di riprenderlo quando
Eugénie fosse cresciuta un po’. La famiglia viveva nello stesso
appartamento di boulevard Haussmann. Il marito e il figlio erano notai, lei
e la nuora si occupavano dei bambini. Un pomeriggio in cui le due donne
erano andate al parco Monceau con Théophile piccolo ed Eugénie in fasce,
il cameriere da poco assunto ne aveva approfittato per rubare
dall’appartamento borghese tutto quello che era riuscito a trovare,
argenteria, orologi, gioielli, tutto ciò che brillasse un po’. Tornate a casa a
fine pomeriggio, le donne sgomente avevano scoperto il furto. Il pendente
nel cassetto del comò era sparito. Pensando che il ladro l’avesse portato
via insieme al resto la nonna aveva pianto per una settimana. In seguito,
negli anni, aveva ricordato spesso l’amato gioiello, e il dispiacere per la
sua scomparsa era cresciuto quando il marito era passato a miglior vita. Il
pendente non era soltanto un’opera di oreficeria, era soprattutto il primo
pegno d’amore dell’uomo con cui aveva condiviso la vita.
Eppure, ignorato da tutti, l’oggetto era lì, tra le due tavole inferiori del
cassettone di camera sua. Diciannove anni prima, il saccheggio del
cameriere era stato frenetico: temendo che qualcuno potesse tornare da
un momento all’altro l’uomo aveva aperto mobili e cassetti con
precipitazione arraffando quello che poteva, correndo da una stanza
all’altra e mettendo il bottino in un sacco di tela. In camera della nonna
aveva aperto il cassetto basso con una tale violenza che il pendente e era
schizzato via ed era finito nel buco della tavola al disotto, dove da allora
era rimasto.
 
La città dorme. Nella camera Louis aiuta Eugénie a rimettere a posto i
massicci cassetti. Non parlano. Seduta sul letto, la nonna guarda e
accarezza il pendente.
Sistemato l’ultimo cassetto, Louis ed Eugénie si rialzano.
«Grazie, Louis».
«Buonanotte, signore».
L’uomo si ritira. Louis è arrivato a casa Cléry qualche giorno dopo il
furto. C’era un clima di diffidenza, e per mesi la famiglia aveva tenuto
d’occhio ogni minimo gesto del nuovo assunto nel timore che anche lui
tradisse la loro fiducia. I mesi erano diventati anni e Louis era rimasto.
Discreto e fedele, mai uno sguardo o una parola di troppo, era di quei
domestici che confortano i borghesi nell’idea che alcuni uomini siano fatti
per servirne altri.
Eugénie va a sedersi accanto alla nonna. Nella camera il profumo del
nonno è svanito. Potrebbe pensare che se ne sia andato, se non si sentisse
ancora il corpo pesante. Di solito appena le apparizioni se ne vanno
Eugénie ritrova la vitalità, come se le restituissero l’energia che si erano
fatte prestare, invece ha ancora la stessa pesantezza sulle spalle e rimane
seduta appoggiandosi con entrambe le mani al bordo del letto.
Nelle altre camere tutti stanno dormendo. Per fortuna il trambusto non
ha svegliato il resto della casa.
Con gli occhi fissi sul pendente l’anziana fa un profondo respiro e si
decide a parlare.
«Come lo sapevi?».
«Ho avuto un presentimento».
«Smettila di dire bugie, Eugénie».
Eugénie si stupisce nel vedere quel volto arrabbiato che la scruta. È la
prima volta che la nonna la guarda con un’espressione che non sia di
dolcezza e benevolenza. In quel momento riconosce in lei il padre. Madre
e figlio hanno lo stesso sguardo di rimprovero, di una severità tale da
spezzarti sul posto.
«Sono anni che ti osservo. Non dico niente, ma vedo: tu guardi cose che
non ci sono. Ti immobilizzi come se qualcuno ti parlasse all’orecchio. L’hai
fatto di nuovo poco fa, ti sei bloccata. Poi di colpo hai rivoltato il
cassettone come un’invasata e hai ritrovato un gioiello che piango da
vent’anni. Non venirmi a dire che è solo un presentimento!».
«Non saprei cos’altro dirti».
«La verità. Tu custodisci un segreto. Sono l’unica in questa casa a
vederti davvero, non puoi ignorarlo».
Eugénie ha abbassato gli occhi. Le sue mani stringono e tormentano la
gonna di crespo di lana color malva. Sente tornare il profumo, come se il
nonno si fosse assentato un attimo per dare tempo all’emozione di
placarsi e tornare in camera quando la conversazione lo esige. Eccolo
seduto alla sua destra. Ne percepisce la figura magra e slanciata, sente
quasi la spalla toccarle la sua, vede le gambe piegate sul bordo del letto e
le lunghe mani rugose posate sulle ginocchia. Non osa voltarsi a
guardarlo. Mai è stato così vicino a lei.
«Dille che veglio su di lei».
Eugénie scuote la testa indecisa e contrae con più forza le mani sulla
stoffa della gonna. Ha paura di ciò che seguirà, come se si accingesse a
sollevare il coperchio di qualcosa senza sapere bene la profondità che
troverà al disotto. Non si vuole da lei una confidenza, ma una confessione.
La nonna esige da lei una sincerità che forse non è pronta ad ascoltare,
tuttavia non la lascerà uscire dalla stanza senza una dichiarazione. E
allora, dire il vero o inventare qualcosa? Spesso la verità non vale più della
bugia. D’altronde la scelta non è fra verità e menzogna, ma fra le loro
rispettive conseguenze. Nel suo caso, a Eugénie converrebbe mantenere il
silenzio e perdere la fiducia della nonna piuttosto che fare la rivelazione
sotto il tetto familiare sperando di non provocare una tempesta.
Ma è sfinita. Gli anni passati a respingere le visioni le pesano, e ciò che
ha imparato di recente è un sapere benedetto, ma anche ingombrante.
Quella sera il pendente ritrovato, la legittima insistenza della nonna e la
stanchezza hanno il sopravvento. Guarda l’anziana, e quando parla le si
solleva l’intero petto.
«È nonno».
«Che vuoi dire?».
«Ti sembrerà assurdo, mi rendo conto, ma nonno è qui, seduto alla mia
destra. Non lo sto immaginando, sento il suo profumo, lo vedo come vedo
te, lo sento parlare nella mia testa. È stato lui a dirmi del pendente. E poco
fa mi ha detto che veglia su di te».
L’anziana, colta da capogiro, sente la testa caderle all’indietro. Eugénie
la prende con entrambe le mani per farla tornare in sé e la guarda dritto
negli occhi.
«Volevi la verità, te l’ho detta. Vedo nonno da quando ho dodici anni.
Lui e altri defunti. Non ho mai osato parlarne per paura che papà mi
facesse internare. Stasera mi confido con te per l’amore e la fiducia che ti
porto, nonna. Non sbagliavi ad aver notato qualcosa in me. Tutte le volte
in cui mi hai sorpreso con uno sguardo diverso stavo vedendo qualcuno.
Non sono malata né pazza, visto che non sono l’unica a vederli. C’è altra
gente come me».
«Ma come... come lo sai... come può essere possibile?».
Senza lasciare le mani agitate della nonna, Eugénie si mette in
ginocchio di fronte a lei. I timori l’hanno abbandonata, ormai parla con la
sicurezza che le è propria, e man mano che si apre ritrova una speranza e
un ottimismo che la portano a sorridere.
«Ho da poco letto un libro meraviglioso, un libro che mi ha illuminato
su tutto: l’esistenza degli spiriti, che non è affatto una favola, la loro
presenza tra noi, l’esistenza di quelli che agiscono da intermediari e molte
altre cose... Non so perché Dio abbia voluto che sia così. È un segreto che
mi porto dentro da tanti anni. Quel libro mi ha rivelato a me stessa,
finalmente ho la sicurezza di non essere pazza. Tu mi credi, nonna?».
L’anziana è impietrita. Difficile capire se voglia scappare da quel che
sente o abbracciare la nipote. Quanto a Eugénie, alla confessione segue
l’imbarazzo. Quando diciamo la verità non sappiamo mai davvero se
abbiamo fatto bene a dirla. Sebbene sul momento sia un sollievo, l’onestà
si trasforma presto in rimpianto. Ce la prendiamo con noi stessi per
esserci confidati, lasciati trascinare dall’urgenza di parlare, aver riposto la
nostra fiducia in un altro, e quel rimpianto ci fa ripromettere di non farlo
più.
E invece, stupita, Eugénie vede la nonna piegarsi verso di lei e allargare
le braccia per accoglierla. Posa il viso bagnato di lacrime contro il suo.
«Nipote mia... Ho sempre saputo che avevi qualcosa di diverso dagli
altri».
 
Gli ultimi giorni di febbraio trascorrono senza turbolenze. Dopo quella
sera le due donne non hanno più riparlato di quello che è successo, come
se la loro conversazione appartenesse a quella notte e non dovesse più
essere citata per timore che prendesse davvero forma, che diventasse
concreta sia per l’una che per l’altra. Eugénie pensava che la confessione
l’avrebbe rasserenata, ma da quella sera ha una sensazione di disagio di
cui non riesce a disfarsi. Non se la spiega. Eppure niente è cambiato nella
nonna, né il suo comportamento né il suo sguardo. L’anziana si lascia ogni
sera rincalzare le coperte senza fare più domande. Eugénie è stupita da
quella mancanza di curiosità, si aspettava che la nonna avrebbe voluto
saperne di più sulle visite del marito, che forse avrebbe chiesto di parlarci
o quanto meno di sentire cosa avesse da dirle. Invece no. È di
un’indifferenza voluta, come se avesse paura di saperne di più su quel
mondo.
 
Arriva marzo, e i primi raggi di sole penetrano nella spaziosa sala da
pranzo. Il legno lucido dei mobili, i colori vividi delle tappezzerie e le
cornici dorate dei quadri sembrano riprendere vita con quella luce calda e
benvenuta. In città la neve si è quasi sciolta, ne è rimasto qualche
mucchietto sui prati dei parchi e lungo i controviali. Parigi sembra
alleggerita, e le facce dei parigini ritrovano l’allegria del cielo azzurro e
delle strade libere. Quella mattina perfino il notaio Cléry, in genere
solenne, ostenta un umore più lieve.
«Devo prendere delle cose a Meudon. Approfittiamo del bel tempo e
andiamoci tutti. Che ne dici, Théophile?».
«Certo...».
«E tu, Eugénie?».
Colta di sorpresa dalla domanda cordiale, Eugénie alza la testa dalla
tazza di caffè. La famiglia sta facendo colazione. La madre imburra una
fetta di pane in silenzio, la nonna beve un tè nero accompagnandolo con
un biscotto, il padre mangia un’omelette. Solo Théophile non tocca niente
di quello che c’è in tavola. Tiene gli occhi bassi sulla tazza del caffè ormai
freddo, le mani sulle gambe e la mascella contratta. Dalla finestra alle sue
spalle entra un raggio di sole che gli infiamma i riccioli rossi.
Eugénie interroga il padre con lo sguardo. Non è nelle abitudini del
capofamiglia includere la figlia in attività esterne, in genere riservate a
Théophile. Eppure, a capotavola, il padre la sta guardando con
tranquillità. Forse l’assenza di conflitti degli ultimi giorni ha contribuito a
migliorargli l’umore. Forse, ora che la figlia è diventata docile come lui ha
sempre desiderato, acconsente a parlare con lei.
«Una passeggiata all’aria aperta ti farà bene, Eugénie».
La nonna, di fronte, annuisce invitante mentre solleva con indice e
pollice la tazza di porcellana. Eugénie aveva in programma di tornare da
Leymarie. Si è decisa a chiedere loro se non abbiano bisogno di qualcuno
per mettere a posto i libri, collaborare alla pubblicazione della Revue
Spirite1, fare le pulizie, qualsiasi cosa che possa servirle da via di fuga.
Dovrà aspettare il giorno dopo. Ovviamente non le è possibile rifiutare la
proposta del padre dicendo che deve andare in una libreria esoterica.
«Con piacere, papà».
Beve un altro sorso di caffè. L’umore positivo del padre la sorprende e le
fa piacere. Non si accorge della madre, alla sua destra, che si asciuga una
lacrima con l’angolo del tovagliolo.
 
Il fiacre costeggia la Senna. Gli zoccoli dei cavalli battono ritmicamente
sul selciato. Sui marciapiedi è tutta una gara di cilindri e cappellini fioriti
sulle teste dei passanti. Le coppie, ancora vestite con cappotti pesanti,
passeggiano sui lungofiume e sui ponti che fanno da corona al fiume.
Eugénie osserva dal finestrino la città che si rimette in moto. Si sente
serena. Il cielo azzurro che sovrasta i tetti grigi, la scampagnata
imprevista col padre e il fratello e la prospettiva della nuova vita che la
attende dall’altra parte del fiume cullano il breve viaggio. Finalmente ha
trovato la propria collocazione senza che nessuno gliel’abbia imposta. È
una piccola vittoria che la esalta e la tranquillizza, una vittoria che non fa
trapelare e di cui non parla, perché le vittorie interiori non sono
condivisibili.
Voltata verso il finestrino non nota l’aria pensierosa del fratello seduto
alla sua destra. Anche Théophile sta guardando la città. Ogni quartiere che
attraversano li avvicina un po’ di più alla loro destinazione. Si sono
appena lasciati l’Hôtel de Ville sulla sinistra. Di fronte vede l’isola Saint-
Louis. Una volta attraversato il ponte di Sully costeggeranno il Jardin des
Plantes e il suo serraglio di animali selvatici, poi saranno arrivati.
Théophile si porta il pugno alla bocca e dà un’occhiata al padre. Seduto di
fronte ai figli, con le mani posate sul pomolo del bastone che tiene tra le
ginocchia, l’uomo ha la testa china. Sente che lo sguardo del figlio lo sta
interrogando, ma non ha voglia di rispondere.
Se Eugénie uscisse un attimo dalle sue riflessioni si accorgerebbe del
clima austero che fin dalla partenza regna nello stretto abitacolo ovattato.
Coglierebbe l’espressione cupa del fratello e la rigidità del padre, si
stupirebbe che una gitarella fuori Parigi possa suscitare una tale tensione.
Noterebbe anche che Louis non sta facendo la solita strada, che invece di
dirigersi verso i giardini del Lussemburgo sta costeggiando il Jardin des
Plantes in direzione di boulevard de l’Hôpital.
Esce dal suo torpore solo quando il fiacre di colpo si ferma. Si volta verso
il padre e il fratello e ne vede l’espressione insolita, un misto di serietà e
preoccupazione. Prima che abbia il tempo di dire qualcosa sente la voce
del padre.
«Scendiamo».
Confusa, Eugénie ubbidisce, seguita dal fratello. Appena messi i piedi a
terra alza gli occhi verso l’imponente edificio di fronte al quale si sono
fermati. Sulla facciata si ergono due colonne di pietra da entrambe le parti
dell’ingresso a volta, aperto. Al di sopra, inciso nella pietra, il motto
Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Al centro, in lettere maiuscole nere su
fondo bianco, si legge Ospedale della Salpêtrière. Sotto l’arcata si vede in
lontananza, alla fine di un viale lastricato, un edificio ancora più
imponente che sembra inghiottire lo spazio intorno a sé, sovrastato da
una cupola nera e solenne. Eugénie si sente male. La mano del padre si
chiude sul suo braccio senza darle il tempo di girarsi.
«Non discutere, figlia».
«Ma papà... Non capisco».
«La nonna mi ha raccontato tutto».
La giovane è colta da vertigini. Le cedono le gambe, allora sente una
mano più delicata, quella del fratello, prenderle l’altro braccio. Guarda il
padre, apre la bocca per parlare, ma non ci riesce. Lui la guarda
calmissimo, e quella calma la terrorizza più della virulenza con cui l’ha
sempre trattata.
«Non prendertela con la nonna. Non poteva tenersi dentro un segreto
del genere».
«Ma è vero, te lo giuro...».
«Vero o falso importa poco. Non c’è posto in casa nostra per le cose che
le hai detto».
«Ti supplico, mandami via di casa, spediscimi in Inghilterra, in un luogo
qualsiasi, ma non qui».
«Sei una Cléry, ovunque tu vada porti il nostro nome. Questo è l’unico
luogo in cui non lo disonorerai».
«Papà!».
«Basta così!».
Eugénie si volta spaventata verso il fratello, che sotto la chioma rossa
non è mai stato così pallido. Ha la mascella contratta, non osa guardare la
sorella.
«Théophile...».
«Perdonami, Eugénie».
Dietro di lui, parcheggiato sulla piazzetta lastricata, Eugénie vede Louis:
seduto a cassetta con il capo chino, il domestico non guarda la scena. La
ragazza si sente spinta verso la cinta muraria dell’ospedale. Vorrebbe
resistere, ma non ce la fa. Sapendola una lotta persa in partenza, il suo
corpo ha già rinunciato. Le gambe le cedono di nuovo, e i due uomini
raddoppiano gli sforzi per sorreggerla. In un ultimo tentativo le sue mani
si afferrano ai soprabiti del padre e del fratello. Parla con voce esile, una
voce che ha già perso ogni speranza.
«Non qui... Vi supplico... Non qui...».
Ormai si lascia trascinare. Lungo il viale centrale fiancheggiato da alberi
spogli gli stivaletti le sbattono sul selciato. Ha la testa all’indietro, il
cappellino a fiori che aveva scelto per l’occasione è caduto a terra. Con la
faccia rivolta verso il cielo terso sente i raggi del sole abbagliarla e
accarezzarle dolcemente le guance.
 
 
 
1
“Rivista di spiritismo”, giornale fondato da Allan Kardec nel 1858. [Nota del Traduttore.]
5
4 marzo 1885

D
all’altra parte delle spesse mura un’atmosfera di festa si è impadronita del
dormitorio: sono arrivati i costumi. Tra i letti prende forma un tramestio
inconsueto: le alienate si agitano, esclamano, si precipitano all’entrata del
dormitorio verso le scatole di cartone già aperte, affondano mani febbrili
nelle stoffe, palpeggiano i tessuti fruscianti, sfiorano i merletti con i
polpastrelli, ammirano meravigliate i colori, si spintonano per
accaparrarsi il costume preferito, si pavoneggiano con il vestito scelto,
gorgogliano, ridono, e di colpo il luogo non somiglia più a un manicomio,
ma a una camera di donne che scelgono gli abiti per la grande serata. Ogni
anno c’è la stessa effervescenza. Il ballo di mezza quaresima, che la
borghesia parigina chiama il “ballo delle pazze”, è l’avvenimento di
marzo; anzi, l’avvenimento dell’anno. Nient’altro occupa le menti nelle
settimane che lo precedono. Le internate cominciano a fantasticare su
parure, orchestra, valzer, luci, scambi di sguardi, cuori felici, applausi.
Pensano agli ospiti che verranno per l’occasione, la Parigi bene
impaziente di poter vedere le pazze da vicino e le pazze felici di essere
finalmente viste per qualche ora. L’arrivo dei costumi, due o tre settimane
prima del ballo, suggella il clima di entusiasmo. Non solo gli instabili e
fragili nervi delle alienate non sono sovreccitati, ma il loro umore non è
mai così sereno come in quel periodo. Tra quelle mura di noia c’è
finalmente una distrazione. Cuciono, ritoccano pieghe, provano scarpe
cercando il numero giusto, si aiutano l’un l’altra a indossare gli abiti,
improvvisano défilé tra i letti, si ammirano le pettinature specchiandosi
nei vetri, si scambiano accessori, e mentre si dedicano a quei preparativi
ignorano le vecchie senili raggomitolate in un angolo, le depresse
prostrate sul letto, le tetre che non condividono lo spirito di festa e le
invidiose che non hanno trovato un costume che vada loro a genio. Ma la
cosa più importante è che dimenticano il disturbo, il dolore fisico, non
ricordano più chi le abbia portate lì, non ricordano più che faccia abbiano
i figli, dimenticano il pianto delle altre, l’odore di urina di quelle che se la
fanno addosso, le grida che ogni tanto risuonano, il pavimento freddo e
l’attesa interminabile. La prospettiva del ballo in costume placa i corpi e
rasserena i volti. C’è finalmente qualcosa da sperare.
In mezzo all’agitazione del dormitorio le infermiere si distinguono per
il camice immacolato: come pezzi bianchi su una scacchiera, si spostano
sulle mattonelle del pavimento a sinistra e a destra, in diagonale e in
orizzontale, controllando che l’euforia per i costumi non diventi eccessiva.
In disparte, svettante come la regina, anche Geneviève sorveglia che la
distribuzione si svolga in buon ordine.
«Signora Geneviève?».
La soprintendente si volta. Di fronte a lei c’è Camille. Di nuovo. I suoi
capelli bruno rossicci meriterebbero una passata di pettine. Dovrebbe
anche vestirsi più pesante, anziché andare in giro con addosso solo una
leggera camicia da notte. Geneviève solleva il dito in un gesto di rifiuto.
«Camille, no».
«Un pochino di etere, signora Geneviève, sia buona».
Alla donna tremano le mani. Da quando le hanno curato un attacco con
l’etere non fa che chiederne ancora. Si era trattato di un attacco piuttosto
violento e niente sembrava in grado di farglielo passare. Un’infermiera le
aveva somministrato etere in dosi un po’ più elevate del normale. Camille
aveva passato cinque giorni a vomitare e svenire, e quando si era rimessa
ne aveva voluto ancora.
«A Louise gliel’ha dato, l’ultima volta. Perché a me no?».
«Louise aveva un attacco».
«Anch’io ho avuto degli attacchi, e a me non l’ha dato!».
«Perché non ne avevi bisogno. Ti sei rimessa in fretta».
«Un po’ di cloroformio, allora? La prego, signora Geneviève...».
Un’infermiera arriva dal corridoio con passo affrettato.
«Signora Geneviève, la vogliono all’ingresso. C’è una nuova».
«Vengo. Camille, vai a sceglierti un costume».
«Non me ne piace nessuno!».
«Peggio per te».
All’ingresso dell’ospedale due infermieri sorreggono Eugénie svenuta.
Accanto a lei, padre e fratello danno un’occhiata a quei luoghi che vedono
per la prima volta. A sorprendere non è tanto l’accettazione, un locale
relativamente piccolo, quanto il corridoio che gli sta di fronte e da cui sta
arrivando Geneviève, un profondo, interminabile e immenso tunnel che
sembra capace di risucchiarti per portarti chissà dove. I tacchi risuonano
sotto il soffitto a volta. In lontananza si sentono gemiti femminili a cui si
evita di fare attenzione, non per indifferenza, ma per debolezza.
Uno degli infermieri che sostengono Eugénie si rivolge a Geneviève.
«La portiamo nel dormitorio?».
«No, c’è troppa agitazione. Mettetela nella solita stanza».
«Bene».
Théophile si irrigidisce. Guarda il corpo privo di sensi della sorella, quel
corpo che lui stesso ha trascinato di forza pressato dal padre, quel corpo
svenuto portato via da due sconosciuti in un corridoio infinito, nel ventre
di quell’ospedale senza vita. La testa bruna di Eugénie dondola a destra e a
sinistra mentre la trasportano. Solo un’ora prima stava tranquillamente
facendo colazione con loro senza immaginare che la mattinata si sarebbe
conclusa alla Salpêtrière, internata come una volgare pazza. Eugénie
Cléry, sua sorella. Non sono mai stati grandi amici, è vero. Théophile
rispettava la sorella senza tributarle un vero e proprio affetto, ma vederla
portare via come un sacco ingombrante, ingannata dalla sua stessa
famiglia, strappata da casa per finire in quel luogo di dannazione, un
inferno per donne nel cuore di Parigi, gli provoca uno shock come prima
di quel momento non ha mai provato. Sente una forte contrazione allo
stomaco ed esce di corsa lasciando il padre sul posto. Sconcertato,
quest’ultimo dà la mano a Geneviève.
«Sono François Cléry, il padre. Mi scusi per mio figlio, non so cosa gli sia
preso».
«Geneviève Gleizes. Mi segua».
 
Seduto nel modesto ufficio di Geneviève con la penna in mano, il notaio
Cléry firma i fogli che gli ha dato la donna. Ha posato il cilindro sul tavolo.
Un’unica finestra sbarrata da anni lascia penetrare all’interno la luce del
giorno; nel cono di luce che va dal vetro al pavimento la polvere gira su
stessa. Lanicci bianchi e grigi abbondano sotto il tavolo e sotto l’armadio
aperto traboccante di fascicoli e carte varie. Un odore di legno marcio e
umidità aleggia nella stanza.
«Cosa si aspetta che facciamo per sua figlia?».
Geneviève è seduta di fronte a lui e osserva l’uomo che ha appena fatto
internare la figlia. François Cléry smette di scrivere.
«In tutta franchezza non mi aspetto che guarisca. Le idee mistiche non
si curano».
«Sua figlia soffre di attacchi isterici? Febbre, svenimenti, contrazioni?».
«No, è normale... Solo, come le ho detto, sostiene di vedere i defunti da
anni».
«Pensa che dica la verità?».
«Sì. Mia figlia ha i suoi difetti... ma non è una bugiarda».
Geneviève nota che l’uomo ha la mano umida. Lui posa la penna sul
foglio, abbassa la mano sotto il tavolo e si asciuga il palmo sui pantaloni. I
bottoni del vestito sembrano stringerlo in maniera eccessiva. Sotto i baffi
sale e pepe gli tremano le labbra. A quel famoso e imperturbabile notaio
capita raramente di dover fare uno sforzo per mantenere un contegno. Le
mura dell’ospedale spiazzano chiunque vi entri, a cominciare da quelli che
vengono a lasciarci la figlia, la moglie o la madre. Geneviève non sa più
quanti uomini abbia visto sedersi su quella sedia: operai, fiorai, professori,
farmacisti, commercianti, padri, fratelli, mariti... Senza la loro iniziativa
probabilmente la Salpêtrière non sarebbe così popolata. Certo, è capitato
che donne abbiano portato altre donne, non tanto le madri quanto le
matrigne o le zie, ma la maggior parte delle alienate è stata scaricata lì da
uomini di cui le poverette portavano il cognome. È la sorte peggiore: senza
marito e senza padre non hanno più sostegno, alla loro esistenza non è
accordata più la minima considerazione.
In quel caso particolare la cosa che sorprende di più Geneviève è il ceto
dell’uomo che le sta di fronte. In genere i borghesi vedono con orrore
l’internamento della moglie o della figlia, non perché abbiano un senso
etico superiore e giudichino immorale rinchiudere la moglie contro la sua
volontà, ma perché se ne sarebbe chiacchierato nei salotti e la reputazione
del capofamiglia ne sarebbe risultata offuscata per sempre. In quelle case
dai lampadari di cristallo, alla minima manifestazione di disordine
mentale le borghesi vengono rapidamente fatte curare e segregate in una
stanza chiusa a chiave. Che un notaio si presenti alla Salpêtrière per far
internare la figlia è una condotta atipica.
François Cléry porge i fogli firmati a Geneviève, che dà un’occhiata ai
documenti e poi guarda l’uomo.
«Posso farle una domanda?».
«Prego».
«Che motivo c’è di far internare sua figlia, se non si aspetta che sia
curata? Questa non è una prigione, noi lavoriamo per far guarire le
pazienti».
Il notaio ci pensa un attimo, poi si alza e dà una spolverata al cilindro
con gesto risoluto.
«Non si parla con i morti senza che il diavolo c’entri qualcosa. Non
voglio cose del genere in casa mia. Ai miei occhi mia figlia non esiste più».
Poi saluta Geneviève ed esce dalla stanza.
 
Sul silenzioso parco dell’ospedale scende il crepuscolo. È un parco come
ce ne sono altri a Parigi, ma frequentato da più donne della media.
D’inverno, imbacuccate in vestiti pesanti o avvolte in mantelli col
cappuccio, percorrono i viali lastricati da sole o in due, con passo lento e
monotono, godendosi il fatto di essere fuori nonostante le dita intirizzite
dal freddo. Nella bella stagione i prati e le foglie ritrovano la brillantezza.
Con i vestiti stesi sull’erba le pazze chiudono gli occhi al sole o tirano
briciole ai piccioni; altre, meno inclini a nutrire quelle sudicie bestiole, si
isolano ai piedi di un albero e parlano di tutto ciò che nei dormitori non si
può dire. Lontane dalle sorveglianti si scambiano confidenze, si consolano,
si baciano le mani, le labbra, il collo, si toccano il viso, il seno, le cosce, si
lasciano cullare dal cinguettio degli uccelli, si fanno promesse per quando
usciranno da quel luogo, perché la loro permanenza lì è solo temporanea,
vero?, la loro vita non si svolgerà per sempre alla Salpêtrière, non è
possibile, un giorno i cancelli neri dell’ingresso si apriranno e loro
torneranno a camminare sui marciapiedi di Parigi come prima...
In prossimità degli ombrosi viali una chiesa veglia sul parco e le sue
frequentatrici. Il sacro edificio si impone in larghezza e in altezza sulle
altre costruzioni dell’ospedale. Ovunque si vada, si vede la cupola nera
sormontata da un piccolo campanile: alla svolta di un viale, al di sopra
degli alberi frondosi o dalle finestre, la cupola c’è sempre, come se ti
seguisse, sontuosa e massiccia, carica delle preghiere, confessioni e messe
che si dicono al suo interno.
Geneviève non ne hai mai varcato il portone in legno rosso. Quando
attraversa l’esterno per andare da un settore all’altro costeggia
l’imponente costruzione di pietra con indifferenza, talvolta con disprezzo.
L’ex bambina cattolica trascinata di forza in chiesa ogni domenica della
sua infanzia ha sempre detto le preghiere controvoglia. Per quanto
indietro vada con la memoria tutto ciò che aveva a che fare da vicino o da
lontano con la chiesa le faceva orrore: le scomode panche di legno, Cristo
morente sulla croce, l’ostia che le mettevano a forza sulla lingua, le teste
chine dei fedeli in preghiera, le frasi moraliste instillate nei cervelli come
una polvere benefica. La gente ascoltava un uomo che, solo perché
indossava una tonaca e stava dietro all’altare, aveva ogni autorità.
Piangevano un tizio crocifisso e ne pregavano il padre, entità astratta che
giudicava gli uomini sulla terra. Era un concetto grottesco. L’assurdità di
quell’ostentazione la portava a protestare in cuor suo. L’unica cosa che
impediva a quella brava bambina bionda di esprimere la sua istintiva
repulsione era il padre. Il medico godeva del rispetto di numerosi paesi dei
dintorni, e la gente non avrebbe visto di buon occhio che la figlia
maggiore si rifiutasse di andare a messa. In campagna la chiesa riveste un
ruolo importante, molto più che in città. Nei paesi in cui tutti si conoscono
è inconcepibile pensarla diversamente e restare a casa la domenica
mattina. E poi c’era Blandine, la sorellina di due anni più giovane, una
bambolina diafana, magra e rossa di capelli. Lei sì che era una vera devota.
Come se avesse fede per tutte e due, Blandine adorava tutto ciò che la
sorella maggiore esecrava in silenzio. La pietà di cui aveva dato prova fin
da piccolissima aveva convinto Geneviève a tenersi per sé le sue idee
contrarie. Voleva bene alla sorella, addirittura ammirava la sua devozione,
di cui lei era incapace. Sarebbe stato tutto più semplice se anche lei avesse
creduto in Dio. Si sentiva emarginata, e la rabbia interiore che doveva
reprimere la stancava. Osservando Blandine, che il suo amore per Dio
sembrava rendere paradossalmente più matura, Geneviève aveva provato
a cambiare le sue idee, invertire la rotta, obbligarsi a credere, ma era più
forte di lei, non solo non ci riusciva, ma più ci pensava e più ne era
convinta: Dio non esisteva, la Chiesa era una truffa e i preti erano
impostori.
La collera sorda che la accompagnava fin dall’infanzia era decuplicata
con la morte improvvisa di Blandine. Geneviève aveva diciott’anni. Aver
passato l’adolescenza ad assistere il padre durante le visite aveva
permesso alla sua vocazione di infermiera di rivelarsi spontaneamente. La
giovane era alta e sicura di sé, con un volto quadrato e fiero sormontato
da uno chignon che si rifaceva ogni giorno. Il suo occhio intelligente era in
grado di diagnosticare qualsiasi disturbo, spesso anche prima del padre,
tanto che i pazienti avevano finito per chiedere di lei anziché del dottore.
Aveva letto e assimilato tutti i libri di medicina che c’erano in casa e
grazie a loro aveva finalmente trovato la propria fede. Avrebbe creduto
nella medicina. Sarebbe stata una devota della scienza. Quello era il suo
credo. Non aveva dubbi, avrebbe fatto l’infermiera, ma non in Alvernia:
sognava di andare a Parigi, perché a Parigi esercitavano i migliori medici,
era il luogo in cui la scienza faceva progressi e in cui lei doveva trovarsi.
La sua ambizione aveva vinto le reticenze dei genitori. Per andare nella
capitale aveva dato fondo ai suoi risparmi. Qualche mese dopo essersi
trasferita una lettera del padre l’aveva informata del funerale di Blandine,
“colpita da una terribile tubercolosi”. Geneviève aveva lasciato il foglio ed
era crollata nella modesta camera in cui ancora abita. Aveva riaperto gli
occhi sul far della sera e trascorso la notte a piangere. Di sicuro non c’era
alcun Dio. Se Dio esisteva e applicava la giustizia sulla terra non poteva far
morire una fervente fedele di sedici anni e lasciar vivere un’empia che
aveva sempre ricusato il suo nome.
Da quel momento aveva deciso di dedicare la vita a curare gli altri e
dare il suo contributo, ove possibile, ai progressi della medicina del suo
tempo. Ammirava i medici più di quanto avesse mai ammirato un santo.
Accanto a loro aveva trovato il suo posto, un posto modesto, in disparte, e
tuttavia indispensabile. Il suo modo di lavorare, la sua precisione e la sua
intelligenza le avevano valso la stima di quegli uomini. Poco a poco si era
guadagnata una solida reputazione all’interno della Salpêtrière.
Geneviève non era sposata. Due anni dopo essere arrivata a Parigi un
giovane medico aveva chiesto la sua mano, ma lei gliel’aveva rifiutata. Una
parte di sé era morta con la sorella. Il senso di colpa che provava per
essere a Parigi le impediva di accettare ciò che la vita le proponeva. Aveva
il privilegio di fare un lavoro che le piaceva, desiderare di più le sarebbe
sembrato arrogante. Dato che la sorella non aveva avuto la possibilità di
diventare moglie e madre, lei se l’era vietato.
 
La soprintendente infila la chiave nella serratura. Nella piccola camera
buia e fredda Eugénie è di spalle su una sedia accanto al letto. Ha le braccia
conserte. I capelli bruni e sottili le ricadono sulla schiena. Sta fissando
immobile un angolo della stanza. Non si muove quando sente aprirsi la
porta. Geneviève osserva la nuova alienata chiedendosi di che umore sia,
poi va avanti per posare sul letto un vassoio con una scodella di minestra e
due fette di pane secco.
«Ecco la cena. Eugénie?».
La ragazza rimane ferma. Geneviève giudica più prudente non
avvicinarsi e torna verso la porta.
«Per stanotte resti in questa camera. Domani andrai a fare colazione al
refettorio. Mi chiamo Geneviève, sono la responsabile di questo settore».
Nel sentire il suo nome Eugénie si volta e osserva la soprintendente con
grandi occhi neri e cerchiati, poi fa un sorriso tranquillo.
«Molto gentile, signora».
«Sai perché sei qui?».
Eugénie fissa la donna con lo chignon biondo che non osa allontanarsi
troppo dalla porta. Ci pensa un attimo, poi abbassa lo sguardo sulla punta
degli stivaletti.
«Non ce l’ho con mia nonna. Alla fine, senza volerlo, mi ha liberato. Non
ho più bisogno di vivere nel segreto. Tutti sanno chi sono, ormai».
Geneviève scruta la giovane tenendo la mano sulla maniglia. Non è
abituata a sentire un’alienata esprimersi con tanta chiarezza, con frasi
così articolate. Eugénie, sulla sedia, è ancora a braccia conserte,
leggermente piegata in avanti, come oppressa da un’improvvisa
stanchezza. Dopo un po’ alza di nuovo gli occhi verso Geneviève.
«Non resterò a lungo qua dentro».
«Non sta a te decidere».
«Lo so. Decide lei. E lei mi aiuterà».
«Bene, verremo a prenderti domani...».
«Sua sorella si chiama Blandine».
Geneviève contrae la mano sulla maniglia. Rimane interdetta per
qualche secondo col fiato sospeso, poi riprende a respirare. Eugénie la
osserva tranquilla, sempre con lo stesso sorriso sereno sul volto stanco. Di
fronte alla pazza Geneviève si irrigidisce. Col suo abito pulito ed elegante,
un vestito da ragazza di buona famiglia, Eugénie le fa venire in mente una
strega. Sì, quella bruna con i capelli lunghi è esattamente come dovevano
essere le streghe di una volta: carismatiche e affascinanti in apparenza,
malefiche e depravate all’interno.
«Zitta!».
«Ha i capelli rossi, vero?».
Eugénie ha l’aria di guardare altro nella stanza in penombra, sta
fissando un punto alle spalle di Geneviève. La soprintendente sente
l’intero corpo percorso da una scarica, il petto comincia a tremarle come
per un improvviso colpo di freddo, e il tremito aumenta fino a scuoterle
tronco e braccia. D’istinto, con un movimento che non controlla, le gambe
girano su se stesse ed escono dalla stanza, le mani nel panico chiudono
nervosamente a chiave la porta, lei arretra di qualche passo in corridoio,
poi cede e si lascia cadere all’indietro sul pavimento freddo.
 
È buio. L’orologio segna le nove quando Geneviève entra in casa. La
stanza è immersa nell’oscurità. Avanza con passo lento, si toglie il
cappotto con gesto meccanico, lo posa sullo schienale della sedia e si siede
sul letto, che cigola un po’, poi si afferra con entrambe le mani al bordo
del materasso, come se temesse di avere un altro crollo.
Non sa con precisione quanto tempo abbia impiegato per risollevarsi
dal pavimento. Caduta all’indietro aveva fissato con stupore e spavento la
porta che aveva richiuso. Dietro quella porta era successo qualcosa di
oscuro e inspiegabile che non era in grado di analizzare con chiarezza. La
paura l’aveva messa a terra e le aveva impedito di ragionare con calma. Le
tornava in mente solo la faccia di Eugénie, una faccia simpatica che non
lasciava affatto intuire il vizio che sembrava celare. La nuova alienata le
aveva fatto un trucco, un trucco abile e perverso, ecco tutto. Aveva voluto
prendersi gioco di lei, tentare di destabilizzarla, anche se la
soprintendente ignorava in che modo fosse riuscita a mettere in atto la
sua frode. In quel senso era più pericolosa delle altre alienate del settore,
che in fondo erano soltanto povere pazze, più disturbate che davvero
cattive. Eugénie invece aveva una mente abile e cinica, un’accoppiata
pericolosa.
Alla fine Geneviève aveva trovato la forza di rialzarsi. Un po’
frastornata aveva lasciato l’ospedale addormentato e risalito il boulevard,
aveva girato a destra scorgendo la cupola del Panthéon che si elevava al di
sopra dei tetti, era passata davanti a una serie di piccoli caffè animati,
aveva costeggiato il Jardin des Plantes dove da più di dieci anni, da quando
la Comune aveva obbligato i parigini affamati ad abbattere gli erbivori del
giardino zoologico per mangiarne la carne, non si sentiva più un solo
grido selvaggio provenire da dietro i cancelli, poi aveva percorso viuzze
lastricate fino al Panthéon, aveva aggirato il monumento e finalmente era
arrivata a casa.
 
Con ancora addosso il camice di servizio Geneviève si stende sul letto e
piega le gambe. Si sente il corpo pesante e la mente confusa. Per quanto
cerchi di tranquillizzarsi, in quella camera della Salpêtrière è successo
qualcosa di grosso e di insolito. Mai era stata pervasa in quel modo da
un’emozione, e le rare volte in cui era accaduto era stata comunque in
grado di analizzare quello che provava. La morte della sorella, e poi della
madre, l’avevano rattristata parecchio. Il giorno che l’alienata in cui lei
vedeva la sorella aveva cercato di strangolarla si era sentita tradita, ci era
rimasta malissimo. Eppure in quel momento non riesce a definire ciò che
prova. Sa che in quella stanza si sentiva soffocare, certo. Le parole di
Eugénie, che tuttora non si spiega, erano come una porta aperta su un
mondo sconosciuto, inconsueto, inquietante. Educata al ragionamento
cartesiano e alla logica scientifica, Geneviève non era pronta a capire cosa
davvero volesse dire “parlare con i morti”. Non vuole più pensarci. Per
quella sera preferisce dimenticare. Ci mette poco ad addormentarsi, non
ha nemmeno acceso la stufa per riscaldare un po’ l’ambiente.
È notte fonda quando si sveglia di colpo. Istintivamente si tira a sedere e
si appoggia al muro. Ha l’impressione che il cuore le si stia per fermare.
Guarda intorno a sé la stanza in penombra. Qualcuno le ha toccato la
spalla. Una mano si è avvicinata e le ha toccato la spalla, ne è sicura. Poco
a poco i suoi occhi si abituano al buio e riescono a distinguere i mobili, le
ombre, il soffitto. Non c’è nessuno. La porta è chiusa a chiave. Eppure l’ha
sentito.
Si porta le mani alla faccia, chiude gli occhi e cerca di controllare il
respiro. Fuori la città è calma. Nell’edificio non si sente un rumore.
L’orologio segna le due. Scende dal letto, si mette uno scialle sulle spalle,
accende la lampada a olio e va a sedersi alla consolle. Poi prende un foglio,
intinge la penna nel calamaio e si mette a scrivere di getto.
 
Parigi, 5 marzo 1885
 
Sorellina mia,
sento il bisogno di scriverti. Sono le due del mattino e non riesco a dormire. O
meglio, stavo dormendo, ma mi sono svegliata. Mi piacerebbe pensare che sia un
sogno, ma la sensazione era troppo concreta per essere onirica.
Ti chiederai di che sto parlando. Non sono sicura di saperti spiegare quello che
mi è successo oggi. È molto tardi, e sono ancora troppo turbata per riuscire a
ragionare correttamente.
Devi scusarmi se questa lettera ti sembra confusa o folle. Proverò a raccontarti
tutto in dettaglio domani, a mente fredda.
Un abbraccio affettuoso,
tua sorella, che ti vuole bene e ti pensa.
 
Geneviève posa la penna e solleva la lettera con una mano per rileggerla
alla luce. Si ferma un attimo a riflettere, poi tira indietro la sedia. Fuori,
sui tetti di zinco, i comignoli si stagliano nella notte. Il cielo è pulito. Il
chiaro di luna brilla sulla città. Apre la finestra. Il freddo della notte le
investe il viso. Si affaccia, chiude gli occhi, inspira profondamente ed
espira.
6
5 marzo 1885

E
ugénie viene svegliata dal cigolio della serratura. Con un sobbalzo si
raddrizza ai piedi del letto e guarda la stanza. Per un attimo aveva
dimenticato di essere in manicomio, pazza tra le pazze, ingannata dalla
famiglia, trascinata lì dalla stessa mano che da piccola baciava con timore
e rispetto.
Quando gira la testa verso la porta che si apre sente un dolore alla nuca.
Si porta una mano alla spalla storcendo la bocca. Il letto spartano, la
mancanza di cuscini e la notte agitata le hanno reso il sonno difficile e
irrigidito le membra.
Nel vano della porta appare una figura femminile.
«Vieni con me».
Non è la stessa infermiera del giorno prima. Ha una voce più giovane,
con un tono che si sforza di essere autoritario. Eugénie ripensa a
Geneviève. L’aspetto austero della soprintendente le ricorda il padre: la
stessa attenzione al contegno, la stessa padronanza di sé. La differenza fra
loro è che il padre è severo per indole, Geneviève lo è diventata. Il suo
carattere rigorista è il risultato di un lavoro su di sé, non della natura.
Eugénie gliel’ha letto negli occhi, ancora di più quando le ha menzionato
la sorella. Ha capito in quel momento la pena racchiusa nel suo sguardo.
Non si aspettava di veder apparire un’entità così presto, tantomeno in
quel contesto. Era seduta dando le spalle al letto quando Geneviève era
entrata nella stanza. Nel momento in cui quest’ultima aveva varcato la
soglia Eugénie aveva sentito che c’era qualcuno con lei, una presenza
dichiarata che aveva intenzione di farsi vedere e sentire. Eugénie non
aveva avuto altra scelta che lasciarsi pervadere dalla stanchezza, anche se
le sembrava di non averne la forza: non così presto, non in quella camera
che non era la sua, non in quel luogo che già la terrorizzava. Solo quando
Geneviève si era presentata si era decisa a guardarla. Dietro la
soprintendente, nella penombra, c’era Blandine in piedi. Eugénie non
aveva mai visto uno spirito così giovane. Con la faccia tonda e i capelli
rossi, la defunta le aveva ricordato Théophile. Da principio Blandine non
aveva detto niente, aveva lasciato che Eugénie rispondesse alla domanda
di Geneviève, poi si era espressa.
«Sono Blandine, sua sorella. Diglielo. Ti aiuterà».
Eugénie, piegata in avanti, aveva ascoltato la voce nella sua testa e le
era venuto da ridere. La situazione era assurda. Solo quella mattina la sua
vita era passata dalla libertà alla prigionia. Aveva trascorso la giornata tra
quattro mura in cui penetrava a stento la luce del giorno, mura tra le quali
il padre aveva deciso di lasciarla per il resto dei suoi giorni, e lì riceveva la
visita di un’entità che prometteva di aiutarla. Sì, c’era da ridere, e sarebbe
stato un riso nervoso, malsano, traboccante di un’emozione che l’avrebbe
fatta scivolare definitivamente nella pazzia. Per fortuna non aveva la forza
di ridere, e si era limitata a un sorriso. Non sapeva se quella defunta
apparisse proprio per lei o per la sorella, ma la sentiva buona, e
soprattutto non aveva niente da perdere. Più in basso di così non sarebbe
potuta cadere. Allora aveva parlato, e l’attimo dopo Geneviève si era
alterata in viso. Doveva essere una reazione importante per una donna
che aveva l’aria di non lasciarsi scuotere da niente, una donna che aveva
visto tutti i disturbi, tutti i dolori e tutti i mali possibili degli altri, che
tuttavia non l’avevano colpita perché lei non l’aveva mai permesso. Dato
che l’annuncio sembrava averla profondamente scossa, e dato che Eugénie
era riuscita a toccarla in un punto che nessuno aveva mai toccato, esisteva
forse una possibilità, per quanto incerta, di portare quella donna dalla sua
parte.
Eugénie non aveva altro in mente: doveva assolutamente andarsene da
lì.
 
In corridoio segue l’infermiera che la conduce al dormitorio. Sopra il
camice bianco la corpulenta donna ha un grembiule nero legato intorno
alla vita, e sulla testa, attaccata ai capelli con qualche forcina, una cuffia
bianca, accessorio indispensabile che distingue le infermiere dalle
alienate. I tacchi delle due donne risuonano nel corridoio vuoto.
Passando davanti alle finestre ad arco Eugénie guarda l’esterno al di là
dei vetri. Più che un ospedale, il luogo sembra un paese: lunghe facciate in
pietra rosa pallido, simili a modesti palazzi privati, costituiscono i settori.
Al pianterreno e al primo piano le finestre verticali lasciano passare la
luce nei corridoi e nelle stanze, con tutta probabilità sale di visita o studi
dei medici. Al secondo piano le finestre diventano più piccole e quadrate,
forse sono di camere singole. All’ultimo piano i lucernari sui tetti blu
scuro offrono una vista dall’alto sugli alberi e i padiglioni. In lontananza si
scorge un parco percorso da viali in cui si vedono passeggiare donne di
città vestite come si deve e borghesi che conversano tranquillamente con
le mani dietro la schiena, come se quel che succede dietro il muro di cinta
non li riguardasse o, al contrario, eccitasse la loro curiosità. In tutti gli
edifici si aprono arcate che consentono l’ingresso di calessi e diligenze, e
ovunque si sente il rumore degli zoccoli dei cavalli sul selciato. Ogni tanto
si viene sorpresi e incuriositi dall’immensa cupola nera di un monumento
solenne che si affaccia al di sopra dei tetti.
Ovunque si posi lo sguardo non ci sono segnali evidenti di pazzia. Nei
viali della Salpêtrière si passeggia, ci si incontra, ci si muove a piedi o a
cavallo. Le vie e i viali hanno un nome, i cortili sono fioriti. In quel paesino
regna una tale tranquillità che si sarebbe quasi tentati di sistemarsi nella
camera di un padiglione e farci il proprio nido in tutta serenità. Di fronte a
quella scenografia bucolica come si fa a credere che la Salpêtrière sia stata
fin dal Seicento teatro di tante sofferenze? Eugénie non ignora la storia di
quelle mura. Per una parigina non esiste sorte peggiore che essere
mandata in quel quartiere sudorientale della capitale.
La cernita delle ospiti era cominciata dopo la posa dell’ultima pietra. Da
principio vi avevano rinchiuso le poveracce: mendicanti, vagabonde e
barbone selezionate su ordine del re. Poi era toccato alle dissolute, alle
prostitute, alle donne di malaffare, tutte “colpevoli” che venivano portate
lì in gruppi, su carri scoperti, costrette a esporre la propria faccia
all’occhio severo del popolino, già condannate dall’opinione pubblica. Poi
erano arrivate le inevitabili pazze, le donne senili o violente, deliranti,
idiote, bugiarde, cospiratrici, sia vecchie che giovanissime. Presto i luoghi
si erano riempiti di grida e sporcizia, di catene e chiavistelli. A metà strada
tra il manicomio e la prigione, alla Salpêtrière finivano le persone che
Parigi non sapeva gestire, cioè i malati e le donne.
Nel Settecento, per un fatto etico o per mancanza di spazio, avevano
deciso di accogliere solo donne colpite da turbe psichiche. Avevano dato
una ripulita ai luoghi insalubri, tolto i ferri alle caviglie delle detenute e
decongestionato le celle troppo piene. Ma non avevano fatto i conti con la
presa della Bastiglia, la ghigliottina e la feroce instabilità che si era
impossessata della Francia per vari anni. Nel settembre del 1792 i
sanculotti avevano voluto liberare le prigioniere della Salpêtrière. La
Guardia nazionale aveva eseguito l’ordine e le donne, felici di scappare da
lì, erano state violentate e giustiziate per strada a colpi di ascia, randello o
mazza. Libere o prigioniere, alla fine le donne non erano al sicuro da
nessuna parte. Da sempre erano le principali destinatarie di decisioni che
venivano prese senza il loro consenso.
L’inizio del nuovo secolo aveva lasciato intravedere un barlume di
speranza, quando alcuni medici più diligenti avevano preso in carico il
reparto di quelle che continuavano a essere chiamate “le pazze”. La
medicina aveva fatto progressi, la Salpêtrière era diventato un luogo di
cura e ricerca neurologica. Nei vari settori dell’ospedale si era formata una
nuova categoria di internate che venivano definite isteriche, epilettiche,
malinconiche o dementi. Catene e stracci avevano ceduto il posto alla
sperimentazione sulle malate: i compressori ovarici riuscivano a calmare
gli attacchi d’isteria, l’introduzione di un ferro caldo nella vagina e
nell’utero riduceva i sintomi clinici, gli psicotropi – nitrito di amile, etere
e cloroformio – calmavano i nervi delle agitate, l’applicazione di metalli
diversi – zinco e magneti – sulle membra paralizzate aveva reali effetti
benefici. A metà dell’Ottocento, con l’arrivo di Charcot, la pratica
dell’ipnosi era diventata la nuova tendenza medica. Le lezioni pubbliche
del venerdì rubavano la scena ai teatri dei boulevard, le internate erano le
nuove vedettes di Parigi, i nomi di Augustine e di Blanche Wittman
venivano citati con curiosità talvolta beffarda e talvolta lasciva. Le pazze
potevano ormai suscitare desiderio. La loro attrattiva era paradossale,
accendevano timori, fantasie, orrore e sensualità. Certe volte, quando
l’alienata sotto ipnosi veniva colta dall’attacco isterico, il pubblico
ammutolito aveva l’impressione di trovarsi di fronte a una disperata
danza erotica, più che a un disturbo nervoso. Le pazze avevano smesso di
spaventare, ormai affascinavano. In seguito a quell’interesse era stato
istituito da vari anni il ballo di mezza quaresima, il loro ballo, l’evento
annuale della capitale, in cui quelli che non potevano vantarsi di essere in
possesso dell’invito passavano i cancelli da un ingresso riservato
solitamente alle malate mentali. Per il tempo di una sera un pezzo di
Parigi si recava dalle donne che da quella serata in costume si aspettavano
tutto: uno sguardo, un sorriso, una carezza, un complimento, una
promessa, un aiuto, la liberazione. E, mentre loro speravano, occhi
estranei si soffermavano su quelle bestie strane, donne disturbate, corpi
invalidi, e continuavano a parlare delle pazze settimane dopo averle viste
da vicino.
Le donne della Salpêtrière non erano più appestate di cui si cercava di
nascondere l’esistenza, ma soggetti di svago che venivano esibiti in piena
luce e senza rimorsi.
 
Eugénie si è fermata a una finestra e osserva gli alberi spogli del parco.
C’è stato un tempo in cui le mendicanti marcivano in cella facendosi
mordere le dita dei piedi dai topi. C’è stato un tempo in cui centinaia di
prigioniere erano state liberate solo per essere selvaggiamente massacrate
all’uscita dall’ospedale. C’è stato un tempo in cui una donna adultera
poteva essere rinchiusa lì per il solo fatto di essere adultera. Ormai
l’ospedale ha un aspetto sereno, ma ciò non vuol dire che gli spettri di
quelle donne abbiano lasciato i luoghi. È un posto carico di fantasmi, urla e
corpi martoriati in cui bastano i muri a farti diventare pazza, se non lo sei
già arrivando, in cui dietro ogni finestra qualcuno spia, qualcuno vede o
ha visto.
Eugénie chiude gli occhi e fa un profondo respiro: deve andarsene da lì.
 
L’atmosfera mattutina del dormitorio la coglie di sorpresa. I letti
traboccano di tessuti e merletti, penne e accessori, guanti e mezziguanti,
copricapi e mantiglie. Le alienate hanno ricominciato a dedicarsi ai
costumi e si danno da fare con entusiasmo, cuciono, raccordano pieghe,
sfilano negli abiti variopinti, volteggiano, si litigano un pezzo di stoffa.
Alcune ridono come matte indossando un cappello bislacco, altre si
lamentano di non trovare niente di loro gradimento. A parte alcune
indifferenti, vecchie o depresse che seguono lo spettacolo con occhio
disincantato, le altre si urtano, si pavoneggiano, ballano, si sfiorano in un
valzer che è soltanto loro, un brusio incessante di voci femminili esaltate,
quasi inebriante, tanto che a prima vista sembra di essere nel paradiso
delle donne, più che in un ospedale.
«Siediti là».
L’infermiera indica un letto a Eugénie, che cammina a testa bassa in
mezzo alla fiera dei costumi, stupita e intimidita da quell’animazione
festosa in un luogo tanto austero. Con discrezione, cercando di non farsi
notare, prende posto fra due letti e arretra fino ad appoggiarsi con la
schiena al muro. Il dormitorio è immenso, conterrà almeno un centinaio
di donne. Le finestre sull’altro lato dello stanzone affacciano sul parco. Da
una parte e dall’altra le infermiere tengono d’occhio le alienate senza
condividere l’atmosfera allegra che regna nel dormitorio. Eugénie
percorre il luogo con sguardo stupefatto fino a che incrocia gli occhi di
Geneviève che, appostata in fondo a sinistra, la fissa con aria carica di
sdegno. Eugénie guarda da un’altra parte e tira a sé le gambe sul
materasso. È imbarazzata. Sente che ogni suo gesto viene osservato e
analizzato, come se dovessero assolutamente trovare in lei una sia pur
minima tara che giustifichi il suo internamento. Intorno a sé le alienate si
fanno prendere dall’entusiasmo, ma se ne percepisce l’umore fragile:
basterebbe una qualche titubanza a far crollare tutto e scatenare l’isteria
collettiva. Quell’atmosfera mezza allegra e mezza disperata rafforza il suo
malessere. Tra i costumi e le cuffie distingue poco a poco braccia
contratte, facce alterate da tic, espressioni malinconiche o troppo ridenti,
corpi apatici sotto le lenzuola. Il luogo emana un odore rancido, un misto
di etanolo, sudore e metallo che fa venire voglia di aprire le finestre per
far entrare l’aria fresca e profumata del parco. Eugénie si guarda il vestito
che porta dal giorno prima: darebbe qualsiasi cosa per poter tornare a
casa, lavarsi, dormire nelle sue lenzuola, e l’impossibilità di farlo è
un’ulteriore conferma della gravità della situazione. Tutto ciò che le è
familiare le è stato brutalmente tolto senza il suo consenso e non lo riavrà
più, perché anche se riuscisse a uscire da lì – ma come, e soprattutto
quando? – non potrebbe mai andare a bussare alla porta del padre. La vita
come l’ha conosciuta fino a quel momento, gli oggetti che la costituiscono,
la sua intimità, i libri, i vestiti, appartengono ormai al passato. Non ha più
niente. Non ha più nessuno.
Le sue mani si contraggono sulle lenzuola. Leggermente piegata in
avanti, chiude gli occhi e trattiene i singhiozzi. Non vuole crollare, non
così presto, non davanti alle infermiere. La soprintendente sarebbe troppo
contenta di vederla scoppiare in lacrime e rispedirla in isolamento.
Una voce infantile le fa riaprire gli occhi.
«Sei nuova?».
Louise si è avvicinata a Eugénie. Il suo viso rotondo ha le guance venate
di rosa. Ogni anno l’avvicinarsi del ballo procura all’adolescente una
vivace emozione. Ogni marzo la sua faccia riacquista colorito e lucentezza,
per poi tornare spenta nel resto dell’anno. In quel periodo, come per
miracolo, lei e altre non hanno più attacchi isterici.
Louise stringe al petto un vestito rosso di pizzo.
«Mi chiamo Louise. Posso sedermi?».
«Certo. Io sono Eugénie».
Eugénie si schiarisce la gola per farsi passare il pianto in agguato. Louise
si siede e sorride. I folti riccioli neri le ricadono sulle spalle. Il volto dolce
della giovane e i suoi modi infantili confortano un po’ Eugénie.
«L’hai scelto un costume? Io ho preso un vestito da spagnola. Ho tutto
quel che serve, la mantiglia, il ventaglio, gli orecchini. Carino, vero?».
«Molto».
«E tu?».
«Io cosa?».
«Il costume».
«Non ce l’ho».
«Devi sbrigarti, il ballo è fra due settimane!».
«Che ballo?».
«Ma come! Il ballo di mezza quaresima! Quando sei arrivata? Vedrai, è
bellissimo. Tutta la Parigi che conta viene a vederci. E poi ti confesso una
cosa, ma non dirlo a nessuno... La sera del ballo riceverò una proposta di
matrimonio».
«Davvero?».
«Si chiama Jules, è un infermiere. Bello come un principe. Diventerò sua
moglie e me ne andrò da qui. Presto sarò sposata con un futuro medico».
«Non dare retta a quelle scemenze, nuova arrivata».
Louise ed Eugénie si voltano insieme. Seduta sul letto accanto Thérèse
sta facendo uno scialle a maglia in tutta tranquillità. Louise si raddrizza
con aria corrucciata.
«Non è vero, non sono scemenze! Jules mi chiederà di sposarlo».
«Non ci rompere i timpani con questo Jules, c’è già abbastanza rumore
così».
«Sei tu che ci rompi i timpani con i tuoi ferri. Non sai quant’è piacevole
sentire quel tic tic tic per tutto il giorno! Non ti si sono arrugginite le dita
a forza di sferruzzare?».
Thérèse scoppia a ridere. Louise, offesa, gira i tacchi e si allontana.
«Povera Louise... Ha il cuore innamorato. È peggio che essere pazza, è
una malattia più grave. Io mi chiamo Thérèse, ma qui mi chiamano la
Magliaia, un soprannome che detesto. È stupido».
«Io Eugénie».
«Sì, ho sentito. Quando sei arrivata?».
«Ieri».
Thérèse annuisce. Sul suo letto ci sono vari gomitoli di lana e alcuni
scialli accuratamente piegati. La donna indossa una delle proprie
creazioni, uno scialle grosso e nero dalle maglie impeccabili. Deve avere
una cinquantina d’anni, forse qualcuno di più. Dal foulard che porta sulla
testa sfugge qualche capello grigio che le ricade sulla fronte. Il corpo
grosso e tenero, e il viso burbero ma sereno, le conferiscono un’aria saggia
e materna. Sembra relativamente normale in confronto alle altre donne,
anche se bisognerebbe sapere cosa si intende per normale. Più
semplicemente, agli occhi di Eugénie non presenta segni esteriori di
disturbo.
La giovane guarda le grosse mani lavorare a maglia con destrezza.
«E lei quand’è arrivata?».
«Oh, non lo so più... Ma di sicuro più di vent’anni fa».
«Più di vent’anni...».
«Sì, piccola. Ma me lo sono meritato. Guarda».
Thérèse posa i ferri e si tira su la manica destra fino alla spalla. Sulla
parte esterna del braccio, tatuato a inchiostro verde e sciupato dal tempo,
c’è un cuore trafitto da una freccia con la scritta a Momo. Thérèse sorride.
«L’ho spinto nella Senna. Se l’era cercata. Quello stronzo non è neanche
morto».
Thérèse fa ridiscendere la manica e se la abbottona al polso, poi si
rimette a sferruzzare.
«Lo amavo da morire. Nessuno mi voleva. Ero brutta. E pure zoppa, da
quando quell’alcolizzato di mio padre mi aveva dato uno spintone.
Pensavo di non avere speranze. Poi un giorno arriva Maurice, mi
abbraccia, mi parla di bella vita. In quattro e quattr’otto eccomi sul
marciapiede. Tutte le sere. Volano schiaffi quando non porto a casa
abbastanza soldi, ma me ne frego, non fanno più male di quelli che mi
dava mio padre. E poi lo amo, Maurice. Dieci anni di quella vita. Non una
sera che non vada a battere in rue Pigalle. Non una sera in cui non mi
prenda un ceffone, “Momo, un solo cliente...”, ma quando il mio uomo mi
bacia dimentico tutto. Fino al giorno in cui lo sorprendo che sta salendo in
casa di Claudette. Il sangue mi si è gelato nelle vene, ti giuro. Dopo tutto
quello che avevo fatto per lui... Ho aspettato che uscisse. L’ho seguito a
lungo, quel farabutto andava lontano. Al ponte della Concorde non ce l’ho
fatta più, gli sono corsa dietro e l’ho spinto di sotto. Non pesava niente.
Magro come un manico di scopa».
Smette di lavorare a maglia e guarda Eugénie sorridendo, un sorriso
freddo elaborato in anni di resilienza e distacco.
«Mi hanno ammanettata sul posto. Urlavo che non ti dico. Però non
rimpiango di averlo spinto, rimpiango semmai di non averlo fatto prima.
A distruggermi non sono state le sue botte, ma il fatto che avesse smesso
di amarmi per un’altra».
«E in vent’anni... non l’hanno mai lasciata uscire da qui?».
«Non ho voglia di uscire».
«No?».
«No, per niente. Sai, non ho mai avuto tanta tranquillità come da
quando sono circondata da pazze. Gli uomini mi hanno maltrattato. Il mio
corpo è tutto un acciacco. Zoppico, la gamba mi fa male, ho dolori
tremendi ogni volta che faccio pipì, ho una cicatrice che mi attraversa il
seno sinistro perché hanno cercato di tagliarmelo col coltello. Qui sono
protetta. Siamo tra donne. Faccio scialli per le altre. No, mai più fuori.
Finché gli uomini avranno l’uccello ogni male su questa terra continuerà a
esistere».
Eugénie arrossisce e distoglie lo sguardo. Non è abituata a sentire un
linguaggio così crudo. A spiazzarla non sono tanto le cose che dice, quanto
come le dice. Cresciuta in luoghi ovattati in cui l’unica familiarità talvolta
autorizzata era uno scoppio di risa, tagliata fuori da tutta una Parigi che
conosceva solo dai giornali o dai romanzi di Zola, si ritrova ormai a
frequentare l’altro versante della capitale, quello dei quartieri nord, dal
labirinto di Montmartre ai pendii di Belleville, posti in cui la sporcizia,
l’argot e i topi corrono nelle canaline di scolo. Col suo vestito fatto su
misura da un sarto dei Grands Boulevards si sente terribilmente borghese.
Basta quel semplice vestito a distinguerla dalle donne che sono lì.
Vorrebbe toglierselo.
«Non ti ha sconvolto quello che ho detto, spero».
«No no».
«Guarda quella lì, la grassottella con le mani sul petto. Si chiama Rose-
Henriette, faceva la domestica in una casa borghese. A forza di essere
molestata dal padrone è crollata. Guarda quell’altra, quella che cammina
in punta di piedi, Anne-Claude. È caduta per le scale mentre scappava
dalle botte del marito. Lì c’è la piccola Valentine, quella con i capelli
raccolti a treccia e il braccio che fa come gli pare: è stata aggredita da un
maniaco mentre usciva dalla lavanderia. Certo, non ci sono soltanto donne
che stanno qui per colpa degli uomini. Aglaé, là in fondo, quella che ha il
viso paralizzato, si è buttata dal terzo piano dopo che le è morta la figlia.
Hersilie, la mummia qui di fronte che non si muove, è stata attaccata da
un cane. Ci sono anche quelle che non hanno mai aperto bocca, di cui non
sappiamo neppure il nome. Ecco qua. Un bel quadretto come primo
giorno, eh?».
Thérèse guarda Eugénie continuando a lavorare a maglia. Quella
giovane borghese non le pare particolarmente pazza, anche se è vero che
le pazzie più profonde non si vedono. Thérèse ricorda clienti, i più
perbene, i più corretti al primo approccio, che una volta chiusa la porta
della stanzetta si rivelavano veri e propri malati mentali. Tuttavia la
pazzia degli uomini non è paragonabile a quella delle donne, perché gli
uomini la esercitano sugli altri, mentre le donne su se stesse.
Sì, c’è qualcosa che la incuriosisce in quella bruna intimidita, e non solo
per l’educazione e la classe sociale che colpiscono subito e la distinguono
dalle altre. C’è qualcosa di più profondo. E poi l’Anziana non la starebbe
osservando con insistenza dall’altra parte della stanza se non avesse a sua
volta notato qualcosa.
«E tu? Cos’è che ti ha portato da noi?».
«Mio padre».
Thérèse si posa i ferri sulle gambe.
«È più facile quando a portarti qui sono i gendarmi».
Eugénie non ha il tempo di rispondere. Un urlo si eleva in mezzo al
chiacchiericcio. Infermiere in camice bianco si precipitano al centro del
dormitorio mentre le alienate si fanno rapidamente da parte, alcune
spaventate, altre infastidite dalle grida. In ginocchio, con le braccia
ripiegate sul petto e le mani contratte a pinza, Rose-Henriette sta
tremando in tutto il corpo. Con la faccia rivolta in basso, l’alienata
trentenne scuote con violenza la testa ed emette respiri rauchi a scatti. Le
infermiere non riescono a staccarle dal pavimento le gambe bloccate.
Geneviève si avvicina con decisione spostando le alienate al suo passaggio,
prende in tasca un flacone e versa un po’ del contenuto su una garza
piegata in quattro, poi si inginocchia davanti alla povera donna che non si
accorge più di niente e le applica il tampone sul viso. Dopo qualche
secondo le grida cessano e Rose-Henriette crolla con un tonfo sordo sul
pavimento.
Eugénie guarda Thérèse.
«La cosa più facile è non essere portate qui».
 
L’attacco di panico di Rose-Henriette ha fatto scendere il gelo sul
dormitorio. Il pomeriggio è trascorso in un silenzio monotono. Alcune
pazze hanno avuto il permesso di andare nel parco, altre hanno preferito
rimanere a letto a contemplare i costumi e pensare al ballo che si avvicina.
La cena in refettorio si svolge nella massima calma. Come ogni sera,
consiste in un piatto di minestra e due fette di pane.
Eugénie, che ha una fame da lupo, sta grattando col cucchiaio il fondo
della scodella per raccogliere le ultime tracce di minestra quando alla sua
destra appare una mano che le porge uno straccio da pavimenti.
Riconosce Geneviève.
«Qui tutte danno una mano. Passerai lo straccio insieme alle altre. Vieni
da me quando hai finito. E lascia in pace la scodella, non c’è più niente
dentro».
Eugénie ubbidisce senza dire una parola. Per più di mezz’ora
raddrizzano le panche, sparecchiano, lavano e asciugano i piatti,
spolverano i tavoli di legno e puliscono per terra. Dopo aver rimesso a
posto strofinacci e scodelle, tutte tornano nel dormitorio. Sono le otto di
sera.
Come d’accordo, Eugénie si reca da Geneviève all’ingresso. La
stanchezza le ha scurito le occhiaie.
«Vieni con me».
Quegli ordini secchi senza spiegazioni la indispettiscono. Prima il padre,
poi quell’infermiera arcigna. Si chiede se per tutta la vita qualcun altro
deciderà per lei. Stringe i denti e segue Geneviève nel corridoio da cui è
arrivata quella mattina. Fuori, alcuni lampioni lungo i viali brillano nel
buio della notte.
Geneviève si ferma davanti a una porta e cerca una chiave nel mazzo.
Eugénie riconosce la camera del giorno prima.
«Dormo di nuovo qui?».
«Sì».
«Ma mi hanno dato un letto nel dormitorio».
Geneviève infila la chiave nella serratura e apre la porta.
«Entra».
Eugénie, mantenendo i nervi saldi, entra nella stanza gelida. Come la
sera prima, Geneviève rimane sulla soglia con la mano sulla maniglia.
«Può almeno spiegarmi?».
«Il dottor Babinski ti visiterà domattina. Deciderà lui se devi restare in
isolamento o no. Nel frattempo voglio evitare che tu faccia paura alle altre
con le tue storie di fantasmi».
«La prego di scusarmi se ieri l’ho spaventata».
«Non mi hai spaventato. Non hai quel potere. Ma non ti azzardare più a
parlarmi di mia sorella. Non so come tu abbia saputo il suo nome e non
voglio saperlo».
«Me l’ha detto lei».
«Taci. Non esistono i fantasmi, capisci?».
«I fantasmi no. Gli spiriti sì».
Geneviève sente il cuore batterle con violenza. Cerca di controllare il
respiro. Certo che si è spaventata la sera prima, così come è spaventata in
quel momento di fronte alla figura scura che sta immobile ai piedi del
letto. Non era mai successo che un’alienata fosse riuscita a turbarla in quel
modo. Sente vacillare le proprie certezze, e deve ricorrere a tutto il suo
autocontrollo per non lasciar trapelare niente.
Fa una profonda inspirazione e sente se stessa dire:
«Tuo padre ha fatto bene a internarti».
Nella penombra Eugénie incassa in silenzio. Geneviève rimpiange subito
di averlo detto. Da quando in qua cerca intenzionalmente di ferire una
paziente? Non rientra nelle sue abitudini né nel suo senso etico
prendersela con le debolezze di una malata. Nel suo petto, i battiti del
cuore raddoppiano di intensità. Deve andarsene, uscire da quella stanza,
ma non ci riesce. Rimane indecisa sulla soglia, come se aspettasse qualcosa
che non osa confessare a se stessa.
Eugénie si mette sul bordo del letto e guarda la sedia su cui era seduta la
sera prima. Trascorrono alcuni secondi.
«Lei non crede agli spiriti, signora Geneviève?».
«Assolutamente no».
«Perché?».
«È assurdo, va contro ogni logica scientifica».
«Se non crede agli spiriti... perché ha scritto a sua sorella in tutti questi
anni? Centinaia di lettere che non ha mai spedito. Le scriveva perché in
qualche modo sperava che lei la sentisse, perché in fondo in fondo lo
riteneva possibile. E difatti sua sorella la sente».
Geneviève appoggia l’altra mano al muro per contrastare il senso di
vertigine.
«Non lo dico per spaventarla né per prenderla in giro, signora, ma
perché spero che lei mi creda e mi aiuti a uscire da qui».
«Ma... cioè... se dici la verità... se davvero senti... è ancora peggio... non
ti faranno mai uscire!».
Eugénie si alza e le si avvicina.
«Lo vede anche lei che non sono pazza. A Parigi esiste tutto un
ambiente spiritistico, gente di scienza, ricercatori che studiano per
dimostrare l’esistenza di un poi. Volevo unirmi a loro prima che mio
padre mi portasse qui».
Geneviève guarda stupita la faccia che ha di fronte. La franchezza di
Eugénie le impedisce di continuare a fingere. Di colpo autorità, stoicismo e
severità cascano ai suoi piedi. Liberata da un peso che fino a quel
momento ignorava di portare riesce a pronunciare la frase che le brucia
sulle labbra da un po’.
«Blandine... è qui? In questa stanza?».
Dapprima sorpresa, anche Eugénie si sente liberata da un peso. È come
una prima barriera rimossa, una prima tappa verso la coscienza e
l’empatia dell’unica donna in grado di darle una mano in quel luogo
maledetto.
«Sì».
«Dove?...».
«È seduta sulla sedia».
La piccola sedia di legno in fondo alla stanza è vuota. La vertigine che
coglie Geneviève è troppo violenta. Tira bruscamente la porta a sé
sbattendola così forte che i vetri delle finestre del corridoio tremano.
7
6 marzo 1885

S
ignora Geneviève! Mi sente?».
Un’infermiera scuote delicatamente la spalla di Geneviève. La
soprintendente solleva le palpebre e realizza stupita di essere nel suo
ufficio. In fondo al vestito sono attaccati lanicci di polvere. Si rende anche
conto di essere seduta sul parquet, appoggiata all’armadio con le
ginocchia contro il petto. Le duole la nuca. Alza la testa verso l’infermiera
che la sta osservando preoccupata.
«Si sente bene?».
«Che ore sono?».
«Le otto».
Nella stanza penetra la luce bianca della bruma mattutina. Geneviève si
porta la mano alla nuca. Le torna il ricordo della sera prima, il colloquio
con Eugénie, la porta sbattuta. Poi la stanchezza, schiacciante. Non se l’era
sentita di tornare a casa subito. Aveva deciso di andare a sedersi in ufficio
per recuperare le forze e rimettersi in sesto. Stremata, aveva camminato
nell’ospedale fino a raggiungere la sua porta. Non ricorda il seguito. È
evidente che non è tornata a casa e ha passato la notte seduta sul
pavimento polveroso della stanza in cui ogni giorno vengono firmate
schede di internamento.
Si rialza indolenzita e si spolvera il vestito.
«Ehm... ha dormito in ufficio?».
«Ma no. Sono arrivata stamattina presto e ho avuto un capogiro, tutto
qui. Tra l’altro, tu che ci fai qua?».
«Ero venuta a prendere le schede per le visite mediche di stamattina...».
«Non tocca a te occupartene. Esci dal mio ufficio, non hai niente da fare
qui».
L’infermiera abbassa la testa ed esce chiudendosi la porta alle spalle.
Geneviève cammina per la stanza in lungo e in largo con le braccia
conserte e l’espressione pensosa. Ce l’ha con se stessa per quel momento
di debolezza, che per giunta ha avuto una testimone. Alla Salpêtrière le
voci circolano più in fretta che in un villaggio. Il minimo passo falso, il
minimo comportamento ambiguo suscita un’attenzione di cui si farebbe
volentieri a meno. Non può permettersi di essere guardata con un’ombra
di dubbio. Un’altra deviazione sospetta e la manderanno a raggiungere le
altre pazze nel dormitorio.
Non succederà più. Ha ceduto, si è fatta intrappolare da un’idea
tentatrice, quella di credere che gli amati scomparsi restino accanto a noi
e che la fine della vita non possa sancire la fine di un’identità, di un essere.
Ha creduto a quelle sciocchezze perché Eugénie ha saputo mettere il dito
nel suo dolore più riposto, ma Eugénie è pazza. Sì, Eugénie è pazza e
Blandine è morta. È così che deve ragionare.
Fa un profondo respiro, prende alcuni fogli dal tavolo ed esce dalla
stanza.
 
Eugénie entra nella sala delle visite. Cinque giovani donne sono già lì, in
piedi al centro della stanza, e si voltano con apprensione verso la porta
oscillante che si è appena aperta credendo che sia arrivato il medico.
A prima vista il luogo sembra una piccola galleria del museo di storia
naturale. Al di sopra delle pareti ocra il soffitto ha una cornice di stucco.
Accanto all’entrata, lungo la parete, una libreria espone sugli scaffali
centinaia di opere di scienza, neurologia, anatomia umana e illustrazioni
mediche. Dall’altra parte, tra le ampie finestre verticali che affacciano sul
parco, un armadio a vetri di legno annerito racchiude flaconi, fiale e
ampolle di liquidi. Sul tavolo accanto sono allineati strumenti medici più o
meno grandi, più o meno sofisticati, sconosciuti a un pubblico non
iniziato. Più indietro, un paravento copre pudicamente un lettino. Nella
stanza aleggia un odore di legno ed etanolo.
Nessuno ama le sale delle visite come i medici stessi. Per quei cervelli
intrisi di scienza è il luogo in cui si scoprono le patologie e si fanno
progressi. Le loro mani godono a servirsi degli strumenti che terrorizzano
quelli su cui si accingono a utilizzarli. Per i pazienti, costretti a mettersi a
nudo, è un luogo fatto di timori e incertezze. In una sala di visita i due
individui che si trovano di fronte non sono più su un piano di parità: uno
valuta la sorte dell’altro, l’altro crede alla parola del primo. Uno
determina la sua carriera, l’altro determina la sua vita. Il divario è tanto
più pronunciato quando a entrare in uno studio medico è una donna, che
sottopone alla visita un corpo desiderato e allo stesso tempo incompreso
da chi lo maneggia. Un medico pensa sempre di saperne più di un
paziente, e un uomo pensa sempre di saperne più di una donna: è
l’intuizione di quello sguardo che in quel momento rende ansiose le
giovani in attesa di essere visitate.
 
L’infermiera che accompagna Eugénie le ordina di unirsi al gruppo. Il
parquet cigola sotto i suoi stivaletti. Le ragazze sembrano avere la stessa
età. Non sapendo che fare con le mani le stringono, le nascondono dietro
la schiena, si torcono le dita durante l’interminabile attesa.
Di fronte a loro c’è un pubblico interamente maschile composto da tre
assistenti seduti dietro un tavolo rettangolare. Vestiti scuri e cravatte
scure, parlano sottovoce fra loro ignorando l’inquietudine delle alienate.
Dietro di loro, in piedi, sono in attesa anche cinque infermieri in camice
bianco. Senza il minimo pudore squadrano ghignando le pazienti del
giorno, puntano gli occhi su seni, bocche e fianchi, si danno piccole
gomitate discrete, si mormorano volgarità all’orecchio. Guardandoli,
Eugénie si dice che devono aver visto e conosciuto ben poche donne per
godersela in quel modo davanti a malate indifese.
È stanca. Stanca di essere sballottata da una stanza all’altra come un
pedone. Stanca di sentirsi rivolgere la parola all’imperativo. Stanca di non
sapere dove le sarà concesso dormire quella notte. Vorrebbe un bicchiere
d’acqua, lavarsi col guanto, cambiarsi il vestito. La rigidità e l’assurdità
della situazione le spezzano i nervi. Quando sorprende un infermiere a
scrutarla con aria sorniona gli lancia uno sguardo così acceso che l’uomo
si mette a ridere sotto i baffi e commenta con i colleghi la bestia selvaggia
sulla destra: «Avete visto che sguardo?». Eugénie avrebbe potuto saltargli
alla gola se le porte oscillanti non si fossero aperte di colpo facendo
sussultare le pazienti.
Un medico entra nella stanza. I capelli corti e ondulati sono impomatati
e divisi da una riga di lato. Ha le palpebre cascanti che gli danno uno
sguardo concentrato e preoccupato, così come i baffi che si allungano in
modo aggraziato sulle labbra. Saluta i medici e gli infermieri, poi si siede
anche lui. Geneviève, alle sue spalle, posa le schede sul tavolo e si mette in
disparte rimanendo in piedi.
Dall’altra parte le giovani donne si sussurrano la stessa domanda.
«È Charcot, quello?».
«No, è Babinski...».
«Dov’è Charcot?».
«Se non c’è lui non voglio che mi tocchino...».
Babinski esamina rapidamente le schede e le passa al suo vicino, Gilles
de La Tourette, poi si alza.
«Bene, cominciamo. Lucette Badoin, si avvicini».
Una bionda magrolina, smarrita in un vestito troppo grande per lei, si fa
avanti timidamente. Ha i capelli raccolti in una treccia trascurata che le
ricade sulla schiena. Solleva uno sguardo preoccupato sull’uomo di fronte
a lei.
«Chiedo scusa, ma... non c’è il dottor Charcot?».
«Mi chiamo Joseph Babinski, oggi lo sostituisco io».
«Mi scusi di nuovo, ma... non voglio essere toccata».
«Non posso visitarla, allora».
«Mi farò toccare solo dal dottor Charcot e nessun altro...».
La povera ragazza comincia a tremare. Si sfrega le braccia con le mani e
fissa il parquet.
«Bene, torni nei prossimi giorni, allora» conclude Babinski sbrigativo.
«Fatela uscire. Chi c’è poi?».
«Eugénie Cléry».
«Venga avanti, signorina».
Eugénie fa due passi avanti. La Tourette, rimasto al tavolo, legge la sua
scheda ad alta voce.
«Diciannove anni. Genitori sani, fratello maggiore sano. Nessun
antecedente, nessun sintomo clinico. Sostiene di comunicare con i
defunti. Il padre l’ha fatta internare per spiritismo».
«Ah, sei tu».
«Sì».
«Sbottonati il colletto».
Eugénie dà un’occhiata in tralice a Geneviève, che evita il suo sguardo.
Geneviève non ha mai una partecipazione attiva nelle visite. La parola
spetta ai medici e agli assistenti, raramente agli infermieri. Il suo ruolo è
stare silenziosa in disparte, ed è quello che fa.
Stringendo i denti, Eugénie si sbottona il vestito fino al petto. Con
occhio freddo e clinico, Babinski le esamina le pupille, la lingua, il palato,
la gola, la ausculta, le sente la tosse, le misura il battito cardiaco e
controlla i riflessi. Man mano che commenta la visita, alle sue spalle le
penne scivolano rapidamente sulla carta.
Alla fine Babinski guarda Eugénie con aria incuriosita.
«È tutto nella norma».
«Posso tornare a casa, allora».
«Non è così semplice. Suo padre l’ha fatta internare per una ragione. È
vero che lei comunica con gli spiriti?».
Sulla sala scende un silenzio completo. Tutti sembrano in attesa di una
risposta soddisfacente, perché tutti in fondo condividono la stessa
curiosità. Tra gli infermieri è ancora più palpabile. Possono giurare sulla
scienza quanto vogliono, ma in realtà quel tipo di cose li affascina.
L’argomento non lascia indifferente nessuno. Ciò che riguarda l’aldilà
eccita le menti, stuzzica i sensi, sconvolge le idee, ognuno ha la sua teoria,
ognuno cerca di dimostrare o screditare i fatti, e nessuno sembra mai aver
ragione. Spesso si percepisce un dualismo tra la voglia di crederci e la
paura, paura che di solito conduce al rifiuto di crederci, perché è molto
più comodo e meno impegnativo non riempirsi la testa di pensieri del
genere.
Eugénie sente gli sguardi insistenti dei presenti.
«Se state cercando un nuovo animale strano da mostrare a tutta Parigi,
non lo trovo divertente».
«Siamo qui per capire e curare, non per divertirci».
«In effetti sarebbe desolante se la Salpêtrière diventasse un circo di
donne».
«Se si riferisce alle lezioni pubbliche del dottor Charcot, sono ciò che di
più onorevole c’è nella professione».
«E il ballo, allora? Non sapevo che gli ospedali fossero luoghi di
mondanità».
«Il ballo di mezza quaresima diverte le alienate e permette loro di
ritrovare una sembianza di normalità».
«Quelli che divertite sono i borghesi».
«Signorina, si limiti a rispondere alla domanda».
«Se devo rispondere con precisione, non comunico con gli spiriti».
Dal tavolo, puntando il dito su un foglio, interviene La Tourette.
«Nella scheda è specificato che ha detto a sua nonna...».
«...Che il nonno defunto mi aveva fatto arrivare un messaggio, è vero. Io
non ho chiesto niente. È successo e basta».
Babinski sorride.
«Sentire i morti non sono cose che “succedono e basta”, signorina».
«Può dirmi esattamente perché sono qui?».
«La risposta non le sembra evidente?».
«Eppure si accetta che una bambina abbia visto la Madonna a Lourdes».
«Non è la stessa cosa».
«Perché no? Per quale motivo si accetta di credere in Dio e non si
accetta di credere negli spiriti?».
«Credere e avere fede è una cosa. Vedere e sentire i defunti, come
sostiene lei, non è normale».
«Lo vede bene che non sono pazza. Non ho mai avuto un attacco. Non
ho nessun motivo di restare qui, nessuno!».
«Abbiamo ragione di pensare che probabilmente soffra di un
disturbo...».
«Non soffro di un bel niente. Avete solo paura di quello che non capite.
E vi considerate medici. Se avesse visto come ci guardavano i suoi cretini
in camice bianco... Come carne da mangiare! Siete spregevoli!».
Geneviève sente il disagio impossessarsi della stanza. Vede Babinski
fare un cenno a due infermieri, che subito prendono la pazza per un
braccio. È tentata di fare un passo avanti, ma si trattiene. Osserva la
giovane, fino a quel momento tranquilla, urlare, dimenarsi e perdere
speranza man mano che la portano fuori.
«Mi state facendo male. Bruti! Lasciatemi!».
Le si disfa lo chignon, i capelli le ricadono sulla faccia. Arrivata
all’altezza di Geneviève, la povera ragazza le rivolge uno sguardo che
l’intendente non le aveva mai visto. Allo stremo delle forze, con voce
rotta, le dice:
«Signora Geneviève... Mi aiuti... Signora...».
Le porte oscillanti si aprono, le alienate che aspettano dietro si spostano
di fronte alle grida raddoppiate di Eugénie.
Le urla si allontanano poco a poco in fondo al corridoio, e Geneviève ha
un nodo alla gola.
 
Una piacevole luce pomeridiana illumina i prati del parco. È marzo, fa
ancora fresco, ma nelle ultime settimane il sole è talmente mancato che
alcune alienate sono uscite a godersi la temporanea schiarita.
Contemplano passeri e piccioni sedute su una panchina, si trattengono
presso un albero per accarezzarne la corteccia, spazzano il lastricato dei
viali con l’orlo del vestito.
Una figura in bianco percorre lentamente il parco in lungo e in largo.
Da lontano si riconoscono la statura e lo chignon biondo dell’Anziana.
Guardandola meglio, il suo comportamento desta un po’ di stupore.
Generalmente rigida nel suo camice e attenta al perimetro che sta
controllando, quel pomeriggio sembra distante, pensierosa, indifferente a
ciò che potrebbe succedere intorno a lei. Costeggia i prati con la testa
china e le mani dietro la schiena camminando più piano del solito, senza
neanche dare un’occhiata a quelli che incontra. Non si capisce se sia
contrariata o malinconica, anche se è difficile immaginare l’Anziana
malinconica. Per le alienate non è mai stata una fonte di conforto o di
confidenza. Più che altro intimidisce, tanto che certe volte è capace di
calmare una crisi con un semplice sguardo. Ciò nonostante è la colonna
del settore, una presenza stabile e fedele ogni giorno dell’anno. Il buon
svolgimento di una giornata dipende dal suo stato d’animo. L’atmosfera
sarà rilassata se lei è rilassata, sarà tesa se lei è tesa. Così, vedendola
camminare con aria palesemente smarrita, le alienate si chiedono
cos’abbia e finiscono per sentirsi anche loro smarrite.
Mentre fissa il selciato senza vederlo è colta di sorpresa da una voce alla
sua sinistra.
«Che aria tetra, Geneviève...».
Thérèse è seduta su una panchina. Con la faccia al sole sta
sgranocchiando un cantuccio di pane e lanciando ogni tanto qualche
briciola a passeri e piccioni che saltellano sul prato. La pancia tonda si
solleva e si abbassa al ritmo del suo respiro. Geneviève si ferma.
«Oggi non lavora a maglia, Thérèse?».
«Faccio riposare le dita al sole. Vuole sedersi?».
«No, grazie».
«È una bella cosa il ritorno della primavera, il parco che torna a essere
verde. L’umore delle ragazze è migliore».
«Anche per l’imminenza del ballo. Le rasserena».
«Devono pur pensare a qualcos’altro. E lei?».
«Io cosa?».
«A che pensa?».
«A niente in particolare».
«Non si direbbe».
Geneviève si volta per non darle ragione e infila le mani nelle tasche
davanti del camice. Le due donne osservano il parco. Di quando in quando
in lontananza, sotto le arcate, passa un fiacre trainato da un cavallo che
attraversa al trotto i viali dell’ospedale. Vista da lì Parigi è distante ed
estranea. Protetti dalla baraonda, dalle incertezze e dai pericoli della città
si prova un certo conforto a vivere in quei luoghi senza rumore, ma, dato
che i muri separano anche dalle libertà e dalle possibilità, se ne sentono
pure le limitazioni e la mancanza di prospettive.
Thérèse sta continuando a tirare briciole agli uccelli raggruppati ai suoi
piedi.
«Che ne pensa della nuova, la bruna che parla bene?».
«Per il momento è sotto osservazione».
«Lo sa che quella ragazza non è pazza, vero? Io le conosco, le malate
mentali, e anche lei, Geneviève. È normale. Non so perché il padre l’abbia
fatta rinchiudere qui, deve averlo offeso di brutto».
«Come sa che è stato il padre?».
«Me l’ha detto lei ieri».
«Le ha detto altro?».
«No, ma penso che ne abbia, di cose da dire».
Geneviève sprofonda ancora di più le mani nelle tasche. Non riesce a
togliersi dalla mente l’immagine di quella mattina, in particolare la faccia
di Eugénie. Ma che può fare? Non spetta a lei decidere se una paziente
debba rimanere lì o no. Le donne vengono portate alla Salpêtrière per una
ragione. Il suo lavoro consiste nel soprintendere al settore e fare da
intermediaria tra alienate e medici, non nello stilare una diagnosi o
perorare la causa dell’una o dell’altra pazza. E poi da quando in qua si
lascia andare a riflessioni del genere? Per quanto riguarda le alienate, ha
sempre pensato soltanto a nutrirle e curarle, o almeno cercare di curarle.
Quella storia le sta rubando troppa energia. Deve smettere di rimuginarci
sopra.
Respinge con un piede un piccione che si stava avvicinando troppo e
attraversa il parco a vivace andatura sotto lo sguardo confuso delle pazze.
 
Trascorrono vari giorni. Scelti i costumi, ci si adopera a preparare la
sala dell’Hospice, dove avrà luogo il ballo. Nella lunga e ampia sala, sotto
lampadari eleganti, comincia l’allestimento: vengono messe piante e fiori
ai quattro angoli, portati tavoli destinati al futuro buffet, sistemati
divanetti di velluto sotto le finestre, spolverate le tende, spazzato il palco
su cui suonerà l’orchestra e puliti i vetri delle finestre. Ogni alienata
collabora allo sforzo collettivo per preparare l’evento in un clima
armonico e gioioso.
All’esterno, la Parigi bene ha ricevuto il cartoncino d’invito: La S.V. è
cordialmente invitata al ballo in costume di mezza quaresima che si svolgerà
all’ospedale della Salpêtrière il 18 marzo 1885. Medici, prefetti, notai, scrittori,
giornalisti, politici, aristocratici e tutti gli appartenenti alla società
privilegiata di Parigi aspettano il ballo con un’euforia identica a quella
delle pazze. Nei salotti non si parla d’altro. Si commentano i balli degli
anni precedenti. Si descrive lo spettacolo che offrono trecento alienate in
maschera. Si raccontano aneddoti: la pazza in preda a spasmi calmata
comprimendole le ovaie, la quindicina di alienate cadute in catalessi al
suono dei piatti dell’orchestra, la ninfomane che si strusciava a tutti gli
uomini presenti. Ci si ricorda di aver riconosciuto la tale ex attrice di
teatro nella povera internata dallo sguardo perso. Ognuno ha il suo
ricordo memorabile, la sua esperienza, il suo aneddoto. Per quei borghesi,
affascinati dalle malate mentali che hanno l’occasione di vedere da vicino
una volta l’anno, quel ballo vale più di tutti gli spettacoli teatrali e le
serate mondane a cui intervengono di solito. Per lo spazio di una sera la
Salpêtrière fa incontrare due mondi, due classi che senza quel pretesto
non avrebbero motivo né voglia di incontrarsi.
 
È tarda mattinata quando Geneviève, nel suo ufficio a sbrigare pratiche,
sente bussare alla porta.
«Avanti».
La soprintendente sta continuando a ordinare scartoffie nell’armadio e
non vede il giovanotto che entra timidamente nell’ufficio e si toglie il
cilindro scoprendo i riccioli rossi.
«Geneviève Gleizes?».
«Sono io».
«Sono Théophile Cléry, il fratello di Eugénie Cléry, che abbiamo... che
mio padre ha fatto internare la settimana scorsa».
Geneviève si interrompe e guarda Théophile. Il giovane tiene il cappello
contro il petto e la osserva imbarazzato. Geneviève si ricorda di lui:
appena messo piede in ospedale ne era uscito di corsa.
Lo invita ad accomodarsi e si siede anche lei alla scrivania. Théophile
esita a guardarla negli occhi.
«Non so da dove cominciare... Volevo incontrarla per... ma non so
nemmeno se la Salpêtrière lo consenta... Vorrei vedere mia sorella.
Gradirei parlare con mia sorella».
È la prima volta che Geneviève si sente rivolgere una richiesta del
genere. È già raro che un membro della famiglia chieda notizie di
un’alienata per lettera, ma che addirittura si sposti per andare a trovarla è
un evento eccezionale.
Si appoggia allo schienale e guarda da un’altra parte. Dopo la visita
medica di Babinski non ha più visto Eugénie. Sono passati cinque giorni.
Sa che la giovane è stata messa in isolamento, e che quando le portano da
mangiare scaglia furiosamente il piatto contro il muro. Le infermiere sono
state costrette a non portarle più posate e stoviglie, ormai le danno
soltanto fette di pane e burro che Eugénie rifiuta di mangiare. Geneviève
ascolta con indifferenza i resoconti delle infermiere scioccate. Da quando
non frequenta più Eugénie si sente meno turbata, meno vulnerabile.
Preferisce saperla rinchiusa e mantenere le distanze da lei.
«Sono desolata, signor Cléry, sua sorella non può ricevere visite».
«Come sta? È una domanda stupida, probabilmente».
Il giovane arrossisce. Col dito indice si allarga un po’ il foulard di raso
che gli stringe il collo. Con quei riccioli rossi che gli ricadono sulla fronte
pallida, le ricorda Blandine. L’evidente fragilità, i gesti delicati, le
lentiggini su naso e zigomi... Geneviève tenta di scacciare l’immagine della
sorella. In un modo o nell’altro, quei Cléry la riportano sempre a Blandine.
«Sua sorella ha un carattere forte. Saprà affrontare la situazione, ne
sono sicura».
La risposta non sembra soddisfare Théophile. Si alza, fa qualche passo,
si ferma davanti alla finestra, osserva gli edifici dell’ospedale lungo i viali.
«È immenso, questo posto».
Geneviève, dalla sedia, lo guarda. Il giovane ha lo stesso profilo di
Eugénie, lo stesso naso dritto e sottile, le stesse labbra carnose.
«Vede, io e mia sorella non siamo mai stati particolarmente legati,
abbiamo soltanto lo stesso cognome. Siamo stati educati così. Ciò
nonostante ho la sensazione di una terribile ingiustizia. Dalla settimana
scorsa non dormo più, il volto di Eugénie non mi esce dalla testa. Non le
abbiamo lasciato scelta. Anch’io sono stato debole, ho partecipato al suo
internamento e me ne pento. Mi scusi se mi confido con lei in questo
modo forse sconveniente. Visto che non posso vedere mia sorella, posso
almeno lasciarle qualcosa?».
Senza dare a Geneviève il tempo di rispondere Théophile prende un
libro da una tasca interna della giacca e glielo porge emozionato. In
copertina è scritto Il libro degli spiriti. La donna non capisce.
«Sono riuscito a prenderlo prima che mio padre lo trovasse e lo
bruciasse. La prego, glielo dia. Non lo faccio perché mi perdoni, vorrei
giusto che si sentisse meno sola. La prego».
Colta di sorpresa, Geneviève esita a prenderlo. Non vuole più avere
niente a che fare con Eugénie, da vicino o da lontano, e soprattutto non
vuole più sentir parlare di spiriti, fantasmi, anima o qualunque cosa che
presupponga un’esistenza dopo la morte. Tuttavia Théophile continua a
tenere la mano tesa e la supplica con lo sguardo. Di colpo, Geneviève
afferra il libro e lo infila precipitosamente in un cassetto. Théophile la
saluta con un sorriso riconoscente, si rimette il cilindro ed esce dalla
stanza mentre entra un’infermiera.
 
Geneviève aveva quattordici anni quando, nello studio del padre, aveva
tenuto tra le mani il primo testo di anatomia. Quella lettura aveva
costituito un momento cruciale della sua esistenza. Man mano che voltava
le pagine le si rivelavano le logiche della scienza. Ogni cosa dell’uomo
poteva essere spiegata. Era stato uno shock e una rivelazione, tanto
quanto la Bibbia era stata uno shock e una rivelazione per la sorella. Le
rispettive letture avevano segnato a fondo le due sorelle e motivato le loro
scelte future: medicina per Geneviève e religione per Blandine.
Geneviève leggeva solo testi scientifici. Non le piacevano i romanzi, non
capiva che interesse avessero le storie inventate. Non le piaceva neanche
la poesia, perché non era di nessuna utilità. Secondo lei i libri dovevano
essere pratici, apportare un insegnamento sull’essere umano, o almeno
sulla natura e sul mondo. Tuttavia non ignorava il ruolo determinante che
certi libri potevano esercitare sugli individui. Non solo l’aveva constatato
in se stessa e in sua sorella, ma anche in certe alienate che parlavano di
romanzi con una passione stupefacente. Aveva visto pazze recitare poesie
e piangere, evocare eroine della letteratura con allegra familiarità o citare
un brano con voce prossima al pianto. Quella era la differenza tra il
fattuale e il fantasioso: col primo era impossibile emozionarsi. Ci si
limitava ai dati, alle constatazioni. Le opere di fantasia invece suscitavano
le passioni, creavano gli eccessi, sconvolgevano le menti, non invitavano
al ragionamento e alla riflessione, ma trascinavano i lettori, e soprattutto
le lettrici, verso il disastro sentimentale. Geneviève non vi vedeva alcun
interesse intellettuale, per giunta ne diffidava. Motivo per cui nel settore
delle alienate i romanzi erano vietati: non era il caso di correre il rischio di
eccitare gli animi.
In quel momento osserva il volume che ha fra le mani con la stessa
diffidenza. Fuori è sceso il buio. Dopo una rapida toilette sul pianerottolo e
un piatto di minestra mangiato in fretta ha preso il libro dalla tasca del
cappotto e si è seduta sul bordo del letto alla luce della lampada a olio
posata sul comodino. Il libro degli spiriti. Ne ha vagamente sentito parlare
alle riunioni tra medici, quando la conversazione prendeva una piega
metafisica. Il contenuto dell’opera veniva abbondantemente deriso e
denigrato. Si considerava offensivo che concetti del genere fossero non
solo stati pensati, ma addirittura pubblicati. Se non ricorda male, l’autore,
a partire da elementi concreti, si proponeva di dimostrare la realtà di
un’esistenza dopo la morte. L’obiettivo era indubbiamente ambizioso, ma
visto che anche quel libro sembrava suscitare vive emozioni non se n’era
mai interessata.
La rustica stufa di fronte al letto diffonde un dolce tepore nell’ambiente.
Rue Soufflot è silenziosa. Geneviève guarda il libro senza aprirlo. È dopo
averlo letto che Eugénie è stata fatta internare dal padre. È comprensibile,
a nessun genitore fa piacere sentire il figlio che parla di aldilà. Non è
naturale per l’essere umano scompigliare i confini, mettere in discussione
la fine della vita, cercare di comunicare con l’invisibile. Azioni del genere
hanno a che fare più con la pazzia che con la ragione.
Si rigira il volume tra le mani, scorre rapidamente le pagine, lo posa sul
comodino, lo riprende: niente le impedisce di aprirlo e leggerlo, almeno le
prime righe... Se è assurdo come sostengono i suoi colleghi ne sarà
infastidita e lo richiuderà subito. Comunque è fuori questione che lo dia a
Eugénie incoraggiando i suoi vaneggiamenti.
L’orologio segna le dieci. Ha sempre le mani posate sul libro chiuso,
come se temesse quello che le pagine potrebbero dirle.
“Su, vecchia mia, è solo un libro, non fare la stupida”.
Con gesto deciso si appoggia al cuscino, tira su le gambe e apre la prima
pagina.
8
12 marzo 1885

A
Parigi è l’alba. Per le strade la popolazione mattutina calpesta già il
selciato. Lungo la Senna e sul canale Saint-Martin decine di lavandaie
vanno verso i battelli attrezzati a lavatoi portando sulle spalle sacchi pieni
di biancheria di borghesi. Gli straccivendoli, dopo aver passato la notte a
cercare merce da rivendere, trascinano le pesanti carrette cariche dei
sacchi della raccolta notturna. Agli angoli delle strade si susseguono gli
addetti ai lampioni per spegnere manualmente i beccucci a gas. Alle
Halles, i mercati generali che Émile Zola definisce il ventre di Parigi, i
mercanti scaricano cassette di frutta e verdura, tirano fuori il pesce dal
ghiaccio e tagliano la carne. Non lontano, in rue Saint-Denis, così come in
rue Pigalle o in rue de Provence, le prostitute aspettano di fare un’ultima
marchetta o respingono un cliente ubriaco. Gli strilloni escono dalle
tipografie con i pacchi dei giornali che si portano dietro in sacche a
tracolla. Nei vari quartieri i primi profumi di pane caldo raggiungono le
narici di operai e operaie, portatori d’acqua, carbonai, spazzini e stradini,
e tutte quelle figure fanno già vivere Parigi mentre l’aurora comincia a
illuminare i tetti.
La Salpêtrière è ancora immersa nel sonno quando Geneviève
attraversa il cortile d’onore. I tacchi sbattono sul selciato freddo del lungo
viale, passaggio obbligato per chiunque entri nella cerchia muraria
dell’ospedale dopo aver varcato l’arcata d’ingresso. A destra, sul prato, un
gatto sta giocando col cadavere di un topolino. Non c’è un passante né un
calesse.
Il cielo si è fatto più scuro da quando Geneviève è uscita. Sottili gocce di
pioggia la accompagnano verso la chiesa Saint-Louis. Un modesto
cappellino che osa qualche fiore sul lato la ripara dall’acquerugiola
mattutina. Si stringe il cappotto con le mani inguantate. Ha le occhiaie.
Quella notte non ha dormito.
Imbocca un passaggio a volta sormontato dall’indicazione Divisione
Lassay ed entra nel cortile Saint-Louis. Di fronte ha il parco con gli alberi
spogli, a sinistra l’imponente facciata bianca della chiesa coronata da
cupole nere. Va verso la chiesa. Nella tasca interna del cappotto, contro il
petto, ha il libro che ha letto quella notte.
Arrivata davanti al portone rosso porpora si ferma un attimo, fa un
profondo respiro ed entra.
A prima vista ciò che colpisce è la sobrietà del luogo. Niente ori o
stucchi. I muri di pietra, in certi punti un po’ anneriti, sono privi di
qualsiasi decorazione. La chiesa sembra quasi abbandonata.
A sinistra e a destra sei statue di santi su basi di pietra sono collocate in
altrettante nicchie ad arco. Destano meraviglia la dimensione e il taglio
del luogo: quattro distinte cappelle disposte a croce con al centro la
cupola principale, talmente alta che costringe a piegare la testa
all’indietro dando quasi le vertigini.
Geneviève istintivamente si toglie il cappello e scuote le poche gocce di
pioggia rimaste attaccate alla stoffa. È stupita di essere entrata, di trovarsi
all’interno di un edificio davanti al quale passa da vent’anni e nel quale si
era ripromessa di non mettere piede.
Va timidamente avanti in mezzo alla pietra umida e fredda. Ogni
cappella ha una propria disposizione, un arredamento sobrio e scarno che
però offre tutto il necessario al raccoglimento: panche o sedie di legno,
altare, ceri e statua della Madonna. Il luogo è di una calma rara. A
Geneviève sembra che il proprio respiro rimbombi tra gli immensi muri.
Un mormorio attira la sua attenzione. Nella seconda cappella di sinistra
una donna bassina e grassottella sta pregando in piedi di fronte a una
Madonna di pietra. Indossa il vestito e il grembiule delle lavandaie. Tra le
mani giunte sotto il mento ha un rosario in grani neri. A occhi chiusi,
conversa sottovoce con la figura femminile che ha di fronte. Vedendo
quella donna da sola, in una chiesa troppo grande per lei, che per prima
cosa la mattina all’alba va a pregare, Geneviève è quasi tentata di
invidiarle la sua fede. La osserva per un attimo, ma le sembra di essere
importuna, così guarda da un’altra parte e decide di recarsi nella prima
cappella a destra dell’entrata. Si siede facendo scricchiolare le gambe della
sedia. Si posa il cappello sulle ginocchia. Davanti all’altare, in basso, è
accesa qualche candela.
Solleva il viso e osserva quell’universo che da piccola le faceva orrore.
Tutto le ricorda le interminabili e dolorose domeniche mattina. Odiava la
chiesa, e l’aveva odiata ancora di più dopo la scomparsa di Blandine.
“Luogo di culto”! La gente è dunque così debole da aver bisogno di
credenze e idoli, da aver bisogno addirittura di un luogo in cui andare a
pregarli, come se a casa propria, in camera propria, non bastasse? A
quanto pare sì. E lei che ci fa lì dentro, se continua a non credere? Il libro
della sera prima, le pagine che ha sfogliato per tutta la notte, l’hanno
spinta a uscire all’alba per andare in chiesa. Eppure il testo non ha niente
di religioso, semmai il contrario. Ma l’urgenza di andarci l’ha sopraffatta,
così come il libro l’ha sopraffatta. In verità non sa cosa sia venuta a
cercare. Forse non tanto una risposta quanto una spiegazione, o almeno
una direzione. È una guerra futile, lo sa. Da una settimana, da quando è
arrivata Eugénie, tutto ciò che pensava di padroneggiare le sfugge. È una
sensazione che mette a dura prova, ma non vi si oppone più. Ha cercato
invano di resisterle. Se è necessario toccare il fondo più fondo per poi
risollevarsi e tornare meglio di prima, allora che cada.
Sente dei passi alle sue spalle. Si volta: la lavandaia grassottella sta
andando verso l’uscita. Geneviève si alza di scatto e le si avvicina. La
donna si ferma e la guarda stupita.
«Esco con lei. Non mi va di restare sola qui».
La donna sorride. Ha il volto stanco di una vita passata a lavare a mano
la biancheria degli altri. L’acqua le ha screpolato mani e avambracci.
«Qui non è mai sola. Né qui né altrove».
La lavandaia si allontana lasciandola lì. Smarrita, la soprintendente si
porta la destra al cuore e tasta il cappotto: il libro è ancora al suo posto.
 
La chiave cigola nella serratura. Eugénie apre gli occhi. Il risveglio le fa
subito tornare i crampi allo stomaco. Si rannicchia un po’ di più sul letto. È
scalza. Negli ultimi giorni gli stivaletti le hanno fatto gonfiare le caviglie, è
stata costretta a toglierseli e poi non è riuscita a rimetterseli. Non
sopportando più di essere prigioniera del vestito stretto, in un impeto di
esasperazione ha anche strappato bottoni e cuciture all’altezza delle
maniche, delle spalle e della vita.
Si posa una mano sulla pancia e fa una smorfia. I capelli bruni, di solito
lisci e pettinati, sono ormai sporchi e polverosi. La sera prima si è decisa a
mangiare la fetta di pane che la mattina non aveva toccato. In quattro
giorni era la prima volta che mandava giù qualcosa. Eppure sa che per
sopravvivere in quel luogo non deve indebolirsi, deve mantenere tutte le
sue facoltà fisiche e mentali. In un posto che ti annienta al primo segno di
debolezza è consapevole di essere lei stessa la sua prima risorsa. La crisi
che aveva avuto durante la visita medica non si era placata, e negli ultimi
giorni non aveva trovato di meglio da fare che continuare la propria
solitaria protesta rifiutando categoricamente che le portassero da
mangiare. Era più forte di lei. Fino a quel momento non aveva mai saputo
cosa fosse la vera rivolta. Era in profondo disaccordo col padre, certo, e
vedere gli uomini ridere delle donne le suscitava una collera sorda e
silenziosa, ma non sapeva che un’emozione potesse travolgere come
un’onda corpo e mente tanto da renderla capace di fare una cosa sola,
urlare contro quell’indecenza. Era disgustata dall’ingiustizia della
situazione, ma mentre l’indignazione non si placava lei deperiva. Le girava
la testa appena provava a scendere dal letto, i crampi le torcevano lo
stomaco, la fame le faceva venire la nausea. Tollerava a stento la brocca
d’acqua che le avevano dato. Le sue giornate trascorrevano nella
penombra. Le persiane della finestra erano chiuse, ma il legno, rotto in
certi punti, lasciava passare un po’ di luce. Era arrabbiata e stanca. Mai si
era sentita così abbandonata, senza niente da fare. E sì che quand’era dai
genitori pensava ingenuamente di essere sola, pensava che il suo
carattere, le sue provocazioni e le sue risposte pronte la isolassero e la
tenessero a distanza da una famiglia che non la capiva! Era incompresa,
forse, ma sola no. Non era quella la solitudine. La solitudine è essere
isolata in un ospedale per pazze senza la minima libertà di movimento,
senza prospettiva per il futuro e soprattutto senza nessuno, ma proprio
nessuno, che si interessi in qualche modo a lei.
«Eugénie Cléry».
Stupita da quella voce, si tira a sedere sul letto.
In piedi sulla soglia Geneviève guarda lo stato in cui versa la camera:
cocci di stoviglie a terra, stivaletti buttati negligentemente da una parte,
sedia rovesciata con gamba spaccata.
Dal letto Eugénie la guarda con un’aria da morta. La sua faccia ha perso
splendore e sicurezza.
«Ti va di venire a mangiare in refettorio? Dopo vorrei avere un
colloquio con te».
Eugénie solleva le sopracciglia, sorpresa. Tanto per cominciare si
stupisce che la frase sia stata formulata come una domanda e non come un
ordine. E poi c’è qualcosa di cambiato nella voce dell’Anziana. Anche la
faccia sembra diversa, benché in controluce non la veda bene. Ma sì, la
figura di Geneviève non è rigida come al solito. Qualcosa dentro di lei si è
rilassato. Qualunque sia il motivo di quell’inaspettata cortesia, Eugénie
può uscire dalla stanza, andare a bere una tazza di latte caldo.
Si siede sul bordo del letto, infila a forza i piedi negli stivaletti malgrado
le facciano male, riabbottona i bottoni sopravvissuti e si avvicina a
Geneviève mentre con la mano si manda indietro i capelli sporchi.
«Grazie».
«Pulirai la stanza più tardi».
«Senz’altro. Mi ero arrabbiata».
«Dopo mangiato vai a lavarti. Ti aspetterò».
 
La stessa acquerugiola dell’alba si deposita sui cappellini a punta e i
cilindri che percorrono i viali dell’ospedale.
Eugénie raggiunge Geneviève nel parco. Ha i capelli lavati e ancora
umidi raccolti in una lunga treccia scura che le ricade su un lato del petto.
È avvolta in un mantello beige con un cappuccio svasato sulla testa. Il suo
sguardo ha ritrovato la determinazione di sempre. Le è bastato alleviare la
fame e lavarsi per riacquistare vigore e fiducia in se stessa. Si sente meno
debole e meno trascurata. Il fatto stesso che Geneviève le abbia aperto la
porta le ha permesso di ricominciare a sperare e uscire dal torpore che da
vari giorni la paralizzava.
Addossata a un albero al riparo dagli sguardi, Geneviève la vede
arrivare. Controlla che nei paraggi non ci sia nessuno e le fa un cenno.
«Camminiamo».
Eugénie la segue. I viali sono vuoti. A destra, lungo il muretto che
delimita il fondo del parco, alcuni topolini fuggono l’acqua e si rintanano
nel primo buco che trovano. Sul prato si sono formate pozzanghere. La
pioggerella si è fatta più fitta e cade lentamente sul parco che alla fine
inzupperà.
Le due donne vanno avanti a testa bassa. Dopo pochi passi Geneviève
infila la mano nel cappotto, tira fuori Il libro degli spiriti e lo porge a
Eugénie, che lo guarda senza capire.
«Prendilo in fretta, prima che qualcuno ci veda».
Interdetta, Eugénie prende il libro e lo nasconde sotto il mantello.
«Tuo fratello voleva dartelo di persona, ma non è possibile, lo capisci».
Eugénie si stringe il libro al petto. Le viene un nodo alla gola al pensiero
che il fratello sia andato a trovarla in quel luogo.
«Quando l’ha visto?».
«Ieri mattina».
Ha una stretta al cuore. Si sente felice e triste insieme. Il fratello era lì,
non l’ha dimenticata. Non è così sola come credeva. Riflette un attimo, poi
guarda Geneviève in tralice.
«Perché mi dà questo libro se non è autorizzata?». Eugénie nota una
luce nello sguardo di Geneviève. «L’ha letto?».
«Qui i libri sono vietati. In cambio vorrei che facessi qualcosa per me».
Geneviève si sente il fiato corto, le gira un po’ la testa, ciò che sta
facendo la stordisce. Fino a quel giorno avrebbe trovato inconcepibile che
lei, soprintendente del reparto, parlasse faccia a faccia con un’alienata
contravvenendo alle regole da lei stessa fissate, che si accingesse a
chiederle un piacere in cambio di un altro. Non vuole pensarci. È
pienamente consapevole dell’assurdità del suo comportamento, ma
ancora una volta preferisce andare fino in fondo alla sua idea, a costo di
pentirsene.
«Vorrei... parlare con mia sorella».
La pioggia si fa più fitta e colpisce la gente che cammina con passo
rapido lungo gli edifici dell’ospedale. Arrivate in fondo al parco, le due
donne si rifugiano sotto un passaggio a volta. Eugénie si abbassa il
cappuccio bagnato. Rimane pensosa per un po’, poi alza gli occhi
sull’Anziana.
«Se si tratta di uno scambio... preferirei fare a meno del libro e
riacquistare la libertà».
«Sai bene che è impossibile».
«Allora mi dispiace, ma anche parlare con sua sorella sarà impossibile».
Geneviève impreca dentro di sé. Come le è venuto in mente di
intavolare una trattativa con una pazza? Sta davvero perdendo la testa e
la faccia. Dovrebbe rispedire quella giovane borghese in isolamento e non
sentirne più parlare. Allo stesso tempo il ricatto di Eugénie è legittimo. È
stata lei stessa a metterle stupidamente in mano le carte per giocare. Era
chiaro che in cambio di una seduta spiritica le avrebbe chiesto qualcosa di
più di un libro. Quell’Eugénie le fa venire i nervi. Geneviève non può
rinunciare adesso, quella speranza è l’unica che possiede. E poi che
importanza ha se promette, visto che non è costretta a mantenere? Non
sarà molto morale, ma le promesse impegnano solo quelli che ci credono.
«D’accordo, farò quel che posso con il dottore. Ma solo se parlo con mia
sorella».
Eugénie annuisce con sollievo. È ancora presto per cantare vittoria, ma
è già un primo piccolo successo. Forse Blandine ha detto il vero, forse
Geneviève la aiuterà. E forse uscirà da lì prima di quanto pensi.
«Quando?».
«Stasera. Ti rimetterò in isolamento. Ora torna da sola nel tuo settore,
ci hanno visto insieme fin troppo».
Eugénie scruta Geneviève. Dal cappello bagnato le cadono gocce sul viso
e sulle spalle. Lo chignon, di solito impeccabile, è sfatto, e ciuffi biondi le
scendono sui lati. Ha lavorato talmente sull’autorità che la sua faccia è
bloccata in una sola identica espressione rigida. Solo lo sguardo la
tradisce. Basta osservarne gli occhi azzurri, è in quelli che si leggono la
debolezza e l’incertezza. Ma dato che nella sua vita nessuno l’ha mai
guardata davvero, ciò che ha potuto talvolta esprimere è passato sotto
silenzio.
Dopo quella piccola analisi Eugénie le rivolge un sorriso riconoscente,
poi si rimette il cappuccio sulla testa e attraversa il parco correndo sotto
la pioggia.
 
Quel pomeriggio il dormitorio è preda di un’eccitazione nuova. Tra le
file dei letti c’è un uomo che ha metà faccia nascosta dalla barba nera e i
capelli corti tagliati con la forbice. La sua grossa corporatura soffoca nel
vestito striminzito. A occhio e croce sembrerebbe più a suo agio in
campagna a zappare che non lì a maneggiare con prudenza l’apparecchio
che sta montando ai piedi di un letto. La macchina fotografica nera fissata
al cavalletto sembra una fisarmonica in miniatura. Due infermiere si
incaricano di impedire che dita curiose la tocchino. Intorno al fotografo si
è formato un piccolo assembramento. Con euforia contenuta le ragazze
osservano il corpo a soffietto dell’apparecchio e il corpo robusto
dell’uomo.
«È strano, prima non interessavamo a nessuno».
In disparte, con le gambe allungate sul materasso, Thérèse osserva la
scena lavorando a maglia. Sul letto accanto Eugénie aiuta Louise a ricucire
alcuni strappi sul costume da spagnola. Da quando ha parlato con
Geneviève è più serena. La rabbia se n’è andata. La sua permanenza alla
Salpêtrière è solo questione di ore. La prospettiva di uscire, tornare in
città ed essere liberata da quelle mura infernali le gonfia il petto di
sollievo e allegria. Appena saprà di essere autorizzata ad andarsene
scriverà a Théophile. Gli dirà di venire a prenderla con Louis, il domestico
saprà mantenere il segreto, li ha sempre mantenuti. Prenderà una stanza
in un albergo e andrà subito a trovare Leymarie, lo metterà a parte di
tutto ciò che ha visto e sentito fino a quel momento e gli chiederà di farla
scrivere per il giornale di spiritismo. Tutto andrà come aveva previsto
prima di essere internata. Il soggiorno alla Salpêtrière sarà stato soltanto
un contrattempo che le ha permesso di rompere i rapporti con la famiglia,
e se non altro non ha fatto lei il primo passo. Vivendo sola non dovrà
rendere conto a nessuno.
Fuori, la pioggia colpisce i vetri. Louise, stesa sulla pancia accanto a
Eugénie, accarezza le trine del vestito e dà un’occhiata distratta al
fotografo.
«Si chiama Albert Londe, è simpatico. Mi ha fotografato prima, anche
lui ha detto che somiglio ad Augustine».
Eugénie lo guarda. Albert Londe si è posizionato di fronte a una donna
stesa sul letto, una ventenne in vestaglia con i capelli all’indietro legati da
un nastro rosa. È immobile, con lo sguardo nel nulla, talmente persa nel
suo sogno a occhi aperti da non fare il minimo caso all’attività che si
svolge intorno a lei.
Eugénie si rivolge a Thérèse.
«Chi è quella che sta fotografando?».
Thérèse fa un’alzata di spalle.
«Josette. Non scende mai dal letto. Malinconica, hanno detto. Io non la
guardo mai, mi mette tristezza».
Lo scoppio dello scatto fa sobbalzare le alienate, e il semicerchio che si
era formato intorno al fotografo indietreggia con un’esclamazione
all’unisono. Solo Josette, soggetto della foto, è rimasta imperturbabile.
Albert Londe, senza curarsi degli sguardi che lo circondano, prende
macchina fotografica e cavalletto e si sposta di qualche letto seguito dallo
stesso gruppo di ammiratrici, che sussurrano e trattengono risatine.
Anche la successiva alienata è prostrata a letto: ha la coperta tirata su fino
al mento e le sue mani vi si aggrappano come se dovesse cadere. Si
struscia al lenzuolo con un andirivieni continuo delle gambe. Guarda
dappertutto, ma ha l’aria di non vedere nessuno.
Eugénie smette di cucire.
«Non è una mancanza di pudore?».
Louise volta la testa verso di lei.
«Che cosa?».
«Il fatto che vengano a farvi il ritratto...».
«Io penso che sia una cosa buona. Fa vedere agli altri, a quelli che
stanno fuori, come viviamo qui. Chi siamo».
«Se davvero volessero vedere chi siete vi lascerebbero uscire, non vi...».
Eugénie non finisce la frase. Decide di stare zitta. Non è il momento di
fomentare la dissidenza e mettere in pericolo le sue possibilità di essere
dimessa. Dopo aver insultato e tirato piatti alle infermiere nei giorni scorsi
le conviene mantenere un basso profilo. Inoltre ci sono casi in cui bisogna
scegliere quale guerra combattere. Non è possibile e neanche sensato
ribellarsi sempre contro tutto, fare una crociata contro ogni individuo o
istituzione responsabili di ingiustizia. L’indignazione è un’emozione
invadente, e non merita di essere dispersa. Eugénie capisce che stavolta la
priorità non è il diritto degli altri, ma il proprio. È un sentimento egoista, e
un po’ se ne vergogna, ma per il momento è così: deve innanzi tutto
preoccuparsi di uscire da lì.
Thérèse posa i ferri e controlla la lunghezza dello scialle.
«Te l’ho già detto, piccola... Non tutte vogliono andarsene da qui. Non
sono la sola a voler restare. Se anche abbattessero i muri molte di noi non
si muoverebbero. Te le vedi certe di loro rimandate per strada da un
giorno all’altro, senza famiglia, senza sapere che fare? Sarebbe criminale.
No no. Qui non è perfetto, ma almeno ci sentiamo protette».
Lo scoppio dello scatto provoca lo stesso «Ah!» di sorpresa nel gruppo
delle spettatrici. La donna sul letto si è messa paura, ha infilato la testa
sotto la coperta e agita più che mai le gambe contro il lenzuolo.
Louise si siede sul letto e guarda il suo costume steso sulle ginocchia di
Eugénie.
«Allora, li hai riparati tutti, gli strappetti?».
«Controlla».
Louise esamina attentamente ogni piega del tessuto colorato. Dopo una
meticolosa ispezione il suo volto infantile si illumina in un sorriso. Si alza,
stringe a sé il costume e solleva il mento.
«Solo sei giorni al ballo, poi verrò chiesta in moglie vestita così!».
Tenendosi l’abito contro il corpo gira su se stessa facendo ruotare la
gonna a volant. Poi si avvia saltellando tra le file, ballando al suono di una
musica che sente solo lei, volteggiando al ritmo dei suoi desideri,
immaginando il momento in cui lei, orfanella di Belleville, diventerà la
fidanzata di un medico di fronte a tutta la Parigi bene.
 
Dopo la cena Geneviève ed Eugénie si eclissano. La soprintendente si è
munita di una lampada a olio con cui illumina il cammino nel corridoio
ormai familiare a Eugénie. La ragazza segue l’Anziana a testa bassa. Una
certa apprensione le irrigidisce le gambe. Non ha mai cercato
volontariamente una presenza, ogni volta gli spiriti si sono manifestati
senza che li chiamasse, senza neanche che lo volesse. Quelle visite hanno
ancora numerosi aspetti oscuri, e varcare la frontiera del mondo dei vivi
non è mai un momento piacevole. La sua apprensione, però, deriva anche
dal fatto che la sua liberazione dipenda dalla soprintendente. Se Blandine
non fosse venuta, o fosse venuta senza dare a Geneviève risposte
soddisfacenti, le sue probabilità di uscire sarebbero diminuite. Geneviève
la aiuterà solo se sarà convinta. Allora Eugénie chiama. Man mano che si
avvicinano alla stanza invoca in silenzio quella che si è già manifestata
due volte, l’adolescente pallida e rossa di capelli che le ha detto di
annunciare la sua presenza a Geneviève, che le ha rivelato i segreti della
sorella per dimostrare che c’era davvero. Mentre cammina ripensa al suo
viso, dice il suo nome, sperando che da qualche parte Blandine la senta e si
faccia vedere.
Un rumore di tacchi in lontananza fa alzare simultaneamente la testa
alle due donne. Dal fondo del corridoio un’infermiera sta venendo nella
loro direzione. Eugénie la riconosce e arrossisce: è quella che le aveva
portato da mangiare il giorno dopo che era stata messa in isolamento, e
che si era spaventata allo spettacolo della sua furia.
Giunta presso di loro, anche l’infermiera riconosce Eugénie.
Impallidisce e guarda la soprintendente con aria preoccupata.
«Ha bisogno d’aiuto, signora Geneviève?».
«Tutto bene, Jeanne, grazie».
«Non sapevo che questa qui fosse autorizzata a uscire».
«Le ho permesso di lavarsi. In più si è calmata. Vero che ti sei calmata,
Cléry?».
«Sì, signora».
Geneviève rivolge un sorriso tranquillizzante alla giovane infermiera e
continua a camminare. Non lascia trapelare alcun turbamento, tuttavia
prova una certa ansia. Da quando ha imboccato il corridoio con Eugénie il
cuore le batte forte. Reggere la lampada a olio impedisce alla mano destra
di tremare, la sinistra invece è nascosta nella tasca davanti del grembiule
bianco.
Arrivata alla stanza prende il mazzo di chiavi, apre la porta con un
confuso tintinnio metallico e fa entrare Eugénie, poi aspetta che
l’infermiera sparisca all’altra estremità del corridoio, controlla che non ci
sia nessun altro in vista ed entra a sua volta.
Seduta sul bordo del letto, Eugénie si toglie gli stivaletti arricciando le
labbra e si massaggia un po’ i polpacci gonfi. Geneviève posa la lampada
sul comodino, si fruga in tasca e tira fuori una manciata di candele
bianche. Le porge a Eugénie, che non capisce.
«Vuoi che le accenda?».
«Per farci che?».
«Ma per la seduta spiritica, che diamine!».
Eugénie la guarda stupita e sorride.
«Non c’è nessun bisogno di cerimonie. Se ha letto Allan Kardec
dovrebbe saperlo».
Imbarazzata, Geneviève si rimette in tasca le candele.
«Non ha mica il monopolio della verità! Il suo libro è solo una teoria».
«Lei crede in Dio, signora?».
Eugénie si è messa a sedere sul letto con le gambe incrociate e la
schiena appoggiata al muro. I suoi occhi neri osservano Geneviève, che
appare stupita dalla domanda.
«Le mie personali credenze riguardano soltanto me».
«Non c’è bisogno di credere perché le cose esistano. Io non credevo agli
spiriti, eppure esistono. Possiamo rifiutare le credenze, fidarci o
diffidarne, ma non possiamo negare ciò che ci si presenta davanti. Questo
libro... mi ha fatto capire che non ero pazza. Per la prima volta ho avuto la
sensazione di non essere quella strana in mezzo alla folla, ma l’unica
normale in mezzo agli altri».
Geneviève la guarda. È evidente che la ragazza non è un’alienata.
L’aveva intuito fin dall’inizio. Forse Eugénie avrebbe fatto meglio a non
pronunciare mai il nome di Blandine. Sì, forse sarebbe stato preferibile
che non le avesse mai rivelato il suo dono. Geneviève non l’avrebbe
guardata con un misto di timore e curiosità. Due o tre esami clinici
avrebbero eliminato ogni sospetto di attività neurologica anormale ed
Eugénie sarebbe stata rimandata a casa nel giro di un mese. Ma le cose si
erano complicate. Tanto per cominciare Eugénie aveva parlato troppo,
aveva citato dettagli che avrebbe potuto conoscere solo introducendosi in
casa di Geneviève quando lei non c’era. E poi aveva dato spettacolo di
fronte a tutta l’équipe medica, si era infuriata, aveva urlato e insultato, e
la rabbia le era durata parecchi giorni. Se anche avesse perorato la sua
causa con i superiori non era affatto detto che quelli avrebbero accettato
di liberarla.
Geneviève dà un’occhiata intorno a sé. Si sente un po’ stupida a
ritrovarsi chiusa in una stanza con un’estranea ad aspettare l’arrivo di un
fantasma che per giunta è sua sorella.
«Allora, che facciamo?».
«Niente».
«Come, niente?».
«Aspettiamo che venga. Nient’altro».
«Non devi... invocarla?».
«Più che altro è lei a farla venire».
Quella frase la turba. Geneviève si mette le mani dietro la schiena e
comincia a percorrere la stanza in lungo e in largo con la mascella
contratta. Il tempo passa. Di quando in quando, dall’altra parte della
porta, si sentono tacchi percorrere il corridoio, e le due donne
trattengono il fiato rilassandosi solo quando i passi si allontanano.
All’improvviso da dietro le persiane chiuse esplodono miagolii di gatti
randagi nella notte: due felini si sono incrociati e si ostinano a difendere
un pezzo di topo o un angolo di cortile. Per vari minuti li sentono
ringhiare e soffiare, poi arriva il corpo a corpo, lo scontro a colpi di artigli
acuminati finché uno dei due vince, o forse entrambi battono in ritirata, e
poco a poco l’ospedale ritrova la calma.
Passa un’ora abbondante. Nervosissima, Geneviève si alza dall’angolo di
letto su cui è seduta.
«Ancora niente?».
«Non capisco... Di solito c’è».
«Mi hai mentito fin dall’inizio?».
«Niente affatto. Le due volte in cui è venuta in questa stanza sua sorella
c’era».
«Ne ho abbastanza. Lo sapevo che non avrei dovuto darti retta.
Rimarrai alla Salpêtrière».
Senza dare a Eugénie il tempo di rispondere Geneviève si dirige con
passo deciso verso la porta. Afferra la maniglia, ma non riesce ad aprirla.
Prova a forzare, girare, spingere, non capisce che cosa la blocchi.
«Che diavolo...».
«Eccola».
Geneviève si volta. Sul letto, Eugénie si è portata le mani alla gola. Fa
fatica a deglutire. Ha la testa leggermente piegata in avanti e la faccia
talmente bianca che la soprintendente ha un fremito.
«È... Si tratta di suo padre... Ha avuto un malore... È ferito...».
Eugénie si sbottona il colletto per respirare meglio. Geneviève si mette
una mano sullo stomaco attorcigliato dallo spavento.
«Che stai dicendo?».
«Ha sbattuto la testa... sull’angolo di legno del tavolo di cucina... si è
ferito all’arcata sopraccigliare... sinistra... È svenuto».
«Come fai a saperlo?».
Eugénie chiude gli occhi, e il suo modo di parlare cambia. La voce è la
stessa, ma il tono ha una cadenza monotona, come se recitasse un testo
che non la riguarda. Geneviève indietreggia terrorizzata e si appoggia alla
porta.
«È steso sulle mattonelle bianche e nere della cucina... È successo
stasera... Ha avuto un malore dopo cena... La mattina era andato al
cimitero... a lasciare tulipani bianchi sulle tombe di Blandine e di sua
madre... Mazzi da sei... Ha bisogno di aiuto. Ci vada, Geneviève».
La giovane riapre gli occhi e guarda nel nulla. Ha la schiena curva, il
respiro difficile, si sente appesantita, svuotata di ogni energia. Seduta
immobile sul letto con gli occhi spalancati, sembra una bambola di stracci
maltrattata da una bambina.
Per un attimo Geneviève rimane impietrita. Avrebbe cento domande da
farle, ma è incapace di parlare. Ha la bocca semiaperta in un’espressione
di stupore. Di colpo le sue gambe sono preda di un impulso che non
controlla: gira su se stessa, abbassa la maniglia, che stavolta non si
oppone, apre la porta con forza lasciando che vada a sbattere sul muro ed
esce precipitosamente da quella stanza in cui è cominciato tutto.
9
13 marzo 1885

L
a città di Clermont è ancora addormentata quando Geneviève arriva
davanti alla casa del padre.
La sera prima è andato tutto molto in fretta. Ricorda di essere uscita di
corsa dalla stanza, di aver incontrato due infermiere sulla sua strada e
averle avvertite che si sarebbe assentata, di aver attraversato rapidamente
il cortile d’onore ed essere salita sul primo fiacre che passava in boulevard
de l’Hôpital. Le strade di Parigi erano agitate, come se i passanti avessero
avuto sentore di quello che era successo nella camera.
C’era un ultimo treno in partenza che fermava a Clermont dopo una
decina di altre fermate. Una volta seduta si era resa conto di essere ancora
vestita da ospedale e aveva passato la mano sulle pieghe del camice
bianco, come se quel gesto potesse miracolosamente cancellare le pecche
dell’abito da lavoro. Guardando verso il finestrino aveva visto il proprio
riflesso sul vetro, e il suo aspetto l’aveva spaventata. Aveva borse grigie
sotto gli occhi, e dallo chignon sfuggivano ciuffi biondi in tutte le
direzioni, ciuffi stanchi che si era ributtata indietro con le mani. Gli altri
passeggeri guardavano l’infermiera ansimante. Le sembrava che si fossero
già fatti un’idea su di lei, che la trovassero anormale, e che niente di quello
che avrebbe potuto dire o fare avrebbe cambiato la loro opinione. Anni
alla Salpêtrière le avevano insegnato che le voci fanno più danno dei fatti,
che un’alienata guarita rimaneva un’alienata agli occhi degli altri e che
nessuna verità era in grado di riabilitare un nome infangato da una
menzogna.
Il treno aveva fischiato, un sibilo penetrante che aveva fatto trasalire
tutta la stazione. I meccanismi dell’enorme locomotiva nera si erano messi
in moto e le ruote avevano cominciato a girare sui binari con una cadenza
opprimente.
Stufa degli sguardi che le pesavano addosso aveva appoggiato la testa
contro il vetro e si era addormentata subito. Era stato un sonno profondo,
senza sogni che lo perturbassero. Le rare volte in cui un movimento
brusco scuoteva il vagone o il fischio di un treno in partenza
dall’ennesima stazione risuonava nella notte, si svegliava e si rendeva
conto di quanto la stanchezza le stremasse corpo e mente. Non riusciva a
sollevare le palpebre: si svegliava, sentiva che il treno era ancora in
movimento e si riaddormentava subito. Sarebbe stata capace di dormire
per giorni. Nei brevi momenti di risveglio l’immagine del padre a terra in
cucina le ricordava perché fosse su quel treno. Avrebbe voluto gridare il
suo nome, ma la poca energia di cui disponeva le permetteva soltanto di
chiamare il padre in silenzio, dirgli di resistere, che stava arrivando, che
presto sarebbe stata da lui.
Si era svegliata all’alba con la testa ancora contro il vetro. Aveva aperto
gli occhi. In lontananza, sotto un cielo pulito striato di rosa pallido, le
sagome delle montagne d’Alvernia disegnavano immense onde
all’orizzonte. In mezzo a quel panorama di monti e valli si ergeva
maestoso il Puy de Dôme, più alto e imponente delle altre cime, come un
re che vegliasse su quel reame di vulcani addormentati.
Gli sballottamenti del treno l’avevano seguita anche una volta scesa.
Aveva camminato nelle vie della sua città natale con il corpo che
continuava a dondolare al ritmo del vagone. Sovrastanti i tetti di tegole
arancioni, i due campanili della cattedrale si ergevano verso il cielo come
picchi feroci e scuri. L’aspetto scabro e nero dell’immensa chiesa, in
contrasto con la verdeggiante serenità circostante, aveva un che di
austero e pauroso.
Geneviève aveva svoltato in una stradina stretta ed era arrivata a casa
del padre.
 
All’interno regna il silenzio. Si chiude la porta alle spalle e va in salotto.
«Papà?».
Le persiane sono chiuse. Un profumo di zuppa di cipolle aleggia nella
stanza. Sperava di trovare il padre seduto nella poltrona di velluto verde a
bere tranquillamente il caffè mattutino. Non le va di doverlo trovare per
terra in cucina, svenuto o peggio. In quel preciso momento si augura che
Eugénie l’abbia ingannata, che tutta la faccenda sia solo un imbroglio di
basso livello e che la pazza le abbia mentito con l’unico obiettivo di
allontanarla dalla Salpêtrière.
Stringe i pugni e si dirige verso la cucina.
La stanza è vuota. Le stoviglie della sera prima sono ad asciugare su uno
strofinaccio steso sul tavolo rettangolare. Sul pavimento non c’è traccia di
niente. Le tremano le gambe, si lascia cadere su una sedia, afferra con una
mano la spalliera della sedia accanto. “Mi ha detto una bugia. Era tutta
una farsa. Che fessa sono stata”. Si piega in avanti, appoggia il gomito sulla
gamba e si regge la fronte con l’altra mano. Non sa se provare sollievo o
delusione. Non sa più cosa sperare o cosa aspettarsi. In realtà si sente
svuotata. Resta per un po’ immobile, china in avanti, poi il suo occhio nota
una traccia scura sul pavimento. Si accovaccia e aggrotta le sopracciglia:
tra una mattonella nera e una bianca c’è un po’ di sangue secco.
Si alza di scatto e corre in salotto, dove senza preavviso si trova di
fronte a una vecchia. Le due donne emettono all’unisono un’esclamazione
di sorpresa.
«Geneviève! Mi hai fatto venire un colpo. Mi sembrava di aver sentito
dei rumori...».
«Yvette! Mio padre...».
«È il cielo che ti manda. Ieri sera tuo padre ha avuto un malore».
«Dov’è?».
«Tranquilla, sta bene. È di sopra, a letto. Sono rimasta con lui stanotte.
Vieni».
La vicina sorride. L’ha vista crescere. Le prende la mano con aria
rassicurante e la invita a salire. Con l’altra mano si aggrappa alla ringhiera
per aiutare il suo vecchio corpo a fare le scale.
«Ieri sera, con Georges, eravamo venuti a portargli una fetta di torta.
Quando non ci ha aperto ci siamo preoccupati. Per fortuna ho una copia
delle chiavi. L’abbiamo trovato lungo disteso sul pavimento della cucina.
Ma tuo padre è un uomo forte, stava già riprendendo conoscenza quando
Georges e un altro vicino l’hanno trasportato in camera da letto».
Geneviève ascolta il racconto emozionata. Sale le scale sospinta da una
gioia che rasenta l’euforia. Eugénie ha detto la verità. Il padre si è sentito
male e si è ferito. Non che si rallegri per l’incidente, ma se è successo
significa che la sera prima Blandine era con loro. Solo lei poteva sapere e
farlo sapere a Eugénie. Si afferra a sua volta alla ringhiera. È travolta
dall’emozione, vorrebbe scoppiare in lacrime di riso o di pianto, vorrebbe
prendere le spalle di Yvette e dirle perché sia lì, come l’abbia saputo, come
sua sorella stia vegliando su di lei e su loro padre. Vorrebbe uscire e
gridarlo per le strade della città.
L’anziana percepisce l’agitazione di Geneviève alle sue spalle e si volta
con un sorriso consolatorio.
«Non piangere, cara. Ha solo una ferita al sopracciglio. Tuo padre è
solido. Come te».
Arrivate al piano di sopra, Yvette fa entrare Geneviève per prima. Ogni
volta che torna in quella camera in cui il tempo è fermo, tra i mobili che
nessuno ha spostato, cioè due giorni all’anno per Natale, le sembra di
ridiventare bambina. Il cassettone occupa la parete di sinistra, i comodini
sono dalle due parti del letto, le tende di merletto bianco adornano le
piccole finestre. Il legno scricchiola come al solito, la polvere sotto il letto
viene ignorata, poca luce penetra nella stanzetta, che non è né
particolarmente accogliente né particolarmente austera, ma è familiare.
Steso sulla trapunta azzurra scolorita, con la testa appoggiata su due
cuscini, il dottor Gleizes è stupito di vedere la figlia maggiore. Non fa in
tempo ad aprire la bocca che Geneviève si precipita accanto a lui e gli
prende la mano.
«Papà... Sono così contenta...».
«E tu che ci fai qui?».
«Ehm... ho avuto un permesso, volevo farti una sorpresa».
L’anziano guarda la figlia un po’ perplesso. Sul sopracciglio si vede il
taglio della sera prima. Ha l’aria stanca, e non solo per l’incidente. Dal
Natale scorso ha un’espressione più seria, è dimagrito, strizza gli occhi per
vedere meglio. Per la prima volta sembra che impieghi tempo a capire
quello che gli viene detto. Guarda gli altri come se si esprimessero in una
lingua straniera, ci mette un po’ ad assimilare le frasi, poi risponde.
Geneviève gli stringe la mano sottile e rugosa. Poche cose fanno male
come veder invecchiare i propri genitori, constatare che quella forza, un
tempo incarnata da persone che pensavamo immortali, ha lasciato il posto
a una fragilità irreversibile.
L’uomo prende la testa della figlia tra le mani e si piega in avanti per
darle un bacio sulla fronte.
«Anch’io sono contento di vederti, benché stupito».
«Hai bisogno di qualcosa?».
«Solo dormire. È ancora presto».
«Bene. Io rimango fino a stasera».
Il padre si lascia ricadere sul cuscino e chiude gli occhi. La sua mano
sinistra è rimasta sulla testa della figlia. Inginocchiata presso il letto,
Geneviève non osa muoversi né spostare la mano che fino a quel momento
non aveva mai osato benedirla.
 
La giornata trascorre lentamente. Mentre il padre riposa al piano di
sopra Geneviève si attiva come di consueto: passa la scopa sotto i mobili,
stira con cura camicie e pantaloni dell’anziano genitore, spolvera le
mensole col piumino, apre le finestre per cambiare l’aria, compra pane,
verdura e formaggio al mercato e spazza le foglie secche in giardino, il
tutto intervallato da visite regolari in camera per portargli un tè e
assicurarsi che non abbia bisogno di niente. Si muove tra le stanze con
tranquillità. Si è tolta il camice di servizio per indossare il vestito blu da
città che tiene a casa del padre. I capelli, una volta tanto sciolti, le
ricadono in riccioli sulle spalle. Fa le faccende e la spesa con animo sereno.
Fino a quel giorno la casa silenziosa aveva emanato un sentore di
tristezza. Prima la sorella, che aveva lasciato brutalmente i luoghi, poi la
madre, che aveva seguito la figlia qualche anno dopo. Da quando il padre
si era sentito troppo stanco per esercitare la professione medica nessun
paziente varcava più la porta d’ingresso. Nella modesta dimora si
percepiva l’assenza di voci, di movimento, di risate. Ogni volta che
Geneviève andava lì a Natale, tutto fra quelle mura le sembrava tetro: le
poltrone su cui nessun altro sedeva, la camera di Blandine al piano di
sopra che veniva tenuta chiusa, le stoviglie troppo numerose per un uomo
solo, i fiori morti e le erbacce nel giardino in stato di abbandono. Senza le
frequenti visite della coppia di vicini la casa avrebbe perso ogni segno di
vita prima ancora del suo ultimo occupante.
È pomeriggio, la pendola del salotto suona le quattro. Geneviève, in
cucina, sta mescolando lentamente con un cucchiaio di legno le verdure
che cuociono nella pentola di ghisa. Le trema un po’ la mano. Sente la
stanchezza del viaggio e delle emozioni. Mette il coperchio sulla pentola e
va a sedersi sul divano. I cuscini sono rigidi, la seduta non è comoda, la
costringe a mantenere una postura eretta: se non altro non sarà tentata di
mettersi a dormire. Appoggia il gomito su una poltrona, si passa la mano
tra i capelli e lascia che il suo sguardo vaghi nel salotto. Eppure stavolta
non la percepisce come una casa tetra. La biblioteca, le poltrone, i quadri
appesi alle pareti, il tavolo da pranzo ovale: niente più le sembra triste.
Assenza non significa abbandono. Sebbene la casa della sua infanzia non
sia più abitata dalla madre e dalla sorella, forse permane ancora qualcosa
delle due donne, non tanto i loro effetti personali, quanto magari un
pensiero, una presenza, un’intenzione... Pensa a Blandine. La immagina lì
da qualche parte, in un angolo della stanza, che la sta osservando. L’idea le
sembra demenziale, eppure la rasserena. Non c’è pensiero più consolante
che sapere gli amati defunti al proprio fianco. La morte appare meno
grave e fatale, la vita acquista valore e senso. Non esiste un prima e un
dopo, ma un tutto.
Dritta sul bordo del divano, seduta in un silenzio che niente turba,
Geneviève si sorprende a sorridere. Non è lo stesso sorriso che rivolge
all’équipe medica dell’ospedale. In quel momento è un sorriso sincero,
raro, sorprendente, tanto da farle sollevare la mano a nascondere le
labbra felici, come per pudore. Chiude gli occhi, e una profonda
inspirazione le gonfia il petto: sa finalmente cosa vuol dire credere.
 
Sui tetti della città alverniate è scesa l’oscurità. Al di là della finestra si
sentono gli ultimi scalpiccii di zoccoli e rare voci di passanti. Andato via il
sole, la gente non si trattiene fuori a lungo, affretta il passo per tornare a
casa passando davanti alle saracinesche abbassate dei negozi. Ovunque le
persiane si chiudono e la luce lascia il posto al buio. Ben presto non si
sente più un rumore nelle strade e nelle case. È un luogo dove le giornate
e le ore di sonno seguono i ritmi del sole.
In cucina il piccolo fuoco di legna riscalda i corpi e illumina una parte
della stanza. Una lampada a olio è posata sul tavolo su cui stanno cenando
Geneviève e il padre. I cucchiai di legno raschiano il fondo delle scodelle
per raccogliere le ultime gocce di minestra. Geneviève aveva insistito per
portargli la cena di sopra, ma il padre si era stufato di stare a letto e aveva
preferito scendere.
«Ancora minestra, papà?».
«No, grazie, non ho più fame».
«Te ne avanza per i prossimi giorni. Io devo tornare a Parigi stasera.
Domattina c’è una lezione pubblica, in più devo controllare che tutto sia a
posto per il ballo».
Il padre guarda la figlia e con un’occhiata ne esamina i lineamenti. Ha
qualcosa di diverso. Non sembra malata, no, ma ha l’aria meno severa,
meno rigida. I suoi capelli appaiono più biondi e i suoi occhi più azzurri.
«Hai conosciuto un uomo, Geneviève?».
«No davvero. Perché me lo chiedi?».
«Allora cos’hai da dirmi?».
«Non capisco».
Il padre posa il cucchiaio nel piatto e si asciuga le labbra con un
tovagliolo a quadri.
«Hai detto che devi tornare a Parigi stasera. È strano che tu sia venuta a
trovarmi soltanto per un giorno. Hai qualcosa da annunciarmi. Sei
malata?».
«Ti giuro di no».
«Allora cosa? Non girarci intorno, non ho pazienza».
Geneviève arrossisce. Spinge indietro la panca, le cui gambe stridono
sul pavimento. Si alza e fa qualche passo in cucina. Ha le mani strette l’una
contro l’altra.
«Un motivo c’è... Ma ho paura del tuo giudizio».
«Ti ho mai giudicato?».
«No».
«Io giudico soltanto la malafede e la menzogna, lo sai».
Geneviève, nervosa, fa avanti e indietro di fronte al fuoco che crepita
dolcemente. Il colletto abbottonato del vestito le stringe il collo, ma
pazienza.
«Ecco... ho saputo che stavi male. Per questo sono venuta».
«Come l’hai saputo? Yvette non ti aveva ancora scritto».
«Lo sapevo. E sono venuta prima che ho potuto».
«Che storia è questa? Hai le visioni, adesso?».
«Non io».
Geneviève si siede accanto al padre. Forse dovrebbe tenere quel segreto
per sé, e tuttavia condividerlo le permette di renderlo concreto, tangibile.
Vuole che qualcun altro conosca i fatti. Vuole che il padre ci creda come ci
crede lei.
«Sono terrorizzata e felice di raccontarti tutto. Ecco... è stata Blandine.
Mi ha avvertito Blandine».
Il padre resta impassibile. Deformazione professionale: non far capire
niente al paziente quando si individua una malattia grave. Con i gomiti sul
tavolo, osserva Geneviève alzarsi ed esprimersi con un eloquio che non le
ha mai sentito.
«C’è una nuova alienata che è arrivata la settimana scorsa. La famiglia
sostiene che parli con i defunti. Ovviamente non ci credevo, sai bene che
ho ereditato il tuo spirito cartesiano, sennonché mi ha dimostrato il
contrario. Me l’ha provato, papà. Tre volte. Lo so che ti sembra assurdo, da
principio lo era anche per me, ma se una volta in vita mia devo giurare,
giuro qui davanti a te: Blandine le ha parlato, le ha detto cose che quella
ragazza non poteva sapere! Ed è stata Blandine ad avvertirci che avevi
avuto un incidente. Blandine veglia su di noi, papà. È sempre qui».
Geneviève si rimette seduta e gli prende la mano. «Ci ho messo un po’ a
crederci, e mi rendo conto che anche a te servirà tempo. Se hai ancora
dubbi vieni in ospedale, vieni a conoscerla, vedrai. Blandine è vicino a noi.
Forse in questo stesso momento è qui in cucina con noi».
Il padre ritira la mano e la posa sul tavolo. Rimane un momento con lo
sguardo fisso sulla scodella, un momento che a Geneviève pare
interminabile. Ha la stessa aria concentrata di quando visita, l’espressione
preoccupata per i sintomi che ha individuato, la mente intenta a riflettere
sulla diagnosi più probabile. Alla fine scuote la testa.
«Lo sapevo che a forza di lavorare con le pazze saresti diventata
pazza...».
Geneviève si blocca. Vorrebbe allungare una mano verso il padre, ma
non ci riesce.
«Papà...».
«Potrei scrivere alla Salpêtrière e informarli di quello che mi hai detto.
Non lo farò perché sei mia figlia, ma voglio che tu esca da questa casa».
«Perché mi mandi via? Mi sono aperta con te».
«Stai parlando di una morta. Una morta che ti dice le cose, ti rendi
conto?».
«È per questo che devi fidarti di me, papà. Mi conosci, non sono pazza».
«Non è proprio quello che le pazze ripetono tutto il giorno?».
Geneviève sente la testa girarle. Il fuoco che arde nel caminetto le fa
venire caldo. Si volta, dà la schiena al tavolo e si guarda intorno: più
niente in quella cucina le comunica familiarità, né la pila di pentole posate
a terra né i canovacci appesi al muro né il lungo tavolo di legno su cui da
piccola mangiava con la sorella e i genitori. Anche l’uomo seduto sulla
panca le sembra estraneo. Di colpo somiglia a tutti i padri che sono passati
nel suo ufficio oppressi dal disprezzo e dalla vergogna per una figlia che
non vogliono più, padri che firmavano senza rimorsi la scheda
d’internamento di una figlia già dimenticata. Geneviève si alza, ma ha un
momento di vertigine, sbatte il piede contro la gamba del tavolo, perde
l’equilibrio e si appoggia al muro. Tenta di calmare il respiro, poi si volta
verso l’uomo rimasto immobile.
«Papà...».
L’uomo si degna di guardarla. Sì, è lo sguardo che Geneviève riconosce,
quello dei padri che hanno condannato la figlia.
 
Una mano scuote la spalla di Louise.
«In piedi, Louise. C’è la lezione».
Intorno all’infermiera che sta cercando di far alzare la ragazza il
dormitorio si sta svegliando. Le donne scendono pigramente dal letto, si
infilano un vestito, si mettono uno scialle sulle spalle, si raccolgono
svogliatamente i capelli e si dirigono verso il refettorio. Fuori sta piovendo
per il terzo giorno consecutivo. Le pozzanghere sui prati si ingrossano, tra
le pietre del selciato scorrono piccoli ruscelli, i viali bagnati sono deserti.
«Louise!».
Louise si tira la coperta sulla faccia e si gira dall’altra parte.
«Sono stanca».
«Non sei tu a decidere».
Louise spalanca gli occhi e si mette seduta. Di fronte alla giovane pazza
l’infermiera fa un mezzo passo indietro.
«Dov’è la signora Geneviève? Perché non è venuta a svegliarmi lei,
oggi?».
«Non c’è».
«Neanche oggi? Ma deve tornare, c’è la lezione!».
«Stavolta ti ci porto io».
«No no, non mi muovo se non c’è lei».
«Ah, davvero?».
«Davvero».
«Non vorrai far arrabbiare Charcot, spero. Il dottore conta su di te, lo
sai».
Come una bambina piegata da un ricatto, Louise abbassa gli occhi. Nel
dormitorio si sentono soltanto le gocce di pioggia che sbattono contro i
vetri. La stanza si è raffreddata e l’umidità fa venire i brividi.
«Allora? Vuoi farlo arrabbiare?».
«No».
«È quel che pensavo. Vieni con me».
Nell’anticamera dell’auditorium lo stesso gruppo di medici e infermieri
sta aspettando la giovane alienata. L’infermiera apre la porta senza
lasciare il braccio di Louise. Babinski si avvicina alle due donne.
«Grazie, Adèle. La signora Gleizes non è ancora arrivata?».
«Non si è vista».
«Bene, cominceremo senza di lei».
Babinski dà un’occhiata a Louise: le piccole mani paffutelle tremano un
po’, ciuffi di capelli le ricadono sul viso pallido e preoccupato.
«Adèle, le abbottoni bene il vestito e la pettini un po’. La renda
presentabile, sembra una ritardata».
L’infermiera trattiene un sospiro di fastidio. Sotto gli occhi degli uomini
silenziosi prende Louise per le spalle e le riabbottona il vestito. Poi con
dita maldestre le rimette indietro i folti capelli neri graffiandole la fronte
e il cuoio capelluto con le unghie. Louise si morde le labbra per trattenere
i singhiozzi. Spera di veder apparire Geneviève da un momento all’altro,
tende l’orecchio ai passi in corridoio, fissa la maniglia della porta
sperando di vederla muovere. Senza la soprintendente tutto ha l’aria
incerta. Quella donna, che non ha saputo farsi volere bene dalle alienate,
ha tuttavia saputo rendersi indispensabile al loro benessere. Appiana le
divergenze, risolve i problemi prima che sorgano, e tranquillizza Louise
quando ci sono le lezioni pubbliche. Basta la sua presenza a garantire
un’attenzione e dare fiducia alla ragazza che va in scena. Geneviève è la
tutrice del reparto, il pezzo senza il quale la fragile impalcatura
crollerebbe. È la donna che tiene insieme tutte le altre, e quando Louise
capisce che quella mattina non verrà si lascia portare nell’auditorium con
l’apatia di una che ha perso ogni speranza.
Louise entra in scena e il pubblico, interamente maschile, trattiene il
fiato. Il legno del palcoscenico scricchiola sotto i suoi passi. Benché di
solito abbia una faccia allegra, nessuno nota la sua espressione delusa. Va
verso il centro della scena seguita dallo sguardo di quattrocento spettatori
avidi di un tic, un gesto, qualcosa che dimostri loro che è effettivamente
pazza. Louise lascia che facciano di lei quello che vogliono. Non sa quale
mano la tocchi, quale voce le parli e la ipnotizzi, quali braccia la
sostengano quando si sente cadere all’indietro. Si lascia andare sapendo
che fra un quarto d’ora tornerà in sé. La seduta sarà finita, Charcot sarà
contento e lei tornerà a dormire per dimenticare quel brutto momento. Sì,
meno male che esiste il sonno, che non fa pensare.
 
Sennonché il ritorno allo stato di coscienza non è come al solito.
Quando riapre gli occhi vede i medici intorno a sé con gli occhi fissi sul
suo corpo steso e l’espressione inquieta. Dalle file del pubblico giunge un
nervoso quanto insolito brusio. Le ronzano le orecchie, scuote la testa per
scacciare quel suono che le dà fastidio. Poi vede Charcot farsi largo nel
cerchio di uomini che la circondano. Il dottore si accovaccia alla sua
destra e le mostra lo strumento che ha in mano, un’asticella di metallo
appuntita. Louise non sente quel che le dice. L’uomo punge con l’estremità
appuntita dell’asticella la parte alta del braccio destro, la cui manica è
stata tirata su. Istintivamente la ragazza cerca di spostare il braccio per
evitare il dolore, ma non riesce a muoverlo, è bloccato. Charcot continua
la sua opera. Con il suo strumento punge tutta la parte destra del corpo a
terra: mani, dita, fianco, coscia, ginocchio, polpaccio, piede e dita del
piede. Preoccupati, i medici aspettano di cogliere un’espressione, una
reazione da parte di Louise. Charcot, più concentrato che preoccupato,
prende la mano sinistra della ragazza e le punge il palmo. «Ahi!» esclama
Louise facendo sobbalzare gli uomini intorno a lei.
«Emiplegia laterale destra».
Questo l’ha sentito, ormai è lucida. Con la mano sinistra si affretta a
prendere la destra inerte sulla pancia: la scuote, la sbatte, ma non sente
niente, si pizzica il braccio destro addormentato, si pizzica la gamba
destra che non riesce più a sollevare, si indispettisce con quel corpo che
da un lato non risponde più.
«Non sento più niente. Perché non sento più niente?».
Impreca, si arrabbia, continua a tormentarsi le membra di destra
paralizzate nella vana speranza di stimolarle, tenta di dondolarsi sui lati
per far tornare una sensazione anche minima. Poi la rabbia cede il posto al
panico, urla, cerca di alzarsi senza riuscirci, chiama aiuto, le sue grida
risuonano nell’auditorium raggiungendo gli spettatori impietriti. Solo in
quel momento tra i medici e gli infermieri lì impalati che la guardano
senza sapere che fare spunta Geneviève. La soprintendente, con i
lineamenti tirati dopo un’altra notte passata in treno, trova Louise per
terra, che la vede a sua volta e la chiama con voce spezzata.
«Signora!».
Louise allunga il braccio sinistro verso colei che non aspettava più, e
nello stesso momento Geneviève si inginocchia e abbraccia la ragazza.
Restano così, strette l’una all’altra, condividendo una pena che loro
soltanto capiscono, mentre in platea il pubblico maschile, sconcertato e
incerto, non osa più neanche respirare.
10
15 marzo 1885

P
lace Pigalle. Un addetto comunale, munito della sua pertica, accende un
lampione a gas. Ha smesso di piovere. I marciapiedi sono bagnati, dai tubi
delle grondaie scende ancora acqua. Alle finestre si scuotono le persiane
per far cadere le gocce, negozi e caffè rovesciano l’acqua accumulata nei
tendalini spingendo la tela dal basso con un manico di scopa. L’addetto
comunale attraversa la piazza per continuare l’illuminazione del
crepuscolo. Arrivata in cima a rue Jean-Baptiste-Pigalle Geneviève si
ferma. La strada è lunga dalla Salpêtrière fino alla salita che porta a
Montmartre. Ha camminato veloce, talmente veloce che più volte il vento
dei Grands Boulevards le ha quasi portato via il cappello. Temendo di
arrivare a Pigalle col buio si è messa alacremente in moto prima della fine
del turno. Sull’ultimo tratto della salita ha visto in cima alla collina di
Montmartre le impalcature della nuova basilica di cui parla tutta Parigi. La
sagoma dell’imponente monumento che si staglia in cima alla collina
riporta ancora una volta i parigini a un ricordo che vorrebbero
dimenticare, quello della Comune.
Geneviève si guarda intorno con diffidenza, stupita dalla calma che
regna sulla piazza. Stando ai giornali e ai romanzi il quartiere avrebbe ben
poche attrattive. Composto da cabaret e case chiuse radunerebbe tutta
una popolazione di viziosi e malviventi, donnine allegre e mariti infedeli,
artisti e personaggi eccentrici. Non ci sarebbe quartiere a Parigi in cui la
morale sia più bistrattata e i sensi più eccitati. Data quella reputazione
diabolica Geneviève non ci ha mai messo piede, quindi non ha potuto
verificare di persona quelle voci. La sua vita si è sempre svolta tra il
monolocale e la Salpêtrière, non ha mai avuto desiderio di andare altrove,
di conoscere altri quartieri di Parigi.
Si porta sul marciapiede di destra. L’angolo è occupato da un caffè, La
Nouvelle Athènes. Dentro c’è una tale folla che quasi non si distinguono
più i divanetti rosso bordeaux. Stufi della pioggia incessante, gli abitanti
del quartiere si sono rifugiati tra le pareti ocra del loro abituale luogo di
ritrovo. Il fumo del tabacco si mischia al brusio delle conversazioni
intellettuali. Alcuni si animano, sostengono le proprie parole con gesti
sicuri di sé, ordinano un altro assenzio. Altri, più calmi, osservano la gente
facendo schizzi a matita sul taccuino o fumando. Le donne hanno lo
sguardo ironico e i fianchi seducenti, gli uomini si sfidano a parole con
atteggiamento impegnato e disinvolto. Ogni caffè ha il proprio umore, e La
Nouvelle Athènes è il nido di un’indubbia effervescenza. Perfino
Geneviève, da estranea attenta, lo percepisce quando ci passa davanti: in
quel luogo si incontrano e si ispirano cervelli all’avanguardia.
Geneviève si infila in una perpendicolare di boulevard de Clichy, rue
Germain-Pilon, ed entra in uno stabile di quattro piani. Le scale sono
strette, umide e oscure. Sull’ultimo pianerottolo, da dietro la porta di
destra, giungono risate femminili. Geneviève batte tre colpi. Sente
all’interno un rumore di passi.
«Chi è?».
«Geneviève. Gleizes».
Si apre uno spiraglio in cui compare una giovane donna dalle labbra
rosso brillante, e la cosa sorprende Geneviève, che non è abituata a vedere
visi tanto truccati. La sconosciuta nota la sua sorpresa, la squadra con
insistenza dalla testa ai piedi e dà un morso al torsolo di mela che ha in
mano.
«Desidera?».
«C’è Jeanne? Jeanne Beaudon?».
«Non si chiama più così. Era Jeanne una volta. Ora è la signorina Jane
Avril, come gli inglesi».
«Ah».
«Lei chi è?».
«Geneviève Gleizes, della Salpêtrière».
«Oh».
La giovane apre la porta. Indossa una camicia da notte al ginocchio,
anch’essa rossa, e ha un enorme chignon decorato da fiori.
«Prego».
Per arrivare al salotto del piccolo appartamento bisogna aprirsi un
varco tra bauli di vestiti e costumi, gatti che si strofinano ai polpacci,
specchi psiche, cassettoni pieni di oggetti, gioielli, accessori e sedie di
legno un po’ ovunque. In salotto, dove aleggia un odore misto di tabacco e
profumo alla rosa, quattro donne stanno giocando a carte sedute sul
parquet o sul divano alla luce di lampade a olio. Anche loro sono vestite in
maniera leggera e comoda: una semplice vestaglia, braccia nude talvolta
coperte da uno scialle che loro stesse hanno lavorato a maglia. Fumano e
bevono bicchierini di whisky.
Ai piedi del divano una brunetta dall’aria simpatica guarda le carte che
ha in mano e brontola.
«Vince di nuovo Lison, ma non è possibile!».
«Si chiama saper giocare».
«Semmai si chiama barare».
«Devi saper perdere. Sennò ti viene la faccia brutta».
«La faccia brutta ce l’ho per colpa del tuo profumo: arriva fino a place
Clichy».
«Almeno stanotte non sentirò odore di uomini».
Quando le due donne entrano in salotto la più giovane del gruppo
riconosce Geneviève. Apre la bocca dalla sorpresa, lascia le carte e tende le
mani verso la soprintendente.
«Signora, che sorpresa! Qual buon vento?».
«Sono venuta a trovarti. Hai da fare?».
«Per niente. Andiamo in cucina».
Nella rustica cucina illuminata da qualche candela la diciassettenne va
al fornello a preparare un caffè. Fino a più di un anno prima Jeanne stava
nel dormitorio con le altre alienate. Quando era entrata alla Salpêtrière
era una bambina fragile e nervosa: sofferente di attacchi epilettici e
vittima delle botte di una madre alcolizzata, si era buttata nella Senna per
disperazione ed era stata salvata da alcune prostitute che passavano di lì.
Era rimasta due anni nel reparto di Charcot. Lì aveva scoperto la danza, il
movimento del corpo, del proprio corpo. Occupava lo spazio lasciando che
a parlare fosse una grazia che chiedeva solo di esistere. Uscita
dall’ospedale era andata a Montmartre, dove aveva continuato a ballare
nei bistrot, nei cabaret e ovunque ci fosse un palcoscenico che le
permettesse di affrancarsi da un’infanzia che voleva paralizzarla. Da allora
era tornata in visita alla Salpêtrière due volte. La sua figura slanciata, il
viso ovale come un cammeo, gli occhi da cerbiatta e la bocca sbarazzina le
attiravano sguardi e simpatia. Faceva venire voglia di sentirla parlare, di
guardarla muoversi nello spazio, non ci si stancava mai di quella ragazza
allo stesso tempo carismatica e malinconica.
«Temo che sia finito lo zucchero».
«Non fa niente. Siediti».
Jeanne porge il caffè a Geneviève e si siede di fronte a lei a un piccolo
tavolo di legno. La soprintendente stringe le mani intorno alla tazza calda.
Non si è tolta cappello e cappotto.
Dalla finestra si vedono fiacre che attraversano place Pigalle.
«C’è già stato il ballo di mezza quaresima di quest’anno?».
«No, è fra tre giorni».
«Ah. Saranno tutte eccitatissime».
«Sì, non vedono l’ora».
«Come sta Thérèse?».
«Come al solito. Lavora a maglia».
«Ho ancora gli scialli che mi ha regalato. Mi strappano un sorriso
quando li vedo o me li metto».
«Non ti disturba avere qualcosa dell’ospedale?».
«Oh no».
«Voglio dire, non ti fa tornare in mente brutti ricordi?».
«Tutt’altro. Sono stata bene alla Salpêtrière».
«Davvero?».
«Senza di lei, signora, e senza il dottor Charcot... non ne sarei mai
venuta fuori. È grazie a voi che sto meglio».
«Ma neanche... neanche oggi, a mente fredda, ricordi cose che ti hanno
disturbato? Mai?».
La giovane guarda Geneviève con un certo stupore. Ci pensa un attimo,
poi si volta verso la finestra.
«Alla Salpêtrière è stata la prima volta in vita mia in cui ho sentito che
qualcuno mi voleva bene».
Anche Geneviève guarda verso la finestra. Si sente in colpa di essere lì a
fare quelle domande. Non nei confronti di Jeanne, ma nei confronti della
Salpêtrière. Le sembra di tradire l’ospedale. Eppure non ne ha mai messo
in discussione le pratiche. Fino a quel momento nessuno, neanche gli
infermieri, difendeva quel luogo più di lei. Il nome dell’istituzione e del
medico che ne fa la reputazione erano posti molto in alto nella sua stima,
e del resto lo sono ancora. Tuttavia le è sorto un dubbio. È ragionevole
credere una cosa per tanto tempo e arrivare un giorno a metterla in
discussione? A che pro sostenere certezze che possono crollare? Significa
che è impossibile fidarsi di se stessi. E anche che è possibile
ridimensionare la propria lealtà nei confronti dell’ospedale di cui si sono
sempre magnificati i valori.
Geneviève pensa a Louise. Quella mattina, appena il treno si è fermato
in stazione, si è precipitata a prendere un fiacre per andare alla
Salpêtrière, e una volta arrivata si è recata di corsa all’auditorium. Quando
ha aperto le porte oscillanti dell’anticamera si sentivano già le urla di
Louise all’interno. Entrando, la cosa che più l’ha colpita è stata l’inerzia
generale degli uomini presenti. Louise era stesa a terra, agitava il braccio
sinistro, chiamava aiuto e gli uomini non muovevano un dito, come
impietriti da quella disperazione femminile. Geneviève aveva già capito
cosa stava succedendo, da lontano aveva notato l’immobilità della parte
destra del corpo della ragazza. Era salita sul palco, aveva scostato gli
importuni e d’istinto era andata ad abbracciare l’adolescente. Non aveva
riflettuto su quel gesto per lei nuovo. Mai aveva abbracciato un’alienata.
Mai aveva abbracciato qualcun altro, del resto. L’ultimo abbraccio era
stato per Blandine.
Aveva tenuto Louise contro di sé fino a quando non aveva smesso di
piangere, poi la ragazza sfinita era stata portata nel dormitorio e al
pubblico erano state presentate le scuse dei medici.
Più tardi nella mattinata Babinski aveva spiegato a Geneviève che la
seduta di ipnosi si era spinta più lontano del solito e che di conseguenza
l’attacco isterico era stato più intenso, cosa che aveva provocato
un’emiplegia del lato destro. «È un fatto eccezionale e interessante da
studiare. Lavoreremo sul caso, e nelle prossime lezioni cercheremo di far
tornare indietro la paralisi». Le sue parole l’avevano disturbata, e il
fastidio era stato aggravato dalle due notti trascorse in treno. Dopo quello
che le aveva detto il padre si sentiva vulnerabile e incapace di ragionare.
Per evitare di pensarci aveva ripreso servizio come se niente fosse. Solo
nel pomeriggio, quando aveva sentito due alienate palare di Jeanne
Beaudon, aveva avuto l’idea di andare a trovare una che aveva conosciuto
quelle mura e ne era uscita. Sentiva il bisogno di parlare con qualcuno che
sapeva.
 
In cucina Jeanne si è alzata e sta cercando in un armadietto una scatola
di fiammiferi. Prende dalla tasca del grembiule una piccola sigaretta e se
la accende. In piedi, osserva con attenzione la donna bionda che ha
frequentato per due anni e che in quel momento sta guardando verso la
finestra. Sulla faccia della soprintendente la malinconia ha preso il posto
del rigore, che sembrava dovesse abitarci per sempre.
«È cambiata, signora Geneviève».
«Ah sì?».
«Lo sguardo. Non è più lo stesso».
Geneviève beve un sorso di caffè e mantiene gli occhi fissi sulla tazza.
«Può essere».
 
Alla Salpêtrière, schiarite intermittenti rallegrano l’inizio del
pomeriggio. Incoraggiate dalla tregua concessa da una pioggia che
sembrava non finire più, alcune sono andate a camminare nel parco, altre
alla chiesa dell’ospedale. A capo chino di fronte alla Madonna o a Gesù
Cristo pregano in silenzio o mormorando appena. Pregano di guarire,
pregano per i mariti o i figli di cui hanno dimenticato la faccia, pregano
senza una ragione particolare, solo per rivolgersi a qualcuno, nella
speranza che da qualche parte il messaggio venga ricevuto, come se Dio
fosse più capace di ascoltarle di un’infermiera o di un’altra alienata.
Nel dormitorio sono rimaste quelle che danno gli ultimi ritocchi ai
costumi. I raggi del sole illuminano i letti su cui le donne sono sedute. Sole
o a gruppetti, tagliano, cuciono, piegano e incollano con allegria stoffe e
ricami. Il ballo è fra tre giorni. L’impazienza eccita gli animi. Di quando in
quando scoppiano risate nervose ed euforiche.
In un angolo, lontano dalle sarte improvvisate, Thérèse accarezza
delicatamente i capelli di Louise. La decana delle internate ha posato i
ferri e veglia sull’adolescente. Stesa sulla schiena col braccio destro
piegato e la mano paralizzata posata sul petto, Louise sente le dita di
Thérèse scivolarle con affetto sulla folta capigliatura. Dal giorno prima
non ha detto una parola. Ha gli occhi che vagano nel vuoto senza guardare
niente di preciso. Le infermiere tentano con regolarità di farle mangiare
qualcosa, un pezzo di pane o di formaggio, eccezionalmente le hanno
addirittura portato un quadratino di cioccolato, ma invano. Sotto le
lenzuola sembra diventata di pietra.
Eugénie osserva la scena dal letto vicino. Per ordine di Geneviève, dal
giorno prima è autorizzata a dormire con le altre. Era arrivata nel
dormitorio nel momento in cui riportavano Louise semicosciente.
Thérèse, sbigottita, aveva lasciato il lavoro a maglia per accogliere la
ragazza trasformata da una seduta. «Oh no, piccola... Che ti hanno fatto?».
Aveva trattenuto le lacrime aiutando gli interni a metterla a letto. Sulla
stanza era calata la tristezza. In quel momento, invece, le ragazze sono fin
troppo contente di sottrarsi all’atmosfera malinconica.
Eugénie è seduta sul letto a gambe incrociate con le braccia conserte.
Guardando Louise il petto torna a vibrarle di collera sorda. Sa che non può
fare niente. Come ribellarsi alle infermiere, ai medici, all’insigne luminare,
all’ospedale, se la minima parola di troppo comporta l’isolamento o il
ritrovarsi un fazzoletto all’etere placcato sulla faccia?
Dalla finestra dà un’occhiata al parco. In lontananza vede donne
passeggiare sui viali raggiunti dai raggi di sole. L’immagine le fa tornare
una sensazione infantile, quella che provava quando i genitori la
portavano a passeggio nel parco Monceau, domeniche primaverili o estive
trascorse a camminare nei viali principali o nei vialetti ombrosi, a
osservare le vasche e i colonnati, ad attraversare il piccolo ponte con le
ringhiere bianche, a imbattersi in bambini che giocavano, donne di cui
ammirava le acconciature o borghesi che sottolineavano le proprie parole
gesticolando col bastone da passeggio. Ricorda anche i picnic sul prato con
la famiglia, la sensazione dell’erba fresca sui palmi, il platano di cui
accarezzava la grossa corteccia, i passeri che volavano cinguettando da un
ramo all’altro, la folla di ombrellini e crinoline, bambini che correvano
dietro a cagnolini, cilindri neri e cappelli fioriti, l’immensa pace di un
luogo in cui il tempo era sospeso, in cui era bello vivere, un’epoca in cui lei
e il fratello potevano ancora godersi il presente senza preoccuparsi del
futuro.
Scuote la testa per scacciare quei pensieri. Benché non sia di natura
malinconica, basterebbero quei ricordi a farla precipitare in un torpore da
cui in quel momento non avrebbe la forza di risollevarsi.
 
Sul letto di fronte, Louise si decide a girare verso Thérèse la sua faccia
tonda che sembra una luna.
«Non mi amerà mai, Thérèse».
Thérèse, prima sorpresa e poi contenta di sentirla finalmente parlare,
solleva le sopracciglia e sorride.
«Chi?».
«Jules».
La decana evita di alzare gli occhi al cielo e continua ad accarezzarle i
capelli.
«Ti ama già, l’hai detto tu».
«Sì, ma non così».
«Ti cureranno. Ho già visto Charcot guarire emiplegie».
«E se a me non la curano?».
Thérèse non risponde. Non ha mai visto Charcot guarire pazienti
colpite da emiplegia. Mentire a Louise la mette a disagio, ma ci sono casi in
cui una bugia è più di una necessità, è un conforto.
Una voce proveniente dall’entrata del dormitorio fa sobbalzare le tre
donne.
«Thérèse!».
Si voltano tutte insieme. Sulla porta, un’infermiera fa segno a Thérèse
di avvicinarsi.
Thérèse posa una mano sulla spalla della giovane. L’interruzione le è di
sollievo, non se la sentiva di continuare a mentire.
«Ho la visita, Louise, torno subito. Ti lascio in buona compagnia».
Poi fa un sorriso a Eugénie e si incammina. Arrivata alla porta, incrocia
Geneviève che sta entrando e si irrigidisce. Le due donne si bloccano.
Thérèse guarda la soprintendente con un’aria di tristezza e rancore.
«Lei non l’ha protetta, Geneviève».
Ed esce dal dormitorio lasciando sul posto Geneviève, a cui quella
critica fa male. Guarda verso Louise. Eugénie è ai piedi del suo letto,
immobile, con la testa leggermente inclinata verso destra, come se
sentisse qualcosa o qualcuno dietro la sua spalla.
Le altre alienate, troppo indaffarate a fare gli ultimi ritocchi ai vestiti
per il ballo, non si accorgono di niente. Quanto alle infermiere, si aggirano
tra i vari gruppetti per assicurarsi che le lunatiche non diano in
escandescenze.
Geneviève si avvicina con discrezione alle due ragazze isolate. Eugénie
continua a stare immobile vicino Louise. Ha i capelli nerissimi raccolti in
uno chignon alto che le lascia libera la nuca dritta ed elegante. Ha sempre
la faccia un po’ piegata di lato. Sta ascoltando. Di quando in quando
annuisce con un movimento impercettibile che Geneviève non noterebbe,
se non fosse concentrata a cogliere ogni minimo riflesso del suo corpo.
Eugénie posa la mano sulla spalla sinistra di Louise, poi lentamente,
senza fare rumore per non attirare l’attenzione delle altre, si china
sull’adolescente e le canta sottovoce una filastrocca.
«Tu, figlia mia tanto cara,
Con la pelle come il latte chiara,
Con due occhi perfetti
Buoni come confetti,
S’illumina l’anima mia
A saper che tu ci sia».
Louise sgrana gli occhi, poi guarda Eugénie.
«È... è la filastrocca che mi cantava mamma. Solo per me».
Risale con la mano sinistra fino a trovare la destra e la stringe. Vecchi
ricordi le passano davanti agli occhi.
«Come la conosci?».
«Me l’hai cantata tu una volta».
«Ah sì?».
«Sì».
«Non me lo ricordavo...».
«Credo che a tua madre farebbe piacere se fra tre giorni andassi al
ballo».
«No, così come sono mamma mi troverebbe brutta».
«Al contrario, ti troverebbe bellissima. Vorrebbe che ti mettessi il
costume e che ti godessi la musica. A te piace la musica, vero?».
«Sì».
Louise continua a tormentarsi nervosamente la mano sinistra con la
destra. Fa una smorfia incerta. Dopo un attimo afferra la coperta, se la tira
sulla faccia e sparisce sotto le lenzuola. Resta fuori solo una massa di
capelli spettinati sul cuscino.
Eugénie si volta, allunga una mano verso il proprio letto come se si
sentisse svenire e per un pelo riesce a sedersi sul materasso. Si lascia
cadere di peso, poi si porta la mano al viso e respira profondamente.
Geneviève non osa muoversi. Quando ha capito cosa stava succedendo
le si è fermato letteralmente il respiro. Non ha respirato per qualche
secondo, e se n’è accorta solo dopo. Averlo vissuto su di sé è un conto,
esserne testimone rasenta il miracolo.
Va verso Eugénie, che sentendo avvicinarsi i tacchi solleva la faccia
pallida. Quando vede che è Geneviève si raddrizza.
«Ho visto quello che hai fatto».
Le due donne si guardano. Non hanno più parlato dalla sera in cui
Eugénie ha detto a Geneviève che il padre si era sentito male. Eugénie
stessa si era stupita del modo in cui aveva ricevuto il messaggio. Dopo più
di un’ora ad aspettare una visita che non veniva, la stanza si era fatta di
colpo pesante e lei si era sentita oppressa da una stanchezza improvvisa.
Aveva sentito il carico su di sé, sui mobili, addirittura sulla maniglia
bloccata che aveva impedito a Geneviève di uscire. Non aveva visto
Blandine, ma ciò che la voce di Blandine descriveva. Erano fotografie a
colori, come se le avesse sfogliato un album sotto gli occhi, ed erano
immagini vivide, precise fin nei minimi dettagli. Aveva visto la casa del
padre, la cucina, il tavolo su cui cenava, il corpo dell’uomo a pancia sotto
sul pavimento, il sopracciglio tagliato. Aveva visto anche il cimitero, le
tombe della moglie e della figlia, i tulipani che il vedovo era andato a
lasciare. La voce di Blandine era insistente, pressante, era necessario
convincere Geneviève, e alla fine Geneviève si era convinta. Quand’era
uscita dalla stanza Blandine era andata con lei. Eugénie si era stesa sul
letto e quella notte non aveva dormito. L’episodio l’aveva turbata. Stava
appena cominciando ad abituarsi a vedere e sentire i defunti, ed ecco che
le toccava vedere altro, immagini o scene che non erano il prodotto della
sua immaginazione. Si sentiva strumentalizzata, derubata di se stessa:
usavano la sua energia e la sua predisposizione per far arrivare un
messaggio, e quando non avevano più bisogno di lei la abbandonavano
stremata. Non aveva più controllo su quello che stava succedendo. Si era
chiesta a cosa le servisse subire quegli stati intensi ed esigenti sia
fisicamente che psichicamente. Non le sembrava sensato avere quel dono.
Da allora quei timori non avevano smesso di tormentarla. Solo un uomo
era in grado di darle delle risposte, e non era lì, ma a rue Saint-Jacques.
 
Geneviève nota che le infermiere stanno guardando nella loro
direzione. Tornando al consueto rigore punta il dito verso Eugénie.
«Rifatti il letto».
«Eh?».
«Ci stanno guardando, non possiamo parlare come fossimo due amiche.
Rifai il letto, ho detto».
Anche Eugénie si accorge degli sguardi attenti delle infermiere. Si alza a
fatica e sprimaccia il cuscino di piume. Geneviève, sempre col dito
puntato, fa finta di darle istruzioni.
«Ho visto quel che hai fatto con Louise. Notevole».
«Non lo so».
«Rincalza bene le lenzuola. Perché dici così?».
«C’è poco di notevole in quello che faccio. Sento delle voci e basta».
«Tutti vorrebbero avere il tuo dono».
«Lo cederei volentieri, se potessi. Non ci faccio niente, serve solo a
sfinirmi. Che faccio quando ho finito il mio letto?».
«Fanne un altro».
Le due donne passano al letto successivo. Eugénie scuote, piega, sistema
le lenzuola, la coperta e il cuscino mentre Geneviève continua a darle
ordini.
«Ti sbagli se pensi che non serva a niente».
«Non so cosa si aspetta ancora da me. Ha avuto la prova che voleva. Ora
mi aiuterà o no?».
Eugénie sbatte con rabbia il cuscino sul materasso. L’attenzione delle
infermiere è ormai fissa sulle due donne, in particolare su Eugénie. Stanno
all’erta con le mani nelle tasche del camice, pronte a tirare fuori la
bottiglietta dell’etere.
La tensione non dura a lungo. All’improvviso una voce risuona nel
silenzio ovattato.
«Signora Geneviève!».
Un’infermiera è entrata nel dormitorio e corre verso la soprintendente.
Ha il grembiule bianco macchiato di sangue. Le alienate smettono ogni
attività e guardano la donna nel panico correre tra i letti.
«Presto, venga!».
«Che succede?».
«Si tratta di Thérèse!». L’infermiera, pallidissima, si ferma di fronte a
Geneviève. «Il dottore le ha detto che era guarita, che poteva andarsene
dall’ospedale».
«E allora?».
«Si è tagliata i polsi con le forbici».
Il dormitorio si riempie di grida. Alcune alienate si sono alzate e
battono i piedi sul posto, altre crollano sul letto. Le infermiere
intervengono per placare gli animi di colpo agitati. In un attimo l’allegria
generale si dissolve. Louise si abbassa la coperta e affaccia un viso
spaventato.
«Thérèse?».
Geneviève si sente mancare l’aria. Il panico che si è diffuso tra i letti la
stordisce. Non controlla più niente. Il fragile equilibrio che era riuscita a
costruire si è rotto, ormai tutto le sfugge come se scivolasse giù per una
discesa.
«Venga, signora».
La voce dell’infermiera la costringe a reagire, accelera il passo. Eugénie
la guarda uscire. Ha ancora il cuscino tra le mani, se lo stringe al petto.
Dietro di lei Louise sta piangendo. Anche Eugénie vorrebbe piangere, ma si
rifiuta. Stanca, si siede sul bordo del letto e guarda verso la finestra. In
lontananza una schiarita illumina il prato del parco.
 
Geneviève batte tre colpi alla porta. Fa un grosso respiro e si mette le
mani dietro la schiena tormentandosi nervosamente le dita. Fuori è ormai
buio. I corridoi dell’ospedale sono silenziosi.
Dopo un po’ risponde una voce dall’interno.
«Avanti».
Geneviève gira la maniglia. L’uomo è seduto alla scrivania. Leggermente
piegato in avanti sta scrivendo a penna gli ultimi appunti del giorno.
L’ufficio è tranquillo, quasi solenne. Varie lampade a olio illuminano le
pareti, i mobili e la corpulenta figura dell’uomo che sta finendo di mettere
per iscritto le sue ultime osservazioni. Un odore di tabacco aleggia tra i
libri e i busti di marmo disposti su entrambi i lati della stanza.
Geneviève fa un timido passo avanti. L’uomo è concentrato a scrivere,
ha entrambe le braccia sul tavolo. Indossa gilet e giacca scuri, e una sottile
cravatta nera annodata sulla camicia bianca. Ha l’aria di mantenere il suo
imponente contegno in ogni circostanza. Solo o di fronte al pubblico, la
sua presenza ha un peso che Geneviève non ha mai riscontrato in nessun
altro.
«Dottor Charcot?».
L’uomo solleva il volto da studioso. Palpebre e bocca un po’ cascanti
conferiscono alla sua espressione qualcosa di preoccupato e altero.
«Oh, Geneviève. Si accomodi».
Geneviève si siede dall’altro lato della scrivania. Quell’uomo la spiazza.
Non è la sola a esserne turbata. Le è capitato di vedere alienate svenire al
contatto della mano di Charcot, altre fingere attacchi per ottenere la sua
attenzione. Le rare volte in cui si reca nel dormitorio l’umore cambia di
colpo: il dottore entra e subito si crea una piccola corte di donne che
fanno moine, si pavoneggiano, simulano la febbre, piangono, supplicano e
si fanno il segno della croce mentre le infermiere ridono come ragazzine
spaurite. Charcot è allo stesso tempo l’uomo desiderato, il padre che
avrebbero voluto, il dottore che ammirano e il salvatore di menti e anime.
Quanto ai medici e agli infermieri che lo seguono mentre si aggira tra le
file, è un’altra piccola corte fedele, silenziosa, in un’ammirazione costante
che rafforza la legittimità di colui che regna da padrone sull’ospedale.
Non è saggio fare tanto l’elogio di un solo uomo. Pur non mostrando
niente, Geneviève vi contribuisce per una buona parte. Ai suoi occhi il
neurologo incarna l’eccellenza della medicina e della scienza. Più che un
marito che avrebbe potuto desiderare, Charcot è un maestro, e lei ne è
l’allieva privilegiata.
Nell’ufficio silenzioso il dottore continua a riempire le sue schede.
«È inconsueto vederla qui. C’è un problema?».
«Vorrei parlarle di una paziente, Eugénie Cléry».
«Sa quante alienate ci sono alla Salpêtrière?».
«È quella che comunica con i defunti».
L’uomo smette di scrivere, infila la penna nel calamaio, si appoggia allo
schienale e guarda la soprintendente.
«Sì, Babinski mi ha informato. È vero?».
Geneviève temeva quella domanda. Se conferma che Eugénie parla
effettivamente con i morti ne faranno un’eretica, non sarà curata, ma
rinchiusa, e non potrà mai più sentire la brezza dell’esterno. Se invece
sostiene che si inventa tutto sarà considerata una volgare mitomane.
«So solo che da quando la tengo d’occhio non ho notato assolutamente
nulla di anormale in lei. Non c’entra niente con le altre donne di qui».
Charcot aggrotta le sopracciglia e riflette.
«Quando è stata internata?».
«Il 4 marzo».
«È ancora presto per capire se sia giusto o no dimetterla».
«Allo stesso tempo non è giusto tenere donne normali in mezzo a
centinaia di alienate».
L’uomo dà un’occhiata a Geneviève. Sposta indietro la sedia con un
cigolio stridente e si alza. Il parquet scricchiola sotto i suoi piedi. Apre una
scatola di sigari posata su una consolle dietro la scrivania.
«Se questa donna sente davvero delle voci, c’è un problema di ordine
neurologico che dovremo capire. Se invece mente è una pazza, tanto
quanto l’alienata che sostiene di essere Giuseppina Beauharnais o l’altra
che dice di essere la Madonna».
Un senso di frustrazione scuote Geneviève. Anche lei si alza. Dall’altra
parte della scrivania Charcot si accende un sigaro.
«Mi scusi, dottore, ma Eugénie Cléry non ha niente a che vedere con
quelle donne, lavoro nel reparto da abbastanza tempo per poterlo
affermare».
«Da quando in qua prende le difese delle alienate, Geneviève?».
«Mi ascolti: tra due giorni c’è il ballo, alle infermiere è richiesto uno
sforzo maggiore in questo periodo, per giunta il dormitorio è stato
profondamente scosso dall’incidente di Louise e dall’episodio di Thérèse.
Non è proprio un ambiente propizio per una donna che non presenta
alcun sintomo evidente...».
«Non era in isolamento?».
«Scusi?».
«Babinski mi ha descritto una scena di ribellione non comune seguita
alla visita medica. L’aveva messa in isolamento, no?».
Geneviève è colta di sorpresa. Si sforza di non abbassare lo sguardo:
sarebbe un segnale di debolezza, e lei conosce bene l’occhio acuto dei
medici. Per tutta la vita ha avuto addosso quello del padre. La
deformazione professionale di quegli uomini fa sì che non sfugga loro
niente, non un graffio, un’anomalia, un turbamento, un tic, una debolezza:
che tu lo voglia o no, ti leggono dentro.
«Sì, l’ho isolata. Come da procedura».
«E ha quindi constatato che è una giovane turbata. Mitomane o medium
che sia, è una donna aggressiva e pericolosa. Il suo posto è qui».
Col sigaro in mano, Charcot si rimette seduto, riprende la penna dal
calamaio e ricomincia a scrivere.
«In futuro, Geneviève, la prego di non disturbarmi più per casi
particolari. Il suo ruolo si limita alla presa in carico delle alienate, non alla
loro diagnosi. Resti nei ranghi, se non le dispiace».
Il commento risuona nella stanza come uno sparo. Il dottore si dedica di
nuovo ai suoi appunti ignorando la persona che ha appena ammonito.
Un’umiliazione a porte chiuse. Relegata al ruolo di semplice infermiera da
uno che è arrivato alla Salpêtrière dopo di lei. Anni di lavoro e di lealtà
non sono bastati a dare legittimità alle sue parole agli occhi dell’uomo che
lei ha sempre messo su un piedistallo.
Per un attimo rimane stordita. Come da piccola ogni volta che il padre
la sgridava, incassa la testa nelle spalle e stringe i pugni per non piangere.
Si prende il rimprovero senza dire una parola, poi esce dalla stanza per
non disturbare oltre il dottore tornato al proprio lavoro e ormai
indifferente alla sua persona.
11
17 marzo 1885

I
n sala da pranzo il caffè viene servito nelle tazzine di porcellana, le posate
tintinnano contro i piatti, il pane comprato la mattina stessa è ancora
caldo, la mollica quasi scotta. Fuori, una pioggia battente colpisce i vetri
delle finestre.
Théophile gira meccanicamente il cucchiaino nel liquido nero bollente.
Non sopporta più il silenzio della colazione, un silenzio indifferente nei
confronti della sedia vuota che gli sta di fronte. In casa il nome di Eugénie
non viene più pronunciato, come se non fosse mai esistita. Da quando non
c’è più, due settimane, niente è cambiato nelle abitudini della famiglia. Il
silenzio mattutino è lo stesso. Si imburrano fette di pane, si intingono
biscotti nella tazza, si mastica l’omelette, si soffia sul caffè per
raffreddarlo.
Una voce lo strappa ai suoi pensieri.
«Non fai colazione, Théophile?».
Il giovane alza gli occhi. La nonna, accanto a lui, sostiene il suo sguardo
e beve un sorso di tè. Théophile non sopporta il sorriso della vecchia.
Stringe il pugno sotto il tavolo.
«Non ho fame».
«La mattina stai mangiando meno, in questi giorni».
Théophile evita di risponderle. Probabilmente mangerebbe di più se
quella donna dalla dolcezza ingannevole non avesse tradito la fiducia della
nipote. Il suo viso è tanto rugoso quanto menzognero: sembra benevola e
affettuosa, ha sempre una carezza per i più giovani, uno sguardo dolce per
il nipote, ma se non fosse stato per quella nonna maestra d’imbrogli in
quel momento Eugénie sarebbe a tavola con loro. La donna, che l’età non
ha reso né senile né saggia, sapeva benissimo cosa sarebbe successo
denunciando il segreto che le aveva rivelato la nipote.
Théophile ce l’ha con lei per aver ingannato Eugénie, ce l’ha col padre
per averla fatta internare a tradimento, ce l’ha con la madre per essere
debole e passiva, come sempre. Vorrebbe rovesciare quella tavola muta,
scagliare a terra tazze e piattini, mettere ognuno di loro di fronte alla
nefasta decisione, ma resta immobile. Da due settimane la sua
vigliaccheria non è diversa da quella degli altri. Dopo tutto ha contribuito
anche lui all’internamento della sorella. Si è piegato agli ordini del padre.
Non ha avvertito Eugénie. L’ha addirittura accompagnata dentro quel
dannato ospedale mentre lei lo supplicava di non farlo. La vergogna che lo
divora interiormente gli impedisce di aprire bocca. La rabbia che prova
nei confronti della famiglia intorno al tavolo è illegittima, perché gli stessi
rimproveri potrebbero essere rivolti a lui. La nonna è riuscita a fare in
modo che tutti in quella casa siano colpevoli.
 
Il campanello li fa sobbalzare. Louis posa il vassoio del tè e va ad aprire.
A capotavola, François Cléry prende l’orologio dal taschino del panciotto.
«È un po’ presto per le visite».
Louis torna in sala da pranzo.
«C’è la signora Geneviève Gleizes, della Salpêtrière».
Il nome dell’ospedale fa scendere il gelo. Nessuno si aspettava di sentir
nominare quel luogo, e soprattutto nessuno ne aveva voglia. Dopo il primo
momento di stupore il notaio Cléry aggrotta le sopracciglia.
«Che vuole?».
«Non lo so, signore. Ha chiesto di lei e del signor Théophile».
Théophile si raddrizza sulla sedia e arrossisce. Gli sguardi si voltano
verso di lui, come se fosse responsabile di quella visita. Il padre mette giù
le posate con aria contrariata.
«Sapevi che sarebbe venuta?».
«Ma no!».
«Vai a parlarci tu. Dille che sono occupato. Non ho tempo per quella lì».
«Va bene».
Théophile si alza con aria goffa, posa il tovagliolo accanto alla tazza e si
dirige verso l’anticamera.
Geneviève lo sta aspettando accanto alla porta. Ha in mano un ombrello
che sgocciola acqua. Le scarpe e la parte bassa del vestito sono fradicie.
Poco a poco ai suoi piedi si forma una piccola pozzanghera sul parquet.
Con una mano si rimette a posto i capelli e il cappello. Non crede che il
notaio la riceverà. Una volta che una ragazza ha varcato le porte della
Salpêtrière nessuno, e meno che mai la famiglia, vuole più sentirne
parlare. François Cléry non fa eccezione. Con la figlia ormai alienata,
anche pronunciarne il nome equivarrebbe a disonorarlo. In
quell’ambiente tenere alta la reputazione di un cognome è più importante
che tenersi una figlia. Agli occhi di casa Cléry soltanto il figlio maschio
costituisce ancora una speranza. “È venuto a trovare la sorella. Si sente in
colpa, è chiaro. Quindi è con lui che devo parlare” ha pensato Geneviève.
Motivo per cui quella mattina è lì.
La sera prima, mentre tornava a casa, il cambiamento interiore che si
annunciava già da un po’ si era definitivamente operato. Da principio le
parole di Charcot l’avevano abbattuta, un cruccio che dopo gli eventi degli
ultimi giorni – prima il padre, poi Louise e Thérèse – l’aveva fatta crollare.
Tutto sfuggiva al suo controllo. Tutto si ribaltava e cadeva nello stesso
momento, tanto che si era chiesta se non fosse arrivato il momento di
dare le dimissioni dall’ospedale.
Tuttavia, man mano che camminava verso il Panthéon, un altro
sentimento le si era insinuato nella testa. Da vent’anni sgobbava, non si
lesinava, trascorreva notti in bianco alla Salpêtrière. Ne conosceva ogni
corridoio, ogni pietra, ogni alienata meglio di chiunque altro, meglio
anche di Charcot. E lui si era permesso di disprezzare le sue parole.
Dall’alto del piedistallo aveva scacciato come una mosca fastidiosa
l’opinione di una persona che lo ammirava. Non l’aveva ascoltata e non
intendeva ascoltarla. D’altronde in quell’ospedale nessun uomo le
ascoltava.
La rabbia le era salita dentro passo dopo passo insieme a un senso di
rivolta. Sì, non era solo nervosismo, era ribellione, la stessa ribellione che
le suscitavano i preti e la chiesa quand’era piccola. Mettevano in
discussione il suo credo e la sua identità, volevano spezzarla, imporle una
linea di condotta, un carattere. Credeva di aver trovato una legittimità in
seno all’ospedale, ma si rendeva conto che il suo valore non era tanto
quello che gli altri le accordavano, ma quello che aveva deciso di
concederle una sola persona, il professor Charcot.
Forse la sua reazione era eccessiva, forse non aveva ragione di
offendersi per un avvertimento, ma aveva sempre tenuto testa a coloro
che riteneva avessero torto, e Charcot stavolta aveva torto.
Aveva deciso: avrebbe aiutato Eugénie. Come Eugénie aveva aiutato lei.
 
Arrivato in anticamera, Théophile riconosce subito la soprintendente.
Ha un nodo alla gola. Si avvicina.
«Signora...».
Geneviève dà un’occhiata alle sue spalle.
«E suo padre?».
«È occupato, la prega di scu...».
«No, va bene così, volevo vedere lei».
«Me?».
Anche Théophile dà un’occhiata alle proprie spalle, poi abbassa la voce.
«Se è per il libro che le ho dato, la prego di non dire niente».
«Non sono qui per il libro. Ho bisogno del suo aiuto».
La soprintendente si avvicina a Théophile. Anche lei sussurra. Dalla
porta aperta in fondo al corridoio si vede uno scorcio della sala da pranzo.
Tavolo e occupanti del tavolo non sono visibili.
«Sua sorella deve andare via dalla Salpêtrière».
«Cos’ha? È grave?».
«Non ha assolutamente niente, è normalissima. Ma il dottore non vuole
dimetterla».
«Se è normale...».
«Una volta là dentro non si esce, o molto di rado».
Théophile guarda ansioso il corridoio per controllare che non venga
nessuno. Si passa la mano tra i capelli con gesto nervoso.
«Non vedo cosa posso fare. Non sono il suo tutore. Solo mio padre
potrebbe farla uscire».
«E non lo farà?».
«No. Mai».
«Domani c’è il ballo dell’ospedale. Ho inserito il suo nome sulla lista
degli invitati. Si chiamerà Clérin, le ho cambiato nome perché non la
colleghino a un’alie... a un’internata».
«Domani?».
«Si ritroverà con sua sorella. Ci sarà abbastanza agitazione da
permetterci di eclissarci a un certo punto. Vi farò uscire da un ingresso
secondario».
«Ma... ma non posso portarla qui».
«Ha due giorni a disposizione, le trovi qualcosa. Una mansarda sarà
sempre meglio del posto in cui è ora».
Una voce proveniente dal corridoio li fa sussultare.
«Tutto bene, signor Théophile?».
Louis è sul vano della porta della sala da pranzo. Théophile gli fa un
cenno con mano tremante.
«Tutto bene, Louis. La signora sta andando via».
Il domestico lo guarda un attimo, poi si ritira. Théophile, nervoso, fa su
e giù per l’anticamera continuando a passarsi la mano tra i capelli.
«È tutto così improvviso. Non so che dire».
«Vuole che sua sorella sia libera?».
«Sì, certo».
«Allora si fidi di me».
Théophile si ferma e fissa Geneviève. Non è la stessa donna che ricorda.
Fisicamente è quella a cui ha dato il libro, certo, ma il temperamento non
è più lo stesso, ne è sicuro. Prima intimidiva, ormai è una persona con cui
si confiderebbe volentieri. Si avvicina.
«Perché aiuta mia sorella?».
«Sua sorella ha aiutato me».
La soprintendente sembra dire più di quello che vorrebbe. Théophile ha
un’altra domanda da farle. Se lo chiede da due settimane, e solo quella
donna è in grado di rispondergli. Apre la bocca, ma non riesce a parlare.
Ha paura della risposta.
Come se avesse intuito la sua incertezza, Geneviève lo anticipa.
«Sua sorella non è pazza. Ed è capace di aiutare gli altri. Ma non potrà
farlo se è rinchiusa».
Dalla sala da pranzo si sente rumore di stoviglie. Geneviève stringe il
braccio del giovanotto.
«Domani sera alle sei. Non ci sarà un’occasione migliore di questa».
Gli lascia il braccio, gira la maniglia ed esce. Dalla porta rimasta
semiaperta Théophile la vede scendere le scale rapidamente senza fare
rumore. Si porta la mano al petto. Sul palmo sente il cuore battergli con
violenza.
 
Thérèse si sveglia. Nella penombra del dormitorio le sue palpebre
lottano per sollevarsi. È scesa la sera. Lampade a olio illuminano il
dormitorio e le figure femminili in effervescenza. Quell’agitazione le è
familiare, si ripropone ogni anno alla vigilia del ballo. Gesti impazienti,
risate nervose: poche riescono a dormire quella sera.
Stesa sul letto, Thérèse appoggia le mani sul materasso per tirarsi a
sedere, ma un acuto dolore ai polsi glielo impedisce. Si blocca, si morde le
labbra, trattiene un grido. È come se una lama la lacerasse da dentro. La
fitta di dolore le sale alla testa e gliela fa girare. Se n’era dimenticata.
 
Da quando viveva alla Salpêtrière, due o tre volte al mese Thérèse
incorreva in terrori notturni: l’ex prostituta sobbalzava in piena notte e
gridava aiuto, e tutti gli altri letti venivano contagiati dal panico. La
mattina dopo non ricordava più niente. A parte quegli episodi, la decana
delle alienate si comportava normalmente.
Senza che ci fosse una ragione precisa, da un bel po’ gli attacchi di
panico erano cessati. L’umore di Thérèse era costante e le sue notti
serene. Il suo stato generale si era a tal punto stabilizzato che il giorno
prima il dottor Babinski, dopo averla visitata, aveva decretato l’assenza di
sintomi che impedissero di dimetterla. Le sue parole avevano fatto
tremare l’internata, che aveva ormai una certa età. L’idea di uscire e
ritrovare le strade di Parigi e i suoi odori, di attraversare la Senna in cui
aveva spinto l’amante, di camminare a fianco di gente di cui ignorava le
intenzioni, di percorrere quei marciapiedi che conosceva fin troppo bene
le aveva messo addosso una paura incontrollabile. Aveva visto un paio di
forbici sul tavolo e il suo gesto era stato così rapido che le infermiere
avevano avuto solo il tempo di gridare.
La notte prima a un certo punto si era svegliata, e le fasciature intorno
ai polsi l’avevano rincuorata.
Ormai nessuno le avrebbe più detto di andarsene.
 
Facendo leva sui gomiti riesce a raddrizzarsi un po’. Tira fuori le braccia
da sotto le coperte e si osserva le bende: sul tessuto bianco ci sono
macchie di sangue secco. La pelle le tira, le sembra quasi di sentirla urlare.
Dovrà aspettare per poter di nuovo lavorare a maglia. Rimette le braccia
sotto le coperte per evitare di attirare l’attenzione. Le altre sono tornate
dal refettorio e tardano a mettersi a letto. La loro immaginazione è
occupata a fantasticare su applausi e danze con un cavaliere, sperano in
un incontro o almeno in uno scambio di sguardi, e ogni dettaglio che
potranno sentire o vedere la sera del ballo resterà nella loro memoria
come una reliquia preziosa.
Una sola persona si distingue dalle altre: dritta e tesa nel vestito nero,
passa tra le file dei letti senza condividere il clima di leggerezza. Thérèse
riconosce Eugénie. La giovane raggiunge il proprio posto e si mette a letto
senza fare caso alla vicina. Tolti rapidamente gli stivaletti, si infila sotto le
coperte. In quel momento Thérèse nota il biglietto che ha in mano e che
inserisce subito all’interno della manica, tra il polso e la stoffa, con
discrezione. Riposto il segreto in un luogo sicuro, Eugénie si stende, si gira
sul fianco dando le spalle a Thérèse e rimane immobile.
Quest’ultima non ha il tempo di capire. Una mano si posa sulla sua
spalla.
«Thérèse, ti sei svegliata».
In piedi accanto al letto, un’infermiera la sta guardando. È una bruna
corpulenta con la faccia inespressiva, fa parte delle nuove, quelle arrivate
un paio d’anni prima, donne che avrebbero potuto fare altrettanto bene le
domestiche o le lavandaie, approdate lì per mancanza di meglio, che si
occupano delle pazienti come se servissero il tè o strizzassero la
biancheria. Si limitano a eseguire gli ordini, e per fare passare le lunghe
giornate prive di interesse parlano in continuazione: delle alienate, delle
altre infermiere, dei medici, degli interni... La minima novità, il minimo
particolare, il minimo pettegolezzo viene condiviso, ripetuto, decuplicato
e commentato. A vederle parlare in un corridoio o su una panchina fanno
venire in mente le comari che si riuniscono a chiacchierare nei cortili
degli stabili. A confidare loro qualcosa si può stare certi che andranno a
ripeterla in giro.
Thérèse fa spallucce con aria indifferente.
«Mi sono svegliata, sì».
«Hai bisogno di qualcosa? Non sei venuta a cena».
«Non ho fame, grazie».
La giovane infermiera si accovaccia accanto al letto. Thérèse è l’unica a
non essere oggetto di chiacchiere tra le nuove reclute. Anzi, è proprio
quella con cui hanno piacere di parlare, dato che sta in quel posto da
vent’anni e ne conosce ogni angolo.
La ragazza indica Eugénie e abbassa la voce.
«Sai la tua vicina, quella che parla con i fantasmi? Prima, in refettorio,
l’Anziana le ha dato un biglietto. Un foglietto di carta. Non voleva farsi
vedere, ma io l’ho vista».
Thérèse dà un’occhiata a Eugénie stesa sul fianco con la schiena rivolta
alle due donne. Non si stupisce. Si era già accorta che Geneviève appariva
turbata quando guardava Eugénie, ed era rimasta sorpresa nel constatare
una tale insolita debolezza nell’Anziana. Qualcosa in lei aveva vacillato da
quando era arrivata quella ragazza di buona famiglia, ma Thérèse non
aspirava a saperlo, proprio perché ciò che succedeva tra le due donne le
sembrava importante.
Contrariata, si volta verso l’infermiera.
«E allora?».
«Quelle due nascondono qualcosa, ne sono sicura. D’ora in poi non le
perdo più di vista».
«Di’ un po’, ragazzina, non hai niente di meglio da fare? È un ospedale,
questo, non un bistrot. Dovresti occuparti di qualcos’altro, lì di fronte ci
sono due pazze che si stanno litigando una cappellina, per esempio».
L’infermiera si rialza e aggrotta le sopracciglia.
«Se prima o poi scopro che sai qualcosa lo dico al dottore».
«E non è neanche una scuola. Vattene, mi hai scocciato, non mi si
cicatrizzano i tagli se continuo ad ascoltarti».
La giovane spia gira i tacchi e si allontana. Thérèse guarda di nuovo
Eugénie.
Rannicchiata sul fianco, con la testa sul cuscino, Eugénie sta piangendo
in silenzio. Si scosta i ciuffi bagnati dalla faccia. Non vede e non sente
niente intorno a sé. Mille pensieri si rincorrono nella sua testa. Poi, per
crederci davvero, per assicurarsi di non aver sognato, prende dall’interno
della manica il biglietto che le ha dato Geneviève. Aprendolo le tremano le
dita. La scrittura è quella dell’Anziana:
Domani sera durante il ballo. Ci sarà Théophile.
12
18 marzo 1885

È
scesa la sera. Lungo boulevard de l’Hôpital gli addetti ai lampioni si
attivano per illuminare i marciapiedi. Nel viale regna la calma, a parte al
numero 47. Sulla piazzetta creata da una rientranza della strada c’è
un’insolita agitazione: i fiacre arrivano a decine, girano intorno al piccolo
rondò e si fermano uno per volta per far scendere i passeggeri sul selciato.
Sono coppie eleganti, basta un’occhiata a come sono vestiti per capire che
si tratta di una Parigi che non ha problemi a nutrirsi.
Sotto l’entrata a volta, accanto alle colonne che sostengono l’architrave
su cui è scolpito il nome dell’ospedale, alcune infermiere accolgono gli
invitati. Qualcuno, che ha familiarità con i luoghi, attraversa il cortile
d’onore con passo sicuro, altri osservano i viali e gli edifici con euforia
curiosa e timorosa.
Nella vasta sala dell’Hospice sono già presenti alcuni invitati. Appliques
a muro illuminano la modesta decorazione del luogo: piante verdi e fiori a
lato delle larghe finestre e ghirlande colorate che pendono dal soffitto.
Il buffet, accanto alle porte oscillanti, offre dolci, caramelle e pasticcini.
La gente si serve con curiosità cercando invano un liquore o una coppa di
champagne: quella sera i palati dovranno accontentarsi di orzata e
aranciata.
Un valzer accoglie i nuovi arrivati. Sul palco in fondo alla sala
un’orchestrina sta suonando con brio.
Un brusio timido e nervoso si unisce alle note musicali. Quell’ultima
attesa eccita definitivamente gli animi e alimenta le conversazioni.
«Secondo lei che aria hanno?».
«Crede che si possano guardare negli occhi?».
«L’hanno scorso una vecchia demente si è strusciata a tutti gli uomini
della serata!».
«Sono aggressive?».
«Ci sarà Charcot?».
«Sarei curiosa di vedere come sono questi famosi attacchi isterici».
«Forse non avrei dovuto mettermi i diamanti, speriamo che le pazze
non me li rubino».
«Pare che alcune siano molto belle».
«Ne ho viste certe assolutamente ripugnanti».
Cinque colpi di bastone battuti sul pavimento fanno tacere le voci.
L’orchestra smette di suonare. Presso la porta si è radunato un gruppetto
di infermiere. Guardandole, gli invitati si ricordano che quel ballo non ha
niente in comune con qualsiasi altro ballo. Decorazioni, orchestra e buffet
non possono mascherare la realtà: si trovano in un ospedale per alienate.
La presenza delle infermiere suscita una sensazione ambigua: gli ospiti
sono contenti di saperle lì vicino, casomai si verificassero eccessi che
rovinerebbero il ballo, e si sentono anche meno soli, meno impotenti di
fronte a quelle donne che presto vedranno e di cui ignorano il
comportamento in pubblico. Allo stesso tempo preoccupano, perché
ricordano che uno sbalzo d’umore è sempre in agguato e che un’alienata
può andare in crisi in qualsiasi momento, anche se in fondo ognuno spera
di assistere a uno di quei famosi attacchi isterici.
Accanto alle infermiere, un medico si rivolge agli invitati.
«Signore e signori, buonasera. Benvenuti all’ospedale della Salpêtrière.
Le nostre infermiere, il personale medico e il dottor Charcot sono felici e
onorati di ricevervi per questo ballo di mezza quaresima. E ora vi prego di
accogliere quelle che tanto aspettate».
L’orchestra riattacca il valzer di fronte a un pubblico muto. I colli si
tendono verso le porte che vengono aperte. Due a due, le alienate entrano
in corteo nella sala. La gente si aspettava di veder apparire delle
disgraziate scheletriche e deformi, e si stupisce della spigliatezza e della
normalità delle pazienti di Charcot. Immaginavano costumi grotteschi e
atteggiamenti buffoneschi, e sono sorpresi da quella presenza scenica
degna di attrici di teatro. Vedono sfilare lattaie e marchese, contadine e
Pierrot, moschettiere e Colombine, amazzoni e maghe, cantastorie e
marinaie, pastorelle e regine. Sono donne che provengono da tutti i
settori dell’ospedale, ci sono isteriche, epilettiche e nevrotiche, giovani e
meno giovani, tutte carismatiche, come se a distinguerle non fossero
soltanto la malattia e il manicomio, ma un modo di essere e di collocarsi
nel mondo.
Vanno avanti tra due ali di invitati. La gente cerca un difetto, una tara,
nota un braccio paralizzato sul petto o palpebre che si abbassano con
troppa frequenza, ma nel complesso le alienate offrono un sorprendente
spettacolo di grazia. Gli ospiti acquistano fiducia, si distendono. Poco a
poco mormorii e risate riprendono, la gente si spinge per vedere più da
vicino quegli animali esotici, perché è come essere in una gabbia del
giardino zoologico, in contatto diretto con le bestie strane. Mentre le
alienate vanno sulla pista da ballo o si siedono sui divanetti gli invitati si
rilassano, scoppiano a ridere, gorgogliano, gridano quando sfiorano la
manica di una pazza, tanto che se qualcuno entrasse nella sala senza
conoscerne il contesto prenderebbe per pazzi ed eccentrici tutti quelli che
si suppone non lo siano.
 
A poche porte di distanza, dal fondo di un corridoio, un’infermiera sta
portando Louise al ballo su un letto a rotelle. L’adolescente si lascia
spingere verso l’evento.
Per tutto il giorno si è rifiutata di indossare il costume. L’idea di
mostrarsi in pubblico con metà del corpo paralizzata la spaventava: lei, la
celebre allieva delle lezioni di Charcot, diventata una volgare invalida
incapace di ballare sulle sue gambe. Poi l’insistenza e le lusinghe di
alienate e infermiere avevano vinto la sua resistenza: Parigi non aspettava
che lei, volevano vederla. Che fosse paralizzata non danneggiava in niente
la sua reputazione, avrebbero anzi ammirato in lei il coraggio di apparire
in pubblico. Inoltre se Charcot fosse stato capace di guarirla, di farle
andare via la paralisi, sarebbe diventata un simbolo, un modello dei
progressi della scienza, il suo nome sarebbe stato scritto sui libri di scuola.
Non le serviva di più per ritrovare fiducia. Aveva aspettato che le altre
alienate uscissero dal dormitorio, tranne Thérèse che sarebbe rimasta a
letto, e si era fatta vestire da due infermiere. Il braccio paralizzato era
stata la cosa più difficile, ma erano riuscite a infilarglielo senza rompere la
stoffa. Le avevano messo sulle spalle un’ampia mantiglia a fiori con le
frange e raccolto i capelli in uno chignon basso ornato da due rose.
Thérèse l’aveva guardata con un sorriso.
«Sembri proprio una spagnola, Louise».
Le ruote del letto cigolano sul pavimento del corridoio. Dietro la
schiena di Louise sono stati messi molti grossi cuscini che la tengono in
posizione seduta con la mano paralizzata contro il petto. Man mano che si
avvicina alla sala dell’Hospice le si accelera un po’ il respiro. Non sente le
parole della giovane infermiera alle sue spalle.
A un certo punto nel corridoio in penombra compare una figura
maschile che sbarra loro il passaggio: Louise si riscuote e riconosce Jules.
Trattiene il fiato. Il giovane infermiere va con sicurezza verso le due
donne e si rivolge alla collega.
«Paulette, ti vogliono all’entrata dell’ospedale. Stanno continuando ad
arrivare invitati che non trovano la strada».
«Ma devo accompagnare la ragazza...».
«Lascia, faccio io. Vai».
L’infermiera ubbidisce di malavoglia. Jules prende il suo posto e spinge
il letto. Non si dicono una parola finché l’infermiera non è definitivamente
scomparsa. Poi Jules si piega in avanti verso Louise. Non fa in tempo ad
aprire bocca che lei lo anticipa.
«Speravo di non incontrarti».
«Davvero?».
«Non voglio più vederti. Sono brutta ormai».
Jules si ferma. Le rotelle smettono di cigolare. Fa il giro del letto e si
mette accanto a Louise. Lei distoglie lo sguardo dagli occhi azzurri che la
fissano.
«Non mi guardare».
«Per me sei sempre bella, Louise».
«Bugiardo. Le invalide non sono belle».
Sente le dita dell’uomo sfiorarle la nuca, poi la guancia.
«Louise, voglio che tu sia mia moglie. Non è cambiato niente».
Louise chiude gli occhi e si morde l’interno delle guance. Sperava in
quelle parole. Stringe la mano sinistra sulla mantiglia per non piangere.
Poi sente che le rotelle hanno ricominciato a girare. Apre gli occhi e nota
che il letto è voltato nell’altro senso. Alle sue spalle, Jules ha fatto
dietrofront e lo sta spingendo.
«Dove vai? La sala dell’Hospice è dall’altra parte».
«Voglio farti vedere una cosa».
 
In sala Théophile si fa strada tra le maschere. È stupefatto dal mondo
che lo circonda. Intorno a lui è tutta una processione di cilindri e
cappellini, trine e fronzoli, penne e fiori, baffi veri e baffi finti, stoffe a
quadri o stoffe a pois, pellicce e ventagli. I corpi ballano, si urtano, si
sfiorano, si fuggono. Vede volti ilari, dita che indicano le pazze, pazze che
gli sorridono e gli stringono la mano. Il brusio si mischia alle note di
violino e pianoforte, da ogni parte si sente ridere, battere le mani, pestare
sul parquet. È una folla variopinta e strana, sembra un carnevale popolare
a cui i borghesi siano intervenuti non tanto per condividere l’atmosfera
festosa quanto per ridere dei bifolchi mascherati. La festa non è la stessa
per tutti: da una parte ci sono donne in costume che eseguono con
precisione passi di danza imparati nelle ultime settimane, dall’altra
spettatori che applaudono, totalmente immersi nello spettacolo come
sassi nell’acqua.
Théophile scruta le facce alla ricerca della sorella. Gli sudano le tempie
e le mani. Mai avrebbe immaginato di ritrovarsi lì, al famoso ballo della
Salpêtrière, per far uscire Eugénie senza il permesso del padre né del
medico. Non sa se la sua impresa sia giusta e coraggiosa o stupida e
pericolosa.
Vestite di nero, alcune infermiere circolano tra la gente distribuendo
alle alienate bicchierini di sciroppo medicinale. Alcune si piegano agli
ordini, altre respingono il bicchiere con la mano rifiutandosi, almeno per
quella sera, di essere viste come malate. Sui divanetti ai piedi delle
finestre alcune vecchie dementi sembrano indifferenti all’agitazione
generale. Gli spettatori hanno un moto di ribrezzo quando vedono per la
prima volta quelle guance scavate e quegli sguardi stravolti: impassibili
come sono in mezzo al pittoresco ballo, sembrano quasi morte. Una
contessa circola tra gli invitati. Agitando un ventaglio che le fa svolazzare
i riccioli della frangetta parla del suo patrimonio a chi ha voglia di
ascoltarla, descrive il castello che possiede in Ardèche, si preoccupa che le
rubino la collana di diamanti. Più in là una zingara dai lineamenti marcati,
con la testa coperta da un foulard e la bocca truccata, propone ai presenti
di leggere loro la mano, poi si ferma, afferra alcuni palmi, predice un
futuro accompagnato dalle risatine nervose degli esaminati e riprende il
suo cammino. Una Maria Antonietta batte senza ritmo su un tamburo che
tiene appeso alla vita. Bambini magri e pallidi vestiti da Pierrot si
riempiono le mani di pasticcini e corrono tra gli invitati sorpresi di vedere
internati così giovani. Una strega col mantello che struscia per terra e il
cappello a punta troppo grande per lei spazza concentrata briciole e
polvere urtando senza rendersene conto quelli che trova sulla sua strada.
Arrivato all’altezza dell’orchestra Théophile si guarda intorno e si
blocca: più lontano, accanto a una finestra, anche Eugénie sta scrutando
ansiosa la folla. Ha i capelli raccolti in una lunga treccia che le cade sulla
schiena. È vestita da uomo. Come se percepisse che qualcuno la sta
osservando gira il volto smagrito e vede il fratello. Il cuore le balza nel
petto, le si chiude la gola. È venuto. È lì per lei. Era sicura dell’integrità di
Théophile. Sapeva che era l’unico della famiglia a non volere che fosse
internata, sapeva che aveva fatto soltanto quello che aveva imparato a
fare fino a quel momento: ubbidire alle ingiunzioni paterne senza
discutere. È ciò che rende la sua presenza sorprendente: Eugénie non
pensava che sarebbe stato così presto capace di opporsi all’uomo a cui
aveva ubbidito per tutta la vita.
Théophile guarda la sorella chiedendosi se agire, adesso che l’ha
trovata. Alla fine decide di andare da lei e fa un passo, ma una mano gli
trattiene il braccio. Si volta sorpreso: alla sua destra c’è Geneviève.
«Non ora. Non mi perda di vista, le dirò io quando».
Mentre si mischia di nuovo alla folla Eugénie, da lontano, gli fa un
cenno di testa per tranquillizzarlo. E per la prima volta da due settimane
sorride.
 
A parte la sala dell’Hospice, la Salpêtrière è immersa nel silenzio. Nelle
camere, nei corridoi, ai piani non c’è un mormorio, non risuonano passi. Si
sente solo un cigolio di rotelle sul pavimento. Dal letto che la trasporta nel
labirinto dell’ospedale Louise vede luoghi che non è abituata a
frequentare a quell’ora tarda. La luce dei lampioni esterni rischiara
debolmente i corridoi che attraversano. Lungo il percorso ombre
inquietanti si disegnano sui muri e sotto le volte. Louise si appoggia
meglio ai cuscini e chiude gli occhi. Pensa al rumore che di solito la
circonda: le voci femminili del dormitorio, il tintinnio delle stoviglie in
refettorio, il russare notturno. Perfino i lamenti e i pianti delle pazze sono
preferibili alla lugubre calma di quella sera. Tutto è meglio di quel
terribile silenzio: il rumore almeno è segno di vita.
Louise sente che il letto si ferma. Solleva le palpebre. Si trova davanti a
una porta. Jules fa il giro del letto per andare ad aprire la serratura. Dietro
la porta c’è una camera immersa nell’oscurità. Louise guarda Jules senza
capire.
«Perché mi porti là dentro?».
«È la stanza in cui ci vediamo di solito».
«E perché siamo venuti qui?».
Senza rispondere, Jules tira il letto all’interno. Louise scuote la testa.
«Non ci voglio entrare, è buio».
Nella camera è impossibile distinguere i mobili dalle pareti. Louise
sente la porta chiudersi alle sue spalle.
«Jules, voglio uscire da qui. Voglio andare al ballo, dove c’è gente».
«Shhh, zitta».
L’adolescente lo percepisce accanto a sé. L’uomo le accarezza i capelli,
poi le posa le labbra sul collo. La mano sinistra di Louise lo respinge
bruscamente.
«Jules... Puzzi d’alcol. Hai bevuto».
Louise lo sente di nuovo chinarsi su di lei, stavolta per baciarla. Lei
scuote la testa a destra e a sinistra, poi le labbra umide e alcoliche
dell’uomo forzano le sue. Con la mano sinistra tenta invano di liberarsi da
quell’insistenza, ma l’infermiere è ormai salito sul letto. Le lacrime
cominciano a scorrere sulle guance di Louise.
«Di solito non bevi. Mi hai detto che non bevevi».
«Solo stasera».
«Stasera dovevi farmi la proposta di matrimonio».
«E te la farò. Ma sei già un po’ mia moglie».
Ha l’alito caldo. Louise riconosce quell’odore. Le viene la nausea. Le è
bastato che una volta un bevitore si fosse avvicinato troppo per lasciarle
un ricordo indelebile e intollerabile. Non ha il tempo di calmare le lacrime
che di nuovo la bocca di Jules si incolla alla sua. Urla mentre sente il peso
dell’uomo steso su di lei. Nel buio riconosce le manovre che si stanno
svolgendo sul suo corpo. Credeva che quel ricordo appartenesse al
passato, che più il tempo trascorreva e più quel momento si facesse
lontano. Era perfino arrivata a pensare che fosse successo a un’altra, a una
Louise antica, una Louise di prima, una Louise ormai scomparsa dalla sua
vita.
Quando tra le cosce le penetra la stessa violenza di tre anni prima apre
la bocca per far uscire un grido muto. Di colpo tutto in lei si spegne. Non è
più soltanto la parte destra del corpo a non rispondere più, ma tutte le
membra. Dalle dita dei piedi alla testa riversa all’indietro, tutto si blocca.
Impietrita, chiude gli occhi e si lascia scivolare in un’oscurità più buia di
quella della camera.
 
Sul palco dell’orchestra un’alienata si è messa al posto del pianista:
mascherata da lattaia, osservava lo strumento fin dall’inizio del ballo. Poi,
siccome trovava che il pianista suonasse male, aveva deciso di prendere il
suo posto. Vedendo la pazza che saliva sul palco e gli si avvicinava l’uomo
era impallidito e le aveva subito ceduto lo sgabello senza protestare, come
se la donna fosse stata il diavolo, fra le risate dell’ilare pubblico.
Controllata da un’infermiera ai piedi del palcoscenico, la lattaia pesta sui
tasti bianchi e neri seguendo una melodia che solo lei sa e disturbando
quella che i musicisti stanno tentando di continuare a suonare.
Eugénie e Théophile non hanno lasciato le loro rispettive posizioni.
Vicino al palcoscenico, il giovanotto tiene d’occhio sia la sorella che
Geneviève. Eugénie, accanto a una finestra, ha a sua volta individuato la
soprintendente. La ragazza ha la nuca rigida, la paura le torce le budella
dalla notte scorsa, e quel giorno non è riuscita a mangiare niente. Non si
aspettava più nessun aiuto da parte di Geneviève. Come avrebbe mai
potuto immaginare che quella donna, dopo aver passato una vita a seguire
rigidamente le regole dell’ospedale, l’avrebbe fatta uscire nel giro di due
settimane? Eugénie si era già rassegnata. Aveva cominciato a lasciarsi
andare a un torpore profondo che minacciava di approfondirsi di più,
perché la speranza non è una risorsa inesauribile e a un certo punto deve
pur fondarsi su qualcosa. Poi, a mensa, Geneviève le aveva passato il
biglietto. Nella abituale confusione del dopo cena, mentre tutte
sparecchiavano, sistemavano, lavavano, strofinavano e spazzavano, la
soprintendente era andata da lei e le aveva messo qualcosa in mano con
gesto rapido, preciso e discreto. Geneviève non aveva detto niente, ma
Eugénie aveva notato qualcosa di diverso nel suo sguardo, una specie di
serietà fraterna. Quel foglietto piegato in quattro le aveva ridato
abbastanza coraggio da ricominciare a sperare e partecipare al ballo. Le
serviva una maschera. Il mucchio dei costumi si era assottigliato
parecchio, aveva dovuto accontentarsi di un normale vestito da uomo.
Dopo tutto era più facile sgattaiolare via in abito scuro che non con un
costume rosso da marchesa.
 
Dalla folla si eleva un grido. Sulla pista la gente si dispone a cerchio con
un «Oh!» di stupore. L’orchestra ha smesso di suonare, tranne la lattaia
che continua a strimpellare il pianoforte. A terra, una pazza stesa sulla
schiena struscia i piedi contro il parquet e si agita in preda al dolore,
scossa da contrazioni che non si capisce da cosa siano causate. Mentre
arrivano le infermiere, mormorii affascinati commentano la scena. Con
l’aiuto degli infermieri il corpo scosso della pazza viene trasportato su un
divanetto sotto gli occhi curiosi del pubblico.
Eugénie è la prima a notare il segnale di Geneviève: dall’altra parte della
sala, accanto alla porta, la soprintendente annuisce con discrezione e si
avvia a uscire. Théophile, distratto dall’inaspettata animazione, non si
accorge del cenno d’intesa, fino a che si sente afferrare il braccio da una
mano che lo trascina con sé.
«La porta d’ingresso».
La sorella non lo lascia più. Théophile si mette al passo con lei e insieme
fendono la folla, tutta presa da quel primo attacco isterico della serata.
Stesa sotto una finestra, l’alienata continua a gridare con voce roca.
Senza starci a pensare, un infermiere le preme la pancia con indice e
medio, all’altezza delle ovaie. Poco a poco le grida diminuiscono, la donna
rilassa i muscoli e la festa riprende.
Gli invitati esclamano, arrossiscono, applaudono, si distendono, e
mentre l’orchestra attacca un altro valzer di buona lena Eugénie e
Théophile passano la porta oscillante senza voltarsi indietro.
Le tre sagome costeggiano il muro del cortile d’onore correndo
praticamente al buio. I lampioni del viale principale, più lontano, non
arrivano a illuminare il percorso che hanno scelto lungo il muretto.
Geneviève apre la fila. Sente alle sue spalle il respiro di Eugénie e di
Théophile. Se si fermasse a riflettere non sarebbe in grado di dire perché
sta compiendo quel gesto insensato. Da quando ha preso la decisione, tre
giorni prima, non ha più cambiato idea. Sa soltanto che pensa alla sorella.
Pensava a Blandine mentre andava a casa dei Cléry, pensava a Blandine al
ballo, aspettando il momento propizio per andarsene, e pensa a Blandine
mentre stanno fuggendo. È un pensiero che la rassicura, addirittura la
sprona. Non sa se davvero Blandine la stia seguendo in quella decisione, se
in quel momento veda Geneviève correre nel viale freddo e buio o se si
tratti del pensiero più strampalato che abbia mai avuto. Preferisce credere
che Blandine ci sia, che la accompagni, che vegli su di lei. Credere significa
già aiutarsi.
Il terzetto arriva finalmente al muro di cinta. Di fronte a loro c’è una
porticina di legno. Geneviève, ansimante, prende un mazzo di chiavi.
«Andatevene più presto che potete, ma con la massima discrezione.
Questo posto ha occhi dappertutto».
Una mano le stringe il braccio. Geneviève alza gli occhi su Eugénie.
«Signora... Come potrò mai ringraziarla?».
Fino a quel momento Geneviève non si era accorta che Eugénie fosse
alta quanto lei. Neanche aveva notato la macchiolina scura nell’iride,
come uno straripamento della pupilla, e le sopracciglia folte e
determinate. Lì sulla porticina la ragazza le appare com’è, come è sempre
stata. Ma l’ospedale cambia le apparenze, e Geneviève vorrebbe scusarsi
per non aver capito prima chi fosse davvero Eugénie.
Invece si limita a rispondere alla domanda.
«Aiutando quelli intorno a te».
Delle grida in lontananza li fanno sussultare. Si voltano. Lo spazio è
dominato dalla mole della chiesa. Dal fondo del viale alcune persone
stanno correndo verso di loro, tra le quali l’infermiera che aveva visto
Geneviève dare il biglietto a Eugénie.
«È là! Ve l’avevo detto!».
Accanto a lei tre figure bianche, tre infermieri, accelerano l’andatura.
Geneviève cerca freneticamente la chiave giusta.
«Presto!».
Finalmente la trova, la infila nella serratura e apre la porta. Dall’altra
parte c’è la strada con i lampioni, i fiacre e gli edifici.
«Andate, adesso».
Eugénie dà un’occhiata agli infermieri che si avvicinano e guarda
Geneviève preoccupata.
«E lei?».
«Vai, Eugénie!».
Eugénie nota che la soprintendente si è irrigidita e ha contratto la
mascella. Le prende la mano.
«Venga con noi».
«Te ne vuoi andare o no?».
«Signora, se resta qui, loro...».
«Sono affari miei».
Eugénie non si sarebbe mossa se il fratello non le avesse preso il braccio
di forza.
«Vieni!».
Théophile abbassa la testa sotto l’architrave della porta e trascina la
sorella all’esterno. Passata dall’altra parte, Eugénie si volta a guardare
Geneviève, ma l’altra ha già richiuso a chiave.
Fa appena in tempo a rimettersi in tasca il mazzo che robuste mani
maschili la afferrano. Alle sue spalle sente gli strilli dell’infermiera.
«Ha aiutato una pazza a scappare! È pazza pure lei!».
Geneviève lascia che le mani la trattengano saldamente. Non oppone
resistenza. Addirittura si rilassa, prova sollievo.
«Riportiamola dentro».
Mentre camminano verso l’ospedale alza gli occhi al cielo: le nuvole se
ne sono andate. Al di sopra della cupola della chiesa, sul velo blu notte del
firmamento, appaiono le stelle. Geneviève sorride. L’infermiera, che non
la perde di vista, aggrotta le sopracciglia con aria arcigna.
«Che hai da sorridere?».
L’alienata la guarda.
«Sa, l’esistenza è affascinante».
EPILOGO
1° marzo 1890

L
a neve cade sul parco. Una coltre bianca e morbida riposa sui prati e sui
tetti. I rami degli alberi spogli sostengono i mucchietti che si sono formati
sulla corteccia. I viali dell’ospedale sono deserti.
Nel dormitorio le donne stanno a gruppi intorno alle stufe a carbone. È
un pomeriggio calmo. Alcune dormono, altre giocano a carte accanto a
una fonte di calore, altre ancora vagano tra i letti parlando da sole o
rivolgendosi a infermiere che non le ascoltano. In un angolo, in disparte,
molte alienate sono intorno a un letto al centro del quale Louise, seduta a
gambe incrociate, sta lavorando a maglia uno scialle circondata da
gomitoli di lana. Accanto a lei le donne fanno a gomitate per essere le
destinatarie del prossimo scialle.
«Smettetela di litigare, ne farò per tutte».
I capelli sciolti le formano una cascata nera e folta sulle spalle. Ha
addosso un ampio vestito nero, e intorno al collo il foulard che portava di
solito Thérèse. Le sue dita maneggiano i ferri con destrezza. Dal momento
in cui li ha avuti tra le mani le è venuto naturale utilizzarli, come se a
forza di guardare Thérèse lavorare a maglia la sua maestria le fosse
penetrata nelle dita. Sferruzza senza pensare ad altro che ai fili di lana che
si avvolgono, si annodano e si intrecciano fra loro.
 
Cinque anni prima, Louise era stata ritrovata la mattina dopo il ballo. La
serata era in pieno svolgimento quando un’eco di panico aveva
serpeggiato nella sala dell’Hospice: non solo non si vedeva Louise da
nessuna parte, ma correva voce che Geneviève avesse aiutato una pazza a
scappare! Il ballo era stato interrotto, le alienate erano state riportate nel
dormitorio e gli invitati riaccompagnati all’uscita.
All’alba un’infermiera aveva aperto per caso la porta di una camera.
Louise, sul letto, si trovava nella stessa posizione della sera prima: con la
testa reclinata all’indietro, gli occhi aperti e immobili, le gambe nude e
divaricate. Era rimasta in catalessi profonda per tutto il giorno, nessuno
era riuscito a farla uscire da quello stato. La sera un medico che stava
attraversando il parco l’aveva scoperta a camminare nei viali senza una
direzione precisa. Tutte le sue membra funzionavano di nuovo, anche se
qualcosa a livello mentale sembrava essersi guastato. Era stata riportata a
letto e non ne era più scesa. Per due anni avevano dovuto nutrirla,
cambiarle la scodella e lavarla nelle lenzuola. Aveva smesso di parlare.
Neanche Thérèse, che ogni giorno le accarezzava la mano e le si rivolgeva
come se niente fosse, aveva più sentito il suono della sua voce. Thérèse se
n’era andata nel sonno, senza rumore. La mattina, tutte le donne del
dormitorio si erano raccolte intorno al corpo rigido della decana.
All’improvviso anche Louise si era alzata e aveva cominciato a dare ordini
per il funerale e la sepoltura. La vedevano parlare e gesticolare con un
certo stupore. Dopo che per due anni non aveva messo piede a terra né
pronunciato una parola, in un attimo aveva recuperato movimento ed
eloquio come per magia. All’indomani della morte di Thérèse aveva preso
il suo materiale per lavorare a maglia e continuato la sua attività. Da tre
anni era Louise quella a cui le altre andavano a elemosinare uno scialle.
Lei sferruzzava e distribuiva le proprie creazioni frutto di un lavoro svolto
con la massima serietà. Non aveva più l’espressione infantile sulla faccia.
Certe volte, se qualcosa la contrariava, si coglieva nel suo sguardo
qualcosa di spietato. Nessuno la compiangeva più come prima: ormai la
temevano.
 
In disparte dalle altre, Geneviève sta scrivendo una lettera sul letto. I
capelli biondi e mossi le ricadono sulle spalle coperte da un ampio scialle
blu, l’ultimo fabbricato da Louise per l’inverno. È china sul foglio,
indifferente agli sguardi delle alienate che le gravitano intorno cercando
di vedere cosa scriva. Si sono abituate a non vederla più vestita da
infermiera, ma in vestaglia come le altre. Nelle prime settimane gli
sguardi si soffermavano sulla sua improbabile presenza nel dormitorio,
ma non era più la stessa donna, qualcosa in lei sembrava essersi addolcito,
rasserenato. Da quando era una pazza tra le pazze sembrava finalmente
normale.
Accovacciata al di sopra del foglio, intinge la penna in un piccolo
calamaio posato sul letto e scrive.
 
Parigi, 1° marzo 1890
 
Mia cara sorella,
Fuori è tutto bianco. Non possiamo uscire né toccare la neve. L’aria è gelida.
Non sai quanto ci faccia piacere la minestra calda quand’è l’ora di cena.
Stanotte ti ho sognato. Ti vedevo benissimo: la pelle morbida, i capelli rossi, la
bocca pallida. Era come se fossi davanti a me. Mi osservavi senza dire niente, ma ti
sentivo parlare. Vorrei che venissi a trovarmi più spesso. Quando ti vedo sono
felice. In quel momento so che sei davvero con me.
Qualche giorno fa ho ricevuto un’altra lettera di Eugénie. Scrive sempre per la
Revue Spirite. Vorrebbe mandarmene una copia, ma sa che me la toglierebbero.
A Parigi il suo dono è conosciuto solo da una ristretta cerchia di interessati. È
prudente, attenta a circondarsi di persone che non la prendono per un’eretica. Se
sapessero.
Quelli che l’hanno giudicata, quelli che hanno giudicato me... Il loro giudizio
risiede nelle proprie convinzioni. La fede incrollabile in un’idea porta al
pregiudizio. Ti ho già detto quanto mi sento serena da quando ho dei dubbi?
Proprio così, non bisogna avere convinzioni, bisogna poter dubitare di tutto, delle
cose e di se stessi. Dubitare. Mi sembra chiarissimo da quando sono dall’altra
parte, da quando dormo in quei letti che prima mi facevano orrore. Non mi sento
vicina alle donne che stanno qui, ma ormai le vedo come sono.
Continuo ad andare in chiesa. Non a messa, è chiaro. Ci vado da sola, quando le
cappelle sono vuote. Non prego. Non sono ancora sicura di aver trovato Dio. Ignoro
se un giorno succederà. Intanto ho trovato te, ed è la cosa che mi importa di più.
Non so se andrò via di qui presto o non ne uscirò mai. Dubito che la libertà sia là
fuori. Ho trascorso fuori da queste mura la maggior parte della mia vita, e non mi
sono sentita libera. Non credo che sia questo l’obiettivo a cui aspirare.
Aspettare di essere liberata è un sentimento vano e insopportabile.
Le altre mi stanno girando intorno per cercare di leggere qualcosa. Smetto di
scrivere.
Ti penso. Torna a trovarmi presto, sai dove sono.
Un bacio con tutto il cuore,
Geneviève
 
Geneviève solleva la testa verso le pazze che sbirciano sul suo letto.
«Ho finito. Non c’è niente da leggere».
«Che noia!».
Le donne si disperdono. Geneviève scende dal letto e si accovaccia: sul
pavimento, tra le quattro gambe di metallo, c’è una valigetta chiusa a
chiave. Afferra il manico e la tira a sé. All’interno si trovano un centinaio
di lettere ordinatamente in fila l’una contro l’altra. Mette penna e
calamaio da una parte, piega la lettera che ha appena scritto e la inserisce
a un’estremità della fila. Poi chiude la valigetta, la spinge sotto le stecche
grigie del letto e si raddrizza. Si aggiusta lo scialle sul petto e va verso la
finestra sotto lo sguardo attento delle infermiere. Fuori, il tappeto bianco
sul selciato continua ad aumentare. Immobile alla finestra, Geneviève
ripensa al giardino del Lussemburgo d’inverno, l’aspetto perfetto dei suoi
viali immacolati, la tranquillità fredda, le orme nella neve fresca.
È talmente bello che si vorrebbe farlo durare per sempre.
Si sente tamburellare sulla spalla. Alla sua destra, Louise la sta
guardando. Geneviève sembra sorpresa.
«Hai smesso di lavorare?».
«Mi hanno stancato a forza di girarmi intorno. Le faccio aspettare un
po’». La ragazza incrocia le braccia sul petto e contempla il parco
imbiancato. Fa un’alzata di spalle. «Prima lo trovavo bello. Adesso non mi
fa nessun effetto».
«C’è ancora qualcosa che trovi bello?».
Louise abbassa la testa e ci pensa. Con la suola della scarpa sfiora una
fessura sul pavimento.
«Non lo so. Forse... quando penso a mia madre. Lei, ricordo che la
trovavo bella. Nient’altro».
«Questo basta».
«Sì, questo mi basta».
Louise osserva Geneviève immobile alla finestra con le mani un po’
rugose posate sullo scialle.
«Non le manca il fuori, signora Geneviève?».
«Credo... credo di non essere mai stata fuori. Sono sempre stata qui».
Louise annuisce. Le due donne rimangono in piedi, fianco a fianco, di
fronte al parco che continua a ricoprirsi di bianco.
NOTA SULL’AUTRICE

Victoria Mas ha lavorato nel mondo del cinema. Il ballo delle


pazze è il suo primo romanzo.
 

Cara lettrice, caro lettore,


ti ringraziamo per aver comprato questo libro in un punto vendita
autorizzato (e non da un rivenditore che ha violato la legge del libro
vendendo con uno sconto superiore a quello consentito per legge o si è
rifornito presso un circuito di distribuzione illegale).
Apprezziamo il tuo gesto perché è un atto concreto contro la pirateria che
danneggia pesantemente il sistema editoriale italiano. Secondo i dati
presentati al convegno dell’Associazione Italiana Editori il 22 gennaio
2020, la pirateria di libri fisici ed elettronici, ovvero il download illegale di
testi in formato digitale, le fotocopie illegali, la contraffazione vera e
propria di libri fisici presso tipografie non autorizzate, causa un danno
economico pari a un quarto del fatturato di libri nel nostro paese, mancate
entrate nell’erario per 216 milioni di euro, una perdita di 8.800 posti di
lavoro considerando anche l’indotto.
Ciò che noi possiamo assicurare è che il prezzo che hai pagato per questo
libro va interamente a remunerare tutte le persone che hanno contribuito
a pubblicarlo e a distribuirlo (l’autore, l’editore, il traduttore, il redattore,
il grafico, il tipografo, il dipendente della casa editrice, il distributore, il
promotore, il libraio, ecc.). Tutte persone che svolgono il loro lavoro con
onestà e impegno e che vengono letteralmente derubate a ogni atto di
pirateria.
Il prezzo che hai pagato per questo libro serve a mantenere in piedi un
sistema editoriale ampio e articolato, in cui i successi editoriali affiancano
le migliaia di nuovi libri pubblicati ogni anno senza lo stesso successo ma
che sono parimenti indispensabili per un sistema di bibliodiversità
fondato sulla ricerca e sul pluralismo delle voci.
Gli editori

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