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L’autore

Di Claudio Magris sono presenti nel catalogo Garzanti Dietro le


parole, Itaca e oltre, Illazioni su una sciabola, Danubio, Stadelmann,
Un altro mare, Microcosmi, Utopia e disincanto, La mostra, Alla
cieca, La storia non è finita, Lei dunque capirà, Alfabeti, Teatro,
Livelli di guardia, Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio
Marin e Non luogo a procedere.
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In copertina: © Trevor Payne / Trevillion Images


Progetto grafico: zevilhéritier

© Claudio Magris, 2019


All rights reserved

ISBN 978-88-11-60893-6

© 2019, Garzanti S.r.l., Milano


Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: aprile 2019


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche
parziale, non autorizzata.
TEMPO CURVO A KREMS
IL CUSTODE
Scese dall’autobus, tenendosi al corrimano finché il piede ebbe
toccato, con qualche esitazione, l’asfalto. Indugiò un attimo a
stringere il lucido metallo, ritraendosi appena in tempo prima che la
porta si richiudesse. Era gradevole toccarlo, così freddo, non ancora
scaldato da tante palme umide e sudate. Per questo, per sentire
qualche secondo di più quell’algido contatto, era sceso lentamente
dall’autobus, non perché avesse difficoltà. Si guardò intorno
sospettoso. Sempre quella stupida idea, che il figlio o la nuora
potessero averlo seguito. Oltretutto, a quell’ora erano occupati. E poi
magari lo sapevano già. Comunque gli fece piacere non vedere
nessuna faccia nota. La via correva diritta verso il mare. Il chiarore là
in fondo era livido; strinse le palpebre, come Mitzi Matzi quando gli si
acciambellava sulle ginocchia, nella poltrona dello studio, e alzava il
muso verso la lampada sul tavolo.
Non gli piacevano le vie perpendicolari al mare, che sboccavano
nella sua grande luce; preferiva, nella geometria della città, quelle
parallele alle rive, protette dalle alte case fra le quali c’era più ombra
e la sera calava più presto. Tutta la città, fin da quando l’aveva vista
la prima volta affacciandosi sul ciglione del Carso, gli sembrava
troppo protesa sulla grande distesa dell’acqua. Dovevano averlo
capito anche i triestini, se avevano costruito quel reticolo di vie
rettilinee, una grata che proteggeva dal golfo e dalla sua vastità;
molti di loro erano del resto arrivati dal cuore del continente, come lui
dalla Moravia, anche se tanto tempo prima.
Quando si trovava di fronte al mare, gli veniva un sorriso
imbarazzato che gli alzava impercettibilmente il labbro superiore e
scopriva un po’ troppo i denti, come Roll, il bulldog che aveva avuto
per tanti anni e al quale, secondo i suoi nipoti, aveva finito per
assomigliare. Il mare, in fondo a quelle vie, gli pareva sempre più
grande; qualche volta gli sembrava di vederlo salire, sommergere i
marciapiedi, crescere e rumoreggiare, un fragore che veniva da
lontano, da un buio solcato da enormi onde bianche.
Talora, per gioco, prima di uscire programmava mentalmente il
suo percorso in modo da evitare il più possibile la vista di quel blu
senza fine; immaginava un piano d’attacco su una scacchiera, girare
l’angolo al momento giusto, scartare di fianco, fare la mossa del
cavallo. I piani d’attacco, lo sapeva bene sin da quando aveva diretto
la sua prima azienda, erano quasi sempre una strategia di ritirata,
operazioni audaci per garantirsi un più ampio margine di possibilità
difensive. Tutta la vecchiaia, del resto, era un avanzare per
indietreggiare: ci si inoltrava in un territorio sconosciuto per sottrarsi
alla realtà che premeva da tutte le parti, spigolosa e invadente.
Anche i profitti delle sue società, sempre più ingenti nel corso degli
anni, erano stati un argine contro la difficoltà delle cose, fin dai soldi
che aveva guadagnato quando era venuto a Trieste da Hannsdorf
– sì, d’accordo, Hanušovice, anche Hanušovice – viaggiando con
mezzi di fortuna, qualche tratto anche a piedi, e lavorando qua e là
per mangiare e dormire. Poi, a Trieste, una fortuna abbastanza
rapida, un buon fiuto per la Borsa e un istintivo equilibrio fra audacia
e prudenza, la presidenza di due o tre società e l’ovvio matrimonio
con gli annessi figli e nipoti. Il mondo continuava a fluire generoso
verso di lui e non certo a mani vuote, ma poco a poco egli aveva
cominciato a sentire il desiderio di arginarlo, di deviare se possibile
quel fiume e di erigere qualche barricata contro la vita che avanzava.
Vendere l’una o l’altra delle sue aziende, cospicue anche se ancora
maneggevoli, era mollare l’ormeggio e lasciar partire la barca, ma
senza salirvi. Il palazzetto della società di spedizioni, che fino ad
alcuni mesi prima era stata sua, era anch’esso una rassicurante
barricata.
«Lei può comandare a me, ma non agli impiegati e neanche alle
donne delle pulizie», gli aveva detto il dottor Dürrer, guardandolo
acre dietro i suoi occhiali, che scintillavano piccoli e maligni. Da
quando era avvenuto il passaggio di proprietà alla società svizzera, il
dottor Dürrer, nuovo amministratore delegato, si preoccupava di
ricordargli, vedendolo arrivare ancora spesso in ufficio, che lui ormai
era solo presidente onorario e come tale poteva disporre della
poltrona e dei giornali, ma non del personale. «Dica a me, che sarò
lieto di compiacerLa, ma per favore non chieda niente ai nostri
dipendenti. Io resto volentieri ai Suoi ordini…» E il dottor Dürrer
sorrideva con aria d’intesa, fiero di avere risolto con una battuta una
possibile ingombrante ingerenza.
Il sole era già abbastanza alto, le strade cominciavano ad
animarsi. Nel frullare dei colombi si udiva pure lo stridere di qualche
gabbiano; alzò la testa e per un attimo il suo sguardo incontrò quello
cattivo dell’uccello. C’erano sempre più gabbiani in città, si alzavano
a volo dagli scogli della riva e si spingevano fra le case, nelle strade,
nei giardini, a frugare nella spazzatura. Che idiota, quel Dürrer.
Convinto che lui andasse ancora in ufficio per il desiderio di dare
ordini. Aveva continuato ad andarci solo per abitudine, perché ci era
andato per tanti anni, come aveva rinnovato l’abbonamento al Teatro
Verdi senza che fosse diminuita la sua indifferenza per le opere, che
gli sembravano tutte quasi uguali. Non aveva mai neppure creduto
che lavarsi i denti servisse a qualcosa, tant’è vero che i dentisti
continuavano a guadagnare un sacco di soldi nonostante il vasto
consumo di dentifrici, ma se li era sempre lavati.
Certe cose semplicemente non si discutevano; se si smetteva di
lavarsi i denti o di andare a teatro, tutta la società poteva andare a
rotoli. E lui stava bene, in quella società. Non l’amava, questo
proprio no, ma la rispettava, bene organizzata com’era, con le
cedole i titoli i dividendi i matrimoni i teatri e gli spazzolini da denti.
Tutto serviva, tutto aiutava a tenere lontane le cose. Il mare, per
esempio, era subito dietro la Borsa, dall’altra parte, grande e con le
sue onde bianche, ma sotto le colonne e il frontone neoclassico della
Borsa non lo si vedeva e non lo si sentiva, e tutto era a posto. Era
bene ripetere le cose. Per questo Chiara, sua nuora, sbagliava con
quella sua mania di cambiare continuamente le tende o i lampadari;
si cominciava così ma non si sapeva dove si andava a finire.
Lei può comandare a me. Idiota d’uno svizzero. Da quel giorno
non aveva più messo piede nel suo vecchio ufficio e non gli aveva
neanche detto niente, tanto quello là non avrebbe capito. Se c’era
una cosa che aveva sempre detestato, era dare ordini. Era così
felice quando, durante il viaggio da Hannsdorf a Trieste, senza
passare alcuna frontiera perché c’era ancora l’impero absburgico ed
era inimmaginabile che un giorno potesse non esserci, si fermava la
sera in qualche Bauernhof moravo, chiedeva se c’era qualcosa da
fare e gli dicevano di tagliare un po’ di legna o di raccogliere le foglie
secche. Gli davano una sega o un’accetta, si toglieva la giacca e si
metteva al lavoro. Il legno cadeva per terra con bei tonfi sordi, i
trucioli schizzavano qua e là, c’era un buon odore e anche se era
inverno, e lui era in maniche di camicia, non sentiva freddo. Poi gli
davano due soldi e se ne andava, il mondo era bello e grande.
Quando passava la notte in un fienile, si addormentava subito. Gli
era sempre piaciuto dormire, la vita era così onesta a sparire per un
terzo; un’ora di beato niente, per ogni due ore di fatiche e malintesi,
non era un cattivo contratto. Il mattino, in viaggio, si alzava
prestissimo; per qualche tempo il buio prolungava quel niente felice.
Usciva, l’erba era gelata; ancora sulla soglia beveva un uovo fresco,
poi si metteva il sacco in spalla e via. Gli venivano in mente le
canzoni degli arrotini e dei calzolai di Moravia. Canzoni tedesche; i
tedeschi sapevano obbedire e cantare, che era la stessa cosa, dire
di sì.
Più tardi era stato difficile non comandare, quando aveva
acquistato e poi ingrandito la ditta di ferramenta, la società di
costruzioni o quella di spedizioni, aperto filiali e nominato capiufficio
e direttori, investito sempre più danaro in iniziative sempre più vaste.
Ma anche lì, con qualche piccola astuzia, ce l’aveva fatta. All’inizio si
era semplicemente consultato un po’ in giro, quali titoli comprare o
vendere, quali speculazioni arrischiare. Ascoltava i pareri degli altri,
gente che da tempo bazzicava quel mondo, li rigirava, sinché gli altri
finivano per credere che fosse lui ad avere quelle idee, a elaborare
quelle previsioni che anticipavano certe mosse del mercato, con
soddisfazione di quei pochi che le avevano presagite. La stessa
cosa, su scala più grande, era accaduta poi con gli amministratori e i
consiglieri delle sue società. Era bastata un po’ di abilità e
soprattutto un tono sbrigativo e autorevole affinché non si
accorgessero di essere loro, molte volte, a suggerirgli quelle
decisioni e quelle misure che alla fine egli imponeva secco e
imperioso. E loro non se ne erano accorti, tutti pieni di rispetto e di
riguardo – quasi d’apprensione, a giudicare dalle facce tese – ad
aspettare che lui prendesse le decisioni senza ammettere ulteriori
repliche. Comandare, anche seccamente, era forse l’unico modo per
tenere a distanza la muta feroce che ti bracca da tutte le parti –
attacchi espliciti o velati, richieste d’ogni genere, anche benevole;
una folla che chiede, che invita, che scrive, telefona, offre e
pretende. Richieste di aiuto, lodi e proteste, obblighi di andare a una
cena o a una mostra, proposte e progetti, compleanni, anniversari,
funerali, matrimoni, feste cui non si può mancare, iniziative illuminate
da sostenere… e tutto per impedire a uno di andare un po’ a spasso
per le strade, di sedersi su una panchina. Comandare era un modo
di tagliar corto e di tagliare la corda, congedare le truppe e starsene
in pace. Anche così comandare, di per sé, non era piacevole, ma
non era male aver imparato assai presto quell’arte di difendersi.
Una regola, se valida, valeva sempre. La vita non conosceva
eccezioni, le sue leggi erano eguali per tutti, come quella di gravità.
Anche col matrimonio era andata così. A casa era stata sempre
Anna a decidere tutto e lui era stato felice. Anna era bella, con i suoi
occhi neri e le sue spalle d’estate così brune, e quando si voltava
verso di lui, alzando la bocca per un bacio, non c’era da discutere.
Lui aveva sempre detto di sì, a tavola come a letto; anche certi
giochi li aveva inventati e imposti lei ma non se n’era accorta, devota
com’era, e aveva continuato a tiranneggiarlo e a stabilire, dispotica e
ignara, i traslochi, le villeggiature, i pasti, la scuola dei figli, sempre
convinta di assecondare la sua volontà. Da molto tempo Anna non
c’era più e da allora tutto era diventato opaco; si ricordava benissimo
dell’amore, anche di piccoli dettagli, ma come qualcosa di
impersonale, che poteva egualmente essere accaduto a un altro. Ma
com’era stato dolce arrivare la sera a casa, da un’assemblea di
azionisti o da un consiglio d’amministrazione, talora da una piazza
vicina talora da qualche grande città lontana, e fare finalmente quello
che gli si diceva, dopo aver lottato e anche sbraitato tutto il giorno
per imporre agli altri quello che dovevano decidere e fare,
persuaderli non solo che era una buona scelta, l’unica, ma pure che
erano già d’accordo. Talvolta, se proprio era necessario, batteva con
forza la mano sul tavolo, ma accadeva raramente. Si stupiva egli
stesso di quel crescente imbarazzo che provava dando secchi ordini
e si stupiva ancora di più che gli altri, ascoltando le sue disposizioni,
non se ne accorgessero.
Invece a casa… non dipendeva da lui cambiarsi o no d’abito,
sedersi a tavola, essere d’accordo con l’idea di invitare a cena la
settimana dopo i Benazzi e i Segelmeier. Aveva anche imparato ad
accettare passivamente, senza reagire, gli scatti talora aggressivi e
immotivati di Anna, frecciate improvvise – tacàde, in dialetto triestino
– che nascevano da imprevedibili sbalzi di umore, da chissà quali
risentimenti. Non li amava, quegli sfoghi. Le paturnie e i malesseri
erano insignificanti stati d’animo, acidi reflussi dell’anima da
soffocare per buona educazione. E quella feroce smania di sentirsi
incompresa, si vedeva quanto la gratificava la soddisfazione di
subire veri o presunti torti… Ma non se la prendeva, metteva fra sé e
quegli sfoghi una coltre cedevole e impenetrabile.
Anna – sì, poteva dire che l’aveva amata, anche se non gli era
ben chiaro cosa questo significasse. Quando pensava a lei non
avrebbe saputo spiegare se il cuore gli si stringeva o gli si allargava
– nel ricordo talora la desiderava, i suoi piedi che amava baciare, i
capelli che le cadevano dalle spalle e fluttuavano davanti ai suoi
occhi quando lei era sopra di lui, come le piaceva fare. Eppure non
avrebbe potuto dire che ne sentiva la mancanza. Un altro, anche la
persona più amata, è spesso di troppo, complica le cose.
Ma quella casa, quella terrazza dove si metteva a fumare, erano
opera sua, di Anna, ed era così dolce, dopo tanto navigare,
mangiare il fiore di loto distesi sulla riva; mormorio di un mare che si
acquietava, si smorzava e scivolava verso l’imminente sonno. Sonno
breve, il riposo del guerriero che poco dopo, nel suo ufficio, sarebbe
tornato a comandare, a piegare le difficoltà o a rovesciarle come un
guanto trasformandole in virate che lo avrebbero portato, quasi
sempre, a vincere.
No, quelle pur educate ma talora aspre e spesso fasulle risse nei
consigli d’amministrazione non erano state piacevoli. Adesso invece,
seduto nella sua guardiola, ritrovava la pace di quei pranzi a casa, di
quella breve pausa che riscaldava la giornata intera. Dallo spiraglio
salutava gli inquilini che entravano e uscivano passando davanti alla
portineria; prendeva il giornale e il suo sguardo scorreva fra le righe
come fra onde mosse da un lieve soffio di vento; le notizie gli erano
in fondo indifferenti, sparivano, inghiottite fra un’onda e un’altra.
Metteva via il giornale, socchiudeva gli occhi, specie quando il sole
entrava abbagliante dalla finestra che non si curava di velare con la
tendina. Le cose si rincorrevano, cambiavano colore, si sperdevano,
tornavano sotto le sue palpebre, volti ben noti che subito erano altri
e non avrebbe saputo dire quali. Cercava di trattenerli ma erano già
svaniti, come le ore pigre e inesorabili. E si sentiva sempre più
spesso sulle labbra quel sorriso che mostrava i denti, era quasi un
tic.
Svoltò l’angolo della vecchia via teresiana, ormai era vicino. Un
cane alzava la gamba contro il muro, il filo del liquido scendeva
serpentino e svaniva fra le pietre, il colore giallastro gli piaceva.
Dopo la morte di Anna, aveva dovuto fare i conti con ordini e divieti
più espliciti. Chiara, per esempio, non voleva che Mitzi Matzi
montasse sulle poltrone, perché le graffiava e lasciava peli
dappertutto; aggirare quella prescrizione aveva richiesto una tattica
complessa, elaborata cautamente e a lungo, alla fine coronata da
successo ma sempre bisognosa di vigilanza. In famiglia lo amavano
e anche lui li amava. Il bacio di Chiara sulla sua guancia gli ricordava
certe mattine fra i boschi moravi, col sole puro appena sorto e il
vento leggero sul viso. Marco, suo figlio, restava volentieri a
discutere con lui; anche Paola, la figlia che viveva a Zurigo, gli
telefonava e scriveva spesso; i due nipoti gli chiedevano tante cose.
Lui era contento, anche se avrebbe preferito ascoltare piuttosto
che parlare; quando gli domandavano della Moravia di prima della
Grande Guerra, gli pareva di avere tante cose da dire, ma poi gli
morivano in bocca e allora faceva finta di aver perso il filo, alla sua
età ne aveva il diritto, così lo lasciavano in pace. Amava i nipoti, ma
Hannsdorf, con la sua segheria odorosa di legno e di resina, e il
burčák, il vino nuovo appena vendemmiato, era tanto più vicina.
Comunque la casa era grande; si poteva essere soli e lasciare soli
gli altri, il figlio, la nuora, i nipoti, senza essere di peso.
Anche loro lo lasciavano in pace, non lo circondavano di quelle
premurose limitazioni che facevano di quasi ogni vecchio un
prigioniero. Nessuno gli aveva mai chiesto perché, da qualche
tempo, uscisse così presto e restasse fuori così a lungo. Forse
avevano pensato che molti vecchi erano mattinieri. Nemmeno
quando non rientrava per il pranzo – anche se avrebbe potuto farlo,
c’erano pure due ore di intervallo, i sindacati avevano fatto progressi
– e telefonava borbottando di qualche impegno o invito, non
facevano storie. Certo, forse sapevano tutto, era possibile, probabile,
e facevano finta di niente. Meglio così. Avrebbe anzi dovuto
appurare se l’avevano scoperto, per regolarsi in modo conveniente.
Cercò di pensare a come saggiare, senza compromettersi, se e di
cosa erano al corrente. Se avesse capito che avevano scoperto tutto
e deciso di lasciare correre, ne avrebbe approfittato per restare fuori
anche la notte, tranne il sabato e la domenica, per non esagerare.
Lo stanzino nella guardiola era piccolo, ma più che sufficiente.
Doveva essere bellissimo svegliarsi lì dentro, solo, con gli inquilini
ancora addormentati nei loro appartamenti e il portone ancora
chiuso, e sentire dalla strada i primi rumori del mattino, che a casa
non potevano salire fino a lui, nella sua camera al quarto piano che
dava su un cortile interno, quasi sempre vuoto. Appena uscito dalla
guardiola e dal portone c’era invece il vago vocìo della strada, i saluti
quando la gente si sedeva al bar a prendere il caffè – buongiorno,
diomio che caldo già a quest’ora, Piero, uno spritz. Tutto si muoveva,
certo, non solo le automobili subito svanite o le nuvole – lui le amava
soprattutto la sera, rosse bandiere stracciate dal vento – ma quello
che contava era che, nella guardiola o al Caffè, sembrava di stare
fermi. Finché a muoversi, a viaggiare verso chissà dove, nel mondo
e nell’universo, erano gli altri, le cose, la scia di un aeroplano che si
sfilacciava nel cielo alto, tutto era a posto.
Affrettò il passo, perché era quasi in ritardo e gli inquilini
avrebbero giustamente protestato se la portineria e il portone non
fossero stati aperti secondo l’orario. Ma ormai era arrivato, e in
tempo. L’edificio a cinque piani, sgraziato e scialbo, doveva essere
degli anni Quaranta. Quando lo aveva comprato, non si occupava
già più personalmente della sua società immobiliare.
L’amministratore del grande condominio si chiamava Repetti. Cercò
invano di mettere a fuoco la sua faccia, non si ricordava se l’avesse
mai incontrato, probabilmente no.
Aprì il portone, rimise la chiave in tasca, ne tirò fuori un’altra e aprì
la guardiola. «Buongiorno ingegnere», disse all’uomo che usciva e
che gli rispose distrattamente. Fra poco sarebbe scesa la signora
Weber con i suoi due cani; bisognava stare attenti che non li
lasciasse correre sulle scale e fare i bisogni sul pianerottolo, se no
gli altri se la sarebbero presa di nuovo con lui. Era proprio
maleducata e si degnava a stento di rispondere a un portinaio. Poi
c’era da consegnare il pacco all’avvocato del terzo piano, il corriere
l’aveva portato la sera prima, quando lo studio era già chiuso, e
l’aveva lasciato a lui, che aveva anche firmato la ricevuta.
Non rientrava nelle sue mansioni, ma visto che sulla cassetta delle
lettere la targa dei Nigris pendeva storta da un lato, prese un
cacciavite e la riavvitò pazientemente, finché non la vide di nuovo
salda al suo posto. Venne un ambulante, un senegalese che
vendeva occhiali e accendini; lui gli comprò un paio di occhiali da
sole, gli domandò se aveva famiglia e poi gli chiese qualcosa del
Senegal, ma non gli permise di salire le scale, perché il regolamento
lo vietava.
La porta dell’ascensore era tutta scrostata, davvero indecorosa.
Non era ben certo di esserne autorizzato, ma decise di scrivere
all’amministrazione, sollecitando una verniciatura e approfittando per
segnalare che gli inquilini del secondo piano si erano di nuovo
lamentati del chiasso fatto la notte nell’appartamento sopra di loro,
un’altra di quelle feste con musica a tutto volume.
Prese la carta e cominciò. Sarebbe stato Repetti a leggere la
lettera. Chissà fino a quando avrebbe continuato a non accorgersi –
o a fingere di non accorgersi – di nulla, a non collegare il suo nome
con quello dello sfuggente proprietario della società immobiliare e
dunque pure di quell’edificio. L’unica società che fosse ancora sua;
le altre, di vario genere, le aveva liquidate. Quella, e dunque lo
stabile che ne faceva parte, apparteneva invece a lui, Giuseppe anzi
Joseph Della Quercia già Eichholzer, figlio di Karl, che a Hannsdorf
ferrava i cavalli, nipote non si sapeva di chi, ex presidente di varie
cose, anche se non avrebbe saputo bene dire quali.
Forse anche Repetti, come suo figlio e sua nuora, sapeva tutto,
poco male. Magari l’avevano assunto solo perché avevano capito
subito che si trattava di lui, quando due o tre mesi prima, avendo
sentito casualmente che in quella casa c’era un posto vacante di
custode e che non riuscivano a trovarne uno, aveva inviato la
domanda, si era presentato all’apposita segreteria
dell’amministrazione e, dopo il breve colloquio, era stato accettato.
Infatti non era troppo vecchio, era sveglio e tutto sommato in buona
salute; non si trovava più quasi nessuno e certo nessun giovane
disposto a fare il portinaio e non era dunque strano prenderne uno
già anziano. Anche se forse l’avevano assunto perché si erano
accorti che era lui – cosa non facile, considerando le distanze che
intercorrevano fra gli uffici che si occupavano delle piccole faccende
quotidiane e la sala del consiglio d’amministrazione – tanto meglio.
Lui stesso del resto aveva deciso che, se l’avessero respinto,
avrebbe fatto valere in qualche modo la sua autorità; li avrebbe
costretti ad assegnargli quel lavoro, con i suoi compiti e servigi.
Finì di scrivere la lettera e andò a imbucarla nella cassetta che era
giusto di fronte alla casa, sull’altro lato del marciapiede. Chissà chi
avrebbe personalmente deciso se e quando ridipingere la porta
dell’ascensore; si trattava di una spesa modesta, che non richiedeva
autorizzazioni in alto loco. Comunque, ancora una volta non sarebbe
stato lui a decidere, anche se i soldi, alla fine, li avrebbe tirati fuori
lui. Ma, con quello là, lui aveva poco a che fare, sempre meno. Si
allontanava ogni giorno di più da quell’individuo, da quell’astratto sé
stesso che a volte gli pareva un semplice omonimo, e continuava
ogni tanto, nel suo studio, a firmare meccanicamente atti – solo
quelli d’una certa importanza – che gli mettevano davanti; se lo
toglieva di dosso piano piano, come ci si toglie un abito da cerimonia
e lo si appende nell’armadio. Era quello, invecchiare? Gli pareva
veramente che fosse l’altro a invecchiare, prendendosi sempre più
anni e cose sulle spalle, come un attaccapanni sempre più carico,
mentre lui, invece, diveniva via via più leggero, più agile.
Tutto ridiventava facile e lieve, da quando non era più necessario
comandare. Per tanto tempo lo era stato; anni e anni faticosi e
interminabili, forse fin dal primo momento in cui era arrivato in città,
lasciandosi indietro per sempre la Moravia e i suoi boschi. Poi, di
colpo, quella necessità era sparita e il mondo era divenuto un
palloncino colorato, che non pesava e si poteva in ogni momento
lasciar andare per conto suo. Era successo da poco, da qualche
mese, forse da un anno o anche di più; era difficile dire da quanto,
ma non aveva importanza. Non calcolava più il tempo, talvolta
confondeva i mesi con le settimane, così come certe mattine, dopo
una notte in parte insonne, non sapeva se aveva dormito pochi
minuti o un paio d’ore.
Non avrebbe saputo dire esattamente quando, ma sapeva che
quel bisogno di comandare, di vincere era finito. A Hannsdorf,
quando in certe sere il cielo si allontanava, le ombre morivano fra
l’erba silenziosa e il mondo era d’un tratto immenso e gelido, si
poteva piangere col viso nascosto contro la spalla della mamma.
Nella città, fra i palazzi contegnosi e le navi che entravano nel porto,
non si poteva piangere per ricacciare giù quel groppo che si sentiva
in gola, lo sgomento del bambino sperduto nell’ostilità delle cose e
degli uomini egualmente pronti a ferire. Non restava altro che alzare
imperiosamente la voce, parlare più forte e più duro degli altri, salire
sull’autoscontro del luna park, che le prime volte faceva paura, e
mettersi al volante, dando dei bei colpi e mandando fuori pista quelli
che venivano addosso. Quello smarrimento, in fondo al cuore, c’era
sempre, ma il libretto di assegni era una buona corazza e pure lo
smoking, il distintivo all’occhiello e il cavalierato del lavoro erano una
rassicurante armatura, anche se pesante.
Poi, una mattina, quando si era alzato, quello sgomento sottaciuto
non c’era più, era volato via come un uccello da un folto scuro
fogliame. Forse era andato a posarsi sulla spalla dell’altro, quello
che ancora firmava decisioni importanti, pur comprendendole
sempre meno. Lui si era trovato d’improvviso libero, solo incuriosito
e non più assillato dalle cose; si toglieva dalle tasche le pietre
raccolte in tanti anni e correva per i prati, come a Hannsdorf, senza
paura né bisogno di niente. Adesso il mondo era un cane che non
poteva più morderlo ma si metteva a correre e a giocare con lui.
Rientrò nel portone. La giornata sarebbe stata afosa, ma
nell’androne c’era una frescura profonda. Entrare là dentro era come
attraversare una cascata, passare dall’altra parte; il silenzio delle
scale ottundeva i rumori del mondo là fuori, finché dopo un poco non
sembrava di sentire più quasi niente. Pure le voci di suo figlio, di sua
nuora, perfino quelle dei nipoti si allontanavano, svanivano.
Un grande ficus ombreggiava gli scalini, cupa foresta splendente
nell’ombra. Un gatto scivolò fra i suoi piedi, chissà com’era entrato, e
lui lo spinse delicatamente fuori, perché il regolamento della casa
non tollerava animali randagi. Un geranio ardeva alla finestra,
acceso dal sole che irradiava il cortile. Anche le targhe sulle cassette
per le lettere brillavano. Fra poco sarebbe venuto il postino e si
sarebbe come sempre lamentato del cognato che gli si era piazzato
in casa e non voleva più andarsene. Sistemò un libro in un cassetto,
tirò fuori da un altro una fotografia del giorno delle nozze e due
vecchie cartoline di Hannsdorf e rimase un po’ a guardarle. Il postino
era arrivato e lui gli andò incontro. Il sole si era spostato, non colpiva
più il geranio ma il vetro della finestra, la striscia lucente si rifletteva
sul muro e lo tagliava con una sciabolata. Quando un po’ d’aria
muoveva la finestra socchiusa, la striscia saettava, duellava sul
muro con rapidi fendenti.
«Stasera pioverà», disse il postino, «un’afa opprimente, già a
quest’ora, ma dal mare si sta alzando un gran vento, vedrà,
spazzerà via tutto, ce n’era proprio bisogno.» Lui sorrideva, alzando
un po’ il labbro e mostrando i denti.
LEZIONI DI MUSICA
Il Maestro si fermò un attimo a guardare la villa, ormai abbastanza
vicina. Ansimava un poco, un po’ più di quanto richiedesse la
moderata pendenza della strada. Da qualche tempo aveva preso
involontariamente l’abitudine di soffiare ogni tanto senza necessità,
una piccola mania che il suo corpo aveva improvvisamente
reclamato, come i vecchi che si concedono capricci e arbitrii, minimi
anticipi e risarcimenti del grande disaccordo con la realtà. Vedeva
già il cancello, le volute delle sue sbarre di ferro battuto che
s’intrecciavano formando ripetute corone e la veranda avvolta dalle
piante rampicanti, davanti al salotto nel quale Vilardi lo stava
probabilmente già aspettando. Anzi, il Maestro Vilardi, perché
adesso questo titolo competeva più all’altro che a lui, Salman
Meierstein, sì, apprezzato insegnante al Conservatorio, ma niente di
più.
Quella strada, tante volte, l’aveva fatta in macchina. La signora lo
mandava a prendere con l’autista, la grande automobile nera risaliva
la via tagliata a mezza costa sul colle, alta sul mare senza fine, ed
entrava nel parco. Un cameriere lo accompagnava nel salotto,
l’allievo gli porgeva una mano molle e umida, il cameriere ritornava
col caffè e con la signora, che restava un paio di minuti, parlava del
marito, il senatore morto da tanti anni, e delle terre e tenute e case di
campagna in Friuli, tutt’altra cosa rispetto a quella villa in città, e poi
lo lasciava solo col figlio, per la lezione. Il giovane prendeva il violino
e cominciava a suonare. Salman ascoltava, socchiudendo gli occhi,
approvava con la testa qualche bello staccato, riconosceva nei vari
brani la volonterosa esecuzione che gli era ormai familiare, talvolta
un guizzo d’inaudito, che balenava e si spegneva come un lampo fra
tanti echi di cose orecchiate e lo sfiorava con una contrazione
dolorosa. Poi interveniva, modificava, suggeriva qualche ingegnosa
arcata che gli veniva in mente, un vibrato più intenso o una cavata
più ariosa che gli ricordavano quelli sentiti, prima di lasciare la
Polonia, da qualche Jossele girovago per i cortili d’osteria. Gli
sembrava di essere il maestro di scuola che, al cheder, aveva
l’ambizione di suggerire agli scolari immagini originali, di insegnar
loro non solo a scrivere, ma anche a scrivere poeticamente e li
incalzava con mezze frasi che essi dovevano portare a termine: «Il
Signore disperderà i nemici d’Israele come il vento d’autunno
disperde le, le… le foglie del, del…». Allo stesso modo, egli
imbracciava il violino, percorreva con l’arco lo strumento e invitava
poi l’allievo a continuare, a variare, a cercare. L’altro ubbidiva,
evitando il suo sguardo. Poi la macchina lo riportava a casa, e una
volta al mese il segretario della signora gli consegnava una busta.
A quell’epoca, era ritornato da alcuni anni a Trieste, dopo la
guerra e lo sterminio. Suo padre non aveva mai voluto rimettere
piede in Italia, non le aveva perdonato il grande tradimento. Salman
ricordava la prima volta che suo padre era venuto a Trieste, circa un
anno dopo il resto della famiglia. In Polonia, a Biłgoraj dove
abitavano e dove Salman era nato, la vita non era facile per un
ebreo, ancora più difficile nella neonata repubblica polacca che
nell’impero absburgico scomparso pochi anni prima. Ricordava,
vagamente, umiliazioni, scherni, paure. Suo padre, un ebreo
ortodosso con tanto di caffettano e pejes, che parlava soltanto
jiddisch, aveva aperto una filiale della sua ditta a Trieste, all’inizio
degli anni Trenta, e trasferito la famiglia. In Italia c’era il fascismo, a
quell’epoca non antisemita, soprattutto a Trieste, grazie alle
tradizioni liberalnazionali e patriottiche della comunità ebraica. La
sua mano era pesante con gli slavi, ma il podestà Salem, esponente
di rilievo della comunità ebraica, era benvoluto da tutti e caro al
regime. La famiglia si era inserita tranquillamente nella città e il
piccolo Salman era diventato balilla. Un anno dopo, suo padre li
aveva raggiunti ed era rimasto entusiasta della situazione della
famiglia, finalmente serena, e particolarmente fiero della nera
uniforme di suo figlio, un onore militaresco difficilmente pensabile
per un ragazzino ebreo in Polonia. Indossando il suo vecchio
caffettano, costringeva il piccolo Salman a girare per le strade
sempre vestito da balilla, cercando di incrociare qualche gerarca
fascista. Quando ciò accadeva, tirava il braccio al figlio e gli diceva:
«Hejb die Hand, meschugge!» – alza il braccio e saluta, idiota!
«Questo Mojschale», così chiamava Mussolini, «fa tutto per noi»,
aggiungeva soddisfatto.
Il padre si era quindi trasferito anche lui a Trieste, per amore di
Mojschale-Mussolini, poi avevano dovuto scappare tutti, perché
erano venute le leggi razziali. Da quella volta, gli pareva che la vita
fosse, anche in altre circostanze, l’equivoco di qualcuno che
scambia Mussolini per Mojschale. Da Biłgoraj a Trieste, da Trieste in
Palestina e in America, poi di nuovo a Trieste. Che cosa lo aveva
riportato in quella città persa per strada dalla Storia, a quell’ultima
spiaggia della vecchia Europa? Hejb die Hand,
meschugge!
Riprese a salire la strada. Davanti e sotto di lui c’era il mare,
qualcosa di estremo, un varco ultimo dinanzi al quale egli si ritraeva
con atavica diffidenza continentale. Da ragazzo, arrivando a Trieste
e vedendo per la prima volta il mare, aveva visto il sole tramontare in
quel blu e da allora il mare, anche quel golfo nel quale finiva
l’Adriatico, era sempre rimasto per lui il luogo del tramonto, la
solitudine oceanica che quelle parole, occidente e occidentale, gli
evocavano. La sua Mitteleuropa era fatta di pianure, di montagne, di
case, di luoghi in cui si sta ben coperti, di alberghi a poco prezzo nei
quali ci si lava la faccia e le mani nel lavandino, e finiva dove
cominciava l’acqua, qualsiasi acqua, qualsiasi mare. Aveva anche
tentato – l’unica volta in vita sua – di tradurre in note, in quel
linguaggio che conosceva e sapeva insegnare così bene a
generazioni di allievi al Conservatorio, quella musica che sentiva
sussurrare come una sirena in quelle dolcissime consonanti palatali,
occidente, occiduo, occidentale, ma non era riuscito a combinare
niente. A un ebreo di Biłgoraj non si addicevano le sirene. Chissà se
l’antico allievo, i cui concerti godevano da alcuni anni di una certa
notorietà, sarebbe stato capace di comporre qualcosa su quel
richiamo e su quella ripulsa, su quell’ultima riva, su quel desiderio di
distogliere lo sguardo dall’ovest marino e rivolgerlo indietro, al
familiare e bisunto oriente dei suoi antenati, a quell’altra Europa. Ma
non gliene aveva mai parlato, non era generoso al punto di regalargli
quella struggente indeterminatezza. E poi non credeva che l’altro,
pur così volonteroso e anche ambizioso, come giusto, avrebbe
capito. Del resto da anni avevano avuto poche occasioni di parlarsi,
da quando l’altro, oltre a occuparsi delle sue terre, era diventato un
violinista che girava mezza Europa, era diventato lui il Maestro.
Era arrivato al cancello, e subito un cameriere lo introdusse nel
salotto. Non era cambiato quasi nulla; solo la signora, la madre, era
morta e la morte di una persona è appena una scalfittura nella
realtà, come ben sapeva Salman che apparteneva a un popolo
abituato a morire a milioni senza deflettere dal proprio cammino.
Vilardi gli venne incontro con affetto ossequioso e condiscendente.
Nel viso ingrassato gli occhi si erano fatti più piccoli, due fessure
mobili e inquiete. S’informò premurosamente della salute dell’ospite
e di come si sentisse ora che era in pensione dal Conservatorio. La
conversazione continuò, cordiale e vaga, per mezz’ora. Oltre la
veranda, il mare era immobile, color ferro.
«Vorrei mostrarLe qualcosa, Maestro», disse d’un tratto Vilardi
sporgendosi ansiosamente in avanti verso di lui, sino quasi a
sfiorarlo, con una vicinanza che Salman, nonostante le generazioni
di promiscuità del ghetto nelle sue vene, sentì per un attimo
disdicevole, quasi impudica. «Suonare è bello, certo, un’arte unica, e
io, anche grazie a Lei, in fondo posso dire che, modestamente… ma
dopo tanti anni, e tanti concerti, tanta musica di grandi, di altri, ho
pensato che forse… E mi è venuta l’idea… sì, insomma, di una
composizione, un ritorno alla tonalità, in certo senso, a una gerarchia
dei suoni… beninteso esperta, anzi nutrita della grande rivoluzione
atonale… come dire… in certo senso un ritorno a quel romanticismo
da cui è nata la dissonanza del moderno, che poi ha sconvolto la
tradizione, anche quella romantica stessa… ma cosa sto a dirLe, a
Lei che ne sa tanto più di me… Se Lei volesse dare un’occhiata, ne
sarei così onorato… Naturalmente è solo un inizio, un abbozzo…»
Vilardi si voltò rapidamente, aprì un cassetto, tirò fuori un pacco di
fogli e li porse a Salman tenendoli avidamente fra le dita, come uno
di quei merciaiuoli ebrei che Salman ricordava dalla sua infanzia
polacca. «Interessante, interessante», mormorò Salman prendendo i
fogli che gli scivolavano fra le mani e scorrendoli incerto. Tanti do
diesis si bemolle chiavi di sol sgusciavano fra le sue dita che
cercavano di riassettare i fogli, formicolio di insetti neri, esili bruchi di
chissà quali farfalle, tatuaggi notturni su ali delicate. «Un linguaggio,
come dire, sì, intenso… li leggerò con attenzione, si capisce, ma
certo che, a giudicare da questo inizio, è proprio…» L’altro lo
guardava, la bocca morbida e debole sotto gli occhi avidi e ansiosi.
«E se poi mi dirà cosa ne pensa o magari un consiglio…» Salman
alzò gli occhi, ancora pieni di quelle note che aveva letto e incontrò
per un attimo quelli di Vilardi; cercò di distoglierli prima che l’altro
potesse leggervi ciò che essi dicevano, ma capì che l’esitante e
contraddittorio comando impartito dalla corteccia cerebrale per
velare il suo sguardo e nasconderlo sotto le palpebre pesanti era
arrivato troppo tardi. Come soffiare, abitudine relativamente recente,
pure quella minore prontezza era un’avvisaglia. No, la vecchiaia non
era felicità, anche se non c’era più niente di particolarmente serio.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi il padrone di casa si
ritrasse, si abbandonò sullo schienale della poltrona. «Con Suo
comodo, naturalmente, non c’è fretta, come sa sono di partenza… e
poi comunque, fra l’altro, anche il direttore del Teatro di Salisburgo,
proprio una settimana fa… Soprattutto pensavo potesse
interessarLe, più oltre, come vedrà, quel passaggio che ho chiamato
Kaddish, un omaggio alla tragedia ebraica, alla tragedia europea,
alla tragedia del Suo popolo…»
«Ah, certo, questo, veramente…» Salman si era alzato. «Grazie,
grazie per la fiducia. Allora fra qualche settimana…» «Certo,
benissimo, ripeto, non c’è fretta, quando sarò tornato da New York,
da questa tournée americana. Ora, se permette, La faccio
accompagnare con la macchina.»
Quasi sdraiato nell’automobile, Salman guardava le cose fuggire
indietro e pensò che, dopo quell’occhiata, anche la villa e il salotto e
la veranda erano ormai alle sue spalle per sempre. Rivide lo sguardo
dell’altro che leggeva nel suo e si domandò a che cosa serviva
l’abitudine ancestrale a tenere le palpebre abbassate se proprio al
momento buono, per una stupida lentezza di riflessi, si doveva
alzare la tenda e lasciar vedere irreparabilmente dentro. Cominciava
a cadere qualche goccia di pioggia ed egli, infastidito, chiuse il
finestrino. Irreparabilmente? Si accorse che, come spesso, aveva i
calzoni sbottonati sul davanti e mise a posto con cura i due bottoni.
Forse non era necessario prender troppo sul tragico un’occhiata, per
quanto penosa, e quella sensazione di qualcosa di definitivo. Suo
padre era morto, la signora era morta, e tanti altri, in modi tanto più
terribili, e lui aveva continuato a insegnare al Conservatorio, a
mangiare, dormire, mentire, tutt’al più se l’era presa sempre più
comoda. E un’occhiata imbarazzante doveva incidere più
dell’invecchiare, della fiducia in Mojschale, del morire, doveva
essere chissà quale rivelazione? Non era il caso di rendersi ridicoli.
Avrebbe letto quello spartito, e in fondo anche con interesse,
sebbene era come se lo conoscesse già. Ma potevano esserci, anzi,
probabilmente c’erano spunti felici, passaggi abili e gradevoli,
qualche perdonabile goffaggine da limare, magari anche fantasia e
passione. Sì, avrebbe potuto complimentarsi sinceramente per la
composizione e gli avrebbe fatto anche piacere, forse più ancora a
lui che all’altro.
TEMPO CURVO A KREMS
Krems, di cui nel 1153 il geografo arabo al-Idrīsī celebrava lo
splendore che superava, a suo avviso, quello di Vienna, assomiglia
oggi a Vineta, la città sommersa dalle acque, fra le cui strade sul
fondo del mare la leggenda vede aggirarsi qualcuno in abiti antichi.
Un passante spunta da un portone fra le viuzze, nell’ombra dell’ora
figure scendono dagli arazzi nella vita. A Stein, ancora più assopita,
poco lontano dalla targa che ricorda Köchel, cui si deve l’elenco
delle composizioni di Mozart, il farmacista si anima per l’insolito
arrivo di un forestiero, gli mostra con orgoglio l’intera farmacia e gli
vanta le glorie di Stein, non senza polemica verso Krems, eco di
vecchie rivalità municipali fra l’una e l’altra cittadina della Wachau.
Lo scenario si addice alla piccola inversione del rapporto di causa
ed effetto verificatasi quella sera a Krems. Un modesto albergo
rinomato per il vino (lodato dall’imperatore Massimiliano, ma invero
giudicato da altri troppo asprigno) era stato scelto per festeggiare la
mia breve gloria della giornata, dovuta a una conferenza su Kafka
tenuta nel pomeriggio a Klosterneuburg, l’Escorial viennese, che
custodisce le reliquie di san Leopoldo, il duca Leopoldo III di
Babenberg, ed esibisce l’ossessivo pathos funerario di Carlo VI
d’Absburgo, la cupola sovrastata dalla corona e dalla croce, dalla
corona absburgica portata come croce.
Una conferenza è sempre riuscita, per definizione, e l’arte
professionale insegna a suggerire seducenti profondità fingendo di
dissimularle dietro qualche understatement spiritoso. Avevo avuto
dunque successo, come ogni conferenziere, anche nell’ambito
dell’illustre convegno, e gli organizzatori, fra i quali si erano
mescolati gli ammiratori e amici d’occasione immancabili in
circostanze del genere, mi avevano portato a cena, chissà perché, a
Krems. Era caduta la neve, che rendeva ancora più vuoto il
sonnolento nulla della vecchia cittadina e induceva a vivere quel
presente, quella sera, come se fosse già passata, immateriale e
silenziosa come il ricordo, un soffice niente di cui il biancore non
sembrava essere il segno reale ma un’immagine attutita e lontana.
Ero il protagonista della cena, cullato dall’ossequio della piccola
cerchia. Si era unita al gruppo, con inesorabile discrezione, una
signora triestina, sposata a un austriaco e residente da parecchi anni
a Linz, a un centinaio di chilometri di distanza. Orgogliosa di poter
stabilire una complice familiarità col festeggiato oratore, quasi un
piccolo diritto di proprietà riservata, la signora mi disse a un certo
punto che sua cugina era stata in classe con me, una mia compagna
di scuola, e che le parlava spesso di me, di noi due, della nostra
amicizia. «Veramente non è mia cugina, ha sposato mio cugino,
aspetti, da ragazza si chiamava… non so, aspetti, ho il cognome
sulla punta della lingua, si chiamava…»
Non ho avuto, purtroppo, compagne di classe, sono cresciuto fra il
sudore da caserma di una classe di soli maschi; le risposi dunque
che doveva trattarsi di un equivoco, ma lei insisteva, cercando di
ricordarsi quel nome. Aborro la parapsicologia e non fu certo con
compiacimento misteriosofico, ma soltanto con sorpresa che le dissi
con tranquilla semplicità, mentre lei ancora s’intestardiva nella
ricerca di quel nome da nubile: «Lei intende Nori S., ma si sbaglia,
non eravamo in classe insieme e non può ricordarsi di me, perché
non mi conosce, non ci siamo mai parlati».
Ero stupito, più ancora di quanto lo fosse lei, di aver dato un nome
a quell’indeterminatezza generica ma, mentre lei meravigliata
assentiva e confermava, non avevo tempo di indagare donde
provenisse quella sobria e inconfutabile certezza, perché il piacere
che mi dava l’evidente menzogna oggettiva della ciarliera signora, il
suo indubbio qui pro quo, era ben più intenso della moralità
scientifica che mi costringeva a respingere l’asserzione non
corrispondente ai fatti. «Sì, certo, proprio lei, ma come ha fatto a
indovinare, Nori, Le assicuro, La ricorda tanto, ne parla spesso…»
Mi schermivo, blando e inequivocabile, mentre mi abbandonavo a
una felicità chiara come l’acqua di un torrente. Il falso era plateale.
Nori S. frequentava la terza liceo quando io ero in seconda, era
bellissima e irraggiungibile, con quei capelli castani che si
increspavano, più chiari, nell’aria luminosa delle grandi finestre
aperte o malchiuse del liceo; tutti gli studenti la amavano da anni, la
amavamo, con la fedeltà compatta di un reggimento della guardia.
Quando passava nei corridoi, assorta e ignara, faceva capire per
sempre a centinaia di reclute del destino quell’oltre che, come dice
una celebre poesia, sta scritto in tutte le immagini e che sul suo volto
e nei suoi occhi obliqui e chiari era scritto ancor più nitidamente che
in quella famosa poesia.
Per un ragazzo di diciassette anni un’incantevole ragazza di
diciotto è più inaccessibile che una diva di Hollywood per un
professore; in generale non mi sopravvaluto ma nemmeno mi
sottovaluto troppo, quando è il caso, ma è, è sempre stato e sarà
sempre impensabile colmare la distanza fra me e Nori, distanza che
c’è tra ogni fante del reggimento schiaffato sull’attenti e la bandiera
che si inalza nel cielo e nel vento. Nell’amore comune per Nori
imparavamo l’universalità di Eros, il quale persegue la generalità,
l’assoluto, il divino, l’Essere che si dispiega agli occhi di ognuno,
come la radura fra i boschi del Monte Nevoso o l’aprirsi del mare a
Miholašćica. In quell’amore professato senza eccezioni individuali
eravamo tutti fratelli, come dinanzi alla morte e al futuro che ci
attendeva, impenetrabile per la troppa luce della giovinezza che
esso irradiava. Invidiavo un po’ soltanto un mio compagno,
Stefanutti, che, ovviamente senza essere tenuto da lei in alcuna
considerazione, era noto e preso in giro da tutti per il suo amore non
corrisposto; era per così dire l’innamorato infelice ufficiale, il
delegato di tutti noi. Aveva, evidentemente, la vocazione alla
rappresentanza, che più tardi lo avrebbe portato sui banchi di
qualche assemblea, a cariche certo minori rispetto a quella di
deputato degli innamorati di Nori, ma pur sempre rappresentative.
Lo invidiavo perché le canzonature e l’opinione generale lo
ponevano in qualche modo in un pubblico rapporto con Nori, sia
pure di negazione e di privazione, mentre io non ero con lei in
nessuna relazione, neanche indiretta e negativa. Infatti io conoscevo
Nori ma lei non conosceva me, come io so riconoscere la faccia del
presidente degli Stati Uniti, mentre a lui è ignota la mia. Era dunque
impossibile che Nori avesse parlato di me alla signora, perché
ignorava la mia esistenza, non avevamo mai scambiato una parola e
io non potevo essere un complemento oggetto delle sue frasi,
indubbiamente armoniose come il volo dei gabbiani. Mi godevo
l’ironia della situazione, perché la signora vantava la familiarità della
sua acquisita cugina con me, pensando che tale vicinanza facesse
riverberare su di lei un po’ della mia breve gloria di quella sera,
mentre la sola ipotesi – benché insostenibile – che Nori avesse
parlato di me costituiva per me una promozione sul campo, un alloro
olimpico.
Le dissi dunque, mentre lei protestava e ribadiva la veridicità delle
sue parole, che ero felice e che le ero grato di quella bugia, anche
se sapevo che era una bugia, e per tutta la sera mi lasciai andare al
piacere che quest’ultima mi dava, mi lasciai viziare da quella fantasia
come da una musica, senza essere affatto disturbato dalla
consapevolezza della sua irrealtà.
La sera di Krems fu tuttavia solo l’ironico e tenero preludio della
mia dilazionata rivincita. Quasi un anno più tardi, a Roma, un amico,
parlando di ex compagni di liceo, mi disse di aver incontrato Nori
poche settimane prima in vacanza, al mare, e che lei mi aveva
ricordato, raccontando varie cose di me. A quel punto era troppo e,
nonostante l’ora tarda, feci il numero di quell’albergo sull’isola dove
si erano casualmente visti e avevano chiacchierato sulla spiaggia.
Mentre aspettavo che mi passassero la comunicazione, avvertii la
stranezza di quella telefonata e quando sentii una voce femminile,
balbettai confusamente il mio nome, dicendo che alcuni mesi prima,
a Krems, sua cugina, la signora tale, mi aveva detto che lei… e che
allora mi ero permesso… Ma fui subito interrotto dalla voce all’altro
capo dell’apparecchio, che mi salutò con festosa confidenza e prese
a parlarmi come fossimo vecchi amici.
Ero dunque il vecchione di Svevo, che raggiunge solo tanti anni
dopo una ragazza intravista una sera, saldando soltanto nel ricordo il
conto lasciato aperto, anzi neanche acceso mezzo secolo prima,
perché nel presente la luce della vita è offuscata dall’angoscia di
vivere? La leggera brezza estiva che entrava dalla finestra, vicina al
telefono, era un vento degli spazi infiniti, in cui tutto è presente e
simultaneo, il roteare di un pianeta e la luce di una stella che giunge
da tanto lontano. Forse il Danubio nei pressi di Krems era l’Oceano
che stringe in cerchio il mondo, acque che scorrono e nello stesso
istante ritornano, rive che si rispecchiano sempre nelle sue onde.
Il tempo è signore della causalità: una causa produce un effetto e
dunque lo precede, viene prima di esso. Ma da un effetto si risale
alla causa che l’ha prodotto; quella familiarità al telefono era dunque
l’effetto di una conoscenza reciproca che per forza doveva esserci
stata nel passato e quindi modificava quest’ultimo, risaliva nel tempo
a creare, decenni addietro, qualcosa che allora non c’era stato. Sì, il
tempo è un ordine causale, ma se la causa si propaga nello spazio-
tempo con velocità mai superiore a quella della luce, mi dicevo
arrampicandomi su vaghe reminiscenze scolastiche e delucidazioni
chieste senza troppo successo ad amici fisici, la relatività ristretta
afferma, credo dica proprio così, che due eventi, i quali non possono
essere collegati attraverso un segnale causale viaggiante con
velocità minore o uguale a quella della luce, non possono essere
ordinati nel tempo in modo assoluto.
Dunque le confidenze fatte alla cugina di Linz e la chiacchierata al
telefono sono la causa – o l’effetto? forse tutti e due, che confusione
e che incanto – di una mia familiarità con Nori che avverrà quaranta,
no, quasi sessanta anni fa e l’acqua del Danubio che scorre a Krems
è già sfociata nel Mar Nero? Per evitare confusioni, sarebbe
opportuno riformare le grammatiche e ridurre i verbi all’infinito
presente. Anche l’incedere di Nori nei corridoi del liceo, come
l’Essere di Parmenide, non era né sarà ma soltanto è? Il tempo,
estensione dell’anima, diceva sant’Agostino – la mia, che si estende
ad abbracciare tempi in cui non c’ero ancora? Vorrei che fosse
piuttosto quella di Nori e che abbracciasse anche me, minimo punto
nella grande sfera del cuore, in cui c’è tutto e tutto ritorna.
I suoi capelli, chissà perché li ricordo più scuri, una sera già scesa
sul mare senza luna ma luminosa, un bagliore ancora all’orizzonte;
l’onda s’infrange bianca sulla riva, indietreggia e ritorna, è là, chiaro
sorriso del volto e del mondo. A Miramare, una volta, avevano
portato tutte le ultime classi del liceo a visitare quel famoso Centro di
fisica installato nel parco del castello incantevole e kitsch da dove un
improvvido e generoso arciduca era partito per diventare un
imperatore morituro. «Nelle teorie di campo conformi della fisica che
generalizzano la relatività di Einstein» – la lezione dell’insigne
scienziato faceva parte della visita, della gita d’istruzione, aveva
detto il preside del liceo – «si trovano oggi enti geometrici che fanno
pensare al concetto parmenideo di eternità…»
La voce riemergeva pastosa e compiaciuta dalla lontananza del
tempo, stormire di foglie nella brezza marina che passava tra i
cipressi e i lecci piantati da Massimiliano e da Carlotta in quel parco,
isola dei beati e dei morti. La voce si disperdeva nell’eco del ricordo,
onde si allontanavano concentriche nello stagno del parco in cui,
ascoltando o non ascoltando, l’uno o l’altro di noi gettava ogni tanto
un sasso. Le onde sonore che allora avevano diffuso quelle parole
tra gli scogli e il fogliame, oltre la sfinge di marmo che ai piedi del
castello guarda lo sfingico mare, oltre il canale uditivo e il timpano
che le avevano trasmesse alle assennate e beneducate sinapsi di
neuroni degli ascoltatori, grati della soporifera occasione offerta da
quella come da ogni soccorrevole conferenza, si erano propagate
oltre ancora, nel bosco che fronteggia nero e quasi avvolge, tranne il
lato sul mare, il castello bianco e malinconico, e si erano sparse oltre
ancora, negli anni diramatisi da quell’ora come i sentieri si diramano
in ogni direzione dalla fontana centrale del parco, e adesso mi
avevano raggiunto oltre il folto del tempo, riecheggiavano in
vibrazioni d’altro genere, onde del cuore. Oggi, adesso… ma che
vuol dire? L’eloquente oratore insisteva a ribadire che oggi e ieri,
adesso e domani, prima e dopo esistono solo nel cervello, volubile
prepotente che mette il prima qua e il dopo là.
Quando, dunque, adesso? Sempre, che a volte è solo un
secondo, dice Bianconiglio ad Alice. Il paese delle meraviglie e la
parte dietro lo specchio sono dovunque, vale a dire sempre, che non
ha né fine né inizio; non c’è nessun’altra parte, nessun altro
secondo. Se le cose stanno come diceva, dirà, quel professore, non
solo i tempi verbali, ma anche le preposizioni e gli avverbi temporali
dovrebbero essere aboliti. Teorie di campo conformi, enti geometrici,
prima e dopo che esistono solo nella testa – e, in questa dispotica
testa, gran pasticcio e gran confusione.
Adesso, Nori e io adesso… Chiaro sorriso sul suo volto; l’acqua
scorre limpida, nuvole in fondo al mare, trasparenza del cuore. La
parola si allarga sino ad abbracciare il grande mare alle spalle
dell’oratore, la linea retta dell’orizzonte si incurva, la volta del cielo la
chiude… Se nello spazio-tempo, secondo l’oratore, quest’ultimo è
rappresentato da una linea curva anziché da una linea retta, nel
caso di masse abbastanza grandi può trattarsi anche di una curva
chiusa ossia di un cerchio. Ma allora tutto ritorna, tutto è, e io sono
già stato, sono già alla foce del Danubio, mentre sto seguendo le
sue acque per raggiungerla.
Eppure Krems, almeno per chi viene da Vienna, è dopo Dürnstein,
nel 1918 qualcuno ha tirato giù dagli edifici pubblici del Litorale
Adriatico le insegne con l’aquila bicipite e Trieste prima austriaca è
divenuta italiana, nel 1989 è caduto il Muro di Berlino, il Big Bang è
avvenuto quattordici miliardi di anni fa, dicono. Ma un anno vuol dire
il tempo che occorre alla Terra per girare intorno al Sole e un giorno
quello per girare su sé stessa, ma quando non c’erano né la Terra né
il Sole cosa vogliono dire anni e giorni, cosa poteva esistere e
succedere in quegli anni che non c’erano? In ogni caso, negli anni
guerre sono cominciate e finite – finite dove? Le cicatrici ci sono
ancora; tatuaggi incisi nel corpo, bruciano sottopelle, quella del
mondo e di ognuno. Il mappamondo è liscio, la mano accarezza la
sua superficie multicolore e levigata, sotto il blu di acque e isole
lontane è tutto un sanguinare e marcire. I meridiani tagliano quella
sfera come spicchi d’arancia, la nave taglia quel filo che taglia il
tempo. Per un attimo
– che vuol dire? no, non un attimo, alcuni minuti – la prora è nel 25
novembre e la poppa nel 26, sì, anche no, l’inverso. Linea del
cambiamento di data, un amore che avanza un altro che indietreggia
– nel tempo, si capisce, dove se no? Che anche l’amore sia una
pura convenzione come quella linea, quel meridiano che non si
vede, non c’è?
Ogni meridiano uno spicchio, stesso meridiano stessa ora a
Trieste Dresda le isole Lofoten Luanda Skeleton Coast Park. Al Polo
Sud come al Polo Nord arrivano tutte le punte di ogni spicchio, tutte
le ore del mondo insieme – a che ora Amundsen ha calcato per
primo il Polo Sud? Non è vero che il tempo sarà abolito, come
promette o minaccia l’Apocalisse parlando al futuro – un tempo del
verbo, non l’abolizione del tempo bensì un proliferare mescolarsi
contraddirsi di tutti i tempi possibili e compresenti; la vita – o la morte
– è un pulviscolo vertiginoso.
Il tempo ovvero la morte. Nel ’96 è morta V., adorabile bambina
non più ma ancora bambina anche dopo gli anni del male che l’ha
torturata e sfigurata senza intaccare la sua insopprimibile dignità,
l’incanto di ciò che è stata e che dunque è per sempre. Quella data,
spartiacque della vita e non solo della sua, saracinesca di una
chiusa sul fiume che blocca lo scorrere delle acque.
V. non c’è più, che vuol dire? Forse Shakespeare non è più un
poeta ma soltanto lo era e adesso non lo è più? Cosa c’entrano, col
suo essere poeta ora e sempre, le sue arterie logorate o chissà quali
altre magagne? E altre, altri, amiche, amici – l’amicizia, altro nome
dell’amore, un camminare insieme caldo e rischioso, voler bene è un
azzardo ma è per sempre, dunque adesso… Qualche amica e amico
non camminano più accanto, hanno preso un’altra strada che porta
da un’altra parte, anche se non si sa bene dove – forse sono rimasti
un po’ indietro, magari si sono fermati in un’osmiza a bere qualche
bicchiere di Terrano, fra un po’ torno indietro o vado avanti anch’io e
li ritrovo, se c’è ancora del Terrano e del prosciutto sono certamente
ancora là, c’è più di un’osmiza in cui si sta meglio che in questo
mondo. Se dopo – dopo che cosa…? – ci fossero buone osmize,
piuttosto che angeli che danno fiato alle trombe tra le nuvole, non
sarebbe male. Magari là potrei essere un po’ più ardito, tanto là gli
anni non contano – ma quando, poi, contano? – e anche un ragazzo
impacciato potrebbe trovare il coraggio… Non ho mai veramente
parlato con Nori prima di quella sera a Roma e solo per telefono.
Vorrei averlo fatto; forse là, da quell’altra parte, avrei meno paura,
quella paura che, più o meno, c’è sempre in queste cose, quando
contano veramente. Vorrei aver parlato con lei, anche prima; averla
baciata, dunque baciarla…
Amare, sinonimo di essere, verbo difettivo che conosce solo
l’infinito presente. Le trasformazioni conformi speciali – più che la
conclusione della conferenza, erano quasi un’idea fissa dell’oratore
a Miramare – proiettano i punti dello spazio-tempo dal finito
all’infinito, in un insieme che Penrose (sembra sia un altro di quei
luminari che spiegano come funzionino il prima e il dopo) definisce
cono di luce all’infinito. In questo cono – lui dice, ha detto, dirà –
tempi futuri e passati appaiono rigorosamente equivalenti a uno e a
un solo punto.
La vita eterna, forse? Così dicono quelli di un’altra parrocchia, che
hanno la pretesa di mostrare una cosa che non si vede ma almeno
non pretendono di dimostrarla come il teorema di Pitagora, mentre i
professori, così baldanzosi e sicuri con i loro logaritmi algoritmi e
buchi neri… E adesso anche LUCA,
last universal common ancestor, ur ur ur nonno, il protobatterio o
forse anche no, ma comunque il più vecchio antenato di tutti gli
esseri viventi mono e pluricellulari, di tutti noi, funghi e amebe
compresi. Cosa c’entra che nessuno lo ha visto. Neanche Dio
nessuno lo ha visto, se è per questo, lo dice pure l’apostolo
Giovanni, il prediletto. Nemmeno il buco nero in cui collassa una
stella nessuno lo ha mai visto e non si può neppure dire che prima
c’era la stella e poi il buco nero, perché è solo il cervello che mette
un prima qui e un dopo là e se dunque non c’è lui, il cervello, anche
se el se le fa e el se le disi, proclamava quel professore a Miramare,
non c’è né prima né dopo, niente, polvere cosmica che non esiste,
moscerini che l’occhio invecchiato vede cullarsi nell’aria ma che non
ci sono. La stella splende bianca e collassa in un buco nero, i capelli
di Nori sono bianchi ed erano, sono – saranno? – castano scuri, no,
non tanto scuri, vedremo. Si infervorava, il professore che ce l’aveva
col prima e col dopo e si compiaceva del potere dell’ippocampo, quel
capriccioso cavalluccio marino annidato fra i lobi del cervello, su
Cronos, sul Tempo, sovrano spodestato seduto sul trono come su
una seggiola sgangherata. Era uno dei più simpatici, del resto, quel
professore col suo accento romagnolo, tra tutti quelli che dovevamo
ascoltare, reclute che gli ufficiali esortano a darci dentro nella
battaglia per la vita, pardon, per la scienza.
Vita eterna, dunque? Sì, ma qui e ora – mi aveva fatto
impressione sentirlo dire e scrivere da uno che chiamano Sua
Santità e che pareva sempre a disagio e imbranato nel suo abito
bianco ma che comunque aveva avuto il coraggio di essere sé
stesso piuttosto che il vicario di Dio. Dunque, scrive, scriveva
quell’uomo, quell’ex successore di Cristo, la vita eterna adesso e
sempre ma soprattutto adesso, non un’immaginaria esistenza che
continua dopo la morte, un illimitato prosieguo di ieri oggi e domani e
chissà cosa, fra punizioni e premi, come tanti fedeli vogliono
credere. Questa è la vita eterna, che conoscano Te – così almeno
diceva quello che si proclamava suo figlio e lo diceva poco prima di
morire.
Conoscere, vivere la verità. La vita vera, autentica, pervasa di
significato; vissuta anche nel tempo, nel tempo illuminato da un
valore che non può essere distrutto da niente e da nessuno né
alterato dallo scorrere della sabbia nella clessidra, subito ribaltata e
poi sempre di nuovo piena quando sembrava vuota. Sempre vuol
dire vivere o morire? Il vetro della clessidra si accende e si colora
nella luce che lo attraversa, una luce dorata rugginosa quando la
clessidra è colma di sabbia e giallorosa pallido quando si svuota.
Limpida luce negli occhi immortali di Nori, in quello sguardo che non
invecchia. Vita breve, vita eterna; le nostre contingenze, ha scritto
quel vecchio poeta fra i dossi e le spiagge di Grado, colorano
l’eternità di Dio; le lunghezze d’onda della luce, numeri e frazioni,
diventano il blu del mare, il rossoviola della sera, la chiarità negli
occhi di Nori. Il chicco opaco muore sottoterra, l’oro della spiga si
piega nel vento. Eterna foglia dell’albero di pippala, non lontano da
Benares e dal Gange, sotto il quale un principe mendicante ha
sfatato il dolore e la paura di morire. Nella foglia che muore, spiega
ai discepoli, c’è il sole che l’ha scaldata, la nuvola che l’ha dissetata
con la pioggia, la terra che l’ha nutrita; la foglia restituisce le cose e
gli eventi che l’hanno costituita e sono, continuano a essere lei.
Eterna impermanenza, eternità di ogni cosa.
Eterno dileguare, eterno essere; il fiore muore nel frutto, dunque è
il frutto, ha scritto un geniale e talora pomposo professore di Jena
dimostrando che anche il più grande dei filosofi può essere un poeta.
Muori e divieni, diceva quel poeta di Weimar tanto più poeta di lui, al
quale peraltro, nella sua veste di consigliere del Ducato, aumentava
lo stipendio di accademico ma con parsimonia. Muori e divieni così
veramente sei, se non vuoi restare un ospite frettoloso e oscuro su
una terra opaca. Gli oleandri del mio giardino, rosa bianchi rossi,
ogni anno altri, gli stessi. Paura di morire? Re Ane il Vecchio tu non
sei morto, dice la saga, ma sei risorto in Egil re. Bevi, vecchio re, la
vita ti dà come tu prendi, sei tu che vuoti e riempi il bicchiere.
Parole – di chi, di altri, di nessuno; le parole sono come l’aria e le
stagioni, non appartengono ad alcuno. Gran confusione, troppo
grande per la piccola testa che la contiene. L’universo in una noce,
così facile da rompere, basta sbatterla con un po’ di forza sul tavolo.
Ma intanto il gheriglio matura, si fa più tenero e gustoso e anche
sotto il guscio capisce e coglie qualcosa. Anch’io adesso capisco
finalmente un po’ pure il paradosso dei gemelli, uno giovane uno un
po’ più invecchiato, quello che è andato a vivere in una pensione di
mezza montagna. Nori è più giovane dei suoi coetanei che non sono
vissuti al mare come lei; lei il mare ce l’ha dentro, forse non lo sa,
non ricorda di quando era mare e creatura marina, come ogni cosa
che vive. I suoi anni sono il ciuffo di fiori che tiene in mano, papaveri
di mare, credo, i suoi occhi – non vedo il loro colore, ma chiari,
luminosi. In ogni caso lei è là, qui, nel cono di luce, una chiara luce
blu oltremare. Da Malfa si vedono, al largo, dietro il bianco delle
spume nel grande blu, Panarea e Stromboli, Stromboli nera, le sue
spiagge nere, in greco glaukós vuol dire blu ma anche, secondo
alcuni autori tardi, un azzurro che si scurisce, blu quasi nero ma
lucente, vita eterna nella luce di quello sguardo. L’avevo visto anche
a Krems, quando…
Tempi futuri e passati, un solo punto, un solo tempo… Un infinito
presente? Recitiamo forse in due spettacoli, uno lineare e uno
circolare, illuminati da una luce che scende dal vertice di quel cono
che piace tanto a quel professor Penrose. Molti anni fa, a Trieste,
c’era in viale XX Settembre un cinema con due grandi schermi in due
sale adiacenti, separate solo da alcuni scalini, che conducevano alle
file e ai posti. Il film era lo stesso e i due schermi servivano alle
esigenze di un pubblico spesso numeroso. Da ogni sedile di
entrambe le sale si potevano, volendo, vedere entrambi gli schermi,
uno regolarmente di fronte e l’altro di sbieco. La sequenza del film
era la medesima su tutti e due gli schermi. Ma nulla avrebbe vietato
di iniziare la proiezione su uno schermo mezz’ora prima o mezz’ora
dopo quella sull’altro, in modo da vedere contemporaneamente
scorrere eventi e momenti diversi, il protagonista che muore su uno
e che poi combatte e s’innamora sull’altro, la sua storia che comincia
o continua dopo la sua fine.
È forse questo, o qualcosa di simile a questo, il cono di luce
all’infinito in cui non c’è ordine temporale né causale, regione fuori
dal tempo? Certo, so bene di essere un punto dello spazio-tempo
ordinario, un punto che fisici e cosmologi riterrebbero trascurabile.
Ma forse qualche matematico mi sta trattando rigorosamente con
strumenti di geometria topologica; non è detto che un punto si renda
conto del compasso che lo disegna o della rete che parte da lui,
figuriamoci delle trasformazioni del gruppo conforme che lo
maneggiano senza troppi riguardi.
Può darsi quindi che, fra quella sera a Krems e quella telefonata
da Roma, io sia stato scaraventato dallo spazio-tempo ordinario
nella regione fuori dal tempo e poi viceversa, perché è indubbio che
in questo momento il mio tempo è rettilineo, come la penna con cui
sto scrivendo, freccia che corre senza ritorno verso la fine,
nell’irreversibile processo dissipativo che costituisce la scrittura e la
vita, affezioni dal decorso mortale.
Se le arti e le scienze avevano le loro dee e Urania era la Musa
della conoscenza delle stelle, Nori potrebbe essere la Musa della
traslazione, come Poincaré chiama la dinamica di quegli
spostamenti temporali. Dovrebbe essere anzi una divinità superiore,
perché – ammonisce, ammoniva lo scienziato nel parco di Miramare
– nessuna traslazione di Poincaré, comunque grande, porta fuori
dallo spazio-tempo ordinario e per qualsiasi sistema fisico nello
spazio-tempo ordinario ci vogliono un tempo infinito e la velocità
della luce per arrivare sul cono di luce all’infinito, mentre quello che
mi è accaduto fra Krems e la telefonata da Roma ha richiesto,
modestamente, solo alcuni mesi. La trasformazione sul cono di luce
all’infinito, nella regione senza tempo, è possibile solo per sistemi
fisici senza massa e, nonostante possa considerarmi soddisfatto
della mia corporatura ancora abbastanza agile, non posso negare di
avere una massa. Ma forse l’ho riacquistata, ritrasportato dal cono di
luce a quello d’ombra, e Nori, adesso, non si è mai accorta di me…
IL PREMIO
La cena stava per finire, fra poco sarebbe venuto il momento dei
brindisi, dei discorsi, dei rinnovati rallegramenti al vincitore. Sulla
tovaglia c’era qualche macchia di vino e ogni tanto, dalle candele,
cadeva una goccia di cera. I camerieri erano pronti a sostituire piatti
e posate, le loro braccia calavano sulla tavola e si ritiravano rapide
come sciabolate, ma quella geometria cominciava qua e là a
sbandarsi, qualche gesto s’inceppava e qualche oggetto scivolava
dalle maglie dell’ordine, restava indietro, abbandonato all’inerzia e
allo sfaldarsi delle cose. Guardò il piatto del suo vicino, che
raccontava a voce alta, mezzo girato dall’altra parte, qualcosa di
divertente, e osservò il grasso che si era rappreso sul fondo. Quel
sugo, poco prima, era buono. Chissà dove e quando iniziava la
prima smagliatura, se c’era un punto preciso, una soluzione di
continuità fra il colletto inamidato e quello sudato.
Lanzani gli versò da bere ignorando il suo rassegnato diniego. «È
una Freisa straordinaria, viene da qui vicino, pochi chilometri da
Casale. Che i rossi francesi, in mezzo mondo, siano più pregiati di
quelli piemontesi, dimostra solo che noi non ci sappiamo fare, che in
guerra e in commercio siamo ancora, nonostante tutto, all’abbiccì.
Per fortuna almeno in amore…» Serra sorrise educatamente e lo
guardò con i suoi occhi acquosi, che una volta erano stati azzurri.
Dovette fare un piccolo sforzo per guardarlo realmente, per vedere i
suoi capelli neri e lisci, il grande naso rapace, la bocca golosa e
spavalda. Da qualche tempo gli sembrava di non poter fermare il suo
sguardo su un singolo oggetto, ma di oltrepassare le cose come se
fossero trasparenti e di perdersi, con la sua vista miope, in
un’incolore lontananza.
Sorrise di nuovo a Lanzani, un mesto sorriso di scusa per quella
difficoltà di metterlo a fuoco, di avvertirne l’imperiosa presenza.
Capiva che agli occhi avidi e penetranti di Lanzani sfuggivano pochi
dettagli, anche quando parevano solo ridere, velati dal vino o accesi
da qualche storiella raccontata fra una portata e l’altra. Le portate
erano ragguardevoli, degne, come tutto il premio, dell’ospitalità di
Lanzani. Era difficile deporre le Muse dal loro seggio. Le società che
Lanzani possedeva erano, per chi ne sentiva spesso nominare le
sigle, impenetrabili come il destino e i giornali di cui possedeva
quote decisive potevano contribuire a scalzare un politico dalla sua
sedia o Dio da un cuore, ma qualcosa gli incuteva uno strano
rispetto per la gente che allineava parole sulla carta, innocue eppure
autorevoli. Il munifico premio letterario, che Lanzani aveva istituito
per la giovane narrativa e che veniva conferito da una giuria su cui
non c’era nulla da dire, era la mancia di un padrone, ma anche
l’offerta di un devoto.
Il vincitore aveva letto un capitolo del romanzo premiato e ora la
consuetudine voleva che altri leggessero, in omaggio a lui e a sé
stessi, qualche loro pagina o qualche loro verso. Poi si sarebbe
celebrato, secondo l’uso, il luogo in cui avveniva la premiazione, Lu
Monferrato con le sue nobili tradizioni e la sua cultura, e infine
sarebbe toccato a lui, l’ospite per così dire d’onore. Serra ascoltava,
le palpebre lievemente abbassate. Guardò, fuori dalla finestra, le
grandi montagne inghiottite dalla notte, sulle cui cime era ancora
rimasto impigliato qualche brandello della sera. I versi e le prose che
venivano letti a pochi metri da lui gli arrivavano come un brusio, non
si distinguevano bene dal ritmico ronzio che l’alta pressione gli
faceva sentire alle orecchie. Si lasciò cullare da quel fluire uniforme,
senza seguire le diverse voci e parole che si succedevano. Gli
piaceva che la vita scorresse regolare e uguale, cancellandosi di
continuo, come i pasti della sua pensione, il radersi ogni mattina. Fra
poco sarebbe toccato a lui; lui era, per così dire, una specie di ospite
d’onore, da esibire ai presenti.
Era un po’ comico fare la parte del genius loci di quelle terre, che
non sapeva se poteva chiamare sue, anche se le amava, nei limiti in
cui gli era concesso coniugare quel verbo. Ma non si sentiva certo
fuori posto, da molto tempo aveva disimparato quella sensazione e
anzi non capiva come, in questo mondo, ci si potesse sentire a
proprio agio o a disagio. Quel portacenere alla sua sinistra, nel quale
ogni tanto qualche mano scuoteva la sigaretta, non era né nel posto
giusto né in quello sbagliato, era semplicemente là, alla sua sinistra.
«Ma Lei, quando scrive? Dico, quando scrive veramente?» La
curiosità di Lanzani gli sembrò indecorosa, come se gli avesse
chiesto in che ore e in che posizioni era abituato a fare all’amore, ma
sentì che in quella domanda c’era rispetto e quasi deferenza, il
desiderio di conoscere i segreti di un’attività che all’altro doveva
apparire misteriosa, mentre a lui era sempre parsa monotona, tutt’al
più malinconicamente casuale. «Veramente veramente, mai.»
Lanzani rise rumorosamente e gli diede una pacca sulle spalle. «Lei
è proprio un bel tipo, mi piace, un vero scrittore, lo si vede subito.»
Veramente o no, da quanti anni non scriveva? La valle senza fondo,
sulla quale il paese si alzava come un aquilone, lieve come il suo
nome, gli diede un attimo di smarrimento e per far ordine in quel
vuoto scuro che si sentiva dentro passò meticolosamente in
rassegna, nella sua mente, la stanza della pensione in cui viveva: il
letto, il lavandino, due o tre scaffali di libri, la poltrona accanto al
tavolo, l’attaccapanni, la fotografia dei genitori, l’ombrello appoggiato
in un angolo. Il pensiero dell’ombrello lo rassicurò, tenere nella sua
mano il manico ricurvo, liscio e robusto, gli dava sempre una certa
tranquillità.
In quella stanza c’era tutto quello che gli era rimasto. Il resto… era
un po’ assurdo pensare che c’erano state altre cose, tante altre
cose, e a come si erano perdute. Ricordava bene, questo sì, la bella
casa con giardino, e la fresca veranda, un po’ fuori dalla cittadina in
Moldavia dove suo padre aveva impiantato la fabbrica di cappelli. La
madre, in una sedia a sdraio nel giardino, leggeva libri tedeschi; il
padre, quando la sera rientrava in casa, gli parlava dell’Italia, che
avevano lasciato e che lui ricordava poco, delle rosse torri di Asti e
delle colline del Monferrato, del tratto che separa la valle del Tanaro
da quella del Po. Dei primi anni lui ricordava soprattutto una
contadina romena che li serviva in giardino, d’estate, a piedi nudi, la
sua nuca forte e bruna, la schiena che veniva un po’ fuori dalla blusa
quando si chinava a mettere il piatto in tavola.
Quello che era venuto dopo precipitava in una corsa confusa; il
ritorno in Italia allo scoppio della guerra, il difficile rilancio
dell’azienda in cui, molto giovane, aveva preso il posto del padre
precocemente invecchiato, le leggi razziali, il dissesto, la nuova
guerra, la fuga, la stella gialla, i genitori, uno morto nel suo letto e
l’altra sparita chissà dove, pulviscolo di cenere nello sterminio; e di
nuovo in Italia, la vita tirata avanti per molti anni in grandi edifici grigi,
pieni di carte da battere a macchina e timbrare, e infine il ritiro in
quella pensione a Lu Monferrato, nei luoghi da cui talora non sapeva
se ricordava di essere partito da bambino o se glielo avevano
raccontato. C’erano stati, sì, un paio di libri, tardivi ma forse anche
discreti, che alcuni anni prima avevano avuto una modesta ma
indubitabile risonanza – forse perché, pensava, le storie ebraiche,
dopo la guerra, avevano un minimo di successo garantito.
Lanzani, accanto a lui, parlava di cene e di viaggi, tirando ogni
tanto familiarmente in ballo nomi che a Serra erano vagamente noti
dalle pagine dei giornali. Il professore Ribaudo, cultore di storia
patria, aveva rievocato brevemente suor Angela Vallese, la prima
missionaria nella Terra del Fuoco, nata a Lu Monferrato, e Serra,
quando si alzò per leggere, pensava con nostalgia a foreste e a fiumi
stranieri, all’ombra verde scura di grandi alberi che corre assieme
alle canoe. Il suo racconto narrava di uno che era stato,
giovanissimo, guardiano in una specie di lager su un’isola adriatica e
che torna su quell’isola, trent’anni dopo, insieme a una donna molto
più giovane di lui, sposata da poco. C’erano passeggiate, cicale,
lucertole che sgusciavano fra i sassi là dove trent’anni prima l’uomo
era stato aguzzino, il volto invecchiato d’una contadina, l’orrore e
l’incanto dell’estate, qualche cruda scena erotica fra i due sposi che
gli diede, mentre la leggeva, un po’ d’imbarazzo, perché si accorse
che si trattava di cose che, in fondo, non aveva provato.
L’applauso era sincero e Serra si sentì, non senza vergogna,
lusingato. «Splendido, magnifico!» tuonava Lanzani. «È un peccato
che pochi La conoscano. Bisogna fare qualcosa, assolutamente.
Certo, se si sta rintanati qui per tanti anni… Un posto incantevole,
tranquillo, La invidio, ma… ecco, una serata a Roma, anzi a Parigi,
ancora meglio, so io a chi fare un fischio.» I volti dei commensali
erano arrossati e lividi. Un po’ di vento dalla finestra faceva oscillare
le lampade e un guizzo d’ombra scivolava a tratti fra le scollature,
disegnando per un attimo linee scure sulla pelle fresca e ben curata.
«Oh, ne sarei felice, veramente, sono ormai tanti anni che… ma
grazie, non posso, con questa gamba…» Serra si diede
scherzosamente un piccolo colpo col bastone, «mi è così faticoso
viaggiare, salire sul treno…»
Lanzani guardò con umiltà il bastone e si ricordò dei re pastori di
cui aveva letto da qualche parte. «Macché treno, non si preoccupi,
con l’aereo, si capisce, il mio, La mando a prendere io.» Serra pensò
alla vecchia torre di Lu, ritta come una bandiera sul paese, e agli
uccelli della sera che gli piaceva stare a guardare quando, alla loro
ora, volavano intorno a quella torre o si slanciavano in alto, si
tuffavano e sparivano in quel cielo scuro. Si sentì, senza sapere
perché, un po’ a casa. «Grazie, molto gentile, sì, molto», rispose,
avvertendo sgradevolmente l’indifferenza della propria voce, «ma
anche con l’aeroplano mi è difficile, sa, quelle scalette, quei
trasbordi, non credo proprio sia il caso…»
«Insomma» – Lanzani, brillo e accaldato, batteva il pugno sul
tavolo, poco abituato a incespicare in ostacoli da nulla – «non è
possibile, ci sarà pure un modo, basta volerlo, è un delitto che il Suo
libro… ma adesso non faccia il difficile, cosa pretende, la slitta, la
mongolfiera, l’elicottero?» Il ridacchiare dei vicini diede fastidio a
Serra, ma guardando il viso pletorico e lustro di Lanzani,
compiaciuto di tenere banco, gli parve che la larga bocca avesse
una piega quasi dolorosa. «L’elicottero andrebbe benissimo»,
rispose col tono più brioso di cui era capace, «ma si figuri cosa
direbbe la padrona della pensione, con tutto quel fracasso… se Lei
la conoscesse, sa, una di quelle donne tremende…»
«Conosco il tipo, ce n’è una, macché una, magari solo una, nella
vita di ogni povero cristo… vabbè, vabbè, vedremo. Intanto andiamo
a dormire.» Lanzani esitava, incerto, come uno che cerchi di
prendere tempo. «Le piacciono le canzoni di Gino Paoli?» gli chiese
d’improvviso. «Non le conosco, ma dicono che siano molto belle»,
replicò Serra, con l’affabile noncuranza che aveva per l’universo.
«Gliele regalerò, gliele faccio spedire. Fantastiche, vedrà.» «Non ne
dubito, grazie, le ascolterò con piacere.» «Ma Lei ha un lettore di CD,
o almeno un giradischi?» domandò la ragazza che era venuta con
Lanzani. «No, purtroppo», rispose conciliante, «ma non fa niente,
me lo posso far prestare.»
Lanzani lo guardò negli occhi, poi si alzò e gli tese la mano.
«Grazie ancora per essere venuto, spero di rivederLa e se posso
esserLe utile…» Serra gli strinse la mano e per un istante provò una
vaga e sconosciuta sensazione di colpa. Si guardò intorno. «Vuole
un passaggio? L’accompagno», gli chiese uno dei poeti che aveva
ascoltato poco prima. «Volentieri, ma non si disturbi, posso chiedere
anche a lui, sì dico…» e indicava col bastone Lanzani che stava
allontanandosi, irritato di non ricordarne, in quell’attimo, il nome. «Ma
no, ma no, è la mia strada, venga.»
Serra entrò a fatica nell’auto e ne uscì, con ancor più difficoltà,
mezz’ora dopo. La pensione era buia e silenziosa, solo in portineria
la luce era accesa. «Bella serata, vero?» «Bellissima, bellissima.»
Era doveroso dire qualcosa sulle poesie del cortese
accompagnatore e cercò qualche frase. Quel poco che era riuscito a
capire gli sembrava banale e il resto, incomprensibile. «Mi sono
piaciute, certo, le Sue poesie, come dire, ci sono cose complesse…
È colpa mia, sono vecchio, è da anni che leggo poco, che non seguo
le tendenze letterarie, le nuove correnti… Se mi manda il volume lo
leggerò con molto interesse, sono stato colpito da alcune immagini
così intense, originali…»
La macchina era ripartita e Serra, dopo qualche tentativo, infilò la
chiave nel portone ed entrò. Sì, sì, devono essere le nuove tendenze
letterarie… be’, passeranno anche queste, disse fra sé, salendo
lentamente le scale.
ESTERNO GIORNO - VAL ROSANDRA
Esterno giorno - Val Rosandra, riva del fiume. La piccola troupe
sta per girare una scena. La truccatrice dà gli ultimi ritocchi sul viso
agli attori, un giovane e una ragazza. Sì, l’età è più o meno giusta,
quella nostra, mia di allora, pensa il vecchio seduto in disparte su un
sasso guardando quella gente scombinata che va su e giù dandosi
sulla voce. «Hai messo il 24?» «No, mi avevi detto 35.» «Metti il 24,
sbrigati!» «Messo il 24!» «Avanti, avanti!» «Motore!» «Partito!»
«Scena 19 - Take 2.» «Azione!» Ora, in basso sotto di lui, vicino al
fiume, i due attori si preparano a ripetere la scena e a risalire lo
scosceso ghiaione, la ragazza un po’ davanti al giovane. Ma lui
guarda soprattutto oltre e dietro di loro, là dove il piccolo fiume si
allarga in una conca sotto la roccia da cui precipita in una piccola
cascata, bianca come la neve e in fondo, nella conca, subito verde,
una luce scura.
Quante volte si è arrampicato su quelle rocce – anche con lei,
allora, una volta anche soli o quasi soli, gli altri due amici, ancora in
basso, erano voci lontane. È curioso di vedere come se la caverà
quello là, l’attore, quello che dovrebbe recitare la parte di lui stesso
tanti anni, già, decenni prima. Ma è soprattutto quel mosso bagliore
di acque e riflessi che gli piace guardare. L’occhio, ha detto quel suo
collega in un’applaudita conferenza, quando vede riconosce, le
immagini che arrivano alla retina sono un libro o frammenti di un
libro già scritto nella memoria e riposto nell’ombra di qualche
scaffale strazeppo da dove riemergono. Anche lei aveva occhi verdi,
chissà com’erano adesso. Comunque lei c’era ancora, da qualche
parte, gli aveva detto il regista che aveva cercato di contattarla,
anche lei superstite di quel quartetto di studenti nel lontano liceo
italianissimo della Trieste austriaca.
Grigio è l’albero della scienza ma sempreverde è l’albero della
vita, dice fra sé tornato a casa e seduto nella sua biblioteca,
chiedendosi perché quegli amati immortali versi, tante volte da lui
ripetuti e commentati davanti ai suoi allievi, lo mettano ora quasi a
disagio, lo facciano sentire fuori posto, una persona giusta al posto
sbagliato o viceversa. Vitalità sempreverde, vita che fiorisce senza
badare a chi sfiorisce e muore; radici fanno crescere un albero
grande e frondoso che toglierà spazio e luce ad altri alberi più deboli;
spaccano la terra, sradicando arbusti e smuovendo sassi, talora
squarciando strade. Quanto più rassicurante il grigio della scienza,
anche quando scopre cose terribili; verde di foreste diventate carta
gradevole e liscia sul palmo della mano che la sfoglia, piante
ordinate di un orto botanico. Frasi precise disciplinano il caos che
indagano, la parola sisma non fa crollare case e città a differenza del
sisma che studia. E le pagine invecchiano come le cose vive; fanno
orecchie d’asino, si sgualciscono, avvizziscono. Come la mia pelle,
pensa, osservando il dorso rugoso della sua mano.
Rilegge, nella sceneggiatura, le scene che ha visto girare in Val
Rosandra, tra il fiume e le rocce. Azione! La voce del regista gli
ricorda il comando gridato dagli ufficiali nelle trincee della Grande
Guerra. «I ragazzi cominciano a risalire, più lentamente della prima
volta. Con lo sguardo del giovane, la camera isola le rocce,
ingrandisce in un primo piano un cespuglio di foglie rosse, poi torna
sulla ragazza che scivola su un masso bagnato, getta un grido, sta
per cadere all’indietro, il ragazzo la prende per le braccia e la
trattiene dalla caduta, poi le sue mani passano oltre i fianchi e la
stringono sui seni, appoggiandole il viso sul collo con un’aria
ammiccante; la ragazza volta la testa e ricambia il suo sguardo con
un’occhiata complice e compiaciuta, poi socchiude la bocca.» Glielo
ha detto subito, al regista, là tra i sassi. «No, no, la cosa non va.
Sinceramente non mi sarebbe neanche venuto in mente, allora, un
gesto così, una simile confidenza con una ragazza. Mi sarebbe
piaciuto, come no, ma a quei tempi non… non era così. Non si
usava, ecco. Non in quel modo, almeno, così… così spicciativo…
Quello sguardo furbastro, poi! E una ragazza perbene, una
studentessa di liceo, avrebbe magari tirato uno schiaffo o fatto finta
di tirarlo. No, allora non era così. Pensi che, a scuola, ci si dava
spesso del Lei, con una ragazza, poi! Non dico fosse giusto o
meglio, anzi… Ma è Lei che mi ha chiesto di dire com’era allora…
Capisco, per evitare errori, atteggiamenti stonati o difficilmente
immaginabili a quell’epoca… Cose da ragazza romana di adesso e
non da ragazza triestina-tedesca degli anni Dieci…» «Già, già»,
aveva risposto frettoloso il regista, «non vogliamo mostrare legionari
romani con l’orologio al polso come in Scipione l’Africano.»
Lui non aveva tanto badato al regista, quanto allo sguardo della
giovane attrice, che li aveva raggiunti dopo lo stop. Canzonatorio,
quello sguardo, ma anche, o forse si illudeva, incuriosito, quasi
tenero. Grandi occhi verdi come quelli di lei allora, un verde più
sbiadito, no, più chiaro. Com’era lei, quella volta, in Val Rosandra?
Era questo che voleva sapere il regista, per poter ricreare
l’atmosfera di quegli anni, gesti gusti atteggiamenti di una
generazione lontana non tanto nel tempo quanto nel modo di essere,
che la Grande Guerra e il caotico dopoguerra avevano sconvolto e
cancellato come il mondo prima del diluvio. Lui aveva attraversato
quel diluvio, l’arca sconquassata lo aveva riportato alla terra,
passando fra innumerevoli cadaveri – terra divenuta un mare di
sangue, sul Carso a Verdun a Leopoli tomba di popoli. Tanti, tanti
morti. E perché non io?, si chiedeva spesso, certo ben contento di
essere sopravvissuto alle ecatombi sul Carso ma non sapendo più
bene chi fosse ora quell’uomo che portava il suo nome e
domandandosi se a ritornare non fosse stato invece l’uomo che
durante quei tre anni di guerra aveva un altro nome, quello fittizio
che egli, arruolatosi volontario nell’esercito italiano, si era dato per
non essere identificato, qualora fosse caduto prigioniero, come un
cittadino austriaco, un triestino; traditore e disertore, destinato alla
forca. Forse non era ritornato veramente nessuno dei due, né il
soldato decorato con la medaglia d’argento né lo studente
irredentista che aveva voluto diventare quel soldato; in ogni caso,
chiunque dei due fosse, non aveva riconosciuto la terra in cui l’arca
lo aveva gettato come il grande pesce aveva sputato Giona sulla
spiaggia.
«Com’era quel tempo, allora?» gli aveva chiesto il regista nella
locanda vicina al ponte sul fiume, che dopo la piccola ma impetuosa
cascata scorreva leggero. Ma se non c’è più quel tempo, se non
esiste, si può dire cos’era, com’era? Il non-essere non è, diceva
nell’aula accanto alla sua il collega di filosofia, non è mai stato. E io?
Eppure… A casa legge quella sceneggiatura con la matita in mano
per segnare a margine quello che non va. Certo, egli è abituato ad
altre letture. Dopotutto il suo saggio sul Doktor Faustus, uno dei
primi su quel romanzo demonico e compìto, gli ha meritato una
celebre lettera di elogi di Thomas Mann e lui, studioso di Goethe e
Rilke, studente all’Università Carolina di Praga dove aveva
insegnato il grande August Sauer, maestro della filologia tedesca
prima della Grande Guerra, potrebbe non essere un lettore
equanime di sceneggiature cinematografiche, con le loro prevedibili
battute di dialogo, le loro aride prescrizioni e i loro suggerimenti di
facili effetti. Ma lui sa che, sullo schermo, quel ciuffo di sommacco,
quelle foglie rosse di passione, che nelle note del copione sono così
banali, diventano vive, tremano nell’insondabile intensità della loro
vita così breve, di cui nessuna parola – neanche le sapienti arcate
sintattiche del suo Thomas Mann – può cogliere il segreto.
Sfoglia la sceneggiatura. Lei, la viennese con la sigaretta, il vento
le scompiglia i capelli, è lei quel vento, il suo piede quando si toglie
la scarpa, la neve sui suoi capelli. E quando si scuote le palle di
neve dal collo e dal seno. E loro a gridare «A morte l’Austria!» e a
dire che le donne non son niente, giusto per darsi un tono da maschi
come si deve…
Legge con interesse, in qualche momento anche con tenerezza,
quella storia, chiedendosi se sia proprio la sua o almeno la loro, di
loro quattro e dunque anche la sua. La loro storia vera – vera? – più
confusa e lontana di quella ora messa su carta per il film. Strati di
tempo s’interpongono tra lui e la sua, la loro storia di allora; veline
sempre più sbiadite di un presunto foglio originale. La stessa storia,
no, non la stessa, ora più incerta ora più imperiosa, qualche
brandello illeggibile, qualcos’altro più chiaro. Altre parole, altre cose
nella sua testa si sovrappongono a quelle che sta leggendo; non
molto diverse, quasi le stesse ma non le stesse, dolorosamente
altre. Quell’anno nella Trieste absburgica, non molto tempo prima
dell’inizio della Grande Guerra, e loro quattro in quell’anno,
compresa l’escursione in Val Rosandra quando, insieme a lei, era
riuscito a seminare gli altri due – per niente, poi. Insomma, quasi
niente. Già, allora non si usava… E qualche anno più tardi la guerra,
le trincee sul Carso, cento morti per conquistare una quota, altri
cento per riperderla due giorni dopo, i suoi soldati imbestialiti dalla
perdita dei compagni, arrivati in sei a quella postazione nella roccia
dove era rimasto solo un ufficiale austriaco; in centosette erano
partiti al suo assalto, stavano per scannare quell’unico superstite con
le baionette e lui, il loro tenente, aveva dovuto impedirglielo
puntando contro di loro la pistola. Si sono anche reincontrati dopo la
guerra, lui con la medaglia d’argento e l’austriaco ancora vivo, avere
ancora indosso la propria pelle non vale meno di una medaglia,
tanto più che la medaglia lui non se la metteva mai con i fascisti in
giro a spaccare teste insozzando l’Italia e il suo nome. «Sie haben
mein Leben gerettet», gli ha detto l’ex nemico; era di Graz, chissà
com’è finito, se è finito.
Sì, la Grande Guerra è uno spesso velo tra lui e le cose, di allora e
non solo di allora; specialmente fra lui e sé stesso, quel sé stesso di
quegli anni che sembravano così aperti al futuro, un futuro che loro
avevano sognato di pace e di fraternità, con gli slavi nati dalla e nella
loro stessa terra, affacciati sullo stesso mare, Mare Nostrum
Jadransko More, e con gli altri popoli, in una nuova Europa libera e
pacificata. E per questo sogno erano stati pronti a sacrificare sé
stessi e milioni di uomini, grande rogo su cui si sale per morire come
un re. Un re sconfitto, Mare Nostrum e Jadransko More ribollenti di
onde ancor più di prima, onde furiose, mar incrosà.
«Sa perché mio figlio si chiama Adam?» gli aveva detto
quell’uomo che lui aveva sottratto alla furia dei suoi soldati. «Quando
sono partito da Graz per il fronte mia moglie era incinta e le ho detto
che, se era un maschio, avrebbe dovuto chiamarsi Adam, perché
quella era l’ultima guerra della Storia, dalla quale sarebbe nato un
nuovo Eden, il nuovo Adamo, un uomo nuovo fratello di tutti gli
uomini.» Lo credevamo anche noi, pensa il vecchio. Già, il nuovo
Adamo, l’Italia all’olio di ricino, Hitler, Stalin, Auschwitz, la Risiera,
unico forno crematorio esistito in Italia. Serpenti tentatori
dappertutto, nel nuovo giardino dell’Eden – il Carso, la Galizia, la
Somme, paradisi terrestri imbevuti di sangue, poi ne sono venuti altri
ancor più infernali. Ne sa qualcosa lui, celebrato studioso del Doktor
Faustus; ne ha visti tanti, di demoni persuasori, sbracati e allucinati o
in doppiopetto, ipnotizzatori ipnotizzati, nero formicolio di ratti drogati
che seguono e spingono il pifferaio verso il loro mattatoio,
macellando intanto per strada quelli che incontrano.
No, dalle macerie della guerra non era nata alcuna nuova vita
vera, nessun libero suolo per uomini liberi – con quanta enfasi aveva
letto e ripetuto tante volte ai suoi allievi quelle parole del vecchio
Faust, che lo avevano così infiammato, che li avevano così
infiammati quando sui banchi del liceo avevano letto quei versi, la
visione di quel vecchio nuovamente vecchio dopo essere stato
ringiovanito da un imbroglione. Un diavolo, non a caso, che in cuor
suo diceva sempre a tutto di no, ma che si divertiva a convincere
tutti a dire sempre di sì, sì a tutto, con entusiasmo – i soldati
marciano e cantano allegri avviandosi al carnaio, quel battaglione è
già falciato ma un altro sta arrivando, cantando e dicendo di sì… Sì
a quella cura Voronoff, sei vecchio sarai giovane sarai di nuovo
vecchio, col tuo libero suolo liberato, poco importa da chi e da cosa,
a parte che si vedono assai pochi uomini liberi, piuttosto schiavi e
aguzzini e schiavi che si liberano dalle catene per diventare
aguzzini. Già, strappare terra al mare, vaneggiava nel poema il
vecchio ringiovanito ora di nuovo vegliardo, e se due anziani sposi
non vogliono cedere al suo grandioso progetto la piccola casa del
loro amore felice ci pensano i suoi bravacci, il potere ne trova
sempre. E la piccola zolla dell’orto pretende di ostacolare il grande
terreno per le cattedrali del futuro che grattano il cielo, fabbriconi,
torri tv – e una piccola zolla, una casetta di legno di due vecchi,
pretende di fermare il futuro? Si fa presto, è subito sporca di sangue
che si asciuga ed evapora in fretta. E se il coltello e le bombe non
bastano, come ai tempi primitivi della mia giovinezza nelle trincee, il
persuasore ha pronti rotoli e rotoli di carta, danaro di carta più
tagliente delle spade – capita spesso di tagliarsi con la carta più che
con i coltelli – e la terra liberata ed emersa dal mare è subito
squarciata all’ingrosso, alberi e foreste cadono e tutti felici di essere
imbrogliati all’ingrande.
Sì, d’accordo, il peggio è venuto dopo, orrore senza pari e senza
nome, ma almeno aveva un senso morire e uccidere perché il
mondo intero non diventasse Auschwitz, mentre noi e loro, sul Carso
a Verdun sui laghi Masuri, tutti uguali, tutti buoni, tutti giusti, tutti a
fare la guerra per il bene di tutti. Quando aveva capito questo, il
male nato dal bene, la menzogna detta per amore della verità, si era
sentito svuotato, un sacco vuoto che non sta in piedi. Poi il futuro
calato come una ghigliottina, sipario chiuso dopo lo spettacolo e loro
quattro dietro quel sipario, sul palcoscenico vuoto – no, loro tre, lei è
sgusciata via fra le pieghe del sipario, si è mescolata e continua
forse a mescolarsi tra la folla. Sì, ressa calda e sudata, d’accordo,
ma calda vita, mentre noi soli, spariti, irreperibili nel teatro deserto.
Maschere, neanche, attrezzerie riposte nel deposito costumi del
teatro, poca differenza fra lui e gli altri due amici passati intanto a
miglior vita.
Alcuni anni dopo la guerra, uno di loro tre – medaglia d’oro, la sua,
e anche lui l’aveva poi messa in un cassetto quando le Camicie Nere
avevano tinto di nero pure il Tricolore – aveva ripescato dall’acquario
d’anteguerra la loro storia, loro quattro divenuti personaggi in un
buon romanzo di discreto successo. Un altro strato fra lui e sé
stesso; quelle pagine in cui può leggere la sua storia di allora sono
un paravento, una coltre calata fra lui e la sua vita. Non è certo colpa
dell’amico scrittore, il migliore di loro tre; il romanzo è bello, forte, ma
lui, leggendolo e ammirandolo, ha la sensazione che anche quelle
pagine gli abbiano sottratto un po’ della sua vita, un bel ritratto dietro
il quale il volto si nasconde.
E ora il film, la sua celluloide, altra palata di terra sulla sua vita,
sulla loro vita. I loro volti, no, altri, altre voci. Si chiede come la
prenderebbero gli altri due se, come si dice, fossero ancora fra noi,
lo scrittore che ha riscritto e rimaneggiato la propria vita e quella
degli altri, e il terzo, quello che si era sparato per lei e che è morto
nel suo letto quasi sessant’anni dopo. Grande traduttore – di
letteratura tedesca, si capisce. Già, tradurre; un altro scrivere, una
ricerca di verità che ne scopre una sempre un po’ diversa,
necessariamente contraffatta. La verità è sempre un po’ bugiarda. E
quello sparo… chissà come risuonerà, nel film. No, i due amici che
da tempo sono spariti in avanscoperta non avrebbero apprezzato di
vedersi sul set e poi c’è lo schermo, con altre facce, altre voci, altri
gesti. Lui invece sì; anzi è incuriosito, un po’ solleticato da questo
sdoppiamento e pure, sotto sotto, dalla vanità, anche se non sa
bene di che cosa potrebbe pavoneggiarsi. Non è un professore
nostalgico e antiquato, gli va benissimo che alle nove Muse se ne
aggiunga una decima e che un altro si metta nei suoi panni.
Tantomeno è turbato dall’incontro con quell’attore che dovrebbe
recitare la sua giovinezza. È un giovanotto qualsiasi, non sa niente
di quell’epoca e in fondo non capisce la storia che sta recitando, ma
anche lui allora non ne capiva certo molto di più e se potesse per
caso incontrare il sé stesso di quella volta, questi gli apparirebbe
altrettanto sbadato ed estraneo quanto l’attore. Comunque…
No, non è il suo sosia, è un altro. Ce ne sono veramente due, di
altri, uno in quella pagina ciclostilata e presto pure un altro nelle
sequenze del film – il regista gliene ha fatto vedere un paio, è difficile
capire qualcosa da quei pezzi slegati. Comunque lui, seduto in
poltrona a casa sua, nella sua biblioteca, non è né l’uno né l’altro, né
quel giovanotto romano che non gli sembra proprio Clark Gable né
quel personaggio ormai inafferrabile che è stato lui stesso e che lui
non è più. Anche al vecchio Faust sarebbe venuto un accidente se
gli avessero detto che quel giovinastro irresponsabile sciupa
Margherite era lui stesso rifatto e ritoccato. Quel giovanotto ripete
tante volte sul set la stessa scena, con disappunto dell’attrice che se
la cava molto meglio… Ma in fondo anche allora era andata così…
Tre ragazzi goffi e acerbi, con la testa piena di fantasticherie e di
libri, e una donna… Chissà cosa pensava e sentiva veramente lei…
Sì, si rende bene conto della propria goffaggine di allora o meglio,
corregge per consolarsi, di quella che ora sembrerebbe, anzi
sarebbe una vera goffaggine. Magari uno così, chissà, avrebbe
anche potuto piacerle, quella volta… Ma io…
Lei comunque non ne ha voluto sapere di incontrare il regista.
Dopo il loro ultimo anno di liceo ha studiato a Vienna e a Berlino, è
divenuta psichiatra, psichiatra infantile, nei decenni che hanno
distrutto in tutta Europa il mondo di quel liceo, e ha lavorato in vari
paesi. Ma al telefono, col regista, la voce ferma e gentile, è stata
irremovibile – ricordo tutto, di allora, e benissimo, ma lo ricordo
malvolentieri e non mi fa piacere parlarne.
Più di ottant’anni e nessun rimpianto, nessuna nostalgia o
assoluzione sentimentale del tempo che fu; niente di
quell’intenerimento per il passato che dimentica e fonde in un’unica
commozione i conflitti di un tempo. Il regista è rimasto deluso, glielo
ha anche detto, ma è pure affascinato da quel diniego e ha pensato,
o almeno così ha detto, che un film su Trieste dovrebbe forse
raccontare questa presenza sempre aperta e acre del passato,
quest’impossibilità che le cose vadano a smussarsi e le ferite a
rimarginarsi, trasferendosi dal cruento disordine del tempo che sta
scorrendo all’ordinata pace del tempo già trascorso. Tutto ancora
presente, senile ma aperto e acerbo.
I tempi triestini non si susseguono, ma si allineano l’uno accanto
all’altro, come i relitti dei naufragi che il mare lascia sulla spiaggia.
«Nebeneinander», ha detto il regista che ha doverosamente letto il
suo Joyce; tempo che si fa spazio, eventi accatastati l’uno vicino
all’altro, magazzino della Storia, oppure – ha aggiunto, con la sua
deformazione professionale – deposito di pellicole cinematografiche,
con le loro storie di epoche diverse e girate in tempi diversi eppure
affiancate e contigue l’una all’altra, disponibili al lavoro di montaggio
e ad arruffarsi una nell’altra.
Il regista, venuto a casa sua per strappargli qualche osservazione
e qualche ricordo, se n’è andato. Anche lui vuole uscire; non ama
restare troppo a lungo a casa, prende la vecchia edizione del
romanzo e i fogli della sceneggiatura e va al Caffè. Là dentro il
tempo si è rappreso ancora di più, grumi distinti e adiacenti;
muoversi fra i tavoli e i loro occupanti, uscire ed entrare da un’epoca
all’altra. Fuori, sul mare, il vento spinge via le nubi, increspa le onde
e fa fuggire le spume una dopo l’altra, in un orizzonte terso; luce di
nordica lontananza, trasparenza della vita, promessa vana di tutto
ciò che manca. Al Caffè si è protetti da quella luce e da quel vento,
da quell’orizzonte che si cancella, ed è gradevole leggere, cosa che
là fuori non sarebbe possibile e non solo perché il vento
scompiglierebbe le pagine.
Il libro fra le sue mani è rilegato, le righe delle sue pagine sono
una rete dalle fessure troppo sottili per lasciar filtrare il limaccioso
fiume del tempo, che scorre e s’incaglia sotto quel graticcio. La
sceneggiatura è un ciclostilato sbrindellato, le poche parole e righe
nella pagina sono intervallate da grandi spazi bianchi e da quegli
squarci, da quei vuoti sguarniti trabocca lo scorrere informe degli
anni, che si susseguono e si condensano in uno spessore opaco.
Laggiù, in quello spazio sotto i fogli bianchi che ora viene
illuminato e dove ora si muovono gli attori, c’era l’attesa del tempo,
della vita che doveva venire. La scuola stava per finire e poi sarebbe
venuta la vita. Non soltanto quella personale di ognuno, ma quella di
tutti. Non era soltanto l’amore per la ragazza che lui e gli amici
avevano condiviso, ma qualcosa di più grande, il sogno del futuro, di
una grande vita dello spirito che sarebbe sbocciata, come la
genziana tra le pietre aride del Carso, da quella loro città trafficante,
meticcia e patriottica. In parte ciò era poi anche accaduto, come
dicevano le storie letterarie che riportavano i loro nomi – anche
quella solo carta, da appallottolare e gettar via, nel cestino, si
capisce. Con ordine. Quell’attorucolo, invece, certamente butta le
cicche per terra. Oh Dio non che…
Vita verde, annunciata da molti maestri che avevano letto e
discusso insieme, i loro Nietzsche, Ibsen e altri profeti sulle pagine
dei quali mettevano in gioco i loro giorni, le loro vite, togliendo le
bucce alla loro anima per trovare il cuore, il centro, anche quello solo
un’ultima buccia da togliere e buttar via, dopo la quale non c’è
niente. Tanti annunci della fine di una civiltà – dopo la quale non
c’era stato alcun nuovo inizio. Almeno per me, per noi. Verità del
disagio e del tramonto – anche del nostro. Pretendere di vivere è da
megalomani. Sì, la strada Costiera alta sul mare, che si apre
d’improvviso dopo Sistiana… promessa incantevole, non sarà
mantenuta. Quando noi morti ci destiamo. Basta un film qualunque a
farlo capire?
La loro vita bloccata a quel tempo di allora, come quando si blocca
la proiezione di un film e le immagini sono ferme, un sorriso irrigidito
su una bellissima bocca, uno sguardo congelato. Solo lei, pensa
continuando a leggere e a rileggere la sceneggiatura, sembra
muoversi in uno spazio diverso. Solo lei, la straniera che sarebbe
andata via, a Vienna, a Milano, a Berlino o chissà dove, aveva un
futuro. Loro tre, invece, già postumi, la loro vita bruciata nell’attesa e
nella preparazione della vita, prima che questa venisse. Rosso
dell’aurora, no, rosso della sera. Perdonatemi, perdonate anche a
noi che si sia fatta sera. Quel giovane di allora, lui, io, rimasto in un
film interrotto – immagine non finita, bloccata sul confine di un’ultima
pagina o di un ultimo fotogramma, come in quegli incubi in cui si è
incollati al suolo, si vorrebbe correre ma non si può. E lei… in fondo
non la invidia. Andarsene, fuggire probabilmente non basta. Non è
certo che il suo libero e corposo destino sia stato più felice di quello
cartaceo di loro tre. La carta fa pieghe in cui ci si può rifugiare,
orecchie d’asino troppo piccole per nascondersi però gradevoli al
tatto, così stropicciate. Tutto sommato meglio stare al Caffè che
nella Storia.
Non gli spiace vivere nell’irrealtà. Anche nella sceneggiatura
Trieste non c’è; manca ogni sfondo o carrellata sulla città, si accenna
soltanto a qualche scorcio di tetto, al profilo di una statua
neoclassica contro il cielo, a un pezzo di mare dietro una testa in
primo piano, all’interno di un portone liberty. Il regista gli ha spiegato
che si tratta di mancanza di soldi: la tv non è la Paramount, per fare
sgomberare le automobili e restituire alle strade un credibile aspetto
di prima della Grande Guerra occorrono cifre esagerate e il regista
ha fatto di necessità virtù, riprendendo qualche singolo frammento
che evochi, suggerisca, lasci intravvedere la Trieste di allora. Ne
risulta l’immagine di una città bellissima, che non esiste e nella quale
è contento di vivere. Dissolvenza. Il cinema gliel’ha insegnato. Un
bel finale, la dissolvenza, si permetterà di suggerirlo al regista.
Anche delle nostre vite, della mia vita.
Però gli è anche piaciuto assistere alle riprese e rivedere quelle
scene prima del montaggio. Sempre mentitore, perché mette in
ordine ciò che non ha e non può – non deve? – avere ordine: gli
anni, i minuti, le storie, le gocce di pioggia, il frangersi di un’onda, la
pelle liscia e la pelle vizza. Carta o celluloide, fa poca differenza.
Guardare gli piace, ma non gli basta. Sì, i suoi occhi verdi, i suoi seni
– di tutte e due, una che non sa niente dell’altra e l’altra che di lei
non sa quasi niente, sa solo di recitare una parte. Sì, vedrà volentieri
quel film, a cose fatte; le immagini, i colori. Ma vedere, solo vedere,
è un po’ poco. Toccare, palpare, sentire l’odore… Che odore aveva
lei allora, arrampicandosi sudata su quelle rocce, il suo collo vicino al
mio viso… Non so, non ricordo, gli odori hanno vita breve. Quello di
Magda, l’attrice, tra il fiume e le rocce della Val Rosandra, c’è
ancora, mi è passato sul viso… Non è possibile, lo sa, non c’è
memoria dell’odore; è solo un po’ di fregola di un vecchio e perché
uno dovrebbe vergognarsi? E se, nonostante l’età… Già, i miei nipoti
troveranno quelle fotografie… e anche quelle poesie nel mio
cassetto. Poco male, anche loro sono grandi abbastanza per sapere
come va il mondo e quelle poesie avrebbero potuto scandalizzare
solo gli insegnanti di allora, adesso i ragazzi scrivono di sicuro ben di
peggio. I miei nipoti non so, ma… e quelle poesie… un po’ brutte, lo
so, anche se… pure le fotografie, in fondo… comunque, in generale
non si dovrebbe mai sapere. Non si deve mai sapere tutto di chi se
ne è andato… Lo schermo non ha odore, meglio così, specie nelle
immagini che la ritraggono accanto a quell’altro, a quello là che
dovrei essere io. Sinceramente sono, ero meglio. Lui però si muove,
sale scende e risale su quelle rocce, cinge Magda alla vita…
Le riprese sono finite. Così presto, pensa. «Per la produzione», gli
ha detto il regista, «ogni giorno in più è un salasso.» Una troupe,
anche le mere comparse che non dicono una parola, può essere
ingaggiata solo per una settimana e dunque bisogna tagliar corto.
Tagliar corto, la migliore cosa da fare, in ogni circostanza. Ma lui
vorrebbe vedere com’è sullo schermo quella scena girata, mesi
prima, in inverno, sul piccolo, minuscolo lago di Percedol, sul Carso.
Gelato in quel giorno boreale, bianco e blu nel tardo pomeriggio,
quasi sera, come quella volta. Lei con un maglione rosso sfreccia sul
ghiaccio, sfiora i rami dei pini ai margini della conca; fugge e ritorna,
offre la mano ora all’uno ora all’altro di loro tre, sfugge alle loro dita,
è già inafferrabile per loro che traballano goffi e pesanti sul terreno
scivoloso. Vicinissima e lontana, come sarebbe bello saper ballare,
ballare veramente. L’ora è sempre più buia, la sottile figura rosso
cupo fra i rami verde scuro dei pini protesi sulla piccola pista
ghiacciata, la neve di sera è azzurra, un azzurro sempre più tenebra,
dal terreno gelato si alza una minima foschia, dai rami qualche
pezzo di neve cade nella sera. Sì, come gli sarebbe piaciuto
pattinare, ballare su quel ghiaccio ormai blu, come gli piacerebbe
ancora di più adesso, con lei che traccia ghirigori su quel ghiaccio.
Ci si bacia veramente, le ha chiesto nella piccola osteria dov’erano
andati a bere un vin brulé per riscaldarsi, quando si recita una scena
d’amore? «E voi due, quella volta, vi siete davvero baciati?» ha
replicato l’attrice. Lui cercava non tanto di ricordarlo, tutto era così
vago, confuso come la neve bluastra della sera, ma di capire cosa
avrebbe dovuto dire. «Non è un problema, né sul set né altrove», gli
ha detto lei, e gli ha dato un bacio leggero sulla bocca, solo sulle
labbra. Non che… però…
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