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INTERNO NOVECENTO

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ISBN 978-88-85583-XX-X
Sergio Corazzini

IO NON SONO
UN POETA

A cura di Alessandro Melia


L’ANGELO IN ESILIO
di Alessandro Melia

In una notte di primavera del 1905, mentre Roma


era avvolta dall’oscurità e i lampioni faticavano a illu-
minare i vicoli polverosi e sudici, un giovane si aggirava
con passo leggero. Aveva la testa piegata verso destra,
in un atteggiamento di contemplazione, e osservava
le stelle: non gli parevano così distanti. Era convinto
che presto le avrebbe raggiunte. Il cielo, immenso e
spietato, lo attendeva. Intorno regnava il silenzio. Di
giorno le strade echeggiavano di grida acute, strepiti,
strascicamenti; c’era un gran via vai di carretti trainati
da asinelli e venditori di ogni tipo di merce: tappezzieri
con stoffe dai colori sgargianti, macellai che vendeva-
no carne sanguinolenta, maniscalchi, carpentieri, vinai,
droghieri. Nell’aria si respirava un odore pungente di
pesce sotto sale. Di notte, invece, la città si spegneva,
sprofondando in un sonno profondo. Le luci si con-
sumavano lentamente lasciando alla luna il compito
di rischiarare il profilo dei palazzi, delle chiese e delle
rovine. Il giovane attendeva trepidante le ore notturne
perché nel silenzio delle vie addormentate aveva la
sensazione che il tempo gli concedesse una pausa, e la
vita fosse consacrata all’immortalità.
“Sergio, dove vai? Resta un altro po’ con noi” gli
avevano detto gli amici seduti in fondo alla sala del Caf-
fè Sartoris: c’erano Alberto Tarchiani, Gino Calza-Bini,
Fausto Maria Martini, Antonello Caprino, Alfredo

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Tusti e Donatello Zarlatti. Animati da un intenso fer-
vore letterario, si ritrovavano la sera per bere Pernod,
fumare sigarette Capstan e atteggiarsi a bohémien, vestiti
di tutto punto. Mentre gli altri discutevano di riviste da
fondare, il giovane si era avvicinato alla cassa, aveva
pagato il caffè con un biglietto nuovo da cinque lire e
si era incamminato verso una delle chiese abbandonate
che tanto amava. Aveva sentito la mente ardere e i versi
farsi strada nella sua bocca. Un’incantevole gioia di
vivere lo stava chiamando e lui gli correva incontro, a
braccia aperte.

È così che dobbiamo immaginare Sergio Corazzini,


il poeta fanciullo. La sua breve esistenza, testimoniata
da un centinaio di poesie, si può riassumere in un collo-
quio costante con la morte. Corazzini nacque il 6 feb-
braio 1886 e morì, a ventuno anni, il 17 giugno 1907.
Un giorno scrisse: “La mia vita sarà, senza dubbio,
di assai breve durata”. Era già malato di tubercolosi,
come Novalis, come Keats. Ma Corazzini non voleva
morire. Fu costretto a morire di quel mal sottile che
sterminò anche il fratello Gualtiero e la madre Caroli-
na. Solo il padre, Enrico, che lo costrinse a lasciare gli
studi e a cercarsi un lavoro a causa delle sue sciagurate
speculazioni di Borsa, ne rimase immune. Ancora a
pochi giorni dalla morte, Corazzini era proteso verso
la vita. Si era commosso al passaggio delle prime ron-
dini e scriveva nuovi versi a letto. Il morbo non aveva
intaccato quel briciolo di forza che teneva celato nella
sua anima.

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Nell’unico ritratto a nostra disposizione, la figura
di Corazzini ci appare come quella di un giovane dal
volto pallido, con i capelli bruni adagiati sulla fronte
larga come un’onda morbida. Le labbra sono carnose,
le guance paffute, gli occhi grandi e pieni di vita. C’è
timidezza infantile nello sguardo, ma anche un certo
orgoglio. La posa è da poète maudit, come l’immagine del
Rimbaud adolescente. In entrambi i poeti si ha la sen-
sazione di osservare la vita che sboccia e prende forma:
se in Rimbaud è la vivacità e la sfrontatezza a prevalere,
in Corazzini è la bontà e la profondità dello sguardo. È
una creatura delicata ed è così che lo descrivono anche
gli amici, con quella faccia un po’ reclinata, la voce cal-
da e soave, l’andatura incerta come il volo dell’allodola.
Aveva la smania dell’eleganza: indossava ampi cappotti,
camicie dal colletto alto, cravatta a papillon; a volte si
presentava con il bastone e il garofano all’occhiello. È
per quell’aria da dandy che l’amico Fausto Maria Mar-
tini lo ribattezzerà il semidio.
Sergio Corazzini visse con la famiglia in via dei
Sediari 24, a pochi passi da Piazza Navona. L’edificio
non esiste più, fu demolito negli anni Trenta per rea-
lizzare Corso del Rinascimento. Altri luoghi di Roma
che hanno fatto parte della sua vita sono stati la scuola
elementare di via della Palombella, dietro il Pantheon;
la tabaccheria gestita dal padre in via del Corso, tra il
Caffè Sartoris e la gioielleria Suscipi; il Caffè Aragno in
via del Corso 180 (che serviva birra di Vienna e buffet
alla francese); l’ufficio della compagnia di assicurazioni
La Prussiana dove fu assunto come impiegato, al quar-

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to piano di un palazzo di via del Corso (di fronte a
dove abitò Goethe); infine le chiese abbandonate o le
cappelle private che Corazzini amava visitare: San Saba,
Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a
San Giovanni.
Nel 1901 Roma contava 422.411 abitanti. Era una
città ancora piccola, divisa tra la zona antica, rossastra,
dove risplendeva il fascino delle rovine al sole, e quella
di nuova costruzione, con i palazzi nudi e le strade
vuote, dove si camminava tra la terra e l’erba fino alla
campagna. Ogni inverno il Tevere esondava allagando
non soltanto le abitazioni costruite a ridosso del fiume,
ma anche il centro. “È una città che trasuda umidità
e odore da caverna ma all’interno dei palazzi si sente
l’immensità” annoterà Émile Zola nel suo diario alla
fine dell’Ottocento.
Come nella migliore tradizione della Belle Époque,
da Parigi a Vienna, da Praga a Berlino, sono i Caffè il
centro della cultura. A Roma i giovani scrittori si ritro-
vavano al Caffè Sartoris e al Caffè Aragno, dando vita
a veri e propri cenacoli letterari. In quei saloni fumosi
passavano ore a discutere di poesia e letteratura; leg-
gevano le gazzette dell’epoca (Marforio, Trasteverino,
Fracassa, Rugantino, Vita letteraria, Rivista di Roma)
e ne fondavano di nuove. Mai una generazione aveva
avuto così cieca fiducia nel progresso. Il tenore di vita
delle famiglie era in costante ascesa, i giovani guarda-
vano con favore alle arti e alle scienze. Stefan Zweig
lo definirà il mondo della sicurezza, dove “nessuno
credeva a guerre, rivoluzioni, sconvolgimenti e la vita
era veramente degna di essere vissuta”.
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Corazzini amava sua madre. Da lei aveva ereditato
la bontà, l’umiltà francescana, l’educazione religiosa e
una certa malinconia. Più di una volta l’aveva difesa
o consolata quando il padre, un uomo meschino e
volgare, tornava disperato per aver perso i soldi e la
incolpava di aver portato in casa la tubercolosi. La si-
gnora Carolina, detta Lina, era una donna esile, pudica,
malaticcia; vide morire due dei suoi tre figli e infine si
arrese anche lei, nel 1924. Solo il padre sopravvisse ma,
dopo aver sperperato tutti i soldi che aveva, agonizzò
di stenti e finì in un ospizio di mendicità. Eppure pochi
anni prima la famiglia Corazzini aveva un alto tenore di
vita, che consentiva a Sergio e a suo fratello Gualtiero
di frequentare il collegio a Spoleto. Il padre, oltre alla
pensione di ex impiegato alla Dataria pontificia, era
amministratore delle tenute di casa Del Drago e gestiva
la tabaccheria di via del Corso. Quando cominciarono
le difficoltà finanziarie, ritirò i figli dagli studi e impo-
se a Sergio non solo di lavorare, ma di versare a lui
metà dello stipendio da impiegato della compagnia di
assicurazioni La Prussiana, che ammontava ad appena
90 lire al mese. Costretto a dividersi tra la cella triste
di via del Corso e la casa di via dei Sediari, Corazzini
scriveva di giorno e poi nascondeva i versi tra le pra-
tiche di lavoro. L’ufficio era una stanzetta buia e tetra
nell’ammezzato di un vecchio edificio, per accedervi
bisognava salire per una scaletta a chiocciola aperta in
fondo alla portineria. È in quello spazio cupo e squal-
lido che nasceranno alcuni versi dei Soliloqui di un pazzo
(«Il mio cortile è triste molto, come / il suono di una

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placida campana / sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
/ Una bianca tristezza senza nome / veste i muri»). Ma
è anche lì che Corazzini sarà costretto a nascondere i
libri acquistati alla libreria Bocca di piazza Colonna, te-
mendo che il padre potesse sequestrarli. Sergio leggeva
Pascoli e D’Annunzio, i francesi Samain, Jammes, Ma-
eterlinck, Rodenbach, Guérin, Laforgue, Klingsor, ma
anche Novalis, Baudelaire, Gide, Maupassant, Balzac e
il Nietzsche di Al di là del bene e del male e La Gaia scienza.
Un giorno il capoufficio quasi lo sorprende a scrivere
versi; Corazzini fa appena in tempo a nascondere il fo-
glio nel copialettere. Su quel foglio, che la sera leggerà
agli amici – attoniti nell’ascoltarlo mentre passeggiano
per una strada campestre – c’è la Desolazione del povero
poeta sentimentale, la sua composizione più celebre («Per-
ché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io
non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi:
non ho che lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu
mi dici: poeta?»). Come ha rilevato Edoardo Sangui-
neti “egli coglie, per la prima volta, in opposizione al
dannunzianesimo trionfante, il nodo della moderna
poetica crepuscolare, che è il rifiuto stesso della poesia
in nome di povere tristezze comuni”.
È sempre la morte a scandire il ritmo della vita. “Io
penso ogni giorno a morire, come, aprendo la finestra,
si pensa al sole”. È lei la sua compagna fedele, non Sa-
nia, la giovane straniera della quale si invaghisce mentre
si trova a Nocera. Qui si era rifugiato per scappare dal
morso della tubercolosi: “Io non so quello che acca-
de, ma un invisibile vampiro mi succhia lentamente e

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continuamente il sangue, ed io mi trovo ogni giorno
più prostrato”. Niente sembra migliorare il suo stato
di salute. In una lettera all’amico Giuseppe Caruso, lo
stesso a cui Corazzini aveva confidato mesi prima che
le sue liriche nascevano dalle passeggiate campestri
notturne alla ricerca di piccole chiese, scrive angoscia-
to: “La mia mente è folle. Sento fuggirmi la vita. Io
confido di morirmene in un mese”. Ci vorrà ancora un
anno, il tempo di lasciare la sublime Elegia e una man-
ciata di poesie che preludono alla nascita di un nuovo
filone poetico, come Sera della domenica, Bando, Il sentiero,
ma soprattutto La morte di Tantalo, scritta sul letto di
morte e pubblicata postuma.
Dopo la sua morte, gli amici che lo avevano ve-
gliato fino all’ultimo, accompagnarono la bara da via
dei Sediari al cimitero del Verano, dove fu seppellita
in un loculo temporaneo. Tredici anni dopo le ossa
di Corazzini vennero riesumate e trasferite definitiva-
mente nell’ottavo colombario (ossario 25, fila II) dove
giacciono ancora oggi.

La produzione di Sergio Corazzini, in termini di


raccolte, è racchiusa tra il 1904 e il 1906. In quel breve
lasso di tempo escono Dolcezze (diciassette liriche),
L’amaro calice (dieci liriche), Le aureole (dodici liriche),
Piccolo libro inutile (otto liriche, le altre sono dell’amico
Alberto Tarchiani), Elegia (una composizione unica di
ottantatré versi) e Libro per la sera della domenica (dieci
liriche). Nella presente edizione si è deciso di inserire
anche le due poesie scritte pochi giorni prima di mori-
re: Il sentiero e La morte di Tantalo.
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A partire dal 1902, quasi esclusivamente sulla rivista
Marforio, vengono invece pubblicati cinquantasei tra
sonetti e stornelli romaneschi, poco considerati dalla
critica del tempo perché perlopiù abbozzi, imitazioni,
tentativi di Corazzini di giungere a un tono proprio.
Tuttavia in questa antologia sono state recuperate tre
composizioni (Vinto, La chiesa, Il cimitero) in cui è già
possibile rintracciare la natura lirica e crepuscolare del
poeta.
Rispetto alla rottura con la metrica tradizionale e al
bisogno dei crepuscolari di porre al centro le fragilità
dell’uomo, esprimendo un netto distacco dall’ideale
dannunziano che innalza la vita a un’opera d’arte, in Co-
razzini c’è anche un’inarrestabile necessità di esprimere
la propria vicenda autobiografica. Il tono è dimesso e
malinconico perché la malattia incombe e alla morte
non si può sfuggire; non può sfuggire la carne, non
può sfuggire l’anima e non possono sfuggire le piccole,
tristi e rassegnate cose. Neanche l’atto poetico, che nei
primi componimenti arriva quasi a un’identificazione
con la stessa vita (da Dolcezze: «Il mio cuore è una rossa
/ macchia di sangue dove / io bagno senza possa /
la penna, a dolci prove // eternamente mossa») può
salvarsi da un destino inevitabile (da L’amaro calice: «O
piccolo cuor mio, tu fosti immenso / come il cuore di
Cristo, ora sei morto»). È da questo punto in poi che
Corazzini decide di abbandonare lo schema metrico a
favore del verso libero.
Stefano Jacomuzzi – al quale dobbiamo la pubbli-
cazione completa e corretta nel 1968 dell’intero corpus

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di poesie di Corazzini (le tre edizioni delle Liriche pub-
blicate postume dall’editore Ricciardi hanno evidenti
omissioni) – ha notato che “il termine morte, con le
sue declinazioni e i suoi sinonimi, cadono con una
media di due presenze per ogni poesia”. Anche altri
termini si ripetono di continuo: dolce, dolcezza, ma-
linconia, puro, sogno, triste, tristezza, piccolo, povero,
lacrime, pianto, piangere, chiesa, ombra, buio. Ecco
quindi venirci incontro espressioni come «l’anima
pura», «la triste e solitaria via», «la casa piccola e sola»,
«le semplici cose», «il dolce sospirare» «l’ora crepusco-
lare», «il fanciullo triste», «la malinconia mortale», «le
povere lacrime salate», «l’agonia misteriosa delle cose».
Gli oggetti diventano lo strumento con cui evocare
immagini o riflettere lo stato d’animo del poeta, che
non è altro che un fanciullo che si sente morire giorno
dopo giorno. Le sue poesie sono variazioni di morte.
Nelle ultime composizioni, da Elegia – che segna
lo spartiacque tra la precedente produzione poetica
e quello che sarà il suo libro di versi – a La morte di
Tantalo, Corazzini dialoga con una figura femminile: la
sua anima, la «dolce amica», la compagna di una vita. Se
Elegia è percorsa da un inarrestabile sentimentalismo e
da una profonda nostalgia («Verrà la pace con le mani
giunte, / ma non la udrai, tu, piccola, venire. / Tornerà
sai, quotidianamente / un poco, senza dirti nulla») –
ne La morte di Tantalo, pubblicata postuma, il poeta
fa ricorso al racconto biblico e ai miti per cercare un
senso alla vita. Siamo dentro a una visione, a un sogno,
che ha le angosciose sembianze della realtà, in cui il

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poeta e la sua donna (la sua anima) si rendono conto
che non c’è una spiegazione alla loro morte e che per
vivere l’eternità è necessario rinunciare ai beni terreni.
È questo il messaggio che un Corazzini stremato dalla
malattia decide di lasciare ai vivi. Pochi giorni dopo la
morte, l’amico Aldo Palazzeschi scrisse: “La letteratura
italiana ha visto passare un angiolo e la sua immagine
vi rimarrà sempre”.

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IO NON SONO
UN POETA
PRIME POESIE
Vinto

Mamma questa è la vita?! Allor la santa


felicità infantile non perdura?
Il riso che irradiava la mia pura
fronte, non verrà più ?! Ah mi si schianta

l’anima, mamma mia, ed ho paura!


Io mi sento morire. Quanta, quanta
dolce felicità di bimbo, ha infranta
con l’andar della vita, la sventura!

Oh non credere mamma ch’io sia vile!


No! Te lo giuro. Ho avuto sempre fede
in questo Dio che mi fa spasimare!

Io sono come un albero sottile;


cui cadono le foglie e che le vede
cader senza poterle richiamare.

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La chiesa

Era una chiesa breve: un bianco altare


si disfaceva in un’oscura e lenta
rovina; una Madonna sonnolenta
pareva, come il Figlio, agonizzare.

Cristo Gesù moriva la sua lenta


morte vicino al solitario altare,
ogni cosa pareva agonizzare
ne la piccola chiesa sonnolenta.

Era quell’agonia dolce, tranquilla,


fatta di pace e di rassegnazione;
l’agonia misteriosa de le cose.

Era come un morir di silenziose


vergini, cui da le ferite buone
sfuggisse il sangue puro a stilla, a stilla.

II

Prossime al fine hanno una voce anco


le cose, e un pianto triste che le bagna;
una notte (sognava la campagna,
e avean le stelle un gran lucore bianco)

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il campanile che posava al fianco
de la piccola chiesa, o pia compagna!
come un bimbo malato che si lagna
suonò d’un suono dolorante e stanco.

La più dolce rugiada che mai sia


scesa dai cieli, silenziosamente
tremolò su le rose. (Era una santa

lagrima?) Aveva un suono d’agonia


il campanile... All’alba sorridente
il sole illuminò la chiesa infranta.

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Il cimitero

O morti ignoti, senza


croci, senza corone
fiorite ne le buone
primavere,

o morti, a dipartenza
vostra non pianse occhio,
non si piegò ginocchio,
non bocca ebbe preghiere!

O morti, solo, io porto


fiori alle vostre fosse,
oggi, son rose rosse –
che tu buon sole aprivi!

E pure io sono il morto


fra questi ignoti spenti,
e voi, morti giacenti,
siete i vivi!

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DOLCEZZE
Il mio cuore

Il mio cuore è una rossa


macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove

eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s’arrossa
sempre a passioni nove.

Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,

che la mia penna avrà


uno schianto stridente...
... e allora morirò.

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La gabbia

Ben salda era di grétole e di staggi


la gabbia, a primavera, se di fuori
benigno sole offriva a’ bei canori
pennuti la dolcezza di suoi raggi;

ma poi che nostalgia di viaggi


tenne i cari a Leonardo cantori,
fuggiron via pei cieli ampi e sonori,
desiosi di più limpidi maggi.

Or fatta muta de’ suoi canti onde era


superba, come di sue corde, lira,
la gabbia triste e pur fidente sta:

come l’anima mia che più non spera


e continuamente si martira
in un desio di giocondità.

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Acque lombarde

Acque serene ch’io corsi sognando


ne la dolcezza de le notti estive,
acque che vi allargate fra le rive
come un occhio stupito, a quando a quando,

o nostalgiche acque di sorgive
mormoranti nel verde un sogno blando,
acque lombarde ch’io vo’ sospirando
sempre, tanto il ricordo in cor mi vive,

di voi l’anima dice acque stagnanti
ne’ verdi piani de la Lombardia,
di voi fonti gioconde scintillanti

a’ dolci soli del fiorito maggio
e su voi la sognante anima mia
muove per suo spiritual viaggio.

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La madonna e il suo lampioncello

Umilmente la Vergine pregava,


e ne la voce avea tanto dolore,
e il suo cuore, trafitto, sanguinava.

«O lampioncello, fallo per mi’ amore,


tu se’ il compagno mio, tu sei la stella
che mi dà pace con il pio chiarore;

tu sei fratello, io sono tua sorella,


senti: ho paura di stare all’oscuro,
senza il raggietto de la tua fiammella!

Ardi, ed il cuor dolente rassicuro,


ardi, ti prego, lampioncello rosso,
come il cuor di Gesù, tremante e puro...»

Ma il lampioncello sospirò: «Non posso».

II

E Maria seguitò umilemente:


«Perché non puoi? Se tu sarai buono,
come una stella ti faccio splendente

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e il tuo disobbedire ti perdono.
O lampioncello, o lampioncello mio,
mi sembra di sentir, lontano, il tuono!

Qui sono sola ed assai lunge è Dio!


Qui sono sola, assai lunge è il mortale;
sono fatta d’oblio, d’oblio d’oblio...

Non un passero batte la su’ ale


contro il mio volto, o lampioncello rosso,
ardi! Ho tanto timor del temporale...»

Ma il lampioncello spasimò: «Non posso».

III

La sera dopo, era una sera mite,


piena di trilli, piena di fiammelle,
di voci mai prima d’allora udite,

umilmente, una mano, una di quelle


mani che sanno spesso l’altra mano,
una mano tranquilla che il ribelle

gesto non seppe mai, piano piano,


il solitario lampioncello accese:
s’udì una prece, dolce, un passo umano

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lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese

fuoco: Maria suavissima non c’era...

IV

Umilmente chiamò, umilmente


attese. Pensò perché mai Maria
fosse fuggita senza dirgli niente,

la sua dolce compagna, la sua pia


sorella! Aveva dunque una sì folle
paura de la solitaria via?

E il lampioncello, disperato, volle


giungere al cielo con la sua fiammella...
Ah, se fosse mai nato su quel colle!

Pregò ancora: «Maria, buona sorella,


ti farà luce il lampioncello rosso,
oh vieni, vieni, la serata è bella!»...

Ma la Madonna singhiozzò: «Non posso».

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Cremona

Cremona, non è Antonio Stradivari


oggi ne l’aria con i violini
maravigliosi? – palpitano fini
melodie per i cieli – o da li altari

osannano i soavi cherubini


del Boccaccino che ne li occhi ignari
hanno l’azzurro tremulo dei mari
e sanno i regni che non han confini?

Cremona, evvi un’assai dolce malia


oggi ne’ tuoi rosai, dolce così
ch’io ne sento vanir l’anima mia

beata sognatrice intenerita


de l’azzurro che a’ miei occhi fiorì
come ne li occhi d’una sulamita.

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Ballata della primavera

O Primavera, Sandro Botticelli


sentì fiorire in cuore i tuoi rosai
poi che ti seppe come niuno mai
ne la soavità de’ suoi pennelli.

Ancor io, giovinetta, una fiorita


di mammole e di rose ebbi nel cuore
e m’era dolce assai tuo venimento
e m’era triste assai tua dipartita;

non oggi, o Primavera, ché il Dolore


come tarlo nel cuor rodere io sento
quasi per demoniaco incantamento;

non oggi, o Primavera, ché di spine


fatte del mio buon sangue porporine
come Cristo ho corona ai miei capelli

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I solchi

Un desiderio di seminagione
teneva i solchi aperti ne l’attesa
de la buona promessa; oh la tua rude
mano, figlio de’ campi, che si schiude
al seme come il labro a la parola,
ancora è lunge da la sacra impresa,
ma verrà come il grano a la sua mola.

Soavità de la dedizione!
I solchi aperti – (ha bene le sue culle
la terra madre) – te buon seme avranno!
Vi sarà un po’ di biondo anche quest’anno
intorno a la tua casa a larghi lampi
avran le falci mietitrici sulle
spighe ben colme, o nato sacro ai campi!

O lontananza de’ seminatori!


Quante albe passate in una vana
speranza e quanta disperazione
di tramonti! Fioriva la canzone
su le bocche giulive ampia e serena,
o solchi, ma fioriva assai lontana
tanto lontana che giungeva a pena.

E l’ansia d’un mattino?! Eran le cose


bianche e quiete come ne l’indugio
un po’ triste de l’alba, tanto che

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pareva un’alba. I solchi aperti ne
gioirono. Sarà fra poco, forse
adesso! Oh l’interminabile indugio!
Un brivido la Terra avida corse.

Bocche d’umani aperte ne l’attesa


d’un puro bacio ignoto, mani aperte
da l’imo d’un abisso tenebroso,
pupille aperte senza mai riposo,
cuori aspettanti, cuori doloranti
ne l’attesa di gioie ultime e incerte...
O trascorrere lento degli istanti!

Pace, il seme verrà! Eccolo, o solchi


su di voi ne la mano che lo serra
tenacemente; il seme buono è raro
e ben colmo dev’essere il granaro
anche quest’anno! Fra le dita buone
ecco già scorre e cade su la terra
aperta per la fecondazione...

O solchi, il seme è sacro ora che in voi


s’accolse, il seme è sacro, poi che un giorno
sarà spiga, sarà forse farina
e pane! O solchi aperti a la divina
opera, penso – (o come il cuor mi preme
acuta doglia!) – penso e vedo intorno
a me fratelli chiusi ad ogni seme!

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Dolore

E sol melanconia m’aggrada forte.


Cino da Pistoia
I

Voglio dirti in segreto


de la dolce follia
che mi fa triste e quieto

tanto; vedi, la mia


anima è nel mio cuore,
il cuore è nella mia

anima, e se dolore
l’anima un poco sente,
soffre un poco anche il cuore,

bimbo, quietamente.

II

Io, vedi, soffro molto,


e più soffro e più sento
che soffrirei; se ascolto

il mio vaneggiamento
continuo, senza tregua,
senza un breve momento

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di pace, e se dilegua
poi non so come, pare
che l’anima lo segua

oltre il cielo, oltre il mare.

III

Io porto tanto amore


a una crocetta d’oro
che s’apre, sul mio cuore.

È un tenue lavoro,
non è un ricordo, no,
come l’ebbi, l’ignoro.

Io l’amo perché so
che croce fu dolore,
e assai ne spasimò

un mio dolce Signore!

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Chiesa abbandonata

Din, dan, don, dan, o la piccola voce,


Santa Maria de la Concezione
o, sapiente lunga orazione
sotto immobili cieli, ferrea croce;

altari bianchi come anime, buone,


o santi lieti nel martoro atroce,
o Gabriel, sotto il cui piè, feroce
ghigna il ribelle con le luci prone;

corone d’oro, manti di broccato,


cuori trafitti, bocche dolorose,
occhi con occhi in adorazione,

oh nulla, nulla sopravvisse al fato


ne la tetra rovina de le cose,
Santa Maria de la Concezione.

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Il fanciullo suicida

«A Torino, un fanciullo di quindici anni si gettava dalla


finestra, disperando di raggiungere i suoi alti ideali».

I suoi compagni non avean chimere,


non nutrivano in cuore ardite voglie,
erano tante piccolette foglie
fiorite in un medesimo verziere.

Ma il fanciullo, sdegnoso, nelle altere


luci sognava di abbaglianti soglie,
ed attendea la pura man che coglie
fiore da fiore ne le primavere.

O il sogno vano! L’anima impotente,


ruggiva de la sua tetra sconfitta,
e il cuore, oh il cuore, lagrimava sangue!

Il bimbo disperò perdutamente,


e la debole fibra derelitta
sentì costretta da insaziabil angue.

II

Oh, la gloria e la morte, in loro arcano


fascino hanno le illusioni istesse!

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Quanta di sogni ardimentosa messe
nasce in un cielo e muore in un pantano!

Quietamente il bimbo a morte elesse


la giovinezza sua fiorente in vano
ne l’estasi d’un sogno sovrumano
che la fantasiosa anima eresse.

Un sera, s’uccise. Ne l’azzurro


passava e ripassava un’allegria
di rondini. S’udì nell’aria un pianto,

un grido, un tonfo sordo, un gran sussurro


di popolo dolente... Ne la via
come il suo sogno, egli si giacque, infranto.

43
Follie

Madonna, in vano anelo


vostre dolci parole;
per me non v’è più sole,
per me non v’è più cielo.

Io sono come avvolto


in un sogno, in un sogno
triste; io non agogno
più nulla; io non ascolto

più nulla. Il cuore trema


a volte, forte: io penso
che sia la fine, io penso
l’unione suprema.

...........................

Oh la piccola bara,
ricordo, i tetri cerei
e gli arazzi funerei,
e poi la folla ignara

e la dolente, l’organo
molle e profondo, i chini
frati benedettini
che par da terra sorgano

44
ne la penombra delle
colonne, fra gli altari
fiammeggianti, con vari
aspetti; e le sorelle

candide, per i banchi


lunghi, oranti, soave
coro, ne la lor grave
veste e la corda ai fianchi,

e tu, e tu, mio amore,


piccola, tra le rose
la mia mano pose
su la fronte, su ’l cuore,

ne le mani conserte,
sopra i piedini lievi
– e tu non le vedevi
con le pupille aperte –

rose dovunque, fra i


capelli ch’io non sciolsi,
capelli per cui colsi
rose odorate mai,

su la bocca che rise,


che rise e poi si tacque
come gorgoglio d’acque
d’un sùbito divise,

45
su gli occhi dolci, avvinti
da una visione
ignota e poi corone,
di gigli, di giacinti,

una pioggia di petali,


e tu, e tu, mio amore
che godevi nel cuore
d’una gioia secreta

intensa, immensa e pura!


O morta ch’eri in cielo
e nel mio cuore anelo
di te, di te, creatura,

per cui arsero tutte


le mie fiammee voglie
e cadder come foglie
le speranze distrutte.

.............................

E poi la terra breve,


il cipresso diritto
come lancia, lo scritto
sopra il marmo di neve,

la croce che non seppe


Gesù, le spine, i chiodi,
i pianti che non odi
di chi, di chi non seppe
46
adorarti a bastanza
e le tombe e i cipressi
immobili lungh’essi
i viali ove danza

monna Morte ghignando,


e i cancelli che stridono
a ogni bara, a ogni grido
lugubre a quando a quando,

i fiori gialli che


il morto volle seco
per dirsi: «altrove io reco
fiori di terra», e

le lampadette, stelle
di cimitero, tetre
su le gelide pietre,
lugubri sentinelle,

e le grandi, notturne
ali, solcanti l’ombra
paurosa che ingombra
le tombe, i marmi, le urne...

Madonna, perdonate
se vi pensai, se forse
troppo il pensiero corse.
Madonna, perdonate.

47
Io vi vidi, tranquilla
in una bara, morta,
e vi sognai risorta
e il sogno ancor m’assilla

onde vano e il martoro


che l’anima dilania,
insana è questa smania
per le tue ciglie d’oro,

per le pupille gravi


di ombre, or nella morte
profondamente assorte
come quando sognavi,

per la tua bocca rossa


che non ho mai baciata
e che pure m’ha data
la dolorosa scossa,

per le tue mani stanche,


per le tue mani molli
che toccare non volli
(erano tanto bianche!),

per la voce che mai


non seppi, per i gesti
ignoti, per le vesti
che avevi e che ora avrai

48
nella semplice bara
fiorita; in somma tutto
amo di te, il mio lutto
sei tu, piccola cara!

............................

Ohimè, dolce Madonna,


perdonate se forse
troppo il pensiero corse
pensandovi, Madonna.

Voi siete il Sole, io sono


un pazzo che lo segue
e non concede tregue
allo spirto mai prono,

e come suo bagliore


i cieli azzurri infiamma,
s’agita la gran fiamma
del mio inutile amore!

49
Scritto sopra una lama

Lama, fulmin d’acciar, anima tersa


e fredda come un’anima di bianca
sacerdotessa, o lama, dimmi, stanca
non fosti mai di star nel sangue immersa?

Io t’odio, t’odio, eppure a questo orrore


un’invidia di pazzo s’accompagna;
sei più grande di me, lama di Spagna,
perché tu forse hai penetrato un cuore!

50
Immagine

da P. Bourget

La rondine di mare che ieri, mia dolente,


volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,

erra sempre a la sorte del suo tenero volo?


brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?

o pur, libera, dopo lungo palpito d’ale,


giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,

ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?...


A me, vedi, la piccola rondinella di mare,

stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve,


l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,

a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito,


cuore di donna, cuore acceso d’infinito,

cuor nostalgico in preda al doloroso senso


di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!

51
Giardini

O piccoli giardini addormentati


in un sonno di pace e di dolcezze,
o piccoli custodi rassegnati
di sussurri, di baci e di carezze;

o ritrovi di sogni immacolati,


di desideri puri e di tristezze
infinite, o giardini ove gli alati
cantori sanno di notturne ebbrezze,

o quanto v’amo! I sogni che rinserra


il mio core, fioriscono, o giardini,
lungo i viali, ne le vostre aiuole.

Io v’amo, io v’amo, o fecondati al sole


di primavera in languidi mattini,
o giardini, sorrisi de la terra!

52
Per musica

Tu m’hai scritto così: «Or che spezzato


è questo nostro amor fatto di ebbrezze,
io ti rimando i baci che m’hai dato
io ti rimando tutte la carezze».

Piccola bimba mia sempre malata,


una cosa ti sei dimenticata.

La prima cosa che ti ho data, o amore,


ti sei scordata di ridarmi il cuore!

53
Il campanile

Il prete bianco s’affacciò, protese


le faticate braccia sì soavi
ai cieli e mormorò: – parvero gravi
le sue parole quanto mai – «Le offese

perdono, come già Tu perdonavi,


ho vestito un ignudo, a chi mi chiese
la spiga ho dato il pane, ai venti ho stese
le mani e assai rimproverai gli ignavi.

Colmo è l’ovile, ma la porta è aperta!


Un’agnella fuggì ieri – ben sai –
ma stamani tornò nel buono ovile».

Disse il vecchio e la mano bianca e incerta


levò per benedire come mai
il villaggio, la chiesa e il campanile.

II

Un ruinar precipite di frane


ignote, il lungo rombo nella notte
pallida e il campanile vide rotte
a terra immote le sue due campane

54
cadute senza grida e senza lotte,
così, come due stanche anime umane.
Oh non verranno più da le lontane
case le donne per la messa, a frotte!

Irto per la sua doglia, muto, solo,


come l’ira che in cuor chiuso si cuoce,
il campanile si pensò usignuolo

privo del canto buono e fu maggiore


la pena poi che non avea la voce
onde gridare al mondo il suo dolore.

55
Asfodeli

Madonna, se il cuore v’offersi,


il cuore giovine e scarlatto,
e se voi, con un magnifico atto,
lo accettaste insieme a’ miei versi

di fanciullo poeta, e se voi


con l’olio del vostro amore
teneste vivo il suo splendore
e lo appagaste de’ suoi

capricci assiduamente,
perché ieri lo faceste
sanguinare, lo faceste
lagrimare dolorosamente?

Tutte le sue gocce rosse


caddero a terra, mute,
poi che furono cadute
il cuore più non si mosse

e come per incantamento


in ognuna fiorì un asfodelo,
il triste giglio del cielo
da l’eterno ammonimento.

56
L’AMARO CALICE
a Cesare Chiappa
Invito

Anima pura come un’alba pura,


anima triste per i suoi destini,
anima prigioniera nei confini
come una bara nella sepoltura,

anima, dolce buona creatura,


rassegnata nei tristi occhi divini,
non più rifioriranno i tuoi giardini
in questa vana primavera oscura.

Luce degli occhi, cuore del mio cuore,


tenerezza, sorella nel dolore
rondine affranta nel mio stesso cielo,

giglio fiorito a pena su lo stelo


e morto, vieni, ho spasimato anch’io,
vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.

61
Rime del cuore morto

O piccolo cuor mio, tu fosti immenso


come il cuore di Cristo, ora sei morto;
t’accoglie non so più qual triste orto
odorato di mammole e d’incenso.

Uomini, io venni al mondo per amare


e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come il mare.

Ma l’amor onde il cuor morto si gela,


fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano!
Come un’antenna fu il mio cuore umano,
antenna che non seppe mai la vela.

Fu come un sole immenso, senza cielo


e senza terra e senza mare, acceso
solo per sé, solo per sé sospeso
nello spazio. Bruciava e parve gelo.

Fu come una pupilla aperta e pure


velata da una palpebra latente;
fu come un’ostia enorme, incandescente,
alta nei cieli fra due dita pure,

ostia che si spezzò prima d’avere


tocche le labbra del sacrificante,
ostia le cui piccole parti infrante
non trovarono un cuore ove giacere.
62
Cappella in campagna

Giù dall’antica grata, estenuati


i fiori morti, sull’altare, il Santo,
dolcissimo nel suo nitido manto,
con gli occhi un po’ velati, un po’ velati

forse, chi sa, da qualche umano pianto;


due ceri gialli, senza fiamma, a i lati,
due ceri senza fiamma, inanimati,
come i cuori che mai sepper lo schianto.

La ghirlandetta d’una verginella,


sfiorita a pena a pena, intorno a i biondi
capelli di una nitida madonna;

nel mezzo, una colonna; una colonna


sfinita, in essa un pio nido di rondini,
solo, coperto d’erba tenerella.

II

Venni non so per quale sogno assai


dolce al mio cuore umile; fu ieri
mattina; volli portare due ceri
nuovi, due ceri bianchi come mai

63
e due rose – ho i miei piccoli rosai
anch’io – due rose bianche come i ceri;
sembravano fiorite in monasteri
chiuse, le rose, in languidi rosai.

Oh la fiamma purissima, oh il profumo


novo ch’io seppi nella breve stanza
che la mano soave ricompose!

La Madonna, un po’ triste fra le rose,


disse: Che vale tua dolce esultanza
s’io per dolore sempre mi consumo?

III

Su i candelabri, i ceri arsero in pura


fiamma, come due cuori amanti; tutti
arsero, e per un poco su i distrutti
avanzi andò la fiamma malsecura.

Nell’aria fu un odor di sepoltura


e il cuore ripensò tutti i suoi lutti,
come il pesco ripensa i dolci frutti
nella feconda estate moritura.

Le rose giovinette, ne la pia


solennità, esalarono la breve
anima; oh gli atti e le preghiere vane!

64
Quanta tristezza scese nella mia
anima, quando da non so qual pieve
giunse pei cieli un suono di campane!

IV

Una fascia di sole, ancora; una


striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,

più nera. Ho nel cuore una tristezza


intensa immensa come mai nessuna
tristezza; oh non potrebbe ora la luna
scendere un poco da la dolce altezza?

Distinguo a pena la Madonna, ha immoti


gli occhi lucidi come lame, come
le sette spade che le stanno in cuore;

intorno, un po’ d’argento luce: i voti


de gli umili, de i buoni senza nome
ch’ebbero ancora fede nel dolore.

65
Il cuore e la pioggia

O mia piccola dolce casa, vergine rossa


c’hai vergogna e ti celi in un manto di foglie
qua e là strappato, ancora nell’occhio si raccoglie
un pianto triste e il cuore prova una fredda scossa

s’avvenga che ripensi le tue diserte soglie,


il tuo muto giardino, la terra non rimossa
da tempo grande, come la terra d’una fossa,
la fossa ch’ogni mia dolce speranza accoglie.

Piccola casa rossa che il molle abbraccio tenta


del fiorito viale con mille incantamenti,
nell’ora triste in cui mi parve uscir di vita,

non io rossa ti vidi, ma come se una lenta


lagrima assai t’avesse corse le guancie ardenti,
mi sembrasti d’immenso dolore impallidita.

St. Moritz

66
Ballata del fiume e delle stelle

L’antichissimo fiume nella sera


estiva si sentì stanco di andare;
era tanto lontano ancora il mare,
e quella notte così dolce era!

Le luminose vennero al notturno


appuntamento e, come uno strano
desiderio superbo le tenesse,
convennero sul fiume taciturno

ove come in un ciel novo e lontano


tutte si rimirarono riflesse.
L’orgoglio suo, l’alta sua gioia espresse

il fiume: «Ben divenni un cielo anch’io!»


All’alba, come pianse quando il pio
lume svanì nella cinerea sfera!

67
A Carlo Simoneschi

Carlo, malinconia
m’ha preso forte, sono
perduto; così sia.

Carlo, un giorno ch’io sia


più tenero, più buono,
più docile nel perdono,
che in un lungo abbandono
ancora ignoto io dia,
malinconico dono,
tutta l’anima mia,
quel giorno, amico, prono
mi vedrai nella via
morto di nostalgia
e di malinconia.

Poi che, Carlo, ben sono


perduto, così sia.

68
Toblack

... E giovinezze erranti per le vie


piene di un grande sole malinconico,
portoni semichiusi, davanzali
deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso, un’infinita
messe di croci e di corone, un lento
angoscioso rintocco di campana
a morto, sempre, tutti i giorni, tutte
le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno
di speranza e di consolazione,
un cielo aperto, buono come un occhio
di madre che rincuora e benedice.

II

Le speranze perdute, le preghiere


vane, l’audacie folli, i sogni infranti,
le inutili parole de gli amanti
illusi, le impossibili chimere,

e tutte le defunte primavere,


gl’ideali mortali, i grandi pianti
de gli ignoti, le anime sognanti
che hanno sete, ma non sanno bere,
69
e quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,

è nelle tue terribili campane


è nelle tue monotone fontane,
Vita che piange, Morte che cammina.

III

Ospedal tetro, buona penitenza


per i fratelli misericordiosi
cui ben fece di sé Morte pensosi
nella quotidiana esperienza,

anche se dal tuo cielo piova, senza


tregua, dietro i vetri lacrimosi
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.

Sempre, così finché verrà la bara,


quietamente, con il crocefisso
a prenderli nell’ultima corsia.

A uno a uno Morte li prepara,


e tutti vanno verso il tetro abisso,
lungo, Speranza! la tua dolce via!

70
IV

Anima, quale mano pietosa


accese questa sera i tuoi fanali
malinconici, lungo gli spedali
ove la morte miete senza posa?

Vidi lungo la via della Certosa


passare funerali e funerali;
disperata etisia degli Ideali
anelanti la cima gloriosa!

Ora tutto è quïeto: nelle bare


stanno i giovini morti senza sole,
arde in corona la pietà de’ ceri.

Anima, vano è questo lacrimare,


vani i sospiri, vane le parole
su quanto ancora in te viveva ieri.

71
La chiesa venne riconsacrata...

al poeta Corrado Govoni

Il sagrestano pazzo
traversò la chiesa oscura,
lentamente, con il mazzo
delle chiavi appeso alla cintura.

I frati, ne le piccole celle,


dicono le orazioni
de la sera, poi, quando le stelle
prima de l’Ave Maria
stanno su le cose terrene,
ogni monaco viene
al suo piccolo letto,
nitido come un altare,
e accende il luminetto
a la Vergine Maria,
che non fa che lagrimare
perché ha sette spade in core
che le dànno acerba doglia,
sempre acerba e sempre lenta!
Poi ognuno si spoglia,
e ognuno s’addormenta
nella pace del Signore.

L’acquasantiera di bronzo, tonda,


sembra un occhio lagrimoso
che il suo pianto silenzioso
a stille su le fronti de gli uomini diffonda.
72
I confessionali, con le loro
tendine verdi un po’ sciupate,
con le piccole grate
gialle che ne l’ombra sembrano d’oro,
sonnecchiano allineati,
ognuno con le sue due candele
spente ai lati.
Sono essi, alveari ove ronzino, api, i peccati,
e l’assoluzione sia miele?

Un rosario di granatine
a i piedi del Crocifisso morente
sembra sangue gocciato lentamente
dalla fronte coronata di spine.

Un piccolo libro delle


Massime Eterne fu dimenticato
sopra una sedia, aperto.
È logoro. Certo,
è d’una delle solite beghine
che vengono la sera.
Fra le pagine c’è un Santo:
san Giovanni decollato;
dietro il Santo, una preghiera.
Il libro dimenticato
aperto, è l’unica bocca che parli
nella chiesa silenziosa,
è l’unico occhio che veda,
nella chiesa oscura,

73
la morte della creatura.

Il sagrestano recise la grossa


corda per cui pendeva davanti la figura
di Cristo, la lampada rossa
con la sua fiamma quieta e pura.
La lampada cadde con sorda
percossa su le pietre sepolcrali;
l’uomo con tre moti uguali
girò intorno al collo la corda
e penzolò nel vuoto.
Davanti il Crocifisso
sembrò un macabro voto
improvvisamente sorto
fra il Cielo e l’Abisso.

Poi che la lampada non c’era più


biancheggiò d’avanti Gesù,
piamente la cotta del sagrestano morto.

74
Sonetto d’autunno

Foglie e speranze senza tregua, foglie


e speranze; non hanno rami e cuori
cadute eguali allor che i primi ori
Autunno triste su la terra accoglie?

L’anima poi che nell’audaci voglie


si disfece con gli ultimi rossori
della sua giovinezza, in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie.

E resta il cuore e resta il ramo: soli


sospiranti in un intimo richiamo
la rossa estate e il suo vivere corto.

Ma se tornino i buoni e dolci soli


primaverili, rinverranno il ramo
pien di speranza e il cuore, invece, morto.

75
Isola dei morti

Il lampione di San Bartolomeo


non si rassegna alla sua mala sorte;
il tragico fanale della Morte
rinnovella il martirio prometeo?

Veglia se vada il funebre corteo


del morto ignoto oltre le fosche porte
ove già tante creature morte
stanno come in un fetido museo.

Su le pietre, dai luridi lenzuoli


cola il sangue nerastro degli umani
che agonizzaron, nella notte, soli.

Ritto, immoto, su l’isola terribile,


per i fratelli che sono lontani
arde il fanale d’odio inestinguibile.

76
LE AUREOLE
L’anima

a Guido W. Sbordoni

Tu sai: l’anima invano si martòra


di sogni; al mar non più le fragorose
acque dei fiumi giungon desiose
di confondere lor voce sonora

con quella che sì forte le innamora


da farle di ogni immagine obliose,
ma van per l’onda petali di rose
come se Ofelia vi dormisse ancora.

Tu sai: l’anima ben vide cadere


tutte le foglie e in ogni foglia un puro
desiderïo, fin che, in suo tormento,

le parve dolce figurarsi in nere


vesti, per sempre crocifissa al muro
di un lontano antichissimo convento.

81
Il fanale

a Alfredo Tusti

Torbido e tristo nella solitaria


via, davanti la porta del postribolo,
s’affioca e il buono incenso del turibolo,
forse, è la nebbia che fa opaca l’aria.

Mai sacerdote curvo per i sacri


facili gradi d’un superbo altare
seppe con dolce sapienza fare
omaggio a i freddi e vani simulacri.

Per i vetri mal chiusi, a tratti, un grido


fugge e ne trema il cuore del fanale
e pensa la corsia d’un ospedale
e un vuoto desolato nel suo nido.

Nido, ché, all’alba, sempre una leggiadra


bocca una cara nostalgia d’aprile
diffonde, giù, nel piccolo cortile
che sogna il sole e fosche nubi inquadra.

Forse è la stessa che l’ombra di rauchi


singhiozzi seminò, forse è la stessa
che fredda rise a una volgar promessa
e spasimò sotto i grandi occhi glauchi.

82
La notte, oh, quale triste cantilena
langue per le tre camere fumose
in fin che al suolo cadano le rose
disfatte sulla lunga veglia oscena,

in fin che su la solitaria via


strida la chiave dell’antica porta
e che la tua, fanal, fiamma sia morta
di passione e di malinconia.

Stelle! Non forse nell’orror notturno


di una turba briaca o di una muta
breve agonia, non forse t’è venuta
dolce una voglia, fanal taciturno,

di stelle? e non ti tenne un’amarezza,


grande e un odio pel tuo triste destino
e non ti parve poi, spento, al mattino,
di sentirti morire di tristezza?

Cuor che ti duoli, soddisfatto mai,


della vacuità de gli orizzonti,
oh, bevi alle tue buone e chiare fonti,
oh, cogli rose a’ tuoi bianchi rosai,

ma non guardare, non udire, va’


dolce e solingo e la tua lampa rechi
luce a te solo e invano gli altri, ciechi,
implorino la buona carità.

83
Spleen

Che cosa mi canterai tu


questa sera?
Amica, non voglio pensare
troppo: la prima canzone
che ricordi, antica,
non importa;
una di quelle canzoni,
che non si cantano più
da tanto,
che non fanno più schiuder balconi
da un secolo. Vuoi
darmi la nostalgia
di una canzone morta?

Sei triste, mi dai pena


questa sera; non canti, non mi parli...
Che hai? malinconia
di morire? Ti duoli
perché siamo soli?
Ricordi l’ultimo ballo
nel tuo salotto giallo
roso dai tarli?
Sai che è primavera?
Io non me n’ero accorto;
non ho rosai,
non ne ho avuto mai
nel mio triste orto.

84
Perché non suoni? Langue
di desiderio
quel tuo piccolo pianoforte esangue,
nell’ombra; o non così,
amica,
l’anima ci sospira nell’attesa
di chi
sappia farla vibrare?

Oh, che tristezza! Pare,


nel biancore lunare,
malata di etisia,
con tutte le sue porte
chiuse, la nostra via
diserta e quel fanale
solo e torbido pare
che attendendo la morte
ne vegli l’agonia.

85
Sonetto della neve

Nulla più triste di quell’orto era,


nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l’anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera


l’offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l’alba insidiò co’ ’l lieve


gesto la notte e, per l’usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara


l’orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.

86
La finestra aperta sul mare

a Francesco Serafini

Non rammento. Io la vidi


aperta sul mare,
come un occhio a guardare,
coronata di nidi.
Ma non so né dove, né quando,
mi apparve; tenebrosa
come il cuore di un usuraio,
canora come l’anima
di un fanciullo. Era
la finestra di una torre in mezzo al mare, desolata
terribile nel crepuscolo,
spaventosa nella notte,
triste cancellatura
nella chiarità dell’alba.

Le antichissime sale morivano


di noia: solamente l’eco delle gavotte,
ballate in tempi lontani
da piccole folli signore incipriate,
le confortava un poco.

Qualche gufo co’ i tristi


occhi, dall’alto nido
scricchiolante incantava
l’ombra vergine di stelle.
E non c’era più nessuno

87
da tanti anni, nella torre,
come nel mio cuore.

Sotto la polvere ancora,


un odore appassito, indefinito,
esalavano le cose,
come se le ultime rose
dell’ultima lontana primavera
fossero tutte morte
in quella torre triste, in una sera triste.

E lacrimava per i soffitti


pallidi, il cielo, talvolta
sopra lo sfacelo delle cose.
Lacrimava dolcemente
quietamente per ore
e ore, come un piccolo fanciullo malato.
Dopo, per la finestra
veniva il sole, e il mare,
sotto, cantava.

Cantava l’azzurro amante,


cingendo la torre tristissima
di tenerezze improvvise,
e il canto del titano
aveva dolcezze, sconforti,
malinconie, tristezze
profonde, nostalgie
terribili... Ed egli le offriva i suoi morti,
tutte le navi infrante,
naufragate lontano.
88
Una sera per la malinconia
di un cielo che invano
chiamava da ore e ore
le stelle, volarono via
con il cuore
pieno di tremore
le ultime rondini e a poco
a poco nel mare
caddero i nidi: un giorno
non vi fu più nulla intorno
alla finestra. Allora
qualche cosa tremò
si spezzò
nella torre e, quasi
in un inginocchiarsi lento
di rassegnazione
davanti al grigio altare
dell’aurora,
la torre
si donò al mare.

89
Dai «soliloqui di un pazzo»

Sbarrò nell’ombra i grigi occhi perduti:


l’alba coglieva con le dita bianche
le ultime stelle per i cieli muti.

Egli pensò che il cuor tremi alle soglie


dell’anima così, come le stelle
treman la notte, alle divine porte
fin che la pietosa alba le coglie.
«Hai visto tu passare le barelle,
o pazzo insonne, con le stelle morte?»

Chiarità di una lama, o tu che fendi


l’ombra maligna: io t’offro il mio cervello
oscuro e tristo per disegni orrendi.

Io non ho pace, l’anima è un pantano;


nell’anima stagnarono i ricordi,
subitamente; oh quante volte, pietre
vi hanno scagliato con secura mano!
Dopo, il silenzio per i tonfi sordi
sé avvolse in bende assai più gravi e tetre.

Un ragno tesse la sua tela folta


per il mio teschio e nella tela stanno,
morte stecchite, le idee d’una volta.

90
Mai più, mai più! su le terrene cose
l’occhio non sosta, l’occhio si dispera,
come un’ala ferita ai cieli tende.
Io voglio la tristezza delle rose
morte all’inizio della primavera
per farne una corona alle mie bende.

Il mio cortile con un po’ di cielo,


con poche stelle, a me sembra uno strano
fiore: corolla azzurra e grigio stelo.

Il mio cortile è triste molto, come


il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia.

Tu che mi ascolti non aver pietà,


non lacrimare delle mie sventure
come quel Cristo nell’oscurità.

Ah, quel Cristo, lo vedi? egli moriva


così, come ora, desolatamente,
quando venni alla cella che mi chiude.
Avea negli occhi una gran fiamma viva,
la fronte dolce e pur sanguinolente
e piaghe orrende per le membra ignude.

91
Non morì mai, non morrà più: mi guarda
nel buio e trema quando il lume trema
come i fanciulli se la sera è tarda.

A poco a poco si dissangueranno


le sue ferite per la doglia atroce
infin che un tarlo, – quando? – lentamente
roda i chiodi terribili che sanno
l’ossa dell’uomo e il legno della croce
e spezzi invano quel suo cuore ardente.

Chi mi parla dell’anima? Un impuro


ladro, forse, o un abate incipriato?
L’anima è morta ed io ne son sicuro.

Come una fonte semplice e tranquilla


donò la gioia alle riarse gole
degli umani e non seppe, ahimè! tenere
per la sua sete giovane una stilla!
Morì così, come un ignoto sole
spento su le fiorite primavere.

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?


Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?

Mi ricordo di te, sola; eri bionda


esile come un sogno giovinetto,
pallida come un astro mattutino;
te sola, nell’oscurità profonda

92
del mio cuore, t’accogli per diletto;
te sola, con il mio tetro destino.

Chi tenta l’ombra che stagnò nei trivi


in cui le donne come idee mal certe
più volte si volgean tentando i vivi?

Chi veste d’auree stole anche le immonde


case che il fango d’un amplesso cinge?
Chi l’oro ai figli della terra adduce?
Ah, sei tu, sole, che le più profonde
pupille ferme nell’eterna sfinge
avvivi, anima orgiaca della luce?!

93
Il fanciullo

a Guido Ruberti

Campane d’oro e tu le vuoi, sì, d’oro,


fanciullo, per il cuore che ti trema
d’ineffabile angoscia, oh, sì, campane
d’oro come i castelli de le fate,
pellegrino che vai senza una meta,
curvo e pensoso di un lontano lume
che brilli sulla porta di una casa
triste ma dolce al tuo martirio... oh, d’oro,
sì, le campane come le alte stelle!

Tu le ritroverai le tue sorelle


di un tempo, umili e buone e, forse, è il loro
riso che canta con le fonti e trilla
co’ i nidi e luce in fondo alla tua strada.

Fanciullo, apri il tuo cuore e in esso cada


l’ultima foglia dell’autunno: mai
più mortale tristizia accoglierai
lungo la siepe della eterna strada.
Tu vuoi morire, ecco, tu vuoi dormire,
solo, per sempre, con le tue corone
sfiorite e chiudi le pupille buone,
dolce, così, che sembra ti vanisca
l’anima, desolato pellegrino.

94
E sogni... e nella tua casa in un tetro
crepuscolo, le pallide sorelle
vanno inquiete per l’assente, il loro
dolce fanciullo che le consolava
con l’innocenza delle sue parole,
e ti cercano e guardano le stelle
che ti guardano, e toccano le cose
che già toccasti con le timorose
dita e non sanno che tu sei vicino.

Vicino sì, ma stanco, ma seduto,


ma ignaro. Oh! Dio, queste campane d’oro
come insistono... chi dunque ti vuole,
fanciullo, se non il tuo sogno?... Loro?!
Loro?! ma dove? non ti sei perduto?

Forse: perduto, e non puoi ritornare.


Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare.

Domani, se riprenderai cammino


curvo e pensoso di un lontano lume
che brilli sulla porta di una casa,
fanciullo, come il sogno divino
vorrai morire dopo un breve andare,
tanto solo e perduto ti sarai,
pellegrino che vai, che vai, che vai
simile al fiume che non trovi mare,
al seme che non possa fecondare
per un suo malinconico destino.
95
Verranno le sorelle a riguardare
su la soglia deserta se non torni,
dolce il fratello dei lontani giorni
ancora e sempre... e non potrai tornare.

96
Sonetto

a suor Maria di Gesù

Sorella, dolce riguardare il chiostro


che le vestite d’umiltà rinchiude,
oggi che aprile giovinetto illude
soavemente ogni martirio nostro!

E caro m’è pensar dov’io mi prostro


Gesù trafitto per le membra ignude
e ancor vorrei pellegrinare in rude
saio e domar mie carni a più d’un rostro.

Vorrei morirmi di melanconia,


vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene,

e le anime, sorelle in questa mia


doglia infinita di levarmi a volo,
dissetare col sangue delle vene.

97
Sonetto all’autunno

Dorma l’autunno e sogni ancora biondo


il dolce vecchio, e il sonno gli consoli
anche una gioia rapida di voli,
gli ultimi, Santo Stefano Rotondo.

Forse, domani non varrà un giocondo


subito trillo a risvegliare i broli,
forse, domani i nostri cuori, soli,
turberanno il silenzio profondo.

E noi, dolcezza, non lo desteremo


il soave malato che non ha
più la speranza della guarigione

come l’anima nostra senza remo,


e senza vele, che non tornerà
mai più nel porto di salvazione.

98
Alla serenità

Io t’ò nel cuore e tu, sole, mi scaldi


e le cose non oggi allo sfacelo
imminente rassegnansi: che cielo,
oggi! e che squilli! Nunziano gli araldi

giovinetti l’avvento che sognai?


Come tutto è soave, come tutto
mi canta in cuore! non m’hai tu costrutto
un nido nei novissimi rosai?

Stelle! che gioia! Quanto cielo e quanti


voli s’io chiuda gli occhi alla freschezza
di questa sera piena di dolcezza,
accolgo in essi ancor tristi di pianti!

Pianti lontani come le tue, nonna,


favole buone, come le mie pure
notti, oh, quiete delle creature
che una fata protegge e una madonna!

Serenità, non tu mi riconduci,


nave di sogno, a una perduta riva?
non è forse una luce primitiva
questa che vince tutte le altre luci?

E colgo ancora le margheritine


per i capelli de le mie sorelle

99
e m’inebrio del sole e de le stelle
e piango se mi pungono le spine.

Tutto quel che fu mio, teneramente,


mette le foglie, mette i fiori, odora;
oh, mai tramonto si sbiancò in aurora
più di questa soave e più ridente.

Serenità, ben tu mi ricomponi


gioie profonde per il mio ritorno,
e suoni tutte le campane a stormo,
le campane già vedove di suoni,

entro il mio cuore, e vuoi tu che al fiorito


maggio spalanchi l’umili finestre
e odori il davanzale di ginestre
e canti ancora quello che infinito

canto mi parve e non fu che una nota!


Vuoi che l’orto mi dia ghirlande e frutti...
ma non sai farmi libero di lutti,
ma non sai popolarmi questa vuota

casa! E allora? ... perché farmi tornare?


Serenità: quiete al mio tormento
vana, sono perduto, ora, mi sento
morire e gli occhi s’empiono di bare

e questo cielo non conobbe voli


mai, questa casa non s’aprì alla gioia,

100
serenità, serenità, ch’io muoia
dunque se il cuore tu non mi consoli,

se non valse al dolor tua compagnia,


se il passato mi stringe sì che in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia.

101
A la sorella

Tu che non hai per tua doglia viva


una madre serena che consoli,
un orto dolce con i girasoli
e il canto d’una limpida sorgiva,

tu che, accesa una lampada votiva,


pregavi per i tuoi fratelli soli
e per la doglia di che tu ti duoli
la bocca non ad implorar s’apriva,

tu che mi sei tristissima sorella,


batti alla porta del mio cuore vano,
lascia che io senta il tuo cuore tremare

nel mio come una stella in una stella


per un cielo più novo e più lontano
sovra il pianto degli uomini e del mare.

102
Sonetto della desolazione

Anima, come oggi nessuno arriva,


non tendere le pallide tue mani
a i cieli, troppo noi siamo lontani
e troppo melanconica è la riva.

Dici: domani... Oh, non sperar domani


più! La speranza è nel tuo cuore viva
così che l’abbandono la ravviva
con i suoi tristi addii quotidiani?!

Ben ora è che di tutto si disperi


e che il rosario dei futuri giorni
ci conduca al più puro dei misteri

in queste solitudini malate,


vedove di partenze e di ritorni,
simili a stazioni abbandonate.

103
PICCOLO LIBRO INUTILE

Qui m’a parlé est devenu silencieux.


J. Péladan

La fin de toutes choses saintes est dans la joie.


M. Schwob
Desolazione del povero poeta sentimentale

Perché tu mi dici: poeta?


Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.


Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;


solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:


sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

107
IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!


E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.


E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.


Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto

108
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII

Io amo la vita semplice delle cose.


Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII

Oh, io sono, veramente malato!


E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per essere detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

109
Ode all’ignoto viandante

Ben ch’io t’oda passare


vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare,

non tormento a più viva


fiamma la mia lucerna
– cui, nella notte eterna
guardo come a una riva –

e non se, a poco a poco,


cresca la lontananza,
vedovo di speranza,
ormai, te folle invoco,

ché le tue mani sono


colme di doni: porti
ai dolenti conforti,
ai felici perdono.

Hai pianto e un poco vuoi


di quel pianto godere,
qualche lagrima bere,
ancora, con i tuoi.

110
Donare e perdonare!
Contener nell’immenso
cuore grani d’incenso
pe’ ’l più lontano altare.

Dire al nemico: Sei,


tu, mio padre, mio figlio:
dormi sul mio giaciglio,
che io sul tuo dormirei.

E questo, senza pena


dire e senza tristezza;
sfarsi alla tenerezza
come al mare la rena.

Ma, forse, tu non hai


nessuno e, pure, torni,
così, per pochi giorni,
per un’ora, e non sai

tu, non sai che la povera


piccola casa accoglie
cader di nuove foglie,
fiorir di rose nuove

e che più nulla, più


nulla! del tuo rimane
se, triste come un cane
randagio, vaghi tu

111
imaginando i nidi
più folti e più canori,
tanto, che ora ne muori
di dolcezza e sorridi.

Ma l’ombra non lo vede


quel tuo sorriso: vela
piccola che s’incela,
sembra, nella sua fede,

e non è che una cosa


trepida, tutta sola,
che, per te, forse, vola,
ma per gli altri non osa,

ma per gli altri non pare


che una vela, una vela
piccola che s’incela
a l’estremo del mare.

II

Viandante, ancor io
risi alla mia speranza,
vissi la lontananza
per vivere d’oblio,

come te, come tutti


gli uomini. Un giorno volli

112
cantare ne’ più folli
canti i miei folli lutti,

parlare al sole come


al mio cuore e, talvolta,
ove l’ombra più folta
fosse, chiamarmi a nome

e dirmi: «Creatura
vergine, non udire
più. Apprendi, ora, a morire
nella tua sepoltura.

Accendi un lume, un solo.


Medita la tua nuova
vita. A te sia la prova
d’una morte o d’un volo.

Ma non tentare, mai.


Confida, anche, ma senza
elegger la semenza:
dopo non piangerai.

Canzoni assai soavi


canta, se vuoi cantare.
Canzoni marinare
dai ponti delle navi,

canzoni di parole
semplici, a pena nate,

113
che, ancora, dall’estate
odorano di sole.

Così vivrai, né cura


ti terrà del passante,
ignaro viandante
di una via peritura,

se tu l’oda cantare
o piangere alla soglia
e imagini che voglia
battere e domandare».

114
San Saba

Forse, Antonello, nostra sora Morte,


da la qual nullo uomo può scampare,
udendo quel tuo dolce sospirare
piana venne a le nostre anime assorte,

poi che vedemmo le tre chiuse porte


ove i beati stannosi a pregare
e i mendichi non osano levare
occhi, in temenza della buona sorte?

Forse, Antonello, se desio di vita


ci crebbe l’ora de le prime stelle
e un di piccoli orti vanimento

sì rassegnati al trasfiguramento
che le ingenue anime sorelle
non pensaronsi aver la via smarrita.

115
Sonata in bianco minore

– Sorelle, venite a vedere!


– C’è il sole nell’orto, c’è il sole!
– È un povero sole che ha freddo, non senti?
– Che piange le sue primavere...
– Sole di convalescenti.
– Suor Anna sorride così.
– Che ci voglia raccontare
una fiaba d’oltre mare!
– È venuto a trovare
noi, povere sperdute,
e, forse un malato lo aspetta
invano al limitare
della sua casa per la sua salute.
– È più bianco della mia cornetta...
– Sorelle, scendiamo nell’orto
prima che se ne vada.

II

– Sorelle, pregatelo a mani


giunte ché torni domani!
– Che torni, per poco, che torni,
però, tutti i giorni!
– Perché non dovrebbe venire?
Noi stiamo per morire.

116
– Comunichiamocene, sorelle,
prima che vengano le stelle.
– Noi non abbiamo che Gesù,
Maria e niente più.
– Un po’ d’acqua nella scodella
e un po’ di sole nella cella.
– Io mi farò una ghirlandetta
per i miei poveri capelli.
– Io, sorella benedetta,
avrò il miglio per gli uccelli.

III

– Oh, Sorelle, e, se non torna,


che faremo?
– Se non torna, aspetteremo.
– Come è gelido il convento.
– È più gelido il mio cuore.
– Oh, Sorelle, invece, io sento
tutto il sole nel mio cuore.
– Stelle in cielo e vele in mare,
tante vele e tante stelle...
– Accendiamo le candele sull’altare.
– Ricordiamoci, sorelle,
che siamo mortali.

– Regina sine labe originali...


– Che faremo, se non torna?
– Se non torna più, morremo.

117
A Gino Calza

Vita tua è vita mia.


Tu lo sai: melanconia
mi tien fermo in sua balia;
non ti posso consolare.

Tu m’hai detto: – Ov’io mi reco


voglio che tu venga meco.
– Oh, fratello, io sono cieco,
non ti posso seguitare.

– Vieni; è tanto lo sconforto


che nel cuor misero porto!
– Oh, fratello, io sono morto
per il troppo dolorare!

– Nel mio nido ho un usignolo,


del suo canto mi consolo
quando sono tutto solo
e ho desio di lacrimare.

– Oh, fratello, tu sei buono!


Il mio cuore, ecco, ti dono:
è più dolce di un perdono,
è più bianco di un altare –.

Foglie morte, foglie morte


su la soglia delle porte

118
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare.

Or la luna se ne è andata
con la sua corte beata
tutta bianca e desolata
a dormirsene nel mare.

È così leggero il mio


cuore, par fatto d’oblio!
Non ti pesi nell’avvio,
non ti voglia faticare.

Le tue mani sono monde


e le sue ferite fonde:
le tue mani sieno sponde
al tuo lento sanguinare.

Oh, il mio cuore è un usignolo,


che non canta quando è solo;
disiava un dolce brolo:
or nel tuo si sta a cantare.

119
Per organo di Barberia

Elemosina triste
di vecchie arie sperdute,
vanità di un’offerta
che nessuno raccoglie!
Primavera di foglie
in una via diserta!
Poveri ritornelli
che passano e ripassano
e sono come uccelli
di un cielo musicale!
Ariette d’ospedale
che ci sembra domandino
un’eco in elemosina.

II

Vedi: nessuno ascolta.


Sfogli la tua tristezza
monotona davanti
alla piccola casa
provinciale che dorme;
singhiozzi quel tuo brindisi
folle di agonizzanti
una seconda volta,
ritorni su’ tuoi pianti
ostinati di povero
fanciullo incontentato,
e nessuno ti ascolta.
120
Canzonetta all’amata

Conviene che tu muoia,


dolcezza, oggi, per me.
Vele di barche in mare!
Non dovevo lasciare
che, pur se triste, il sole
bagnasse il limitare!

Conviene che tu muoia,


dolcezza, oggi, per me.

Forse mi allontanai
troppo, ché, certo, mai
tanto mi piacque andare
solo, con la mia bella
rete nuova e una stella
per guida fra’ rosai.

Conviene che tu muoia,


dolcezza, oggi, per me.

Erano così chiare


le acque! Dolce pescare
se la rete sia nuova!
Quanti nidi contai
di stelle e quante mai
vele di barche in mare?

121
Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.

Quale gioia tentò


la porta, s’inoltrò
cauta e infantilmente
rise nell’obliata
casa e fiorì la grata
di viole? Non so.

Conviene che tu muoia,


dolcezza, oggi, per me.

Felicità mi spiace,
felicità è loquace
come un bimbo; l’ho a noia!
La mia rete ha ceduto,
la mia stella ha perduto
il fedele seguace.

Conviene che tu muoia,


dolcezza, oggi, per me.

Vele di barche in mare.


Chi attende al limitare?
Regina delle lagrime
e de’ dolci martiri,
non che tu sospiri
chi deve ritornare?

Sì, conviene che muoia,


dolcezza, tu, per me.

122
Dopo

Il passo degli umani


è simile a un cadere
di foglie... Oh! primavere
di giardini lontani!

Santità delle sere


che non hanno domani:
congiungiamo le mani
per le nostre preghiere.

Chiudi tutte le porte.


Noi veglieremo fino
all’alba originale,

fino che un’immortale


stella segni il cammino,
novizii, oltre la Morte!

123
ELEGIA
Elegia

Frammento

Tu piangi, ma non sai, piccola cara,


dove, nell’ombra, piangano le morte
cose quel tuo, dolcezza, ultimo addio,
non sai dove le tue lagrime, dove
le tue povere lagrime salate
piangere, se non anche il più diletto
amante, oggi, le beva per i lunghi
cigli e i capelli ti componga, piano
e tenero, su le arse tempie e voglia,
ad uno ad uno, dalle guance, tutte
bagnate, liberarli, indugiando
nella piccola cura in fin che un lume
dolce ti rida nei piangevoli occhi.

Lagrimi e vuoi che ti racconti alcuna


favola antica, mentre ti sarebbe
dolce un imaginare di lontani
giorni che la tristezza esiliò
con le favole, cara anima, poi
che nessuno te le racconta più,
quelle povere favole soavi
senza amarezze e pure, adesso, tanto
tristi che, quasi, piangi per averle
in cuore, tutte, come le figure
di quei piccoli santi con la palma
che tu appuntavi, con gli spilli, al muro.

127
Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso? Ma non devi
piangere. Lascia ch’io ti asciughi, povera
anima, piano, quasi il fazzoletto,
raccogliendo le tue lagrime, possa
domani, ancora, s’io lo voglia, tutte
alla mia bocca renderle, dolcezza.
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

Verrà la pace con le mani giunte,


ma non la udrai tu, piccola, venire.
Tornerà, sai, quotidianamente
un poco, senza dirti nulla; e, vedi,
sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che in una sera,
forse più dolce e triste, all’improvviso
t’avvenisse, così, senza sapere,

128
di comprenderla intera. Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta e non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.
Le canteremo solo perché possano
inavvertite piangervi le nostre
anime, un poco. Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno,
ti vorrò bene, e come tu, dolcezza,
giungere mai dovessi, io ti vorrò
tanto bene. Sorridi, ora. Non piangi
quasi più. Ce ne andremo in una casa
piccola e sola. Se vorrai, nei giorni
di festa, porteremo a tutti i piccoli
infermi alcuni di quei dolci, quei
poveri dolci delle suore, quasi
bianchi, senza sapore, avvolti in carte
celesti e in fili d’oro. Se vorrai,
questo; se non vorrai, se ti sembrasse
troppo triste, andrò solo, senza piangere,
anima cara, e tornerò alla nostra
piccola casa e, come fossi anch’io
malato, sognerò le tue parole
tenere, bianche, senza senso quasi,
come quei dolci, quei piccoli dolci
delle povere suore malinconiche.
..................................................
129
LIBRO PER LA SERA
DELLA DOMENICA
Sera della domenica

per Alberto Tarchiani

Ora che li organi


di Barberia singhiozzano al Crepuscolo
li ultimi balli e le ultime canzoni
anche una volta, quasi una paura
folle di rimanere
soli nell’imminente ombra li tenga;

ora che i poveri


amanti hanno sepoltura
nel cuore, senza piangere, la piccola
loro felicità domenicale,
e vanno muti
per il noto viale
al convegno dell’ultima tristezza;

ora che il pianto in maschera


di Sorriso
affetta ancora un’aria disinvolta
prima che scada il facile noleggio
dell’abito di gala;

ora che ne’ conventi e ne’ collegi


abbassano le lampade,
asciugano le lagrime,
e s’imagina che nel Paradiso
ogni giorno sarà
domenica;
133
ora che nei postriboli
le femine si lasciano baciare
cantando
il breve elogio funebre
della verginità;

il Poeta, ebro di morte,


viene a patti
con la Disperazione
che gli offre il domani con tutte
le sue piccole ire sorde,
le sue facili rassegnazioni,
mentre gli ride in faccia
perché non seppe ancora
morire di fame!

134
La liberazione

a Carlo Scialoia

Cantarellando, senza
tremare, la prigioniera
dalle mani logore
raccolse tutte le vecchie cose
polverose, i suoi denari
di un’altra epoca,
riguardò nelli angoli ove la sera
già tesseva le sue tele d’ombra
e tentò la porta vigilata
dai ragni centenari.

Seguivano con aria


di danza
un loro monotono giro le foglie
davanti alla casa
della Melanconia,
donde la Speranza affamata
fuggiva indisturbata.

135
Elemosina nel sonno

a Guido Milelli

Piccolo vecchio lebbroso,


tu sogni, le mani sul ventre,
nell’ombra della via suburbana
odorata di gelsomini,
sogni
che ti hanno incoronato re dei re!

È dunque la tua reggia


meravigliosa, questa che fiammeggia
come un rogo?
Sono tue queste logge sul mare?
E quei vascelli
d’oro?
Vengono a te
da favolosi reami
li omaggi stupendi?

E quel buffone gobbo,


vestito di campanelli
d’argento,
narra a te un’originale
storia sentimentale
per farti singhiozzare
a tradimento?

136
Piccolo vecchio lebbroso,
non sorridere così!
L’alba grida da un’ora per la via.
Destati! Non vedi
che taluno s’è fermato a guardare
quel tuo sorriso muto d’idiota,
mentre
tu seguiti a sognare,
le mani sul ventre,
quella tua grande felicità
ignota?

137
Le illusioni
per Antonello Caprino

Non piangere così! Lascia


che se ne vadano in silenzio
prima che accendano i fanali!
Se taluna sopporta a malincuore
il suo fardello di stracci, aiutala!
perché non si soffermi e voglia
sedersi sulla soglia!

Non ti torcere le mani!


Lascia che se ne vadano
senza sapere che tu piangerai
fino a domani!
Chiudi bene le porte e non udire
le loro efimere parole!
Se ne vanno cantando tutte sole,
in cerca d’amore.
Non singhiozzare così!
Perché le chiami? Speri
che tornino? Oh, allora,
tu non hai cercato a bastanza
nell’ombra della sera,
non hai chiuso bene la porta
su la via!
Taluna rimase: quella
che ti sarà sorella,
che ti sarà infermiera
nell’agonia.
138
Dialogo di Marionette

per André Noufflard

– Perché, mia piccola regina,


mi fate morire di freddo?
Il re dorme, potrei, quasi,
cantarvi una canzone,
ché non udrebbe! Oh, fatemi
salire sul balcone!
– Mio grazioso amico,
il balcone è di cartapesta,
non ci sopporterebbe!
Volete farmi morire
senza testa?
– Oh, piccola regina, sciogliete
i lunghi capelli d’oro!
– Poeta! non vedete
che i miei capelli sono
di stoppa?
– Oh, perdonate!
– Perdono.
– Così?
– Così...?
– Non mi dite una parola,
io morirò...
– Come? per questa sola
ragione?
– Siete ironica... addio!
– Vi sembra?

139
– Oh, non avete rimpianti
per l’ultimo nostro convegno
nella foresta di cartone?
– Io non ricordo, mio
dolce amore... Ve ne andate...
Per sempre? Oh, come
vorrei piangere! Ma che posso farci
se il mio piccolo cuore
è di legno?

140
Stazione sesta

a Fausto Maria Martini

Tu vedi: che cosa rimane?


Se n’è andata davvero, questa volta.
Adesso puoi sospirare
i tuoi madrigali alla Tristezza.
Se n’è andata davvero...
Non la ricordi cantarellare
le canzonette napoletane
fuori di moda?
La cerchi nelle sue cose?
Ritrovi le sue dita in quelle rose
di carta gialla o lungo la tastiera
di quel suo vecchio pianoforte a coda?

Ma non vedi? Nessuno comprende


questo tuo ricercare,
questo tuo sollevare
improvviso di tende,
questo sentirti morire
udendo battere alla postierla
della sua casa melanconica!
Nessuno immagina che il tuo volto
piangevole e doloroso
in quel vecchio specchio polveroso
somigli quello di Cristo sul lino
della Veronica!

141
L’ultimo sogno

per Alfredo Tusti

Io sono giunto alla città


nel mezzo del bosco.
Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta; non odo
che fontane cantare
canzoni senza ritornelli
a la Monotonia.

Io grido: «non saprò


domani tornare
per la stessa via!
Sono un fanciullo bianco
ed è fiorita per i miei capelli
una ghirlanda!
Le mie piccole mani sono pure
come quelle dei santi di cera;
amo le creature
non so che una povera preghiera».

Le fontane cantano sempre


nella città muta dei sogni.

Io mi allontano
e la mia veste bianca
se la dividono i rovi,

142
e la mia ghirlanda s’è mutata
in una corona di spine,
le mie piccole mani sanguinano
senza fine
e l’anima è triste come
li occhi
di un agnello che sia per morire.

E le fontane cantano
dietro le bianche porte.

Ah! sono io dunque colui


che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?

143
Castello in aria

a G. W. Sbordoni

Oh! piangi ancora, mia


piccola tenerezza!
Piangi, fosse anche per un’ora!
che t’importa? Sarà questa
l’ultima grazia... Non sai
che me ne voglio andare?

Ma se tu non piangerai,
come allora, per una
improvvisa tristezza,
per una melanconia
senza causa, mia
piccola tenerezza,
come potrò questa sera,
mentre tu dormi e sogni
la mia bocca, fuggire?

Andarmene a morire nel castello


della Nostalgia?

144
Scena comica finale

a Guglielmo Genua

L’ultimo Desiderio traballando


nell’ombra della porta
d’un postribolo fa
la serenata alla Disperazione.
Ma dai tegoli goccia
la pioggia sul balcone, a quando a quando:
forse la Bella non apparirà.

Che sia morta la fame? che un amante


le offra tutte le sue lagrime
con un bel gesto galante?
Ma non trapela
per le chiuse imposate lume
di candela.
Converrà cercarla altrove:
peregrinare
per tutte le taverne della via,
strisciare lungo i muri
come una spia
prima che l’alba ruffiana torni
e conduca alla sua casa li umani.

L’ultimo Desiderio
con la logora
chitarra a bandoliera
cerca per ore e ore
la Disperazione.
145
Ma non la trova... né la troverà,
che gli è la Bella fino dalla sera
nel cuore.

146
Bando

a Giorgio Lais

Avanti! Si accendano i lumi


nelle sale della mia reggia!
Signori! Ha principio la vendita
delle mie idee.
Avanti! Chi le vuole?
Idee originali
a prezzi normali.
Io vendo perché voglio
raggomitolarmi al sole
come un gatto a dormire
fino alla consumazione
de’ secoli! Avanti! L’occasione
è favorevole. Signori,
non ve ne andate, non ve ne andate;
vendo a così poco prezzo!
Diventerete celebri
con pochi denari.
Pensate: l’occasione è favorevole!
Non si ripeterà.
Oh! non abbiate timore di offendermi
con un’offerta irrisoria!
Che m’importa della gloria!

E non badate, Dio mio, non badate


troppo alla mia voce
piangevole!

147
IL SENTIERO
Il sentiero

Dolce mio bene, dov’eri?


Ho chiamato per tutt’i sentieri

e portavo una ghirlandella


per te, mia triste sorella;

ma tu non c’eri, ma tu non venivi.


E i fiori si facean men vivi.

E taluno cadeva per via


a morirsene di nostalgia,

in fin che le mie mani pure


non strinsero che rame oscure.

Oh, dolce mio ben, dov’eri?


Ho chiamato per tutt’i sentieri,

ho battuto a tutte le porte...


ma dov’eri tu, dunque, sperduto?

– Oh? ma se non sei venuto


pe’ ’l sentiero della morte!

151
LA MORTE DI TANTALO
La morte di Tantalo

Noi sedemmo sull’orlo


della fontana nella vigna d’oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.

Il nostro dolore non era dolore d’amore


né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.

Ma quel giorno già vanìa


e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.

E calò la sera su la vigna d’oro


e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.

Assaporammo tutta la notte


i meravigliosi grappoli.
Bevemmo l’acqua d’oro,

155
e l’alba ci trovò seduti
sull’orlo della fontana
nella vigna non più d’oro.

O dolce mio amore,


confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l’acqua d’oro, come la luna.

E aggiungi che non morremo più


e che andremo per la vita
errando per sempre.

156
INDICE

5 L’angelo in esilio di Alessandro Melia

Io non sono un poeta

Prime poesie
21 Vinto
22 La chiesa
24 Il cimitero

Dolcezze
29 Il mio cuore
30 La gabbia
31 Acque lombarde
32 La madonna e il suo lampioncello
35 Cremona
36 Ballata della primavera
37 I solchi
39 Dolore
41 Chiesa abbandonata
42 Il fanciullo suicida
44 Follie
50 Scritto sopra una lama
51 Immagine
52 Giardini
53 Per musica
54 Il campanile
56 Asfodeli

L’amaro calice
61 Invito
62 Rime del cuore morto
63 Cappella in campagna
66 Il cuore e la pioggia
67 Ballata del fiume e delle stelle
68 A Carlo Simoneschi
69 Toblack
72 La chiesa venne riconsacrata...
75 Sonetto d’autunno
76 Isola dei morti

Le aureole
81 L’anima
82 Il fanale
84 Spleen
86 Sonetto della neve
87 La finestra aperta sul mare
90 Dai «soliloqui di un pazzo»
94 Il fanciullo
97 Sonetto
98 Sonetto all’autunno
99 Alla serenità
102 A la sorella
103 Sonetto della desolazione

Piccolo libro inutile


107 Desolazione del povero poeta sentimentale
110 Ode all’ignoto viandante
115 San Saba
116 Sonata in bianco minore
118 A Gino Calza
120 Per organo di Barberia
121 Canzonetta all’amata
123 Dopo

Elegia
127 Elegia

Libro per la sera della domenica


133 Sera della domenica
135 La liberazione
136 Elemosina nel sonno
138 Le illusioni
139 Dialogo di Marionette
141 Stazione sesta
142 L’ultimo sogno
144 Castello in aria
145 Scena comica finale
147 Bando
Il sentiero
151 Il sentiero

La morte di Tantalo
155 La morte di Tantalo
INTERNO NOVECENTO

1. Antonia Pozzi, Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio


2. Guido Gozzano, I colloqui e altre poesie
3. Sergio Corazzini, Io non sono un poeta
Io non sono un poeta
di Sergio Corazzini

Collana “Interno Novecento”


N. 3
Interno Poesia Editore

Finito di stampare a mese 2020


da Logo S.r.l.
presso Borgoricco (PD)

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