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Interno Poesia Editore
Via SS. Rosario, 14
72022 Latiano (BR)
redazione@internopoesialibri.com
www.internopoesialibri.com
ISBN 978-88-85583-XX-X
Sergio Corazzini
IO NON SONO
UN POETA
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Tusti e Donatello Zarlatti. Animati da un intenso fer-
vore letterario, si ritrovavano la sera per bere Pernod,
fumare sigarette Capstan e atteggiarsi a bohémien, vestiti
di tutto punto. Mentre gli altri discutevano di riviste da
fondare, il giovane si era avvicinato alla cassa, aveva
pagato il caffè con un biglietto nuovo da cinque lire e
si era incamminato verso una delle chiese abbandonate
che tanto amava. Aveva sentito la mente ardere e i versi
farsi strada nella sua bocca. Un’incantevole gioia di
vivere lo stava chiamando e lui gli correva incontro, a
braccia aperte.
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Nell’unico ritratto a nostra disposizione, la figura
di Corazzini ci appare come quella di un giovane dal
volto pallido, con i capelli bruni adagiati sulla fronte
larga come un’onda morbida. Le labbra sono carnose,
le guance paffute, gli occhi grandi e pieni di vita. C’è
timidezza infantile nello sguardo, ma anche un certo
orgoglio. La posa è da poète maudit, come l’immagine del
Rimbaud adolescente. In entrambi i poeti si ha la sen-
sazione di osservare la vita che sboccia e prende forma:
se in Rimbaud è la vivacità e la sfrontatezza a prevalere,
in Corazzini è la bontà e la profondità dello sguardo. È
una creatura delicata ed è così che lo descrivono anche
gli amici, con quella faccia un po’ reclinata, la voce cal-
da e soave, l’andatura incerta come il volo dell’allodola.
Aveva la smania dell’eleganza: indossava ampi cappotti,
camicie dal colletto alto, cravatta a papillon; a volte si
presentava con il bastone e il garofano all’occhiello. È
per quell’aria da dandy che l’amico Fausto Maria Mar-
tini lo ribattezzerà il semidio.
Sergio Corazzini visse con la famiglia in via dei
Sediari 24, a pochi passi da Piazza Navona. L’edificio
non esiste più, fu demolito negli anni Trenta per rea-
lizzare Corso del Rinascimento. Altri luoghi di Roma
che hanno fatto parte della sua vita sono stati la scuola
elementare di via della Palombella, dietro il Pantheon;
la tabaccheria gestita dal padre in via del Corso, tra il
Caffè Sartoris e la gioielleria Suscipi; il Caffè Aragno in
via del Corso 180 (che serviva birra di Vienna e buffet
alla francese); l’ufficio della compagnia di assicurazioni
La Prussiana dove fu assunto come impiegato, al quar-
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to piano di un palazzo di via del Corso (di fronte a
dove abitò Goethe); infine le chiese abbandonate o le
cappelle private che Corazzini amava visitare: San Saba,
Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a
San Giovanni.
Nel 1901 Roma contava 422.411 abitanti. Era una
città ancora piccola, divisa tra la zona antica, rossastra,
dove risplendeva il fascino delle rovine al sole, e quella
di nuova costruzione, con i palazzi nudi e le strade
vuote, dove si camminava tra la terra e l’erba fino alla
campagna. Ogni inverno il Tevere esondava allagando
non soltanto le abitazioni costruite a ridosso del fiume,
ma anche il centro. “È una città che trasuda umidità
e odore da caverna ma all’interno dei palazzi si sente
l’immensità” annoterà Émile Zola nel suo diario alla
fine dell’Ottocento.
Come nella migliore tradizione della Belle Époque,
da Parigi a Vienna, da Praga a Berlino, sono i Caffè il
centro della cultura. A Roma i giovani scrittori si ritro-
vavano al Caffè Sartoris e al Caffè Aragno, dando vita
a veri e propri cenacoli letterari. In quei saloni fumosi
passavano ore a discutere di poesia e letteratura; leg-
gevano le gazzette dell’epoca (Marforio, Trasteverino,
Fracassa, Rugantino, Vita letteraria, Rivista di Roma)
e ne fondavano di nuove. Mai una generazione aveva
avuto così cieca fiducia nel progresso. Il tenore di vita
delle famiglie era in costante ascesa, i giovani guarda-
vano con favore alle arti e alle scienze. Stefan Zweig
lo definirà il mondo della sicurezza, dove “nessuno
credeva a guerre, rivoluzioni, sconvolgimenti e la vita
era veramente degna di essere vissuta”.
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Corazzini amava sua madre. Da lei aveva ereditato
la bontà, l’umiltà francescana, l’educazione religiosa e
una certa malinconia. Più di una volta l’aveva difesa
o consolata quando il padre, un uomo meschino e
volgare, tornava disperato per aver perso i soldi e la
incolpava di aver portato in casa la tubercolosi. La si-
gnora Carolina, detta Lina, era una donna esile, pudica,
malaticcia; vide morire due dei suoi tre figli e infine si
arrese anche lei, nel 1924. Solo il padre sopravvisse ma,
dopo aver sperperato tutti i soldi che aveva, agonizzò
di stenti e finì in un ospizio di mendicità. Eppure pochi
anni prima la famiglia Corazzini aveva un alto tenore di
vita, che consentiva a Sergio e a suo fratello Gualtiero
di frequentare il collegio a Spoleto. Il padre, oltre alla
pensione di ex impiegato alla Dataria pontificia, era
amministratore delle tenute di casa Del Drago e gestiva
la tabaccheria di via del Corso. Quando cominciarono
le difficoltà finanziarie, ritirò i figli dagli studi e impo-
se a Sergio non solo di lavorare, ma di versare a lui
metà dello stipendio da impiegato della compagnia di
assicurazioni La Prussiana, che ammontava ad appena
90 lire al mese. Costretto a dividersi tra la cella triste
di via del Corso e la casa di via dei Sediari, Corazzini
scriveva di giorno e poi nascondeva i versi tra le pra-
tiche di lavoro. L’ufficio era una stanzetta buia e tetra
nell’ammezzato di un vecchio edificio, per accedervi
bisognava salire per una scaletta a chiocciola aperta in
fondo alla portineria. È in quello spazio cupo e squal-
lido che nasceranno alcuni versi dei Soliloqui di un pazzo
(«Il mio cortile è triste molto, come / il suono di una
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placida campana / sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
/ Una bianca tristezza senza nome / veste i muri»). Ma
è anche lì che Corazzini sarà costretto a nascondere i
libri acquistati alla libreria Bocca di piazza Colonna, te-
mendo che il padre potesse sequestrarli. Sergio leggeva
Pascoli e D’Annunzio, i francesi Samain, Jammes, Ma-
eterlinck, Rodenbach, Guérin, Laforgue, Klingsor, ma
anche Novalis, Baudelaire, Gide, Maupassant, Balzac e
il Nietzsche di Al di là del bene e del male e La Gaia scienza.
Un giorno il capoufficio quasi lo sorprende a scrivere
versi; Corazzini fa appena in tempo a nascondere il fo-
glio nel copialettere. Su quel foglio, che la sera leggerà
agli amici – attoniti nell’ascoltarlo mentre passeggiano
per una strada campestre – c’è la Desolazione del povero
poeta sentimentale, la sua composizione più celebre («Per-
ché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io
non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi:
non ho che lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu
mi dici: poeta?»). Come ha rilevato Edoardo Sangui-
neti “egli coglie, per la prima volta, in opposizione al
dannunzianesimo trionfante, il nodo della moderna
poetica crepuscolare, che è il rifiuto stesso della poesia
in nome di povere tristezze comuni”.
È sempre la morte a scandire il ritmo della vita. “Io
penso ogni giorno a morire, come, aprendo la finestra,
si pensa al sole”. È lei la sua compagna fedele, non Sa-
nia, la giovane straniera della quale si invaghisce mentre
si trova a Nocera. Qui si era rifugiato per scappare dal
morso della tubercolosi: “Io non so quello che acca-
de, ma un invisibile vampiro mi succhia lentamente e
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continuamente il sangue, ed io mi trovo ogni giorno
più prostrato”. Niente sembra migliorare il suo stato
di salute. In una lettera all’amico Giuseppe Caruso, lo
stesso a cui Corazzini aveva confidato mesi prima che
le sue liriche nascevano dalle passeggiate campestri
notturne alla ricerca di piccole chiese, scrive angoscia-
to: “La mia mente è folle. Sento fuggirmi la vita. Io
confido di morirmene in un mese”. Ci vorrà ancora un
anno, il tempo di lasciare la sublime Elegia e una man-
ciata di poesie che preludono alla nascita di un nuovo
filone poetico, come Sera della domenica, Bando, Il sentiero,
ma soprattutto La morte di Tantalo, scritta sul letto di
morte e pubblicata postuma.
Dopo la sua morte, gli amici che lo avevano ve-
gliato fino all’ultimo, accompagnarono la bara da via
dei Sediari al cimitero del Verano, dove fu seppellita
in un loculo temporaneo. Tredici anni dopo le ossa
di Corazzini vennero riesumate e trasferite definitiva-
mente nell’ottavo colombario (ossario 25, fila II) dove
giacciono ancora oggi.
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di poesie di Corazzini (le tre edizioni delle Liriche pub-
blicate postume dall’editore Ricciardi hanno evidenti
omissioni) – ha notato che “il termine morte, con le
sue declinazioni e i suoi sinonimi, cadono con una
media di due presenze per ogni poesia”. Anche altri
termini si ripetono di continuo: dolce, dolcezza, ma-
linconia, puro, sogno, triste, tristezza, piccolo, povero,
lacrime, pianto, piangere, chiesa, ombra, buio. Ecco
quindi venirci incontro espressioni come «l’anima
pura», «la triste e solitaria via», «la casa piccola e sola»,
«le semplici cose», «il dolce sospirare» «l’ora crepusco-
lare», «il fanciullo triste», «la malinconia mortale», «le
povere lacrime salate», «l’agonia misteriosa delle cose».
Gli oggetti diventano lo strumento con cui evocare
immagini o riflettere lo stato d’animo del poeta, che
non è altro che un fanciullo che si sente morire giorno
dopo giorno. Le sue poesie sono variazioni di morte.
Nelle ultime composizioni, da Elegia – che segna
lo spartiacque tra la precedente produzione poetica
e quello che sarà il suo libro di versi – a La morte di
Tantalo, Corazzini dialoga con una figura femminile: la
sua anima, la «dolce amica», la compagna di una vita. Se
Elegia è percorsa da un inarrestabile sentimentalismo e
da una profonda nostalgia («Verrà la pace con le mani
giunte, / ma non la udrai, tu, piccola, venire. / Tornerà
sai, quotidianamente / un poco, senza dirti nulla») –
ne La morte di Tantalo, pubblicata postuma, il poeta
fa ricorso al racconto biblico e ai miti per cercare un
senso alla vita. Siamo dentro a una visione, a un sogno,
che ha le angosciose sembianze della realtà, in cui il
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poeta e la sua donna (la sua anima) si rendono conto
che non c’è una spiegazione alla loro morte e che per
vivere l’eternità è necessario rinunciare ai beni terreni.
È questo il messaggio che un Corazzini stremato dalla
malattia decide di lasciare ai vivi. Pochi giorni dopo la
morte, l’amico Aldo Palazzeschi scrisse: “La letteratura
italiana ha visto passare un angiolo e la sua immagine
vi rimarrà sempre”.
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IO NON SONO
UN POETA
PRIME POESIE
Vinto
21
La chiesa
II
22
il campanile che posava al fianco
de la piccola chiesa, o pia compagna!
come un bimbo malato che si lagna
suonò d’un suono dolorante e stanco.
23
Il cimitero
o morti, a dipartenza
vostra non pianse occhio,
non si piegò ginocchio,
non bocca ebbe preghiere!
24
DOLCEZZE
Il mio cuore
eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s’arrossa
sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,
29
La gabbia
30
Acque lombarde
31
La madonna e il suo lampioncello
II
32
e il tuo disobbedire ti perdono.
O lampioncello, o lampioncello mio,
mi sembra di sentir, lontano, il tuono!
III
33
lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese
IV
34
Cremona
35
Ballata della primavera
36
I solchi
Un desiderio di seminagione
teneva i solchi aperti ne l’attesa
de la buona promessa; oh la tua rude
mano, figlio de’ campi, che si schiude
al seme come il labro a la parola,
ancora è lunge da la sacra impresa,
ma verrà come il grano a la sua mola.
Soavità de la dedizione!
I solchi aperti – (ha bene le sue culle
la terra madre) – te buon seme avranno!
Vi sarà un po’ di biondo anche quest’anno
intorno a la tua casa a larghi lampi
avran le falci mietitrici sulle
spighe ben colme, o nato sacro ai campi!
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pareva un’alba. I solchi aperti ne
gioirono. Sarà fra poco, forse
adesso! Oh l’interminabile indugio!
Un brivido la Terra avida corse.
38
Dolore
anima, e se dolore
l’anima un poco sente,
soffre un poco anche il cuore,
bimbo, quietamente.
II
il mio vaneggiamento
continuo, senza tregua,
senza un breve momento
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di pace, e se dilegua
poi non so come, pare
che l’anima lo segua
III
È un tenue lavoro,
non è un ricordo, no,
come l’ebbi, l’ignoro.
Io l’amo perché so
che croce fu dolore,
e assai ne spasimò
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Chiesa abbandonata
41
Il fanciullo suicida
II
42
Quanta di sogni ardimentosa messe
nasce in un cielo e muore in un pantano!
43
Follie
...........................
Oh la piccola bara,
ricordo, i tetri cerei
e gli arazzi funerei,
e poi la folla ignara
e la dolente, l’organo
molle e profondo, i chini
frati benedettini
che par da terra sorgano
44
ne la penombra delle
colonne, fra gli altari
fiammeggianti, con vari
aspetti; e le sorelle
ne le mani conserte,
sopra i piedini lievi
– e tu non le vedevi
con le pupille aperte –
45
su gli occhi dolci, avvinti
da una visione
ignota e poi corone,
di gigli, di giacinti,
.............................
le lampadette, stelle
di cimitero, tetre
su le gelide pietre,
lugubri sentinelle,
e le grandi, notturne
ali, solcanti l’ombra
paurosa che ingombra
le tombe, i marmi, le urne...
Madonna, perdonate
se vi pensai, se forse
troppo il pensiero corse.
Madonna, perdonate.
47
Io vi vidi, tranquilla
in una bara, morta,
e vi sognai risorta
e il sogno ancor m’assilla
48
nella semplice bara
fiorita; in somma tutto
amo di te, il mio lutto
sei tu, piccola cara!
............................
49
Scritto sopra una lama
50
Immagine
da P. Bourget
51
Giardini
52
Per musica
53
Il campanile
II
54
cadute senza grida e senza lotte,
così, come due stanche anime umane.
Oh non verranno più da le lontane
case le donne per la messa, a frotte!
55
Asfodeli
capricci assiduamente,
perché ieri lo faceste
sanguinare, lo faceste
lagrimare dolorosamente?
56
L’AMARO CALICE
a Cesare Chiappa
Invito
61
Rime del cuore morto
II
63
e due rose – ho i miei piccoli rosai
anch’io – due rose bianche come i ceri;
sembravano fiorite in monasteri
chiuse, le rose, in languidi rosai.
III
64
Quanta tristezza scese nella mia
anima, quando da non so qual pieve
giunse pei cieli un suono di campane!
IV
65
Il cuore e la pioggia
St. Moritz
66
Ballata del fiume e delle stelle
67
A Carlo Simoneschi
Carlo, malinconia
m’ha preso forte, sono
perduto; così sia.
68
Toblack
II
III
70
IV
71
La chiesa venne riconsacrata...
Il sagrestano pazzo
traversò la chiesa oscura,
lentamente, con il mazzo
delle chiavi appeso alla cintura.
Un rosario di granatine
a i piedi del Crocifisso morente
sembra sangue gocciato lentamente
dalla fronte coronata di spine.
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la morte della creatura.
74
Sonetto d’autunno
75
Isola dei morti
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LE AUREOLE
L’anima
a Guido W. Sbordoni
81
Il fanale
a Alfredo Tusti
82
La notte, oh, quale triste cantilena
langue per le tre camere fumose
in fin che al suolo cadano le rose
disfatte sulla lunga veglia oscena,
83
Spleen
84
Perché non suoni? Langue
di desiderio
quel tuo piccolo pianoforte esangue,
nell’ombra; o non così,
amica,
l’anima ci sospira nell’attesa
di chi
sappia farla vibrare?
85
Sonetto della neve
86
La finestra aperta sul mare
a Francesco Serafini
87
da tanti anni, nella torre,
come nel mio cuore.
89
Dai «soliloqui di un pazzo»
90
Mai più, mai più! su le terrene cose
l’occhio non sosta, l’occhio si dispera,
come un’ala ferita ai cieli tende.
Io voglio la tristezza delle rose
morte all’inizio della primavera
per farne una corona alle mie bende.
91
Non morì mai, non morrà più: mi guarda
nel buio e trema quando il lume trema
come i fanciulli se la sera è tarda.
92
del mio cuore, t’accogli per diletto;
te sola, con il mio tetro destino.
93
Il fanciullo
a Guido Ruberti
94
E sogni... e nella tua casa in un tetro
crepuscolo, le pallide sorelle
vanno inquiete per l’assente, il loro
dolce fanciullo che le consolava
con l’innocenza delle sue parole,
e ti cercano e guardano le stelle
che ti guardano, e toccano le cose
che già toccasti con le timorose
dita e non sanno che tu sei vicino.
96
Sonetto
97
Sonetto all’autunno
98
Alla serenità
99
e m’inebrio del sole e de le stelle
e piango se mi pungono le spine.
100
serenità, serenità, ch’io muoia
dunque se il cuore tu non mi consoli,
101
A la sorella
102
Sonetto della desolazione
103
PICCOLO LIBRO INUTILE
II
III
107
IV
VI
108
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
VII
VIII
109
Ode all’ignoto viandante
110
Donare e perdonare!
Contener nell’immenso
cuore grani d’incenso
pe’ ’l più lontano altare.
111
imaginando i nidi
più folti e più canori,
tanto, che ora ne muori
di dolcezza e sorridi.
II
Viandante, ancor io
risi alla mia speranza,
vissi la lontananza
per vivere d’oblio,
112
cantare ne’ più folli
canti i miei folli lutti,
e dirmi: «Creatura
vergine, non udire
più. Apprendi, ora, a morire
nella tua sepoltura.
canzoni di parole
semplici, a pena nate,
113
che, ancora, dall’estate
odorano di sole.
se tu l’oda cantare
o piangere alla soglia
e imagini che voglia
battere e domandare».
114
San Saba
sì rassegnati al trasfiguramento
che le ingenue anime sorelle
non pensaronsi aver la via smarrita.
115
Sonata in bianco minore
II
116
– Comunichiamocene, sorelle,
prima che vengano le stelle.
– Noi non abbiamo che Gesù,
Maria e niente più.
– Un po’ d’acqua nella scodella
e un po’ di sole nella cella.
– Io mi farò una ghirlandetta
per i miei poveri capelli.
– Io, sorella benedetta,
avrò il miglio per gli uccelli.
III
117
A Gino Calza
118
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare.
Or la luna se ne è andata
con la sua corte beata
tutta bianca e desolata
a dormirsene nel mare.
119
Per organo di Barberia
Elemosina triste
di vecchie arie sperdute,
vanità di un’offerta
che nessuno raccoglie!
Primavera di foglie
in una via diserta!
Poveri ritornelli
che passano e ripassano
e sono come uccelli
di un cielo musicale!
Ariette d’ospedale
che ci sembra domandino
un’eco in elemosina.
II
Forse mi allontanai
troppo, ché, certo, mai
tanto mi piacque andare
solo, con la mia bella
rete nuova e una stella
per guida fra’ rosai.
121
Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.
Felicità mi spiace,
felicità è loquace
come un bimbo; l’ho a noia!
La mia rete ha ceduto,
la mia stella ha perduto
il fedele seguace.
122
Dopo
123
ELEGIA
Elegia
Frammento
127
Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso? Ma non devi
piangere. Lascia ch’io ti asciughi, povera
anima, piano, quasi il fazzoletto,
raccogliendo le tue lagrime, possa
domani, ancora, s’io lo voglia, tutte
alla mia bocca renderle, dolcezza.
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.
128
di comprenderla intera. Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta e non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.
Le canteremo solo perché possano
inavvertite piangervi le nostre
anime, un poco. Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno,
ti vorrò bene, e come tu, dolcezza,
giungere mai dovessi, io ti vorrò
tanto bene. Sorridi, ora. Non piangi
quasi più. Ce ne andremo in una casa
piccola e sola. Se vorrai, nei giorni
di festa, porteremo a tutti i piccoli
infermi alcuni di quei dolci, quei
poveri dolci delle suore, quasi
bianchi, senza sapore, avvolti in carte
celesti e in fili d’oro. Se vorrai,
questo; se non vorrai, se ti sembrasse
troppo triste, andrò solo, senza piangere,
anima cara, e tornerò alla nostra
piccola casa e, come fossi anch’io
malato, sognerò le tue parole
tenere, bianche, senza senso quasi,
come quei dolci, quei piccoli dolci
delle povere suore malinconiche.
..................................................
129
LIBRO PER LA SERA
DELLA DOMENICA
Sera della domenica
134
La liberazione
a Carlo Scialoia
Cantarellando, senza
tremare, la prigioniera
dalle mani logore
raccolse tutte le vecchie cose
polverose, i suoi denari
di un’altra epoca,
riguardò nelli angoli ove la sera
già tesseva le sue tele d’ombra
e tentò la porta vigilata
dai ragni centenari.
135
Elemosina nel sonno
a Guido Milelli
136
Piccolo vecchio lebbroso,
non sorridere così!
L’alba grida da un’ora per la via.
Destati! Non vedi
che taluno s’è fermato a guardare
quel tuo sorriso muto d’idiota,
mentre
tu seguiti a sognare,
le mani sul ventre,
quella tua grande felicità
ignota?
137
Le illusioni
per Antonello Caprino
139
– Oh, non avete rimpianti
per l’ultimo nostro convegno
nella foresta di cartone?
– Io non ricordo, mio
dolce amore... Ve ne andate...
Per sempre? Oh, come
vorrei piangere! Ma che posso farci
se il mio piccolo cuore
è di legno?
140
Stazione sesta
141
L’ultimo sogno
Io mi allontano
e la mia veste bianca
se la dividono i rovi,
142
e la mia ghirlanda s’è mutata
in una corona di spine,
le mie piccole mani sanguinano
senza fine
e l’anima è triste come
li occhi
di un agnello che sia per morire.
E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
143
Castello in aria
a G. W. Sbordoni
Ma se tu non piangerai,
come allora, per una
improvvisa tristezza,
per una melanconia
senza causa, mia
piccola tenerezza,
come potrò questa sera,
mentre tu dormi e sogni
la mia bocca, fuggire?
144
Scena comica finale
a Guglielmo Genua
L’ultimo Desiderio
con la logora
chitarra a bandoliera
cerca per ore e ore
la Disperazione.
145
Ma non la trova... né la troverà,
che gli è la Bella fino dalla sera
nel cuore.
146
Bando
a Giorgio Lais
147
IL SENTIERO
Il sentiero
151
LA MORTE DI TANTALO
La morte di Tantalo
155
e l’alba ci trovò seduti
sull’orlo della fontana
nella vigna non più d’oro.
156
INDICE
Prime poesie
21 Vinto
22 La chiesa
24 Il cimitero
Dolcezze
29 Il mio cuore
30 La gabbia
31 Acque lombarde
32 La madonna e il suo lampioncello
35 Cremona
36 Ballata della primavera
37 I solchi
39 Dolore
41 Chiesa abbandonata
42 Il fanciullo suicida
44 Follie
50 Scritto sopra una lama
51 Immagine
52 Giardini
53 Per musica
54 Il campanile
56 Asfodeli
L’amaro calice
61 Invito
62 Rime del cuore morto
63 Cappella in campagna
66 Il cuore e la pioggia
67 Ballata del fiume e delle stelle
68 A Carlo Simoneschi
69 Toblack
72 La chiesa venne riconsacrata...
75 Sonetto d’autunno
76 Isola dei morti
Le aureole
81 L’anima
82 Il fanale
84 Spleen
86 Sonetto della neve
87 La finestra aperta sul mare
90 Dai «soliloqui di un pazzo»
94 Il fanciullo
97 Sonetto
98 Sonetto all’autunno
99 Alla serenità
102 A la sorella
103 Sonetto della desolazione
Elegia
127 Elegia
La morte di Tantalo
155 La morte di Tantalo
INTERNO NOVECENTO