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Le lezioni dei cattivi maestri (2)

Benedetto Vertecchi

Mi perdonino i pazienti lettori di queste riflessioni se, per entrare nel merito di argomenti
che hanno assunto di recente una speciale rilevanza, richiamo ricordi lontani, che
risalgono agli anni del dopoguerra, quando frequentavo la scuola elementare. Accadeva
che entrando in classe si fosse accolti da un incaricato che teneva in una mano una
bottiglia di olio di fegato di merluzzo e nell’altra un cucchiaio. Nessuno sfuggiva per
quanto riluttante, alla dose d’olio che gli veniva inserita tra le labbra. Altre volte un
infermiere indagava se attorno al collo non si avvertissero segni di linfatismo. Capitò che,
in fila con i miei compagni, subissi la piccola abrasione sul braccio necessaria per
praticare la vaccinazione antivaiolosa, o l’iniezione per inoculare il vaccino antidifterico.
Per quanto in tempi di no-vax mi sia sforzato di ricordare se si fosse manifestata una
qualsivoglia resistenza da parte delle famiglie a interventi che avrebbero assunto una
indubbia rilevanza per lo sviluppo successivo dei figli, non mi è tornato alla memoria
nessun ricordo in tal senso. Semmai, avveniva il contrario, e cioè che i genitori fossero
preoccupati per l’estensione che veniva assumendo una malattia che oggi si considera
debellata, e non perché col passare del tempo gli agenti patogeni abbiano esaurito la loro
capacità di colpire gli organismi in crescita, ma perché valenti scienziati, primo fra tutti
il dottor Sabin, avevano rilasciato il frutto delle loro ricerche: in pochi anni i tristi casi di
bambini e ragazzi che recavano le conseguenze della poliomielite cessarono di aumentare.
Mi chiedo se oggi, di fronte a interventi che suppongono una integrazione alimentare,
come quella effettuata con la somministrazione dell’olio di fegato di merluzzo, o
un’ispezione sanitaria (il contrasto del linfatismo), non si manifesterebbe un orientamento
di rifiuto, e se tale orientamento non coinvolgerebbe anche altre pratiche di medicina
preventiva che pure, nel tempo, hanno dimostrato di migliorare sostanzialmente le
condizioni di vita e di sviluppo di bambini e ragazzi. È probabile che accanto ai no-vax
dovremmo annoverare nuclei di no-oil (contro l’olio di merluzzo), o di no-med (contro le
ispezioni fisiologiche sui bambini). Ma ancora più inquietante sarebbe dover prendere
atto che, a causa del rifiuto del vaccino da parte delle famiglie, un numero indefinito di
bambini e ragazzi dovesse trascinarsi dolorosamente nel corso della vita per le
conseguenze di una malattia che avrebbe potuto essere evitata.
Come interpretare un cambiamento così radicale di atteggiamenti nel lasso di due-tre
generazioni? Non è facile rispondere. Di sicuro c’è solo che negli stessi anni la cultura
media della popolazione, per lo meno se la si stima in base alla frequenza scolastica delle
successive leve di popolazione, è molto cresciuta. Dovremmo quindi spiegare come si
può conciliare una cultura più diffusa con atteggiamenti che sembrano appartenere ad un
tempo precedente: si accreditano proposizioni scientifiche che non trovano fondamento
nel progresso delle scienze, ma sono per lo più espressione di suggestioni marginali
prescientifiche. Del resto, mi sembra che gli atteggiamenti di rifiuto già rilevati nascano
in un contesto di negazionismo scientifico che vede riproporre, mi limito ad un solo
macroscopico esempio, rappresentazioni cosmologiche primordiali, come il terra-
piattismo. Credo che la contraddizione trovi fondamento nel deteriorarsi dell’idea di
progresso: ancora un paio di generazioni fa il progresso era interpretato come una

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ridefinizione di strutture, entro le quali potevano collocarsi soluzioni innovative capaci di
trasformare le condizioni di vita della popolazione. La riuscita nel contrasto delle malattie
epidemiche non poteva che essere considerata una forma di progresso, come l’incremento
della produzione di beni, la crescente facilità delle comunicazioni, il diffondersi della
cultura nei diversi strati della popolazione. Questa idea di progresso si è conservata fin
quando è prevalsa una finalizzazione di tipo umanistico: al centro dei cambiamenti c’era
una più ampia conoscenza dell’uomo e dei suoi rapporti con la natura. In ciò è
propriamente consistita la spinta all’innovazione.
Si è manifestata un’idea diminuita di progresso a misura del sovrapporsi della
modernizzazione all’innovazione: al centro non c’è più stata una finalizzazione
umanistica, ma la maggior rilevanza è stata assunta da proposte che, pur traendo origine
e sostegno dallo sviluppo della conoscenza, sono state rivolte all’inseguimento di
obiettivi secondari, come quelli economici, militari, di controllo delle comunicazioni, di
assorbimento di quote rilevanti del reddito delle famiglie. È venuto così alterandosi il
fondamento dialettico nel confronto delle interpretazioni: alla revisione di strutture
sensibili ad una grande varietà di fattori si è opposto un dogmatismo valoriale di settore
o, peggio, la considerazione del vantaggio che alcune persone o organizzazioni avrebbero
potuto trarre.
Per non perderci nella notte in cui, come diceva Hegel, tutte le vacche sono nere, da un
punto di vista educativo conviene soffermarsi sugli effetti della modernizzazione che ha
investito la comunicazione delle proposte educative prescindendo da una innovazione
capace di produrre una ridefinizione delle strutture dell’insegnamento e
dell’apprendimento. La differenza tra l’innovazione e la modernizzazione è chiara se
seguiamo ciò che scrive Comenio nel dialoghetto iniziale (Invitatio) dell’Orbis
sensualium pictus. Alla domanda del puer (Quid hoc est, sapere?), il magister risponde:
Omnia, quae necessaria, recte intelligere, recte agere, recte eloqui. La risposta del
magister offre una interpretazione stabile nel tempo, ma quando, sollecitato, specifica in
che modo si propone di conseguire questi obiettivi (Ducam te per omnia, ostendam tibi
omnia, nominabo tibi omnia), gli elementi della risposta sono suscettibili di innumerevoli
interpretazioni, al tempo di Comenio come oggi. La prima risposta definisce una struttura
per l’educazione, la seconda collega la struttura alle scelte di comportamento e a quelle
strumentali.
I cattivi maestri che si avvicendano sui mezzi di comunicazione (e spesso anche in sedi
in cui è direttamente implicata la responsabilità nell’orientare le pratiche dell’educazione
scolastica, come quelle accademiche e quelle amministrative) tengono in considerazione
il raggiungimento degli obiettivi, ma non la struttura nella quale ciò avviene. La
conseguenza è quel deterioramento delle concezioni educative che lamentavo
nell’avviare questa riflessione.

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