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Marie de France

Le corbeau et le renard
Successe, come può accadere,
che davanti ad una finestra
di una cantina
passò volando un corvo che vide,
all’interno, dei pezzi di formaggio
posti su una grata.
Ne prese uno e ripartì con la sua preda.
Arrivò una volpe, che lo riconobbe,
molto desiderosa
di poter mangiare la sua parte di formaggio;
con l’inganno, vuole provare a vedere
se può ingannare il corvo.
“Ah, Signore Dio!”, disse la volpe
“Quanta nobiltà possiede quest’uccello!
Al mondo non esiste un suo simile!
I miei occhi non ne hanno mai visto uno così bello!
Se il suo canto fosse così bello come il suo corpo,
varrebbe più dell’oro puro.”
Il corvo sentì queste lusinghe
secondo le quali non esisteva un suo simile al mondo.
Si decise a cantare:
non sarà il canto a fargli perdere la sua gloria.
Aprì il becco e cantò:
si fece sfuggire il formaggio,
che cadde a terra irrimediabilmente,
e la volpe se ne impossessò.
Non badò più al canto del corvo,
avendo il formaggio che desiderava.
Questa è la storia degli arroganti
che desiderano una grande notorietà:
si possono guadagnare le loro buone grazie
attraverso le lusinghe e le menzogne;
sprecano follemente i loro beni
a causa delle false menzogne della gente.
Marie de France, 102 Fables scritte tra il 1167 e il 1189.
Chrétien de Troyes
Yvain ou le Chevalier au lion
Messer Yvain camminava, assorto nei suoi pensieri, in una foresta profonda, quando sentì, nel cuore del
bosco, un grido di dolore penetrante. Si diresse allora verso il luogo da cui proveniva il grido e, quando
vi giunse, vide, in una radura, un leone alle prese con un serpente che lo teneva per la coda e che gli
bruciava i fianchi come una fiamma ardente. Messer Yvain non si soffermò affatto a guardare questo
spettacolo straordinario. In cuor suo, si domandò quale dei due avrebbe aiutato, e decise di andare in
soccorso del leone, perché si può solo cercare di ferire un essere velenoso e perfido. Ora, il serpente è
velenoso, e la sua bocca lancia fiamme poiché è pieno di malignità. Perciò, Messer Yvain decise di
affrontarlo per primo e di ucciderlo. Prende la spada e avanza, lo scudo davanti al viso per proteggersi
dalle fiamme che il serpente lancia dalla bocca, una bocca più larga di una pentola. Se il leone lo assale,
Yvain non si tirerà indietro. Ma qualunque siano le circostanze, vuole prima venire in suo aiuto. È
incaricato da Pietà che lo prega di andare in soccorso della nobile bestia. Con la sua spada affilata,
attacca il serpente malefico; lo taglia fin giù e lo divide in due metà. Colpisce sempre di più, e si
accanisce così tanto da ridurlo a pezzi. Ma fu obbligato a tagliare l’estremità della coda del leone perché
vi era attaccata la testa del serpente perfido. Ne tagliò ciò che era necessario: era impossibile tagliarne
meno.
Chrétien de Troyes, Yvain ou le Chevalier au lion, verso il 1180. Versione moderna.
Marguerite de Navarre
Plus j’ai d’amour, plus j’ai de fâcherie
LXX
Più provo amore, più provo dolore,
perché non vedo reciprocità;
Più taccio e più sono triste,
perché la memoria, pensando, mi fa tornare in mente
tutti i miei problemi, di cui spesso rido
davanti a tutti, per mostrare il mio buon senso;
Alla mia disgrazia io stessa acconsento,
nascondendola, perciò giungo alla conclusione
che, per eliminare il dolore che provo,
parlerò, ma non amerò più.
Marguerite de Navarre, Dernières poésies, verso il 1547 – 1549,
pubblicate nel 1896 da Abel Lefranc.
Michel de Montaigne
Essais
Del resto, ciò che chiamiamo amici e amicizie, sono solo frequentazioni e familiarità stabilite da qualche
occasione o convenienza, per mezzo delle quali le nostre anime sono legate. Nell’ambito dell’amicizia
della quale parlo, si mescolano e si confondono l’una nell’altra, in un connubio così universale che si
cancellano e non ritrovano più la cucitura che le ha unite. Se mi chiedono di dire il perché l’amavo,
sento che questo si può esprimere solo rispondendo: “Perché era lui; perché ero io”. Al di là di tutto il
mio discorso e al di là di ciò che posso dire in particolare, vi è non so quale forza inspiegabile e fatale,
mediatrice di questa unione. Ci cercavamo ancor prima di esserci visti, e dalle notizie che sentivamo
l’uno dell’altro, che facevano più effetto nel nostro sentimento di quanto non ne avesse la ragione delle
notizie, credo per qualche volontà del cielo; i nostri nomi ci tenevamo uniti. E al nostro primo incontro,
avvenuto per caso ad una grande festa organizzata in una città, ci trovammo così attratti, così in sintonia,
così legati che, da quel momento in poi, nulla fu così vicino come noi due.
Montaigne, Essais, I libro, XXVIII capitolo: De l’amitié, 1580 – 1588.
Versione moderna.
Molière
L’École des femmes
Arnolphe, un anziano borghese, aveva scelto come sposa Agnès, una contadina di 4 anni. L’ha fatta
educare in un convento, nell’ignoranza totale del mondo. Ha ormai 17 anni. Ha incontrato Horace, un
giovane biondo…
II scena
ARNOLPHE, AGNÈS
ARNOLPHE, seduto.
[…]
Il matrimonio, Agnès, non è una frivolezza.
La donna è chiamata a svolgere austeri doveri:
E voi non vi elevate fino a ciò che esigo,
Volete esser libertina e divertirvi.
Il vostro sesso è destinato solo alla dipendenza.
Colui che porta la barba detiene l’onnipotenza.
Nonostante rappresentiamo i due poli della società,
Queste due metà non hanno nessuna uguaglianza:
Una di queste metà è superiore, e l’altra sottomessa:
Una è totalmente sottomessa all’altra che governa.
E come il soldato istruito nel proprio compito,
Dimostra obbedienza al Capo che lo guida,
Allo stesso modo il servo al Padrone, un bambino a suo Padre,
Il frate minore al Priore,
Non si avvicina per niente alla dolcezza,
All’obbedienza, all’umiltà,
Al profondo rispetto, ciò che la donna deve essere
Per suo marito, il suo Capo, il suo Signore e il suo Maestro.
Nel momento in cui egli le rivolge uno sguardo serio,
Il suo dovere è prontamente quello di abbassare gli occhi;
E di non osare mai guardarlo in faccia
Solo nel momento in cui egli le vuole fare grazia.
Questo è ciò che non comprendono le donne di oggi:
Ma non vi basate sull’esempio altrui.
Guardatevi dall’imitare queste brutte coquettes,
Di cui si cantano le prodigiosità per tutta la città:
E dal lasciarvi prendere dagli assalti del maligno,
Vale a dire, di non ascoltare nessun giovane biondo.
[…]
Molière, L’Ecole des femmes, III atto, II scena, 1662.
Blaise Pascal
Pensées
135
Giustizia, forza.
È giusto che ciò che è corretto sia seguito. È necessario che ciò che è più forte sia seguito. La giustizia
senza la forza è impotente. La forza senza la giustizia è tirannica. La giustizia senza forza è contestata
perché vi sono sempre dei cattivi. La forza senza giustizia è accusata. Occorre quindi unire forza e
giustizia, e fare in modo che ciò che è giusto sia forte o ciò che è forte sia giusto. La giustizia è soggetta
a dispute. La forza è molto riconoscibile e non è soggetta a dispute. Così non si è potuta dare forza alla
giustizia, perché la forza ha contestato la giustizia, e ha detto che era ingiusta, e ha detto che era lei ad
esser giusta. E così, potendo fare solo ciò che è giusto, si è fatto che ciò che è forte sia giusto.
Blaise Pascal, Pensées, 1169 – 1670.
Madame de Sévigné
Lettres
A MONSIEUR DE COULANGES
Parigi, lunedì 15 dicembre 1670
Sto per darvi la notizia più eclatante, più sorprendente, più meravigliosa, più miracolosa, più trionfante,
più assordante, più inaudita, più singolare, più straordinaria, più incredibile, più imprevista, più grande,
più piccola, più rara, più comune, più segreta fino ad oggi, più brillante, più degna di nota: infine una
notizia di cui trovo un solo esempio nei secoli precedenti, addirittura quest’esempio non è corretto; una
notizia a cui non si crede a Parigi (come le si potrebbe credere a Lione?); una notizia che fa gridare
misericordia a tutti, una notizia che riempie di gioia Madame de Rohan e Madame d’Hauterive; un
progetto che finalmente si concretizzerà domenica, quando coloro che lo vedranno, crederanno di avere
le allucinazioni; un progetto che si realizzerà domenica, e che forse non si realizzerà lunedì. Non riesco
a darvela, indovinatela: ve lo dico in poche parole. Gettate la spugna? Eh bene! Quindi ve la dò:
Monsieur de Lauzun sposa domenica al Louvre, indovinate chi? Ve lo dico in poche parole: vi lascio
indovinare. Madame de Coulanges dice: «Questo è difficile da indovinare; è Madame de La Vallière».
«Per niente affatto, Madame». «È Mademoiselle de Retz?». «Per niente affatto, siete troppo
provinciale». «Siamo davvero stupidi, dite? È Mademoiselle Colbert». «Neanche lei». «È sicuramente
Mademoiselle de Créquy». «Non ci siete vicine». Alla fine, ve lo devo dire: domenica, egli sposa al
Louvre, con il permesso del Re, Mademoiselle, Mademoiselle de... Mademoiselle... indovinate il nome:
sposa Mademoiselle, mia fede! Per la mia fede! Mia fede giurata! Mademoiselle, la Grande
Mademoiselle; Mademoiselle, figlia del defunto Monsieur; Mademoiselle, nipote di Enrico IV;
mademoiselle d’Eu, mademoiselle de Dombes, mademoiselle de Montpensier, mademoiselle d’Orléans;
Mademoiselle, cugina germanica del Re.
[…]
Mme de Sévigné, Lettres, XIX lettera, edizione postuma, 1726.
Jean Racine
Phèdre
Teseo, figlio di Egeo, è in viaggio. Fedra, sua moglie, discute con la sua confidente, Enone.
ENONE

Amate?

FEDRA

Ho tutti i fuochi dell’amore.

ENONE

Nei confronti di chi?

FEDRA

Stai per ascoltare il culmine degli orrori.

Amo … Tremo, ho i brividi di fronte a questo nome.

Amo …

ENONE

Chi?

FEDRA

Conosci il figlio dell’Amazzone,

Quel principe così a lungo oppresso da me?

ENONE

Ippolito! Grandi Dei!

FEDRA

Sei tu ad averlo nominato.

ENONE

Santo cielo! Tutto il mio sangue nelle vene si ghiaccia.

Oh disperazione! Oh crimine! Oh razza deplorevole!

Viaggio sfortunato! Riva infelice,

bisognava avvicinarsi ai tuoi confini pericolosi?

FEDRA

Il mio male viene da più lontano. Appena avevo preso questo impegno con il figlio di Egeo,

Secondo le leggi del matrimonio,

La mia tranquillità, la mia felicità sembrava essere consolidata,

Atene mi mostrò il mio superbo nemico.


Lo vidi, arrossì, impallidì alla sua vista.

Jean Racine, Phèdre, I atto, III scena, 1677.

Denis Diderot
La religieuse
Suzanne Simonin è stata obbligata dai suoi genitori ad entrare in un convento, dov’è maltrattata. Ha
scritto ad un avvocato per essere liberata. La sua superiora, una donna severa, ha appena saputo la
notizia. Susanna risponde…
[…]
“Ognuno ha il proprio carattere, e io ho il mio; voi amate la vita monastica, e io la odio; voi avete
ricevuto l’ispirazione del vostro stato da Dio, a me manca del tutto; voi vi sareste persa nel mondo; e qui
voi assicurate la vostra salvezza; io mi perderei qui, spero di salvarmi nel mondo; sono e sarò una
cattiva religiosa”.
“E perché? Nessuno adempie i suoi doveri meglio di voi”.
“Ma ciò si verifica con pena e controvoglia”.
“Ne meritate di più”.
“Nessuno può sapere meglio di me ciò che merito; e sono costretta a confessare, sottomettendomi a
tutto, non merito nulla. Sono stanca di essere un’ipocrita; recitando la parte di colei che salva gli altri,
mi detesto e sono pronta a tutto. In una parola, madre, non conosco delle vere religiose se non coloro
che sono rinchiuse qui per il loro gusto del ritiro, e che vi resterebbero nel momento in cui non avessero
intorno né grate, né muraglie che le trattengono. Molti valori sono assenti, affinché io sia una religiosa:
il mio corpo è qui, ma il mio cuore è al di fuori: e se si dovesse scegliere tra la morte e la clausura,
propenderei per la morte. Ecco i miei sentimenti”.
“Ma come? Voi lascereste senza rimorsi questo velo, questi abiti che vi hanno consacrata al Signore?”
“Sì, madre, perché li ho presi senza riflessione e senza libertà”.
[…]
Denis Diderot, La religieuse, 1760 – 1781.
Voltaire
Traité sur la tolérance
XXIII capitolo
Preghiera a Dio
[…]
Non ci hai dato un cuore per odiarci e delle mani per ucciderci; fa’ che ci aiutiamo a vicenda a
sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera; fa’ che le piccole differenze tra i vestiti che
coprono i nostri corpi deboli, tra tutte le nostre lingue insufficienti, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra
tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre condizioni così
sproporzionate ai nostri occhi, siano così uguali davanti a te; fa’ che tutte queste piccole sfumature che
distinguono gli atomi chiamati uomini non siano segnali di odio e persecuzione; fa’ che coloro che
accendono i ceri in pieno giorno per celebrarti supportino coloro che si accontentano della luce del Sole;
fa’ che coloro che coprono il loro vestito bianco con una mantella bianca per dire che bisogna amarti
non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; fa’ che sia uguale adorarti
usando un gergo formato da un’antica lingua, o in un gergo più nuovo; fa’ che coloro che indossano un
abito rosso o viola, che dominano un piccolo pezzo di mondo e che possiedono qualche frammento
rotondo di un certo metallo, godano senza orgoglio di ciò che chiamano grandezza e ricchezza, e che gli
altri li osservino senza invidia: perché sai che non c’è nulla da invidiare, nulla di cui inorgoglirsi in
queste vanità. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli!
[…]
Voltaire, Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas, 1763.
Fanny de Beauharnais
Aux hommes
Orgogliosa di una falsa libertà,
Sesso, che credete sia superiore,
Siate, almeno, degno di esserlo.
Giustificate la vostra fierezza;
E poi, sarà affare nostro,
Quando l’avrete meritata,
Di superarvi per farvi piacere.
Perdonatemi questa franchezza,
Che può sembrarvi un oltraggio,
Ma che soddisfa il mio umore.
Viva, indipendente e libertina,
La mia penna obbedisce al mio cuore.
Conversare è il vostro svago:
È sicuramente molto nobile;
Il nostro è divertirsi,
Che, dimostrando meno, vale di più.
Al vostro più grande ragionamento,
Rispondiamo divertendoci,
Con ironia.
[…]
Fanny de Beauharnais, Mélange de poésies fugitives et prose sans conséquence, 1772.
Jean – Jacques Rousseau
L’inégalité entre les hommes
Concepisco nella Specie umana due tipi di disuguaglianza: una che definisco naturale o Fisica, perché è
stabilita dalla Natura, e che consiste nella differenza d’età, di salute, delle forze del Corpo e delle qualità
dello Spirito, o dell’Anima; l’altra che può esser definita disuguaglianza morale, o politica, poiché
dipende da una sorta di convenzione, ed è stabilità, o almeno autorizzata dal consenso degli Uomini.
Questa consiste nei diversi Privilegi, di cui alcuni godono, a danno degli altri, come essere più ricchi,
più onorati, più Potenti di loro, o addirittura di farsi obbedire. Non ci si può chiedere quale sia la fonte
della disuguaglianza Naturale, poiché la risposta si troverebbe enunciata nella semplice definizione della
parola: tanto meno ci si può chiedere se possa non esistere qualche connessione essenziale tra le due
disuguaglianze; poiché ciò significherebbe chiedersi, in altre parole, se coloro che comandano valgono
necessariamente più di coloro che obbediscono, e se la forza del Corpo o dello Spirito, la saggezza o la
virtù, siano insite negli stessi individui, in proporzione alla Potenza, o alla Ricchezza: una buon quesito
forse da proporre agli Schiavi ascoltati dai loro padroni, ma che non si addice a Uomini ragionevoli e
liberi, che cercano la verità. Di cosa si parla precisamente in questo Discorso? Si tratta di evidenziare,
nel progresso delle cose, il momento in cui il Diritto subentrò alla Violenza, la Natura fu sottomessa alla
Legge; di spiegare con quale sequenza di miracoli il forte si decise a servire il debole, e il Popolo si
decise a conquistare un riposo ideale, al posto di una felicità reale.
Jean – Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes,
1755.
Alfred de Musset
Lorenzaccio
Nel 1537, Lorenzo de’ Medici, cugino del duca Alessandro de’Medici, che regna nella città di Firenze,
incontra il pittore Tebaldeo davanti al portale di una chiesa.
LORENZO: “La tua giacca è consumata; ne vuoi una del mio Casato?”
TEBALDEO: “Non appartengo a nessuno. Quando il pensiero vuole essere libero, anche il corpo deve
esserlo”.
LORENZO: “Ho voglia di dire al mio valletto di darti dei colpi di bastone”.
TEBALDEO: “Perché, mio signore?”
LORENZO: “Perché questo mi passa per la testa. Sei zoppo di nascita o per caso?”
TEBALDEO: “Non sono zoppo; cosa volete dire con questo?”
LORENZO: “Sei stupido o sei pazzo”.
TEBALDEO: “Perché, mio signore? Volete prendervi gioco di me”.
LORENZO: “Se tu fossi stupido, come saresti rimasto, a meno che tu non sia pazzo, in una città in cui,
in onore delle tue idee di libertà, il primo valletto di un de’ Medici avesse potuto bastonarti senza che
nessuno trovi da ridire?”
TEBALDEO: “Amo mia madre Firenze; ecco perché resto qui. So che un cittadino può essere
assassinato in pieno giorno e in mezzo alla strada, secondo il capriccio di coloro che la governano; ecco
perché porto questo coltello nella mia cintura”.
LORENZO: “Colpiresti il duca se costui ti colpisse, come gli capitato spesso di commettere omicidi per
divertimento?”
TEBALDEO: “Se mi attaccasse, lo ucciderei”.
LORENZO: “Dici proprio questo a me?”
TEBALDEO: “Perché dovrebbe avercela con me? Non faccio del male a nessuno. Passo le giornate
all’atelier. La domenica, vado alla Chiesa dell’Annunziata o alla Chiesa di Santa Maria; i monaci
ritengono che sappia cantare; mi mettono un vestito bianco e un copricapo rosso, faccio la mia parte nei
cori, a volte un piccolo assolo: sono le uniche occasioni in cui mi mostro in pubblico. La sera, mi reco
dalla mia amante e, quando la notte è bella, la passo sul suo balcone. Nessuno mi conosce, e non
conosco nessuno: a chi può essere utile la mia vita o la mia morte?”
Alfred de Musset, Lorenzaccio, II atto, II scena, 1834.
Stendhal
La Chartreuse de Parme
All’inizio del XX secolo, Fabrizio del Dongo è imprigionato nella torre Farnese. Clelia, figlia del
governatore della fortezza, è innamorata di lui, ma ha promesso a suo padre di sposare il marchese
Crescenzi. Ella viene a sapere che Fabrizio sarà avvelenato. Nonostante vi siano le guardie, riesce a
raggiungerlo.
Guardò nella stanza e vide Fabrizio seduto davanti ad un piccolo tavolo, su cui c’era la sua cena. Si
precipitò verso il tavolo, lo ribaltò e, afferrando il braccio di Fabrizio, gli disse: “Hai mangiato?” Questo
atteggiamento piacque a Fabrice. Nella sua confusione, Clelia dimenticò per la prima volta la
moderazione femminile, e lasciava trasparire il suo amore. Fabrice stava per iniziare questo pasto fatale:
la prese tra le braccia e la riempì di baci. “Questa cena era avvelenata”, pensò, “Se le dico che non l’ho
toccata, la religione eserciterà i suoi diritti e Clelia fuggirà. Se invece mi vede in un pessimo stato, la
convincerò a non lasciarmi mai. Desidera trovare un modo per rompere questo deplorevole matrimonio,
il Caso ci aiuta: le guardie si raduneranno, sfonderanno la porta, ed ecco un tale scandalo che potrebbe
spaventare il marchese Crescenzi, e rompere il matrimonio”. Durante il momento di silenzio occupato
da queste riflessioni, Fabrizio sentì che Clelia stava già cercando di liberarsi dai suoi abbracci. “Non
provo ancora nessun dolore”, le dice, “Ma presto mi butteranno ai tuoi piedi: aiutami a morire”. “O mio
unico amico!”, le disse, “Morirò con te”. Lo stringeva tra le braccia, come in preda ad una convulsione.
Era così bella, mezza vestita e in questo stato di estrema passione, che Fabrizio non poté resistere ad un
movimento quasi involontario. Non oppose resistenza. Nell’entusiasmo della passione e della generosità
che segue una felicità estrema, le disse senza pensare: “Occorre solo che una menzogna indegna venga a
macchiare i primi istanti della nostra felicità: senza il tuo coraggio non sarei che un cadavere, o lotterei
in preda a dolori atroci; ma stavo per iniziare a cenare quando sei entrata, e non ho toccato affatto quei
piatti”.
Stendhal, La Chartreuse de Parme, II libro, XXV capitolo, 1839.
Honoré de Balzac
Illusions perdues
L’intelligente e seducente Lucien Chardon ha abbandonato la sua città di provincia, Angoulême, per
cercare gloria e fortuna a Parigi.
Durante la prima passeggiata casuale attraverso i Boulevards et la Rue de la Paix, Lucien, come tutti i
nuovi arrivati, si interessò più alle cose che alle persone. A Parigi, le masse si impadroniscono
dell’attenzione: il lusso delle boutiques, l’altezza delle case, l’affluenza delle auto, le costanti
opposizioni che rappresentano un estremo lusso e un’estrema miseria attirano primariamente
l’attenzione. Sorpreso da questa folla a cui era estraneo, quest’uomo di immaginazione sperimentò
un’immensa diminuzione di sé stesso. Le persone che godono in provincia di una qualsiasi stima e che
vi incontrano ad ogni passo una prova della loro importanza, non si abituano affatto a questa perdita
immediata e totale del loro valore. Essere qualcuno nel proprio paese ed essere nessuno a Parigi
rappresentano due stati che prevedono delle transizioni; e coloro che passano bruscamente da uno stato
all’altro cadono in una sorta di annientamento. Per un giovane poeta che trovava un’eco a tutti i suoi
sentimenti, un confidente per tutte le sue idee, un’ anima per condividere le sue più piccole sensazioni,
Parigi sarebbe stata un deserto spaventoso.
[…]
Honoré de Balzac, Illusions perdues, 1837 – 1843.
Victor Hugo
Demain, dès l’aube…
Questa poesia è stata scritta in onore di Léopoldine

Domani, all’alba, nell’ora in cui la campagna biancheggia,


Partirò. Vedi, so che mi attendi.
Vagherò attraverso la foresta, vagherò per la montagna.
Non posso restare lontano da te ancora a lungo.

Camminerò con gli occhi fissi sui miei pensieri,


Senza vedere niente al di fuori, né sentire alcun rumore,
Solo, sconosciuto, la schiena curva, le mani incrociate,
Triste, e per me il giorno sarà come la notte.

Non guarderò né l’ora della sera che arriva,


Né le vele che discendono in lontananza verso Harfleur,
E quando arriverò, metterò sulla tomba
Un mazzo di agrifogli verdi e di erica in fiore.

4 ottobre 1847
Victor Hugo, Les Contemplations, 1856.
Gustave Flaubert
Madame Bovary
Emma Bovary e il marito Charles, un medico, giungono a Yonville, un borgo della campagna
normanna, dove si stabiliranno. Hanno viaggiato con la domestica Felicité, una balia e Monsieur
Lheureux, un mercante di tessuti.
II
Emma scese per prima, poi Félicité, Monsieur Lheureux, la balia e furono obbligati a svegliare Charles,
che si era addormentato completamente in un angolo appena era calata la notte. Homais si presentò;
offrì i suoi omaggi a Madame Emma, i suoi convenevoli a Monsieur Charles, disse che era felice di
averlo aiutato e aggiunse con un’aria cordiale che aveva osato autoinvitarsi, sua moglie era assente.
Appena entrata in cucina, Madame Bovary si avvicinò al camino. Con l’estremità delle sue dita portò il
suo vestito all’altezza del ginocchio e, avendolo sollevato sino alle caviglie, tese verso la fiamma, al di
sopra del cosciotto che girava, il piede che calzava uno stivaletto nero. Il fuoco la illuminava
interamente, penetrando con luce violenta la trama del suo vestito, i pori della sua pelle bianca e persino
le palpebre dei suoi occhi che sbatteva di tanto in tanto. Un intenso colore rosso la ricopriva, secondo lo
spiffero di vento che proveniva dalla porta semiaperta. Dall’altra parte del camino, un giovane uomo dai
capelli biondi la osservava silenziosamente. Poiché si annoiava molto a Yonville, dove era aiutante
presso Maître Guillaumin, Monsieur Léon Dupuis (il secondo cliente abituale del Lion d’Or) rimandava
spesso il momento del suo pasto, sperando che venisse qualche viaggiatore alla locanda con cui
chiacchierare durante la sera. I giorni in cui aveva finito di lavorare, non sapendo cosa fare di meglio,
era costretto ad arrivare all’ora esatta e subire la conversazione con Binet dalla zuppa al formaggio. Fu
dunque con gioia che accettò la proposta della locandiera di cenare in compagnia dei nuovi arrivati, e
passarono nella grande sala, dove Madame Lefrançois aveva fatto preparare solennemente i quattro
coperti.
Gustave Flaubert, Madame Bovary, II capitolo, II parte, 1857.
Charles Baudelaire
Correspondances
La Natura è un tempio ove i pilastri viventi
Talvolta lasciano uscire parole confuse:
L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
Che lo osservano con sguardi familiari.

Come lunghi echi che si confondono in lontananza


In una cupa e profonda unità
Vasta come l’oscurità e come la luce,
I profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Vi sono profumi freschi come la pelle di bimbi,


Dolci come gli oboi, verdi come le prati,
E degli altri, corrotti, ricchi e trionfanti,

Che hanno l’espansione delle cose infinite,


Come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso,
Che cantano l’ebbrezza dello spirito e dei sensi.
Charles Baudelaire, Les Fleurs du mal, 1857.
Paul Verlaine
Mon rêve familier
Faccio spesso questo sogno strano e penetrante
Di una donna sconosciuta, che amo, e che mi ama
E che, ogni volta, non è proprio la stessa
Ma neppure un’altra, e mi ama e mi comprende.

Sì, mi comprende, e il mio cuore, trasparente


Solo per lei, ahimè! Cessa di essere un problema
Solo lei, piangendo, sa rinfrescare
I sudori della mia fronte smorta.

È bruna, bionda o rossa? Lo ignoro.


Il suo nome? Ricordo che è dolce e sonoro
Come i nomi dei nostri cari che la Vita esiliò.

Il suo sguardo è simile a quello delle statue,


E, per la sua voce, lontana, e calma, e grave,
Ha l’inflessione delle voci amate che ora tacciono.
Paul Verlaine, Melancholia, in Poèmes saturniens, 1866.
Arthur Rimbaud
Ma bohème
(Fantaisie)
Me ne andavo, i pugni dentro le tasche rotte;
Anche il mio pastrano diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! Ed ero a te fedele;
Per bacco! Che splendidi sogni d’amore!

I miei unici calzoni avevano un ampio strappo.


Pollicino sognante, sgranavo nella mia corsa
Di Rime. Il mio albergo era sotto l’Orsa Maggiore.
Le mie stelle nel cielo frusciavano dolcemente.

E le ascoltavo, seduto al bordo delle strade,


Nelle belle sere di settembre, mentre sentivo le gocce
Di rugiada sulla mia fronte, come un vino vigoroso.

Nel mentre, rimando in mezzo a ombre fantastiche,


Come fossero lire, tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede accanto al cuore!
Arthur Rimbaud, Poésies, Cahier de Douai, 1870.
Émile Zola
L’Assommoir
Gervaise, una donna povera, è andata a lavare il bucato con altre donne. Il suo amante Lantier si è
rifiutato di darle la sua biancheria. È rimasto a casa con i loro figli. I piccoli vanno a trovare la loro
madre.
[…]
Gervaise riconobbe Claude e Étienne. Appena la videro, corsero verso di lei, in mezzo alle pozzanghere,
sbattendo sulle pietre i talloni delle loro scarpe slacciate. Claude, il maggiore, prendeva per mano il
fratellino. Le lavandaie, al loro passaggio, emisero gridi di tenerezza a vederli un po’ spaventati, pur
sorridendo. Rimasero lì, davanti alla loro madre, senza separarsi, alzando il viso.
“Vi ha mandato vostro padre?”, domandò Gervaise.
Ma, appena si abbassava per allacciare le scarpe di Étienne, vide, ad un dito da Étienne, oscillare la
chiave della camera con il suo numero in ottone.
“Ecco! Mi hai portato la chiave!”, disse molto sorpresa. “Come mai?”
Accorgendosi di aver dimenticato la chiave al dito, il bambino sembrò ricordarsene e strillò con la sua
voce chiara: “Papa se n’è andato”.
“È andato a comprare il pranzo, vi ha detto di venirmi a cercare qui?”
Claude osservò suo fratello, esitò, non sapendo più cosa dire. Poi, riprese ad un tratto: “Papà se n’è
andato. È saltato dal letto, ha conservato le sue cose in un baule e l’ha messo in una macchina. Se n’è
andato”.
Gervaise, inginocchiata, si alzò lentamente, il viso pallido, portando le mani sulle guance e sulle tempie,
come se sentisse la testa rompersi. Trovò solo una parola, che ripeté venti volte con lo stesso tono: “Ah!
Mio Dio! … Ah! Mio Dio! … Ah! Mio Dio! …”
Nel frattempo, Madame Boche interrogava il bambino, tutta eccitata di trovarsi in questa storia.
“Vediamo, piccolo mio, bisogna ricostruire l’accaduto… Ha chiuso la porta e vi ha detto di portare la
chiave, no?”
Abbassando la voce, disse all’orecchio di Claude: “C’era una signora in macchina?”
Émile Zola, L’Assommoir, 1877.
Marcel Proust
À la recherche du temps perdu
I PARTE
COMBRAY
PER MOLTO TEMPO, mi sono coricato presto. A volte, appena spenta la candela, i miei occhi si
chiudevano così velocemente che non avevo il tempo di dirmi: “Mi addormento”. E, mezz’ora dopo, mi
svegliava il pensiero che fosse tempo di cercare il sonno; volevo posare il libro che credevo di avere
ancora nelle mani e soffiare la mia luce; nonostante dormissi, non avevo terminato di riflettere su ciò
che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava
che io stesso fossi il soggetto di cui parlava l’opera: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e
Carlo V. Questa sensazione persisteva per qualche secondo al mio risveglio; non sconvolgeva la mia
ragione, ma pesava come squame su miei occhi e impediva loro di rendersi conto che il candelabro non
era più accesa. Poi cominciava a diventare incomprensibile per me, come lo sono i pensieri di
un’esistenza precedente dopo la metempsicosi; il tema del libro si discostava da me, ero libero di
applicarmici o no; ritrovavo immediatamente la vista ed ero stupito di trovare intorno a me un’oscurità,
dolce e riposante per i miei occhi, ma forse ancora di più per il mio spirito, al quale essa appariva come
una cosa senza causa, incomprensibile, come una cosa veramente oscura.
[…]
Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, I Du côté de chez Swann, 1913.
Guillaume Apollinaire
Automne malade
AUTUNNO malato e adorato
Tu morirai quando l’uragano soffierà sui roseti
Quando avrà nevicato
Nei frutteti

Povero autunno
Muori nel candore e nella ricchezza
Di neve e di frutti maturi
Sullo sfondo del cielo
Gli sparvieri volano
Sulle piccole ninfe dai capelli verdi
Che non hanno mai amato

Ai bordi lontani
I cervi hanno bramito

Come amo, o stagione, come amo i tuoi rumori


I frutti cadono senza essere colti
Il vento e la foresta che rilasciano
Tutte le loro lacrime in autunno foglia a foglia
Le foglie
Che calpestiamo
Un treno
Che corre
La vita
Che scorre
Guillaume Apollinaire, Alcools, 1913.

Jean – Paul Sartre


Les Mouches
VII scena
Elettra, sola
Elettra
Ella urlerà? (Un tempo. Ella ascolta attentamente). Egli cammina nel corridoio. Quando avrà aperto la
quarta parta … Ah! L’ho voluto! Lo voglio, devo volerlo ancora. (Guarda Egisto). Costui è morto. Ecco,
questo è ciò che volevo. Non me ne rendevo conto. (Si avvicina a lui). Mi è apparso cento volte in
sogno, disteso nello stesso posto, una spada nel cuore. I suoi occhi erano chiusi, sembrava che dormisse.
Come lo odiavo, come ero felice di odiarlo. Non sembra dormire e i suoi occhi sono aperti, mi guarda. È
morto e il mio odio è scomparso. E sono qui; e aspetto, e l’altra è ancora viva, in fondo alla stanza, e tra
poco urlerà. Urlerà come una bestia. Ah! Non posso più sopportare questo sguardo. (Si inginocchia e
getta un fazzoletto sul viso di Egisto). Dunque, che cosa volevo? (Silenzio. Poi il grido di Clitemnestra).
L’ha colpita. È stata nostra madre e l’ha colpita. (Si rialza). Ecco, i miei nemici sono morti. Per anni, ho
goduto in anticipo per questa morte ed ora il mio cuore è oppresso. Mi sono mentito per quindici anni?
Non è vero! Non è vero! Non può essere vero: non sono un codardo! Ho desiderato e desidero ancora
questo momento. Ho voluto vedere questo porco immondo sdraiato ai miei piedi. (Toglie il fazzoletto).
Non mi importa del tuo sguardo da pesce lesso. Ho voluto questo sguardo e ne godo. (Grida più deboli
di Clitemnestra). Che grida! Che grida! Voglio le sue grida di orrore e voglio vederla soffrire. (Le grida
cessano). Che gioia! Che gioia! Piango di gioia: i miei nemici sono morti e mio padre è stato vendicato.
Oreste entra con una spada insanguinata nelle mani. Corre da lui.
Jean – Paul Sartre, Les Mouches, II atto, VII scena, 1943.
Jacques Prévert
Le chat et l’oiseau
Un villaggio ascolta desolato
Il canto di un uccello ferito
È l’unico uccello del villaggio
E l’unico gatto del villaggio
L’ha divorato per metà
E l’uccello smette di cantare
Il gatto smette di fare le fusa
E di leccarsi il muso
E il villaggio prepara all’uccello
Meravigliosi funerali
E il gatto che è invitato
Cammina dietro la piccola bara di paglia
Ove giace l’uccello morto
Portato da una ragazzina
Che non smette di piangere
Se avessi saputo che ti avrebbe causato tanto dolore
Le dice il gatto
L’avrei mangiato per intero
E poi ti avrei raccontato
Che l’avevo visto volare via
Volare sino al fine del mondo
In luogo talmente lontano
Che mai nessuno ne ritorna
Avresti provato meno dolore
Semplicemente tristezza e nostalgia

Non bisogna mai fare le cose a metà.


Jacques Prévert, Histoires, 1946.

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