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LA STEPPA
segue terza serie di racconti
La Steppa avrebbe dovuto a rigore essere inserito nella seconda serie di racconti, tutti
scritti nel periodo che va dal 1886 al 1890, ma merita un posto a parte non solo per il suo
valore letterario, ma anche per l’inconsueta lunghezza. L’insigne slavista Igor Sibaldi,
scrittore e traduttore, drammaturgo, filosofo e teologo, osserva che La Steppa " fu il primo
successo importante di Cechov: Il pubblico degli anni Ottanta lo capì al volo, e tutt'intero,
riconoscendovisi appieno, e da allora egli ebbe entusiasti a non finire."
Ma La Steppa, nonostante sia un successo straordinario, nonostante piaccia enormemente ai
lettori di ogni ceto, commuova, entusiasmi perfino un lettore difficile come Tolstoj, non
convince gran parte della critica, che storce il naso. E questo perché l’impianto è originale, lo
stile vario, a seconda degli ambienti in cui la storia si snoda, ora lirico e alto, ora basso e
quotidiano; i personaggi a volte compaiono brevemente, bruschi e imbronciati, a volte
chiacchierano volentieri e indugiano a rievocare i tempi trascorsi, ma in genere le loro comparse
sono casuali e il loro rilievo è modesto. I critici giudicano il racconto disorganico, frammentario,
dispersivo.

Il racconto
1988: iniziato ai primi di gennaio, lo finisce il 3 febbraio. Un mese di lavoro, 100 pagine: Cechov
non ha mai scritto tanto e procede nella stesura del lungo racconto alternando momenti di
dubbio a momenti di entusiasmo, come confida in alcune lettere ad amici, in particolare a
Plesceev, poeta e scrittore che ha il doppio dei suoi anni e in cui egli riconosce un venerato
maestro: “Vi aspettate da me qualche cosa di buono, ma sarà una grande delusione! Temo che la
mia Steppa sia del tutto insignificante. Scrivo lentamente, senza fretta, con gusto, ma non
sono soddisfatto, sebbene in alcuni punti ci siano dei bei ‘versi in prosa’. Il fatto è che scrivere
piccoli lavoretti mi ha viziato”. Con quell’espressione, ’versi in prosa’, Cechov mostra di essere
ben consapevole del carattere poetico della sua prosa che suggestiona, affascina, cattura i
lettori di allora e di oggi.
Ad un altro amico il 4 febbraio, appena scritta la parola fine al suo racconto, confida: “che mi
sia riuscito o no, è il mio capolavoro, di meglio non posso fare”. La steppa esce sul prestigioso
mensile Messaggero del Nord -Severnyj vestnik- e all’entusiasmo dei lettori comuni e dei
colleghi scrittori si contrappongono, come abbiamo sopra osservato, i giudizi negativi dei critici
che insistono sul carattere frammentario dell’opera.

Frammentaria La steppa? E sia. L’anno dopo –osserva col solito acume Fabio Malovati- Cechov si
prende subito la rivincia. Sulla stessa rivista, “Il messaggero del Nord”, esce un nuovo racconto
lungo, questa volta compatto, solidamente costruito, senza digressioni, Una storia noiosa. Il
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protagonista, Nikolaj Stepanovic, è un illustre professore di medicina, famoso e venerato in


patria e all’estero. Il racconto è eccezionalmente in prima persona: Nikolaj Stepanovic parla di
sé partendo dall’ultima notizia: una malattia che gli concede non più di sei mesi di vita: la storia
è la cronaca minuziosa di una morte annunziata. Questa volta i critici danno per lo più giudizi
favorevoli, ma considerano insoddisfacente la conclusione: non capiscono che senso abbia
lasciare Nikolaj Stepanovic solo, in una stanza d’albergo, in attesa della prima colazione e della
morte imminente, senza una parola o un gesto che definisca il suo stato d’animo. Nessun
commento, nulla che possa preparare alla FINE il lettore che resta immerso nel silenzio di quella
solitudine senza conforto e senza la luce di una fede.

Ma torniamo a La steppa: il titolo mette in primo piano il paesaggio della steppa ucraina,
spettacolo ora monotono, di sterminate pianure in cui sono rarissime le tracce di presenze
umane, ora vario, quando compaiono monti aspri e impetuosi corsi d’acqua, sempre animato da
presenze animali che percorrono la terra o si librano in volo nelle diverse ore del giorno assolato,
o del crepuscolo nebbioso, o dell’alba luminoso. La steppa vive inquieta, in essa ogni elemento è
animato, si muove, emette suoni, dialoga con la natura. “Il sole aveva già fatto capolino da dietro
la città e con calma, senza affannarsi, si era messo al lavoro" . [ … ] “Dalle colline comparve
inaspettatamente una nuvola ricciuta grigio cenere. Scambiò un' occhiata con la steppa - 'lo
sarei pronta!' - e divenne cupa. All'improvviso nell'aria stagnante qualcosa si lacerò, il vento
proruppe e con fragore, sibilando, cominciò a turbinare sulla steppa. All'istante l'erba levò un
mormorio" [ … ] "La segale falciata, l'erbaccia, l'euforbia, la canapa selvatica, tutto, imbrunito
dall' arsura, rossiccio e mezzo morto, lavato ora dalla rugiada e accarezzato dal sole, rinasceva
per fiorire nuovamente. [ ... ] Le cavallette, i grilli, i canterini, le grillotalpe intonarono nell' erba
la loro musica stridula, monotona. Non trascorse molto tempo che la rugiada evaporò, l'aria
stagnò, e la steppa, ingannata, assunse il suo misero aspetto di luglio. L'erba chinò il capo, la vita
si arrestò. Nell'erba la musica cessò" [ ...] "Balbettando dolcemente, il ruscello gorgogliava" [ ... ]
"Era la pioggia. Essa e la stuoia, come se si capissero a vicenda, si misero a parlare di qualcosa
velocemente, allegramente e in modo estremamente fastidioso, come due pettegole" .

Nel racconto la steppa è descritta quale appare allo sguardo stupito, attonito, sempre attento,
talora turbato o addirittura atterrito di un bambino di nove anni, Egòruska, il vero protagonista
della vicenda; e forse non si dovrebbe nemmeno parlare di questa “avventura” come di una
vicenda vera e propria, perché la frammentarietà di cui i critici accusarono Cechov è la
caratteristica del racconto, connessa alla originale scelta dell’autore, quella di immedesimarsi in
un ragazzino a cui il mondo si svela proprio nella sua affascinante, incomprensibile, conturbante
frammentarietà. Impossibile fare un tradizionale riassunto, ma possiamo accennare qui alla
“trama” dell’opera in una stringatissima sintesi, a cui seguirà un’analisi più dettagliata delle
singole parti. Premetto che cercherò di contenere al massimo le citazioni; il racconto richiede
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proprio, più che qualsiasi altro, una lettura diretta, che sarà, per chi vi si immerge, una bella
scoperta e un autentico piacere.
Il racconto è scandito in episodi: la partenza in calesse di Egòruska con lo zio Ivàn Ivànyc e il
pope Chrìstofor, su un calesse guidato del cocchiere Déniska; // la prima parte del viaggio,
programmato allo scopo di vender lana, nella mattina afosa; // l'arrivo alla locanda di proprietà
di due fratelli ebrei, Mojséj e Solomòn; // il trasferimento di Egòruska sul carro del vecchio e
saggio Pantelej, in un altro grande convoglio che porta, tra molte altre, le balle di lana
appartenenti a Ivàn Ivànyc; // il seguito del viaggio con il nuovo convoglio, la tempesta,
l'arrivo allo scalo, la malattia di Egoruska; // la sistemazione del ragazzo presso Nastas'ja
Petrovna, amica della madre, che lo terrà a pensione per il periodo di studi; // infine, la
separazione dallo zio e da padre Chrìstofor.

Analisi del racconto


Otto capitoli – quattro giorni
In corsivo le citazioni

PRIMO GIORNO – CAP 1-3


CAP. I
Una mattina di luglio, sul fare dell'alba, dalla città di N., capoluogo del govematorato di Z.,
partì un calesse senza molle e malandato, rotolando rumorosamente per la strada maestra: … Il
calesse strideva ad ogni movimento, e un secchio legato di dietro gli rispondeva tristemente; …
Nel calesse sedevano due abitanti di N., il mercante Ivàn Ivànyc Kuz’micòv, tutto raso, con
gli occhiali e un cappello di paglia, simile più a un impiegato che a un mercante, e padre
Chrìstofor Sirìjskij, priore della chiesa di San Nicola, un vecchietto dai lunghi capelli, con un
caffetano di tela grigia, un cappello a cilindro a larghe tese e una cintura ricamata, di color vivo.
Il primo era tutto assorto in qualche pensiero e scrollava il capo per cacciare il sonno: sul viso, la
secchezza solita dell'uomo d'affari contrastava con la bonarietà di chi ha bevuto bene e si è da
poco allontanato dai propri familiari. Il secondo guardava con occhi umidi e meravigliati questo
mondo di Dio, e sorrideva così largamente che il suo sorriso sembrava arrivare alle falde del
cilindro; aveva un'aria infreddolita, il viso rosso. … Oltre a loro e al cocchiere Déniska, che
frustava senza posa i due cavalli morelli, si trovava nel calesse un altro passeggero, un ragazzo
di nove anni all'incirca, dal viso scuro, tinto dal sole e umido di lacrime.
Questi era Egòruska, nipote di Kuz’micòv. Col consenso di suo zio e con la benedizione di
padre Chrìstofor partiva per entrare al ginnasio. Sua mamma, Ol’ga Ivànovna, vedova di un
segretario comunale, sorella di Kuz’micòv, molto amante delle persone istruite e della buona
società, aveva supplicato il fratello, che andava a vendere la lana, perchè prendesse Egòruska
con sè e lo facesse studiare in un ginnasio. Ed ora il ragazzo, senza nemmeno sapere dove andava
né perché, stava seduto a cassetta accanto a Déniska, al braccio del quale si reggeva per non
cadere, rimbalzando a ogni scossa.
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Contenere le citazioni non può significare evitarle del tutto, e l’inizio del racconto è un
momento troppo essenziale, sia dal punto di vista stilistico sia da quello narrativo, per non
soffermarcisi: in poche righe compaiono i protagonisti, si definisce l’ambiente in cui vivono, si
delineano lo scopo e la meta del viaggio.
Egòruska osserva i luoghi a lui noti e cari che sta lasciando e piange amaramente; lo zio lo
rimprovera, padre Chrìstofor cerca di confortarlo. Procedendo si trovano nella pianura vasta e
sconfinata che si anima allo sguardo del ragazzino: un pioppo solitario lo fa fantasticare: Dio
solo sa chi lo ha piantato, perchè sia là. È difficile distogliere lo sguardo dalla sua figura
slanciata e dalla sua verde veste. Sarà felice? D'estate il caldo, d'inverno il gelo e le burrasche,
d'autunno le notti paurose, quando non si vede altro che l'oscurità e non si sente che il vento
folle, urlante, rabbioso; e soprattutto, solo, tutta la vita, solo . E in lontananza compare un mulino
a vento che muove le ali, sempre simile a un ometto che agita le braccia. Viene a noia guardarlo:
sembra che non si debba arrivar mai sino a lui, che fugga via, dinanzi al calesse.
A un vecchio pastore scalzo, una figura biblica, che sta a guardia di un gregge, Kuz’micòv chiede
di chi siano gli animali. «Di Varlàmov!» risponde con voce forte il vecchio. ,,,
«È passato di qui ieri Varlàmov, o no?»
«No certo... È passato il suo amministratore, è passato...»

Nelle ultime righe del capitolo compare per la prima volta il nome Varlàmov, nome che ricorre
come centro e motore dell’aspetto economico di tutti i movimenti e gli spostamenti dei
protagonisti della vicenda in cui è coinvolto suo malgrado Egòruska. La sua ultima comparsa, poco
simpatica, concluderà il sesto capitolo.

CAP. II corsivo citazioni


Riposo lungo un ruscello. Padre Chrìstofor racconta: la storia della sua vita giovanile è
bellissima. Poi lo zio e il pope riposano all’ombra e Egòruska li osserva: il viso dello zio
esprimeva, come prima, la secchezza dell'uomo d'affari. Fanatico del proprio mestiere,
Kuzmikòv pensava sempre agli affari, persino nel sonno, anche durante la preghiera, in chiesa,
quando si cantava «Ecco i cherubini», non dimenticandoli neppure per un minuto; e adesso,
forse, sognava balle di lana, convogli, prezzi, Varlàmov... Padre Chrìstofor, invece, uomo mite,
cordiale e volubile non aveva trovato in tutta la vita un solo affare che fosse stato capace,
come un serpente, di avviluppargli l'anima. Nelle numerose imprese in cui s'era messo, era
stato attratto non tanto dall'affare in sè quanto dall'animazione e dai rapporti con le persone
partecipanti a ogni impresa. Così, in quel viaggio, lo interessavano non tanto la lana, Varlàmov e
i prezzi, quanto la strada lunga e i discorsi fuori ora.
Fa molto caldo e anche Egòruska e Déniska si assopiscono.
4E4g4ò4r4us4k4a4 nel dormiveglia4 avverte uno strano canto sommesso e gli 4p4a4r44e4
4c4h4e4 s4ia4 4l‘e4r4b4a4 4a4 4c4a4n4t4a4r4e4;4 4n4e4l4l4a4 4s4u4a4
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5l5a5m5e5n5t5o5s5a5 5e5 5s5i5n5c5e5r5a5,5 5p5e5r5s5u5a5d5e5v5a5
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5d5i5 5p5r5o5v5a5r5 5p5e5n5a5 5p5e5r5 5s5e5 5s5t5e5s5s5a.5
5Finalmente Déniska, svegliatosi, prende, esultante, una grossa cavalletta, chiama Egòruska e
gli mostra tutto orgoglioso la sua preda. La scena che segue è davvero originale e divertente:
Pensando che la cavalletta ne avesse piacere, Egòruska e Dèniska l'accarezzarono col dito
sulla larga schiena verde, le toccarono le antenne. Poi Dèniska acchiappò una grossa mosca che
aveva succhiato del sangue, e la diede alla cavalletta. Questa, con indifferenza, quasi che da
un pezzo conoscesse Dèniska, mosse le sue grandi mandibole simili alla visiera di un berretto e
divorò il ventre della mosca. Poi fu liberata, brillò col rovescio rosa delle ali e, lasciatasi
cadere tra l'erba, riprese la sua canzone. Anche la mosca fu liberata, spiegò le ali e senza
ventre se ne volò verso i cavalli.
Il viaggio riprende nella calura opprimente, sulla strada polverosa. Un tuono rimbomba lontano
e si spera in un temporale, ma invano: la nuvola che era comparsa si dissolve.
E infine arriva la sera.

CAP. III corsivo citazioni


È un capitolo assai movimentato, ambientato in una stazione di posta cadente gestita da una
famiglia di ebrei. I nostri viaggiatori sono accolti con entusiasmo dal proprietario della locanda,
Mojséj Mojséic, che è felice di offrire loro il tè. Mojséj ha una moglie, sei figli e un fratello
scontroso e sgarbato, Solomòn. Le vivaci e varie chiacchiere ( 1) che si intrecciano intorno a lui
non impediscono a Egòruska di sonnecchiare, quando una voce femminile lo riscuote ed egli si
stropiccia gli occhi. In mezzo alla stanza compare una giovine donna assai bella e avvenente, in
abito nero e con un cappello di paglia. Prima che Egòruska avesse avuto modo di osservare i
tratti del suo viso gli venne in mente, chissà perchè, il pioppo solitario e sottile visto sulla
collina.
«È passato per di qui, oggi, Varlàmov?» chiese la donna.
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«No, eccellenza!» rispose Mojsèj Mojsèevic.


«Se lo vedete domani pregatelo di venire un momento da me.»
A un tratto, vicinissimo ai suoi occhi, Egòruska vide sopra di sè due nere sopracciglia vellutate,
due grandi occhi grigi e le morbide guance di una donna da cui si effondeva per tutto il volto un
sorriso pari a un raggio di sole. Un profumo delizioso gli giunse.
«Che bel bimbo!» disse la donna. «Di chi è? … Dio mio, dorme! Come è bello...»
La donna baciò forte Egòruska sulle guance... Egli sorrise, e fingendo di dormire chiuse gli occhi.
Ma la porta gemette nuovamente e si udirono dei passi frettolosi. Qualcuno entrò e uscì.
«Egòruska! Egòruska!» sussurrarono due grosse voci, «alzati, partiamo!»
Qualcuno, forse Dèniska, sollevò in piedi Egòruska e lo condusse per mano nella strada; egli
socchiuse gli occhi e vide ancora la bella donna vestita di nero che lo aveva baciato. Stava in
mezzo alla camera, e vedendo che partiva lo guardava sorridendo e lo salutava amichevolmente
con cenni del capo. Vicino alla porta vide un bell'uomo, bruno e robusto con un cappello duro e...
di cuoio: forse accompagnava la donna.
«Tprrr!» si udì dal cortile.
Sulla soglia della casa Egòruska vide una magnifica carrozza nuova, tirata da una pariglia di
cavalli neri. A cassetta stava seduto il cocchiere in livrea con una lunga frusta in mano. …
«La contessa Dranìtskaja,» disse sottovoce padre Chrìstofor, mentre saliva in calesse.
«Sì, la contessa Dranìtskaja;» ripetè Kuzmicòv, anche lui a bassa voce.
L'impressione prodotta dall'arrivo della contessa doveva essere stata assai forte, perchè ora lo
stesso Dèniska parlava a bassa voce; e solo dopo che il calesse ebbe percorso un quarto di
versta, e ormai, lontano, non si vedeva che un lumino della locanda, si decise a frustare i cavalli.

(1) non ci soffermiamo qui su queste conversazioni, anche se tutte, apparentemente oziose e divaganti, hanno relazione con la
storia e chiariscono tratti del carattere dei nostri viaggiatori.

SECONDO E TERZO GIORNO – CAP 4-7

CAP. IV corsivo citazioni


Secondo giorno
Egoruska sul calesse medita: ma chi sarà questo Varlamov che tutti cercano? Intanto lo zio e il
pope parlano della contessa Dranìskaja e Com’era bella, pensava Egòruska ricordando il suo volto
e il suo sorriso. Si fa sera, si procede sotto la luna, quando un incontro segna una svolta radicale
nel viaggio di Egòruska che sonnecchia sul calesse e che viene bruscamente risvegliato da voci
sonore:
«Trrr! Salute Pantelèj, tutto bene?»
«Ringraziamo Dio, Ivàn Ivànyc.»
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«Ragazzi, non avete visto Varlàmov?»


«No, non lo abbiamo veduto.»
Egòruska aprì gli occhi: il calesse stava fermo e a destra, sulla strada, si allungava un convoglio.
Tutti i carri, carichi di lana, parevano assai alti, gonfi, e i cavalli piccoli, con le gambe corte.
«Allora adesso andremo dal molokàn!» disse a voce alta Kuzmikòv. «L'ebreo ci ha assicurato
che Varlàmov pernotta dal molokàn. Se è così, addio fratelli! Dio sia con voi!»
«Arrivederci, Ivàn Ivànyc!» risposero alcune voci.
«Ehi, ragazzi!» disse con vivacità Kuzmicòv. «Non potreste prendere con voi il mio ragazzo?
Perché sballottarlo inutilmente qui con noi? Mettilo, Pantelèj, sopra una delle tue balle; se ne
andrà così pian pianino, e noi poi vi raggiungeremo. Su, va' Egòr! Va', non preoccuparti.»
Egòruska scese di cassetta. Alcune braccia lo afferrarono, lo sollevarono molto in alto, ed egli si
trovò sopra qualcosa di grande e di morbido, un po' bagnato dalla rugiada. Gli sembrava ora che il
cielo fosse vicino e la terra lontana.
Quando Egòruska si sveglia splende già il sole; il convoglio è di una ventina di carri ed egli si
trova sull’ultimo. Accanto al carro cammina un vecchio con la barba bianca, a piedi nudi, che parla
volentieri e si presenta: si chiama Panteléj Zachàrov Chòlodov e sarà amico affettuoso di
Egòruska. Due carri più avanti un uomo camminava con la frusta in mano e un lungo pastrano
rossiccio, in camiciotto e stivali alti, rimboccati. Non era vecchio, aveva circa quarant'anni.
Quando si voltò, Egòruska vide la sua faccia lunga e rossa con una rada barbetta da capra e un
bitorzolo spugnoso sotto l'occhio destro. Oltre a quel bitorzolo, colpiva in lui un'altra
caratteristica: teneva nella sinistra la frusta e agitava la destra come a dirigere un coro
invisibile; di tanto in tanto metteva la frusta sotto l'ascella, e dirigeva allora con tutte e due le
mani, borbottando qualche cosa fra sè. Scopriremo che si chiama Emel’jàn e che era un cantore
il quale non poteva rassegnarsi al fatto di aveva perso la voce.
Il conducente che veniva dopo di lui aveva una figura lunga e diritta, con le spalle spioventi
e la schiena piatta come una tavola. …. Il suo viso era fasciato con uno straccio, e gli sporgeva sul
capo qualche cosa come il cappuccio di un frate; indossava il camiciotto corto dei cosacchi,
rattoppato, portava larghi calzoni turchini sboffanti, e invece di scarpe aveva i sandali; è Vas’ja,
dalla vista acuta, cha ama gli animali ed è facile al riso.
Panteléj, Emel’jàn e Vas’ja saranno i preziosi compagni del viaggio nella steppa; meno positivi,
talora sgradevoli e aggressivi sono il carrettiere Dymov, rosso di capelli, e il barbuto ridanciano
Kirjùcha, entrambi cordialmente detestati da Egòruska

CAP. V corsivo citazioni


Ancora secondo giorno
Fa un caldo torrido; il convoglio si accampa non lontano da un villaggio, sulla riva di un fiume dove
alcuni si tuffano. Si pescano pesci e gamberi, Emel’jàn ed Egòrusca vanno in chiesa al villaggio –
bello il breve dialogo tra i due- e al ritorno si mangia la zuppa di gamberi e si chiacchiera.
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Mentre mangiavano discorrevano tutti insieme. Da quella conversazione Egòruska capì che
nei suoi nuovi conoscenti, nonostante le differenze di età e di carattere, c'era qualche cosa di
comune, che li rendeva simili l'uno all'altro: tutti pareva avessero un bellissimo passato e un
bruttissimo presente, e tutti parlavano del proprio passato esaltandosi, mentre invece
parlavano del presente con disprezzo. Il russo ama ricordare ma non ama vivere. Egòruska non
lo sapeva ancora, e prima che la zuppa fosse finita già credeva per certo che lì intorno alla
pentola fossero sedute delle persone profondamente umiliate e offese dalla sorte.
Pantelèj narrava che in passato, allorchè di strade ferrate non ne esisteva una sola,
andava coi convogli a Mosca e a Niznij e guadagnava tanto da non sapere che farsene, di tutto
quel denaro. E che mercanti, a quel tempo, e che pesce! E come tutto era a buon mercato!
Adesso invece i tragitti erano diventati più brevi, ma i mercanti eran diventati più avari, e il
popolo più povero, e il pane più caro; tutto si era ristretto e immiserito. Emeljàn raccontava
che un tempo aveva lavorato nella fabbrica di Lugànsk, che aveva fatto il cantore, che aveva
una magnifica voce e leggeva le note benissimo; mentre ora era diventato un contadino e viveva
dell'elemosina del fratello, il quale lo mandava coi suoi cavalli prendendo per sè la metà del
guadagno. Vasja aveva lavorato una volta in una fabbrica di fiammiferi, Kirjùcha era stato
cocchiere presso una buona famiglia ed era considerato il miglior guidatore di troika dei
dintorni. Dymov, figlio di un contadino benestante, era vissuto a suo piacere, non aveva
conosciuto mai il dolore, e appena compiuto i ventanni, suo padre, che era burbero e risoluto,
volendo abituarlo al lavoro e temendo che a casa prendesse brutte abitudini, lo aveva mandato
coi convogli come garzone. Soltanto Stëpka taceva; ma dal suo volto senza baffi si vedeva che,
anche lui, era stato prima assai meglio di adesso.
Ricordando suo padre, Dymov lasciò di mangiare e si rabbuiò. Guardò di sottecchi i suoi
compagni e fermò lo sguardo su Egòruska.
«Tu, togliti il cappello,» gli disse brutalmente. «Come si fa a mangiare col cappello in
testa? Eppure sei un signore..»
Egòruska si tolse il cappello e non proferì una parola; ma non sentiva già più il sapore della
minestra nè udiva come lo difendevano Pantelèj e Vàsja. Gli fermentava dentro una gran rabbia
contro quell'insolente, e decise di fargli del male, a ogni costo.
Dopo il pasto, tutti si distesero all'ombra del convoglio .
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CAP. VI corsivo citazioni


Fine secondo – inizio terzo giorno
Il convoglio rimase per tutto il giorno vicino al fiume e si mise in marcia al calar del sole.
Inizia così il sesto capitolo, ricco di riflessioni nella prima parte, nella seconda di racconti in
cui Cechov dà voce prima a Dymov, poi a Pantelèj, personaggi che qui acquistano una
consistenza e uno spessore umano imprevisto e suggestivo, per lo più segnato da una dolente
rassegnazione. Anche la steppa appare con un nuovo carattere agli occhi di Egòruska, e lo
spettacolo suscita in lui uno stupore malinconico che evoca ricordi tristi, tra gli altri il ricordo
della nonna chiusa nella bara che induce in lui il pensiero della morte; e proprio sul tema della
morte verteranno, con toni diversi, i racconti dei suoi compagni di viaggio

Egòruska si mise di nuovo a giacere sul sacco. Il carro carico cigolava sordamente e traballava.
Pantelèj camminava da un lato pestando i piedi, battendosi i fianchi, borbottando; come il
giorno innanzi, nell'aria sussurrava la musica della steppa.
Egòruska giaceva supino con le braccia sotto la testa, guardando il cielo. Vide il tramonto
accendersi e poi spegnersi; gli angeli custodi, ricoprendo l'orizzonte con le loro ali dorate, si
preparavano al riposo: la giornata era trascorsa felicemente, una calma e benefica notte
scendeva, ed essi potevano rimanere tranquilli nella propria dimora, in cielo... Egòruska vide la
luce oscurarsi, a poco a poco, calare sulla terra la caligine notturna, accendersi una dopo
l'altra le stelle.
Quando a lungo si guarda il cielo profondo, senza staccare gli occhi, non si sa perchè i
pensieri e l'anima si fondono nella coscienza della nostra solitudine. [ … ] e viene in mente la
solitudine che attende ciascuno di noi nella tomba, e l'essenza stessa della vita si presenta
terribile, disperata...
Egòruska pensò alla nonna che dormiva, ora, nel camposanto, sotto i ciliegi: [ … ] Si
rappresentava morti la mamma, padre Chrìstofor, la contessa Dranìtskaja, Salomòn. [ … ]
Pantelèj, che aveva già da un pezzo l'età di morire, camminava all'altezza del cavallo
rimuginando: propri pensieri.
«Non c'è male... Buoni signori...» borbottava. «Portano il ragazzo a studiare, ma che cosa lui
farà poi, non lo sanno... A Slavjanosèrbsk non c'è un'istituzione tale da condurre a questo, è
vero... Il ragazzo è buono, non c'è che dire... Quando sarà grande, aiuterà suo padre. Tu Egòrij sei
ancor piccino, ma diventerai grande e darai da mangiare a tua madre, a tuo padre. Così è
comandato da Dio... Onora tuo padre e tua madre... Io pure ho avuto dei figlioli, ma sono bruciati...
Mia moglie e i miei figlioli sono bruciati... Era proprio la notte d'Epifania che s'incendiò la casa. Io
non c'ero, io ero per la strada di Orël, verso Orël... Màrja era saltata nella strada ma si ricordò
che i figlioli dormivano nella casa, e corse indietro e bruciò con tutti i figlioli... Sì... l'indomani
trovarono soltanto le ossa.»
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Dunque la vita di questo amabile vecchietto scalzo, affettuosamente paterno col ragazzino che gli
è stato affidato, è segnata da una tragedia degna di Shakespeare.
A questo proposito non possiamo dimenticare che Shakespeare era una delle letture predilette di
Cechov, e che questi due grandi sono stati molto spesso, e con buone ragioni, accostati. E, sempre
a questo proposito, mi permetto qui un inciso: voglio riportare una citazione del grande critico
Harld Bloom, che a Cechov dedica un capitolo nel suo bellissimo libro Il Genio e un saggio nel suo
successivo Come si legge un libro e perché (libri che consiglio a tutti gli amanti della lettura).
Scrive Harold Bloom:
“Parlando di Cechov, Gor'kij dice che lo scrittore era ‘in grado di rivelare nel mare oscuro della
banalità il suo humour tragico’. Sembra un giudizio ingenuo, eppure la più grande forza di
Cechov è darci l'impressione che le sue opere contengano la verità sulla fusione costante, tipica
dell'esistenza umana, tra sofferenza banale e gioia tragica. Shakespeare è la nostra autorità (e
quella di Cechov) in fatto di gioia tragica, ma il banale non compare nelle sue opere, nemmeno
nelle farse o nei travestimenti burleschi” (H.B.)

Ma riprendiamo il filo del racconto: Verso mezzanotte, i conducenti e Egòruska sedevano


nuovamente intorno a un piccolo fuoco su cui in una pentola si prepara la cena. È il momento di
ascoltare delle storie e la prima la racconta Dymov, con tono brusco e svogliato; prenderà poi la
parola Panteléj e ne racconterà altre con la sua sapiente eloquenza, e tutte incantano gli uditori.
Sono racconti cruenti, di agguati a mercanti e coltelli sguainati: Panteléj aveva raccontato ancora
qualcosa, e in tutti i suoi racconti avevano sempre un ruolo importante i “lunghi coltelli” e sempre
si aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di inventato. Aveva sentito questi racconti da qualcun
altro, o li aveva inventati lui stesso tanti anni prima [ … ]
Quando la zuppa fu pronta, tutti tacquero. Pensavano a ciò che avevano prima ascoltato. La vita è
terribile e meravigliosa, e per quanto terribile sia un racconto fatto in Russia, abbellito da covi di
briganti, da coltellacci e da miracoli, apparirà sempre vero all'anima di chi ascolta.
Nel silenzio, mentre tutti sono assonnati e pensosi, si odono dei passi. Giunge un uomo sorridente,
dice il suo nome, Konstantìn, accetta la minestra che gli viene offerta e racconta una storia anche
lui, la sua: è una gentile e fortunata storia d’amore . Alla vista di un uomo felice tutti diventarono
malinconici, sentirono il desiderio di felicità. Anche Egòruska si fa pensoso, si arrampica sulla
balla e vi si adagia guardando il cielo e pensando al felice Konstantìn e a sua moglie.
Egòruska si faceva delle domande confuse e pensava che di certo l'uomo si sente bene, se accanto
a lui, di continuo, vive una donna affettuosa, gaia e bella. Gli tornò alla mente, chi sa perchè, la
contessa Dranìtskaja; e pensò che con una donna simile doveva essere certo molto gradevole
vivere: egli stesso l'avrebbe sposata volentieri ... Ricordò i suoi sopraccigli, le pupille, la carrozza,
… e ricominciò a immaginare di trovarsi in carrozza con lei. Una calma e calda notte d'estate era
diffusa sopra di lui e gli sussurrava qualche cosa all'orecchio; gli sembrava che quella bella donna
si chinasse verso di lui, lo guardasse sorridendo, e lo volesse baciare.
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Egòruska si addormenta e si conclude così la sua seconda giornata di viaggio; come il mormorio
della steppa, così le storie dei conducenti dei carri hanno segnato la sua mente infantile,
preparandolo alla nuova vita che lo attende.
La conclusione del VI capitolo
Il terzo giorno di viaggio è un brusco ritorno alla realtà più volgarmente pratica, agli aspetti
affaristici che motivano il viaggio. Vi fa la sua comparsa proprio quel misterioso Varlàmov di cui
tutti parlavano con tono di reverente soggezione e su cui Egòruska aveva tanto fantasticato.
Sentendo annunciare il suo arrivo il ragazzino salta su e vede un piccolo uomo grigio dai grandi
stivali, in groppa ad un brutto cavallo, che parlava coi contadini in un'ora in cui la gente dabbene
se ne sta a dormire tranquilla. Varlàmov si mostra brusco e severo con un uomo che arriva a
cavallo agitando la frusta, un suo dipendente il quale è stato mandato a casa a prendergli un
quaderno che si scopre non essere quello giusto; poi, risolto il problema, conclude le trattative per
l’acquisto della lana e si allontana silenzioso.

Girò il cavallo, ed esaminando il quaderno –questa volta è quello giusto- si mosse al passo,
lungo il convoglio. Quando giunse all'ultimo carro, Egòruska aguzzò gli occhi per poterlo osservare
meglio. Varlàmov era già vecchio; il suo semplice volto russo, con la barbetta grigia, un poco
bruciato dal sole, era rosso, bagnato dalla rugiada e coperto di venuzze azzurre: esprimeva la
stessa secchezza di affarista ch'era nel volto di Ivàn Ivànyc, e lo stesso fanatismo. Eppure, che
differenza si avvertiva, fra i due uomini! In Kuzmicòv, oltre alla secchezza dell'uomo attivo, si
notava sempre sul viso la preoccupazione e la paura di non trovare Varlàmov, di fare tardi, di
lasciarsi sfuggire un buon affare: nulla di questo, che è proprio dei dipendenti e degli inferiori, si
notava sul volto di Varlàmov. Quell'uomo faceva egli stesso i prezzi, non cercava nessuno e non
dipendeva da nessuno, e per quanto modesta fosse la sua persona, s'indovinava ch'egli aveva
coscienza della sua forza, e del suo dominio sulla steppa, perfino dal modo con cui teneva in mano
la frusta.
Passando vicino a Egòruska, non lo guardò neppure; solo il cavallo lo degnò della sua
attenzione, guardandolo con grandi occhi stupiti, indifferente. Pantelèj salutò Varlàmov, e questi
lo notò. Senza staccare lo sguardo dalle sue carte, disse, masticando le parole:
«Buongior...no, vec...chio!»
Il duro rimprovero di Varlàmov al suo dipendente a cavallo .,,, aveva prodotto evidentemente
sulla gente del convoglio una certa impressione. Tutti avevano una faccia seria. L'uomo a cavallo,
intimidito dall'ira di quel potente, stava presso il primo carro con le briglie allentate, senza
cappello, silenzioso; sembrava non voler credere che la giornata avesse avuto per lui un così
brutto principio.
«È un vecchio prepotente,» mormorò Pantelèj. «Un guaio, che abbia quelle maniere! Ma non
c'è male, è un brav'uomo... Non offende senza una ragione... Non c'è male.»
Esaminate le sue carte, Varlàmov rimise in tasca il quaderno; il cavallo, come indovinando il
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suo pensiero e senza attendere ordini, ebbe un fremito e si slanciò sulla strada maestra.

CAP. VII corsivo citazioni


Ancora terzo giorno

Dopo aver viaggiato tutto il giorno i carrettieri si fermano e cuociono la zuppa. C’è afa, fa un
caldo soffocante. La luna si levò, livida e tetra che pareva malata; anche le stelle sembravano
accigliate; e la caligine era più densa, l'orizzonte più torbido. La natura pareva languisse in
attesa di qualche cosa. Intorno al fuoco si annoiavano tutti e parlavano fiacchi e malvolentieri.
Scoppia un violento litigio tra Emel’jàn e Dymov: l’ex cantore Emel’jàn, offeso, scoppia in
lacrime e Egòruska lo difende ma, deriso e offeso a sua volta da Dymov, ha una crisi d’ira,
trema, grida, piange e corre al convoglio per stendersi sulla sua balla di lana. Lo assale la
nostalgia, e mormora:
«Mamma, mamma!»
Le ombre della gente intorno al fuoco, le balle nere, i lampi che ogni istante balenavano in
lontananza, tutto ciò gli sembrava ostile, ora, e terribile. Con angoscia disperata si chiedeva a
ogni momento come e perchè fosse capitato in terra ignota, e con quei terribili muzìk. Dove
erano lo zio, padre Chrìstofor, Dèniska? Perchè tardavano tanto ad arrivare? Si erano
dimenticati di lui? Al pensiero di essere dimenticato e lasciato in balia del destino, gli veniva
freddo, e provò tanta paura che a varie riprese tentò di saltare da quel sacco, di correre per la
strada, … ; lo trattenne un lampeggiare lontano. Solo mormorando «mamma, mamma» trovava
una specie di sollievo.
Forse, anche i conducenti sentivano una forte oppressione. Dopo che Egòruska era
scappato lontano dal fuoco, avevano dapprima taciuto a lungo, poi a mezza voce, sordamente, si
erano messi a discorrere di qualche cosa che si andava avvicinando e per cui bisognava presto
allontanarsi. In fretta finirono di cenare, spensero il fuoco, e attaccarono silenziosamente i
cavalli. Dalla loro inquietudine e dalle frasi rotte s'arguiva che prevedevano qualche sciagura.
Prima di mettersi in marcia Dymov si arrampica in cima al carro di Panteléj e si rivolge, pallido e
serio, a Egòruska e gli dice piano, con dolcezza:
«Egòruska, Suvvia, picchiami!»
Egòruska lo guardò con meraviglia; balenò un lampo in quell'istante.
«Non fa nulla, battimi!» ripetè Dymov.
E senza attendere che Egòruska lo battesse o gli parlasse, saltò giù e disse:
«Che noia è la mia!..»
Un gesto, poche parole, e con la consueta assenza di ogni commento, di ogni spiegazione
psicologica, Cechov ci rivela il carattere complesso, niente affatto rigido, mutevole, di un
personaggio di cui conoscevamo solo l’aspetto aggressivo e talora maligno.
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L’inquietudine che si avverte nei discorsi dei conducenti rivela ben presto la sua origine: essi,
buoni conoscitori della steppa, sentono che il tempo sta cambiando in peggio. E in effetti si
scatenò a un tratto il vento, con tal violenza da strappare a Egòruska quasi il fagotto e la stuoia
con cui egli si copriva. Poi mulinò disordinatamente facendo con l'erba un frastuono tale da
soffocare il tuono e il cigolio delle ruote … Il chiaro di luna si offuscò, sembrò assumere un
colore sporco; le stelle sbiadirono ancor più, e agli orli della strada si vedevano i nugoli di
polvere,… Attraverso la polvere che penetrava negli occhi non si distingueva null'altro che il
balenio dei lampi. Egòruska, pensando che sarebbe cominciato a piovere, si mise in ginocchio e si
coprì con la stuoia. … Il tuono rimbombò furioso, rotolò per il cielo da destra e sinistra, poi
indietro, si spense presso i primi carri.
«Santo, Santo, Santo, Signore degli eserciti!» mormorò Egòruska facendosi il segno della
croce. «Riempi il cielo e la terra della Tua gloria...»
La tenebra del cielo spalancò la bocca e soffiò un fuoco bianco; rombò di nuovo il tuono,
subitamente ; e appena tacque brillò un lampo,
Il temporale imperversa, si scatenano anche violenti acquazzoni e la scena è descritta quale
appare a Egòruska a cui nel buio e nel fragore si presentano visioni di mostri terrificanti,
mentre a Pantelej, che procede a fianco del carro come di consueto, non arrivano i suoi
lamentosi richiami ed egli non risponde.
Ma a scuoterlo, quando ormai a occhi chiusi sta rannicchiato, convinto che l’incubo non avrebbe
avuto fine, gli giunge proprio la voce di Panteléj che cammina ai piedi del carro con Emel’jàn:
“Egòruska, dormi? … Sei diventato sordo, sciocchino?”. Al richiamo Egòruska si scuote, scende
e si mette in marcia in mezzo agli altri, accanto a Panteléj che egli chiama “nonno”.
Ecco che si giunge a un villaggio, c’è luce a una finestra, e Egòruska viene fatto entrare in
un’isba dove una vecchia, magra e gobba, gli dà qualche boccone e lo fa sdraiare su una panca
vicino alla stufa. Accanto a lei si siede Panteléj e i due chiacchierano mentre il ragazzino è
scosso da brividi, e ora suda, ora trema di freddo.
Poco dopo però il convoglio riparte e Egòruska ritorna a rannicchiarsi sulla sua solita balla di
lana, dove è ossessionato da incubi in cui gli appaiono il mulino con le sue lunghe braccia, Dymov,
Varlàmov e il sorridente Konstantìn.
A sera il convoglio giunge sopra un ponte che attraversava un largo fiume. Sul fiume si stendeva
un fumo nero; si vedeva un vaporetto che tirava a rimorchio delle chiatte. Più avanti si rizzava
una grande collina sparsa di case e di chiese, ai cui piedi correva una locomotiva...
Sino allora Egòruska non aveva mai veduto vaporetti nè locomotive, nè grandi fiumi.
Vedendoli adesso, non si spaventò, e nemmeno si meravigliò; sul suo viso non apparve nulla che
somigliasse a curiosità. Sentì soltanto malessere e si affrettò a ricoricarsi. Appoggiato con il
petto sulla balla di lana, rigettò. Pantelèj, vedendolo, gemette e scrollò il capo.
«Il nostro ragazzo si è ammalato!» disse. «Ha certo preso freddo allo stomaco... ammalato
fuori casa... Brutto affare!»
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QUARTO E ULTIMO GIORNO – CAP 8

CAP. VIII corsivo citazioni


Sono usciti di scena i personaggi a cui Egòruska è stato affidato il secondo e il terzo giorno del
suo viaggio, personaggi che sono stati i protagonisti dei capitoli centrali del racconto, dal IV al
VII. Ritroviamo ora le vecchie conoscenze, lo zio Ivàn Ivànyc Kuz’micòv, il pope padre
Chrìstofor, il cocchiere Déniska.
Dopo un lungo sonno profondo Egòruska viene svegliato dalla voce ben nota di Déniska, che lo
conduce nella piccola stanza di un buio edificio dove è accolto dal sorriso luminoso e dalla
parlata latineggiante di padre Chrìstofor. Ma, appena rivisti coloro con cui era partito, nei quali
aveva riposto piena fiducia, aveva provato una irresistibile pulsione a lamentarsi . “Io … io sono
malato” aveva detto. E in effetti ha la fronte che scotta. Ivàn Ivànyc propone di dargli del
chinino, ma padre Chìstofor non è d’accordo e lo fa coricare ben coperto. Subito il ragazzo
viene ripreso dagli incubi e smania nel delirio, mentre padre Chrìstofor e Ivàn Ivànyc finito di
prendere il tè, parlavano sommessamente. Il primo sorrideva beato: era evidente che non
poteva dimenticarsi, in nessun modo, che aveva fatto un buon affare con la sua lana; lo
rallegrava non tanto il guadagno in sè, quanto l'idea che, tornato a casa, avrebbe riunito tutta
la sua numerosa famiglia, e avrebbe prima ammiccato furbescamente, e sarebbe poi scoppiato
in una risata. Da principio avrebbe ingannato tutti, dicendo di aver venduto la lana al disotto del
suo prezzo; ma avrebbe consegnato a suo genero Michaìl il grosso portafoglio, dicendogli:
«Eccoti, piglialo! Vedi come si fanno gli affari!» Kuzmicòv, invece, non sembrava contento; il suo
volto esprimeva come sempre la durezza e la preoccupazione dell'uomo d'affari. [ … ]
Poi padre Chìstofor si tolse il caffetano e Egòruska credette di vedere davanti a sè Robinson
Crusoe. Robinson mescolò qualche cosa in un piattino, lo avvicinò a Egòruska e sussurrò:
«Lomonòsov,(v nota 1) dormi? Sollevati un po'! Voglio ungerti con l'olio e con l'aceto. Fa
bene, però tu raccomandati al Signore.»
nota 1) - Lomonosov, scienziato, naturalista, poeta e pittore del XVIII secolo, è considerato il Leonardo da
Vinci russo. L’apostrofe suona qui come un augurio, con la solita punta di ironia)
Egòruska si rizzò rapidamente e si sedette. Padre Chrìstofor gli tolse la camicia e
rabbrividendo e col respiro affannato come se ciò solleticasse lui stesso, cominciò a
stropicciare il petto di Egòruska. Poi Padre Chrìstofor prega davanti alle icone e il ragazzo
appoggia il capo alla spalliera del divano e chiude gli occhi. Gli sembra di essersi appena
assopito, ma quando riapre gli occhi è solo, e la luce del sole inonda la stanza che gli appare
bellissima. Felice, si dà da fare per vestirsi in fetta, ansioso di uscire, quando la porta cigola ed
entra sorridente e radioso padre Chrìstofor, col bastone e con la tonaca di seta che aveva
indossato per la Messa, tenendo un involto in mano. Si tolse la tunica; si passò e ripassò la mano
leggermente sul petto; e adagio aprì l'involto. Egòruska scorse un barattolo di latta con del
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caviale fresco, un pezzo di storione e un panino francese.


«Ecco, sono passato vicino al pescivendolo e ho fatto spesa,» disse padre Chrìstofor. «Nei
giorni di lavoro non ci si dovrebbero permettere dei lussi, ma ho pensato: c'è a casa un
sofferente e mi si può perdonare. E il caviale è buono, e anche lo storione.» [ … ]
«Mangia,» aggiunse padre Chrìstofor spalmando il caviale su una fettina di pane e
offrendolo a Egòruska. «Adesso mangia e divertiti; verrà poi il tempo che studierai con
attenzione e diligenza, perchè ci sia profitto.

Chi vede, e sono molti, in questo racconto un esempio del “pessimismo cecoviano”, certamente
non ha presente questa deliziosa scena, tutta pervasa di radiosa serenità e animata da un
profondo, sincero e disinteressato affetto, in cui la vicenda viene narrata senza ombra di
sentimentalismo, anzi, con un tono velato di benevola ironia.

Padre Chrìstofor dà quindi a Egòruska molti saggi consigli sugli studi che sta per affrontare, e
sulla riconoscenza che deve allo zio; non avrebbe smesso più di parlare, se non si fosse aperta
cigolando la porta da cui entra Ivàn Ivànyc, che annuncia soddisfatto di aver trovato una
persona presso la quale sistemare Egòruska, una certa Nastàs’ja Petròvna. Segue la descrizione
vivacissima del girovagare di zio e nipote alla ricerca della casa di Nastàs’ja, dove vengono
accolti e dove rimane Egòruska, triste nonostante l’accoglienza calorosa e la sistemazione
confortevole. Il mattino seguente vengono a congedarsi Ivàn Ivànyc e padre Chrìstofor, e con
una domanda, come di consueto in Cechov, si chiude l’avventuroso racconto.

Prima di congedarsi, si sedettero tutti in silenzio, per qualche istante. Anastàsja Petròvna
sospirò profondamente; con gli occhi in pianto guardò verso le icone.
«Dunque,» cominciò Ivàn Ivànyc, «dunque tu resti...»
Dal suo viso scomparve a un tratto l'arida asciuttezza affaristica; arrossì un poco, sorrise
triste, e disse:
«Mi raccomando, studia. Non dimenticare la mamma e ubbidisci ad Anastàsja Petròvna. Se
studierai bene, Egòrij, non ti abbandonerò.»
Levò di tasca il portamonete, volse la schiena a Egòruska, frugò a lungo fra la moneta
spicciola, e trovata una moneta da dieci copeche gliela dette. Padre Chiìstofor sospirò; poi
lentamente lo benedisse.
«In nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo... Studia,» gli disse, «lavora, fratello...
Se morirò, ricordami. Ecco, accetta anche da me una moneta da dieci copeche.»
Egòruska gli baciò la mano e proruppe in pianto. Qualcosa nell'anima gli sussurrava che non
avrebbe riveduto mai più quel vecchio.
«Io, Anastàsja Petròvna, ho già presentato al ginnasio la domanda,» disse Ivàn Ivànyc
parlando a voce bassa, come se lì nella stanza si trovasse un morto. «Il sette agosto voi lo
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condurrete per l'esame. Orsù, addio! State con Dio! Addio, Egòr!»
«Avreste almeno potuto prendere il tè» mormorò lamentosamente Anastàsja Petròvna.
Attraverso le lacrime che gli velavano gli occhi, Egòruska non vide uscire lo zio e padre
Chrìstofor. Si precipitò verso la finestra; ma in cortile non c'erano già più [ …. ]
Egòruska, non sapendo egli stesso perchè, si staccò da quel posto, e si precipitò fuori della
stanza. Quando fu sulla porta del cortile, Ivàn Ivànyc e padre Chrìstofor, l'uno col bastone
curvo e l'altro col bastone da prete, svoltavano la cantonata. Egòruska sentì che con essi
svaniva come nebbia, per sempre, tutto ciò che sino allora era stata la sua vita passata; e cadde
accasciato sopra un sedile, e salutò con lacrime amare la nuova sconosciuta esistenza che ora
incominciava per lui.
Come sarebbe stata quella vita?

Il lungo racconto si chiude con una domanda a cui sarà il lettore a cercare o, se lo desidera, a
dare risposta. “Se La steppa avrà successo –scrive Cechov a Grigorovic- mi servirà da base per
un romanzo e la continuerò. L’ho scritta di proposito in modo che dia l’impressione di opera
incompiuta”. Ma la prospettiva di trasformare La steppa in un romanzo gli balena solo un
attimo: la dimensione perfetta della narrativa cecoviana è il racconto aperto, fatto di
frammenti di vita, siano alcuni anni, pochi mesi o, come qui, pochi giorni: non importa come
continuerà la storia, cosa ci sarà poi: se lo inventi il lettore, sta a lui completare il disegno, se
lo desidera. Il nucleo c’è.

dopo La steppa / introduzione alla terza serie di racconti

In effetti sono pochissimi i racconti di Cechov che si chiudano con una vera e propria
conclusione che metta fine alla vicenda narrata senza lasciare il lettore in sospeso, come
potremo constatare dalla maggior parte dei racconti che analizzeremo dopo La steppa, scritti
dal ’90 in poi,
Così avviene per lo più anche per le pièces teatrali cecoviane, dove le vicende di movimentati e
difficili rapporti tra i personaggi si chiudono senza soluzioni definitive e, come nella vita, il
tempo riprende a scorrere lasciando allo spettatore di immaginare un futuro “forse” diverso,
più probabilmente senza grandi, significative sorprese.

Mi piace a questo proposito ricordare la bellissima scena finale di Zio Vanja:


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… la ragazza, Sonia, e lo zio sono di nuovo al lavoro: fanno i conti delle vendite, riprendono
insomma le vecchie monotone occupazioni. Le ultime parole sono di Sonia: "Vivremo una lunga
serie di giorni... poi Dio avrà pietà di noi... e riposeremo, riposeremo".
Zio Vanja e Astrov (l’altro protagonista della commedia) sono due uomini lucidi e come
prosciugati, che non hanno però scordato del tutto i loro sogni, pur sapendosi incapaci, per
debolezza loro o a causa del tempo e dell'ambiente in cui vivono, di lottare per realizzarli. Essi
cercano di dimenticare e di dimenticarsi nel lavoro e nella vodka. Barcollano, buffi e patetici, in
mezzo a uomini solidi, stolidi e sicuri di sé …, ma essi barcollano perché guardano le stelle. E -
dice acutamente Nabokov- in questa era di Golia rubicondi, è utile e raccomandabile leggere
qualcosa sui fragili Davide.

A proposito di quanti degli ultimi racconti di Cechov ci ritorneranno in mente sia le parole di
Sonia, sia queste profonde, preziose osservazioni di Nabokov!

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