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LA STEPPA
segue terza serie di racconti
La Steppa avrebbe dovuto a rigore essere inserito nella seconda serie di racconti, tutti
scritti nel periodo che va dal 1886 al 1890, ma merita un posto a parte non solo per il suo
valore letterario, ma anche per l’inconsueta lunghezza. L’insigne slavista Igor Sibaldi,
scrittore e traduttore, drammaturgo, filosofo e teologo, osserva che La Steppa " fu il primo
successo importante di Cechov: Il pubblico degli anni Ottanta lo capì al volo, e tutt'intero,
riconoscendovisi appieno, e da allora egli ebbe entusiasti a non finire."
Ma La Steppa, nonostante sia un successo straordinario, nonostante piaccia enormemente ai
lettori di ogni ceto, commuova, entusiasmi perfino un lettore difficile come Tolstoj, non
convince gran parte della critica, che storce il naso. E questo perché l’impianto è originale, lo
stile vario, a seconda degli ambienti in cui la storia si snoda, ora lirico e alto, ora basso e
quotidiano; i personaggi a volte compaiono brevemente, bruschi e imbronciati, a volte
chiacchierano volentieri e indugiano a rievocare i tempi trascorsi, ma in genere le loro comparse
sono casuali e il loro rilievo è modesto. I critici giudicano il racconto disorganico, frammentario,
dispersivo.
Il racconto
1988: iniziato ai primi di gennaio, lo finisce il 3 febbraio. Un mese di lavoro, 100 pagine: Cechov
non ha mai scritto tanto e procede nella stesura del lungo racconto alternando momenti di
dubbio a momenti di entusiasmo, come confida in alcune lettere ad amici, in particolare a
Plesceev, poeta e scrittore che ha il doppio dei suoi anni e in cui egli riconosce un venerato
maestro: “Vi aspettate da me qualche cosa di buono, ma sarà una grande delusione! Temo che la
mia Steppa sia del tutto insignificante. Scrivo lentamente, senza fretta, con gusto, ma non
sono soddisfatto, sebbene in alcuni punti ci siano dei bei ‘versi in prosa’. Il fatto è che scrivere
piccoli lavoretti mi ha viziato”. Con quell’espressione, ’versi in prosa’, Cechov mostra di essere
ben consapevole del carattere poetico della sua prosa che suggestiona, affascina, cattura i
lettori di allora e di oggi.
Ad un altro amico il 4 febbraio, appena scritta la parola fine al suo racconto, confida: “che mi
sia riuscito o no, è il mio capolavoro, di meglio non posso fare”. La steppa esce sul prestigioso
mensile Messaggero del Nord -Severnyj vestnik- e all’entusiasmo dei lettori comuni e dei
colleghi scrittori si contrappongono, come abbiamo sopra osservato, i giudizi negativi dei critici
che insistono sul carattere frammentario dell’opera.
Frammentaria La steppa? E sia. L’anno dopo –osserva col solito acume Fabio Malovati- Cechov si
prende subito la rivincia. Sulla stessa rivista, “Il messaggero del Nord”, esce un nuovo racconto
lungo, questa volta compatto, solidamente costruito, senza digressioni, Una storia noiosa. Il
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Ma torniamo a La steppa: il titolo mette in primo piano il paesaggio della steppa ucraina,
spettacolo ora monotono, di sterminate pianure in cui sono rarissime le tracce di presenze
umane, ora vario, quando compaiono monti aspri e impetuosi corsi d’acqua, sempre animato da
presenze animali che percorrono la terra o si librano in volo nelle diverse ore del giorno assolato,
o del crepuscolo nebbioso, o dell’alba luminoso. La steppa vive inquieta, in essa ogni elemento è
animato, si muove, emette suoni, dialoga con la natura. “Il sole aveva già fatto capolino da dietro
la città e con calma, senza affannarsi, si era messo al lavoro" . [ … ] “Dalle colline comparve
inaspettatamente una nuvola ricciuta grigio cenere. Scambiò un' occhiata con la steppa - 'lo
sarei pronta!' - e divenne cupa. All'improvviso nell'aria stagnante qualcosa si lacerò, il vento
proruppe e con fragore, sibilando, cominciò a turbinare sulla steppa. All'istante l'erba levò un
mormorio" [ … ] "La segale falciata, l'erbaccia, l'euforbia, la canapa selvatica, tutto, imbrunito
dall' arsura, rossiccio e mezzo morto, lavato ora dalla rugiada e accarezzato dal sole, rinasceva
per fiorire nuovamente. [ ... ] Le cavallette, i grilli, i canterini, le grillotalpe intonarono nell' erba
la loro musica stridula, monotona. Non trascorse molto tempo che la rugiada evaporò, l'aria
stagnò, e la steppa, ingannata, assunse il suo misero aspetto di luglio. L'erba chinò il capo, la vita
si arrestò. Nell'erba la musica cessò" [ ...] "Balbettando dolcemente, il ruscello gorgogliava" [ ... ]
"Era la pioggia. Essa e la stuoia, come se si capissero a vicenda, si misero a parlare di qualcosa
velocemente, allegramente e in modo estremamente fastidioso, come due pettegole" .
Nel racconto la steppa è descritta quale appare allo sguardo stupito, attonito, sempre attento,
talora turbato o addirittura atterrito di un bambino di nove anni, Egòruska, il vero protagonista
della vicenda; e forse non si dovrebbe nemmeno parlare di questa “avventura” come di una
vicenda vera e propria, perché la frammentarietà di cui i critici accusarono Cechov è la
caratteristica del racconto, connessa alla originale scelta dell’autore, quella di immedesimarsi in
un ragazzino a cui il mondo si svela proprio nella sua affascinante, incomprensibile, conturbante
frammentarietà. Impossibile fare un tradizionale riassunto, ma possiamo accennare qui alla
“trama” dell’opera in una stringatissima sintesi, a cui seguirà un’analisi più dettagliata delle
singole parti. Premetto che cercherò di contenere al massimo le citazioni; il racconto richiede
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proprio, più che qualsiasi altro, una lettura diretta, che sarà, per chi vi si immerge, una bella
scoperta e un autentico piacere.
Il racconto è scandito in episodi: la partenza in calesse di Egòruska con lo zio Ivàn Ivànyc e il
pope Chrìstofor, su un calesse guidato del cocchiere Déniska; // la prima parte del viaggio,
programmato allo scopo di vender lana, nella mattina afosa; // l'arrivo alla locanda di proprietà
di due fratelli ebrei, Mojséj e Solomòn; // il trasferimento di Egòruska sul carro del vecchio e
saggio Pantelej, in un altro grande convoglio che porta, tra molte altre, le balle di lana
appartenenti a Ivàn Ivànyc; // il seguito del viaggio con il nuovo convoglio, la tempesta,
l'arrivo allo scalo, la malattia di Egoruska; // la sistemazione del ragazzo presso Nastas'ja
Petrovna, amica della madre, che lo terrà a pensione per il periodo di studi; // infine, la
separazione dallo zio e da padre Chrìstofor.
Contenere le citazioni non può significare evitarle del tutto, e l’inizio del racconto è un
momento troppo essenziale, sia dal punto di vista stilistico sia da quello narrativo, per non
soffermarcisi: in poche righe compaiono i protagonisti, si definisce l’ambiente in cui vivono, si
delineano lo scopo e la meta del viaggio.
Egòruska osserva i luoghi a lui noti e cari che sta lasciando e piange amaramente; lo zio lo
rimprovera, padre Chrìstofor cerca di confortarlo. Procedendo si trovano nella pianura vasta e
sconfinata che si anima allo sguardo del ragazzino: un pioppo solitario lo fa fantasticare: Dio
solo sa chi lo ha piantato, perchè sia là. È difficile distogliere lo sguardo dalla sua figura
slanciata e dalla sua verde veste. Sarà felice? D'estate il caldo, d'inverno il gelo e le burrasche,
d'autunno le notti paurose, quando non si vede altro che l'oscurità e non si sente che il vento
folle, urlante, rabbioso; e soprattutto, solo, tutta la vita, solo . E in lontananza compare un mulino
a vento che muove le ali, sempre simile a un ometto che agita le braccia. Viene a noia guardarlo:
sembra che non si debba arrivar mai sino a lui, che fugga via, dinanzi al calesse.
A un vecchio pastore scalzo, una figura biblica, che sta a guardia di un gregge, Kuz’micòv chiede
di chi siano gli animali. «Di Varlàmov!» risponde con voce forte il vecchio. ,,,
«È passato di qui ieri Varlàmov, o no?»
«No certo... È passato il suo amministratore, è passato...»
Nelle ultime righe del capitolo compare per la prima volta il nome Varlàmov, nome che ricorre
come centro e motore dell’aspetto economico di tutti i movimenti e gli spostamenti dei
protagonisti della vicenda in cui è coinvolto suo malgrado Egòruska. La sua ultima comparsa, poco
simpatica, concluderà il sesto capitolo.
(1) non ci soffermiamo qui su queste conversazioni, anche se tutte, apparentemente oziose e divaganti, hanno relazione con la
storia e chiariscono tratti del carattere dei nostri viaggiatori.
Mentre mangiavano discorrevano tutti insieme. Da quella conversazione Egòruska capì che
nei suoi nuovi conoscenti, nonostante le differenze di età e di carattere, c'era qualche cosa di
comune, che li rendeva simili l'uno all'altro: tutti pareva avessero un bellissimo passato e un
bruttissimo presente, e tutti parlavano del proprio passato esaltandosi, mentre invece
parlavano del presente con disprezzo. Il russo ama ricordare ma non ama vivere. Egòruska non
lo sapeva ancora, e prima che la zuppa fosse finita già credeva per certo che lì intorno alla
pentola fossero sedute delle persone profondamente umiliate e offese dalla sorte.
Pantelèj narrava che in passato, allorchè di strade ferrate non ne esisteva una sola,
andava coi convogli a Mosca e a Niznij e guadagnava tanto da non sapere che farsene, di tutto
quel denaro. E che mercanti, a quel tempo, e che pesce! E come tutto era a buon mercato!
Adesso invece i tragitti erano diventati più brevi, ma i mercanti eran diventati più avari, e il
popolo più povero, e il pane più caro; tutto si era ristretto e immiserito. Emeljàn raccontava
che un tempo aveva lavorato nella fabbrica di Lugànsk, che aveva fatto il cantore, che aveva
una magnifica voce e leggeva le note benissimo; mentre ora era diventato un contadino e viveva
dell'elemosina del fratello, il quale lo mandava coi suoi cavalli prendendo per sè la metà del
guadagno. Vasja aveva lavorato una volta in una fabbrica di fiammiferi, Kirjùcha era stato
cocchiere presso una buona famiglia ed era considerato il miglior guidatore di troika dei
dintorni. Dymov, figlio di un contadino benestante, era vissuto a suo piacere, non aveva
conosciuto mai il dolore, e appena compiuto i ventanni, suo padre, che era burbero e risoluto,
volendo abituarlo al lavoro e temendo che a casa prendesse brutte abitudini, lo aveva mandato
coi convogli come garzone. Soltanto Stëpka taceva; ma dal suo volto senza baffi si vedeva che,
anche lui, era stato prima assai meglio di adesso.
Ricordando suo padre, Dymov lasciò di mangiare e si rabbuiò. Guardò di sottecchi i suoi
compagni e fermò lo sguardo su Egòruska.
«Tu, togliti il cappello,» gli disse brutalmente. «Come si fa a mangiare col cappello in
testa? Eppure sei un signore..»
Egòruska si tolse il cappello e non proferì una parola; ma non sentiva già più il sapore della
minestra nè udiva come lo difendevano Pantelèj e Vàsja. Gli fermentava dentro una gran rabbia
contro quell'insolente, e decise di fargli del male, a ogni costo.
Dopo il pasto, tutti si distesero all'ombra del convoglio .
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Egòruska si mise di nuovo a giacere sul sacco. Il carro carico cigolava sordamente e traballava.
Pantelèj camminava da un lato pestando i piedi, battendosi i fianchi, borbottando; come il
giorno innanzi, nell'aria sussurrava la musica della steppa.
Egòruska giaceva supino con le braccia sotto la testa, guardando il cielo. Vide il tramonto
accendersi e poi spegnersi; gli angeli custodi, ricoprendo l'orizzonte con le loro ali dorate, si
preparavano al riposo: la giornata era trascorsa felicemente, una calma e benefica notte
scendeva, ed essi potevano rimanere tranquilli nella propria dimora, in cielo... Egòruska vide la
luce oscurarsi, a poco a poco, calare sulla terra la caligine notturna, accendersi una dopo
l'altra le stelle.
Quando a lungo si guarda il cielo profondo, senza staccare gli occhi, non si sa perchè i
pensieri e l'anima si fondono nella coscienza della nostra solitudine. [ … ] e viene in mente la
solitudine che attende ciascuno di noi nella tomba, e l'essenza stessa della vita si presenta
terribile, disperata...
Egòruska pensò alla nonna che dormiva, ora, nel camposanto, sotto i ciliegi: [ … ] Si
rappresentava morti la mamma, padre Chrìstofor, la contessa Dranìtskaja, Salomòn. [ … ]
Pantelèj, che aveva già da un pezzo l'età di morire, camminava all'altezza del cavallo
rimuginando: propri pensieri.
«Non c'è male... Buoni signori...» borbottava. «Portano il ragazzo a studiare, ma che cosa lui
farà poi, non lo sanno... A Slavjanosèrbsk non c'è un'istituzione tale da condurre a questo, è
vero... Il ragazzo è buono, non c'è che dire... Quando sarà grande, aiuterà suo padre. Tu Egòrij sei
ancor piccino, ma diventerai grande e darai da mangiare a tua madre, a tuo padre. Così è
comandato da Dio... Onora tuo padre e tua madre... Io pure ho avuto dei figlioli, ma sono bruciati...
Mia moglie e i miei figlioli sono bruciati... Era proprio la notte d'Epifania che s'incendiò la casa. Io
non c'ero, io ero per la strada di Orël, verso Orël... Màrja era saltata nella strada ma si ricordò
che i figlioli dormivano nella casa, e corse indietro e bruciò con tutti i figlioli... Sì... l'indomani
trovarono soltanto le ossa.»
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Dunque la vita di questo amabile vecchietto scalzo, affettuosamente paterno col ragazzino che gli
è stato affidato, è segnata da una tragedia degna di Shakespeare.
A questo proposito non possiamo dimenticare che Shakespeare era una delle letture predilette di
Cechov, e che questi due grandi sono stati molto spesso, e con buone ragioni, accostati. E, sempre
a questo proposito, mi permetto qui un inciso: voglio riportare una citazione del grande critico
Harld Bloom, che a Cechov dedica un capitolo nel suo bellissimo libro Il Genio e un saggio nel suo
successivo Come si legge un libro e perché (libri che consiglio a tutti gli amanti della lettura).
Scrive Harold Bloom:
“Parlando di Cechov, Gor'kij dice che lo scrittore era ‘in grado di rivelare nel mare oscuro della
banalità il suo humour tragico’. Sembra un giudizio ingenuo, eppure la più grande forza di
Cechov è darci l'impressione che le sue opere contengano la verità sulla fusione costante, tipica
dell'esistenza umana, tra sofferenza banale e gioia tragica. Shakespeare è la nostra autorità (e
quella di Cechov) in fatto di gioia tragica, ma il banale non compare nelle sue opere, nemmeno
nelle farse o nei travestimenti burleschi” (H.B.)
Egòruska si addormenta e si conclude così la sua seconda giornata di viaggio; come il mormorio
della steppa, così le storie dei conducenti dei carri hanno segnato la sua mente infantile,
preparandolo alla nuova vita che lo attende.
La conclusione del VI capitolo
Il terzo giorno di viaggio è un brusco ritorno alla realtà più volgarmente pratica, agli aspetti
affaristici che motivano il viaggio. Vi fa la sua comparsa proprio quel misterioso Varlàmov di cui
tutti parlavano con tono di reverente soggezione e su cui Egòruska aveva tanto fantasticato.
Sentendo annunciare il suo arrivo il ragazzino salta su e vede un piccolo uomo grigio dai grandi
stivali, in groppa ad un brutto cavallo, che parlava coi contadini in un'ora in cui la gente dabbene
se ne sta a dormire tranquilla. Varlàmov si mostra brusco e severo con un uomo che arriva a
cavallo agitando la frusta, un suo dipendente il quale è stato mandato a casa a prendergli un
quaderno che si scopre non essere quello giusto; poi, risolto il problema, conclude le trattative per
l’acquisto della lana e si allontana silenzioso.
Girò il cavallo, ed esaminando il quaderno –questa volta è quello giusto- si mosse al passo,
lungo il convoglio. Quando giunse all'ultimo carro, Egòruska aguzzò gli occhi per poterlo osservare
meglio. Varlàmov era già vecchio; il suo semplice volto russo, con la barbetta grigia, un poco
bruciato dal sole, era rosso, bagnato dalla rugiada e coperto di venuzze azzurre: esprimeva la
stessa secchezza di affarista ch'era nel volto di Ivàn Ivànyc, e lo stesso fanatismo. Eppure, che
differenza si avvertiva, fra i due uomini! In Kuzmicòv, oltre alla secchezza dell'uomo attivo, si
notava sempre sul viso la preoccupazione e la paura di non trovare Varlàmov, di fare tardi, di
lasciarsi sfuggire un buon affare: nulla di questo, che è proprio dei dipendenti e degli inferiori, si
notava sul volto di Varlàmov. Quell'uomo faceva egli stesso i prezzi, non cercava nessuno e non
dipendeva da nessuno, e per quanto modesta fosse la sua persona, s'indovinava ch'egli aveva
coscienza della sua forza, e del suo dominio sulla steppa, perfino dal modo con cui teneva in mano
la frusta.
Passando vicino a Egòruska, non lo guardò neppure; solo il cavallo lo degnò della sua
attenzione, guardandolo con grandi occhi stupiti, indifferente. Pantelèj salutò Varlàmov, e questi
lo notò. Senza staccare lo sguardo dalle sue carte, disse, masticando le parole:
«Buongior...no, vec...chio!»
Il duro rimprovero di Varlàmov al suo dipendente a cavallo .,,, aveva prodotto evidentemente
sulla gente del convoglio una certa impressione. Tutti avevano una faccia seria. L'uomo a cavallo,
intimidito dall'ira di quel potente, stava presso il primo carro con le briglie allentate, senza
cappello, silenzioso; sembrava non voler credere che la giornata avesse avuto per lui un così
brutto principio.
«È un vecchio prepotente,» mormorò Pantelèj. «Un guaio, che abbia quelle maniere! Ma non
c'è male, è un brav'uomo... Non offende senza una ragione... Non c'è male.»
Esaminate le sue carte, Varlàmov rimise in tasca il quaderno; il cavallo, come indovinando il
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suo pensiero e senza attendere ordini, ebbe un fremito e si slanciò sulla strada maestra.
Dopo aver viaggiato tutto il giorno i carrettieri si fermano e cuociono la zuppa. C’è afa, fa un
caldo soffocante. La luna si levò, livida e tetra che pareva malata; anche le stelle sembravano
accigliate; e la caligine era più densa, l'orizzonte più torbido. La natura pareva languisse in
attesa di qualche cosa. Intorno al fuoco si annoiavano tutti e parlavano fiacchi e malvolentieri.
Scoppia un violento litigio tra Emel’jàn e Dymov: l’ex cantore Emel’jàn, offeso, scoppia in
lacrime e Egòruska lo difende ma, deriso e offeso a sua volta da Dymov, ha una crisi d’ira,
trema, grida, piange e corre al convoglio per stendersi sulla sua balla di lana. Lo assale la
nostalgia, e mormora:
«Mamma, mamma!»
Le ombre della gente intorno al fuoco, le balle nere, i lampi che ogni istante balenavano in
lontananza, tutto ciò gli sembrava ostile, ora, e terribile. Con angoscia disperata si chiedeva a
ogni momento come e perchè fosse capitato in terra ignota, e con quei terribili muzìk. Dove
erano lo zio, padre Chrìstofor, Dèniska? Perchè tardavano tanto ad arrivare? Si erano
dimenticati di lui? Al pensiero di essere dimenticato e lasciato in balia del destino, gli veniva
freddo, e provò tanta paura che a varie riprese tentò di saltare da quel sacco, di correre per la
strada, … ; lo trattenne un lampeggiare lontano. Solo mormorando «mamma, mamma» trovava
una specie di sollievo.
Forse, anche i conducenti sentivano una forte oppressione. Dopo che Egòruska era
scappato lontano dal fuoco, avevano dapprima taciuto a lungo, poi a mezza voce, sordamente, si
erano messi a discorrere di qualche cosa che si andava avvicinando e per cui bisognava presto
allontanarsi. In fretta finirono di cenare, spensero il fuoco, e attaccarono silenziosamente i
cavalli. Dalla loro inquietudine e dalle frasi rotte s'arguiva che prevedevano qualche sciagura.
Prima di mettersi in marcia Dymov si arrampica in cima al carro di Panteléj e si rivolge, pallido e
serio, a Egòruska e gli dice piano, con dolcezza:
«Egòruska, Suvvia, picchiami!»
Egòruska lo guardò con meraviglia; balenò un lampo in quell'istante.
«Non fa nulla, battimi!» ripetè Dymov.
E senza attendere che Egòruska lo battesse o gli parlasse, saltò giù e disse:
«Che noia è la mia!..»
Un gesto, poche parole, e con la consueta assenza di ogni commento, di ogni spiegazione
psicologica, Cechov ci rivela il carattere complesso, niente affatto rigido, mutevole, di un
personaggio di cui conoscevamo solo l’aspetto aggressivo e talora maligno.
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L’inquietudine che si avverte nei discorsi dei conducenti rivela ben presto la sua origine: essi,
buoni conoscitori della steppa, sentono che il tempo sta cambiando in peggio. E in effetti si
scatenò a un tratto il vento, con tal violenza da strappare a Egòruska quasi il fagotto e la stuoia
con cui egli si copriva. Poi mulinò disordinatamente facendo con l'erba un frastuono tale da
soffocare il tuono e il cigolio delle ruote … Il chiaro di luna si offuscò, sembrò assumere un
colore sporco; le stelle sbiadirono ancor più, e agli orli della strada si vedevano i nugoli di
polvere,… Attraverso la polvere che penetrava negli occhi non si distingueva null'altro che il
balenio dei lampi. Egòruska, pensando che sarebbe cominciato a piovere, si mise in ginocchio e si
coprì con la stuoia. … Il tuono rimbombò furioso, rotolò per il cielo da destra e sinistra, poi
indietro, si spense presso i primi carri.
«Santo, Santo, Santo, Signore degli eserciti!» mormorò Egòruska facendosi il segno della
croce. «Riempi il cielo e la terra della Tua gloria...»
La tenebra del cielo spalancò la bocca e soffiò un fuoco bianco; rombò di nuovo il tuono,
subitamente ; e appena tacque brillò un lampo,
Il temporale imperversa, si scatenano anche violenti acquazzoni e la scena è descritta quale
appare a Egòruska a cui nel buio e nel fragore si presentano visioni di mostri terrificanti,
mentre a Pantelej, che procede a fianco del carro come di consueto, non arrivano i suoi
lamentosi richiami ed egli non risponde.
Ma a scuoterlo, quando ormai a occhi chiusi sta rannicchiato, convinto che l’incubo non avrebbe
avuto fine, gli giunge proprio la voce di Panteléj che cammina ai piedi del carro con Emel’jàn:
“Egòruska, dormi? … Sei diventato sordo, sciocchino?”. Al richiamo Egòruska si scuote, scende
e si mette in marcia in mezzo agli altri, accanto a Panteléj che egli chiama “nonno”.
Ecco che si giunge a un villaggio, c’è luce a una finestra, e Egòruska viene fatto entrare in
un’isba dove una vecchia, magra e gobba, gli dà qualche boccone e lo fa sdraiare su una panca
vicino alla stufa. Accanto a lei si siede Panteléj e i due chiacchierano mentre il ragazzino è
scosso da brividi, e ora suda, ora trema di freddo.
Poco dopo però il convoglio riparte e Egòruska ritorna a rannicchiarsi sulla sua solita balla di
lana, dove è ossessionato da incubi in cui gli appaiono il mulino con le sue lunghe braccia, Dymov,
Varlàmov e il sorridente Konstantìn.
A sera il convoglio giunge sopra un ponte che attraversava un largo fiume. Sul fiume si stendeva
un fumo nero; si vedeva un vaporetto che tirava a rimorchio delle chiatte. Più avanti si rizzava
una grande collina sparsa di case e di chiese, ai cui piedi correva una locomotiva...
Sino allora Egòruska non aveva mai veduto vaporetti nè locomotive, nè grandi fiumi.
Vedendoli adesso, non si spaventò, e nemmeno si meravigliò; sul suo viso non apparve nulla che
somigliasse a curiosità. Sentì soltanto malessere e si affrettò a ricoricarsi. Appoggiato con il
petto sulla balla di lana, rigettò. Pantelèj, vedendolo, gemette e scrollò il capo.
«Il nostro ragazzo si è ammalato!» disse. «Ha certo preso freddo allo stomaco... ammalato
fuori casa... Brutto affare!»
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Chi vede, e sono molti, in questo racconto un esempio del “pessimismo cecoviano”, certamente
non ha presente questa deliziosa scena, tutta pervasa di radiosa serenità e animata da un
profondo, sincero e disinteressato affetto, in cui la vicenda viene narrata senza ombra di
sentimentalismo, anzi, con un tono velato di benevola ironia.
Padre Chrìstofor dà quindi a Egòruska molti saggi consigli sugli studi che sta per affrontare, e
sulla riconoscenza che deve allo zio; non avrebbe smesso più di parlare, se non si fosse aperta
cigolando la porta da cui entra Ivàn Ivànyc, che annuncia soddisfatto di aver trovato una
persona presso la quale sistemare Egòruska, una certa Nastàs’ja Petròvna. Segue la descrizione
vivacissima del girovagare di zio e nipote alla ricerca della casa di Nastàs’ja, dove vengono
accolti e dove rimane Egòruska, triste nonostante l’accoglienza calorosa e la sistemazione
confortevole. Il mattino seguente vengono a congedarsi Ivàn Ivànyc e padre Chrìstofor, e con
una domanda, come di consueto in Cechov, si chiude l’avventuroso racconto.
Prima di congedarsi, si sedettero tutti in silenzio, per qualche istante. Anastàsja Petròvna
sospirò profondamente; con gli occhi in pianto guardò verso le icone.
«Dunque,» cominciò Ivàn Ivànyc, «dunque tu resti...»
Dal suo viso scomparve a un tratto l'arida asciuttezza affaristica; arrossì un poco, sorrise
triste, e disse:
«Mi raccomando, studia. Non dimenticare la mamma e ubbidisci ad Anastàsja Petròvna. Se
studierai bene, Egòrij, non ti abbandonerò.»
Levò di tasca il portamonete, volse la schiena a Egòruska, frugò a lungo fra la moneta
spicciola, e trovata una moneta da dieci copeche gliela dette. Padre Chiìstofor sospirò; poi
lentamente lo benedisse.
«In nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo... Studia,» gli disse, «lavora, fratello...
Se morirò, ricordami. Ecco, accetta anche da me una moneta da dieci copeche.»
Egòruska gli baciò la mano e proruppe in pianto. Qualcosa nell'anima gli sussurrava che non
avrebbe riveduto mai più quel vecchio.
«Io, Anastàsja Petròvna, ho già presentato al ginnasio la domanda,» disse Ivàn Ivànyc
parlando a voce bassa, come se lì nella stanza si trovasse un morto. «Il sette agosto voi lo
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condurrete per l'esame. Orsù, addio! State con Dio! Addio, Egòr!»
«Avreste almeno potuto prendere il tè» mormorò lamentosamente Anastàsja Petròvna.
Attraverso le lacrime che gli velavano gli occhi, Egòruska non vide uscire lo zio e padre
Chrìstofor. Si precipitò verso la finestra; ma in cortile non c'erano già più [ …. ]
Egòruska, non sapendo egli stesso perchè, si staccò da quel posto, e si precipitò fuori della
stanza. Quando fu sulla porta del cortile, Ivàn Ivànyc e padre Chrìstofor, l'uno col bastone
curvo e l'altro col bastone da prete, svoltavano la cantonata. Egòruska sentì che con essi
svaniva come nebbia, per sempre, tutto ciò che sino allora era stata la sua vita passata; e cadde
accasciato sopra un sedile, e salutò con lacrime amare la nuova sconosciuta esistenza che ora
incominciava per lui.
Come sarebbe stata quella vita?
Il lungo racconto si chiude con una domanda a cui sarà il lettore a cercare o, se lo desidera, a
dare risposta. “Se La steppa avrà successo –scrive Cechov a Grigorovic- mi servirà da base per
un romanzo e la continuerò. L’ho scritta di proposito in modo che dia l’impressione di opera
incompiuta”. Ma la prospettiva di trasformare La steppa in un romanzo gli balena solo un
attimo: la dimensione perfetta della narrativa cecoviana è il racconto aperto, fatto di
frammenti di vita, siano alcuni anni, pochi mesi o, come qui, pochi giorni: non importa come
continuerà la storia, cosa ci sarà poi: se lo inventi il lettore, sta a lui completare il disegno, se
lo desidera. Il nucleo c’è.
In effetti sono pochissimi i racconti di Cechov che si chiudano con una vera e propria
conclusione che metta fine alla vicenda narrata senza lasciare il lettore in sospeso, come
potremo constatare dalla maggior parte dei racconti che analizzeremo dopo La steppa, scritti
dal ’90 in poi,
Così avviene per lo più anche per le pièces teatrali cecoviane, dove le vicende di movimentati e
difficili rapporti tra i personaggi si chiudono senza soluzioni definitive e, come nella vita, il
tempo riprende a scorrere lasciando allo spettatore di immaginare un futuro “forse” diverso,
più probabilmente senza grandi, significative sorprese.
… la ragazza, Sonia, e lo zio sono di nuovo al lavoro: fanno i conti delle vendite, riprendono
insomma le vecchie monotone occupazioni. Le ultime parole sono di Sonia: "Vivremo una lunga
serie di giorni... poi Dio avrà pietà di noi... e riposeremo, riposeremo".
Zio Vanja e Astrov (l’altro protagonista della commedia) sono due uomini lucidi e come
prosciugati, che non hanno però scordato del tutto i loro sogni, pur sapendosi incapaci, per
debolezza loro o a causa del tempo e dell'ambiente in cui vivono, di lottare per realizzarli. Essi
cercano di dimenticare e di dimenticarsi nel lavoro e nella vodka. Barcollano, buffi e patetici, in
mezzo a uomini solidi, stolidi e sicuri di sé …, ma essi barcollano perché guardano le stelle. E -
dice acutamente Nabokov- in questa era di Golia rubicondi, è utile e raccomandabile leggere
qualcosa sui fragili Davide.
A proposito di quanti degli ultimi racconti di Cechov ci ritorneranno in mente sia le parole di
Sonia, sia queste profonde, preziose osservazioni di Nabokov!