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Arthur Conan Doyle

LA FASCIA MACULATA

Racconto poliziesco tratto da “Le avventure di Sherlock Holmes” pubblicato


per la prima volta nel 1892 sullo “Strand Magazine”.

Conan Doyle, Arthur (Edimburgo 1859, Crowborough 1930) medico, scrittore


e poeta scozzese è il creatore del famosissimo detective Sherlock Holmes,
protagonista di molti romanzi che inaugurano la serie del giallo classico “a
enigma”.

L’antefatto

Erano i primi di aprile dell’831 quando, una mattina, mi svegliai e vidi Sherlock
Holmes, vestito di tutto punto, in piedi accanto al mio letto. «Desolato di
svegliarla così presto, Watson», mi disse.

«Cosa c’è?... Un incendio?»

«No; un cliente. Sembra che una giovane signora sia arrivata qui in uno stato
di estrema agitazione e insista per vedermi. Sta aspettando in soggiorno. Se il
caso dovesse presentarsi interessante, sono certo che lei vorrà seguirlo dal
principio.»

«Amico mio, non lo perderei per nulla al mondo.»

Nulla infatti mi piaceva e mi interessava di più che seguire Holmes nelle sue
indagini professionali, ammirandone le rapide deduzioni, fulminee come le sue
intuizioni eppure sempre fondate su una base logica, che gli permettevano di
risolvere i problemi che gli venivano sottoposti. Mi vestii rapidamente e, in
pochi minuti, ero pronto ad accompagnare il mio amico nel soggiorno. Una
signora vestita di nero, col viso nascosto da un fitto velo, si alzò quando
entrammo.

«Buongiorno, signora», la salutò cordialmente Holmes. «Io sono Sherlock


Holmes. Questo è il mio carissimo amico e socio, il dottor Watson, davanti al
quale può parlare liberamente. Ma, la prego, si sieda vicino al caminetto...
vedo che sta tremando.»

«Non è il freddo che mi fa tremare», disse a bassa voce la signora. «È la


paura, signor Holmes, il terrore.» Mentre parlava sollevò il velo e vedemmo
che effettivamente era in un pietoso stato di agitazione, il viso grigiastro e
tirato, gli occhi inquieti e spaventati. Dal viso e dalla fi gura, le si sarebbero
dati circa trent’anni, ma i capelli erano prematuramente spruzzati di grigio e la
sua espressione era scorata e disfatta.

«Non abbia paura», disse Sherlock Holmes in tono tranquillizzante. «Sono


certo che sistemeremo tutto ben presto. E ora la prego di dirci tutto quanto
può aiutarci a farci un’idea di cosa si tratta.»

«Mi chiamo Helen Stoner, e vivo col mio patrigno, ultimo sopravvissuto di una
delle più antiche famiglie sassoni dell’Inghilterra, i Roylott di Stoke Moran, alla
frontiera occidentale del Surrey. Un tempo, la famiglia era fra le più ricche
dell’Inghilterra; in quest’ultimo secolo, però, i successivi eredi furono individui
dissoluti e scialacquatori e, alla fine, la famiglia andò in rovina. Non rimase
nulla, tranne pochi acri di terra e la vecchia casa pluricentenaria, anch’essa
gravata da una pesante ipoteca. In essa l’ultimo proprietario trascinò la sua
esistenza in miseria; ma il suo unico figlio, il mio patrigno, ottenne da un
parente un prestito che gli permise di laurearsi in medicina e se ne andò a
Calcutta. Purtroppo, però, in un accesso d’ira provocato da alcune rapine
subìte nella sua casa, percosse a morte il suo maggiordomo indigeno e scampò
per un filo alla pena capitale. Rimase a lungo in prigione per poi ritornare,
incupito e amareggiato, in Inghilterra. Durante il suo soggiorno in India, il
signor Roylott sposò mia madre, la signora Stoner. Mia sorella Julia e io siamo
gemelle e all’epoca del secondo matrimonio di mia madre avevamo solo due
anni. Mia madre godeva di una cospicua rendita che intestò totalmente al
dottor Roylott con la clausola che ciascuna di noi dovesse ricevere una certa
somma annuale in caso ci sposassimo. Poco dopo il nostro rientro in Inghilterra
mia madre morì. Il dottor Roylott allora ci portò a vivere con lui nella vecchia
casa di Stoke Moran. Il denaro lasciato da mia madre era sufficiente per le
nostre necessità e sembrava che non ci fossero ostacoli alla nostra felicità. Ma
verso quell’epoca, un pauroso cambiamento subentrò nel nostro patrigno.
Invece di stringere amicizia e scambiare visite con i nostri vicini, si chiuse in
casa, uscendone raramente se non per abbandonarsi a furiosi litigi con
chiunque. Diventò ben presto lo spauracchio del villaggio e la gente fuggiva
quando lo vedeva, dato che è un uomo di una forza straordinaria e
assolutamente incontrollabile quando è in preda all’ira. Non ha amici, tranne gli
zingari nomadi ai quali permette di accamparsi sul suo terreno, accettando in
cambio ospitalità nelle loro tende. Ha anche una passione per gli animali
indiani e, attualmente, ha un ghepardo e un babbuino che scorrazzano liberi
nella proprietà terrorizzando il villaggio. Da quanto le ho detto, può
immaginare che vita abbiamo condotto io e la mia povera sorella Julia. Aveva
solo trent’anni quando è morta.»

«Dunque sua sorella è morta?»

«È morta due anni fa ed è proprio di questo che desidero parlarle. Due anni fa,
a Natale, Julia conobbe un maggiore di Marina, con il quale si fi danzò. Il mio
patrigno non fece obiezioni al matrimonio ma, a due settimane dal giorno
fissato per le nozze, accadde l’evento terribile che mi privò della mia unica
sorella.»

«La prego di essere precisa nei particolari», disse Holmes.

«Non è difficile, perché ogni attimo di quel terribile momento mi è rimasto


impresso nella memoria. Come le ho detto, la nostra casa è molto antica e solo
un’ala è abitata. In quest’ala, le camere da letto sono a pianoterra. Di queste
camere da letto, la prima è quella del dottor Roylott, la seconda di mia sorella,
la terza la mia. Non sono comunicanti fra loro, ma danno tutte sullo stesso
corridoio. È chiaro?»
«Chiarissimo.»

«Le finestre delle tre camere danno sul parco. In quella fatale notte il dottor
Roylott si era ritirato presto anche se sapevamo che non era per dormire,
perché mia sorella sentiva il fastidioso odore del sigaro indiano che era solito
fumare. Uscì quindi dalla sua stanza e venne nella mia, dove rimase per un po’
a chiacchierare del suo imminente matrimonio. Alle undici si alzò per
andarsene, ma si fermò alla porta voltandosi a guardarmi.

«“Helen”, mi disse, “hai mai sentito qualcuno fi schiare di notte?”

«“Mai”, risposi, “perché?”

«“Perché in queste ultime notti, ogni notte, verso le tre di mattina, ho sentito
un fischio, sommesso ma chiaro. Non so dire da che parte venisse. Ho pensato
di chiederti se anche tu l’avevi sentito.”

«“No, non l’ho sentito. Devono essere gli zingari.”

«“Molto probabile. Be’, comunque, non importa.” Mi sorrise, chiuse la porta e,


qualche istante dopo, sentii la chiave della sua camera che girava nella
serratura. Con un ghepardo e un babbuino non ci sentivamo tranquille se la
porta non era chiusa a chiave.»

«Capisco. Prego, continui il suo racconto.»

«Quella notte non riuscivo a dormire. Ero come oppressa da una vaga
sensazione di una disgrazia incombente. Era una notte tempestosa.
D’improvviso, si alzò l’urlo lacerante di una donna terrorizzata. Riconobbi la
voce di mia sorella. Saltai giù dal letto e mi precipitai nel corridoio. Mentre
aprivo la porta, mi parve di sentire un leggero sibilo, come quello che aveva
descritto mia sorella, e pochi momenti dopo un rimbombo, come se fosse
caduta una massa di metallo. Mentre correvo nel corridoio, la porta di mia
sorella si aprì. Scorsi sulla soglia mia sorella, col volto sbiancato dall’orrore, il
corpo vacillante come quello di un ubriaco. Corsi verso di lei e la circondai con
le braccia ma, in quel momento, le ginocchia le si piegarono e cadde a terra. Si
contorceva come in preda a un terribile dolore, e le sue membra si agitavano
convulsamente. In un primo momento pensai che non mi avesse riconosciuta
ma, mentre mi chinavo su di lei, all’improvviso urlò, con una voce che non
dimenticherò mai, “Oh mio Dio! Helen! Era la fascia! La fascia maculata!”.
Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro e puntò il dito in aria, verso la camera
del dottore, ma fu colta da una nuova convulsione che le soffocò le parole in
gola. Perse i sensi e morì. Questa fu l’orribile fi ne della mia amata Julia.»

«Un momento», disse Holmes, «è sicura di aver sentito il sibilo e il suono


metallico? Potrebbe giurarlo?»

«È la stessa domanda che mi ha rivolto il coroner all’inchiesta. Ho l’impressione


di averlo sentito, ma potrei essermi sbagliata.»

«Sua sorella era vestita?»

«No, era in camicia da notte. Nella mano destra è stato trovato un fiammifero
bruciacchiato, e nella sinistra una scatola di fiammiferi.»

«Il che dimostra che aveva acceso una lampada per guardarsi intorno quando
qualcosa l’aveva allarmata. Questo è importante. E a quale conclusione è
giunto il coroner?»

«Ha svolto delle indagini molto accurate, ma non è riuscito a scoprire alcuna
causa plausibile per la morte. La mia testimonianza dimostrava che la porta
era chiusa dall’interno, e le finestre erano bloccate da persiane di vecchio tipo,
con grosse sbarre di ferro che venivano fissate ogni sera. Furono esaminate
attentamente le pareti, che risultarono solide dappertutto; fu accuratamente
esaminato anche il pavimento, con gli stessi risultati. Il camino è molto ampio,
ma è sbarrato con quattro grossi ganci. È quindi certo che, quando è morta,
mia sorella era assolutamente sola. Inoltre, il suo corpo non presentava alcuna
traccia di violenza.»

«Hanno pensato a un veleno?»

«È stato cercato durante l’autopsia ma senza successo.»

«Perché, secondo lei, sua sorella ha parlato di una fascia maculata?»


«A volte, ho pensato che fossero solo parole senza senso, pronunciate nel
delirio; altre volte che potessero riferirsi agli zingari, a questi strani foulard a
macchie che tanti di loro portano in testa.»

«Tutto ciò è molto misterioso», disse Holmes, «la prego, continui.»

«Sono passati due anni da allora e, fino a poco tempo fa, la mia vita è stata
più solitaria che mai. Un mese fa, però, un caro amico, che conosco da molti
anni, mi ha fatto l’onore di chiedere la mia mano. Il mio patrigno ha dato il suo
consenso alle nozze e ci sposeremo in primavera. Due giorni fa, sono
cominciati dei lavori nell’ala ovest del fabbricato, è stato perforato il muro della
mia camera da letto, e quindi mi sono dovuta trasferire nella camera che fu di
mia sorella a dormire nel suo stesso letto. Immagini, quindi, il mio brivido di
terrore la notte scorsa, mentre stavo sveglia pensando alla terribile sorte che
le era toccata, nel sentire nel silenzio della notte, all’improvviso, quel
sommesso fischio che aveva preceduto e quasi annunciato la sua morte. Saltai
su e accesi la lampada, ma nella stanza non si vedeva niente. Ero troppo
scossa per rimettermi a letto, così mi vestii e, appena spuntò l’alba, uscii di
nascosto per venire da lei e chiederle consiglio.»

«È una faccenda molto misteriosa», ripeté il mio amico. «Ma non c’è un minuto
da perdere. Se venissimo oggi a Stoke Moran, potremmo vedere quelle stanze
senza che il suo patrigno lo sappia?»

«Si dà il caso che abbia detto che oggi doveva venire in città per un affare
importante. Probabilmente, sarà assente tutto il giorno e niente vi disturberà.»

«Benissimo. Allora verremo entrambi. Lei che farà?»

«Ci sono un paio di cose che vorrei sbrigare ora che mi trovo in città. Ma
tornerò col treno delle dodici così da essere lì per il vostro arrivo.» Detto
questo, Helen Stoner scivolò fuori dalla stanza.

«Che ne pensa di tutto questo, Watson?», chiese Holmes.

«Mi sembra una faccenda misteriosa e sinistra.»


«Adesso, Watson, ordiniamo la colazione, dopo di che andrò fi no al Doctors’
Commons, dove spero di raccogliere qualche informazione utile.»

Era quasi l’una quando Sherlock Holmes tornò.

«Ho visto il testamento della moglie defunta del dottor Roylott», disse. «In
caso di matrimonio, ciascuna delle due fi glie ha diritto a un reddito di 250
sterline. È evidente, quindi, che anche il matrimonio di una solo di loro gli
porterebbe un danno economico assai rilevante. Non ho sprecato la mattinata;
infatti adesso è dimostrato che quell’individuo aveva il movente più forte per
impedire che succedesse una cosa del genere. E ora, Watson, non c’è tempo
da perdere; partiamo subito per Stoke Moran.»

Le indagini

Come arrivammo a Stoke Moran, la nostra cliente del mattino ci corse incontro
con un’espressione di gioia sul viso. «Vi aspettavo con tanta ansia», esclamò
stringendoci la mano. «Tutto va per il meglio. Il dottor Roylott è andato in città
e non rientrerà prima di sera.»

«Bene», disse Holmes. «Per favore ci accompagni subito nelle camere che
dobbiamo esaminare.»

Una porticina laterale dava accesso sul corridoio dalle pareti imbiancate sul
quale si aprivano le tre stanze. Holmes non volle esaminare la terza, quindi
passammo subito alla seconda, quella in cui adesso dormiva la signorina
Stoner e in cui sua sorella era morta. Era una stanza piccola e accogliente.
Holmes girò lo sguardo tutt’intorno, notando ogni minimo particolare.

«Dove comunica quel campanello?», chiese alla fine, indicando un grosso


cordone che pendeva a fi anco del letto, col fiocco addirittura poggiato sul
guanciale.

«Nella stanza della governante.»

«Sembra più nuovo degli altri oggetti.»


«Sì, è stato messo un paio d’anni fa.»

«Immagino lo avesse chiesto sua sorella.»

«No, non mi risulta che l’abbia mai chiesto.»

«Mi scusi un attimo, mentre do un’occhiata al pavimento», disse Holmes.

Si gettò bocconi, con la lente in mano, strisciando rapidamente avanti e


indietro, esaminando accuratamente le fessure fra le tavole di legno. Poi, fece
la stessa cosa con i pannelli di rivestimento delle pareti. Alla fi ne, si accostò al
letto e rimase a osservarlo per qualche minuto facendo correre lo sguardo su e
giù lungo il muro. Infine, prese il cordone del campanello e gli diede uno
strattone violento.

«Perbacco, è finto», disse, «non è nemmeno collegato a un filo elettrico.


Questo è molto interessante. Come può vedere, è fissato a un gancio proprio
sopra alla piccola apertura del ventilatore.»

«Ma è assurdo! Non me n’ero mai accorta.»

«Molto strano», borbottò Holmes tirando il cordone. «Ci sono un paio di cose
assai strane in questa stanza. Ad esempio, il costruttore doveva essere molto
stupido per aprire un foro di ventilazione che dà in un’altra stanza quando, con
la stessa fatica, poteva benissimo aprirlo comunicante con l’esterno, per far
passare l’aria!»

«Anche quello è stato fatto da poco», disse la giovane.

«Nello stesso periodo in cui è stato messo il cordone da campanello? »,


osservò Holmes.

«Sì, certo; in quel periodo sono stati fatti molti piccoli cambiamenti.»

«Cambiamenti, a quanto pare, molto interessanti: campanelli che non suonano


e ventilatori che non danno aria. Col suo permesso, signorina Stoner, adesso
daremo un’occhiata alle stanze interne.»
La camera del dottor Grimesby Roylott era più grande di quella della figliastra,
altrettanto spartanamente ammobiliata. Holmes si aggirò lentamente per la
stanza, esaminandola con estremo interesse.

«Qui che c’è?», chiese battendo un dito sulla cassaforte.

«Documenti e carte del mio patrigno.»

«Non è che per caso dentro ci sia un gatto?»

«No. Che strana idea!»

«Be’, guardi questo!» Prese un piattino colmo di latte, poggiato sul coperchio
della cassaforte.

«Non abbiamo gatti. Ma ci sono un ghepardo e un babbuino.»

«Ah, già, naturalmente! Be’, un ghepardo in fondo non è che un grosso gatto,
ma direi che un piattino di latte non sia davvero sufficiente a saziarlo. C’è un
punto che voglio chiarire.» Si accucciò davanti a una sedia di legno
esaminandone il sedile con estrema attenzione.

«Su questo non c’è alcun dubbio», disse alzandosi e rimettendosi in tasca la
lente. «Guarda, guarda! Questo è davvero interessante!»

L’oggetto che aveva colpito la sua attenzione era un piccolo guinzaglio appeso
a un angolo del letto; un guinzaglio però arrotolato e legato così da farne un
nodo scorsoio.

«Adesso credo di aver visto abbastanza, signorina Stoner, e, col suo permesso,
andiamo fuori, sul prato.»

Non avevo mai visto il mio amico con l’espressione così truce.

«Signorina Stoner», continuò Holmes, «è assolutamente essenziale che lei


segua alla lettera i miei consigli. In primo luogo, il mio amico e io dobbiamo
passare la notte nella sua stanza.»

La ragazza e io lo guardammo sbalorditi.


«Lasci che le spieghi. Quella laggiù è la locanda del villaggio?»

«Sì, la Corona.»

«Benissimo. Da lì si vedono le sue finestre?»

«Certamente.»

«Quando torna il suo patrigno, deve ritirarsi in camera sua con la scusa di un
mal di testa. Poi, quando lo sentirà andare nella sua stanza per la notte, apra
le persiane della sua finestra, tolga il gancio e metta sul davanzale una
lampada, come segnale per noi; poi, senza far rumore, prenda tutto quanto
può servirle e vada in quella che era prima la sua stanza. Il resto lo lasci a
noi.»

«Ma cosa intendete fare?»

«Passeremo la notte nella sua stanza per cercar di scoprire la causa del rumore
che l’ha svegliata. E adesso, signorina Stoner, dobbiamo lasciarla perché se il
dottor Roylott dovesse tornare e ci vedesse qui, il nostro viaggio sarebbe stato
inutile. Arrivederci.»

Holmes e io non incontrammo difficoltà a ottenere una camera da letto nella


Locanda della Corona. La camera era al piano superiore e dalla finestra si
vedevano distintamente il viale d’accesso e l’ala abitata della residenza di
Stoke Moran. Al crepuscolo vedemmo arrivare il dottor Roylott. Pochi minuti
dopo scorgemmo una luce fra gli alberi, segno che in uno dei salotti era stata
accesa la lampada.

«Sa, Watson», mi disse Holmes mentre stavamo seduti uno accanto all’altro
avvolti nell’ombra della sera che stava calando, «in verità, esiste un pericolo
ben preciso.»

«Lei parla di pericolo. Evidentemente in quelle stanze ha visto più di quanto


abbia visto io.»

«No, ma credo di averne tratto qualche conclusione in più. Penso che lei abbia
visto esattamente le stesse cose.»
«Non ho visto niente di speciale, a eccezione del cordone del campanello e
confesso che non riesco a immaginare a cosa possa servire.»

«Ha visto anche il foro di aerazione.»

«Sì, ma non ci vedo nulla di strano in una piccola apertura fra due stanze. È
talmente stretto che non ci passerebbe nemmeno un topo.»

«Ero certo che avremmo trovato quel foro di aerazione ancora prima di venire
a Stoke Moran. Ricorderà che la signorina ci disse che la sorella sentiva l’odore
del sigaro del dottor Roylott. E quello suggeriva l’esistenza di una qualche
comunicazione fra le due stanze. Un foro di comunicazione molto piccolo,
altrimenti sarebbe stato notato durante il sopralluogo del coroner. Ho pensato
a un minuscolo foro di ventilazione.»

«Ma che male può esserci in questo?»

«Be’, diciamo che quanto meno esiste una strana coincidenza di date. Viene
installato un ventilatore, viene appeso un cordone da campanello, e una
ragazza che dorme in quella stanza muore. Non le sembra strano?»

«Non riesco ancora a vedere il collegamento.»

«Non ha notato qualcosa di molto strano circa il letto?»

«No.»

«Era fissato al pavimento. La ragazza pertanto non poteva spostare il letto.


Doveva restare sempre nella stessa posizione rispetto al ventilatore e al
cordone del campanello.»

«Holmes», esclamai, «comincio vagamente a capire dove vuole an dare a


parare. Siamo arrivati appena in tempo per impedire un astuto e orribile
delitto, vero?»

«Dice bene; astuto e orribile.»


Alle nove circa, la luce fra gli alberi si spense e la residenza fu avvolta
dall’oscurità. Passarono lentamente due ore, poi d’improvviso, alle undici in
punto, davanti a noi brillò un’unica, vivida luce.

«Ecco il nostro segnale», disse Holmes balzando in piedi.

Uscimmo dalla locanda, raggiungemmo il prato, lo attraversammo ed


entrammo dalla finestra all’interno della stanza da letto. Il mio amico chiuse le
imposte senza far rumore, mi si accostò poi in punta di piedi e mi disse
all’orecchio: «Il minimo rumore sarebbe fatale per il nostro piano. Non si
addormenti; ne va della sua vita. E tenga pronta la pistola nel caso dovessimo
servircene. Io mi siederò sulla sponda del letto; lei si sieda su quella
poltroncina».

Tirai fuori la pistola e la poggiai sull’angolo del tavolo. Holmes aveva portato
una lunga canna sottile che posò sul letto, accanto a sé, insieme con una
scatola di fiammiferi e un mozzicone di candela. Poi abbassò al minimo la
lampada e restammo così nell’oscurità. Rintoccò la mezzanotte, l’una, le due,
le tre, e ancora eravamo lì seduti in silenzio in attesa che accadesse qualcosa.
D’improvviso, in direzione del foro di aerazione, brillò un raggio di luce che
subito scomparve, poi si sentì un forte odore di olio che bruciava e di metallo
riscaldato. Nella stanza accanto qualcuno aveva acceso una lanterna cieca.
Sentii il rumore di un leggero movimento poi tutto ritornò silenzioso; ma
l’odore si faceva più intenso. Per mezz’ora rimasi seduto con l’orecchio
spasmodicamente teso. A un tratto, si sentì un suono smorzato, strusciante.
Nell’attimo stesso in cui lo sentimmo, Holmes balzò dal letto, accese un
fiammifero e percosse violentemente e ripetutamente il cordone del
campanello con la canna.

«Lo vede, Watson?», gridò. «Lo vede?»

Ma non vedevo nulla. Nell’attimo in cui Holmes fece luce, sentii un sibilo, basso
e distinto, ma l’improvviso chiarore mi abbagliò e non riuscii a vedere la cosa
contro cui il mio amico si era scagliato con tanta veemenza. Riuscivo però a
vedere il suo viso, mortalmente pallido e sconvolto dall’orrore e dal disgusto.
Aveva smesso di colpire e stava guardando in alto, verso il ventilatore, quando
il silenzio della notte fu rotto dall’urlo più lacerante che avessi mai sentito. Un
ululato rauco di dolore, paura, rabbia.

«Che significa questo?», chiesi con voce rotta.

«Significa che è tutto finito», rispose Holmes. «Prenda la pistola e andiamo


nella stanza del dottor Roylott.»

Uno strano spettacolo si presentò ai nostri occhi. Sul tavolo c’era una lanterna
cieca, con lo schermo semiaperto, che gettava un vivido raggio di luce sulla
cassaforte di ferro con lo sportello accostato. Accanto al tavolo, su una sedia di
legno, sedeva il dottor Roylott. In grembo, teneva il bastone con il lungo
guinzaglio che avevamo notato durante il giorno. Il mento era rivolto verso
l’alto e gli occhi fissavano un angolo del soffitto con uno sguardo spaventoso e
immobile. Attorno alla fronte era arrotolata una strana fascia gialla con delle
macchie marroni che sembrava cingergli strettamente il capo. Quando
entrammo, non si mosse.

«La fascia! La fascia maculata!», bisbigliò Holmes.

Feci un passo avanti. Improvvisamente quello strano copricapo ebbe un


fremito e dai capelli si rizzò la testa piatta e triangolare e il collo dilatato di un
orrendo serpente.

«È una vipera di palude!», gridò Holmes. «Il rettile più velenoso di tutta l’India.
Roylott è morto dopo dieci secondi dal morso. È proprio vero che la violenza
ricade sul violento, e il cacciatore finisce nella trappola che ha preparato per la
sua preda. Ricacciamo questa orribile creatura nella sua tana; poi condurremo
la signorina Stoner altrove, in un posto sicuro, e informeremo la polizia
dell’accaduto.»
Le spiegazioni

Le poche cose che ancora ignoravo, me le spiegò Sherlock Holmes il giorno


dopo, mentre stavamo facendo ritorno a casa.

«Come le ho già spiegato», mi disse, «la mia attenzione fu subito attirata dal
foro di ventilazione e dal cordone del campanello che pendeva accanto al letto.
«Quando scoprii che il cordone era un’inutile finzione e che il letto era fissato al
pavimento, mi venne immediatamente il sospetto che quel cordone fosse una
specie di ponte per qualcosa che, attraverso il foro di ventilazione, arrivava al
letto. Pensai subito a un serpente e, quando seppi che il dottore teneva in casa
degli animali provenienti dall’India, sentii che ero probabilmente sulla pista
giusta. L’idea di usare un veleno assolutamente non rintracciabile con un
processo chimico era proprio quella che poteva venire in mente a un uomo
astuto e spietato, che aveva trascorso molti anni in Oriente. Inoltre, dal suo
punto di vista, la rapidità con cui un veleno del genere avrebbe fatto effetto
sarebbe stata un vantaggio. Ci sarebbe voluto un patologo davvero eccezionale
per scoprire i due minuscoli forellini lasciati dai denti del serpente. Pensai poi al
fischio. Certo, doveva richiamare il serpente prima che la luce del mattino ne
rivelasse la presenza sul corpo della vittima. Probabilmente l’aveva addestrato
a tornare indietro al suo richiamo, servendosi del piattino di latte che abbiamo
visto. Avrebbe infilato il serpente attraverso il foro di ventilazione nell’ora che
riteneva opportuna, sapendo con certezza che sarebbe sceso lungo il cordone,
fi no al letto. Il rettile poteva mordere o meno la persona addormentata; la
vittima designata poteva magari sfuggire alla morte per un’intera settimana
ma, prima o poi, era destinata a morire.

«Ero giunto a queste conclusioni prima di entrare nella stanza del dottor
Roylott. Un esame della sedia mi rivelò che aveva l’abitudine di salirci,
ovviamente per raggiungere il foro di aerazione. La cassaforte, il piattino di
latte e il guinzaglio a cappio dissiparono ogni mio eventuale dubbio. Il suono
metallico sentito dalla signorina Stoner era evidentemente provocato dal
patrigno che richiudeva in fretta la cassaforte col suo terribile occupante. Una
volta convinto dell’esattezza della mia teoria, lei sa quali misure ho preso per
dimostrarla. Ho sentito, come certo ha sentito anche lei, il sibilo del rettile e
immediatamente ho fatto luce e l’ho attaccato.»

«Col risultato di farlo risalire attraverso il foro.»

«E col risultato di scatenarlo contro il suo padrone, nell’altra stanza. Certo,


sono responsabile, sia pure indirettamente, della morte del dottor Roylott; ma
questo non mi peserà troppo sulla coscienza.»

(Da: “Il quadrato magico” di Rosetta Zordan, ”Fabbri


Editori” 2004, ridotto ed adattato da “Le avventure di
Sherlock Holmes”, Newton & Compton, Roma).

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