Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
FOLLIA
(Asylum, 1996)
A Jack Davenport
Più tardi, quella stessa sera, tornai in studio per stendere le mie osserva-
zioni. Il comportamento di Edgar mi aveva impressionato. Guardandolo
ballare con Stella si stentava a credere che soffrisse di un disturbo che
comprometteva gravemente i suoi rapporti con le donne. Prima di venire
da noi aveva fatto per alcuni anni lo scultore, con tutte le tensioni che solo
chi vive nel mondo dell'arte conosce. Circa un anno prima del suo ricovero
cominciò a essere ossessionato dall'idea che sua moglie Ruth avesse una
relazione con un altro. A detta di tutti, Ruth Stark era una donna assoluta-
mente tranquilla e ragionevole, che posava per Edgar e il più delle volte
provvedeva al sostentamento di entrambi. Ma a causa delle violente e fero-
ci accuse di lui il matrimonio aveva cominciato a sfasciarsi, e Ruth minac-
ciava di andarsene.
Una notte che tutti e due avevano bevuto ci fu una scenata terribile, e lui
la massacrò a martellate; ma fu quello che le fece dopo a mostrarci fino a
che punto fosse disturbato. Benché le urla di Ruth si sentissero fino in
strada, nessuno era accorso. Edgar arrivò da noi in uno stato di profondo
shock. Dopo averlo aiutato a riprendersi, mi aspettavo di vedere insorgere
le reazioni inevitabili in casi come il suo, e cioè il rimorso e il senso di
colpa. Ma a quanto potevo vedere non c'era traccia né dell'uno né dell'al-
tro; qualche settimana più tardi Edgar riacquistò il suo equilibrio, e presto
cominciò a partecipare a varie attività all'interno dell'ospedale.
Eravamo preoccupati per lui. Pur dimostrando una notevole intelligenza,
non dava alcun segno di sapere perché avesse ucciso sua moglie. A tur-
barmi non era solo la persistenza delle sue ossessioni, ma anche la loro as-
surdità intrinseca. Sosteneva di avere una montagna di prove dell'infedeltà
di lei, eppure quando gli chiedevamo quali fossero tirava fuori solo piccole
banalità quotidiane in cui scorgeva significati abnormi. Uno scarico di
sciacquone, una macchia sul pavimento, la posizione di una scatola di de-
tersivo sul davanzale, queste erano le cose cui sembrava attribuire impor-
tanza. Su tutti gli altri piani poteva considerarsi recuperato, tanto che a-
vrebbe potuto essere dimesso, ma su quest'unico punto, e cioè sulla logici-
tà del suo omicidio, era irremovibile. Oh, ammetteva che non avrebbe do-
vuto succedere, e rimpiangeva di aver bevuto in quel modo, ma insisteva
di esserci stato quasi costretto dalle provocazioni e dagli insulti di Ruth.
Né io né nessun altro pensavamo che potesse uscire, per il momento. Era
con noi da cinque anni, e secondo me ci sarebbe rimasto almeno altri cin-
que. Questa era la situazione quando gli venne affidato il restauro della
serra di Max Raphael.
Ogni mattina, quell'estate, vari gruppi di pazienti in semilibertà, con i
pantaloni di fustagno giallo, la casacca azzurra e una giacca di tela bianca
buttata sulle spalle, uscivano dal Cancello principale, seguiti da un infer-
miere, per dedicarsi a vari lavori di manutenzione. Edgar faceva parte del
gruppo assegnato all'orto del vicedirettore. Stella lo incontrava spesso
quando andava a cogliere un po' di verdura o dei fiori, e se il sorvegliante,
un infermiere anziano di nome John Archer, non era a tiro si sedeva per
qualche minuto a chiacchierare. Ammise in seguito di essersi sentita attrat-
ta da lui quasi fin dal primo momento. Per ovvie ragioni aveva cercato di
non pensarci, ma il fatto che ogni giorno lui fosse là fuori le aveva reso più
facile escogitare pretesti per incontrarlo. In fondo che male c'era a fare a-
micizia con un paziente? Questo era ciò che si ripeteva per giustificare il
proprio comportamento.
Come era successo?
La prima volta che le feci questa domanda non riuscì a darmi una rispo-
sta convincente. Evitava il mio sguardo e divenne evasiva. E quando az-
zardai che poteva essersi semplicemente trattato di una qualsiasi storia di
sesso, destinata a finire come era cominciata, il suo sognante distacco
scomparve, e per un attimo sentii, da parte sua, una vampata di ostilità.
Che a poco a poco si spense. Era già gravemente depressa, e non riusciva a
tollerare le emozioni. Accennò a qualcosa che lui aveva fatto un giorno,
qualcosa che esprimeva, oh, forza, tenerezza...
Chissà. Evitai di insistere.
Fu in uno dei nostri colloqui successivi che mi raccontò con meno reti-
cenza cosa avesse fatto Edgar per affascinarla e attrarla in quel modo fin
dall'inizio. Un pomeriggio molto caldo Stella era andata a cogliere un po'
di lattuga, e aveva visto Charlie in fondo all'orto con un paziente, quel-
l'uomo grande e grosso coi capelli neri di cui lei non sapeva neppure il
nome, ma solo che riparava la serra di Max; questo succedeva un paio di
settimane prima del ballo. Curiosa di vedere cosa stesse combinando il ra-
gazzo, aveva preso il sentiero, mentre Charlie le gridava di essersi inventa-
to una prova di forza che doveva assolutamente andare a vedere. Charlie
Raphael era un ragazzino piuttosto grasso, con la pelle chiara come quella
di sua madre che in estate si copriva di lentiggini. I capelli castano scuro
gli ricadevano sulla fronte in una spessa frangia, e quando rideva scopriva
la fessura tra gli incisivi da coniglio. Quell'estate portava sempre una ca-
micia di cotone a maniche corte, dei calzoncini molto larghi e dei sandali,
e vista la quantità di progetti di ricerca in cui era impegnato aveva le gam-
be immancabilmente graffiate e incrostate di fango.
Stella si sedette all'ombra sulla panchina vicino al muro e rimase a guar-
dare Charlie che chiedeva al paziente di rimanere dov'era, sul sentiero, e di
impugnare una vanga alle due estremità del manico tenendola in orizzonta-
le, mentre lui ci si inginocchiava sotto e la afferrava al centro.
«Alza!» gridò Charlie.
Il paziente lanciò un'occhiata a Stella ed eseguì, e Charlie si sollevò len-
tamente da terra aggrappandosi con tutte e due le mani alla vanga, le gi-
nocchia piegate e la faccia stravolta dallo sforzo. «Adesso conto!» urlò.
«Uno, due tre, quattro...».
Rimase aggrappato fino a venti, quando Stella, ridendo, lo pregò di la-
sciare che quel poveretto lo mettesse giù. Charlie urlò: «Giù», e venne de-
positato delicatamente a terra. «Sei proprio forte» disse guardando con
ammirazione Edgar, che sembrava uscito indenne dalla prova. Stella mi
disse di aver sentito il primo fremito di interesse per lui proprio mentre
Charlie penzolava come una scimmia dal manico della vanga.
Il giorno dopo tornò alla serra per vedere cosa stava facendo Edgar.
Scelse liberamente di andarci; è un fatto, e in quanto tale difficile da giusti-
ficare, o da nascondere. Lo trovò in cima a una scala che toglieva schegge
di vetro da un telaio, liberandole con estrema cura dal mastice ormai in bri-
ciole. Le gettava in un bidone vicino alla scala, e a brevi intervalli la quiete
sonnacchiosa del pomeriggio era spezzata dal rumore dei vetri infranti.
Vedendola avvicinarsi Edgar scese dalla scala e si tolse gli spessi guanti da
lavoro.
«Mrs Raphael» disse. Si piantò davanti a lei con un leggero ansito, sco-
standosi i capelli dalla fronte, e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un faz-
zoletto rosso e bianco col quale si asciugò il sudore prima dalla faccia, poi
dalle mani, continuando a fissarla con un'espressione che secondo Stella
era amichevole, ma al tempo stesso, in qualche modo, beffarda, o piuttosto
provocatoria: era come se la stesse sfidando a gettare la maschera.
Ma Stella si trovava del tutto a suo agio nelle schermaglie di quel gene-
re, senza contare che l'uomo che aveva davanti le era simpatico. «Non de-
ve smettere di lavorare» disse. «Volevo solo vedere cosa stava facendo».
«Edgar Stark».
Si strinsero la mano. Stella si riparò gli occhi dal sole voltandosi verso la
serra. «Vale la pena di ripararla?».
«Oh, è bellissima. Le cose erano costruite per durare, allora. Come que-
sto posto».
Le sorrise indicando il Muro, che si vedeva attraverso i pini in fondo al
giardino, vicino alla strada.
«Sarà un po' meno tetra, spero».
«Quando avrò finito sarà magnifica. Vi siete sistemati bene?».
«Be', siamo qui da un anno».
«Così tanto?».
Edgar tirò fuori il tabacco e si arrotolò una sigaretta. Quel gesto aveva
qualcosa di libero, e le piaceva. Non si comportava come un paziente.
«E lei da quanto tempo è qui?» gli chiese.
«Cinque anni, ma uscirò presto. Ho ucciso mia moglie».
Edgar al suo meglio, ricordo di aver pensato sentendo questo. Ma quanto
a schiettezza Stella era perfettamente in grado di tenergli testa.
«Perché?».
«Mi tradiva».
«Mi spiace».
Non era uno stupido. Le tragedie erano pane quotidiano, per Stella, che
infatti si mostrò comprensiva. È difficile che la moglie di uno psichiatra
criminale si lasci impressionare da una confessione del genere.
«Faceva il muratore, fuori?».
«L'artista. Ero uno scultore. Figurativo, per lo più. Si interessa di arte,
Mrs Raphael?».
«Non è che abbia molte occasioni, qui. A Londra sì».
La prima impressione di Stella fu che Edgar non fosse né servile né ar-
rogante. Disse che c'era qualcosa di solido e di maturo, in lui, e io non po-
tei fare a meno di pensare a tutti quei discorsi deliranti e maniacali sulla
sua defunta moglie. Se li avesse sentiti anche lei forse lo troverebbe un po'
meno solido e un po' meno maturo, pensai. Ma non li aveva sentiti, e così
l'indomani, dopo aver colto quello che le serviva nell'orto, scese di nuovo
fino alla serra.
Lo trovò sulla scala, stavolta senza casacca. Stava parlando di calcio con
Charlie, che era arrampicato sul muro dell'orto. Edgar era un omone, con
un fisico massiccio - spalle larghe, molto petto, molte cosce, molto stoma-
co - e la pelle morbida bianca. Stella notò subito le mani grandi e sottili, le
belle, forti, sensibili mani di un artista. Era quasi glabro, e si chiese se fos-
se il tipo che ingrassava. Poi gli propose di bere qualcosa di fresco.
Quando tornò poco più tardi con un bicchiere di limonata Edgar si era
rimesso la casacca. Stella chiese a lui e a Charlie se poteva sedersi per un
po' sulla panchina all'ombra. Mi confessò che le piaceva guardarlo lavora-
re, e intanto io pensavo a Max, al cerebrale Max, alto quanto Edgar ma
curvo, pallido, e con quella mania di pulirsi in continuazione gli occhiali;
Max poteva anche aver avuto l'idea di restaurare la serra, ma per metterla
in pratica era servito il lavoro di un altro. E i risultati si vedevano già. Mol-
ti dei vecchi vetri erano stati tolti, e adesso la struttura, ridotta allo schele-
tro, aveva una scarna essenzialità. E una sua strana bellezza, aggiunse Stel-
la, che tornando a casa portò con sé quell'immagine, l'immagine di un o-
mone a torso nudo, sicuro di sé, che in cima alla scala staccava le schegge
dall'intelaiatura della serra vittoriana - a una a una, con delicatezza.
Tornò il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Lui le parlò di suo figlio,
del figlio che aveva lasciato senza madre, Leonard, si chiamava così, e a-
desso aveva più o meno l'età di Charlie, anche se non lo vedeva da più di
cinque anni. Era stato affidato ai parenti della moglie, i quali avrebbero
fatto di tutto perché il ragazzo non venisse mai a sapere chi era suo padre.
Una storia perfetta per suscitare le simpatie di una madre.
Peccato che fosse falsa. Edgar non aveva figli.
Un giorno le chiese se poteva chiamarla Stella, e lei rispose di sì, ma non
davanti a John Archer o a Charlie.
Un'altra volta Edgar stava facendo lo schizzo di una decorazione floreale
tutta arrugginita che doveva ricostruire, e le chiese se poteva farle il ritrat-
to. Lei accettò. Edgar la fece sedere sulla panchina, e in pochi minuti pro-
dusse uno strano bozzetto. Non aveva niente di naturalistico, e nelle sue li-
nee sbavate era impossibile ritrovare la rotondità e la monumentalità che io
vedevo in Stella; ma in qualche modo le somigliava. Lei gli chiese se po-
teva tenerlo, e lui, senza una parola, strappò il foglio dal blocco e glielo
diede.
«Ma lo deve firmare» gli disse Stella.
Per una serie di ragioni che non si sentiva di analizzare troppo a fondo,
chiuse il disegno in un cassetto e lì lo tenne, senza farlo vedere a nessuno.
Anche se in superficie non era successo nulla di scabroso, Stella si era ben
guardata dall'accennare a Max del suo nuovo amico; e passando sotto si-
lenzio un evento che nella sua vita quotidiana aveva una qualche impor-
tanza, si era lasciata andare a una forma di ambiguità. La razionalizzò. A-
vrebbe dovuto sapere che l'inganno corrode l'integrità di un matrimonio, e
tenerne conto, ma non lo fece. Scelse di non farlo, e da questa scelta di
comodo seguì tutto il resto.
Oh, si diceva, ma che assurdità, e che banalità, oltretutto, l'idea che
scambiare due parole con un paziente nell'orto potesse avere importanza. E
allora, se era tutto così banale, che motivo aveva di ragionarci su? Il moti-
vo era la sua crescente attrazione sessuale per quell'uomo, cui stupidamen-
te aveva ceduto nel modo più ambiguo, cioè cercando di fare amicizia con
lui e lasciando che si insinuasse nelle sue fantasie.
All'inizio parlare di queste cose fu per lei tutt'altro che facile. So che era
tentata di imputare i fatti, e le loro tragiche conseguenze, al destino, o ai
capricci del cuore umano. Cercò insomma di scaricare le responsabilità
come del resto facciamo tutti, anche se non le piaceva accampare scuse o
nascondersi dietro astrazioni. Ma difese fino alla fine Edgar, cioè l'unica
persona che avrebbe potuto accusare. Non l'ho mai, assolutamente mai
sentita attribuirgli la responsabilità di quanto era accaduto.
La prima volta che mi resi conto della loro crescente intimità fu il giorno
che Charlie cadde dal muro dell'orto. Vicino alla serra c'era un vecchio
melo, e quando Edgar era sulla scala Charlie saliva sul muro, e da qui si
arrampicava sull'albero. Era uno scalatore impavido, ma non molto agile
data la sua grassezza, e un giorno, mentre stava tornando dall'albero al mu-
ro, il ramo si spezzò: Charlie perse l'equilibrio, cadde con un grido sul sen-
tiero, e per un paio di secondi rimase privo di sensi.
Quando Edgar piombò in casa col ragazzo semisvenuto fra le braccia
Stella era di sopra. Mrs Bain, la donna di servizio, era seduta al tavolo di
cucina a sgusciare piselli. Questa Mrs Bain era sposata con uno degli in-
fermieri anziani, un certo Alec Bain; fu lui a raccontarmi, in seguito, cosa
avesse pensato sua moglie vedendo un paziente che entrava non solo senza
bussare, ma anche chiamando Mrs Raphael a gran voce. E per nome. E-
dgar voleva mettere il ragazzo su un letto o su un divano, ma siccome Mrs
Bain non ebbe la presenza di spirito di indicargli il soggiorno le passò ol-
tre, uscì dalla cucina e andò in anticamera. Lei cominciò a urlargli dietro
proprio mentre Stella scendeva le scale di corsa e lanciava un grido terro-
rizzato.
Charlie stava bene. Si riprese in pochi minuti, tanto che Stella non giudi-
cò fosse il caso di telefonare a Max in ospedale. Lo tenne abbracciato men-
tre Mrs Bain andava a prendere un asciugamano umido, mostrando anche
di spalle la sua opinione sui pazienti che si presentano in casa senza essere
invitati e chiamano in quel modo la moglie del dottore. Charlie tentò di al-
zarsi, ma Stella gli disse di restare disteso ancora un po'. Poi si voltò verso
Edgar, che era rimasto in piedi passandosi le mani fra i capelli.
«Grazie per averlo portato dentro» gli disse. Sembrava sollevato a vede-
re che il ragazzo era tutto intero. Ovvio, pensò Stella, si sarà sentito re-
sponsabile.
«Tutto a posto» disse Edgar.
«Credo anch'io. Ma per oggi è meglio che rimanga a casa».
«No!» disse Charlie.
«Sì, invece» disse Stella.
Edgar uscì dalla porta della cucina. Stella pensò che forse sarebbe stato
il caso di spiegare a Mrs Bain perché Edgar mostrava tanta familiarità nei
suoi confronti, ma qui venne a galla la sua consueta, orgogliosa noncuran-
za, e non disse una parola; non vedeva proprio perché avrebbe dovuto far-
lo.
Benché non fosse accaduto ancora nulla di fisico, questo episodio con-
tribuì a cementare una specie di legame fra loro. Naturalmente Stella a-
vrebbe dovuto troncarlo, appena si rese conto che comportarsi in modo
tanto informale con un paziente le avrebbe causato, prima o poi, qualche
problema. Ma non le passò neppure per la testa. In quel momento non per-
se tempo a chiedersi perché si sentisse più divertita che allarmata; in segui-
to disse che doveva essere per via dell'atteggiamento ridicolo di Mrs Bain,
che si comportava come se i pazienti appartenessero a una classe inferiore.
Edgar cominciò a raccontarle la sua vita in ospedale, e lei si rese conto,
con un certo stupore, di aver sempre considerato quello che le accadeva in-
torno solo dal punto di vista di Max, cioè in una prospettiva psichiatrica.
Ora intravedeva una prospettiva nuova, cominciava a capire cosa signifi-
casse vivere, mangiare e dormire in un reparto sovraffollato, sessanta uo-
mini in un dormitorio pensato per trenta, con servizi igienici che risalivano
al secolo prima e che di solito funzionavano per modo di dire. In particola-
re, trovò raccapricciante la storia di un paziente del Reparto 1, che si lava-
va la faccia nella propria urina e poi usava l'asciugamano comune.
Cominciò a sentirsi coinvolta. Il processo di identificazione, in un primo
momento ancora confuso e protetto da un apparente distacco amichevole,
diventò a poco a poco sempre più forte. La indignava l'idea che quest'uo-
mo, questo artista, fosse costretto a subire l'umiliazione dei bagni antidilu-
viani, della mancanza di intimità, delle angherie, della noia, e dell'incertez-
za più assoluta circa il proprio futuro. Adesso era nel Reparto 3, un pazien-
te in semilibertà con una stanza tutta per sé, ma doveva ancora tollerare
cose che il senso di giustizia di Stella considerava incompatibili con la cu-
ra e l'assistenza della malattia mentale. A parte il fatto che non era più così
sicura che Edgar fosse davvero un malato di mente. Pensava avesse com-
messo un delitto passionale; e la passione di per sé è una cosa positiva, no?
Edgar non si spingeva mai troppo oltre, e non rimaneva mai serio troppo
a lungo. Spesso la faceva ridere, come quando le raccontava del matemati-
co di Cambridge che passava i suoi giorni seduto in un angolo della stanza
comune a tracciare calcoli complicatissimi su un foglio di carta igienica, o
di partite di bridge così impetuose che una volta una lite si era messa male
e un paziente ci aveva quasi lasciato un occhio. Le diceva che ogni tanto
gli sembrava di essere diventato socio di un club molto esclusivo, visto che
aveva conosciuto banchieri, avvocati, ufficiali e agenti di cambio; vecchi
etoniani, ma anche uomini dei bassifondi.
«Però abbiamo tutti una cosa in comune».
«Cioè?».
«Siamo tutti pazzi».
Stella ricordava bene quel momento. Era seduta nell'orto, sulla panchina
all'ombra del muro, mentre Edgar era in cima alla scala, a torso nudo, e la
guardava dall'alto ridendo della propria battuta: che lei non aveva trovato
affatto divertente.
«Io non credo che lei sia pazzo».
Il tono di Edgar cambiò di colpo, adeguandosi al suo.
«Neanch'io».
«E allora non dovrebbe essere qui».
Non dovrebbe essere qui. Non era esattamente quello che voleva sentirle
dire? Che la moglie del vicedirettore giungesse alle sue stesse conclusioni,
be', questo sì era un bel passo avanti.
Poi ci fu il ballo.
Stella sostiene che il mattino dopo il ballo era rimasta per ore seduta al
tavolo di cucina davanti a una tazza di tè, sfogliando distrattamente un
giornale. Aveva pensato a quello che era successo per gran parte della not-
te, e si sentiva a disagio. La sostanza, mi disse, era che mentre ballava con
Edgar si era resa conto che quello che lui le stava strofinando addosso at-
traverso i pantaloni era, be' sì, era il pene: e gli stava diventando duro. Dis-
se di ricordare distintamente i due momenti, prima l'indecisione, e poi, un
attimo dopo, la certezza che era proprio quello che pensava che fosse; ma
nell'attimo stesso in cui si scostava da lui, nell'attimo stesso in cui apriva la
bocca per gridare la sua indignazione, qualcosa le aveva fatto cambiare i-
dea, qualcosa che aveva riconosciuto nell'espressione di Edgar - una specie
di sgomento muto come se quello che gli stava succedendo fosse più forte
di lui. Era tutto molto buffo, e anche triste, e Stella si era lasciata com-
muovere da quel bisogno che aveva percepito così all'improvviso. E poi sì,
si era strofinata anche lei contro la sua erezione, e avevano volteggiato per
tutta la sala stretti l'uno all'altro, Edgar palesemente raggiante e Stella con
lo sguardo fisso in un punto lontano, con un'espressione dignitosa e imper-
scrutabile. Quella sua compostezza, del resto, non l'abbandonò mai, né al-
lora né in seguito. Quando la musica finì, e Edgar si voltò di colpo avvian-
dosi dall'altra parte della sala, a Stella era quasi dispiaciuto.
Quel che mi raccontò certo non mi sconvolse. Fui sorpreso, però, sorpre-
so e infastidito, non tanto dalla natura della loro connivenza - sia Edgar sia
Stella avevano una libido molto forte, e tutti e due erano chiaramente ecci-
tati dalla dimensione pubblica dell'episodio -, quanto dal fatto che lui aves-
se messo in pericolo con tanta leggerezza il nostro lavoro, quello che ave-
vamo fatto insieme io e lui: se Stella avesse raccontato quello che era suc-
cesso saremmo tornati indietro di mesi, se non di anni.
Il giorno dopo il ballo fu uno dei più caldi di tutta l'estate. Stella fece tre
o quattro bagni in diversi momenti della giornata, e ogni volta, mentre si
spogliava, le sembrava di sentirsi di nuovo addosso quell'erezione. Fino a
quel momento la sua attrazione per lui era stata una faccenda strettamente
intima, e non le era neppure venuto in mente che potesse essere reciproca;
e invece, a quanto pareva, lo era. La presenza di Edgar nell'orto cominciò
quindi a diventare un problema.
Era seccante, perché nell'orto c'erano molte cose che le servivano, cipol-
line, ravanelli, lattuga. Pur non essendo una donna timida, Stella non aveva
nessuna voglia di riprendere i rapporti con lui, anche perché si rendeva
perfettamente conto che non poteva permettersi di cedere una seconda vol-
ta. Ma siccome prima o poi avrebbe comunque dovuto scendere nell'orto e
affrontare Edgar, decise che tanto valeva farlo subito. Il mattino dopo spa-
recchiò gli avanzi della colazione, si spazzolò i capelli, si mise un po' di
rossetto e uscì, passando dal cortile. Portava un leggero abito estivo, e san-
dali bianchi senza calze.
Il sole era già caldo. Il muro che circondava l'orto era coperto di edera, e
un manto di muschio rivestiva gli interstizi fra i mattoni. Alla porta di le-
gno, col suo arco moresco arrotondato, era appena stata data una mano di
verde. Stella ci si fermò davanti, in ansia. Sentiva la maniglia scottare sotto
le dita. Alla fine la abbassò; il sentiero correva tra una profusione di fiori e
verdure, e cascate di gattaria si riversavano sulla ghiaia. L'aria era immobi-
le e luminosa, e gli insetti ronzavano fra le rose. I vasi da fiori brillavano
nel sole. A metà sentiero Stella vide John Archer seduto sulla panchina.
Era in maniche di camicia, e si arrotolava una sigaretta tutto piegato in a-
vanti, con i gomiti sulle ginocchia. Stella non aveva nessuna voglia di par-
largli, ma era troppo tardi per tornare indietro. Sentendo i suoi passi sulla
ghiaia, John Archer scattò immediatamente in piedi. «Mrs Raphael» disse.
«Buon giorno, Mr Archer».
Contro il muro era appoggiata una pila di pannelli di vetro. Edgar, in gi-
nocchio, stava togliendo con uno scalpello la malta sgretolata dal basa-
mento della serra. Sentendola arrivare si accovacciò sui calcagni, poi, ripa-
randosi gli occhi con la mano, alzò lo sguardo verso di lei, che si era fer-
mata sul sentiero, a pochi metri di distanza. Non disse nulla, la guardò sol-
tanto, in attesa, senza sorridere, con i capelli che gli cadevano sulla fronte
e quella sua espressione di mortale serietà. Stella colse la delicatezza della
situazione. John Archer era tenuto a mostrarle deferenza in quanto moglie
di un dottore, mentre Edgar era un paziente, e quindi, rispetto a loro due,
quasi un intoccabile. Eppure, in un certo senso, a spingerla nell'orto era
stato proprio il suo diretto approccio fisico, quel muto gesto sessuale di un
uomo verso una donna. Adesso Edgar si era alzato in piedi, e rimase fer-
mo, sfidandola in silenzio a tradirlo.
«Mr Archer,» disse Stella «Charlie potrebbe aiutare gli uomini a fare il
falò?».
John Archer rispose di sì.
«Sa come sono i bambini... Ma se disturba lo mandi via».
Mentre risaliva il sentiero inondato di sole immaginava gli sguardi che i
due si scambiavano alle sue spalle. Poco prima, incrociando gli occhi soc-
chiusi di Edgar, Stella aveva provato una fitta di eccitazione, ma aveva re-
sistito: non intendeva spingere oltre la sua connivenza. È abile, pensò, e
sgradevole, e crede di tenermi in pugno perché gli ho lasciato fare quella
cosa al ballo.
Scacciò dalla mente quella sordida esperienza.
Il fatto che io e lei fossimo amici non facilitò in alcun modo i nostri pri-
mi colloqui, anzi. Le inibizioni di Stella erano evidenti. Convinto che,
molto semplicemente, si vergognasse di parlare, cercai di farle capire che
non aveva alcun bisogno di nascondermi nulla, perché non intendevo giu-
dicarla. Solo qualche tempo dopo mi resi conto che il motivo per cui esi-
tava ad aprirsi con me non era la vergogna, ma l'incertezza circa il mio at-
teggiamento verso Edgar. Non era sicura che sarei riuscito a capire quello
che lei aveva fatto, e soprattutto il perché: temeva che avrei dato la colpa a
lui. Appena lo intuii, riuscii a convincerla che non intendevo giudicare
neppure Edgar, perché in quanto psichiatra, le dissi, i giudizi morali non
mi interessavano. Era una rassicurazione di cui Stella sembrava avere e-
stremo bisogno.
Da quel momento in poi, infatti, cominciò a parlare, e fu come se si fos-
se aperta una diga da cui l'intera vicenda si rovesciò in un diluvio di detta-
gli. Era con Charlie nel prato dietro casa. Stava leggendo un romanzo, ma
ogni tre secondi alzava lo sguardo in preda a una certa inquietudine, perché
Charlie era inginocchiato sul bordo dello stagno dei pesci rossi e guardava
nell'acqua. Lo stagno era profondo, e non le piaceva affatto che Charlie
stesse lì, ma si sforzava di non essere troppo protettiva. Era tutta l'estate
che Charlie trafficava con anfibi di varie specie, che teneva in una serie di
acquari in cortile. Max gli aveva detto che sarebbe stato felice se fosse di-
ventato uno zoologo.
A Stella gli anfibi non piacevano, così come non le piaceva vedere Char-
lie zampettare intorno allo stagno in quel modo, ma proprio mentre stava
per dirgli di allontanarsi sentì il telefono che squillava. «Stai lontano dal
bordo» gli disse, poi attraversò il prato ed entrò dalla portafinestra.
La stanza di Edgar era al piano terra del Reparto 3. A un'estremità del
padiglione c'era la stanza comune e all'estremità opposta, vicino al locale
degli infermieri, due piccoli parlatori, in uno dei quali c'era un telefono.
Come Edgar fosse riuscito a trovare il modo di usarlo non l'ho mai capito.
Certo corse un grave rischio, perché se fosse stato scoperto avrebbe perdu-
to all'istante il privilegio della semilibertà. Dato che tutte le chiamate in-
terne passavano per il centralino, immagino si sia fatto passare per un in-
fermiere che voleva parlare col dottor Raphael.
Quando pochi minuti dopo Stella tornò fuori non era ben sicura di cosa
fosse successo. Edgar si era scusato per il suo comportamento, ed era stato
così spiritoso, e così, oh, così adulto che tutto sommato lo trovava di nuo-
vo simpatico. Lui le aveva ricordato la loro amicizia, alludendo di sfuggita
al fatto che non toccava una donna da cinque anni. Non era mica scemo, il
mio Edgar. Disse che quello che aveva fatto era imperdonabile, ma che le
era grato di non aver detto nulla. Né in quel momento né in seguito Stella
pensò di dover riferire a Max della telefonata, non più di quanto pensasse
di dovergli raccontare quello che Edgar le aveva fatto al ballo.
Quando tornò fuori Charlie era ancora sul bordo dello stagno. Le urlò
che forse c'erano delle bisce. Stella andò a sedersi e riprese il suo romanzo.
Charlie si stava sporgendo pericolosamente sull'acqua, tenendosi al bordo
con una mano mentre con l'altra esplorava il fondale, ma lei non gli disse
di allontanarsi. La sua mente cominciò quasi subito a vagare. Seduta al-
l'ombra del vecchio frassino Stella guardava senza vederla la casa, le por-
tefinestre del soggiorno, e più oltre l'anticamera, e in fondo all'anticamera
la porta di casa, che si vedeva anche da lì, e più oltre ancora il viale, gli al-
beri e il Muro. Si sentiva sollevata, in pace con se stessa, come se il tumul-
to nell'ordine delle cose provocato dal quel pene indocile fosse stato seda-
to, e la sua amicizia con Edgar recuperata.
II
In quella fase Stella non si rendeva ancora pienamente conto che Edgar
Stark soffriva di gravi disturbi mentali. Non aveva passato, come me, ore e
ore ad ascoltare i suoi deliri morbosi, e benché avesse appreso dalle sue
labbra quello che aveva fatto continuava a giustificarlo, a ritenere quell'o-
micidio soltanto un delitto passionale, il che naturalmente le consentiva di
farsi di lui un'immagine romantica. Appena Edgar lo intuì cambiò subito
tattica, ma in un primo momento credo avesse un obiettivo più circoscritto:
influenzare, attraverso Stella, Max, portandolo a considerare con un certo
favore l'eventualità di un suo rilascio. In questo, Edgar dimostrava tutta la
sua ingenuità, perché le cose non funzionano così. Dal mio punto di vista,
l'aspetto più interessante era comunque che Edgar si comportava in modo
manipolatorio, e che almeno all'inizio aveva cercato di usare la sua notevo-
le sensualità come strumento di controllo: il fatto poi che questo controllo
avesse deciso di esercitarlo sulla moglie di un dottore era un segno della
debordante megalomania dei suoi piani.
All'inizio del nostro rapporto avevo discusso con lui la strategia psicote-
rapeutica che intendevo adottare. Gli avevo detto che il mio scopo era
smantellare le sue difese: abbattere la facciata, gli atteggiamenti, tutte le
false strutture della sua personalità disturbata, per poi ricominciare da zero,
ricostruendolo, per così dire, dalle fondamenta. E siccome sarebbe stato un
processo lungo ed estenuante, avrebbe avuto bisogno di tutto l'appoggio
che potevo dargli. Lavoravamo insieme da quasi quattro anni, ma adesso
questa sua relazione clandestina con Stella denotava una certa malafede
nei miei confronti. Anziché tentare di analizzare le caratteristiche patologi-
che dei suoi rapporti con le donne, Edgar stava innescando il processo che
già una volta lo aveva condotto all'omicidio, e che era stato la causa del
suo arrivo da noi.
Poi successe qualcosa, qualcosa che credo nessuno dei due avesse previ-
sto, se non altro a livello conscio: Edgar e Stella sottovalutarono - come
può capitare a chiunque in circostanze analoghe - la violenza dei sentimen-
ti che si scatenarono in lei. In sostanza, non si resero conto che le barriere
della cautela e del senso comune minacciavano di crollare, travolgendo il
loro fragile equilibrio.
Parlare di sesso con una persona come Stella, che ovviamente trovava
sgradevole chiamare le cose col loro nome, non era facile. Eppure, quando
mi raccontò com'era cominciata, lo fece senza risparmiare i dettagli. Era
successo tutto nel primo pomeriggio di un'altra limpida, luminosa, calda
giornata estiva. La luce del sole filtrava dalle finestre delle grandi stanze al
pianterreno, facendo brillare il parquet tirato a lucido. Stella gironzolava
per casa a piedi nudi, passando da una stanza all'altra senza trovar pace. A
un certo punto si fermò davanti allo specchio sopra il camino e squadrò
con severità la sua immagine riflessa.
Si diede una sistemata ai capelli, poi salì in camera a cambiarsi; mise un
morbido vestito estivo, leggero e scollato; una passata di rossetto davanti
allo specchio della toilette e tornò di sotto. Andò alla portafinestra che da-
va sul prato e guardò fuori; poi si versò da bere. Quella mattina, Edgar le
aveva proposto senza tante cerimonie di andare nella serra con lui. Agita-
tissima, Stella aveva imboccato di corsa il sentiero ed era tornata a casa.
Sesso con quell'uomo: espressa a chiare lettere, l'idea che da tanto tempo si
agitava nella sua immaginazione aveva una forza devastante.
Uscì di casa dalla porta principale e attraversò il vialetto. Un'apertura
nell'alta siepe di fronte dava su quello che un tempo era stato un grande
prato, ma ora, da quando nessuno se ne occupava più, era diventato una di-
stesa di erbacce e fiori selvatici. Stella la attraversò, dirigendosi verso l'ar-
co che si apriva nel muro dell'orto vicino alla serra, e quando lo raggiunse
si fermò in attesa, con la schiena appoggiata ai mattoni.
Sentiva Edgar lavorare. Sentiva il vetro andare in pezzi nel bidone. Sa-
peva che lui non ci avrebbe messo molto ad accorgersi della sua presenza
sotto l'arco, perché avrebbe visto la sua ombra sul sentiero; ma dubitava di
poter resistere a lungo così lì. Da un momento all'altro avrebbe probabil-
mente trovato ridicolo quello che stava facendo, e sarebbe tornata di corsa
a casa.
Silenzio. Poi vide Edgar di fronte a lei. Senza dire una parola, Stella lo
trascinò nella serra. Gli prese la testa fra le mani, le guance fra le dita, e lo
baciò con foga sulla bocca. Si gettarono sul pavimento, nascosti alla vista
dal basso muro di pietra su cui poggiava la struttura. Lei si sistemò rapi-
damente per terra, mentre lui si inginocchiava sbottonandosi i pantaloni.
Qui usai una certa delicatezza. Non potevo forzare apertamente la sua ri-
luttanza a parlare di quello che accadde poi. Ci saremmo tornati più avanti.
Immagino comunque sia stato tutto piuttosto primitivo, un misto di smania
famelica e di istinto. Immagino che Edgar l'abbia presa subito, e brutal-
mente, e che fosse quello che lei voleva; era avida quanto lui, nessuna ti-
midezza ormai, nessuna esitazione. E immagino che sia finito abbastanza
in fretta, e che subito dopo Stella, rossa e bollente, sia corsa in casa e sia
salita dritta in bagno. Conosco quel bagno. I pezzi originali sono intatti. La
grande vasca ha i rubinetti di ottone annerito, e poggia con le quattro zam-
pe leonine sul pavimento di mattonelle stinte. Una felce, rigogliosa nell'a-
ria densa di vapore della grande stanza umida, deborda dal vaso di terra-
cotta vicino alla porta, e subito accanto c'è la grande cesta di vimini per la
biancheria.
L'acqua scrosciava dai rubinetti. Stella si spogliò ed entrò nella vasca,
sentendo a poco a poco la febbre placarsi. Ci rimase un'ora, con gli occhi
chiusi e la mente vuota, anche se non del tutto, perché sotto la superficie si
agitava la consapevolezza di ciò che aveva appena fatto. Rivedere quella
scena, o anche solo ammettere di averla vissuta, le era intollerabile; ma ci
sono forme di esperienza mentale che sfuggono al meccanismo della rimo-
zione, e in quelle oscure regioni della sua psiche Stella non poteva non
chiedersi se, avendolo fatto una volta, l'avrebbe fatto di nuovo; e benché in
realtà non si ponesse il problema in questi termini (li avrebbe respinti con
sdegno se si fossero affacciati alla sua coscienza), sapeva con certezza, la
certezza che accompagna ogni pensiero intollerabile, che la risposta era sì.
Qualche ora dopo Stella era seduta nel prato all'ombra del frassino, in
una poltrona di vimini bianca, con un bicchiere in mano e il romanzo in
grembo, quando sentì Max alla porta. Entrò in casa, traversò l'anticamera e
gli aprì; sembrava che avesse qualche problema con le chiavi. In abito scu-
ro, con la cravatta allentata, Max era stanco e accaldato, e soprattutto mo-
riva dalla voglia di bere qualcosa.
«Giornataccia» disse.
Alle sue spalle, in fondo al vialetto, i pini si stagliavano in una massa
scura contro il cielo della sera. Stella lo abbracciò con un calore per lei in-
solito, e mentre lo faceva pensò che per spingere un'adultera fra le braccia
del marito non c'è niente di meglio di un bel senso di colpa.
«Ehi» disse Max mentre lei gli si aggrappava come una donna alla deri-
va, una donna che sta per annegare «Che succede?»
Stella andò davanti allo specchio sopra il camino spento e si aggiustò i
capelli, cercando di cogliere sul proprio volto una qualche traccia di pecca-
to.
«Niente. È che oggi mi sei mancato, tutto qui».
«E come mai?»
Si voltò a guardarlo. Nella sua voce c'era una curiosità autentica, e Stella
sentì di avere improvvisamente di fronte lo psichiatra, non l'uomo, o me-
glio vide distintamente l'uomo rientrare nell'ombra, lasciando che lo psi-
chiatra venisse allo scoperto per esaminare quel frammento della sua vita
psichica alla ricerca di un significato. Fu allora, in quel momento, che Max
diventò il suo nemico. Adesso Stella era certa che se avesse abbassato la
guardia lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo. E sentiva di dover usare
tutta l'astuzia di cui era capace per celare il suo esplosivo segreto allo
sguardo di chi era ormai, da pochissimo, un estraneo: un estraneo con una
micidiale capacità di insinuarsi nella mente altrui e interpretarla.
Se non rimarrò costantemente sul chi vive lo scoprirà senza neanche
sforzarsi troppo, pensò mentre versava da bere per tutti e due. E lo scoprirà
non per una mia banale distrazione, ma leggendomi nel pensiero - leggen-
domi come un libro, un libro scritto con frammenti di comportamento, sfu-
mature passeggere di espressione, atti mancati di cui io non mi renderò
nemmeno conto. Ah, devo stare attenta, d'ora in poi devo stare molto atten-
ta. Questo pensava Stella. Ma per mettere a punto una politica di dissimu-
lazione aveva ancora un po' di tempo, perché Charlie entrò di corsa e, sen-
za aspettare di riprendere fiato, cominciò a raccontare a suo padre di un os-
so che aveva trovato nell'acquitrino.
«Penso che sia umano» disse.
«Non credo proprio» rispose Max con un sorrisetto.
«Secondo me ci potrebbe essere stato un omicidio» fece Charlie con aria
tenebrosa.
Stella si avvicinò alla portafinestra, guardò il sole che calava e si conces-
se di pensare al suo amante.
Nei tre giorni successivi ci pensò a intermittenza, senza mai scendere
nell'orto. Una sera, a cena, Max lo nominò, facendola trasalire.
Era riuscita a nascondere lo shock, lo shock che aveva provato nel senti-
re quel nome sulla bocca di Max?
Stella pensava di sì. O forse Max si era distratto; gli capitava spesso di
avere la testa altrove. In ogni caso, Max disse che per qualche giorno E-
dgar Stark si sarebbe occupato del giardino del cappellano. Grazie al cielo,
si disse Stella, adesso non dovrò immaginarlo sempre qua fuori.
Dopo qualche giorno di ansia terribile cominciò a sentirsi più calma.
Pensò fosse il sollievo che si prova dopo uno scampato pericolo. Fu sor-
presa di scoprire in sé un affetto nuovo per Max, e si rese conto che gli era
grata perché non aveva sospettato nulla, perché senza volere le aveva con-
cesso di seppellire il suo colpevole segreto. E così il primo, violento shock
per quella spaventosa trasgressione - fare sesso con un paziente, a neanche
cinquanta metri da casa - cominciò ad attenuarsi, e Stella si disse che era
stato solo un momento di follia, nient'altro; e che, naturalmente, non si sa-
rebbe più ripetuto. Eppure la preoccupava l'idea che prima o poi Edgar sa-
rebbe ritornato in giardino, e che allora, volendo, avrebbe saputo dove tro-
varlo.
Adesso che si stavano avvicinando alla fase dell'organizzazione e della
struttura, Stella, com'era prevedibile, cominciò a creare nella sua mente
una sorta di arabesco, una griglia di pensieri e sentimenti il cui scopo era
riportarla da lui. Mi raccontò che un caldo mattino di luglio uscì a bere il
suo tè sulla terrazza a nord della casa, guardando da sotto l'elegante cap-
pello di paglia i pazienti che svuotavano nel falò le carriole cariche di le-
gna secca e altri rifiuti sparsi nel campo. Abbandonato da anni, quel terre-
no ampio, coperto di bassa vegetazione, si appiattiva gradualmente, per poi
risalire oltre il recinto fino alla macchia di alberi decidui che, coronando la
cima più lontana, segnava il limite della foresta.
Il progetto di Max era farlo ripulire per mettere un manto nuovo. Aveva
in mente di seminarlo a pascolo, un'idea che turbava Stella perché lasciava
supporre che sarebbero rimasti in quella casa più a lungo di quanto lui le
aveva fatto credere. Le sembrava che in realtà la vera ambizione di Max
fosse addomesticare e coltivare sia l'ospedale che la tenuta, fino a farne i
suoi giardini gemelli.
I pazienti continuavano a lavorare sodo. La legna stagionata prendeva
subito, e bruciava nel sole sollevando spruzzi di scintille bianche e oro.
Stella vide gli uomini gettare nel fuoco mucchi di erba secca, e fare un
passo indietro quando cominciarono a sprigionarsi nubi di fumo nero. A-
desso erano tutti a qualche metro dal falò, e lo tenevano d'occhio ap-
poggiati ai forconi. Uno di loro si voltò, e riparandosi gli occhi dal sole
guardò in alto, verso la cima del pendio, dove Stella era in piedi col suo
cappello di paglia e la tazza di tè. Lei gli restituì lo sguardo.
In quell'occasione, Stella era rimasta sconcertata dal proprio comporta-
mento, e mi domandò cosa potesse significare. Non aveva fatto nemmeno
un gesto, era solo rimasta ferma a guardare quell'uomo. Lui aveva afferrato
le maniglie della carriola e l'aveva spinta su per il pendio, senza andare di-
rettamente verso di lei, ma prendendo invece il sentiero che arrivava alla
porta del recinto. Aveva i bragoni di fustagno delle squadre di lavoro e la
casacca azzurra dell'ospedale, coi polsini slacciati. Si fermò per togliersi
un ciuffo di capelli dalla fronte e si asciugò il sudore con un fazzoletto
bianco e rosso che le era certamente familiare, perché Edgar ne aveva uno
identico. Stella non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, e lui lo sapeva.
Cominciò a sventolarsi piano piano col cappello; poi, irritata, si girò e rien-
trò in casa.
Non le dissi che, in funzione del suo rapporto con Edgar, aveva comin-
ciato non solo a identificarsi con i pazienti, ma a erotizzarli. Aveva erotiz-
zato il corpo del paziente.
Edgar lavorò per tutta la settimana nel giardino del cappellano, e tornò
alla serra il lunedì successivo. Stella sapeva che era lì, lo sentiva lavorare,
e sapeva cosa doveva fare. Aspettò che Max andasse in ospedale e che
Charlie uscisse a fare un giro in bicicletta. Aveva deciso di trattarlo con
freddezza quando lo avesse rincontrato, per fargli capire che considerava
quanto era successo un errore di cui non avrebbero dovuto parlare mai più,
e che naturalmente non si sarebbe ripetuto. D'ora in poi avrebbero mante-
nuto un contegno consono alle loro rispettive posizioni. Anche Edgar sa-
rebbe stato d'accordo, ne era certa. Attraversò il cortile ed entrò nell'orto.
Edgar era lì, e vedendolo Stella sentì il suo cuore cantare.
Con Stella c'era sempre di mezzo il cuore, il linguaggio del cuore.
Edgar era in piedi davanti al vecchio tavolo da vasaio che usava per i la-
vori di falegnameria, e le dava la schiena; e anche se doveva averla sentita
sul sentiero non si mosse finché non fu vicinissima. Poi si girò di colpo.
Ora erano in piedi l'uno di fronte all'altra. Stella tremava. Lui le sfiorò la
guancia, sorridendo della sua agitazione.
«Grazie al cielo».
Stella si appoggiò al muro, che le trasmise il suo tepore attraverso la ca-
micetta. Resistere alla tentazione era impossibile, tutto qui. Era perduta.
Edgar appoggiò le sue grandi mani sul muro, ai lati della testa, e si piegò
in avanti, la faccia vicinissima alla sua. Stella lo guardò freddamente negli
occhi, ma i suoi pensieri erano tutt'altro che freddi. Gli afferrò la casacca,
aggrappandosi con tutte le sue forze.
«Mi hai pensato?»
Lui annuì. Stella lo attirò a sé, e mentre si baciavano sentì la mano di
Edgar posarsi prima sul seno, poi sui fianchi, poi scendere ancora.
«Non qui» sussurrò.
Lui fece un passo indietro, e Stella si allontanò dal muro. Arrivata sotto
l'arco si voltò: in piedi davanti alla serra, Edgar si stava pulendo le dita su
uno straccio, senza toglierle gli occhi di dosso. Stella attraversò il campo
fino alla macchia di pini. Non c'era nessuno. Si inoltrò fra gli alberi e andò
a stendersi tra le felci. Poi sollevò una mano per ripararsi gli occhi dal sole
che filtrava tra i rami.
Lo stava aspettando con la camicetta sbottonata, quando sentì le voci. Si
mise a sedere. Non riusciva a distinguere le parole, ma erano voci maschi-
li, e venivano dal campo. Trattenne il respiro. Aveva capito cos'era succes-
so: Edgar aveva incontrato John Archer, e i due si erano fermati a parlare
mentre lei era nascosta lì, sotto gli alberi, a venti metri da loro. Qualche at-
timo dopo Stella si trovò a lottare contro un impulso bizzarro: le scappava
da ridere. Voleva urlare tutta la gioia sfrenata che le dava quella situazione
così indecente ma anche, in tutta franchezza, così comica, perché non riu-
sciva a non pensare come l'avrebbe presa Max, cosa avrebbe detto vedendo
sua moglie nascosta nel bosco, mezza nuda, privata dei suoi pochi, furtivi
momenti di piacere solo perché un infermiere aveva casualmente intercet-
tato Edgar Stark, impedendogli di raggiungerla.
Poco dopo le voci scemarono. Stella sgattaiolò fuori dal bosco e rag-
giunse il vialetto che la riportò a casa. Salì subito al piano di sopra a farsi
un bagno, e quando scese in salotto per bere qualcosa era ancora un po'
stordita. Si sedette in poltrona con un libro, il bicchiere in mano, e si acce-
se una delle sue rare sigarette.
Ancora una volta la sua reazione l'aveva stupita. Perché mai le era venu-
to da ridere? Cosa significava? Sapeva benissimo cosa sarebbe successo
se fosse stata scoperta, e ridere era come dire che non gliene importava
nulla. Questa era la sua interpretazione. La mia era che invece c'entrasse,
in qualche modo, la rabbia.
Quale rabbia?
La rabbia verso Max. Le dissi di non avere molti dubbi sul fatto che il
suo comportamento fosse legato al desiderio di ferire Max.
Scosse la testa. Non credo, Peter, disse. Ma io sospettavo in lei un consi-
stente fondo di rancore, anche se, dato che non era ancora pronta a parlar-
ne, evitai di insistere. Ci saremmo arrivati.
III
Ormai mi è chiaro che la visita, quell'estate, di Brenda Raphael, la madre
di Max, contribuì stranamente a far precipitare la situazione. Brenda arrivò
alla residenza del vicedirettore un venerdì pomeriggio di inizio agosto,
cinque o sei settimane dopo il ballo. C'ero anch'io. Avevo finito prima del
solito, in ospedale, e tornando a casa ero passato a trovare Stella. John Ar-
cher mi aveva appena riferito della sua amicizia sempre più intima con
Edgar Stark, e naturalmente volevo parlarle. Ma non era stato possibile,
perché Stella mi aveva subito detto che sua suocera sarebbe arrivata da un
momento all'altro.
«Mi sono offerta di andarla a prendere alla stazione,» mi raccontò fa-
cendomi accomodare in soggiorno «ma no, ci mancherebbe, non ha assolu-
tamente voluto che mi disturbassi. Lo ha detto come se fossi, non so, una
specie di invalida, che a ogni spostamento rischia di lasciarci le penne».
Bevemmo qualcosa in giardino, ma Stella era distante, turbata. Lì per lì
non collegai il suo umore all'eco attutita dei vetri infranti e delle martellate
che arrivava fino a noi, nell'aria immobile, dalla parte dell'orto. Cinque
minuti dopo sentimmo una macchina sul vialetto. Andammo nell'anticame-
ra per aprire la porta proprio nel momento in cui il tassista depositava a
terra la prima delle molte valigie di Brenda, e la loro proprietaria scendeva
dalla portiera posteriore. Brenda era una donna sofisticata e dispotica, oltre
che ricca. Ero venuto casualmente a sapere che aiutava Max e Stella a
mantenere anche qui un certo tenore di vita, e in particolare che la loro
macchina - una Jaguar bianca, nientemeno - era stata il suo regalo per la
nomina di Max a vicedirettore. Brenda mi telefonava spesso, un po' perché
io e lei ci capivamo e un po' perché contava su di me per avere notizie fre-
sche di suo figlio.
Con regale noncuranza Brenda pagò il tassista facendogli cenno di tene-
re il resto. «Peter,» disse «che gioia. Stella, cara, ti vedo proprio bene». Si
scambiarono un bacio, e Brenda entrò in casa. Era vestita alla moda, e sa-
pevo che Stella le invidiava la sua vita a Londra e l'aura chic che, come
sempre, Brenda emanava.
«Se non vuoi salire subito in camera potremmo andare a bere qualcosa
in giardino» disse Stella.
«Oh, magnifico, magnifico. Senti Peter, non sognarti di scappare solo
perché sono arrivata io. Dov'è Charlie?».
«Giù agli acquitrini, credo» rispose Stella «oppure nella serra».
Brenda inarcò un sopracciglio sottile e meticolosamente depilato. «Pote-
va anche venire a salutare sua nonna; è proprio figlio vostro. Max non era
certo molto diverso. A proposito, come sta Max?».
E si lasciò cadere in una poltrona, accavallò le gambe eleganti e prese le
sigarette dalla borsa.
«Molto occupato» disse Stella «Contento, mi pare. Si trova bene, qui».
«Lo temevo. Difficile che Max faccia il passo più lungo della gamba, ve
ne sarete accorti anche da soli. E la prospettiva di un lavoro sicuro come
questo dev'essergli sembrata a dir poco attraente».
«Immagino che il posto di direttore non gli spiacerebbe affatto. Non cre-
di anche tu, Peter?» disse Stella.
Io ero di spalle, perché stavo preparando da bere. Trovai quell'insinua-
zione piuttosto sgradevole e mi irrigidii leggermente, mormorando una va-
ga protesta. Poi mi voltai per porgere i bicchieri alle signore.
«Tu non vorrai rimanere qui, spero» disse Brenda a Stella. Era un'altra
conferma di come funzionavano i loro rapporti; Brenda non era una di
quelle donne che piacciono alle donne, ma nel corso degli anni lei e Stella
erano giunte a una sorta di tacito compromesso, e ora apparentemente era-
no alleate, almeno su un punto: nessuna delle due voleva vedere Max sep-
pellito in questo istituto di provincia.
Passai il gin tonic a Stella, che mi lanciò un sorriso di intesa. «Oh, per
un paio d'anni posso anche reggere, ma temo che Max abbia in mente
qualcosa di più. Andiamo in giardino?
«È questa fìssa del giardino che mi preoccupa» continuò dopo averci fat-
to sedere nelle poltrone di vimini sotto il frassino. Per la seconda volta in
pochi minuti mi resi conto di quanto fosse turbata. Davanti a noi c'era il
prato, con lo stagno dei pesci rossi che luccicava nel sole.
«Per sistemare bene un giardino ci vogliono anni, e Max ci sta lavorando
come se dovesse passarci il resto dei suoi giorni».
«Preoccupante». Brenda mi gettò un'occhiata, ma io mantenevo un at-
teggiamento ostentatamente neutrale.
«Adesso sta facendo rimettere a posto la vecchia serra».
Era la seconda volta che la nominava.
«Spero che ti sbagli. Ma dimmi, cara, tu come stai? A vederti, sei pro-
prio un fiore».
Guardai Stella. Un fiore. Non so perché, ma in quella parola ravvisai su-
bito una sfumatura erotica. Fu allora che mi accorsi che quello che stava
succedendo a Stella c'entrava col sesso. La scrutai attentamente.
«Sto passando un'estate pigra» disse in tono salottiero. «Non ho un gran-
ché da fare, in realtà. Certo, la casa è grandissima, ma al mattino viene Mrs
Bain, e in genere lascio che pensi a tutto lei». Scacciò una vespa che ron-
zava intorno al suo bicchiere.
Brenda cominciò a raccontare della sua vita mondana a Londra, e la lita-
nia di colazioni, cocktail e cene eleganti era accompagnata dalla solita la-
mentela di circostanza su come non si facesse che ricevere inviti, e su
quanto ci si stancasse, e su quanto poco la gente capisse che il tempo era
prezioso. Mentre Stella ascoltava, mormorando che una frenetica vita
mondana londinese era la cosa più vicina al paradiso che riuscisse a imma-
ginare, mi domandai oziosamente con chi potesse andare a letto; ma non
mi veniva in mente nessun candidato plausibile, almeno qui.
«Dovreste farvi vedere più spesso in città» le stava dicendo Brenda.
«Tutti ci chiedono vostre notizie. Potreste dormire da me. Magari ce ne
andiamo a teatro, e poi a cena».
«Verremo presto».
Parlarono un po' di Charlie, e alla fine Brenda andò a darsi una rinfresca-
ta prima che Max tornasse dall'ospedale.
Mi alzai anch'io, quasi subito, ma Stella approfittò di quei brevi attimi
per dirmi in un sussurro concitato che i prossimi giorni sarebbero stati tutti
così, un autentico tormento, e che non sapeva come avrebbe fatto a non
impazzire. Le espressi tutta la mia solidarietà, riuscendo persino a strap-
parle un sorriso. Poi ci avviammo verso l'imbocco del vialetto, dove avevo
lasciato la macchina, e Stella mi prese sottobraccio. «Peter» disse.
Aveva un tono assorto, quasi sognante. «Sì, mia cara?».
«Fra quanto uscirà Edgar Stark?».
Non era una domanda così insolita, eppure mi fece sobbalzare. Le rispo-
si che, se fosse dipeso da me, ne avrebbe avuto per un bel pezzo. «Perché
vuoi saperlo?» le chiesi quando arrivammo alla macchina.
«Così. Sta lavorando alla serra di Max. Ci vediamo martedì sera?».
«Certo» risposi baciandole la guancia.
Il mio Edgar?
Max e Stella erano a letto in camera loro, al buio. Nessuno dei due par-
lava. Stella pensava alla difficile situazione del suo amante, e Max a quello
che Stella aveva detto a cena, e che aveva provocato quell'orribile silenzio.
«Hanno capito tutti che ce l'avevi con me» disse.
«Non essere così paranoico».
«Risparmiami il gergo psichiatrico».
«Sta' zitto! Almeno sta' zitto!».
Tacquero di nuovo. Con Brenda in casa, muri spessi o no, se si trattava
di questioni personali parlavano sottovoce.
«Che bisogno avevi di umiliarmi?».
«Adesso esageri. Dicevo tanto per dire, nessuno mi ha preso sul serio».
«Eri ubriaca. Perché devi bere in quel modo? Nessun altro ha bevuto
tanto».
Una pausa di silenzio. Era un silenzio cupo, carico di collera e di risen-
timento: il silenzio di Max. Stella aveva passato il segno, e il suo modo di
punirla era creare quel mostruoso silenzio, che riempiva la stanza di dolore
e di rabbia. Stella si voltò dall'altra parte, lasciandosi inondare la mente
dalle immagini di Edgar. Poi pianse sommessamente nel buio, perché non
riusciva a non pensare, con terrore, che Jack Straffen poteva revocargli la
semilibertà. Max non fece neppure il gesto di consolarla, e del resto lei non
glielo avrebbe concesso. Quella sera, per la prima volta, Stella sentì che la
catastrofe si avvicinava.
La giornata era calda e serena, e gli insetti ronzavano fra le rose sfiorite
mentre lei andava incontro al suo amante, che intravedeva al banco da la-
voro nella serra. Con lui c'era anche Charlie. Vedendola arrivare, Edgar
posò gli attrezzi e si pulì le mani sul fustagno dei pantaloni. Stella aveva
con sé il cestino, con dentro i guanti da giardinaggio e le cesoie. Edgar le
aveva raccolto un po' di fagioli e di scarola, e un mazzo di carotine. Mentre
le riempiva il cestino Stella andò a sedersi sulla panchina.
«Mrs Bain ti ha preparato una cosa in cucina» disse a Charlie.
«Ho troppo da fare».
«Ma devi andare, tesoro. L'ha fatta apposta per te».
Charlie la guardò in cagnesco, e lei fece altrettanto. «Torno fra un minu-
to» disse a Edgar, partendo a razzo su per il sentiero.
«Cosa c'è che non va? È successo qualcosa, sei sconvolta» le disse E-
dgar tranquillamente, senza guardarla.
Stella gli disse che lo sospettavano di far entrare alcolici in ospedale.
Non gli fece alcun rimprovero, non le passò neppure per la testa.
«Non ti preoccupare».
«Certo che mi preoccupo».
Stella arrivò fino al melo. Attraverso i rami poteva vedere il Muro, che
incombeva su quella parte dell'orto.
«Cosa farò se non ti lasceranno più uscire?».
Tornò a sedersi vicino a lui. Edgar le prese le dita e se le portò alle lab-
bra. Poi le rovesciò la mano e le baciò il palmo, ma senza riuscire a cal-
marla.
«Cosa farò? Un mattino scenderò e a lavorare qui ci sarà qualche altro
paziente. Io chiederò dove sei, e mi sentirò rispondere che non fai più parte
delle squadre di lavoro. Finirà così. Ci separeranno, mi staccheranno da te,
e non potrò dire nemmeno una parola. Non ti rivedrò mai più».
«Ma no» disse Edgar continuando a baciarle la mano. Lei gliela sottras-
se.
«Tu non li conosci».
«Sì che li conosco».
«Allora saprai che possono fare tutto quello che vogliono, e nessuno può
dirgli nulla. Né tu né io».
«Vieni al capanno oggi?».
«Non lo so».
Stella camminava avanti e indietro sul sentiero. Edgar appoggiò i gomiti
sulle ginocchia, si piegò in avanti e guardò per terra. Credo di sapere a co-
sa stava pensando; stava prendendo una decisione. Stella gli dava la schie-
na, continuando a guardare il Muro fra i rami del melo. Quando sentì E-
dgar scattare in piedi e mormorare «Charlie» raccolse il cestino e riprese il
sentiero verso casa.
Lasciò il cestino sul tavolo della cucina e salì al piano di sopra. La casa
era vuota, perché Brenda era andata a far compere in macchina. Stella si
buttò sul letto e rimase lì a fissare il soffitto.
Dieci minuti dopo si tirò su. Stava cercando le scarpe sotto il letto quan-
do sentì dei passi rapidi sulle scale.
«Charlie, sei tu?».
Non era Charlie. Stella non riusciva a crederci, ma sulla porta c'era E-
dgar.
«Che diavolo ci fai qui?!» gli sussurrò «C'è mia suocera da noi!».
Le venne da ridere. Immaginò Brenda incrociare a metà mattina Edgar
che usciva dalla sua camera riabbottonandosi i calzoni. Senza smettere di
ridere andò a chiudere la porta.
IV
Doveva essere andata così: dopo pranzo Edgar aveva detto a John Ar-
cher che c'era bisogno di lui nel giardino del cappellano, e si era avviato da
solo. Era passato a prendere i vestiti di Max dove li aveva nascosti, cioè fra
gli alberi in fondo al giardino dei Raphael, li aveva indossati ed era fuggi-
to, tenendosi alla larga dalla strada fino a quando non si era allontanato
abbastanza, e poi in qualche modo - in treno, in autobus o in autostop - era
riuscito a raggiungere Londra. Era stato già abbastanza spiacevole scoprire
fino a che punto fossero blande le misure di sicurezza per le squadre di la-
voro esterno, ma la domanda più imbarazzante, tanto per me quanto per
Jack, era che cosa avesse fatto Max fra il momento in cui si era accorto che
gli erano scomparsi i vestiti e quello, intorno alle cinque, della fuga di E-
dgar.
C'era un intervallo di quasi tre ore. La perquisizione della stanza di E-
dgar, e subito dopo quella dell'intero padiglione, non erano approdate a
nulla, ma Max si era ben guardato dal dire a Jack cos'era successo. Se fos-
se andato immediatamente a cercare Edgar nel giardino del cappellano, si
sarebbe accorto che non c'era, l'allarme sarebbe scattato molto prima, e lo
avremmo catturato in quattro e quattr'otto.
Ma a quanto pare Max era così determinato a cavarsela da solo che ave-
va commesso parecchi errori, e soprattutto aveva lasciato passare l'intero
pomeriggio senza scoprire che fine avesse fatto Edgar. Dopo essere tornato
in ospedale e avere controllato col personale del Reparto 3 se ci fossero
novità, era rientrato nello studio. E qui, senza una ragione apparente, aveva
aspettato un'altra mezz'ora prima di chiamare Jack. A quel punto le squa-
dre di lavoro stavano per rientrare, e John Archer aveva già scoperto che il
suo paziente era scomparso. Ne fui subito informato, e mi precipitai nello
studio di Jack, dove mi trovavo quando Max telefonò. Jack sapeva della
fuga di Edgar. Quello che non sapeva, e che per Max era ingrato e umilian-
te dovergli dire - e qui va ovviamente ricercata la spiegazione del suo
comportamento di quel pomeriggio -, era di chi fossero i vestiti che il fug-
gitivo indossava. Con tutta la buona volontà, Max non riusciva a farmi pe-
na; aveva lasciato scappare il mio paziente. E Edgar, nonostante questa
bella impresa, aveva ancora bisogno di me. Era un uomo malato.
Fummo Jack e io a decidere di non far suonare immediatamente le sire-
ne, perché fino a quando non fosse stato proprio necessario preferivamo
non comunicare a tutta la campagna circostante la notizia che un nostro
paziente era evaso. Meglio organizzare una squadra di ricerca e disporre
una rapida perlustrazione della tenuta, nella speranza di prenderlo prima
che arrivasse troppo lontano. Sapevamo entrambi che ci sono due cose di
cui un paziente in fuga ha bisogno, e cioè denaro e vestiti, e che almeno
una delle due Edgar se l'era procurata. Gli infermieri si diedero da fare per
un paio d'ore: perquisirono la fattoria e gli acquitrini, e si inoltrarono per
un tratto nella foresta. Stava calando la sera. Non sapevano con certezza
che vantaggio avesse. Secondo noi non più di tre ore, ma per un uomo
scaltro, con denaro e vestiti a disposizione, tre ore erano più che sufficien-
ti. Nessuno sapeva se avesse dei soldi con sé, nessuno tranne Stella, natu-
ralmente, che gliene aveva dati più volte, e di sicuro abbastanza per arriva-
re fino a Londra. Nel frattempo noi potevamo solo sperare che fosse anco-
ra nei paraggi, che si aggirasse senza meta per la campagna diventando fa-
cile preda della polizia locale, che avevamo avvertito dopo due ore di ri-
cerche infruttuose.
Brenda e Stella reagirono all'annuncio di questi sviluppi drammatici con
esclamazioni tra il sorpreso e lo scomposto. Ma fu Brenda a pensare a
Charlie, che non era ancora tornato a casa. Con una certa presenza di spiri-
to, Stella riuscì a simulare a sua volta un'ansia intollerabile per il ragazzo,
che in realtà le servì a mascherare l'impatto emotivo della fuga di Edgar.
Sperava solo che Max non si accorgesse che la sorte di Charlie era stato il
primo pensiero di Brenda anziché il suo.
La secca risposta di Max fu che a Edgar Stark i ragazzi non interessava-
no. «Vuole solo andare il più lontano possibile».
Poco dopo Charlie entrò di corsa in casa, eccitatissimo; aveva sentito le
sirene, e voleva assolutamente sapere cos'era successo.
Stella tornò in cucina a finire di preparare la cena. Vuole solo andare il
più lontano possibile. Era in piedi davanti ai fornelli, il volto rigato di la-
crime. Sentendo Brenda entrare si asciugò gli occhi col grembiule e accese
il fuoco sotto le patate. Doveva a tutti i costi riuscire a comportarsi come
se la sua unica apprensione fossero i gravi problemi cui l'ospedale sarebbe
andato incontro, a tutto detrimento dei pazienti, ma anche dei medici, degli
infermieri e delle loro famiglie. Fu più o meno quello che mormorò a
Brenda.
«Dio, che seccatura» rispose Brenda. «Quell'uomo si è comportato ma-
lissimo. E lavorava in giardino?».
«Stava restaurando la serra».
«La sola idea che sia entrato qui mi fa orrore. Cosa sarebbe successo se
avesse trovato te, o me? Mi dicono che in passato è stato violento con delle
donne».
«Avrà prima controllato che non ci fosse nessuno in casa».
«E cosa sarebbe successo se Charlie lo avesse sorpreso in camera vo-
stra? Nella vostra camera da letto, Stella! Ma non ti senti violata al pensie-
ro che quell'uomo sia entrato in camera vostra?».
«In effetti è stato uno shock. Non l'ho ancora superato».
«Lo credo bene».
Durante questo interrogatorio Brenda non le aveva mai tolto gli occhi di
dosso. Qualcosa nelle sue reazioni alla fuga l'aveva stupita, e Stella lo sa-
peva. Che cos'era stato a tradirla? Non aver pensato a Charlie quando le
avevano detto che un paziente evaso era a piede libero nei dintorni? O non
essere riuscita a mostrarsi abbastanza sorpresa, come se sapesse già tutto?
Pregava solo di arrivare alla fine della serata senza altre prove come quel-
la.
E invece il peggio doveva ancora venire. A metà della cena squillò il te-
lefono dello studio, quello collegato con l'ospedale, e Max andò a rispon-
dere. Quando tornò disse a Stella che Jack voleva vederli tutti e due da lui.
«Tutti e due?» chiese Brenda.
«Sì, mamma» rispose Max con insolita fermezza. «Tutti e due».
Quando varcarono il Cancello si stava facendo buio. Il cielo pallido era
striato di nuvole rosa, azzurre e malva, e le due grandi torri quadrate, con
la doppia barriera di ferro che le univa, si stagliavano nella luce opaca del-
la sera. Entrando in macchina, Max le aveva chiesto perché pensava che
Jack volesse vedere anche lei, e Stella gli aveva risposto di non averne ide-
a. Max non aveva aggiunto altro, guidando in silenzio fino alla residenza
del direttore, vicino al braccio femminile.
Venne ad aprire Bridie, che aveva messo su una doverosa aria di circo-
stanza. Con un fremito di disgusto Stella notò come, dopo il loro lungo
matrimonio, Bridie si era inserita nel tessuto della vita professionale di
Jack, e in quel momento si rese conto che lei non si sarebbe mai trovata in
quella posizione. Era abituata a pensare che prima o poi le sarebbe toccato,
quel ruolo di moglie del direttore che fra sé e sé snobbava tanto, ma adesso
era chiaro che non glielo avrebbero neppure offerto: la direzione era perdu-
ta. Si chiedeva se Max se ne rendesse conto.
Bridie li fece entrare nello studio di Jack, una grande stanza confortevole
e piena di libri. Rivolgendo loro la sua ampia schiena, Jack armeggiava
con la bottiglia di whisky. Non si voltò subito. Chiese soltanto se qualcuno
voleva da bere, e Stella rispose di sì con un po' troppa sollecitudine. Bridie
chiuse la porta e li lasciò soli.
«Fate come se foste a casa vostra» mormorò Jack con un tono brusco e
distaccato che Stella non gli conosceva.
«Brutto affare» disse quando si furono accomodati. «Questa è la mia
quinta evasione. È sempre un incubo, anche se li prendiamo alla svelta.
Edgar Stark».
Jack si interruppe, fissando corrucciato il suo bicchiere di whisky, e il
nome dell'amante di Stella rimase sospeso nella penombra mentre la sera
moriva e dal giardino arrivava l'ultimo canto degli uccelli.
«Stavolta la faccenda è spinosa. Verrò subito al dunque. Non te ne ho
parlato finora, Max, perché non mi sembrava il caso di metterti in agita-
zione riportandoti voci incontrollate. Ma dopo quello che è successo oggi
pomeriggio bisogna che questa... questa cosa venga fuori».
Fece un'altra pausa. Questa «cosa» - quale «cosa»? In bocca a Jack sem-
brava una parola sporca, disgustosa, immonda. E perché mai lei doveva es-
sere lì mentre veniva fuori una cosa disgustosa e immonda?
«Quali voci?» chiese Max.
Con un sospiro, il direttore si girò verso Stella. «Qualcuno ha detto»
cominciò «che i tuoi rapporti con Edgar Stark sono andati al di là di quanto
si conviene alla moglie di un medico».
«E chi lo ha detto?» chiese Max seccamente. «Perché non sono stato in-
formato?».
«Chi lo ha detto non ha alcuna importanza. Lo sai anche tu come vanno
queste faccende. I pazienti chiacchierano, un infermiere li sente, si precipi-
ta ad aggiornare i colleghi, e in un batter d'occhio la cosa arriva fino a
me».
«E tu l'hai presa sul serio. Non ci posso credere!».
Sia Jack sia Stella furono sorpresi dalla veemenza di Max.
«Max, ascoltami, per favore. Come puoi immaginare, le voci in genere
mi lasciano indifferente. Me ne arrivano un'infinità ogni giorno, e quasi
tutte senza il minimo fondamento. Ma questo è un manicomio molto gran-
de, e la gente parla. Non prendo quello che dicono di Stella per oro colato,
è ovvio, però devo sapere come mai lo dicono».
«L'avranno vista che gli parlava in giardino, tutto qui».
«Stella?».
Si girarono tutti e due verso di lei. Max era in collera. La si poteva anche
scambiare per una naturale reazione alle accuse di Jack, ma in realtà c'era
dell'altro - la necessità stessa di quel colloquio, ad esempio, oltre all'atroce
consapevolezza di aver sottovalutato il furto dei vestiti, rendendo in so-
stanza possibile la fuga di Edgar. Di fatto, l'atteggiamento cavalieresco di
Max era più apparente che reale, e Stella se ne rendeva benissimo conto.
«Ma io ci ho solo parlato, Jack» rispose Stella con una voce impercetti-
bilmente più incredula che offesa. «A volte quando scendo nell'orto ci
scambio - o meglio, ci scambiavo - due chiacchiere. È una cosa che faccio
con tutti i pazienti. La ritengo importante».
«Lo vedevi tutti i giorni? Mi spiace, Stella, ma ti ripeto, devo capire da
cosa è nata, questa voce».
Stella non rispose subito. Prima cercò di impersonare la dignità ferita. In
fondo era una rispettabile donna sposata la cui virtù era stata messa in
dubbio. Poi, a poco a poco, lasciò trasparire una dolorosa accettazione del-
la realtà.
«Be', l'insalata dell'orto la mangiamo tutti i giorni. Se incontro Edgar lo
saluto, e qualche volta, te l'ho detto, mi fermo a parlargli».
Jack si concesse una piccola pausa. Aggrottò la fronte, annuì, e scrutò at-
tentamente Stella.
«Grazie, Stella» disse alla fine. «Ero sicuro che dovesse trattarsi di qual-
cosa del genere. Ti chiedo scusa, ma spero che tu capisca. Sai, a volte le
mogli degli psichiatri mi ispirano una certa compassione. Hanno un com-
pito ingrato, solo noi sappiamo fino a che punto». Questo era rivolto a
Max, che a sua volta aggrottò la fronte e annuì.
«Bevete ancora qualcosa».
«No, grazie, Jack» disse Max alzandosi. «Dobbiamo andare».
Jack non si scusò più. Sapeva che quel discorso andava fatto e non si era
tirato indietro, ma ce ne sarebbe voluto per convincerlo che la moglie di un
medico potesse comportarsi in modo sconveniente con un paziente, e
quanto aveva sentito gli bastava. O almeno, immagino, questo pensava
Max uscendo dal colloquio.
Quando i Raphael se ne andarono Jack venne in salotto da noi: da Bridie
e da me. Ero lì da un'ora per aggiornarli su quel poco che sapevo della re-
lazione di Stella col mio paziente.
«E allora?» chiesi.
Jack annuì. «Temo che sia vero».
«Oh, dio. Cosa farai?».
Jack sospirò. «Dipende».
«Ma Max non si accorge che mente?» chiese Bridie.
Jack allargò le braccia senza dire nulla.
«Sospetto di sì» intervenni. «Ma credo anche che preferisca non vedere.
E che sia per questo che l'ha lasciato andare».
Jack fissava il suo bicchiere. Tutt'a un tratto capii che non riusciva a far-
sene una ragione. Il pensiero che Stella potesse essere colpevole di ciò che
avevo insinuato era un vero shock. Non voleva crederci.
Bridie aveva meno remore. «È inconcepibile» mormorò. «Inconcepibile,
che la moglie di un medico...».
Si interruppe. Era troppo anche per lei.
«Forse è meglio che scambi due parole con Max» dissi.
Nel frattempo avevo lasciato gli Straffen per raggiungere la casa del vi-
cedirettore. Passando dal Cancello avevo notato un'atmosfera diversa dal
solito; nonostante l'ora tarda c'erano parecchi uomini in giro, e un'aria di
emergenza. Il colloquio che mi aspettava era piuttosto delicato: dovevo
riuscire a evitare che Max, tra i molti meccanismi di difesa a sua di-
sposizione, scegliesse l'isolamento. Purtroppo avevamo ancora bisogno di
lui. Delle reazioni di Stella ero meno sicuro, ma prevedevo che si sarebbe
resa conto di essere stata tradita, e che avrebbe dato la colpa non tanto a
Edgar quanto a se stessa. C'era la possibilità che questo innescasse un epi-
sodio depressivo. Dovevamo vigilare.
Suonai il campanello. Nell'anticamera Stella si fermò di nuovo davanti
allo specchio. Dallo studio non arrivava alcun rumore. Aprì la porta.
«Oh, Peter. Entra, Max è nello studio».
«Vorrei parlare prima con te».
«Sono in soggiorno con Brenda».
La seguii. Si muoveva con una disinvoltura anche eccessiva, come se
cercasse di smentire col corpo la sua tensione. Brenda mi accolse affettuo-
samente. Mi lasciai cadere in una poltrona.
«Proprio una brutta storia, per tutti voi» dissi mentre Stella mi passava
un gin.
«Peter, ma cosa succede?» mi domandò Brenda.
«La solita prassi. Chi se la passerà peggio naturalmente è Jack. La stam-
pa lo metterà in croce, ci saranno interrogazioni parlamentari, tutto il si-
stema della semilibertà verrà condannato. Un'evasione come questa riporta
l'ospedale indietro di cinque anni». Stavo cercando di comunicare una spe-
cie di estenuata prostrazione, come se tutta la faccenda fosse in definitiva
una gran seccatura, e nient'altro. Speravo che sarebbe servito a mascherare
l'effettiva gravita della crisi. Brenda intanto aveva assunto la sua espres-
sione indifesa e disorientata; evidentemente sperava che vedendola in quel-
le condizioni qualsiasi vero cavaliere si sarebbe deciso a vuotare il sacco.
«Ma lo prenderete presto, vero?».
Sorseggiai il mio gin e lasciai cadere una mano dal bracciolo della pol-
trona. «Forse. Anche se pensiamo che possa avere qualche amico a Lon-
dra».
«Non sapevo che avesse amici a Londra» disse Stella.
«E come potevi saperlo?» risposi guardandola con aria assente.
«Max non mi ha parlato di amici a Londra. Che possano essere coinvol-
ti, intendo».
«Ha qualche amico dei vecchi tempi, a Soho».
In seguito Stella mi disse che all'improvviso le era sembrato di vedere la
scena dall'altra parte del vetro, come se stesse guardando dal giardino, nel
buio, un uomo in poltrona parlare con due donne che lo ascoltavano rapite.
Adesso nell'espressione di Brenda la curiosità nuda e cruda si mischiava
alla fascinazione e allo sgomento. Le era caduta la maschera.
Qualche minuto dopo mi alzai. «Sarà meglio che parli un po' con Max»
dissi. «Ti prego Stella, rimani seduta».
Fiato sprecato. Mi accompagnò fino alla porta del soggiorno e rimase a
guardarmi mentre percorrevo il corridoio e bussavo piano alla porta di
Max, poi entravo nello studio e mi chiudevo la porta alle spalle.
Non sapeva dire a che ora Max l'avesse raggiunta in camera. Lei era sali-
ta subito dopo, aveva preso una pillola e si era messa a letto aspettando di
addormentarsi. La luce della luna filtrava attraverso le tende. La casa era
silenziosa. Con la faccia premuta sul cuscino aveva pianto fino a inzuppare
la federa, poi l'aveva cambiata, e a quel punto, alleggerita dal peso più
immediato del suo dolore, era rimasta a fissare il soffitto. Ripensava alle
notizie che aveva appena sentito, che in sostanza significavano una cosa
sola: se Edgar aveva degli amici, probabilmente era al sicuro. Tenendosi
stretta a questo pensiero si era addormentata.
Sono convinto che sia andata effettivamente così. Non credo che avesse-
ro un piano. Non credo che Stella stesse complottando contro di noi.
Stella non sapeva se Jack o io avessimo fatto notare a Max che non ave-
va denunciato subito il furto dei vestiti. Per lei era diventato difficile ca-
vargli qualche informazione, oltre alla notizia che le ricerche si erano con-
centrate su Londra e non approdavano a nulla.
«Sembra scomparso» disse Max.
«Qualcuno lo starà nascondendo» fece Brenda.
Era al sicuro, almeno per il momento. A Stella bastava sapere questo.
Era al sicuro, e stava pensando a lei; in qualunque buco fosse andato a na-
scondersi non mollava e pensava a lei. I giorni passavano, era già settem-
bre. A volte Stella si diceva che forse non lo avrebbe più rivisto, e si senti-
va prendere dalla disperazione. Era un'idea sconvolgente, e per scacciarla
ripensava a tutto quello che lei e Edgar si erano detti e ripromessi. Non l'a-
vrebbe abbandonata, ne era certa. Non perse mai la fiducia. Si ripeteva di
essere paziente, e si consolava pensando che, ovunque fosse, non era in pe-
ricolo. Viveva in uno stato di sospensione; nulla era finito, anche se tutto
stava cambiando. Non provava neppure a immaginare quello che poteva
succedere, perché il solo pensiero la faceva star male, ponendole problemi
pratici al momento insormontabili. Si chiedeva soltanto che cosa Edgar a-
vrebbe voluto che facesse, e la risposta era che rimanesse, sì, paziente, mu-
ta, sollevata di saperlo al sicuro.
Beveva in continuazione, le sembrava essenziale per mantenere una
qualche forma di equilibrio. Evitava di pensare agli aspetti pratici e si fa-
ceva cullare il più possibile da una specie di fede assoluta; da quella, e dal
gin. In alcuni momenti, quando agli aspetti pratici era costretta a pensare,
si rendeva conto che quella fede, e il gin, non avrebbero potuto rimanere in
eterno il suo unico nutrimento spirituale; ma finché ci fosse riuscita sareb-
be andata avanti in quel modo. Tutti gli altri erano talmente distratti dal-
l'emergenza, dagli occhi del mondo puntati addosso, da non accorgersi che
Stella trascorreva i suoi giorni in uno stato di distaccata astrazione, fa-
cendo quello che ci si aspettava da lei, certo, ma con la testa sempre da u-
n'altra parte. Tutti, tranne me. Io la stavo osservando.
In quel periodo, Stella subì uno shock piuttosto forte. Una mattina era
nell'orto ad annaffiare. Continuava a far caldo, non pioveva da settimane e
la terra, in superficie, sembrava sabbia. Aveva bisogno di bere molto, una
condizione che Stella in quel momento capiva benissimo. Così attaccò la
canna al rubinetto nella siepe e si mise a dare un sorso d'acqua a ogni pian-
ta, una per una. Con gli stivali di gomma, il vestito estivo, gli occhiali da
sole e il cappello di paglia a tesa larga Stella si muoveva con decisione tra-
scinandosi dietro il tubo, e quello che stava facendo le dava una specie di
piacevole spensieratezza, qualcosa di cui andava alla ricerca in ogni sua at-
tività durante quelle difficili giornate. Il rumore dei passi sulla ghiaia alle
sue spalle la disturbò. Ma quello che vide quando si voltò, con la canna in
mano, la disturbò anche di più. Jack Straffen veniva verso di lei lungo il
sentiero. Allerta. Massima allerta. Gli gridò di aspettare, perché doveva
chiudere l'acqua. Uscì a grandi passi dall'orto della lattuga, mentre a terra il
tubo continuava a zampillare, e andò a chiudere il rubinetto.
«Max è ancora in ospedale» disse.
Con l'abito scuro e il panama, Jack sembrava accaldato, a disagio e del
tutto fuori luogo nel verde che lo circondava da ogni parte.
«Veramente volevo parlare con te. Possiamo sederci?».
Stella gli fece strada fino alla panchina della serra, dove si sedettero al-
l'ombra. Jack si tolse il cappello e lo appoggiò accanto a sé.
«Fumi?».
«No, grazie».
«Un uomo come Edgar Stark» disse, e si fermò. Fece cadere con un ge-
sto studiato la cenere della sigaretta sulla ghiaia sotto di loro e rimase a
guardarla. Poi fece un sospiro. «Sai qual è la sua diagnosi? Paranoia. Ne
abbiamo molti come lui, qui. Vedi Stella, questi pazienti sono pericolosi
tanto quanto gli schizofrenici che hanno commesso un omicidio. Ma il fat-
to singolare è che in nessuno di loro c'è traccia di psicosi. Neanche la mi-
nima traccia. E quindi non gli diamo farmaci. Proviamo con la terapia, ma
purtroppo senza grandi risultati. Possiamo gestirli, possiamo contenerli,
ma non sappiamo esattamente come curarli. Perché non capiamo veramen-
te cosa sono».
A chi ti riferisci, pensò Stella, ai tuoi pazienti o alle donne?
«Anche se non lo sembra affatto, Edgar Stark è un individuo gravemente
disturbato».
«Questo lo so, Jack».
«Mi chiedo se lo sai davvero. Ad esempio, sai cosa ha fatto a quella
donna dopo averla uccisa?».
Stella non rispose.
«L'ha decapitata. Poi l'ha enucleata. Sai cosa vuol dire? Vuol dire che le
ha tagliato la testa e poi le ha cavato gli occhi».
Stella guardò il giardino, meravigliandosi di come le piante che aveva
annaffiato sembrassero già più vive delle loro vicine. Alle due estremità
della panchina, all'ombra, c'erano le metà di un barile che Edgar aveva
riempito di terra e dove aveva piantato dei ciclamini d'inverno. Stella si ri-
cordava benissimo Edgar che segava il barile in due. Gliel'aveva tenuto
fermo lei. Anche i ciclamini avevano bisogno d'acqua.
«Beviamo qualcosa?».
«Non sono neanche le dieci, Stella».
«Il giardino andrà in malora senza le squadre. Guardalo».
«Mi hai ascoltato, Stella? Hai capito cosa ti sto dicendo?».
Stella si voltò verso di lui. «Non so che cosa vuoi da me» disse. «Pensi
che ti stia nascondendo qualcosa, ma non è vero».
«Ti ha mai toccato?».
«No!».
«Ti ha mai chiesto dei soldi?».
«No. Non credi che se fosse successo lo avrei detto a Max?».
Jack si tolse gli occhiali. Si strofinò le palpebre con le dita. Si appoggiò
allo schienale e fissò il giardino illuminato dal sole. Era un uomo corpu-
lento, sulla sessantina, un uomo preoccupato con i capelli grigi cortissimi e
lo sguardo penetrante. Stava per andare in pensione, e avrebbe fatto volen-
tieri a meno di questo problema. Sul suo anulare la fede brillava ai raggi
del sole che filtravano attraverso l'edera sopra le loro teste.
«Non credo che tu mi stia dicendo tutta la verità».
Stella non protestò. Alzò le spalle e scosse leggermente la testa, come se
disperasse di riuscire a convincerlo.
«Stella, se ti sei cacciata in qualche guaio, se ti ha convinta a fare qual-
cosa...».
«Cosa?».
«Io lo conosco, Edgar Stark. So come si muove. Non c'è motivo di ver-
gognarsi ad ammettere che ti ha coinvolta nel suo caso, si è conquistato la
tua simpatia, ti ha montata contro Max, Peter e me. Sai cosa credo? Credo
abbia immediatamente individuato in te una persona da usare. Ti ha detto
che stavamo per rimetterlo in libertà? Non è affatto vero. Ma se non mi di-
ci cosa è successo non posso aiutarti».
«Non è successo niente».
Jack sospirò. «Non è successo niente».
«No».
«Non me lo vuoi dire».
«Te lo sto dicendo».
Jack prese il suo panama. «Forse per te è un bene che se ne sia andato.
Vieni a trovarmi presto, d'accordo?».
Stella annuì.
Lo guardò mentre camminava pesantemente sul sentiero. Il cuore le bat-
teva forte, e le tremavano le mani.
***
La mia ansia di sapere dov'era Edgar, e come stava, si rispecchiava, per
una specie di aberrazione ottica, in Stella, tanto che più avanti ravvisai nel-
la sua infatuazione sessuale e amorosa per lui il riflesso, certo primitivo e
distorto, ma comunque un riflesso, della mia sollecitudine per un uomo
malato, che si trovava, privato di qualsiasi appoggio terapeutico, in una si-
tuazione di grande tensione e incertezza. Di fatto, quando Stella mi parlò
di quei giorni ritrovai nella sua esperienza qualcosa della mia. Il peggio e-
rano le sere, mi disse. Dopo cena Max si ritirava nello studio e lei si trasci-
nava in soggiorno. Quando circa un'ora dopo lui andava a letto lei rimane-
va di sotto, dicendo di voler leggere ancora un po'. La porta della camera
da letto che si chiudeva era il segnale per mettere via il romanzo e versarsi
qualcosa di più forte.
Le ore che seguivano erano di Edgar. Stella si abbandonava ai ricordi di
quell'estate. Usava come riferimento la sua agenda; non aveva tenuto un
resoconto scritto, ma grazie a certi segni cifrati in corrispondenza di parti-
colari giorni era in grado di ricordare ogni incontro e, per usare le sue pa-
role, ogni atto d'amore. Aveva imparato ad assorbire le immagini come
boccate di sigaretta: riusciva a trattenerne nella mente tutto il peso, e il si-
gnificato, e le sensazioni che evocavano, e da questo punto di vista, diceva,
alcune erano più potenti di altre. Una volta, nel capanno del cricket, qual-
che secondo dopo aver fatto l'amore, Edgar le aveva appoggiato la testa
sulla spalla, e lei aveva sentito il suo respiro placarsi a poco a poco. Poi
Edgar si era tirato su, e nei suoi occhi Stella aveva visto qualcosa che non
riusciva a spiegarmi, così come non sapeva descrivermi cosa si erano detti
senza parlare in quei pochi secondi, prima che il loro pensiero tornasse a
banalità come la fretta o le precauzioni per non farsi scoprire. In quell'at-
timo sospeso, nel patto che avevano stretto senza parole, Stella aveva sen-
tito infrangersi i loro ego separati, e le loro identità fondersi l'una nell'altra:
adesso fra lei e Edgar non c'era più differenza, ormai erano una cosa sola,
erano, come aveva detto? Inseparabili...
Rimasi pazientemente ad ascoltare tutto questo rinunciando alla doman-
da più ovvia: e lui? E Edgar? Aveva pensato anche lui che erano una cosa
sola, che erano, come aveva detto? Inseparabili? In quel momento credevo
ancora che Edgar avesse suscitato questi sentimenti in Stella per poterla
poi usare, e che una volta uscito dal manicomio sarebbe svanito nel nulla.
Mi sbagliavo.
Una sera, più o meno in quel periodo, Max mi invitò a cena. Eravamo
solo noi tre. Bevemmo qualcosa in soggiorno, e inevitabilmente ci met-
temmo a parlare di Edgar. Max sosteneva che l'evasione era stata studiata
fin nei dettagli. Non pensava quasi più ad altro, e non la finiva mai di par-
larne.
«L'unica cosa che gli serviva erano degli abiti normali. Ha aspettato che
la casa fosse vuota. Appena è stato sicuro che eravamo tutti fuori non ha
perso un secondo».
«La sua fortuna» mormorai, gettando un'occhiata a Stella «è stata avere
la tua stessa taglia».
«Già, proprio una bella fortuna. Per lui» disse Max aggrottando la fron-
te. Odiava questo aspetto della faccenda, e cioè l'identificazione, benché
indiretta, fra lui e Edgar Stark. Stava piegato in avanti, il bicchiere in ma-
no, gli occhiali che dondolavano fra le dita. Dal momento della fuga non
era più riuscito a scrollarsi di dosso il senso di colpa per il tempo perso
dopo la scoperta del furto, che aveva di fatto consentito a Edgar di guada-
gnare terreno. Era uno psichiatra troppo esperto per non aver analizzato,
come me, la ragione di quella perdita di tempo, che ormai era evidente an-
che a Stella: Max aveva esitato perché era giunto alla conclusione che Ed-
gar fosse entrato in camera da letto perché ce l'aveva portato lei. Ma piut-
tosto che accettarla, quella conclusione, meglio lasciar scappare Edgar.
«Una cosa che continuo a non spiegarmi» dissi con una certa malizia «è
quella storia dell'alcol rubato dal capanno. Edgar poteva avere le chiavi so-
lo dal giorno in cui ti ha preso i vestiti, che però è lo stesso della fuga».
Max scosse la testa. «Non credo che quell'alcol venisse dal capanno»
disse.
«Che strano» disse Stella. Si sentiva addosso il mio tipico sguardo sva-
gato, e d'un tratto, ammise più tardi, si era resa conto che di svagato non
c'era proprio nulla nell'intelligenza al lavoro dietro quegli occhi pigri. Si
chiese quanto effettivamente sapessi di ciò che era accaduto nel capanno
del cricket. In quel preciso momento squillò il telefono, e Stella posò il
bicchiere.
«Vi raggiungo a tavola fra cinque minuti» disse. Andò nell'anticamera,
chiudendosi la porta alle spalle, e la sentii sollevare la cornetta.
Solo in seguito ho saputo chi era.
A tavola feci notare che non mi ero sbagliato: Edgar aveva ancora degli
amici a Londra. «Sapevano che stava arrivando» dissi. «C'era un posto
pronto per lui. Adesso non lo prenderemo più, a meno che non faccia qual-
che stupidaggine».
«Ne fanno sempre» sussurrò Max piluccando il suo curry. Stella divide-
va fra Max e me il suo sguardo attento e partecipe da brava moglie di psi-
chiatra. Era su di giri, quasi euforica, ma non mi venne in mente di do-
mandarmi perché. Un errore da parte mia, visto l'effetto atroce che questa
conversazione doveva fare su una donna innamorata.
«Davvero, Peter?» mi domandò.
«Credo di sì. E non credo che rivedremo più Edgar Stark».
Ci mettemmo a parlar d'altro. Stella sparecchiò e portò i piatti in cucina.
Rimase in piedi davanti al lavandino, guardando fuori, il cuore in fiamme.
Puoi immaginare cosa abbia significato quella telefonata per me, mi disse
poi.
Sì, le risposi.
Quello che facevo più fatica a immaginare era perché Edgar, una volta
evaso, stesse rischiando tutto per rivederla. Solo col tempo sono arrivato a
capire che c'entrava la sua scultura. Dopo quasi cinque anni di inattività,
Edgar voleva ricominciare, e per farlo gli serviva una testa. E considerando
chi era lui, e chi era lei, e soprattutto che lei lo amava, non poteva essere
che la testa di Stella.
Dopo, fu per me fin troppo facile immaginare quello che aveva provato
Stella: l'attesa febbrile, la tensione quasi insopportabile mentre contava le
ore che la separavano da lui. Aveva deciso di prendere un treno al mattino
presto. In un'ora avrebbe potuto comprare qualcosa per giustificare il viag-
gio, e avere così il resto della giornata tutto per sé. Dalla Victoria Station
prese un taxi fino a Knightsbridge, dove fece qualche acquisto in fretta e
furia. Poi tornò alla stazione e sedette in un bar davanti a una tazza di caf-
fè. Il grande tetto di vetro le ricordava la serra. Si mise ad aspettare. Porta-
va un tailleur bianco, e scarpe bianche con il tacco alto. Si era trovata un
posto verso il fondo da dove poteva tener d'occhio l'ingresso. A mezzo-
giorno e dieci vide Edgar entrare, andare al banco e ordinare un tè, conti-
nuando a darle le spalle. Stella era fuori di sé, non sapeva nemmeno più se
per l'esaltazione o il terrore, ma quando lui si voltò fu costretta ad accen-
dersi una sigaretta per nascondere l'imbarazzo: non era Edgar, non gli so-
migliava neanche un po' ! L'uomo si rese conto di essere osservato, e Stella
si voltò da un'altra parte, dando spasmodici segni di disinteresse; con suo
grande sollievo lui non si avvicinò. Per molti uomini, una donna sola nel
bar di una grande stazione ha tutta l'aria di una preda.
Edgar non arrivò, e alle due Stella si arrese. Non se la sentiva di fare al-
tre compere. Prese il primo treno e guidò senza problemi dalla stazione fi-
no a casa. In casa non c'era nessuno. Si infilò in un bagno caldo con un
gran bicchiere di gin tonic dicendosi che Edgar non era potuto venire al-
l'appuntamento per qualche ragione indipendente dalla sua volontà.
Tornò l'indomani. La seconda volta fu più facile; come andare a letto
con Edgar la seconda volta. Il confine lo aveva passato, poi si era sempli-
cemente ritrovata dall'altra parte. E ormai aveva infranto tutte le leggi, an-
che quelle non scritte del suo matrimonio, della sua famiglia, e della sua
società, che naturalmente era l'ospedale. Di nuovo si sentì esaltata e terro-
rizzata. Essere fuori, al di là della legge, era sempre la sensazione più forte
che si potesse provare, mi disse, era quello che le dava alla testa. Le donne
romantiche, riflettei: non pensano mai al male che fanno in quella loro for-
sennata ricerca di esperienze forti. In quella loro infatuazione per la libertà.
Era di nuovo seduta al bar di Victoria Station. Si era messa gli occhiali
scuri e un cappello a tesa corta, in modo da sorvegliare l'ingresso senza at-
trarre l'attenzione. Verso mezzogiorno un ragazzo alto e allampanato ven-
ne a sedersi sulla sedia di fronte alla sua, tenendo gli occhi fissi sul tavolo.
Aveva i capelli color paglia e la barba a chiazze. Portava una vecchia giac-
ca di tweed macchiata e una camicia senza cravatta, con il colletto lurido.
Era tutto schizzato di vernice. Mise lo zucchero nel tè e mentre lo mesco-
lava, senza sollevare lo sguardo, disse: «Stella?».
Lei rabbrividì. Pensò che, nonostante le apparenze, fosse un poliziotto.
Non aveva messo in conto che Edgar potesse mandare qualcuno, invece di
venire di persona. Fece per prendere la borsa e andarsene.
«Lei è Stella Raphael» disse quella specie di barbone, lanciando occhiate
furtive da una parte all'altra. Stella riconobbe subito l'accento dei college
giusti. Adesso il ragazzo, per parlarle, si era appoggiato al tavolino. «E-
dgar mi ha detto di portarla da lui. Be', è lei o non è lei?».
Continuava a non trovare un solo motivo per fidarsi di lui. Incontrare
una terza persona a conoscenza della sua storia con Edgar, così segreta, era
sconvolgente. Stella decise che, nel dubbio, era meglio considerarlo un
nemico.
«Lei sta sbagliando persona» disse freddamente. «Io non la conosco, e
non conosco nessun Edgar».
Fece per alzarsi dalla sedia. L'uomo gettò un'altra rapida occhiata ansio-
sa al bar pieno di gente. «Tu sei Stella» le disse. «Edgar mi ha detto com'e-
ri fatta. Io sono quello che si occupa di lui».
Il ragazzo si sporse ancora di più, come per sfidarla a negarlo. Stella
percepì la sua paura e la sua impazienza. Rimase zitta per qualche istante,
e non si alzò. L'altro aspettava una risposta, tamburellando nervosamente
con le dita su un pacchetto di sigarette. Diede un'ennesima occhiata in giro,
e fu questo a convincere Stella. Era un'occhiata solo apparentemente ca-
suale: in realtà aveva uno scopo ben preciso e registrava tutto. Era identica
a quelle che lei aveva gettato alla porta nell'ultima ora.
«D'accordo» disse Stella. Tirò fuori una sigaretta e il ragazzo le tese un
fiammifero. Era visibilmente sollevato.
«Ti ho già visto ieri» le disse. «Ma dovevamo essere sicuri che nessuno
ti seguisse».
«Dovevamo?»
«Edgar e io».
«Come ti chiami?».
«Nick».
Più tardi, Stella mi disse di aver avuto la sensazione che tutto si fosse
capovolto. Non era lei che stava abbandonando il suo mondo per raggiun-
gere un uomo braccato, un fuggitivo; era il fuggitivo che aveva un suo
mondo protetto, in cui le stava offrendo asilo. Era lei la braccata, e non a-
veva più un posto dove andare. Il comportamento melodrammatico di
quello spilungone vestito di stracci non faceva che rendere la situazione
ancora più bizzarra.
Da lì in poi fu come entrare in un sogno. Quel Nick la accompagnò a
una Vauxhall parcheggiata dietro la stazione, una macchina sporca con le
imbottiture strappate e rifiuti ovunque, sui sedili, sul pavimento, sul cru-
scotto. Passarono il fiume a Westminster e si diressero a est. C'era un caldo
fuori stagione, e molto smog, e benché il sole splendesse sul Tamigi l'aria
era ferma, polverosa, opprimente. Non un alito di vento. Era una zona di
Londra che Stella non conosceva. Stradine anguste separavano magazzini
in disuso del secolo scorso, o forse di quello prima. Gli edifici lasciavano
filtrare pochissima luce, e avevano tutte le finestre murate, o spaccate, o
incrostate di polvere. Passarono vicino a un cratere dell'ultima guerra cir-
condato da una catena, e Stella notò un gattino nero sotto il sole che si fa-
ceva strada tra le macerie. Ciuffi di erbacce ricoprivano le cataste di mat-
toni rotti e di legname. Nonostante l'ora non c'era in giro un'anima. Per tut-
to il viaggio si concessero un solo, breve scambio di battute, quando a
Stella venne spontanea una domanda.
«Come ti ha detto che ero?».
Nick sorrise senza rispondere.
«E dài».
«Un Rubens».
«Oh, un Rubens».
Era un modo di dire tutto loro, suo e di Edgar, ma adesso lo sapeva an-
che Nick. Stella ci rifletté. Strano, non le importava. Vide il ragazzo con-
trollare lo specchietto. Erano arrivati in una strada deserta vicino al fiume.
Nick frenò di colpo, ingranò la retromarcia e si infilò velocemente in un
vicolo che portava a un cortile dietro a un magazzino. C'erano edifici su tre
lati, e sul quarto, proprio di fronte a loro, un viadotto ferroviario. Sotto le
arcate, un mercato all'ingrosso di frutta e verdura: deserto, come tutto il re-
sto, con i lucchetti appesi a porte e inferriate.
«Eccoti arrivata».
Stella scese dalla macchina. Nell'aria c'era odore di arance marce. Le fi-
nestre degli edifici tutt'intorno al cortile sembravano fissarla come tanti
occhi ciechi. Contro il muro, pile e pile di copertoni usati cuocevano al so-
le. Per terra, un foglio di giornale si muoveva appena. Nick lasciò Stella
vicino alla macchina in mezzo al cortile e sparì nel vicolo. Tornò quasi su-
bito e la accompagnò fino a un andito sul retro di uno degli edifici. Era
buio e puzzava di urina. Stella pensò che stessero per ammazzarla.
Nick aprì una porta in fondo all'andito. Una scala stretta e ripida si ar-
rampicava nell'ombra. L'aria era umida, fredda. Adesso c'era puzza di muf-
fa e di escrementi.
«Sali, dai» la incitò.
«Lui dov'è?».
«All'ultimo piano. Sali».
Nick sembrava vagamente divertito, e Stella pensò che la schernisse;
perché si era fatta portare fin lì di buon grado, forse, oppure perché adesso
esitava, la gran signora fuori dal suo ambiente naturale e sul punto di per-
dere le sue fragili sicurezze. Ora Nick non era più comico, era sinistro, ma
Stella cominciò lo stesso a salire, e del resto che cos'altro avrebbe potuto
fare? I gradini si incurvavano scricchiolando sotto i suoi piedi. L'aria era
appiccicosa. Un corrimano di legno levigato dall'uso era malamente fissato
al muro. Quando si rese conto che Nick non la seguiva Stella si fermò, ap-
poggiata al corrimano, e si voltò a guardare. Nick era ai piedi della scala, e
la teneva d'occhio. Il suo lungo indice le faceva cenno di salire, di conti-
nuare a salire, di salire fino in cima.
Stella fece diversi piani. In cima, una finestra polverosa dava sul cortile
sottostante. Vide Nick aprire la portiera della Vauxhall e si tirò indietro,
urtando un pezzo di tubo metallico che cadde sull'assito sollevando una
nuvoletta di polvere. Sul pianerottolo c'era una porta, che Stella aprì timi-
damente. Era terrorizzata. Davanti a lei si apriva uno stanzone talmente
ampio che le finestre rischiaravano soltanto una striscia di pavimento. A
poco a poco i suoi occhi si abituarono alla penombra. Sulla parete di fon-
do, da cui l'intonaco si era staccato scoprendo le assi e il canniccio, si apri-
vano alcune porte.
«Edgar?».
Stella avanzò di qualche passo. Il rumore dei suoi tacchi alti sull'assito
sembrava assordante. Portava un foulard e un impermeabile estivo color
tabacco con la cintura annodata, e aveva una grande borsa gettata su una
spalla. Una figura con la barba la guardava dall'ombra. Stella lo vide al-
l'improvviso, e non riuscì a trattenere un grido. Edgar si fece avanti sorri-
dendo, e lei gli corse incontro.
***
Rientrò a casa qualche minuto dopo le sei, e quando scese dopo il bagno
trovò Max, appena tornato dall'ospedale. Era di buon umore, evento raro in
quei giorni. Voleva sapere com'erano andati i suoi acquisti, e, visto che il
suo era un interesse puramente formale, per Stella non fu difficile elencare
i contrattempi e i giri a vuoto che avrebbero reso necessario un'altra punta-
ta a Londra venerdì. Lui le propose una passeggiata in giardino prima di
cena, e Stella trovò prudente acconsentire.
Cominciarono dall'orto, e Stella trovò paradossale che quello fosse, al-
meno tecnicamente, territorio di Max, perché lei sentiva ovunque la pre-
senza del suo amante. Edgar. Si era fatto crescere la barba. Nella tiepida
serata di inizio settembre l'aria era stagnante, afosa. Il rigoglio estivo aveva
prostrato la terra, e i frutti di quell'effimera esplosione di vita si stavano
decomponendo. Da dietro il muro si sentivano gli uccelli cantare.
«Hai visto Brenda?» chiese Max mentre risalivano il sentiero, fermando-
si a ispezionare ora questa ora quella pianta.
«Non ho avuto tempo».
«Ma sì, in fondo perché avresti dovuto? Ne avrai fin sopra i capelli di
mia madre, dopo quest'estate. Per non parlare di quell'altra storia...».
La sua voce si spense.
«Brenda e io andiamo d'accordo, quando è necessario. Anzi, mi ha fatto
piacere averla qui. È stata preziosa, con Charlie».
Erano arrivati alla serra. I lavori erano stati interrotti, e lo scheletro in-
completo della grande struttura bianca, col suo debole lucore nel crepusco-
lo, sembrava una rovina. Max sospirò. Inesorabilmente, la conversazione
si era spostata sul periodo successivo alla fuga di Edgar. Non riuscirono
mai a parlare a fondo di ciò che era accaduto e di come da allora la posi-
zione di Max in ospedale fosse cambiata. Ma era davvero cambiata? Si se-
dettero a fumare sulla panchina vicino al muro. Max le chiese di nuovo
della sua giornata a Londra, e per Stella non fu facile riportarlo ai suoi so-
liti argomenti di conversazione, che in genere avevano a che fare con il suo
lavoro. Si domandava perché lui le stesse così addosso, e ricordò che a let-
to, qualche notte prima, le aveva detto di averla perduta. Pensò che se vo-
leva vedere regolarmente Edgar a Londra bisognava che nel suo matrimo-
nio tutto tornasse normale. Doveva ridiventare invisibile, per Max.
Lui le prese la mano. «Mi piace questo posto, la sera». La guardò: «Ti
sta venendo freddo?».
«Ho un po' di brividi. Dovevo portarmi il cardigan».
«Torniamo dentro».
Risalirono il sentiero nel tramonto, mano nella mano.
Il venerdì Nick tornò a prenderla. Ora Stella lo vedeva come il suo allea-
to, il suo intermediario. La accompagnò al magazzino, e stavolta Stella no-
tò il nome della strada, che era Horsey Street. Salendo le scale non fece
quasi più caso al buio, agli scricchiolii, al penetrante, fetido puzzo dell'edi-
ficio abbandonato che ormai ospitava soltanto derelitti e parassiti. Si ar-
rampicò in fretta su per l'ultima rampa, aprendosi il cappotto, e si precipitò
dentro. Edgar le saltellò incontro (come un lupo, disse Stella, un grosso lu-
po) e passarono un altro pomeriggio a letto, e di nuovo il tempo scivolò via
in modo quasi irreale. Lei gli aveva portato dei vestiti, del sapone e una
bottiglia di whisky, e bevvero un bel po'. Scendendo le scale per andare
nello studio Stella barcollò, e inciampò mentre si infilava la gonna. Tutto
quell'alcol a stomaco vuoto: Stella lo reggeva bene, ma non senza mangia-
re niente. Mentre percorrevano Horsey Street alla ricerca di un taxi notò di
avere qualche problema ad avanzare in linea retta; si rese conto che prima
di rientrare a casa sarebbe stato il caso di riprendere il controllo. Voleva o
non voleva ridiventare invisibile? Be', il modo migliore non era certo tor-
nare da un giro di negozi barcollando.
In quegli stessi giorni Stella fece un'altra scappata a Londra, che ci dice
molto sulle tensioni e le contraddizioni della doppia vita che tentava di
condurre in quel periodo. Prese un taxi dalla stazione fino in fondo a Hor-
sey Street, imboccò il vicolo e salì le scale. Aveva solo un'ora, perché più
tardi nel pomeriggio doveva passare a prendere Charlie. A letto, Edgar le
disse: «Non farti toccare da lui».
Avrebbe dovuto sembrarle un campanello d'allarme, ma non fu così.
«Non farmi toccare da chi, amore mio?».
«Da Max».
«Non ti devi preoccupare di Max, è finita tra noi. Da un pezzo».
«Ma devi dormire nel suo stesso letto?».
Stella si rese conto che Edgar non aveva un'immagine chiara del suo ma-
trimonio, né più in generale della sua difficile situazione.
«Troverebbe strano che non lo facessi».
«E tu sei contenta».
«Naturalmente no, ma cosa posso farci? Amore, non sopporto che nes-
sun altro mi tocchi, a parte te. Certo che non mi lascio toccare da lui. E
comunque lui non si sogna di farlo».
«No?».
«Da anni».
Questo parve sollevarlo. Stella lo prese di nuovo fra le braccia, e poi,
con grande disappunto di entrambi, dovette staccarsi da lui, lavarsi, vestir-
si, e trovare un taxi che la portasse alla stazione. Aveva lasciato che si fa-
cesse pericolosamente tardi.
Scesero in cortile e andarono al solito posto, dove si abbracciarono per
qualche istante sulla soglia del pub; poi Edgar si alzò il colletto e sgattaio-
lò via, mentre Stella cercava un taxi. Non ce n'erano, e col passare dei mi-
nuti Stella si rese conto che avrebbe perso il treno, e che non sarebbe anda-
ta a prendere Charlie a scuola come aveva promesso. Per qualche secondo
si sentì prendere dal panico, e corse quanto i tacchi alti le consentivano fi-
no all'angolo più vicino, dove il traffico era più intenso.
Poi scoprì che non le importava. Non le importava di perdere il treno e
non le importava neppure di essere in ritardo. Charlie sarebbe andato a ca-
sa in autobus, lei avrebbe raccontato una storia qualsiasi e non sarebbe
successo nulla. Era abbastanza lucida per riconoscere l'aggressività che si
annidava in quel pensiero, e per capire che non aveva ancora perdonato al
bambino di aver fatto la spia. Prese il treno all'ultimo minuto. Sedette ac-
canto al finestrino e guardò i cortili delle villette a schiera, con i loro muri
alti e le lenzuola che sbattevano al vento. Vide passarle davanti agli occhi
gli scambi, i cortili delle fabbriche, gli appezzamenti di terreno, poi i prati
e l'aperta campagna. Pensò a Edgar. Quel suo insistere perché Max non la
toccasse l'aveva commossa. Sapeva come potesse diventare mostruosa la
gelosia nelle situazioni sbagliate. E la loro situazione, piena di difficoltà e
di frustrazioni, non era un terreno fertile per la gelosia? Edgar era così iso-
lato, lei era il suo solo porto, il suo unico rifugio, e ogni volta lo lasciava
per tornare alla casa e al letto di un uomo che lui odiava. Era una situazio-
ne che poteva facilmente provocare un parossismo di gelosia. Avrebbe fat-
to qualsiasi cosa per impedire che accadesse. Avevano già abbastanza ne-
mici intorno a loro.
VI
Stella era nell'orto; mi disse poi che ci andava quando voleva abbando-
narsi alla nostalgia degli inizi della loro storia. Tutt'intorno si coglievano
già i primi segni dell'autunno, le ombre lunghe nella luce del pomeriggio, i
colori più cupi e più brillanti. Qualcosa, nell'aria appena pungente, le par-
lava di foglie morte, di notti fredde, e della densa rugiada che all'alba bril-
lava sulle ragnatele fra i rami. La squadra di pazienti in semilibertà era di
nuovo al lavoro, sorvegliata come prima da John Archer. Spazzavano, pu-
livano, bruciavano, potavano quello che era cresciuto nella stagione ormai
finita; preparavano il giardino per il letargo invernale. Seduta sulla panchi-
na vicino alla serra, Stella guardava un paziente sconosciuto spingere una
carriola fino al falò che bruciava senza fiamma in una radura in fondo al-
l'orto. Il fumo saliva dal cumulo maleodorante offuscando la luce del po-
meriggio. Stella provava un senso di conclusione, di fine. I meli erano ca-
richi e i frutti caduti cominciavano a marcire nell'erba. Avrebbe dovuto
raccoglierli per la conserva, ma preferiva rimanere seduta e pensare a quel-
lo che era successo durante l'estate. Non si erano mai fermati a riflettere,
avevano agito alla cieca. Adesso che riusciva a vedere le cose con un mi-
nimo di prospettiva capiva che fermarsi sarebbe stato impensabile. Ma c'e-
ra qualcos'altro che non avrebbe pensato, fino a poco tempo prima: di po-
ter essere così temeraria. Il loro amore oggi era più forte, si ripeteva, più
solido, più tenace di quanto avesse osato sperare in estate. Il giardino stava
morendo, andava in letargo per l'inverno, ma i suoi germogli erano ancora
in fiore.
Lasciandosi cullare da questi pensieri gradevoli e vagamente elegiaci, al-
la cui formulazione avevano contribuito i due gin che aveva bevuto prima
di pranzo, Stella pensò di rientrare in casa. Ancora cinque minuti, si disse,
e in quel preciso istante la porticina in fondo all'orto si aprì.
Imboccai il sentiero, avanzando con cautela fra l'erba secca e i fiori am-
mucchiati sulla ghiaia e cercando di non inalare il fumo. Dopo la fuga di
Edgar avevo intuito che Stella nascondeva qualcosa; e secondo me, visto
che da un po' mi girava alla larga, lei sapeva che sapevo. Fino a quel mo-
mento la mia tattica era stata rimanere alla finestra senza fare nulla ma ap-
pena messo al corrente di quelle sue gite a Londra capii che dovevo agire
senza perdere altro tempo. La mia intrusione l'allarmò. Vedendomi attra-
versare la cortina di fumo le tornò in mente Jack Straffen, che qualche set-
timana prima le era andato incontro sullo stesso sentiero. Evidentemente
noi psichiatri dovevamo trovarla irresistibile?
«Peter, che bella sorpresa. Siediti. Mi stavo giusto godendo l'ultimo
scampolo di estate».
«E che estate. Mi verrebbe quasi voglia di andare in letargo fino a pri-
mavera. Come stai, mia cara?».
«Bene, grazie. Credo che Max sia in ospedale».
«Posso fare a metà dello scampolo? Cosa dici? Ci siamo visti così poco,
negli ultimi tempi. Mi sembri in gran forma. Sbaglio?».
E qui, vedendomi sfoderare, be', sì, lo sguardo svagato, Stella si mise
sulla difensiva; ma al tempo stesso lottava contro un bisogno quasi insop-
primibile di aprirsi come un tempo, prima che la nostra amicizia fosse
compromessa. Tutte le grandi passioni hanno la disperata necessità di rive-
larsi, di raccontare la loro storia, e io ero proprio l'ascoltatore perfetto, un
amico saggio e gentile. Stella doveva costringersi a uno sforzo incessante
per tenermene fuori.
«Adesso che Charlie ha ripreso la scuola ho più tempo per me. Quest'e-
state con lui in casa è stato faticosissimo. Per non parlare di Brenda. Non
credo che Max si renda ben conto di cosa significhi avere sua madre fra i
piedi a metter becco su tutto».
Più tardi mi confidò di aver gettato l'amo per vedere se abboccavo.
«Quel tesoro di tua suocera. È davvero impagabile. Sai che mi ha chiesto
di convincere Max a non candidarsi per il posto di Jack?».
«Non ci posso credere».
«Mi ha preso da parte, mi ha detto quanto ci tenesse a sapere cosa ne
pensavo, e poi mi ha chiesto di non incoraggiarlo, anzi se possibile di dis-
suaderlo».
«Devo dire che in questo sono d'accordo con lei».
«Immagino che tu preferisca tornare a Londra, no?».
Prima di proseguire lasciai che questa frase così densa di significato ri-
manesse nell'aria per un po'.
«Ma Max ci tiene davvero a quel posto? Io come puoi immaginare non
gliene ho parlato».
«Temo di sì» rispose Stella.
«Capisco».
Presi il portasigarette d'argento dalla tasca interna della giacca e fu-
mammo. Poi Stella mi domandò una cosa che fino a quel momento non le
era mai passata per la testa.
«Peter, non è che lo vuoi tu, il posto di Jack?».
Mantenni un'aria assorta e pensierosa, ma non sorpresa.
«A volte me lo chiedo. Ma no, sai, credo di no. È roba da giovani, e mi
toccherebbe lavorare troppo. E poi ormai in posti come quello finisci per
fare il passacarte».
Mi fermai lì. La lasciai pensare alla mia vita, alla mia bella casa a pochi
chilometri da lì, con i suoi bei quadri, i suoi bei mobili, e la sua bella bi-
blioteca. No, non riusciva proprio a vedere come in un'esistenza come la
mia, tutta giocata sull'equilibrio fra il rigore dello psichiatra criminale e le
debolezze dell'esteta, potessero trovar posto i complicati problemi am-
ministrativi di un grande istituto come il nostro. O una vita sessuale, fra
l'altro. Immagino che, a riguardo, avesse sentito le solite congetture, ma
probabilmente il suo sesto senso le diceva che, qualunque cosa avessi
combinato da giovane, ormai era acqua passata. E nonostante la franchezza
che c'era, o c'era stata fino a poco tempo prima tra noi, non mi aveva mai
chiesto niente. Si doveva essere fatta l'idea che i miei appetiti non fossero
poi così voraci, e cercava di immaginarsi che razza di vita conducessi.
Senza riuscirci.
La sentivo pensare queste cose.
«Caro Peter» mormorò.
«Vedi ancora Edgar Stark?» le chiesi.
Allerta! Ero pericoloso. Non doveva sottovalutarmi. Un'ammissione
parziale l'avrebbe messa al riparo dal peggio? No, doveva negare tutto. Ed
essere convincente. Si girò lentamente su se stessa con un sorrisetto incre-
dulo, sgranando gli occhi.
«Cosa te lo ha fatto pensare?». Il tono era calmo; niente onta, per inten-
derci.
Mi tolsi un immaginario granello di polvere dai pantaloni. Ero vestito da
lavoro: ottima stoffa, taglio impeccabile, il tutto di un bel nero psichiatrico.
«La tua reazione alla sua fuga».
Stella capì subito che non avevo avuto bisogno di prove circostanziali,
tipo le ore che aveva passato qui nell'orto sola con Edgar (certo, John Ar-
cher mi aveva informato, ma lei non poteva saperlo), o la sua presenza al
campo da cricket proprio mentre si sospettava che Edgar stesse rubando gli
alcolici dal capanno. No, mi era bastato il mestiere, tutto qui. Avevo sem-
plicemente osservato e interpretato la sua reazione emotiva all'evasione.
«Non capisco».
«Edgar non ti ha detto che se ne andava, questo è chiaro».
«E perché avrebbe dovuto dirmelo?».
Non risposi.
«Perché, Peter? Perché un paziente dovrebbe dire alla moglie di un me-
dico che sta per scappare?».
«Proprio così. Perché?».
Eccola, l'onta. «Questa è una cattiveria, e un insulto, anche. Non ti per-
metto di parlarmi così!».
Si alzò, passò di corsa in mezzo al fumo del falò e continuò a correre fi-
no a casa. Entrò in cucina e si mise davanti al lavandino. Sentiva il nostro
fiato caldo sul collo.
Ma non si era ancora liberata di me. La seguii fin dentro casa, tenendola
d'occhio dalla finestra mentre mi avvicinavo. Era lì in piedi, tremante. Non
mi aveva mai visto così. La mia abituale espressione ironica aveva lasciato
il posto a qualcosa di molto serio, che la spaventava a morte. Un attimo
dopo ero vicino a lei in cucina.
«Adesso ascolti tutto quello che ho da dirti. Voglio che tu ti metta bene
in testa che Edgar Stark è un uomo pericoloso. Guarda che non sto scher-
zando. Lo capisci?».
Mi ero portato dietro il suo cestino, e lo tenevo ancora in mano. Notan-
dolo, Stella accennò un sorriso, poi me lo prese e appoggiò le mele sul ta-
gliere vicino al lavandino. Aprì il cassetto delle posate, scegliendo un ag-
geggio con cui cominciò a togliere i torsoli. Ora non avevo tempo per ana-
lizzare le sue attività di spostamento. Le appoggiai le mani sulle spalle. La
costrinsi dolcemente a voltarsi, quindi le presi l'aggeggio e me lo infilai in
tasca.
«Hai paura che ti ci accoltelli?» disse.
«Stammi molto bene a sentire. Edgar beve?».
Stella capì che non avrei mollato tanto facilmente. Sedette al tavolo della
cucina e disse che non capiva perché dovesse starmi a sentire. Mi sedetti
anch'io. Le dissi che Ruth Stark era stata la moglie di Edgar, ma prima an-
cora la sua modella, di più, il cuore, l'origine stessa del suo lavoro. Questo
almeno fino a quando, per una qualche ragione, non lo aveva deluso. Allo-
ra la sua idealizzazione era crollata, e Edgar aveva cominciato a sviluppare
una serie di deliri morbosi che si erano dilatati fino a sfuggire del tutto al
suo controllo. A questo punto aveva ucciso Ruth, poi le aveva tagliato la
testa e l'aveva mutilata. Senza mai dare segno di capire davvero perché lo
avesse fatto, né di provare un sincero rimorso.
Stella rimase ad ascoltare in un silenzio assente, rifiutando di guardarmi
in faccia. Quindi ripeté più volte che stavo sprecando il fiato, perché in-
nanzitutto lei non sapeva dove fosse Edgar, e in secondo luogo non aveva
alcuna ragione per vederlo; e ora, se non avevo altro da aggiungere, mi
pregava di andarmene. Le dissi ancora una volta che avevo voluto solo
metterla in guardia, e la pregai di prendere molto seriamente le mie parole,
qualsiasi cosa intendesse fare; quindi me ne andai. Più tardi mi raccontò
che subito dopo corse di sopra, si gettò sul letto e scoppiò in lacrime. Mi
odiava per quello che le avevo appena fatto.
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta sul letto a piangere. Sperava
che insieme alle lacrime scivolassero via sia l'angoscia delle ultime setti-
mane sia la consapevolezza che, ormai, noi sapevamo. Ma se davvero sa-
pevamo, pensò, per loro era finita. Questo innescò un'altra crisi di dispera-
zione, e Stella pianse fino a sentirsi esausta, svuotata. Poi cominciò a pen-
sare. Si girò su un fianco e decise che, tutto sommato, non era detto che
fosse davvero finita.
Andò in bagno a sciacquarsi la faccia, poi passò davanti alla toletta per
riparare i danni. Non è detto, si ripeteva, non è affatto detto. Se mollava
adesso, se non tornava a Londra, Edgar non avrebbe corso rischi, ma sa-
rebbe stata la fine. Se prendeva tempo, la prossima volta non l'avrebbe più
trovato. Ma se si muoveva subito, se andava subito da lui, che cosa a-
vremmo potuto fare? Niente, se si muoveva subito non potevamo fare
niente.
Se si muoveva subito. Tornò di sotto, in soggiorno. La casa era vuota.
Max si fermava a colazione in ospedale e Mrs Bain era tornata a casa sua.
Charlie era a scuola. Bevve qualcosa. Se si muoveva subito. Camminò a-
vanti e indietro per il soggiorno. Faceva freddo, e c'era una leggera fo-
schia. Da fuori arrivava l'odore del fumo. Muoversi subito significava sali-
re di sopra, riempire una valigia e chiamare un taxi per farsi portare alla
stazione. Da lì sarebbe andata in Horsey Street senza più tornare indietro.
Dopo un altro bicchiere chiamò il taxi. Rimase per qualche attimo in-
chiodata dov'era a pensare a cosa ne sarebbe stato di Charlie, e per poco
non cambiò idea. Ma non lo fece, scacciò quel pensiero. Il taxi arrivò, e
Stella disse all'autista di portarla alla stazione. Lungo la strada gli chiese di
fermarsi davanti alla banca, dove ritirò le poche centinaia di sterline che lei
e Max avevano sul conto comune. Nell'atrio della Victoria Station si sentì
oppressa dalla calca, e con una certa ansia si fece largo fino al bar. Non se
la sentiva di bere di nuovo, così andò a sedersi a uno dei soliti tavolini sul
fondo dove si fece portare un caffè. Poi fumò una sigaretta. Era terrorizza-
ta. Si vide mentre posava una moneta di fianco al piattino, si alzava dalla
sedia e raccoglieva valigia e borsa, poi, in uno stato di assoluto strania-
mento, si vide che usciva dal bar come una qualsiasi signora in arrivo dalla
provincia per un pomeriggio di commissioni, e magari un teatro in serata
(il che giustificava la valigia). Come una di loro, Stella uscì dalla stazione
e si avviò alla fila dei taxi. Dopo aver dato l'indirizzo al taxista si sistemò
dietro, accese un'altra sigaretta e si mise a guardare fuori dal finestrino.
Quasi subito il senso di distacco si trasformò in una specie di euforia: non
c'erano altre decisioni da prendere. Lo aveva fatto, e adesso sentiva solo
quella specie di ebbrezza, di vertigine che la prendeva sempre, prima di in-
contrare Edgar: l'unica cosa importante era che i pochi minuti che li sepa-
ravano smettessero di trascinarsi e cominciassero a volare finché non fos-
sero stati di nuovo insieme.
Adesso ogni semaforo, ogni ostacolo lungo la strada ce l'avevano con
lei. Alla sua sinistra, con la coda dell'occhio, vedeva il fiume brillare al so-
le, la foschia del mattino dissolversi, e sulla riva opposta la cupola di St
Paul. Un attimo, e arrivarono nella zona dei magazzini. Un altro, e Stella si
ritrovò con la sua valigia all'inizio di Horsey Street, mentre il taxi ripartiva.
Si avviò verso il fiume, i tacchi alti che picchiettavano sul selciato. In
fondo alla strada due ragazzini calciavano un pallone contro un muro, u-
sando come bersaglio la sagoma umana che ci avevano disegnato sopra col
gesso. Imboccò il vicolo. Nel cortile tirava vento, e i fogli di giornale vor-
ticavano in cerchi sempre più stretti a pochi centimetri da terra. Improv-
visamente un treno sfrecciò rombando sul viadotto, sopra il mercato della
frutta, facendola trasalire.
Salì di corsa le scale fino all'ultimo piano. La porta era chiusa a chiave.
Appoggiò la valigia per terra e bussò. Niente. Chiamò attraverso la porta
con tutta la voce che si sentiva di usare. Ancora niente. Era di nuovo spa-
ventatissima. Che Edgar potesse essere fuori non lo aveva proprio messo
in conto. Bussò di nuovo, lo chiamò a voce più alta, poi si sedette sulla va-
ligia ad aspettare. Venti minuti dopo scattò in piedi sentendo qualcuno sa-
lire. Non c'era modo di nascondersi, tanto valeva rimanere lì. I passi diven-
tarono più pesanti, e una figura comparve sul penultimo pianerottolo. Con
enorme sollievo, Stella vide che era Nick.
«Grazie al cielo. Lui dov'è?» disse.
«Non ti aspettavamo».
«Non sapevo che sarei venuta. È dentro?».
Nick bussò, urlando a Edgar di aprire. Finalmente la porta si aprì, e sulla
soglia c'era Edgar, che la guardava. Stella raccolse la valigia.
«Posso entrare?» disse.
Gli occhi di Edgar si fermarono per un attimo su Nick, poi tornarono su
di lei. «Vieni a stare qui?».
«Sì».
«Lo hai lasciato?».
Stella annuì.
«Stai con noi, adesso?».
«Sto con te».
Edgar sorrise con quel suo largo sorriso da lupo, le passò cameratesca-
mente un braccio intorno al collo ed entrarono dentro allacciati, ondeg-
giando. Poi rimasero stretti in un abbraccio, in mezzo alla stanza.
Com'è ovvio non avevo affatto escluso che Stella potesse fare qualcosa
del genere, ma ero incline a ritenere che mi avrebbe dato ascolto. Sottova-
lutavo, credo, sia la sua disperazione sia il potere che evidentemente Edgar
aveva su di lei. Risultato, da qui in poi la perdo di vista, e di quanto accad-
de nei giorni successivi so soltanto quello che in seguito mi ha raccontato
lei, con parole sconnesse, frammentarie, e spesso cariche di emozione. Una
delle prime cose che le chiesi fu come pensava avessimo reagito alla sua
scomparsa. Stella era in grado di descrivere la scena con lucidità e preci-
sione. Rientrando a casa, Max si sarebbe chiesto dove fosse finita. Anche
Charlie, a quell'ora, doveva essere tornato da scuola, benché Stella prefe-
risse non pensare all'effetto che tutto questo poteva avere avuto su di lui.
Sarebbe partita qualche telefonata, poi lo sconcerto si sarebbe trasformato
in preoccupazione, quindi in angoscia. A un certo punto della serata Max,
Jack e io ci saremmo riuniti per cercare di capire che cosa fosse successo.
In un primo momento Max si sarebbe rifiutato di accettare l'evidenza, poi,
via via che passavano le ore e di Stella continuava a non esserci traccia, si
sarebbe reso conto di quello che lei gli aveva fatto. Stella disse di non aver
voluto pensare né allo stato d'animo di Max, né a Charlie e a come gli a-
vrebbero spiegato la sua assenza. Mentre preparava la valigia e chiamava il
taxi senza neppure una riga di spiegazione lo aveva volutamente lasciato
fuori dai suoi pensieri, cercando di sovrapporlo a Max, di renderlo tutt'uno
con l'uomo che stava lasciando. Immaginare la sua reazione sarebbe stato,
ovviamente, troppo pericoloso. Si era rifiutata di farlo anche il mattino do-
po, quando ormai la situazione le era perfettamente chiara. L'unica traccia
di senso di colpa era una presenza in ombra dietro la luce del suo amante.
E non poteva guardarla, doveva fingere di non vederla, ne andava della sua
felicità.
Ma come era stata quella prima notte?
Stupenda, ma neanche, era stata la notte più bella della sua vita. Nick era
uscito a prendere pesce fritto e patatine e qualcosa da bere, poi erano rima-
sti ore seduti al tavolo di cucina. Era come se l'avessero rubata, quella fe-
licità, anzi come se l'avessero trovata per caso e se la fossero portata via di
corsa, perché in realtà apparteneva a qualcun altro e loro non ne avevano
alcun diritto. Rimasero a bere fino a tardi, e Stella era elettrizzata alla pro-
spettiva di passare la notte lì senza dover mai più tornare al nostro ospeda-
le. Nel loro cerchio magico era compreso anche Nick. In fondo era stato
fin dall'inizio il loro amico, e il loro salvatore, e poi quel posto era suo, era
lui che aveva offerto loro un rifugio. Stava bene con Nick, e lui con lei, ed
era evidente che la triste vita che i due artisti avevano condotto fino a quel
momento stava per cambiare in meglio. Quanto a Edgar, immagino benis-
simo la sua soddisfazione per la piega che avevano preso gli eventi. Ce l'a-
veva portata via, l'aveva convinta a lasciarsi alle spalle ogni sicurezza e a
seguirlo nella latitanza, dove Stella credeva di trovare la libertà. La libertà!
Come sempre, Edgar non perse tempo. Sapeva cosa voleva, credo sin da
prima della fuga, e credo fosse per questo che si era spinto a fare quella
folle telefonata da Londra: voleva scolpire la sua testa. Adesso era di nuo-
vo un artista, ed era smanioso di tradurre in una qualche forma di espres-
sione il suo rapporto con Stella, il complesso di emozioni forti che lei gli
aveva fatto provare. Passò un'ora nello studio lavorando a uno schizzo. Per
Stella era tutto affascinante: vedere gli occhi di lui che si alzavano dal fo-
glio, sentirsi addosso quel suo sguardo impersonale, e poi i rumori: i fru-
scii della matita sul blocco, e i mormorii e i sospiri di Edgar. Sembrava che
stesse eseguendo una delicata operazione chirurgica, non un disegno. Era
la prima volta che lo vedeva lavorare sul serio, e si rese conto che solo a-
desso cominciava a conoscerlo.
Più tardi guardò quello che Edgar aveva fatto, e ciò che vide la sbalordì.
Era un groviglio di linee multiple, contorni sbavati, tratteggi, spirali. Forse
sentiva la propria presenza, in quel ritratto, ma non vi si riconosceva. Le
sembrava tutto così provvisorio e incerto, così indefinito, in qualche modo.
Chiese a Edgar se avesse sempre disegnato così. Nello studio, seduto sul
davanzale della finestra, c'era anche Nick.
«Ho sempre disegnato così?».
Edgar scambiò con Nick un largo sorriso e un'occhiata.
Stella era in piedi vicino al tavolo e guardava il foglio, scura in viso.
«Intendo dire,» fece «perché?».
Edgar le si avvicinò. «Perché cosa?».
«Perché non fai i contorni? Sarà una domanda stupida, ma è come... co-
me se non sapessi chi sono».
«È questo il punto» disse Nick.
«Quello che non voglio» disse Edgar «è vederti...».
Si passò una mano sulla faccia, irritato per essere costretto a spiegarlo a
parole. Aveva le mani macchiate di grafite. Si scostò i capelli, ormai lun-
ghi e incolti, dagli occhi, sporcandosi la fronte. Non capiva bene neanche
lui perché lavorasse come lavorava. E per quanto strano possa sembrare,
negava le proprie emozioni.
«Vedermi come?».
«Come ti vedi tu. O come ti vedono gli altri. Come una donna affasci-
nante, bellissima. Non me ne importa nulla. Io cerco solo un'immagine rea-
listica. La realtà, capisci?».
No, Stella non capiva.
«Nel senso che vuoi vedermi dal di fuori, come se fossi un'estranea?».
Adesso anche lui guardava corrucciato il disegno, picchiettando con im-
pazienza la matita sul tavolo.
«Neanche».
«Come un oggetto?».
Edgar si strofinò la macchia sulla fronte.
«Una cosa inanimata? Insensibile?».
«No, non inanimata. Solo quello che vedo».
Qui Stella cominciò a scorgere un significato.
«Non quello che senti».
«Ecco. Non quello che sento».
«E questa sarebbe la realtà».
«Questa sarebbe la verità» disse Nick.
Edgar alzò lo sguardo e gli lanciò un'occhiataccia. «Questa sarebbe una
gran stronzata» disse, e i due uomini scoppiarono a ridere. Edgar continuò
a sorridere a Nick, poi attraversò la stanza, gli prese la faccia tra le mani e
lo baciò in fronte. Nick aveva un'aria un po' ridicola, tanto pareva felice
per quello slancio.
I primi giorni insieme furono più o meno tutti uguali. Passavano la mat-
tina a letto, poi si vestivano e scendevano di sotto. Stella non si truccava
più, portava un foulard e una vecchia camicetta su una gonna nera qualsia-
si o su dei calzoni. Preparava qualcosa e mangiavano in cucina con Nick.
Dopo pranzo Edgar si metteva al lavoro, e Stella posava per tre ore di se-
guito, a volte anche quattro. La concentrazione di Edgar era assoluta. Le
aveva detto che prima di cominciare il modellato vero e proprio aveva bi-
sogno di disegnare. Il terzo giorno la fece posare nuda su un lenzuolo da-
vanti al muro. Lui sembrava perfettamente a suo agio, e lei si mostrò al-
trettanto disinvolta. Nick si affacciò dal fondo dello stanzone e rimase a
guardarla freddamente. Stella pensò che non importava. Edgar non si era
accorto di lui, ma appena Nick aprì bocca gli disse, senza alzare la voce, di
togliersi dalle scatole. Per Stella fu un'esperienza molto eccitante.
Quando Edgar aveva finito, Stella andava a sedersi per conto suo al ta-
volo di cucina, e si guardava nello specchietto del portacipria cercando di
vedere quello che vedeva lui. Se tornava nello studio Edgar la ignorava,
continuando a lavorare, oppure la portava di sopra, a letto.
La sera Stella cucinava di nuovo per tutti, a meno che Nick non uscisse a
rimediare un po' di pesce fritto. Poi si prendevano una sbronza tutti insie-
me e parlavano. Parlavano di qualsiasi cosa, ma soprattutto di arte.
Dopo giorni e giorni passati al chiuso Edgar era sempre più irrequieto, e
una sera andò con Stella fino al fiume, a guardare le torri di Cannon Street
e la cupola di St Paul sull'altra riva. Da quella volta cominciarono a uscire.
Non entravano ancora nei pub, ma nelle stradine buie si sentivano abba-
stanza al sicuro. Se qualcuno gli si avvicinava si infilavano in un portone o
in un vicolo e si abbracciavano, eccitandosi al punto da correre, a volte, ri-
schi superflui. Il fatto - ormai quasi preoccupante, secondo Stella - era che
appena si sfioravano i loro corpi prendevano fuoco. Né lei né Edgar sem-
bravano in grado di controllare la fame che avevano l'uno dell'altra. Edgar
la notte dormiva profondamente, ma lei rimaneva sveglia per ore nel buio a
guardare il soffitto e ad ascoltare i treni che passavano rombando sul via-
dotto.
Una notte aveva sentito il Big Ben battere le quattro, si era girata su un
fianco e aveva guardato Edgar dormire. Chi era? Chi era quell'estraneo, il
suo amante? Si accese una sigaretta. Ricordò la prima impressione che a-
veva avuto di lui, di quell'uomo coi calzoni gialli che restaurava la serra. Si
ricordò del ballo, di quando aveva sentito la sua erezione premerle addos-
so, e si era eccitata perché lui era eccitato, e l'aveva voluto perché lui vole-
va lei. Poi la brusca impennata della loro storia, il terrore sempre più forte
di venire scoperti, e la fuga. E adesso tutto questo. Ma lui chi era? Dagli
episodi frammentari delle ultime settimane cercò di ricostruire un uomo.
Adesso era più forte. Da quando era libero parlava e si muoveva con u-
n'autorevolezza che all'ospedale non gli aveva mai conosciuto. Bastava ve-
derlo con Nick. Per gran parte del tempo sembravano vecchi colleghi, e
amici intimi, ma appena saltava fuori un problema serio Nick, prima di e-
sprimere un'opinione, aspettava di vedere cosa ne pensasse Edgar. E del
resto con lui un po' tutti avevano un atteggiamento deferente. Durante le
discussioni Stella rimaneva in disparte, limitandosi ad ascoltare. Tirava giù
uno dei volumi gualciti di riproduzioni di Nick e si metteva a sfogliarlo sul
tavolo, guardando le tavole e cercando di capire che sensazioni le suscitas-
sero.
Si lasciò scivolare nel dormiveglia. Pensava alla parola che Edgar aveva
usato, realtà, all'idea di riuscire a staccarsi dagli interessi e dai sentimenti
degli altri e diventare puro sguardo. Avrebbe saputo vedere Edgar in quel
modo? E sarebbe stata la verità? Si sporse dal materasso per spegnere la
sigaretta. Adorava dormire con lui sotto quella coperta ruvida. Adorava
svegliarsi al mattino e trovarlo ancora vicino a lei.
Durante il giorno, quando Edgar non aveva bisogno di lei per lavorare,
Stella scendeva in cortile a prendere una boccata d'aria. Il mercato dall'al-
tra parte della strada era coperto da un'alta tettoia vetrata sorretta da snelle
colonnine di metallo, dagli elaborati montanti traforati. Molte bancarelle
erano chiuse e ingombre di casse di legno e scatole di cartone. Una mattina
Stella vide due uomini caricare dei sacchi di patate sul pianale di un ca-
mion polveroso. Quando si rese conto che l'avevano notata si allontanò,
perché ormai evitava per istinto di attrarre l'attenzione. Prese Horsey
Street, poi girò verso il fiume e si imbatté in una grande chiesa, antica e fa-
tiscente. Fu sorpresa di trovare una chiesa lì, in fondo a quell'oscuro intrico
di strade e vicoli. E lo fu ancora di più scoprendo che si trattava della cat-
tedrale di Southwark.
Appena dentro ebbe la sensazione di trovarsi in un'isola di pace, che in
centinaia di anni il male e la violenza non avevano scalfito. Si sedette in
fondo e guardò un barbone che parlava concitato con un giovane sacerdote
dalla lunga tonaca nera. In una cappella laterale vide un uomo di mezza età
assorto in preghiera, coi calzoni del gessato che spuntavano sotto il cappot-
to nero. Contò i venti santi nelle nicchie dietro l'altare e si fermò vicino al-
la tomba del primo poeta inglese, la cui effigie era in posizione di riposo,
con le mani strette in preghiera sul petto e la testa poggiata su tre libri, uno
dei quali era la Confessio Amantis. Tornò in Horsey Street rinfrancata dal-
l'ora di serenità trascorsa nella chiesa, ma non ne parlò né a Nick né a E-
dgar. Sospettava che la cattedrale sotto casa non li avrebbe interessati più
di tanto.
Cominciarono a passare qualche sera al pub. Nick o Stella andavano al
banco a prendere da bere mentre Edgar rimaneva seduto al tavolo nell'an-
golo più buio del locale. Non sembrava così rischioso. Erano tutti pub da
due soldi, con il pavimento di assi e il rivestimento di legno alle pareti cor-
roso dagli anni. Poco illuminati e squallidi, accoglievano uomini e donne
ansiosi di affogare il tedio delle loro giornate dure e monotone in una birra
o un liquore scadente. Nessuno faceva caso a Stella e ai due artisti scalci-
nati chini sui loro bicchieri e le loro sigarette, che parlavano a voce bassa
in fondo alla stanza. Stella trovava già più emozionante andare al Sou-
thwark o al Globe, perché significava che nella loro vita clandestina si sta-
va facendo largo una sorta di normalità, e che entro certi limiti potevano
comportarsi come persone qualsiasi. Cominciava a intravedere un futuro.
Affrontare il mondo comportava comunque qualche problema. Un saba-
to sera lei e Edgar erano da soli nell'angolo più nascosto di un pub molto
grande e affollato. Il locale era pieno di fumo e di rumore e Stella si senti-
va a proprio agio, parte dell'ambiente. Sedevano vicini su una panca da-
vanti a un tavolino rotondo, e lei gli teneva la mano sotto il tavolo. Anche
se non conoscevano nessuno, in quel pub accogliente e chiassoso tutti le
sembravano, in qualche modo, loro compiici. Stella ripensò con un brivido
a tutti i salotti in cui era stata, ciascuno governato da una moglie o da una
madre di psichiatra, e ricordò l'orribile senso di estraneità che aveva prova-
to ogni volta. Edgar prese i bicchieri e si diresse verso il bancone, mentre
lei lo seguiva con uno sguardo ardente. Il gin la teneva su, trasmettendole
una sorta di pacata euforia.
Tutto, praticamente tutto riusciva a sembrarle romantico.
All'improvviso un uomo si materializzò davanti al tavolo, spogliandola
con gli occhi. Stella abbassò lo sguardo e si mise a frugare nella borsa alla
ricerca delle sigarette, dell'accendino, di una cosa qualsiasi.
«Sola soletta, gioia?» disse l'uomo.
Stella alzò lo sguardo. «No, direi di no. Sono con mio marito».
«Con tuo marito, eh?».
Era un uomo grande e grosso, piuttosto bello, ma aveva bevuto e non fa-
ceva niente per nasconderlo. Appoggiò le mani sul tavolo e si chinò verso
di lei. Stella sperava che se ne andasse. Non le piaceva che le facesse il
verso, e si malediceva per avergliene dato l'occasione.
«Sì, proprio» disse calcando molto il «proprio». Un'idea balorda, perché
l'uomo lo trovò divertente, prese una sedia e si sedette. No, pensò Stella, io
non volevo... In quel preciso momento Edgar tornò con i bicchieri.
«E questo chi è?» disse.
L'uomo aveva piantato i gomiti sul tavolo, e teneva gli occhi fissi su
Stella. Poi si voltò e lanciò un'occhiata a Edgar.
«Questo sarebbe il maritino, vero gioia?».
Stella lanciò a Edgar uno sguardo disperato. Non so nemmeno chi sia,
stava cercando di dirgli. Edgar appoggiò piano i bicchieri sul tavolo, senza
guardare l'uomo. Poi lo prese per il bavero, e adesso la sua grande faccia
barbuta era incollata a quella dell'altro. Intorno a loro si fece improvvisa-
mente silenzio. Stava per succedere qualcosa, e Stella vide con assoluta
chiarezza la scena: la rissa, i bicchieri rotti, il sangue, le urla, la polizia.
Edgar lasciò andare il colletto dell'uomo, che indietreggiò. Poi si sedette.
La gente ricominciò a bere e a chiacchierare. Ma intorno a loro la conver-
sazione si era come smorzata, e Stella sapeva che li stavano ascoltando.
Edgar si arrotolò una sigaretta senza guardarla.
«Che cosa gli hai detto?» mormorò Edgar.
«Niente!».
Lui leccò la cartina, e scosse la testa. «Gli avrai pur detto qualcosa».
Stella gli raccontò in un sussurro concitato cosa era successo. Per un po'
Edgar rimase tranquillo. Pensava forse che lo avesse adescato lei? Era
freddo e distante come non lo aveva mai visto. Stella provò a ripetergli che
l'uomo si era seduto senza essere invitato né incoraggiato.
«Tu non mi tradirai, vero, Stella?» disse alla fine con una voce calma e
amichevole.
«Non dire vaccate!».
«Allora tutto a posto».
Sarà stato anche tutto a posto, ma quella frase pacata, che Stella aveva
sentito così minacciosa, le lasciò un sapore amaro in bocca. Sentì montare
l'orgoglio di un tempo e pensò: vai al diavolo. Guardò dritto davanti a sé,
fumando rabbiosamente la sigaretta a brevi, rapide boccate. Quando sentì
le dita di Edgar sulla coscia e la sua bocca sul collo cercò di ignorarlo, e gli
tolse la mano. Ma non c'era verso, appena lui la toccava si sentiva morire.
«Dammi un bacio, amore» le sussurrò Edgar.
«Crepa» rispose Stella, mordendogli un labbro.
Pochi minuti dopo, mentre correvano a casa nella notte buia e umida,
dimentichi di tutto, smaniosi di arrivare il più presto possibile, videro i po-
liziotti che Stella si era immaginata poco prima. Erano in due. Avanzavano
lentamente nella loro direzione dalla parte opposta della strada, con le ma-
ni dietro la schiena. Stella si strinse a Edgar, aggrappandoglisi al braccio
con tutte e due le mani, ma lui non rallentò il passo. Stella si rese conto che
li avrebbero incrociati proprio sotto un lampione.
«Ci vedranno» mormorò.
Edgar continuava a camminare. Stella non riusciva a pensare a niente, un
rigurgito di terrore cieco le riempiva la gola, ne sentiva persino il sapore.
La nebbia del gin si dissolse rapidamente, e il ticchettio dei suoi tacchi sul
marciapiede bagnato sembrava scandire vi-sti, vi-sti, vi-sti.
Edgar la fece scendere dal marciapiede, poi passarono vicino a una fila
di argani e scesero qualche gradino fino al fiume; lì, dove l'acqua nera
lambiva le pietre, la baciò. Lei gli gettò le braccia al collo e bevve avida-
mente i suoi baci: sperava che, vedendo tutta quella passione, i poliziotti se
ne sarebbero andati, lasciandoli in pace. Adesso sentiva solo il respiro di
Edgar e i passi che si avvicinavano. I poliziotti si fermarono in cima alla
gradinata. Stella passò le dita sulla nuca di Edgar, si riempì il pugno di ca-
pelli, la bocca incollata a quella di lui.
«Via di lì» disse uno dei poliziotti. Poi, un attimo dopo, più forte: «Via
di lì, voi due».
Obbedirono. Si allontanarono imboccando un vicolo, avvinghiati come
due amanti che erano stati interrotti e volevano a tutti i costi preservare il
loro calore, e affrettarono talmente il passo che quando sbucarono sulla
strada stavano correndo.
Si precipitarono nel cortile e salirono le scale urlando. Stella disse che
non avrebbe mai dimenticato quella notte. Anche Edgar sentiva che qual-
cosa era cambiato, che nonostante lo spavento di poco prima adesso pro-
vavano una sicurezza nuova. Il senso di panico, il senso di avere solo un
passo di vantaggio, del fiato caldo sul collo, era scomparso, sostituito da
una provvisoria tracotanza, dalla consapevolezza che ogni ora, ogni giorno
diventava più facile mantenere il vantaggio, confondere le tracce e far per-
dere la pista ai segugi. Per la prima volta Stella sentiva che era valsa la pe-
na di saltare nel vuoto, perché alla fine avrebbero trovato il posto sicuro
dove amarsi senza paura. E fu in quello spirito che fecero l'amore: senza
paura, liberamente, mentre i treni rombavano sul viadotto nella notte. E
Stella lo fece ridendo, gridando, urlando al magazzino intero tutta la vita
che aveva dentro, senza curarsi se Nick sentisse o meno. Almeno, così è
come lo descrisse.
VII
Quando Stella tornò dalla cattedrale era pomeriggio inoltrato. Edgar non
le chiese scusa. Si era rimesso a lavorare senza accendere la luce, e lo
stanzone, con le imposte socchiuse, era immerso nella penombra. La luce
del giorno, il suo abbacinante chiarore, avevano avuto il loro momento,
adesso era il tempo del buio, del gin, e infine del sonno. Una notte di buio
e di gin. Erano tutti e due depressi, non parlavano, non avevano voglia di
uscire. Stella era sul letto, buttata sopra le coperte in calze e slip, una don-
na alla deriva in un mare di boccette vuote e giornali vecchi. Quando si fe-
ce buio Edgar non accese neanche la luce, ma aprì le imposte, e i lampioni
della strada diffusero nello studio un alone grigiastro. L'unica cosa che
Stella voleva era ubriacarsi e tentare di vedere le cose con un minimo di
ottimismo. Si portò il gin nello studio e andò alla finestra. Edgar continuò
a lavorare curvo sull'argilla, senza neanche voltarsi.
«Vorrei che ci fosse Nick» disse Stella, e lo vide irrigidirsi.
Si svegliò all'alba. Non si era neppure infilata sotto le coperte, in com-
penso ci aveva rovesciato sopra il gin. Edgar si era buttato sul letto senza
spogliarsi, e dormiva. Stella si tirò a sedere. Aveva la bocca secca, impa-
stata. Sentiva il saporaccio amaro del gin, che a stomaco vuoto le faceva
pulsare la testa. Mise a letto Edgar e si riaddormentarono di schianto.
Il giorno dopo, mentre cercava svogliatamente di dare una pulita, pensò
che è impossibile elevarsi al di sopra dell'ambiente in cui si vive; non mol-
to a lungo almeno. Basta stare in un lurido buco e guardarsi allo specchio
per vedere qualcosa di altrettanto lurido, e cominciare a comportarsi di
conseguenza. Stella era sempre stata considerata una donna bellissima; a-
desso le avevano tolto anche quello. In un posto così la bellezza era fuori
luogo, e per quanto Stella cercasse di rimediare con il trucco, l'unico risul-
tato era che somigliava sempre più a una puttana.
Sembrava che Edgar non se ne rendesse conto, o quantomeno non se ne
preoccupava. A preoccuparlo era lei. L'episodio del cortile lo aveva inso-
spettito, mettendogli in testa che volesse tornare da Max. Lei cercava di
spiegargli che semmai le mancava Charlie, non certo Max, non poteva non
capirlo. Eppure, a quanto pareva, non lo capiva: sembrava aver perso quel-
la prontezza cui Stella era così abituata. Quando faceva così, mi disse, di-
ventava volgare. Persino la voce gli si involgariva.
Io penso che fosse solo spaventato. Penso che scambiasse qualsiasi ma-
nifestazione di stanchezza da parte di Stella per il segno di un abbandono
imminente. Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino
sperduto e indifeso.
La sera dopo, al pub, Edgar le fece paura. Era così strano, si comportava
come se qualsiasi uomo che vedeva fosse lì per portargliela via. Rimase
per un pezzo a borbottare fra sé, con rabbia, poi se ne accorse e smise,
scrollando la testa, imbarazzato e stupito da quella voce estranea che senti-
va uscirgli da dentro: la voce distorta e ripugnante della gelosia, del terrore
e del bisogno. Stella non sopportava di vederlo soffrire così, di vederlo lot-
tare inutilmente per non trasformarsi in quell'essere che odiava, che non
voleva diventare. Prendendogli la mano gli disse con molta forza di resi-
stere, di continuare a combattere, perché sarebbe andato tutto bene, e lei
non lo avrebbe mai lasciato. Alla fine, con grande fatica, Edgar riuscì a
dominarsi, e per un po' sembrò tornato quello di un tempo. Ma adesso Stel-
la non poteva fidarsi, perché non sapeva quanto sarebbe durata. Vedeva un
uomo diviso: l'uomo che aveva conosciuto all'ospedale c'era ancora, ma
adesso era come invaso, come posseduto da uno spirito che non era il suo.
Provò a dirgli che dipendeva dalla tensione in cui vivevano, e che avevano
solo bisogno di un po' di tempo, ma non riuscì a convincerlo fino in fondo.
Edgar continuava a sfregarsi la testa con un'espressione torva, come se
cercasse di scacciare un brutto sogno, non una malattia.
Quanto tempo avevano? Stella rimaneva sveglia la notte a chiedersi per
quanto poteva andare avanti così. Il livido sulla faccia si vedeva ancora, e
la gente da quelle parti era piuttosto smaliziata. Stella si accorgeva benis-
simo degli sguardi di solidarietà delle altre donne, e quando uscivano la se-
ra vedeva i loro occhi che scrutavano Edgar per paragonare il suo bruto ai
loro. Era una sensazione molto sgradevole. In ognuna di quelle occhiate
avrebbe potuto balenare, all'improvviso, il lampo di un riconoscimento. E
intanto i giorni passavano. Stella faceva l'impossibile per sostenere Edgar,
anche se quando andava a dormire e lui tornava al suo lavoro ricominciava
a pensare a Charlie, e a piangere in silenzio sul cuscino. Ora che doveva
trattare Edgar come un bambino, un bambino suscettibile e bisognoso d'af-
fetto, Stella si domandava perché si occupasse di quel bambino, e non del
suo.
Che fosse rimasta con lui mi sembrava tutto sommato logico. In fondo
credo che, nonostante tutto, lo amasse, o almeno si dicesse che lo amava, e
in queste cose le donne sono ostinate. Aveva fatto la sua scelta, era andata
da lui di sua volontà, e adesso non sarebbe certo corsa a casa solo perché
Edgar era malato, e quindi meno responsabile. Quello che mi sorprendeva,
semmai, era che fosse riuscita a ignorare le molteplici avvisaglie di un'im-
minente esplosione di violenza. Ma va detto che le capacità di negazione di
Stella erano sbalorditive, tanto da farle addirittura dimenticare ciò di cui
Edgar era capace. Neanche quando vide quello che stava facendo al suo
lavoro, neanche allora arrivò a riconoscere il pericolo che stava correndo.
Fu svegliata all'alba dalle grida del mercato. Edgar dormiva vicino a lei.
Stella si alzò, si infilò l'impermeabile e scese nello studio. Aprì le imposte,
lasciando entrare la pallida luce autunnale. Fumò una sigaretta e ascoltò il
mercato che si animava. Poi, d'impulso, scostò a uno a uno gli stracci umi-
di che, come sempre, coprivano l'argilla. Quello che vide era orribile, e
impressionante. È probabile che quella testa e quelle spalle stranamente
oblunghe, innegabilmente sue, ma piene di tagli e di buchi, le avessero fat-
to finalmente capire a quale livello di violenza fosse arrivato Edgar con le
sue mani e con i suoi strumenti. Si sentì male, e ricoprì immediatamente la
testa. Ma invece di correr via da lì, di mettersi in salvo, tornò a letto, e
strinse Edgar fra le braccia.
VIII
Appena buio Edgar uscì senza una parola. Stella lo sentì andar via, quel-
l'uomo così forte, e non perse tempo. Aveva pianificato tutto fin nei detta-
gli. Per vestirsi e riempire la valigia le ci vollero una decina di minuti. Si
mise l'impermeabile, il foulard e gli occhiali scuri e si precipitò giù dalle
scale. Si fermò nell'andito e gettò un'occhiata al cortile. Era deserto. Cam-
minò rapidamente fino alla strada, poi si fermò accanto al muro per con-
trollare che Edgar non stesse tornando. Via libera. Un vento freddo saliva
dal fiume. Si allontanò di corsa.
Una mezz'ora dopo Stella entrò con circospezione in un piccolo pub
piuttosto squallido dalle parti di Waterloo. Era un locale pulito, caldo, vuo-
to, e pericoloso; Stella pensò che Londra era piena di locali identici a quel-
lo, posti apparentemente sicuri, ma in ciascuno dei quali, da un momento
all'altro, poteva entrare Edgar. L'unico cliente, oltre a lei, era un tale con
l'impermeabile grigio, che se ne stava al banco col giornale della sera e il
suo bicchiere di birra. Un tappeto sul pavimento e un caminetto a gas acce-
so. Vicino al fuoco, nell'angolo, un tavolino rotondo con le gambe di me-
tallo. Tutto qui: un uomo al banco, il tepore del caminetto, le calde luci
soffuse, le sigarette, l'alcol, e fuori il freddo e il crepuscolo, uno studio
vuoto, un pazzo. Stella decise di bere qualcosa al tavolino. Chiese alla ba-
rista un pacchetto di sigarette e un gin tonic abbondante e se li portò vicino
al caminetto, dove si sistemò con la guancia tumefatta rivolta verso il mu-
ro. Allungò il gin con l'acqua tonica e si accese una sigaretta. Dopo un paio
di minuti si rese conto che l'uomo al banco la stava osservando, ma appena
lei alzò lo sguardo lo vide tornare al suo giornale.
L'atmosfera era calda e tranquilla, le luci basse. Dato che le era avanzata
un po' di acqua tonica, Stella prese un altro gin. Quando si avvicinò al ban-
co l'uomo le chiese se voleva bere qualcosa con lui. Stella rispose di no,
che stava aspettando suo marito. Probabilmente, mi disse Stella, si stava
chiedendo il perché degli occhiali scuri, e anche del livido in faccia, ma
che pensasse pure quello che voleva, per lei era lo stesso. Si portò il gin al
tavolino vicino al caminetto e ricominciò ad aspettare. Aveva scelto quel
pub perché subito fuori c'era una cabina telefonica. Prima di entrare aveva
cercato Nick, ma le avevano detto che era uscito. Avrebbe richiamato fra
mezz'ora.
Un'ora dopo non era ancora tornato. Sentiva la tristezza montare in lei,
un'onda dopo l'altra, ma si diceva severamente, con un tono che conosceva
bene, il tono di Max, che non doveva fare la stupida né commiserarsi - do-
veva darsi un contegno. E in una situazione simile era davvero il colmo
che le venisse in aiuto uno dei precetti di Max contro gli eccessi dell'emo-
tività femminile. Datti un contegno, cara, sei in un posto pubblico, vuoi da-
re spettacolo? Sì, era proprio questo che la sconvolgeva, l'idea di dare spet-
tacolo. Come se ci fosse una cornice intorno alla figura piangente seduta al
tavolino, una cupa cornice nera con sotto il titolo: «Melanconia». Nono-
stante la faccia indolenzita Stella sorrise, mentre le lacrime continuavano a
rigarle silenziosamente le guance. Dal bar arrivarono delle risate maschili.
Adesso basta, si disse Stella, ma servì solo a peggiorare le cose: l'uomo al
banco si voltò e cominciò a fissarla ostentatamente. Stella diede di nuovo
spettacolo uscendo a chiamare Nick una terza volta.
***
Stella disse che i due giorni passati con Nick erano stati i più deprimenti.
Le era rimasto impresso solo qualche dettaglio. Nick era una persona piut-
tosto sporca, mangiava nelle scatolette, si puliva le mani sui calzoni. Era
gentile e affettuoso, certo, ma non faceva che fissarla, e non con tenerezza,
ma con bramosia. Stella si chiedeva se sarebbe stato capace di violentarla.
Lei passava ore e ore sul letto matrimoniale sfondato, e la lampadina appe-
sa al soffitto mandava una fioca luce giallastra che imbruttiva tutto, loro
due inclusi. Rimaneva coricata lì a preoccuparsi per Edgar. La sua paura
era che ormai fosse troppo disturbato per non attrarre prima o poi l'atten-
zione su di sé. Temeva che facesse qualche stupidaggine.
E il loro futuro insieme?
Oh, mi disse con un'aria spensierata, di quello non aveva mai dubitato.
Sapeva che il filo non si era spezzato, sentiva che anche nelle sue peggiori
crisi di gelosia Edgar non aveva smesso di amarla, che la sua passione era
solo confusa e deviata, come se fosse stata infilata a forza in qualche oscu-
ro cunicolo da cui era riemersa mostruosa e irriconoscibile. E quel cunico-
lo era la sua malattia. E mi rivelò che proprio durante i due giorni passati
con Nick aveva tentato per la prima volta di seguire quello che chiamava
l'istinto del cuore, cioè di separare, su un piano non intellettuale ma emoti-
vo, l'uomo dalla sua malattia, e si era accorta che sì, ci riusciva. Oh, era fa-
cile, poteva farcela tranquillamente, vedeva Edgar con la testa fra le mani
mentre l'uragano infuriava nella sua povera mente ottenebrata, ma l'uraga-
no e lui erano due cose diverse! Passato l'uragano sarebbe guarito, sarebbe
stato di nuovo lui. Ma nei momenti di pazzia doveva stargli lontano, per il
suo bene; sarebbe tornata da lui più tardi. Decise di credere a tutti i costi
che sarebbe andata così, per quanto impossibile potesse sembrare.
Nick aveva troppa paura per tornare nel sottotetto, o anche solo per usci-
re, e così finirono col passare troppo tempo insieme. Presto Stella diventò
insofferente, ma non aveva più soldi e non sapeva come trovarne. In fondo
al corridoio c'era un bagno, che lei e Nick condividevano con gli altri
clienti del piano. Stella ci passava più tempo possibile, anche solo per
sfuggire a Nick, ai suoi odori, alla sua ansia, alle sue voglie. La casa puz-
zava di cavolo bollito, e a quanto pareva ospitava solo esseri grigi e sciatti,
che quando la incrociavano in corridoio o per le scale evitavano il suo
sguardo.
Alla fine Stella non ce l'aveva fatta più. E se l'era presa con Nick. La
mattina del terzo giorno, dopo un'ennesima notte agitata e infelice, Stella
ci era andata a letto. Era stato un momento di debolezza, o forse era solo
stufa di vederselo ronzare intorno con la lingua di fuori. Era rimasta prati-
camente immobile, anche perché era un po' indolenzita. C'era stato un solo
aspetto positivo, che mentre Nick si dava macchinosamente da fare per
raggiungere l'orgasmo Stella, all'improvviso, si ricordò come fosse fare
l'amore con Edgar. E così, nella sua lancinante degradazione, ritrovò l'im-
magine del suo amante.
Una volta finito, Nick commise l'errore di mostrarsi pateticamente com-
piaciuto, e fu questo a far scattare la molla. Stella gli si rivoltò contro, lo
prese ferocemente in giro, gli disse che era un debole, che non sapeva cosa
farsene di un uomo così moscio, e quando Nick provò a dire che le voleva
bene e la voleva aiutare lo mandò all'inferno. Poi andò in bagno, tornò e si
vestì davanti a lui, provocandolo apertamente; quindi uscì senza dirgli do-
ve stava andando, perché non lo sapeva nemmeno lei. Lo lasciò a leccarsi
le ferite, come un cane bastonato.
Vagabondò per le strade, una donna triste e stordita, con l'impermeabile
aperto e una sigaretta tra le dita. Non le importava dell'effetto che poteva
fare. Una donna triste alla deriva per strade tristi, incorporea, irreale, forse
solo un fantasma. Alla fine prese una decisione.
D'improvviso, mi disse, le parve assurdo continuare a nascondersi, e non
dalle autorità dell'ospedale, ma da Edgar! Prese un autobus che la portò a
Blackfriars, da dove raggiunse Horsey Street a piedi, sotto la pioggia. In
strada i soliti ragazzini giocavano a pallone contro il muro, ma al suo pas-
saggio si fermarono. La guardarono infilarsi nel vicolo che portava al cor-
tile, e quella loro attenzione silenziosa ebbe un effetto tutt'altro che tran-
quillizzante. Il suo terrore era quasi fisico, adesso. Aveva la nausea. Conti-
nuava a inciampare, e pensò che non ce l'avrebbe fatta a proseguire.
Entrò nell'andito. Anziché riprendere il gioco, i ragazzini l'avevano se-
guita fino al cortile, e adesso se ne stavano lì a guardarla in silenzio. Presto
Stella capì perché. La porta in cima alle scale era aperta, e nel sottotetto
c'era qualcuno. Stella tornò immediatamente indietro, ma ormai l'avevano
vista. Continuò a scendere anche quando una voce la chiamò. Un uomo la
rincorse, raggiungendola a metà delle scale. Solo un momento, prego, dis-
se appoggiandole una mano sulla spalla. Lei si voltò, e l'altro la riconobbe.
Cristo, disse, è Mrs Raphael. Lei è Stella Raphael. Stella lo guardò. Non
l'aveva mai visto. Lui cominciò a chiamare gli altri uomini. In un attimo ne
arrivarono due, entrambi sorpresi quanto il primo. La riportarono nel sotto-
tetto. Edgar non c'era, e a quanto pareva non sapevano dove fosse. Vole-
vano farle qualche domanda, dissero. Se non le dispiaceva.
IX
Dopo questa svolta drammatica Stella rientra nel mio campo visivo, ri-
torna a fuoco; il mio resoconto si basa quindi di nuovo sull'osservazione
diretta, e su quello che lei stessa mi dice. Ad esempio di essere grata ai po-
liziotti per averla trattata con una certa umanità. Personalmente, ritengo si
sia trattato, più che altro, di stupore. L'ultima cosa che si aspettavano era di
vedersela cadere fra le braccia in quel modo, tant'è vero che le chiesero so-
lo se sapesse dov'era Edgar, rinviando a più tardi l'interrogatorio vero e
proprio.
Gli eventi delle ore successive sono nella sua memoria qualcosa fra l'al-
lucinazione e l'incubo. Stella ricorda un locale nella stazione di polizia, e
una donna in uniforme che le offre un tè. Dopo circa un'ora era arrivato
Max. Evidentemente anche lui, come la polizia, aveva scelto un approccio
morbido: Stella la vittima, sedotta e abbandonata, una povera donna cor-
rotta da un uomo diabolico, che dopo averla manipolata e irretita si è sba-
razzato di lei. Vedendo Max entrare Stella aveva cercato di controllarsi,
ma le sarebbero servite energie che non aveva più: prima che lui avesse il
tempo di aprir bocca si era ritrovata fra le sue braccia, avvinghiata dispera-
tamente a lui. Negli ultimi giorni si era sentita troppo debole, e sola, e di-
sperata. Max le aveva fatto qualche carezza - da medico, da psichiatra,
Stella se ne rendeva perfettamente conto, ma non le importava, anzi, era
proprio ciò di cui aveva bisogno. Solo qualche tempo dopo il medico a-
vrebbe lentamente ceduto il passo al marito, e per Stella sarebbe iniziato
un altro incubo.
Si era concessa di crollare. Era diventata docile e remissiva come una
bambina, o una malata. Aveva risposto alle domande sempre gentili dei
poliziotti. Vedeva le loro espressioni preoccupate, li sentiva scambiarsi pa-
reri a bassa voce, ma non tentava nemmeno di capire, o di avere una parte
attiva in ciò che stava accadendo. Voleva solo che qualcuno si occupasse
di lei. Non chiedeva altro.
Passò la notte in cella. I poliziotti sembravano quasi contriti, ma a Stella
importava solo dormire, e loro le avevano promesso una pillola. La stanza
era spoglia, e le lenzuola pulite. Stella inghiottì la pillola e chiuse gli occhi.
Non riusciva più a pensare né a sentire nulla. Fece un lungo sonno profon-
do, e il mattino dopo l'unico sogno di cui conservasse traccia riguardava
l'orto e la serra, ma non riusciva a ricordare altro.
Parlai con Stella un freddo mattino di fine ottobre. Ricordo ancora i ba-
tuffoli di bruma fra i rami. Passeggiavamo nell'orto, dove era cominciato
tutto. Gli uomini stavano bruciando foglie secche, e c'era odore di falò.
Stella mi disse che le dispiaceva non vedere un'altra primavera e un'altra
estate nel giardino. La trovavo molto cambiata. Era più pallida, più lenta,
più pesante; adesso in lei c'era una specie di strana gravita. I meli erano ca-
richi di frutti, e il terreno tutto intorno era cosparso di morbide sferette
spugnose, verdi o gialle, picchiettate di puntolini scuri. Mentre avanzava-
mo cercando di evitarle, Stella mi prese sottobraccio. In seguito mi confes-
sò che ero il suo primo e unico visitatore. Gli altri le facevano tutt'al più un
cenno di saluto, ma non riuscivano a guardarla negli occhi: evidentemente
offendeva il loro senso del decoro. Questo valeva per tutti, anche per gli
Straffen, che sembravano svaniti nel nulla. E lei supponeva che anche il
suo vecchio amico Peter Cleave fosse dalla loro parte.
«Insomma, come stai, mia cara?» le chiesi.
«Be', Peter,» rispose «ho passato periodi migliori. È davvero molto cari-
no da parte tua venirmi a trovare. Ti pensavo a fischiare con gli altri».
«Io?» le dissi. «Io fischiare te? Non prendo le mie amicizie tanto alla
leggera».
«Dovevo immaginarlo».
«E in ogni caso io sono un medico, non ho nulla da rimproverare a chi si
ammala. E come potrei rimproverare a te di esserti innamorata?».
«Gli altri ci riescono benissimo».
«Ah, ma perché per loro è stato un trauma. Se ci pensi, quand'è che co-
minciamo a fare delle distinzioni tra quel che è giusto e quel che è sbaglia-
to? Quando qualcosa ci ferisce o minaccia di farlo».
«Funziona così?».
«Almeno credo. Non sei d'accordo?».
Arrivati alla panchina vicino alla serra ci mettemmo a sedere. Stella ro-
vesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.
«Non lo so, sono troppo stanca per pensare».
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. In seguito Stella mi disse
com'era stato meraviglioso anche solo sentire qualcuno vicino; e che fino a
quel momento non si era resa conto di quanto le fosse mancato.
«Come vanno le cose con Charlie?» le chiesi tranquillamente.
Stella aprì gli occhi.
«Caro Peter» mormorò. Mi era grata per il mio tatto, perché non le ave-
vo chiesto come andava con Max; avevo individuato, mi rivelò in seguito,
quale fosse l'unico rapporto che davvero contava per lei.
«Lo sto riconquistando. Ha bisogno di volermi bene».
«Mi mancherai» le dissi.
«Così hai sentito?».
«Di Cledwyn? Sì».
«Conosci il posto?».
«Ci sono stato una volta, a trovare un paziente. È tutto pecore e trattori.
Temo che non ti piacerà».
Stella sorrise.
«Pecore e trattori. Farò la donna di campagna. E nessuno saprà del mio
sordido passato».
Prima di alzarmi per andarmene le dissi quello che ero venuto a dirle, e
cioè quanto sollievo mi dava vederla uscita indenne da quella storia.
«Tu questo non puoi saperlo».
«Ma sei tutta intera, mi sembra».
Stella si portò una mano al petto.
«Non qui».
«Lì guarirai» le dissi.
«Torna a trovarmi, ti prego. Sei l'unico amico che ho».
Promisi di farlo. Al momento dei saluti Stella mi chiese, facendo finta di
niente, se sapevo dove fosse Edgar.
Le risposi di no.
In seguito mi disse di essersi sentita più serena, dopo la mia visita. Per
un po' le tenebre parvero diradarsi. Decise di appoggiarsi il più possibile a
me, prima della partenza per il Galles. Lo avrebbe preso come un esercizio
spirituale, per prepararsi a ciò che la aspettava.
Nel pomeriggio andò con Max alla stazione. Durante il tragitto rimasero
in silenzio. Stella era sicura che lui volesse il divorzio, ma non ne aveva
ancora parlato, e non sarebbe stata certo lei ad affrontare l'argomento. A-
veva avuto abbastanza traumi, ora le servivano solo un rifugio e un po' di
tempo: per riprendersi dallo stato di shock, innanzitutto, e poi per affronta-
re il dolore della perdita di Edgar.
Charlie scese dal treno nervosissimo, ma quando si ritrovarono tutti e
quattro sulla banchina (era venuta anche Brenda), e Stella si accovacciò e
gli prese le mani, si buttò fra le sue braccia, e la baciò sulla bocca. Stella
colse l'occhiata che Brenda gettava a Max, e l'inarcarsi di un sottile so-
pracciglio depilato.
La macchina era posteggiata subito fuori dalla stazione. Charlie e sua
madre si avviarono tenendosi per mano, seguiti da Max e Brenda. Stella
disse che si era sentita sollevata da un grosso peso. Le sembrava che se lei
e Charlie avessero ritrovato l'armonia di prima si poteva recuperare almeno
una parvenza di vita normale. Max avrebbe continuato a bollire nel suo
brodo, e Brenda avrebbe sicuramente detto ai suoi amici di Knightsbridge
che suo figlio aveva sposato una troia, ma nulla di tutto questo la toccava,
nulla aveva la minima importanza.
Mentre Max offriva da bere a sua madre in soggiorno, Stella accompa-
gnò Charlie in camera.
«Sono proprio felice che tu sia tornato a casa» gli disse appendendogli i
vestiti mentre lui si preparava per andare a dormire.
«Adesso torni a Londra?».
«No, non andrò mai più via. Mi dispiace tanto. Mi perdoni?».
Si sedette sul letto. Charlie finì di abbottonarsi il pigiama, poi la baciò di
nuovo. Stella lo abbracciò, stringendo forte a sé il suo corpiciattolo paffuto
e chiedendosi come avesse potuto abbandonarlo. Poi gli disse quanto le
fosse mancato, e scoppiò a piangere. Charlie la consolò, comportandosi da
vero cavaliere: rimase ad ascoltarla parlare dei suoi rimorsi accarezzandole
i capelli e ripetendole solennemente che ormai era tutto a posto, e quindi
non c'era nessun bisogno di piangere, per favore.
Tre giorni dopo Max le comunicò di aver fatto domanda per un posto in
un ospedale psichiatrico nel nord del Galles. Disse che glielo avrebbero ti-
rato dietro, sottintendendo che si trattava di una soluzione molto al di sotto
delle sue possibilità. Non ne aveva ancora parlato a sua madre. Stella cercò
di immaginare da dove avrebbe cominciato. Dalla troia che era stata la sua
rovina?
Max sentiva di aver subito un torto, e faceva sempre più fatica a nascon-
derlo. A poco a poco, l'equilibrio del loro rapporto cambiò. Libero dai do-
veri che il codice cavalieresco gli imponeva verso la peccatrice, Max sem-
brava preoccuparsi solo di Charlie, e Stella si rendeva conto che prima o
poi non sarebbe stata più al sicuro. Un giorno, forse non domani, certo, ma
un giorno Max l'avrebbe lasciata, portandosi via Charlie: e ora, nell'attesa,
quel simulacro di vita familiare, per quanto superficiale fosse, era l'unica
struttura, l'unica protezione che le rimanesse. La sola idea di perderla a-
vrebbe dovuto terrorizzarla, eppure persino in quel momento, mentre sen-
tiva che stava per sfuggirle di mano, non poteva fingere di provare per
Max altro che indifferenza.
Adesso Max si comportava come se avesse messo da parte gli obblighi
morali e anteponesse a tutto le proprie esigenze. Stella lo sorvegliava con
una certa apprensione: lui non la degnava di uno sguardo, ai suoi occhi era
come trasparente. Se poteva farne a meno non le rivolgeva neanche più la
parola. Aveva smesso persino di avercela con lei. Era solo stanco, im-
paziente, irritabile, distratto. Si era arreso.
Per cambiare le cose Stella avrebbe dovuto fare uno sforzo, ma non ci
riusciva. Viveva in una specie di nebbia, e le persone intorno a lei erano
solo buie figure spettrali, fantasmi privi di una vera sostanza. Né lei sem-
brava averne ai loro occhi. Qualche giorno dopo Trevor Williams tornò a
trovarla. Stella gli cedette come la prima volta, perché almeno con lui si
sentiva viva a metà, e il sesso la calmava, le faceva venire sonno, e per un
po' metteva a tacere la sua ansia.
Mair doveva aver intuito qualcosa. Conosceva abbastanza suo marito per
sapere che una donna infelice sotto lo stesso tetto non gli sarebbe sfuggita
a lungo. Ma non sembrava importarle granché. Veniva a trovare Stella co-
me al solito, e come al solito sedevano davanti a una tazza di tè senza qua-
si parlare. A Stella era tutto sommato indifferente chi venisse dei due: sia
lui che lei, ciascuno a suo modo, la aiutavano a sollevare, almeno per un
po', la spessa coltre che soffocava il mondo, e scoloriva e offuscava tutto.
Ogni volta che smetteva di piovere Stella, sempre con gli stivali di gomma
e l'impermeabile, saliva su per la collina dietro casa, perché si era affezio-
nata a quei sentieri solitari e ai fitti cespugli, e alle pecore, e agli alberi
spogli e sgocciolanti, e ai muri di pietra coperti di licheni verde pallido e di
piccoli, delicati funghi bianchi. Era tutto così bagnato! Nei rigagnoli ai
bordi del sentiero l'acqua scorreva a valle sulle pietre, e quando un attimo
prima di raggiungere la cima, si voltava a guardare la vallata sotto di lei
vedeva i campi di stoppie, dove le strisce di acqua piovana luccicavano
come vetro nei solchi dell'aratura. Allora si fermava e pensava: lui è qui,
non so dove ma è qui. E mentre i corvi si levavano in volo dalla terra ba-
gnata che il bestiame trasformava in fango, Stella attraversava i boschi in
cima alla collina, ritrovandosi d'improvviso in radure scoscese circondate
da alberi secolari. A volte le sembrava che la terra custodisse segreti anti-
chissimi: e in qualche modo, stranamente, si sentiva a casa.
Una mattina, mentre era seduta in cucina con Mair, suonò il telefono.
Chiamavano da scuola per dirle che Charlie non stava bene, e se, per favo-
re, poteva andarlo a prendere. Quel giorno Max non aveva preso la mac-
china, e Stella rispose che sì, poteva. La voce maschile all'altro capo disse
che non c'era ragione di spaventarsi, e Stella ribatté di non essere affatto
spaventata. Mair si offrì di accompagnarla.
Le strade intorno a Cledwyn erano una distesa di fango e letame, e la
macchina aveva fatalmente perso la sua aria chic; con tutte quelle incrosta-
zioni sembrava una carretta da contadini. Come non bastasse, la settimana
prima Stella aveva strisciato contro un muro, e non potevano rifare la fian-
cata perché costava troppo. Così quella che poco dopo la telefonata si fer-
mò davanti alla scuola era una Jaguar sciatta e ammaccata, un po' come la
madre che ne scese avviandosi verso il portone.
La scuola era un grande edificio vittoriano di mattoni a tre piani, con alti
finestroni e un campo da gioco su un lato. Stella non ci aveva mai messo
piede, e le incuteva un certo timore. Andò in segreteria, dove le dissero di
accomodarsi in sala professori mentre cercavano l'insegnante di Charlie,
un certo Mr Griffin. Dietro di lei, nel frattempo, erano comparsi parecchi
bambini, ognuno col suo messaggio da recapitare in segreteria. Sembrava-
no molto incuriositi da lei, e si parlavano all'orecchio lanciandole sguardi
furtivi e ridacchiando fra loro. Stella si chiese che cosa avesse di così stra-
no. Le gambe nude, forse, o l'accento inglese? Non che gliene importasse
nulla. Entrando in sala professori notò che la segretaria si voltava verso i
bambini e li zittiva con un'occhiataccia.
Qualche minuto dopo, mentre fumava una sigaretta leggendo gli avvisi
affissi in bacheca, entrò Hugh Griffin. Si presentò, scusandosi di averla
fatta aspettare. La stanza era tutta per loro. Griffin spostò una pila di sussi-
diaci da un divano e la invitò a sedersi. Era un ragazzo alto, con una folta
massa di capelli biondi e ondulati. Aveva un lungo naso a punta e una
giacca di tweed verde con i risvolti impolverati di gesso.
«Spero di non averla messa in agitazione» attaccò.
«Certo che no. Mi ha detto di non spaventarmi e io non mi sono spaven-
tata».
«Bene».
Sentiva di aver fatto colpo. Gli piacevo, mi raccontò, e la cosa lo imba-
razzava, un po' perché lei era la madre di ano dei suoi scolari e un po' per-
ché era diversissima dalle maestre e dalle mogli dei fattori che in genere
costituivano l'elemento femminile del suo mondo. Stella guardava divertita
quel ragazzo allampanato, con le dita lunghe e i vestiti impolverati di ges-
so.
«Allora, Mrs Raphael. Perché Charlie è così infelice?».
«Infelice?» rispose Stella con una certa sorpresa. Non le era venuto ne-
anche in mente che potesse dirle una cosa del genere. L'altro aggrottò la
fronte e si guardò le scarpe passandosi una mano fra i capelli. Poi la fissò
dritta negli occhi.
«È un ragazzino sveglio,» le disse «ma non si applica. Credo sia un fatto
di ansia, ma a me non dice cosa c'è che non va».
«Non mi ero mai accorta che ci fosse qualcosa che non andava».
«Mi sta dicendo che non ha notato niente di strano?».
«Forse sarebbe meglio che parlasse con suo padre».
«Lei non può aiutarmi?».
«È lui lo psichiatra, sì o no?».
Lo disse con più livore di quel che avrebbe voluto, e la risatina che fece
subito dopo suonò falsa persino a lei. Hugh Griffin si sporse sul bordo del-
la sedia, le lunghe gambe distese e le mani fra le ginocchia. Le ricordava
Nick.
«Con lei il ragazzo non parla, Mrs Raphael? E come mai non parla con
sua madre? Potrebbe essere questo il problema».
«Ma lei di che diavolo si impiccia?» rispose Stella scattando in piedi.
Poi frugò nella borsa alla ricerca di una sigaretta.
«Si sieda, prego» disse quel villano di un maestrino con la sua servile
vocetta gallese.
«Non ho tempo» rispose Stella. Ora gli dava le spalle, fissando la bache-
ca senza vederla e fumando avidamente la sua sigaretta. L'altro sospirò.
Non voleva lasciarla andare. Stava per aggiungere qualcosa quando la por-
ta si aprì ed entrarono due donne che stringevano al petto una pila di qua-
derni e parlavano ad alta voce. Andarono in fondo alla stanza e lanciarono
un'occhiata distratta a Hugh Griffin e a Stella. Alla fine il maestro si alzò
stancamente e disse che andava a prendere Charlie.
Raggiunsero la macchina quasi di corsa, e Stella era ancora talmente ar-
rabbiata con quell'uomo che riusciva a malapena a parlare. Subito dopo,
uscendo sulla statale, mancò per un pelo un'altra macchina, e dovette fer-
marsi un attimo a riprendere fiato e riacquistare il controllo dei nervi. Non
si sentiva volare una mosca. Sulla via del ritorno, senza neppure voltarsi,
Stella disse a Charlie che secondo il maestro non si impegnava abbastanza.
Charlie non le rispose.
«Dice che è perché sei infelice» aggiunse Stella.
Silenzio.
«Io gli ho detto che mi sembrava tutto a posto».
Stella gettò un'occhiata a Mair, che era seduta al suo fianco e guardava
davanti a sé.
«Charlie, sei infelice?».
Il bambino scrollò le spalle e si mise a guardare fuori dal finestrino. Per
il resto del viaggio rimasero in silenzio. Una volta a casa, Charlie salì in
camera senza dire una parola. Stella chiese a Mair se voleva una tazza di
tè, ma lei disse di no, e a quel punto si sedette da sola in cucina a guardare
fuori dalla finestra. Dopo un po' si versò da bere. Sapeva che cosa le stava
succedendo. Cominciava a vedere Charlie come un'estensione del padre,
anche lui parte di un complotto ai suoi danni. Non avrebbe voluto pensare
al bambino in quel modo, sapeva che non era giusto, ma non poteva farci
niente.
Quando la sera Max tornò a casa Stella non gli disse che cosa era suc-
cesso. Preferiva che glielo raccontasse Charlie a modo suo, e che fosse poi
Max a parlargliene. Ma quando Max scese di sotto, dopo aver dato la buo-
na notte a Charlie, si sedette in soggiorno per conto suo, con una rivista di
medicina.
Stella passò la notte in bianco. Era sicura che anche Max fosse sveglio, e
la sentisse passeggiare avanti e indietro. Fuori soffiava il vento, la casa era
tutta uno scricchiolio, e, nonostante il maglione sulla camicia da notte, i
calzettoni di lana e la vestaglia, Stella aveva freddo. Rimase a lungo alla
finestra, rabbrividendo. Guardava il cielo stellato fumando una sigaretta
dopo l'altra, mentre i pensieri correvano a briglia sciolta. Rivide i bambini
che avevano riso di lei davanti alla segretaria, e il maestro che le diceva
che stava rendendo infelice suo figlio. Poi pensò a Trevor Williams, che
dormiva dall'altra parte del muro, e a quelle loro gelide scopate. Da quando
sua moglie era tornata, Williams aveva trascinato Stella un paio di volte in
un capanno di pietra, dove l'aveva fatta piegare su un mucchio di balle di
fieno. Che bel culo bianco che hai, le aveva detto. Sembrava ce l'avesse
sempre duro. Tutte e due le volte, attraversando il cortile per rientrare,
Stella non se l'era sentita di alzare gli occhi per paura di vedere Mair alla
finestra, ma se anche ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla, a quanto
pare, perché veniva sempre a bere il tè.
Pensò a Edgar, e alle loro settimane a Londra, e si rese conto che i suoi
ricordi cominciavano a scolorirsi come vecchie foto. Per mantenere una
sorta di contatto con lui le rimanevano solo i fenomeni naturali che aveva-
no vissuto insieme - certe formazioni di nuvole, il canto di alcuni uccelli
particolari, certi fiori - e che Stella ora considerava come un privato siste-
ma di segni. Ogni volta che andava a fare la spesa, da sola o in compagnia,
a Cledwyn o a Chester, frugava con gli occhi ogni angolo di strada nella
speranza di vedere spuntare Edgard. Almeno una decina di volte si era det-
ta eccolo, è lui, ma era sempre rimasta delusa. Eppure quell'attimo di emo-
zione, quel colpo al cuore le bastavano, anche se a suscitarli era stata l'am-
pia schiena nera di un corpulento fattore del Galles che entrava ai grandi
magazzini con la moglie.
Si rimise a letto, ma senza riuscire a prender sonno. Mentre si rigirava da
una parte e dall'altra cominciò a singhiozzare. Nessuno venne alla porta.
Nessuno bussò sussurrando: «Cosa succede? Tutto bene?». Stella pensò a
suo padre, e si ricordò di quando scivolava nel sonno mentre quell'uomo
forte e massiccio, seduto sul bordo del letto, le accarezzava i capelli ascol-
tandola mormorare gli ultimi pensieri della giornata. Poi pensò di nuovo a
Edgar, e al loro ballo all'ospedale - due dèi che danzavano fra i mortali -, e
non sentì alcun rimpianto, alcun rimorso: potendo, avrebbe rifatto tutto,
assolutamente tutto.
E che fine aveva fatto Edgar, il pazzo, il suo amante perduto? Per un
lungo periodo, con mia profonda costernazione, non ne avevo saputo più
nulla. Sembrava scomparso dalla faccia della terra, tanto che più di una
volta lo avevo dato per morto. Fui dunque molto sollevato quando final-
mente mi giunse una segnalazione attendibile: Edgar era stato visto dalle
parti della stazione di Euston. Siccome tutto lasciava supporre che fosse
diretto a nord, chiamai subito Max. Gli dissi che sospettavamo avesse sco-
perto dove vivevano lui e Stella, ma ammesso che stesse davvero cercando
di raggiungere Cledwyn, sulle sue intenzioni potevamo solo fare delle ipo-
tesi. Gli parlai delle misure precauzionali che la polizia stava comunque
prendendo, e riuscii almeno in parte a rassicurarlo. In effetti erano notizie
tutt'altro che rassicuranti e non gli nascosi che ero anch'io piuttosto inquie-
to.
Poi gli domandai di Stella. Le avevo parlato da poco al telefono, e non
mi sentivo tranquillo; mi sembrava abbandonata a se stessa. Max si tenne
sulla difensiva, ma mi bastò sondare un po' il terreno per percepire subito,
nella sua voce, l'immenso peso della collera repressa. Cercai quindi di in-
coraggiarlo, con tutta la delicatezza possibile, a adottare una prospettiva
differente, più distaccata: in altre parole, una prospettiva psichiatrica. Gli
dissi che Stella aveva attraversato una fase di isteria, che stava cercando di
elaborare uno schiacciante senso di colpa e che da sola rischiava di non
farcela. Aveva bisogno di tutto il suo aiuto.
Max non disse nulla, e io presi il suo silenzio per un assenso.
Mi aspettavo che riferisse a Stella quello che la polizia aveva scoperto su
Edgar, ma in seguito scoprii che non gliene aveva neppure accennato, forse
per un malinteso senso di protezione.
O forse piuttosto per mera aggressività passiva: altrimenti perché na-
sconderle che un uomo stava venendo da lei con l'intenzione pressoché
certa di ucciderla?
Qualche giorno dopo arrivò un'altra lettera di Hugh Griffin. Stella stava
quasi per gettarla via senza neppure aprirla, immaginando che fosse un'en-
nesima esortazione a coccolare più spesso il suo bambino, o qualche altra
sciocchezza del genere, ma poi pensò a quel lungagnone piegato in avanti
sulla sedia che la fissava intrecciando le dita ossute, e cambiò idea. Era in
cucina, ancora in vestaglia, col bollitore sul fuoco. Aveva appena lavato un
paio di calze e le aveva messe ad asciugare sullo schienale della sedia, per-
ché non aveva nessuna voglia di andare a stenderle fuori. Si sedette a leg-
gere la lettera: il maestro non la esortava a essere più sensibile e compren-
siva, né le chiedeva un appuntamento per «parlarne». Voleva semplice-
mente invitarla a una gita scolastica a Cledwyn Heath, una zona di bru-
ghiera a qualche chilometro dal paese, che rientrava nel programma sulla
flora e la fauna del posto. Lì per lì Stella non ci pensò neppure, ma poi,
mentre beveva il tè guardando fuori dalla finestra, decise che quasi quasi,
se fossero stati molto gentili con lei, si sarebbe lasciata convincere.
Lo annunciò quella sera stessa, a tavola, scatenando l'entusiasmo di
Charlie, che evidentemente aveva considerato pressoché nulle le sue pos-
sibilità di presentarsi alla gita con almeno un genitore. Anche Max si tirò
un po' su; poveraccio, l'aveva ridotto proprio male durante l'inverno, ben-
ché fosse disposta ad assumersi solo una parte di responsabilità per la de-
pressione in cui era sprofondato da settimane: il resto, ne era sicura, dipen-
deva dal lavoro. Sapeva ad esempio che nel reparto di Max le pazienti era-
no in gran parte schizofreniche, donne di mezza età, se non decisamente
anziane, internate da tempo immemorabile, quindi senza alcuna speranza
concreta di miglioramento. Certo non era la situazione ideale per uno come
lui, che aveva costantemente bisogno di stimoli. Max avrebbe preferito ve-
dersi affidare i pazienti più giovani e con disturbi più acuti, ma John Da-
niels, il direttore, proprio colui che gli aveva fatto intravedere la prospetti-
va di un lavoro interessante, se ne occupava di persona. John Daniels è un
mio vecchio amico. Quando gliene parlai mi disse che Max era arrivato
tardi, tutto qui.
Un'ora dopo Max rientrò inferocito e trovò Stella ancor più disinibita di
prima. Attraversò la cucina come una furia e andò a piazzarsi schiumando
davanti alla finestra. Stella era ancora a tavola fra i piatti sporchi, a bere
vino e a fumare.
«Non sei solo egoista» disse Max con la voce arrochita dall'ira. «Sei an-
che cretina».
Stella appoggiò i gomiti sul tavolo. Teneva il bicchiere davanti a sé,
guardando Max da sopra l'orlo senza dire nulla.
«Ti rendi conto di quello che hai fatto?».
«Che cosa ho fatto, Max?».
Pensava di sentirsi dire che per colpa sua non avrebbero più avuto un
soldo da Brenda. Ma stavolta Max la sorprese.
«Hai sprecato la tua ultima occasione» disse con una voce improvvisa-
mente placata.
Stella non riusciva a calarsi nell'atmosfera melodrammatica del momen-
to.
«La mia ultima occasione» disse. «E cioè?».
Max fece un sorrisetto sgradevole. Ci fu un breve silenzio. Poi Stella
sbuffò.
«Cosa vuoi dire, Max?».
«Voglio dire che d'ora in poi dovrai cavartela da sola».
«Io me la sono sempre cavata da sola».
«Ma fammi il piacere. Io vado a dormire».
«Che cosa diavolo stai dicendo?».
Si era alzata in piedi. Tutta quell'aria grave, definitiva, non le piaceva
neanche un po'. Senza muoversi da dov'era lo afferrò per la manica, mentre
lui cercava di raggiungere le scale. Max la guardò con una rabbia, se pos-
sibile, più fredda del solito.
«Lasciami» le disse.
Stella si aggrappò ancora di più alla sua manica, stringendo nel pugno
un pezzo di stoffa con un sorrisetto.
«Ti ho detto lasciami!».
Per divincolarsi, Max perse leggermente l'equilibrio. Poi inciampò, e si
aggrappò alla ringhiera.
«Ma come siamo disinibiti!» gli gridò Stella.
Max cominciò a salire.
«Che cazzo dici, Max?» gli urlò dietro Stella. «Che cazzo vuoi dire devi
cavartela da sola? Io sono sempre stata sola! Nel caso non te lo ricordassi,
ho sposato te!».
Max scese qualche gradino.
«Adesso taci, va bene? Dei dettagli parleremo domattina, ma non voglio
che svegli Charlie».
«Quali dettagli?».
Rimasero a fissarsi così, lei in fondo alle scale, lui a metà, ma voltato
verso il basso. E fu Stella ad accorgersi per prima che sul pianerottolo c'era
Charlie, in pigiama, che si stropicciava gli occhi con aria imbronciata.
«Tesoro, ti abbiamo svegliato? Scusaci, papà stava solo facendo finta di
essere un imbecille».
Max si precipitò su per le scale. «Avanti, tu,» lo sentì dire «fila a letto».
Scomparvero entrambi, e Stella tornò al tavolo della cucina a scolarsi tutto
quello che riuscì a trovare. Quando Max tornò di sotto le comunicò bru-
talmente la notizia che aveva tenuto in serbo per lei tutto il giorno. Edgar
Stark era nelle mani della polizia. Lo avevano preso quella mattina. A
Chester.
Per il momento lo avrebbero trattenuto lì.
***
XI
La corriera arrivò alle nove e mezzo. Charlie era pateticamente grato a
sua madre per aver detto di sì. Stella invece aveva una nottataccia alle
spalle, e potendo si sarebbe tirata indietro, anche se la prospettiva di rima-
nere a casa da sola le sembrava ancora meno attraente. In tempi migliori,
pensò, avrebbe chiesto a Max di prescriverle qualcosa, perché doveva pur
esserci qualche vantaggio a vivere con uno psichiatra; ma in tempi miglio-
ri, del resto, non ne avrebbe avuto bisogno. Così bevve il caffè e fumò le
sue sigarette mentre Charlie preparava lo zaino e le raccontava delle mera-
viglie che li aspettavano. Stella notò stupita come il bambino riuscisse a
vivere nel presente senza farsi toccare, almeno in apparenza, dall'infelicità
che lo circondava; lei se ne stava seduta in un angolo, con lo sguardo as-
sente, in silenzio, il buco nero nel cuore della famiglia che aveva inghiotti-
to tutta la gioia della sua infanzia, eppure, nell'eccitazione di una gita, a
Charlie importava solo salire su quella corriera con sua madre, anche se
era una donna dura e depressa, che nelle ultime settimane gli aveva lesina-
to persino le carezze.
Quando salirono sulla corriera Stella si sentì rabbrividire: una ventina di
scolari gallesi e una decina di adulti li guardavano in silenzio prender po-
sto negli ultimi sedili disponibili, quelli in fondo. Di fianco al conducente,
Hugh Griffin disse qualcosa di amichevole, ma fu l'unico a parlare. In quel
momento Stella si rese conto che l'infelicità di Charlie aveva fatto di lui un
escluso, proprio come era successo a lei, e ne trasse una mesta sensazione
di conferma; avrebbe dovuto saperlo, la gente è fatta così, seleziona con
fiuto infallibile le proprie vittime fra chi avrebbe più bisogno di calore. Lei
e Charlie erano due estranei, e solo quando furono seduti buoni buoni in
fondo alla corriera sentirono riprendere, a poco a poco, il mormorio degli
adulti, e gli strilli e il chiacchiericcio dei bambini. Madre e figlio si misero
a guardare il paesaggio ignoto fuori dal finestrino.
Cledwyn Heath era un altopiano insignificante cui si arrivava attraver-
sando una zona collinosa, e l'autobus faticò parecchio per risalire dalla val-
le. Per chilometri, tutt'attorno, si apriva un panorama desolato di muschio e
felci, con qua e là un albero rachitico, ma abbastanza resistente da opporre
al vento il suo profilo ricurvo. Cominciavano a comparire precipizi im-
provvisi, nelle cui profonde fenditure si raccoglieva l'acqua stagnante; le
pozze erano circondate da un intrico di vegetazione bassa, e l'acqua, in
ombra, sembrava nera, e limacciosa, e sinistra. Stella odiava quella bru-
ghiera solitaria, c'era un'atmosfera di violenza che non doveva essere la so-
la a percepire, se anche gli altri si erano zittiti. Per un po' si sentì solo il
rumore del vento. Finalmente si fermarono in un posto riparato vicino a un
bosco. Appena scesi dalla corriera, i bambini ricominciarono a far bacca-
no. Hugh Griffin li divise in gruppi, spiegando dove e quando ritrovarsi
per pranzo. Il gruppo di Charlie e Stella doveva seguire un sentiero lungo
il margine orientale della brughiera fino a un punto panoramico da cui si
vedeva il mare a una cinquantina di chilometri. Madre e figlio si accodaro-
no al gruppo, con un altro genitore, un padre che era già stato in gita nella
zona, a far loro da guida.
Mentre si trascinava con gli stivali di gomma, l'impermeabile stretto in
vita e un foulard annodato sotto il mento, Stella provava un disagio sempre
più forte. Il sentiero era stretto e pietroso, e più ripido di quanto era sem-
brato da lontano. C'erano nuvole basse, e il cielo minacciava pioggia. Gli
altri erano già scomparsi, e ora lei e Charlie sembravano gli unici esseri
viventi in quel posto lugubre, col sentiero che saliva e scendeva fra monta-
gnole e ciuffi d'erica, e nessuna struttura in vista, nemmeno un albero a
spezzare il paesaggio vuoto e quel cielo troppo vicino. Charlie marciava
davanti a Stella, con lo zaino che gli saltellava sulla schiena e la testa che
si girava a destra e a sinistra per non perdere nulla. Ogni tanto la sua fac-
cetta felice e ansiosa di bambino solo si voltava per assicurarsi che sua
madre non rimanesse indietro. Stella sentì di nuovo il buio che le si gon-
fiava dentro, e pensò che avrebbe fatto meglio a rimanere a casa, quel po-
sto non andava bene per lei, non le piaceva per niente ritrovarsi in quel
nulla, fra estranei ostili, a lottare contro il vento umido e sferzante. Quando
arrivarono in vista del mare Stella non ce la faceva quasi più, camminare
era diventato un incubo, perché una forza oscura la spingeva a gettarsi a
terra e a ripararsi la testa con le braccia, per non alzarsi mai più. Il padre
cercò di attaccare discorso, ma Stella non riuscì neppure a rispondergli.
Ormai aveva passato il confine.
Continuando a camminare arrivarono al posto del picnic, un luogo ripa-
rato ai piedi di una collina. Hugh Griffin e gli altri avevano cominciato a
disporre i panini e le bibite su una roccia bassa e piatta. I bambini si erano
divisi in tanti piccoli gruppetti rumorosi, mentre gli adulti raccolti intorno
al maestro versavano il tè caldo dai termos. Quando un'improvvisa raffica
di vento fece volar via una mappa dalla roccia si sentirono grida e risate.
Stella si allontanò di qualche passo, e un paio di minuti dopo si rese conto
che Charlie camminava al suo fianco mangiando in silenzio un panino. Le
chiese se aveva fame, e lei fece segno di no con la testa, ma rispose di sì
quando le domandò se voleva vedere cosa c'era dall'altra parte della colli-
na. Poco dopo sparirono dalla vista degli altri. Charlie scese lungo il pen-
dio fino allo stagno giù in fondo, circondato da folti ciuffi di erbacce. Stel-
la lo seguì andando a sedersi un po' in disparte. Sentiva cadere le prime
gocce. Charlie le gridò che secondo lui c'erano dei tritoni. Stella si ritrovò
con la testa sulla ginocchia, la faccia tra le mani. Stavolta era una tortura.
Onde nere infuriavano dentro di lei, sentiva la terra sussultare. Quando ri-
sollevò la testa l'aria era oscurata da una fuliggine impalpabile, come lima-
tura di grafite. Stava cominciando a piovere. Dietro lo spesso schermo che
si era chiuso intorno a lei vedeva, infinitamente lontani, lo stagno nero, la
superficie increspata dell'acqua, ora picchiettata dalla pioggia, e Charlie
che saltellava sulla riva nel folto delle erbacce. Tirò fuori le sigarette e se
ne accese una, tenendo le mani a coppa davanti alla fiamma. Charlie stava
tentando di afferrare qualcosa che gli sfuggiva. Stella lo guardava in silen-
zio, inerte, continuando a fumare. Vide il bambino afferrare la preda e, nel
farlo, perdere l'equilibrio. L'aria era nera, la pioggia cadeva più forte, le
spaventose scosse sotto i suoi piedi si andavano spegnendo. Stella sentì ar-
rivare a poco a poco la sensazione di stordimento che si prova sempre, do-
po. Charlie si era inoltrato nello stagno e cercava di reggersi in piedi nel
fango, agitava le braccia e gridava, e qualcosa in quel grido la fece alzare
in piedi. Per qualche attimo rimase così, ingobbita nel turbine di vento e di
pioggia, a guardare il bambino. Poi si voltò dall'altra parte, portando la si-
garetta alle labbra. Gli orli del foulard le sbattevano furiosamente sulla
faccia; la superficie dell'acqua, adesso, era quasi piatta. Tornò a guardare
lo stagno e vide confusamente una testa affiorare, una mano che annaspava
e poi tornava sotto, e si voltò ancora dall'altra parte; e mentre avvicinava il
braccio irrigidito alla bocca si afferrò il gomito con la mano. Si girò di
nuovo, e di nuovo portò la sigaretta alle labbra. Si muoveva a scatti, spez-
zando ogni gesto in tanti frammenti distinti e misurati.
Hugh Griffin comparve in cima alla collina alle sue spalle, ma lei non se
ne accorse, e non lo sentì neppure urlare quando la vide fumare, con la te-
sta che continuava a voltarsi prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a de-
stra, mentre una figura indistinta si dibatteva nello stagno. Lo vide solo
quando le passò vicino di corsa nella pioggia, e sempre urlando si tuffò in
acqua.
Alla fine Max rientrò a casa, e Mair li lasciò soli. Max sedette al tavolo e
guardò Stella. La guardò e basta. Poi, in un tono di sbigottimento assoluto,
le chiese: «Ma perché non hai gridato?».
Stella lo trovò buffo; proprio lui, Max, che le chiedeva perché non aves-
se gridato.
«Non hai fiatato» ripeté Max con la stessa voce attonita. «Non hai aperto
bocca».
Di solito vogliono che tu tenga la bocca chiusa, a volte invece pretendo-
no che gridi, e si aspettano che sappia tu la differenza. Era questo che tro-
vava buffo.
«Quel Griffin,» disse Max «quel Griffin sostiene che è stata colpa tua».
Silenzio.
«Be', di' qualcosa, per dio! Non startene lì come una mummia, di' qual-
cosa, spiegami come è potuto succedere. Oh, Cristo».
Si calmò.
«Non so cosa sto dicendo» mormorò. «È una reazione traumatica; credo
che sia lo stesso per te. Ci vorranno un paio di giorni perché cominciamo a
renderci conto. Meglio rimanere calmi».
Si strofinò il volto con le mani per qualche attimo, e la guardò con la
faccia scavata che gli era venuta da poco.
«Ma perché non hai gridato?» sussurrò.
«Ma perché non ha gridato, Mrs Raphael, quando ha visto che il bambi-
no era in pericolo?».
Era nella stazione di polizia, e anche lì non sapeva rispondere.
***
Adesso che le davano delle pillole, e che nessuno sembrava volere più
niente da lei, Stella riusciva ad allentare la morsa della tensione. Dormiva,
sognava, si lasciava andare. Arrivò persino a dirmi che cosa aveva visto
nell'acqua. Non ne fui sorpreso, così come non lo fui notando che dal no-
stro ultimo incontro era cambiata: aveva qualche chilo in più, i capelli in
disordine e le occhiaie, ma la pelle liscia e bianca di sempre. Era ancora
una splendida donna. Però era anche una donna gravemente depressa. La
mia visita divenne l'evento principale delle sue giornate, quello che rende-
va tutto il resto sopportabile. Ci furono vari altri interrogatori, cui presen-
ziai. Ci fu un'udienza in tribunale, che cercai di renderle il meno traumati-
ca possibile. Stella del resto non provava neppure a capire che cosa le sta-
va accadendo, lasciava che me ne occupassi io. Un giorno le domandai se
voleva che continuassi a farlo.
Certo, mi disse con una punta di inquietudine. C'era bisogno di chieder-
lo? Le stavo dicendo che avrei anche potuto abbandonarla?
Cercai di spiegarle che cosa la aspettava. L'avrebbero ricoverata. Era sta-
ta molto male, e io volevo curarla. Ma era sicura di volerlo anche lei?
«Oh, sì» rispose.
Allora doveva venire da me. Si ricordava il nome del mio ospedale?
Se lo ricordava.
«Perfetto» le dissi. «Allora siamo d'accordo. Verrai in ospedale e ti se-
guirò io».
Ero convinto che nessuno avrebbe saputo curarla meglio di me. Certo,
riportarla in ospedale poteva sembrare poco ortodosso, se non, date le cir-
costanze, obiettivamente pericoloso; ma nella mia posizione attuale ero in
grado di decidere liberamente.
Max andò a trovarla. Era una visita che le avevo preannunciato, e che lei
mi aveva supplicato di risparmiarle. Con molta calma, ma con altrettanta
fermezza, l'avevo pregata di non opporsi. Stella mi disse che ero un sadico
e un bastardo, e io le ricordai che se mi accettava come medico doveva fi-
darsi di me. Le spiegai che avrebbe fatto bene anche a lei, non solo a Max.
«Questa cosa lo ha distrutto» le dissi. «Cerca di fare pace con lui».
«Pace!».
«È per il bene di entrambi».
Così accettò.
Si incontrarono in una stanza spoglia, con un tavolo di legno al centro e
un'unica finestra molto alta. Stella fu accompagnata dentro. Stringeva in
mano un pacchetto di sigarette e un accendino, ed era in uno stato di pro-
fonda ansia. Max era già lì; si alzò in piedi, e mentre la porta si chiudeva
rimasero l'uno di fronte all'altra.
«Ciao, Stella».
Il suo primo impulso fu di girare i tacchi e andarsene, ma si trattenne. Lo
fece per me, non voleva deludermi. Si mise a sedere, e Max la imitò. Era
dimagrito ancora, ma non solo; dava come l'idea di una grande fragilità. Lo
guardavi e pensavi: se lo tocco va in mille pezzi. Le offrì una sigaretta.
Sembrava anche invecchiato. Non era tanto una questione di aspetto, ma
dei gesti che faceva, del portamento che aveva. Forse aveva raggiunto
quella fase in cui gli uomini cambiano percezione di sé, pensano di non es-
sere più di ferro e adottano le movenze della vecchiaia, comportandosi
come se le loro risorse fossero limitate, e andassero dosate con cura. Stella
accettò la sigaretta. Si stava chiedendo se ora la vedesse come la troia che
gli aveva rovinato la vita o come la pallida strega grassa che aveva affoga-
to suo figlio.
«Perché hai voluto incontrarmi?» gli domandò.
Max non se l'aspettava. Aprì la bocca e gli uscì una via di mezzo fra un
colpo di tosse e una risatina.
«Scusa tanto» disse. «Veniamo subito al dunque? Va bene. Non credevo
ci fosse bisogno di fare questa domanda».
Stella aspettò di sentire che cosa aveva da dirle.
«Immagino non ti interessi sapere cosa penso di quello che ci è succes-
so. Di chi credo sia la responsabilità».
Come un ragioniere, pensò Stella. La colonna dei debiti e quella dei cre-
diti. Io mi prendo la colpa di questo, tu ti prendi la colpa di quello, così
possiamo dormire tranquilli.
«In effetti forse a questo punto non ha più importanza. Be', di' qualcosa
tu» fece Max.
«In acqua c'era Edgar».
Max annuì. «Lo avevo immaginato».
Dopo qualche attimo di silenzio, Stella cominciò a innervosirsi. Si rigi-
rava sulla sedia e lanciava continue occhiate alla porta. Voleva che venis-
sero a prenderla.
«Mi odi ancora?» chiese Max.
Stella pensò a un sogno che aveva fatto qualche notte prima. Era a letto
con Max, e il letto era pieno di merda. Glielo raccontò e lo vide trasalire.
«Sì, mi odi ancora» concluse Max. Poi sbuffò, quasi impercettibilmente.
Stella lo osservava con estrema attenzione. Lui si portò la mano alla bocca
fissandola con quei suoi occhi vuoti, e Stella si girò dall'altra parte.
«Dovrei odiarti anch'io?».
A Stella quella contabilità non interessava.
«Non sarebbe giusto verso Charlie» disse Max.
Un colpo basso, probabilmente, ma senza alcun effetto visibile. Un altro
breve silenzio. Forse sarebbero rimasti nella stanza finché lei non fosse
andata alla porta a chiamare qualcuno. Stava per chiedere a Max di farlo,
ma lui riprese a parlare.
«Sai cosa succederà adesso? Lo shock passerà, e tu comincerai a sentirti
in colpa. Me ne intendo, sai, di queste cose. Sarà un senso di colpa atroce.
Dovranno tenerti d'occhio perché starai talmente male che potresti tentare
il suicidio. Alla fine, con l'aiuto di Peter, riuscirai ad accettare quello che
hai fatto, e a quel punto smetterai di odiare sia me sia te stessa. Almeno
spero. L'unica cosa che proverai sarà una tristezza mortale, e quella tristez-
za non ti abbandonerà più per il resto dei tuoi giorni».
Fu in quel momento che Stella gli tirò l'accendino e cercò di arrampicar-
si sul tavolo per piantargli le unghie in faccia. Le sue urla fecero accorrere
le infermiere. La portarono via, lasciando Max a congratularsi con se stes-
so per la perfetta riuscita della seduta.
Almeno i primi tre, dunque, furono giorni perduti. Stella visse in una
specie di crepuscolo della coscienza, e non lasciò mai la sua stanza. I con-
tatti con l'esterno furono qualche breve, impastato scambio di battute con
le infermiere e la mia visita quotidiana. Cominciai a diminuirle gradual-
mente i farmaci, e riguadagnò un minimo di lucidità. Il quarto giorno le fe-
ci portare dei vestiti - non i suoi, quelli dell'ospedale -, e per la prima volta
Stella si affacciò nel reparto. In seguito mi disse che sentirsi ancora otte-
nebrata, da un certo punto di vista, era stata una fortuna, perché la sua pri-
ma impressione di quel posto era stata di assoluta estraneità. Mentre Pam
la accompagnava fino alla sala comune Stella fissava con sgomento, da
sotto le palpebre appesantite, le povere creature che si trascinavano lungo
il corridoio, donne piegate dal dolore, con la testa china, che abitavano altri
mondi, mondi infernali da cui erano incapaci di distogliere lo sguardo.
Nessuna rispondeva agli allegri saluti di Pam.
Arrivarono alla sala comune. Ecco, ora Stella poteva godersi lo spettaco-
lo delle sue compagne a ricreazione. Non riuscì a non pensare di nuovo,
con un brivido, a tutti quegli inferni privati, che coesistevano in un unico
spazio. Era una stanza lunga, col sole che filtrava attraverso i finestroni a
sbarre andando a cadere sul pavimento lucido. Lungo le pareti c'erano ta-
voli e sedie, e dalla parte opposta il televisore, con attorno un divano e
qualche poltrona. Una donna era in piedi assolutamente immobile, e guar-
dava il muro. Un'altra cercava di togliersi pelucchi invisibili dalla gonna,
cioè cercava, con una concentrazione spasmodica, di afferrare il nulla. Una
terza sedeva dondolandosi da una parte e dall'altra, sorridendo e mormo-
rando qualcosa.
«Eccoci qua» disse Pam in tono ilare. «Andiamo a conoscere qualcuna
delle ragazze».
Le ragazze che Stella conobbe erano tutte intontite dai farmaci e affran-
te, proprio come lei. Si sedette a un tavolo con Pam e altre due, a fumare.
Stella le guardava e loro guardavano lei, ed era come scrutare da una fen-
ditura vette lontanissime, e sentire che non era completamente sola, che in
quella regione desolata c'era qualcun altro. Nonostante i coraggiosi sforzi
di Pam, una conversazione sembrava impossibile. Il tranquillo mormorio
della stanza fu scosso una volta dallo scoppio di una strana risata, un'altra
da una specie di gemito, e una terza da un piccolo tumulto di eccitazione
quando venne portato dentro il carrello, e qualcuno gridò «Il tè, signore!».
Più tardi, al momento di rientrare nelle camere, una donna che Stella non
aveva notato si materializzò al suo fianco chiedendole da fumare. Muo-
vendo molto lentamente le dita, Stella aprì il pacchetto e tirò fuori un paio
di sigarette, che la sconosciuta si infilò nella manica del cardigan con un
«Grazie, tesoro». Poi fecero tutto il corridoio insieme. Mi hanno portato
qui senza niente, disse la donna, solo con i vestiti che avevo addosso.
Stella scosse la testa. Avrebbe voluto risponderle che era una vergogna,
ma non ci riuscì. Riguardati, tesoro, le sussurrò la donna. Poi le sfiorò la
mano e sparì nella sua stanza.
Nei giorni seguenti la vita di Stella seguì uno schema tipicamente ospe-
daliero, in cui si succedevano i pasti, la somministrazione dei farmaci, le
ore nella sala comune e quelle in camera. Andai a trovarla più volte, di-
cendole di non preoccuparsi, perché presto avremmo cominciato a parlare
davvero. Nel frattempo, volevo soltanto che si calmasse.
Calmarsi. Più tardi mi disse che l'avevo fatta sentire come una bambina
pestifera.
Col passare dei giorni cominciò a sentirsi meno estranea a quanto la cir-
condava, anche se ogni volta che se ne rendeva conto si sforzava di resiste-
re. Questo non è il mio mondo, si ripeteva, anche se quale fosse, il suo
mondo, ormai non lo sapeva più. Ma le altre donne non le sembravano più
così pazze, o così strane, o così diverse da lei. Cominciava a capire perché
erano finite da noi. Spesso si era trattato di una bizzarra concatenazione di
eventi, non diversissimi da quelli capitati a lei, che erano culminati in una
sorta di pubblica umiliazione. La donna che le aveva detto di essere stata
portata qui con solo i vestiti che aveva indosso, ad esempio, le raccontò di
chiamarsi Sarah Bentley, e di essere stata sposata a un tale che quando si
ubriacava, e cioè tre o quattro volte alla settimana, la picchiava. Arrivata al
limite della sopportazione, Sarah gli aveva detto che se l'avesse toccata u-
n'altra volta l'avrebbe ucciso. Lui aveva promesso di non farlo più, ma un
paio di mesi dopo era tornato a casa ubriaco, e prima di stramazzare sul di-
vano le aveva di nuovo messo le mani addosso. Così, con le forbici da cu-
cina, lei gli aveva prima tagliato la gola e poi aperto la cassa toracica per
strappargli il cuore, che aveva gettato nella tazza del gabinetto. Dopodiché
se ne era andata a dormire. Il mattino dopo era arrivata la polizia, e quando
l'avevano portata via tutte le donne del vicinato erano scese in strada a go-
dersi la scena. Applausi e fischi, secondo Sarah, si erano più o meno divisi
in parti uguali. Certo, nessuno riusciva a capire perché avesse buttato il
cuore nel gabinetto. Per lei invece era chiaro come il sole: non voleva che
quel bastardo ritornasse.
Poi Sarah le chiese che cos'avesse fatto lei. Stella tentò di abbozzare una
risposta, sentendosi immediatamente sopraffare da un orrore senza nome.
Erano sedute vicino alla finestra nella stanza comune, e Sarah cercò, senza
riuscirci, di placare la crisi. Pochi minuti dopo Stella era stata chiusa nella
sua stanza, imbottita di sedativi ma ancora in lacrime.
Il giorno dopo andai a trovarla. Mi sedetti in fondo al letto, annuendo al
racconto dell'ondata di orrore da cui si era sentita travolgere. Le dissi che
era del tutto naturale e prevedibile, che per stare meglio avrebbe dovuto
stare peggio, e che anzi quel dolore era un buon segno. Qualcosa stava
cominciando a muoversi. Le dissi anche che non intendevo aumentarle i
farmaci, ma che l'avremmo tenuta sotto osservazione.
La volta successiva le chiesi se era pronta a raccontarmi quello che era
successo, cominciando dall'inizio.
«E quale sarebbe l'inizio?».
«Io credo Edgar. E tu?».
Sollevò la testa, guardandomi con un'espressione che non riuscii a inter-
pretare fino in fondo. Dolore, apprensione, paura, c'era tutto questo, natu-
ralmente, ma anche qualcos'altro, qualcosa che ora credo fosse la consape-
volezza insorgente della nuova natura del nostro rapporto. Le cose non e-
rano più semplici come prima. Adesso io ero il medico, e lei la paziente.
Eravamo su due fronti opposti. Le serviva una strategia.
Era ovvio che dovessimo cominciare da Edgar. Stella era finita da noi
perché era rimasta a guardare suo figlio che affogava, ma per quanto ri-
guardava quell'episodio specifico la patologia in atto non presentava zone
d'ombra. La letteratura sulle madri infanticide è infatti limitata, ma esau-
riente: in genere si tratta di un suicidio allargato, della rimozione del figlio
da un contesto che la madre ritiene intollerabile, anche se nel caso di Stella
tutto era complicato dall'intensa avversione verso il padre del bambino; un
classico complesso di Medea. Anche il procedimento terapeutico è sostan-
zialmente noto. Si tratta in primo luogo di assistere il paziente durante un
periodo iniziale di sofferenza molto intensa, caratterizzato essenzialmente
dal senso di colpa, cui seguono in genere il riconoscimento del trauma e la
reintegrazione del trauma nella memoria e nell'identità. In altre parole, me-
ra routine. No, da un punto di vista clinico era molto più interessante la sua
relazione con Edgar, uno dei più complessi e drammatici casi di ossessione
sessuale morbosa che io avessi mai incontrato in molti anni di pratica. Ba-
sti solo pensare che nell'acqua, in extremis, Stella non aveva visto Charlie,
e neppure Max. Aveva visto Edgar.
Adesso che l'avevo qui, nel braccio femminile, non vedevo l'ora di far
saltare le sue difese, di aprire Stella con le mie mani per vedere com'era
fatta la sua psiche. Naturalmente sapevo che mi avrebbe resistito, ma non
era certo il tempo a mancarci.
Mi parve incoraggiante che si preoccupasse di nuovo del proprio aspet-
to. Mi disse che da quando portava solo la divisa delle pazienti - cardigan
grigio, camicetta azzurra, gonna grigia, calze grigie e scarpe nere con le
stringhe - io, al confronto, le sembravo un damerino. Ogni volta che dove-
vamo vederci andava nell'ufficio in fondo al padiglione e chiedeva di poter
usare il beauty. Il beauty era in realtà una vecchia scatola di biscotti dove il
personale metteva rossetti, matite per gli occhi, campioncini di profumo,
vasetti di crema e di cipria, tutti omaggi che le pazienti potevano usare nel-
le occasioni importanti, come la visita di un dottore. Seduta al tavolo del-
l'ufficio, Stella prese uno specchietto e cercò di fare del suo meglio col ma-
teriale a disposizione. Poi si pettinò, chiedendomi mentalmente scusa per
essere cosi tristemente al di sotto delle mie sofisticate aspettative. Quindi
tornò nella sala comune, dove le altre si complimentarono cameratesca-
mente con lei per il risultato dei suoi sforzi.
La nostra prima, vera seduta si svolse in un piccolo studio vicino all'uf-
ficio. Prima di cominciare, le chiesi come stava. La osservavo tenendo i
polpastrelli uniti e gli indici appoggiati al labbro superiore. Più tardi mi
disse che in quel momento i miei occhi erano come due spilloni che le in-
filzavano l'anima.
«Peter, cosa fai? Guarda che non sono un coleottero! E comunque in
questi giorni non ho nessuna voglia di lasciarmi sezionare. A proposito,
perché ci fate vestire come suore?».
Era un secolo che non la sentivo parlare così, nello stile da commedia
brillante di tutti i nostri dialoghi di un tempo. Per un breve attimo era quasi
tornata quella di una volta, una donna in confidenza con un vecchio amico.
«Abbiamo parecchio lavoro da fare» le dissi. «E sarà piuttosto doloroso,
per te».
Si concentrò sul tentativo di accendersi una sigaretta. Nonostante i suoi
sforzi quella debole fiammella di allegria si estinse subito, di fronte alla
mia gravità.
«Parliamo di Edgar. Dimmi della prima volta che hai pensato seriamente
a un rapporto sessuale con lui».
Suonava piuttosto brutale, ma l'avevo fatto apposta. Stella abbassò gli
occhi e giocherellò col pacchetto di sigarette, allineandolo meticolosamen-
te al bordo del tavolo. La sua voce era guardinga.
«Dio mio, non lo so. La prima volta?».
Annuii.
«Nell'orto» disse con calma. Vedevo la sua esperienza riprendere lenta-
mente forma.
«Continua».
Dentro di sé rivisse quel momento al sole, in cui si era resa conto che sa-
rebbero andati a letto, perché ormai non si potevano più fermare. Era mol-
to semplice: non farlo era impossibile. Impensabile. E quando capisci che
non puoi più evitare, o rinviare, o ignorare una necessità, il rischio cessa di
essere un deterrente. Stella cercò di spiegarmi questo.
«Ed era davvero una necessità?».
«Sì».
«E pensi che Edgar avesse questa tua stessa sensazione di... necessità?
Nonostante i rischi, voglio dire?».
«Oh, sì».
«E perché?».
Scrollò leggermente le spalle. «Non lo so. Ne ero certa, tutto qui».
«È possibile che Edgar ti abbia usato perché stava progettando una fu-
ga?».
«No».
«D'accordo. Ed è stato tutto come te lo aspettavi?».
Stella cercò di scherzarci su: «Vuoi i dettagli, Peter? Devo farti un dise-
gnino?».
«Avevate trovato un posto nell'orto».
«All'inizio, sì. La serra».
Cercai di ignorare il tono di fastidio con cui mi passava questo scampolo
di informazione.
«E poi?».
«Nel capanno».
«Ah già, il capanno». Mi appoggiai allo schienale. «Mi spiace, cara. Non
mi diverto a metterti in imbarazzo. Davvero Max era così deludente?».
«Tu che ne dici? Altrimenti tutto questo non sarebbe successo».
«No?».
«No. Penso che ci si possa innamorare di qualcuno solo se non si è già
innamorati di qualcun altro».
«E tu di Max non eri innamorata. Ma gli volevi bene?».
Mi fissò con aria inespressiva.
«Tu non sei mai stato sposato, vero?» disse alla fine.
«Eri frustrata?».
Uno scoppio di riso. «E chi non lo è?».
Aspettavo ancora una risposta.
«Oh, Peter, non so cosa dirti. Nei primi tempi provavo una grande am-
mirazione per Max, ecco. E quando siamo arrivati qui, dopo un po' avrei
preferito tornare a Londra, ma in pratica era l'unica cosa su cui litigavamo.
Non smaniavo dalla voglia di un'avventura, se è questo che vuoi sapere».
«Un matrimonio come tanti, allora».
«Immagino di si».
«Un marito, una casa, un figlio, una serenità accettabile. Eppure hai
messo in gioco tutto per una storia di sesso con un paziente».
«Sai, sono calcoli che uno non fa».
«Ma come ti sembrava l'idea che tutto il tuo mondo fosse in pericolo?
Non so, era inebriante?».
Mi ero appoggiato con un gomito al tavolo, e la guardavo con un'espres-
sione di partecipe, aperta curiosità.
«Essermi innamorata, questo mi sembrava inebriante».
Ci fu un attimo di silenzio.
«Già, l'amore» dissi. «Parliamo di questo sentimento che non riuscivi a
dominare. Come lo descriveresti?».
Qui Stella fece un'altra pausa. Poi, con voce stanca, riprese: «Se non lo
sai non posso spiegartelo».
«Allora non si può definire? Non se ne può parlare? È una cosa che na-
sce, che non si può ignorare, che distrugge la vita delle persone. Ma non
possiamo dire nient'altro. Esiste, e basta».
«Queste sono parole, Peter» mormorò Stella.
«Forse» dissi un po' piccato. «Ma sono anche l'unica cosa che abbiamo.
Vorrei chiederti di considerare la possibilità che questo tuo amore, in real-
tà, fosse la copertura di qualcos'altro».
«Cosa intendi dire?».
«Guarda gli effetti che ha avuto. Hai mollato tutto. Hai cominciato a di-
sprezzare l'uomo che avevi imparato a...».
Mi interruppi. Stella aveva cominciato a piangere sommessamente. Le
diedi un fazzoletto. Vedevo che si odiava per quell'esibizione di fragilità
femminile, tanto che in una seduta successiva sentì il bisogno di parlarme-
ne. In quella fase, mi disse, sapeva che se io l'avessi respinta, disprezzata,
condannata, non le sarebbe rimasto nulla. Lei non era nulla. Il quadro mi
era perfettamente chiaro.
«D'accordo, basta così» le dissi affettuosamente, e parlammo d'altro. Ma
prima di andarmene le chiesi di pensare a quel che significava, per lei, a-
mare. Cerca di essere rigorosa, le dissi.
Ci proverò, rispose.
Più tardi mi disse che quel colloquio l'aveva gettata in uno stato di con-
fusione e di ansia. Era tornata alla routine del padiglione con un'inquietu-
dine che non l'aveva lasciata neanche nella sala comune, dove non aveva
parlato con nessuno. Tentava di capire dove volessi arrivare. L'avevo tur-
bata di proposito, ma perché? Probabilmente per metterla alla prova, per
saggiare la sua forza. E lei non aveva certo reagito bene, crollando in quel
modo. Le avevo fatto capire quanto fragile fosse diventata, mostrandole
tutta la sua debolezza. In fondo, concluse, mi ero semplicemente compor-
tato da psichiatra: non le avevo chiesto di essere forte, l'avevo solo portata
a desiderare di esserlo.
Ammise che per capirlo le ci erano voluti giorni e giorni di riflessione,
durante i quali era giunta alla conclusione di essere fortunata a vivere in un
posto sicuro, dove nessuno le avrebbe fatto del male, e dove era affidata a
mani esperte che avrebbero saputo curarla. Provò anche, faticosamente, a
vedersi in un modo nuovo. Dopo Cledwyn Stella si era ridotta a un grumo
di preoccupazioni superficiali, egoistiche, e cercava di ottundere le proprie
sensazioni per non pensare a Charlie; adesso si aprì quel poco che bastava
a riconoscere di essere malata e di aver bisogno di aiuto. Aiuto che, natu-
ralmente, si aspettava da me. Nel nostro incontro successivo raccolse tutto
il suo coraggio e si presentò con un sorriso intrepido, col quale voleva di-
mostrarmi di essere pronta ad andare oltre. Vidi immediatamente che la so-
la idea la terrorizzava. Feci il giro del tavolo e le spostai la sedia.
«Cerca di rilassarti» le dissi nel tono più tranquillizzante possibile. Si
sedette, la aiutai ad avvicinare la sedia al tavolo e le poggiai la mano sulla
spalla.
Ce la lasciai per qualche secondo, il tempo di percepire la sua intensa re-
azione a quel contatto fisico. Poi andai a sedermi e le chiesi come andava
nel padiglione, e di nuovo lei sembrò tornare la Stella ironica e pungente di
un tempo; mi regalò una descrizione decisamente spassosa dell'eccentrica
comunità di cui si trovava a far parte. Ma appena mi vide appoggiare le di-
ta alle labbra, e assumere l'espressione contemplativa che probabilmente
cominciava a riconoscere, il suo umore cambiò.
«Hai pensato a quello a cui ti avevo chiesto di pensare?» le chiesi.
«Sì, ma non so cosa dirti, Peter».
«Prova a descrivermi Edgar. Fisicamente, intendo».
La sua risposta fu che aveva paura di farlo, perché quando cercava vo-
lontariamente di recuperare il ricordo di Edgar era come se l'immagine di
lui fosse nascosta da uno schermo. Cercai di riportarla a Cledwyn Heath, e
al fatto che quel giorno lei aveva visto Edgar annaspare nell'acqua. Io la
consideravo una prova definitiva del suo desiderio di perderlo, interrom-
pendo così il tormento della coazione. Le dissi che agognare la morte del-
l'amante è uno stadio tipico di tutte le relazioni di quel genere. Ora mi inte-
ressava appurare quanto oltre si fosse spinto questo meccanismo: in altre
parole, se la loro storia fosse davvero finita.
Parlammo di Edgar per circa un'ora. Fra mille esitazioni, Stella riuscì più
o meno a descrivermelo, ma subito dopo vennero le domande più difficili,
quelle sui sentimenti. E qui Stella ammise di non aver mai provato in tutta
la sua vita un'attrazione di una tale intensità fisica ed emotiva per qual-
cuno; era una cosa che conosceva solo di riflesso, per averla percepita ne-
gli uomini che la provavano per lei. La lasciavo parlare limitandomi ad
annuire, e di tanto in tanto, quando esitava, incoraggiandola. Alla fine riu-
scì a trovare le parole per descrivermi quella specie di uragano sentimenta-
le che erano state le poche settimane con lui. Mi raccontò tutto quello che
era successo, prima da noi, poi a Londra. Ero sorpreso di non sentirla mai
pronunciare un giudizio morale: non condannava Edgar né per essere fug-
gito senza dirle niente, né per averla picchiata.
«Come mai?» le chiesi.
Non lo sapeva, ma nella mia domanda, mi disse, c'era qualcosa che non
tornava. Per criticare Edgar avrebbe dovuto porre a lui, e ai suoi sentimenti
per lui, delle condizioni: ti amo a patto che tu non faccia questo. E la cosa
non si era mai presentata in questi termini.
«Insomma tutto quello che veniva da Edgar andava bene».
«Credo di sì».
«Anche le botte».
«Sapevo perché mi picchiava».
«Se ti dicessi che Edgar è qui, in ospedale, che reazione avresti?».
La osservavo con estrema attenzione. Vidi un lampo passarle negli oc-
chi; poi scrollò le spalle. Disse che non aveva immaginato potessero ripor-
tarlo qui, anche se a pensarci le pareva ovvio. In ogni caso, non aveva più
alcuna importanza. Sentendo questo la guardai con quello che lei chiamava
il terrificante distacco del mio occhio da entomologo.
«Non ha importanza?».
«È finita, Peter. È finita con la morte di Charlie».
Sollevò la testa, guardandomi dritto negli occhi. Mi sarebbe piaciuto
crederle, ma sapevo che lei sapeva cosa volevo sentirle dire. La misi di
nuovo alla prova.
«Era una domanda astratta, Stella. Edgar non è qui».
Di nuovo quell'impercettibile lampo di emozione.
«Meglio così» disse.
Per rimettere in sesto qualcuno che arriva da noi nello stato in cui era ar-
rivata Stella ci vuole qualche settimana. Dai rapporti che mi trovavo ogni
mattina sulla scrivania notavo un crescente interesse nei confronti del
mondo in cui viveva, per quanto angusto e circoscritto fosse. Non se la
sentiva ancora di affrontare la morte di Charlie, ma non intendevo metterle
fretta. Piuttosto c'era qualcosa che mi inquietava, e cioè i possibili effetti
negativi di quella mia domanda su Edgar: non volevo aver interrotto, inav-
vertitamente, il processo di traslazione, cioè lo spostamento dei sentimenti
superstiti per Edgar su di me, il suo medico. Era infatti essenziale che ora
Stella mi considerasse il suo unico sostegno.
Nei giorni successivi riacquistò decisamente lucidità. Mary Muir, che
l'aveva vista arrivare, disse che era fantastico assistere a un miglioramento
del genere. Stella parlava molto più di prima. Si interessava persino ai pet-
tegolezzi dell'ospedale, voleva sapere tutto della comunità cui ora apparte-
neva. Cominciò, altro buon segno, a passare più tempo possibile nella sala
comune. Abbandonò invece, gradualmente, la sua breve identificazione
con le altre donne, in particolare con Sarah Bentley. Sarah era una sovver-
siva, le piaceva prendere in giro le infermiere e sconvolgere la routine o-
spedaliera. Il fatto era che non riusciva a celare il disprezzo che provava
per la propria situazione, né la certezza di essere finita nel posto sbagliato.
Ho ucciso quel bastardo perché lo odiavo, aveva detto a Stella. Mi pic-
chiava. Questo non vuol dire che sono da manicomio. In galera, dovevano
mettermi. Almeno saprei quando esco.
Sarah poteva andare avanti così tutta la mattina, e Stella si rendeva conto
che l'amicizia con lei avrebbe potuto rivelarsi compromettente. Cercò di
spiegarle che bisogna essere diplomatici. Bisogna capire quello che gli al-
tri si aspettano da te. Sarah rifiutava di accettarlo. Secondo lei erano tutti
degli imbecilli, e comunque non aveva la minima intenzione di starsene
zitta. Secondo Stella era un errore. C'erano momenti, le disse, in cui biso-
gnava stare zitti. Ma, sia pure con tristezza, si rendeva conto che lei e Sa-
rah non potevano più essere amiche.
Così fece domanda per lavorare in lavanderia.
«Tu?» le chiesi in tono divertito, cercando di nasconderle i miei sospetti.
«Ma come ti può venire in mente?».
«Dai, Peter, non è che muoia dalla voglia, ma qui mi annoio a morte.
Non mi troveresti qualcosa da fare?».
«Te la stai cavando bene» le dissi asciutto. «Forse ti piacerebbe passare
al piano di sotto».
«In effetti,» mi disse con un sorriso aperto «non credo che questo sia il
posto giusto per me. E tu?».
Non mi sbilanciai. Stella sapeva che non potevo credere fino in fondo al
miglioramento che faceva l'impossibile per mostrarmi, così come sapeva
che, mentre la intrattenevo con quelle che lei definiva le mie soavi disqui-
sizioni, mi domandavo se non stessi in realtà assistendo a una falsa ripresa,
presagio di una depressione ancora più profonda della prima.
«Pensi mai a Charlie?».
«Sì».
«E...?».
Il tono adesso era tranquillo. «E incomincio ad accettarlo».
Era di nuovo il momento della ruga di concentrazione: polpastrelli uniti,
sguardo fisso su di lei. Silenzio. Era aprile, e attraverso le sbarre dello stu-
dio in fondo al padiglione si vedevano i rami del castagno coperti di boc-
cioli bianchi. Faceva già caldo. Dal corridoio arrivavano i soliti rumori, le
chiavi nelle serrature, i mormorii, il grido attutito «In stanza, signore!». Il
rumore dello spazzolone nel secchio. L'odore di candeggina. Nello studio
silenzioso osservavo la donna pallida seduta di fronte a me. Poi mi alzai
improvvisamente in piedi.
«Non ancora, Stella» le dissi. «Penso che tu non sia ancora pronta».
«Perché?». Sollevò lo sguardo verso di me. Era inquieta e delusa.
«Non lo so. Vorrei prima capire meglio come stai».
«Be', non mi metterò a discutere» disse tranquillamente.
Annuii. A dispetto - o forse in virtù - del fatto che io, per Stella, non ero
certo la figura neutra generalmente ritenuta adatta a condurre questo tipo di
psicoterapia dinamica, a ogni incontro mi convincevo un po' di più che la
sua traslazione stesse imboccando la direzione che volevo, e la sua dipen-
denza si stesse spostando su di me. Questo pensiero mi dava una comples-
sa, particolarissima soddisfazione, che purtroppo mancai di analizzare al
momento giusto.
Tra i privilegi della sua attuale condizione c'era quello di poter passeg-
giare sulla terrazza del braccio femminile in certe ore del giorno, e Stella
lo sfruttava fino in fondo. Era arrivata la primavera, e a Stella piaceva star-
sene a guardare la campagna col cappotto sulle spalle, perché faceva anco-
ra fresco anche al sole, e spesso tirava vento. Non aveva nessuna fretta di
fare amicizia con le donne del nuovo padiglione; pensava fosse meglio che
succedesse a poco a poco, e ostentava una certa freddezza. Sapevano tutti
che era la moglie del dottor Raphael, il vicedirettore di prima, e che il dot-
tor Cleave era un suo vecchio amico. In realtà conoscevano tutta la storia;
una ragione in più per tentare di ammantarsi di un po' di mistero.
XII
Nelle settimane successive, via via che Stella si lasciava assorbire dalla
vita dell'ospedale, il suo mistero cominciò a sfumare; e del resto, pur con-
tinuando a tenersi un po' a distanza, neppure lei voleva isolarsi del tutto
dalle altre. Esprimeva molto equilibrio e molta dignità, questo sì, e portava
come un velo l'aria addolorata della protagonista di un dramma vittoriano.
La vidi anche perfezionare un certo sorriso triste, appena accennato, e no-
tai che pazienti e personale la trattavano con rispetto, quando non con de-
ferenza. Vestiva in cupe tonalità di blu, grigio e nero, e portava sempre con
sé un libro. Era un'assidua frequentatrice della nostra biblioteca.
Insomma, valutando tutti questi segni nel loro insieme la consideravo
sulla via della guarigione; pensavo che nei recessi più nascosti del suo es-
sere stesse affrontando, e accettando, i fatti di Cledwyn Heath. Avevamo
un paio di sedute alla settimana, e ogni volta che accennavo alla morte di
Charlie mi faceva credere che sì, non pensava praticamente ad altro, non
riusciva a staccarsi da quel pensiero terribile, e che la gravità della sua col-
pa la stava profondamente cambiando. A poco a poco, mentre lo spavento-
so rimorso per quel gesto atroce corrodeva come un acido il suo vecchio
sé, portando alla luce qualcosa di nuovo, Stella assunse le sembianze di
una santa, di una donna che sta dolorosamente arrivando a una catarsi. E
l'ospedale diventò quindi un monastero, un convento, e lei una dama soli-
taria afflitta da un'immensa pena che i monaci avevano accolto per consen-
tirle di compiere il suo viaggio intcriore in una quiete claustrale.
Sulla terrazza sceglieva sempre una certa panchina, dove andava a se-
dersi tutti i pomeriggi, con meticolosa puntualità, fra le tre e le quattro. A
volte una paziente o un'infermiera le facevano compagnia, ma spesso era
sola. Fra i pazienti al lavoro in giardino, o nelle terrazze inferiori, quella
figura col cappotto sulle spalle, seduta a fumare e a contemplare tran-
quillamente il paesaggio, non passava inosservata. Uno di loro, un ragazzo
con una zazzera di capelli neri, ogni volta che smetteva per un attimo di
zappare ne approfittava per voltarsi, non verso il panorama, ma verso l'al-
to, dove la donna vestita di scuro sedeva sola, assorta nei suoi pensieri, un
giorno dopo l'altro, fra le tre e le quattro del pomeriggio.
Quando me lo riferirono presi subito la cosa molto sul serio. Nessuno
doveva disturbare Stella durante il difficile periodo della convalescenza, e
meno di tutti questo giovane psicopatico coi capelli neri, un certo Rodney
Mariner. Uno dei miei. Lo feci immediatamente rimuovere dalla squadra
di lavoro, gli revocai la semilibertà e lo trasferii nel reparto agitati. Era una
misura puramente precauzionale.
Qualche giorno dopo andai nel Galles per discutere i miei progetti con
Max. Poveretto, non aveva nessuna voglia di vedermi, né che io vedessi
come si era ridotto. Lavorava ancora all'ospedale di Cledwyn, e viveva
sempre dai Williams, ma avevo la sensazione che fosse diventato una spe-
cie di recluso.
Arrivai a Plas Mold nel primo pomeriggio. La casa, il cortile, i campi e-
rano esattamente come me li aveva descritti Stella; il cane abbaiava, il tan-
fo di concime appestava l'aria. Avevo sperato di vedere, magari di sfuggi-
ta, Trevor Williams, ma di quel dongiovanni rusticano e di sua moglie non
c'era traccia. Max ciabattò fuori in camicia e bretelle, invitandomi a entra-
re. Era magro come un chiodo, l'ombra di se stesso. Attraversammo la cu-
cina immacolata e salimmo nel soggiorno, che adesso era diventato il suo
studio. Max mi propose uno sherry.
La stanza era a dir poco austera. Niente quadri, niente radio, niente tele-
visione, solo una poltrona, qualche scaffale di libri, e una scrivania con la
vista sulla vallata. Mentre Max riempiva i bicchieri mi avvicinai alla fine-
stra. Non era il panorama a interessarmi, ma le foto incorniciate che Max
teneva sulla scrivania. Erano quasi tutti ritratti di Charlie, in un paio dei
quali compariva anche lui. Ne sollevai uno alla luce. Max si materializzò
al mio fianco porgendomi il bicchiere, e guardammo insieme suo figlio.
Mormorai la cosa più ovvia, e cioè che non vedevo foto di Stella.
Con un sospiro, Max mi fece cenno di accomodarmi in poltrona. Poi gi-
rò la sedia della scrivania in modo che fossimo l'uno di fronte all'altro.
«No,» disse «niente foto di Stella».
Tanto valeva arrivare subito al dunque, e gli esposi il motivo della mia
visita. Fu sorpreso, ma non più di tanto. Purtroppo, ogni manicomio di
provincia ha il suo Max - un uomo dalla vita distrutta -, quindi conosco
bene il tipo, e in particolare so come reagiscono quasi tutti gli psichiatri al-
le tragedie personali: si lasciano affascinare dalla loro stessa sofferenza.
Sul lavoro rimangono gli stessi di prima, competenti e a volte persino e-
nergici, ma dentro sono come piegati dal peso apparentemente immane
dell'esperienza, sia loro sia dei pazienti. Perdono ogni traccia di naturalez-
za e di umorismo, e affrontano le patologie con una sensibilità troppo acu-
ta per conservare un minimo di distanza da ciò che vedono e sentono ogni
giorno in ospedale. Cancellando il confine tra salute e malattia, prendono
su di sé, come Cristo, le sofferenze dell'umanità. Si tengono alla larga dalla
vita, e spesso si dedicano a letture filosofiche, in genere misticheggianti.
Max era così. Immagino che Stella si trovi bene da voi, mi disse con voce
lugubre. Gli tracciai a grandi linee il quadro clinico.
Annuì ripetutamente, prima di sprofondare di nuovo in un silenzio cupo.
«Credo che dovresti essere molto prudente» disse alla fine.
Per i casi disperati come Max, la prudenza diventa spesso un valore as-
soluto. «Prudente?» dissi.
«Non sono nella posizione di darti dei consigli» disse con impercettibile,
plumbea ironia. «Dopotutto sei tu il medico curante. Io sono solo...» un
breve colpo di tosse «il marito».
Aspettai che aggiungesse qualcosa. Parlava a fatica. Probabilmente non
gli rimane molto da vivere, pensai. Mi chiesi se non avesse un cancro.
«Il punto è che lo ha fatto entrare in casa lei, capisci?».
Non dissi nulla. Pensavo solo che se fosse stato un mio paziente gli avrei
prescritto degli antidepressivi.
«Stella dovrebbe essere in prigione» continuò.
«Io credo che tu sia ancora molto in collera con lei, e del resto non po-
trebbe essere altrimenti».
«Non usare quel tono condiscendente con me, Peter. Guarda che so di
cosa sto parlando. Ma ognuno per sé, immagino». Un altro colpo di quella
brutta tosse secca.
«Esattamente».
«Hai la mia benedizione. Ma voglio metterti in guardia».
Un'altra pausa sofferta.
«Da cosa?».
«Dalla perfidia. Dalla menzogna».
Sembrava un gesuita. Ma avevo sentito quello che volevo sentire. Mor-
morai qualche banalità, poi mi alzai. Max si tolse gli occhiali e cominciò a
pulirseli col fazzoletto. «Comunque, tutto questo è secondario, vero?» dis-
se. «Tu vuoi arrivare a Stark».
«Li ho in cura entrambi».
Mi lanciò uno sguardo acuto, ma non aggiunse altro.
Poi mi accompagnò fuori. C'era molto vento. Max si infilò le mani in ta-
sca e rabbrividì. Quindi, guardando il cielo, mi disse: «Con la vergogna bi-
sogna lottare ogni giorno. Ma la cosa più difficile è assumersi le proprie
responsabilità».
Quando mi allontanai era ancora lì, con le mani in tasca, a guardare il
cielo. Cosa gli fosse successo era evidente; aveva rivolto le proprie ten-
denze punitive contro di sé, e si stava condannando a morte a poco a poco.
Non aveva più alcun interesse reale per Stella.
Non la vidi per parecchi giorni. A luglio, le avevo detto; adesso eravamo
alla fine di maggio. Mancavano ancora cinque o sei settimane. Le giornate
di Stella erano sempre le stesse: ogni mattina si vestiva con estrema cura,
passava a prendere un libro in biblioteca, se lo portava nella sala comune e
si metteva a leggere vicino alla finestra, a meno che una delle altre non at-
taccasse discorso. Rimaneva distante, composta, gentile, triste.
Una paziente che sta per uscire viene trattata da tutti in un modo molto
particolare. Intorno a questo strano ibrido - non più una malata, non ancora
una donna libera -, finisce sempre per crearsi un'aura di pacata celebrazio-
ne, perché una paziente che esce è motivo di vanto per il personale e di
speranza per le sue compagne. Stella era in ospedale da poco, ma aveva
sempre cercato di conservare la sua dignità, guadagnandosi così il rispetto
generale. Le altre le facevano gli auguri, e quando le chiedevano dei suoi
progetti lei rispondeva che avrebbe vissuto a Londra con la famiglia di sua
sorella. E se anche qualcuno si era chiesto perché nessun membro di quella
famiglia fosse mai venuto a trovarla, aveva tenuto quel dubbio per sé. Stel-
la, dal canto suo, non mi domandò nulla sull'autorizzazione necessaria al
nostro matrimonio.
Ogni pomeriggio me la portavano in ufficio, e in quella stanza grande e
confortevole passavamo un'ora a discutere dei nostri progetti, passati nel
frattempo da un matrimonio in forma strettamente privata a un viaggio di
nozze in Italia, dove intendevo mostrarle Firenze, che conoscevo bene, e
Venezia, che conoscevo meno. Avevamo deciso di partire a fine settembre,
quando fa meno caldo e i turisti sono tornati a casa. Poi avremmo comin-
ciato la nostra convivenza, o meglio la nostra rarefatta comunione spiritua-
le. Un pomeriggio le dissi di non condividere l'opinione corrente secondo
cui il matrimonio risolve il problema del sesso: per me il matrimonio, o
almeno il matrimonio come lo intendevamo noi, risolve il problema della
conversazione.
Ma Stella come vedeva la prospettiva di un matrimonio fondato sull'a-
micizia? Sembrava anche a lei che avrebbe risolto il problema della con-
versazione? Io credevo di sì, credevo che a questo pensasse quando sedeva
sulla sua panchina, vestita di scuro, con quell'aria di malinconica rassegna-
zione, perduta nei calcoli del suo cuore.
***
Secondo i miei calcoli fu quella notte, o tutt'al più la notte dopo, che
Stella saltò la prima dose di farmaci. Invece di inghiottire le pillole le ave-
va tenute in mano, infilandole poi nella cucitura di un reggiseno che pro-
babilmente aveva cacciato in fondo all'armadio. Dei pazienti in semilibertà
tendiamo a fidarci; non pensiamo che facciano scherzi del genere con le
medicine, ed è per questo che concediamo loro una certa privacy. Immagi-
no Stella in camicia da notte, che guarda fuori dalla finestra la prima luce
dell'alba scolpire la superficie dei mattoni. Doveva aver capito d'un tratto
che nulla sarebbe cambiato, che né la psichiatria né il trascorrere del tempo
avrebbero cancellato la scena di quel mattino a Cledwyn Heath, la testa a
pelo d'acqua, la mano che annaspava.
Ma la testa di chi? La mano di chi?
Le ombre in cortile si erano spostate. Stava sorgendo il sole.
Non diede mai problemi al personale del turno di notte. Stava ben atten-
ta, perché al minimo incidente le infermiere si sarebbero accorte che non
prendeva i farmaci. Il suo corpo sdraiato non la tradì mai. Nessuna infer-
miera venne mai a svegliarla per una dose supplementare di sonniferi: do-
veva dare l'impressione di dormire della grossa. Di giorno l'Addolorata, di
notte la Dormiente; in quegli ultimi giorni, o come probabilmente anche lei
aveva cominciato a considerarli, nei giorni prima del ballo, recitava inin-
terrottamente; la sua fu una recita totale, senza neanche la possibilità di to-
gliersi la maschera o di slacciarsi il costume per un momento.
Le altre ormai non stavano più nella pelle. Per le pazienti del braccio
femminile il ballo era importantissimo. L'agitazione era al culmine. Stella
ci scherzava su. Io naturalmente avevo partecipato a più balli di quanti me
ne volessi ricordare, e sorridevo al pensiero della tempesta di isteria re-
pressa che spazzava il braccio femminile nei giorni precedenti il grande
evento.
«E c'è persino la luna piena» le dissi.
«Un bel guaio» rispose.
«Ma no, il guaio è il mattino dopo. Il calo di tensione è quasi drammati-
co. Di solito voi signore siete molto depresse, il mattino dopo il ballo».
«Allora dovrò stare in guardia».
«Oh, di te non mi preoccupo. Fra l'altro penso che non ci dovresti venire,
se non te la senti. Io ti capirei benissimo».
«Ma figurati se non vengo. Non se ne parla. Sarebbe molto, molto anti-
sociale da parte mia».
«Sarai sotto gli occhi di tutti, e tutti faranno commenti. Lo sai, vero?».
«Sì».
La riaccompagnarono al padiglione passando, come al solito, dalle ter-
razze, e forse fu in quel momento che Stella capì di essersi fatta tanti pro-
blemi per nulla. Ma da quando aveva accettato, per ragioni diplomatiche,
di partecipare al ballo, contava quasi le ore. Non era un cambiamento così
strano come poteva sembrare; secondo me aveva semplicemente deciso
che quanto sarebbe successo quella sera avrebbe segnato, una volta per tut-
te, il suo destino.
Le pazienti prendevano i loro posti nel salone prima che venissero fatti
entrare gli uomini. Nelle ultime ore l'atmosfera nel reparto diventava deci-
samente febbrile, e l'attesa cresceva fino a un parossismo destinato prima o
poi a trasformarsi in delusione. Donne esagitate in varie fasi di vestizione
si precipitavano in corridoio alla ricerca di forcine, profumi, trucchi, bian-
cheria intima. Una lite per una spilla da due soldi sarebbe degenerata in
rissa senza l'intervento di un'infermiera. Qualche paziente strillava, qual-
cun'altra piangeva, e le giovani facevano le stupide, chiacchierando fra lo-
ro di fidanzati e storie d'amore. Le donne più mature cercavano di man-
tenersi calme, ma era difficile non farsi contagiare dalla frenesia che mon-
tava sempre più con l'avvicinarsi delle sette.
Stella rimase nella sua stanza a prepararsi. Per l'occasione aveva scelto
un abito da sera nero che aveva portato con sé dal Galles. Ormai le stava
stretto; come costume da Addolorata era un po' troppo peccaminoso, ma
del resto un'Addolorata senza peccato non avrebbe avuto senso. Contò di
nuovo le sue pillole. Si sentiva più tranquilla. Ce n'erano abbastanza, pen-
sò.
Quando uscì dalla stanza per unirsi al gruppo lasciò tutte senza fiato. Le
altre si resero immediatamente conto che era di gran lunga la più bella. E-
rano fiere di lei, e pregustavano il momento in cui, al loro ingresso nel sa-
lone - o meglio, all'ingresso degli uomini - avrebbero brillato di luce rifles-
sa. Uscirono dal reparto abbastanza tranquille, considerata la cacofonia di
voci che aveva imperato fino a pochi istanti prima. Ognuna di loro comin-
ciava a sentirsi intimidita dalla solennità dell'evento.
Scortate dalle infermiere attraversarono il cortile fino alla terrazza. Era
una serata calda. L'aria era carica di profumi, e la luce appena velata. Le
donne si bisbigliavano le ultime raccomandazioni, e in ognuna, a poco a
poco, cresceva l'orgoglio di essere lì insieme a tutte le altre, a tutte le altre
e a quell'unico fiore di bellezza. E quell'unico fiore era Stella, che cammi-
nava maestosa in mezzo a loro nel suo abito nero, un ampio scialle nero a
proteggere dal fresco della sera le braccia e le spalle nude. L'Addolorata,
fra le sue ancelle, era pronta per la recita d'addio.
Il grande salone era come lo ricordava, con le sedie lungo le pareti, le fi-
nestre aperte sulla sera, e l'orchestra che accordava gli strumenti sul palco.
Un gruppetto di infermiere stava aspettando le donne, che entrarono dalla
terrazza contemporaneamente a me e al cappellano. Rivolsi subito a Stella
un inchino, e fu in quel momento che notai cosa indossava. Rimasi senza
parole, e non riuscii a toglierle gli occhi di dosso. Come il cappellano, del
resto. Poi capii che cosa aveva fatto, e quanto doveva esserle costato, e le
feci un cenno di approvazione. Sì, aveva lo stesso vestito, lo stesso vestito
di seta nera dalla scollatura vertiginosa che aveva messo quella sera di un
anno prima. E l'effetto, stavolta, era sensazionale. La straordinaria bellezza
di Stella faceva la sua parte, naturalmente, ma c'era di più: il fatto di aver
scelto per il ballo proprio quel vestito era il gesto di sfida di uno spirito che
non era stato scalfito dalla vergogna. Mi sentii davvero orgoglioso di lei.
Stella si sedette e guardò il trambusto che la circondava. Gli infermieri
andavano avanti e indietro parlottando fra loro, le giovani più irrequiete
erano già al tavolo dove si servivano le bibite; i dirigenti dell'ospedale
chiacchieravano e ridevano con un'ostentata disinvoltura, da aristocratici
quali in un certo senso erano. Che ipocriti! In realtà l'unica cosa a cui pen-
savano era che solo un anno prima Stella era stata una di loro, e le occhiate
in tralice al suo indirizzo non si contavano. Ma con che coraggio si è ri-
messa quel vestito, dicevano i loro sguardi. I miei no, erano espliciti, e-
sprimevano solo affetto e sollecitudine, e volevo che fosse ben chiaro a
tutti. Al mio occhio tranquillo e vigile non sfuggiva nulla, e di fatto Stella
venne lasciata in pace. Il decoro e l'ordine in cui si stava svolgendo la sera-
ta erano una conseguenza diretta della mia presenza, della mia pacata auto-
revolezza e del rispetto che tanto il personale quanto i pazienti mi tributa-
vano.
Col passare dei minuti, nell'impassibilità di Stella si insinuò una certa
tensione. Poi entrarono gli uomini, e lei sentì l'atmosfera diventare di colpo
più elettrica, e vagamente minacciosa. Ora gli aristocratici sembravano
meno estenuati, e gli infermieri più attenti. Quanto alle donne, fremevano.
E mentre l'orchestra attaccava il primo pezzo, gli uomini si diressero in fila
indiana ai loro posti. Non c'erano tutti. Mancava Edgar.
Già, mancava Edgar. Le sue condizioni non gli consentivano di parteci-
pare a un ballo.
Nel corso della serata Stella danzò molto, e benché gli occhi di tutta la
sala fossero puntati su di lei non ebbe un attimo di cedimento. Non bal-
lammo insieme; del resto io non ballai con nessuno, ma a ogni giro di pista
Stella cercava il mio sguardo, e io capivo che quel suo sorriso fisso e im-
perscrutabile era diretto a me, che era con me che stava ballando. Il cappel-
lano, tra noi del personale, fu l'unico a invitarla. Non se la cavava male, e
fra le sue braccia Stella riuscì a muoversi con leggerezza e con grazia. I
brevi sguardi che mi rivolse, gli istanti fuggevoli in cui i nostri occhi si in-
contrarono, tutto la rassicurò: si stava comportando benissimo, esattamente
come avevo sperato. Povero Peter, deve aver pensato.
Verso la fine della serata salii sul palco, presi il microfono e al solito
dissi qualche parola affabile e feci un paio di battute. Sono un direttore
molto benvoluto, e il mio discorsetto incoraggiante ricevette un'accoglien-
za calorosa. Stella mi guardava senza ascoltare quello che dicevo. Le ba-
stava sentire la mia presenza, la mia elegante disinvoltura, il mio bonario
umorismo. Penso odiasse sinceramente l'idea di farmi soffrire.
Durante l'ultimo ballo rimase seduta, e al momento di rientrare si accodò
alle altre. Si incamminarono nel chiaro di luna, attraversando la terrazza
per raggiungere il braccio femminile. Le poche ragazze ancora su di giri
chiacchieravano; tutte le altre se ne stavano in silenzio, soddisfatte ma e-
sauste. Era stato un bel ballo, forse il più bello da molti anni a questa parte.
Qualche sogno d'amore si era infranto, certo, ma in compenso ne erano na-
ti molti altri. Arrivate al padiglione si scambiarono un buona notte più af-
fettuoso del solito, e ognuna rientrò nella sua stanza.
Stella si mise a letto. Appena si spensero le luci piombò il silenzio. Allo-
ra Stella si alzò, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e la lasciò scorrere. Poi
prese qualcosa dall'armadio.
Per tutte le lunghe ore di quella notte lottammo per salvarla, ma Stella
aveva vissuto fra gli psichiatri abbastanza a lungo da saper dosare con pre-
cisione una dose letale di sedativi. Morì poco prima dell'alba, senza ri-
prendere conoscenza. Quando si rilassò, abbandonando per sempre inganni
e rimozioni, la sua faccia cambiò, la sua bellezza divenne ancora più im-
pressionante. Era di nuovo pallida e meravigliosa come quando l'avevo
conosciuta. Eravamo tutti distrutti. Ricordai agli altri che chi desidera ve-
ramente morire trova sempre il modo, presto o tardi, ma non servì a conso-
lare quanti di noi si erano occupati di lei e avevano imparato, ciascuno a
suo modo, a volerle bene. La seppellimmo tre giorni dopo nel cimitero del-
l'ospedale, subito fuori dal Muro, e il cappellano celebrò il servizio. A par-
te noi interni non c'era quasi nessuno. Era una giornata calda, di sole, e su-
davamo negli abiti scuri.
Gli Straffen mandarono solo un telegramma, perché a quanto pare Jack
non stava bene, ma Max venne, e venne anche Brenda. Max era cambiato
in modo preoccupante nelle poche settimane trascorse dal nostro ultimo
incontro. Sembrava ancora più vecchio, più sottile, più curvo, e la sua pelle
era quasi trasparente. Si appoggiava a sua madre. Lei, naturalmente, era
forte; nella tragedia Brenda dà il meglio di sé. Dopo la cerimonia li invitai
a prendere uno sherry da me. Se a Max facesse effetto trovarsi quel giorno
nel mio ufficio, l'ufficio del direttore, non lo diede a vedere. Mi sorprese
Brenda, che sfornò una serie di viscide banalità. Speriamo che ora Stella
riposi in pace, mormorò. Io annuii e mi voltai dall'altra parte, lievemente
disgustato dalla sua volgarità. Era chiaro che Max non le aveva parlato dei
nostri progetti di matrimonio.
Non sono andato in pensione come avevo in mente. Mi rimane del lavo-
ro da fare. Edgar è ancora in isolamento; il suo atteggiamento non è mi-
gliorato. E ancora ostile e si rifiuta di collaborare, ma cambierà, già sento
che sta cedendo; immagino abbia capito che ormai gli resto soltanto io.
Non gli ho detto che Stella è morta, perché voglio prima sentire la sua ver-
sione dei fatti. Ci sono ancora troppe domande senza risposta. Max, per
dirne una, è tuttora convinto che i suoi vestiti non siano stati rubati d'im-
pulso, come raccontava Stella, ma che sia stata invece lei a darli a Edgar;
in altre parole, che già allora lei stesse complottando contro di noi, e fosse
a conoscenza della sua intenzione di fuggire.
A pensarci bene Edgar verrà a sapere comunque della sua morte, am-
messo che non lo sappia già. Questo è un istituto molto grande, e la gente
parla. Soffrirà molto, e noi dovremo fare molta attenzione. Come me, co-
me tutti noi era stato folgorato dalla sua bellezza, ma lui era andato più a
fondo di noi, l'aveva idealizzata e poi aveva dovuto lottare contro il caos
delle sue stesse passioni quando si era ritrovato nell'impossibilità di nutrire
l'immagine che aveva creato. Penso fosse quello che inconsciamente aveva
cercato di esprimere con la sua ultima opera, benché sostenesse di voler
soltanto scardinare certezze, capovolgere abitudini e convenzioni visive.
Non riesco a non sentirmi vicino a quelle due povere anime sconvolte, in-
trappolate qui nelle ultime settimane della loro vita, ciascuna a contorcersi
nel suo inferno privato, ciascuna a spasimare per l'altra. So come funzio-
nano le storie d'amore distruttive, e alla fine si arriva sempre a questo, o a
qualcosa di molto simile.
Ho ripreso l'abitudine di tornare in ufficio verso sera. La polizia è stata
molto comprensiva, e ora tutti i ritratti di Stella fatti nel sottotetto, e anche
gli schizzi dell'orto, sono in mano mia. Hanno un tratto curiosamente in-
certo, e all'occhio risulta qualcosa che ricorda quella che gli italiani chia-
mano «morbidezza». Ho anche la testa. L'ho fatta cuocere e colare in bron-
zo nero, e la tengo nel cassetto della scrivania. Edgar ci ha lavorato così
ossessivamente, negli ultimi giorni in Horsey Street, e sempre a togliere,
che adesso è affusolata e minuscola. È bellissima: sottile, minuscola, ango-
sciata... ma è lei. La tiro fuori spesso, durante il giorno, e resto a contem-
plarla. E così, vedete, dopotutto ho ancora la mia Stella qui con me.
E naturalmente ho lui.
FINE