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PATRICK McGRATH

FOLLIA
(Asylum, 1996)

A Jack Davenport

Con amore e gratitudine a mia moglie Maria


che mi ha aiutato e sostenuto mentre scrivevo questo libro;
e con i più affettuosi ringraziamenti
al dottor Brian O'Connell per la sua preziosa consulenza
nelle questioni psichiatriche.

Le storie d'amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale


sono un mio interesse professionale ormai da molti anni. Si tratta di rela-
zioni la cui durata e la cui intensità differiscono sensibilmente, ma che
tendono ad attraversare fasi molto simili: riconoscimento, identificazione,
organizzazione, struttura, complicazione, e così via. La storia di Stella Ra-
phael è una delle più tristi che io conosca. Stella era una donna profonda-
mente frustrata, che subì le prevedibili conseguenze di una lunga negazio-
ne e crollò di fronte a una tentazione improvvisa e soverchiante. Come se
non bastasse, era una romantica. Traspose la sua esperienza con Edgar
Stark sul piano del melodramma, facendone la storia di due amanti male-
detti che sfidano il disprezzo del mondo in nome di una grande passione. È
stata una vicenda il cui corso ha distrutto quattro vite, eppure Stella, am-
messo che abbia mai provato qualche rimorso, è rimasta fedele alle sue il-
lusioni fino alla fine. Io ho cercato di aiutarla, ma lei mi ha tenuto lontano
dalla verità finché non è stato troppo tardi. Non aveva scelta. Non poteva
permettersi di lasciarmi vedere le cose come stavano: sarebbe stata la rovi-
na delle poche, fragili strutture psichiche che le erano rimaste.
All'epoca dei fatti Stella era sposata con Max Raphael, uno psichiatra
criminale; avevano un figlio di dieci anni, Charlie. Il padre di Stella, un di-
plomatico, era stato rovinato anni prima da uno scandalo, ma adesso sia lui
che la moglie erano morti. Quando sposò Max, Stella aveva sì e no ven-
t'anni. Max era un uomo riservato, piuttosto malinconico, con buone doti
di amministratore, ma debole, e senza fantasia. Fin dal nostro primo incon-
tro capii che non era la persona adatta per una donna come Stella. Quando
Max fece domanda per il posto di vicedirettore, lui e Stella vivevano a
Londra. Max venne da noi per un colloquio; fece buona impressione sul
consiglio direttivo, e soprattutto sul direttore, Jack Straffen. Nonostante il
mio parere contrario, Jack gli offrì il posto, e qualche settimana dopo i Ra-
phael arrivarono in ospedale. Era l'estate del 1959, e il Mental Health Act
era appena diventato legge.
Anche se dio solo sa se non si è preso i miei anni migliori, questo è un
posto spaventoso. E un istituto di massima sicurezza, una cittadella fortifi-
cata che sorge su un alto colle e domina la campagna circostante: fitte pi-
nete a nord e a ovest, bassi acquitrini a sud. È costruito secondo il tipico
schema lineare dell'architettura vittoriana, con i bracci che si irradiano dai
corpi principali in modo che tutti i padiglioni abbiano la vista libera sull'a-
perta campagna al di là del Muro. È un'architettura morale, che esprime
regolarità, disciplina e organizzazione. Tutte le porte si aprono verso l'e-
sterno, perché non si possano barricare, e tutte le finestre hanno le sbarre.
Solo le terrazze digradanti, che scendono fino al muro ai piedi della collina
e ricoperte di alberi, manti erbosi e aiuole fiorite, ingentiliscono e rendono
in qualche misura più umana la tetra architettura carceraria che le sovrasta.
La residenza del vicedirettore si trova a un centinaio di metri appena dal
Cancello principale. È una grande casa scura di pietra grigia, uguale a
quella dell'ospedale, un po' in disparte dalla strada interna e nascosta fra i
pini. Costruita in un periodo in cui i medici arrivavano con famiglie nume-
rose e almeno due domestici, era decisamente troppo grande per i Raphael.
Prima del loro arrivo era rimasta vuota per anni, e il giardino, abbandonato
a se stesso, era inselvatichito. Con mia grande sorpresa, Max si preoccupò
immediatamente di risistemarlo. Fece pulire lo stagno sul retro della casa,
ci rimise l'acqua e i pesci rossi, e potò le siepi di rododendro che correvano
tutt'intorno al prato, facendole rifiorire.
Il progetto che lo interessava di più, tuttavia, era il restauro della vecchia
serra in fondo all'orto. Era una grande costruzione ornamentale del secolo
scorso, che era servita per coltivare orchidee, gigli e altre delicate piante
tropicali. A suo tempo era stata una struttura ariosa e imponente, ma all'ar-
rivo di Max e Stella si trovava in un tale stato di abbandono che si era par-
lato di abbatterla. Quasi tutti i vetri erano rotti, e i pochi sopravvissuti era-
no coperti di polvere e ragnatele. La vernice si era scrostata, e in molti
punti le parti in legno erano marcite e crepate. Dentro gli uccelli avevano
fatto il nido, topi e ragni erano di casa, e tra le fessure del pavimento di
pietra crescevano le erbacce.
Ma Max Raphael aveva una passione per il vittoriano, e l'architettura e-
sotica della serra, coi suoi ghirigori di legno e vetro e gli slanciati archi
romanici delle finestre, sembrava piacergli in modo particolare. Fortuna
volle che tra i pazienti in semilibertà dell'ospedale c'era un uomo che so-
steneva di poter restaurare la serra. Quell'uomo era lo scultore Edgar Stark.
Edgar era uno dei miei. Io sono sempre stato affascinato dalla personali-
tà artistica; credo dipenda dal ruolo vitale che l'impulso creativo svolge in
psichiatria, o quantomeno nel mio lavoro clinico. Quando arrivò da noi,
Edgar Stark era già una figura di spicco nel mondo dell'arte, anche se quel-
lo che ci trovammo davanti la prima volta era un uomo confuso e molto
scosso, che si trascinò in ospedale come una grande bestia ferita e rimase
ore e ore piegato in due su una panca tenendosi la testa fra le mani. Mi
colpì subito, e quando riuscii a calmarlo e a farlo parlare scoprii che si trat-
tava di un individuo dalla personalità molto forte, con una mente originale,
e dotato di un notevole fascino, se solo decideva di usarlo. Tra di noi si
sviluppò rapidamente un rapporto basato su un affettuoso antagonismo,
che io incoraggiavo con uno scopo ben preciso: volevo che sentisse di ave-
re un rapporto speciale col suo medico.
Al tempo stesso diffidavo di lui, perché aveva un'intelligenza irrequieta
e subdola, pronta a cogliere i meccanismi dell'ospedale e sempre molto at-
tenta al proprio interesse. Sapevo che avrebbe sfruttato ogni situazione a
suo vantaggio.
Sembrerà strano, ma l'unica volta che l'ho visto insieme a Stella è stato
al ballo dell'ospedale, un anno dopo l'arrivo dei Raphael e a tre settimane
esatte da quando aveva cominciato a lavorare, ai primi di giugno, nell'orto
di Max. I balli costituiscono un evento importante nel calendario ospeda-
liero, e sono sempre preceduti da un'attesa febbrile. Si svolgono nel salone
dell'Amministrazione, un ambiente molto spazioso col soffitto alto, un pal-
co a un'estremità, una fila di colonne al centro, e portefinestre che si apro-
no sulla prima terrazza. L'orchestra si sistema sul palco, mentre da una par-
te si dispongono lunghi tavoli su cavalietti con tartine e bibite. Al ballo
possono partecipare i pazienti in semilibertà del braccio maschile e di quel-
lo femminile, chi insomma non deve rimanere chiuso nei padiglioni, e per
una sera all'anno loro e il personale diventano una famiglia allargata, senza
distinzioni di qualifica o condizione.
Almeno in teoria. La realtà è che a un ballo i malati di mente non danno
il meglio di sé. I nostri pazienti si vestono in modo eccentrico e si muovo-
no con goffaggine, impediti come sono, in eguai misura, dai tarmaci che
assumono e dalla malattia che li richiede. Nonostante gli energici sforzi
della nostra orchestra, e l'allegria forzata del personale, ho sempre trovato
molto imbarazzanti queste serate, cui partecipo per dovere e senza aspet-
tarmi nulla di piacevole. Quella sera, mentre osservavo la festa dall'ombra
di una colonna in fondo alla sala, non mi sembrò particolarmente strano né
che Edgar Stark avvicinasse la moglie del vicedirettore, né che lei ballasse
con lui. Ricordo che mi sfrecciò davanti fra le sue braccia, mentre l'orche-
stra attaccava un pezzo piuttosto vivace e latineggiante.
Fino a poco tempo fa non ho saputo con precisione quello che accadde
di lì a poco. Forse avrei dovuto accorgermi che qualcosa non andava, per-
ché avevo notato che Stella era leggermente arrossita. Li seguii con lo
sguardo mentre attraversavano rapidi la pista e passavano proprio davanti
al tavolo del direttore, e solo adesso capisco che insulto sfrontato, esplici-
to, temerario Edgar ci sbatté in faccia quella sera.
Il ballo finì alle dieci in punto, e i pazienti si allontanarono rumorosa-
mente. Jack invitò i suoi collaboratori più stretti, quelli che non se ne erano
ancora andati, a bere qualcosa da lui. Io e Max, tutti e due in smoking, tutti
e due con un buon sigaro, uscimmo insieme e ci avviammo chiacchierando
di vari pazienti. Il cielo era terso, la brezza tiepida, e il mondo sotto di noi,
le terrazze, il muro, gli acquitrini, tutto era buio e tranquillo sotto la luna.
La voce di Stella ci arrivava limpida nell'aria calda della notte. Oh, nella
mia vita ho conosciuto molte donne belle ed eleganti, ma nessuna quanto
Stella quella sera. Aveva un vestito da sera nero e scollato, di seta grezza a
coste, un gros-grain raffinatissimo che non avevo mai visto. La scollatura
quadrata lasciava intravedere la curva del seno. Il vestito era aderente, ma
dalla vita in giù si apriva a campana, formando sulle ginocchia come un tu-
lipano, con uno spacco in mezzo. Portava tacchi vertiginosi, e uno scialle
posato sulle spalle. Stava chiedendo a Jack del suo ultimo compagno di
ballo, e sentendo il nome del mio paziente rividi per un attimo quegli uo-
mini e quelle donne trascinarsi nei loro vestiti sbagliati. Avevano tutti
qualcosa di impercettibilmente sghembo: tutti, tranne lui.
Jack era in piedi in fondo al terrazzo, e teneva aperto il cancello per Max
e per me. Stella era visibilmente divertita alla vista di due primari in smo-
king che affrettavano il passo per non far aspettare il loro direttore. Un
paio di minuti dopo eravamo nel salotto degli Straffen, e il telefono suona-
va. Era l'infermiere capo; riferiva al direttore che nessun paziente mancava
all'appello, e che l'ospedale era stato chiuso per la notte.
Io non sono una persona socievole, e appena c'è un po' di gente tendo a
rimanere in disparte. Lascio che siano gli altri a venire da me, è un privile-
gio dell'anzianità. Anche dagli Straffen mi ero messo vicino alla finestra
del salotto, e bisbigliavo mezze frasi alle mogli dei colleghi che, via via,
passavano a salutarmi. E guardavo Stella, cui Jack stava raccontando qual-
cosa che era accaduto a un ballo di vent'anni prima. A Jack Stella piaceva
per le stesse ragioni per cui piaceva a me: per il suo spirito, il suo distacco
e la sua sensazionale bellezza. So che era considerata splendida. Tutti di-
cevano meraviglie dei suoi occhi; aveva la carnagione pallida, quasi diafa-
na, e folti capelli biondi, quasi bianchi, che teneva piuttosto corti e pettina-
ti all'indietro. Era decisamente florida, con un bel seno, più alta della me-
dia, e il giro di perle che portava quella sera dava risalto al candore del col-
lo, delle spalle e del petto. Allora la consideravo un'amica, e mi interroga-
vo spesso sulla sua vita inconscia. Mi domandavo se dietro quella sua ma-
schera algida nascondesse serenità e ordine, o se, molto più semplicemen-
te, Stella riuscisse a dominare le proprie nevrosi meglio di altre donne.
Pensavo che chi non la conosceva avrebbe potuto scambiare il suo auto-
controllo per freddezza, o addirittura per indifferenza, e in effetti era pro-
prio per questa ragione che, al suo arrivo in ospedale, Stella aveva incon-
trato resistenze e ostilità.
Ma ormai quasi tutte le signore l'avevano accettata. Si era sforzata di
partecipare ai nostri vari comitati interni e, in generale, di fare tutto quello
che ci si aspetta dalla moglie di un primario. Quanto a Max, se ne stava lì
col suo bicchiere di sherry e un mezzo sorriso di indulgenza vagamente in-
quieta, mentre le signore gli raccontavano aneddoti più o meno rac-
capriccianti del ballo. Sembrava che ognuna di loro si fosse scelta con cura
un compagno talmente goffo da far sfigurare chi l'aveva preceduto l'anno
prima.
Quella sera Stella parlò di Edgar, ma non davanti al gruppo al completo,
e naturalmente senza neppure accennare a quello che lui aveva fatto in pi-
sta. A un certo punto venne da me, e mi disse che quell'uomo ballava come
un dio. Non era uno dei miei pazienti?
Ma certo che era uno dei miei. Credo di averlo detto con una specie di
cinismo affettuoso, perché ricordo che Stella mi scrutò con estrema atten-
zione, come se mi fossi lasciato sfuggire qualcosa di importante.
«Lavora nel nostro orto. Lo vedo spesso. Non ti chiedo cosa pensi di lui,
perché so che non me lo diresti».
«Come puoi vedere da te,» replicai «è un tipo estroverso, che sa farsi
benvolere, e dotato di una certa, come dire, vitalità animale».
«Vitalità animale. Già, è vero. È un caso molto grave?».
«Insomma».
«A parlarci non si direbbe affatto».
Si voltò per gettare un'occhiata a quei gruppetti di vecchi conoscenti,
ognuno a modo suo un po' eccentrico, come capita spesso nelle comunità
psichiatriche. «Il fatto è che noi siamo più strani rispetto alla media della
popolazione, no?» mormorò, continuando a guardare gli altri.
«Non c'è dubbio».
«Max sostiene che la psichiatria attrae chi ha il terrore di diventare paz-
zo».
«Max parli per sé».
La battuta strappò uno sguardo in tralice ai suoi grandi occhi indolenti.
«Ho visto che non ti sei concesso neppure un ballo».
«Sai benissimo che sono negato, per queste cose».
«Ma le signore si divertono da morire. Dovresti farlo per loro».
«Stai diventando una vera santa, mia cara».
Si girò verso di me, fissandomi a lungo. Poi si tirò su una spallina. «Una
santa?» disse, e in quel momento vidi che Max guardava nella nostra dire-
zione pulendosi distrattamente gli occhiali, senza cambiare di una virgola
quel suo atteggiamento lugubre. Lo vide anche lei, e voltandosi dall'altra
parte mormorò: «Mi par di capire che la mia ricompensa sarà in paradiso».

Più tardi, quella stessa sera, tornai in studio per stendere le mie osserva-
zioni. Il comportamento di Edgar mi aveva impressionato. Guardandolo
ballare con Stella si stentava a credere che soffrisse di un disturbo che
comprometteva gravemente i suoi rapporti con le donne. Prima di venire
da noi aveva fatto per alcuni anni lo scultore, con tutte le tensioni che solo
chi vive nel mondo dell'arte conosce. Circa un anno prima del suo ricovero
cominciò a essere ossessionato dall'idea che sua moglie Ruth avesse una
relazione con un altro. A detta di tutti, Ruth Stark era una donna assoluta-
mente tranquilla e ragionevole, che posava per Edgar e il più delle volte
provvedeva al sostentamento di entrambi. Ma a causa delle violente e fero-
ci accuse di lui il matrimonio aveva cominciato a sfasciarsi, e Ruth minac-
ciava di andarsene.
Una notte che tutti e due avevano bevuto ci fu una scenata terribile, e lui
la massacrò a martellate; ma fu quello che le fece dopo a mostrarci fino a
che punto fosse disturbato. Benché le urla di Ruth si sentissero fino in
strada, nessuno era accorso. Edgar arrivò da noi in uno stato di profondo
shock. Dopo averlo aiutato a riprendersi, mi aspettavo di vedere insorgere
le reazioni inevitabili in casi come il suo, e cioè il rimorso e il senso di
colpa. Ma a quanto potevo vedere non c'era traccia né dell'uno né dell'al-
tro; qualche settimana più tardi Edgar riacquistò il suo equilibrio, e presto
cominciò a partecipare a varie attività all'interno dell'ospedale.
Eravamo preoccupati per lui. Pur dimostrando una notevole intelligenza,
non dava alcun segno di sapere perché avesse ucciso sua moglie. A tur-
barmi non era solo la persistenza delle sue ossessioni, ma anche la loro as-
surdità intrinseca. Sosteneva di avere una montagna di prove dell'infedeltà
di lei, eppure quando gli chiedevamo quali fossero tirava fuori solo piccole
banalità quotidiane in cui scorgeva significati abnormi. Uno scarico di
sciacquone, una macchia sul pavimento, la posizione di una scatola di de-
tersivo sul davanzale, queste erano le cose cui sembrava attribuire impor-
tanza. Su tutti gli altri piani poteva considerarsi recuperato, tanto che a-
vrebbe potuto essere dimesso, ma su quest'unico punto, e cioè sulla logici-
tà del suo omicidio, era irremovibile. Oh, ammetteva che non avrebbe do-
vuto succedere, e rimpiangeva di aver bevuto in quel modo, ma insisteva
di esserci stato quasi costretto dalle provocazioni e dagli insulti di Ruth.
Né io né nessun altro pensavamo che potesse uscire, per il momento. Era
con noi da cinque anni, e secondo me ci sarebbe rimasto almeno altri cin-
que. Questa era la situazione quando gli venne affidato il restauro della
serra di Max Raphael.
Ogni mattina, quell'estate, vari gruppi di pazienti in semilibertà, con i
pantaloni di fustagno giallo, la casacca azzurra e una giacca di tela bianca
buttata sulle spalle, uscivano dal Cancello principale, seguiti da un infer-
miere, per dedicarsi a vari lavori di manutenzione. Edgar faceva parte del
gruppo assegnato all'orto del vicedirettore. Stella lo incontrava spesso
quando andava a cogliere un po' di verdura o dei fiori, e se il sorvegliante,
un infermiere anziano di nome John Archer, non era a tiro si sedeva per
qualche minuto a chiacchierare. Ammise in seguito di essersi sentita attrat-
ta da lui quasi fin dal primo momento. Per ovvie ragioni aveva cercato di
non pensarci, ma il fatto che ogni giorno lui fosse là fuori le aveva reso più
facile escogitare pretesti per incontrarlo. In fondo che male c'era a fare a-
micizia con un paziente? Questo era ciò che si ripeteva per giustificare il
proprio comportamento.
Come era successo?
La prima volta che le feci questa domanda non riuscì a darmi una rispo-
sta convincente. Evitava il mio sguardo e divenne evasiva. E quando az-
zardai che poteva essersi semplicemente trattato di una qualsiasi storia di
sesso, destinata a finire come era cominciata, il suo sognante distacco
scomparve, e per un attimo sentii, da parte sua, una vampata di ostilità.
Che a poco a poco si spense. Era già gravemente depressa, e non riusciva a
tollerare le emozioni. Accennò a qualcosa che lui aveva fatto un giorno,
qualcosa che esprimeva, oh, forza, tenerezza...
Chissà. Evitai di insistere.
Fu in uno dei nostri colloqui successivi che mi raccontò con meno reti-
cenza cosa avesse fatto Edgar per affascinarla e attrarla in quel modo fin
dall'inizio. Un pomeriggio molto caldo Stella era andata a cogliere un po'
di lattuga, e aveva visto Charlie in fondo all'orto con un paziente, quel-
l'uomo grande e grosso coi capelli neri di cui lei non sapeva neppure il
nome, ma solo che riparava la serra di Max; questo succedeva un paio di
settimane prima del ballo. Curiosa di vedere cosa stesse combinando il ra-
gazzo, aveva preso il sentiero, mentre Charlie le gridava di essersi inventa-
to una prova di forza che doveva assolutamente andare a vedere. Charlie
Raphael era un ragazzino piuttosto grasso, con la pelle chiara come quella
di sua madre che in estate si copriva di lentiggini. I capelli castano scuro
gli ricadevano sulla fronte in una spessa frangia, e quando rideva scopriva
la fessura tra gli incisivi da coniglio. Quell'estate portava sempre una ca-
micia di cotone a maniche corte, dei calzoncini molto larghi e dei sandali,
e vista la quantità di progetti di ricerca in cui era impegnato aveva le gam-
be immancabilmente graffiate e incrostate di fango.
Stella si sedette all'ombra sulla panchina vicino al muro e rimase a guar-
dare Charlie che chiedeva al paziente di rimanere dov'era, sul sentiero, e di
impugnare una vanga alle due estremità del manico tenendola in orizzonta-
le, mentre lui ci si inginocchiava sotto e la afferrava al centro.
«Alza!» gridò Charlie.
Il paziente lanciò un'occhiata a Stella ed eseguì, e Charlie si sollevò len-
tamente da terra aggrappandosi con tutte e due le mani alla vanga, le gi-
nocchia piegate e la faccia stravolta dallo sforzo. «Adesso conto!» urlò.
«Uno, due tre, quattro...».
Rimase aggrappato fino a venti, quando Stella, ridendo, lo pregò di la-
sciare che quel poveretto lo mettesse giù. Charlie urlò: «Giù», e venne de-
positato delicatamente a terra. «Sei proprio forte» disse guardando con
ammirazione Edgar, che sembrava uscito indenne dalla prova. Stella mi
disse di aver sentito il primo fremito di interesse per lui proprio mentre
Charlie penzolava come una scimmia dal manico della vanga.
Il giorno dopo tornò alla serra per vedere cosa stava facendo Edgar.
Scelse liberamente di andarci; è un fatto, e in quanto tale difficile da giusti-
ficare, o da nascondere. Lo trovò in cima a una scala che toglieva schegge
di vetro da un telaio, liberandole con estrema cura dal mastice ormai in bri-
ciole. Le gettava in un bidone vicino alla scala, e a brevi intervalli la quiete
sonnacchiosa del pomeriggio era spezzata dal rumore dei vetri infranti.
Vedendola avvicinarsi Edgar scese dalla scala e si tolse gli spessi guanti da
lavoro.
«Mrs Raphael» disse. Si piantò davanti a lei con un leggero ansito, sco-
standosi i capelli dalla fronte, e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un faz-
zoletto rosso e bianco col quale si asciugò il sudore prima dalla faccia, poi
dalle mani, continuando a fissarla con un'espressione che secondo Stella
era amichevole, ma al tempo stesso, in qualche modo, beffarda, o piuttosto
provocatoria: era come se la stesse sfidando a gettare la maschera.
Ma Stella si trovava del tutto a suo agio nelle schermaglie di quel gene-
re, senza contare che l'uomo che aveva davanti le era simpatico. «Non de-
ve smettere di lavorare» disse. «Volevo solo vedere cosa stava facendo».
«Edgar Stark».
Si strinsero la mano. Stella si riparò gli occhi dal sole voltandosi verso la
serra. «Vale la pena di ripararla?».
«Oh, è bellissima. Le cose erano costruite per durare, allora. Come que-
sto posto».
Le sorrise indicando il Muro, che si vedeva attraverso i pini in fondo al
giardino, vicino alla strada.
«Sarà un po' meno tetra, spero».
«Quando avrò finito sarà magnifica. Vi siete sistemati bene?».
«Be', siamo qui da un anno».
«Così tanto?».
Edgar tirò fuori il tabacco e si arrotolò una sigaretta. Quel gesto aveva
qualcosa di libero, e le piaceva. Non si comportava come un paziente.
«E lei da quanto tempo è qui?» gli chiese.
«Cinque anni, ma uscirò presto. Ho ucciso mia moglie».
Edgar al suo meglio, ricordo di aver pensato sentendo questo. Ma quanto
a schiettezza Stella era perfettamente in grado di tenergli testa.
«Perché?».
«Mi tradiva».
«Mi spiace».
Non era uno stupido. Le tragedie erano pane quotidiano, per Stella, che
infatti si mostrò comprensiva. È difficile che la moglie di uno psichiatra
criminale si lasci impressionare da una confessione del genere.
«Faceva il muratore, fuori?».
«L'artista. Ero uno scultore. Figurativo, per lo più. Si interessa di arte,
Mrs Raphael?».
«Non è che abbia molte occasioni, qui. A Londra sì».
La prima impressione di Stella fu che Edgar non fosse né servile né ar-
rogante. Disse che c'era qualcosa di solido e di maturo, in lui, e io non po-
tei fare a meno di pensare a tutti quei discorsi deliranti e maniacali sulla
sua defunta moglie. Se li avesse sentiti anche lei forse lo troverebbe un po'
meno solido e un po' meno maturo, pensai. Ma non li aveva sentiti, e così
l'indomani, dopo aver colto quello che le serviva nell'orto, scese di nuovo
fino alla serra.
Lo trovò sulla scala, stavolta senza casacca. Stava parlando di calcio con
Charlie, che era arrampicato sul muro dell'orto. Edgar era un omone, con
un fisico massiccio - spalle larghe, molto petto, molte cosce, molto stoma-
co - e la pelle morbida bianca. Stella notò subito le mani grandi e sottili, le
belle, forti, sensibili mani di un artista. Era quasi glabro, e si chiese se fos-
se il tipo che ingrassava. Poi gli propose di bere qualcosa di fresco.
Quando tornò poco più tardi con un bicchiere di limonata Edgar si era
rimesso la casacca. Stella chiese a lui e a Charlie se poteva sedersi per un
po' sulla panchina all'ombra. Mi confessò che le piaceva guardarlo lavora-
re, e intanto io pensavo a Max, al cerebrale Max, alto quanto Edgar ma
curvo, pallido, e con quella mania di pulirsi in continuazione gli occhiali;
Max poteva anche aver avuto l'idea di restaurare la serra, ma per metterla
in pratica era servito il lavoro di un altro. E i risultati si vedevano già. Mol-
ti dei vecchi vetri erano stati tolti, e adesso la struttura, ridotta allo schele-
tro, aveva una scarna essenzialità. E una sua strana bellezza, aggiunse Stel-
la, che tornando a casa portò con sé quell'immagine, l'immagine di un o-
mone a torso nudo, sicuro di sé, che in cima alla scala staccava le schegge
dall'intelaiatura della serra vittoriana - a una a una, con delicatezza.
Tornò il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Lui le parlò di suo figlio,
del figlio che aveva lasciato senza madre, Leonard, si chiamava così, e a-
desso aveva più o meno l'età di Charlie, anche se non lo vedeva da più di
cinque anni. Era stato affidato ai parenti della moglie, i quali avrebbero
fatto di tutto perché il ragazzo non venisse mai a sapere chi era suo padre.
Una storia perfetta per suscitare le simpatie di una madre.
Peccato che fosse falsa. Edgar non aveva figli.
Un giorno le chiese se poteva chiamarla Stella, e lei rispose di sì, ma non
davanti a John Archer o a Charlie.
Un'altra volta Edgar stava facendo lo schizzo di una decorazione floreale
tutta arrugginita che doveva ricostruire, e le chiese se poteva farle il ritrat-
to. Lei accettò. Edgar la fece sedere sulla panchina, e in pochi minuti pro-
dusse uno strano bozzetto. Non aveva niente di naturalistico, e nelle sue li-
nee sbavate era impossibile ritrovare la rotondità e la monumentalità che io
vedevo in Stella; ma in qualche modo le somigliava. Lei gli chiese se po-
teva tenerlo, e lui, senza una parola, strappò il foglio dal blocco e glielo
diede.
«Ma lo deve firmare» gli disse Stella.
Per una serie di ragioni che non si sentiva di analizzare troppo a fondo,
chiuse il disegno in un cassetto e lì lo tenne, senza farlo vedere a nessuno.
Anche se in superficie non era successo nulla di scabroso, Stella si era ben
guardata dall'accennare a Max del suo nuovo amico; e passando sotto si-
lenzio un evento che nella sua vita quotidiana aveva una qualche impor-
tanza, si era lasciata andare a una forma di ambiguità. La razionalizzò. A-
vrebbe dovuto sapere che l'inganno corrode l'integrità di un matrimonio, e
tenerne conto, ma non lo fece. Scelse di non farlo, e da questa scelta di
comodo seguì tutto il resto.
Oh, si diceva, ma che assurdità, e che banalità, oltretutto, l'idea che
scambiare due parole con un paziente nell'orto potesse avere importanza. E
allora, se era tutto così banale, che motivo aveva di ragionarci su? Il moti-
vo era la sua crescente attrazione sessuale per quell'uomo, cui stupidamen-
te aveva ceduto nel modo più ambiguo, cioè cercando di fare amicizia con
lui e lasciando che si insinuasse nelle sue fantasie.

All'inizio parlare di queste cose fu per lei tutt'altro che facile. So che era
tentata di imputare i fatti, e le loro tragiche conseguenze, al destino, o ai
capricci del cuore umano. Cercò insomma di scaricare le responsabilità
come del resto facciamo tutti, anche se non le piaceva accampare scuse o
nascondersi dietro astrazioni. Ma difese fino alla fine Edgar, cioè l'unica
persona che avrebbe potuto accusare. Non l'ho mai, assolutamente mai
sentita attribuirgli la responsabilità di quanto era accaduto.
La prima volta che mi resi conto della loro crescente intimità fu il giorno
che Charlie cadde dal muro dell'orto. Vicino alla serra c'era un vecchio
melo, e quando Edgar era sulla scala Charlie saliva sul muro, e da qui si
arrampicava sull'albero. Era uno scalatore impavido, ma non molto agile
data la sua grassezza, e un giorno, mentre stava tornando dall'albero al mu-
ro, il ramo si spezzò: Charlie perse l'equilibrio, cadde con un grido sul sen-
tiero, e per un paio di secondi rimase privo di sensi.
Quando Edgar piombò in casa col ragazzo semisvenuto fra le braccia
Stella era di sopra. Mrs Bain, la donna di servizio, era seduta al tavolo di
cucina a sgusciare piselli. Questa Mrs Bain era sposata con uno degli in-
fermieri anziani, un certo Alec Bain; fu lui a raccontarmi, in seguito, cosa
avesse pensato sua moglie vedendo un paziente che entrava non solo senza
bussare, ma anche chiamando Mrs Raphael a gran voce. E per nome. E-
dgar voleva mettere il ragazzo su un letto o su un divano, ma siccome Mrs
Bain non ebbe la presenza di spirito di indicargli il soggiorno le passò ol-
tre, uscì dalla cucina e andò in anticamera. Lei cominciò a urlargli dietro
proprio mentre Stella scendeva le scale di corsa e lanciava un grido terro-
rizzato.
Charlie stava bene. Si riprese in pochi minuti, tanto che Stella non giudi-
cò fosse il caso di telefonare a Max in ospedale. Lo tenne abbracciato men-
tre Mrs Bain andava a prendere un asciugamano umido, mostrando anche
di spalle la sua opinione sui pazienti che si presentano in casa senza essere
invitati e chiamano in quel modo la moglie del dottore. Charlie tentò di al-
zarsi, ma Stella gli disse di restare disteso ancora un po'. Poi si voltò verso
Edgar, che era rimasto in piedi passandosi le mani fra i capelli.
«Grazie per averlo portato dentro» gli disse. Sembrava sollevato a vede-
re che il ragazzo era tutto intero. Ovvio, pensò Stella, si sarà sentito re-
sponsabile.
«Tutto a posto» disse Edgar.
«Credo anch'io. Ma per oggi è meglio che rimanga a casa».
«No!» disse Charlie.
«Sì, invece» disse Stella.
Edgar uscì dalla porta della cucina. Stella pensò che forse sarebbe stato
il caso di spiegare a Mrs Bain perché Edgar mostrava tanta familiarità nei
suoi confronti, ma qui venne a galla la sua consueta, orgogliosa noncuran-
za, e non disse una parola; non vedeva proprio perché avrebbe dovuto far-
lo.

Benché non fosse accaduto ancora nulla di fisico, questo episodio con-
tribuì a cementare una specie di legame fra loro. Naturalmente Stella a-
vrebbe dovuto troncarlo, appena si rese conto che comportarsi in modo
tanto informale con un paziente le avrebbe causato, prima o poi, qualche
problema. Ma non le passò neppure per la testa. In quel momento non per-
se tempo a chiedersi perché si sentisse più divertita che allarmata; in segui-
to disse che doveva essere per via dell'atteggiamento ridicolo di Mrs Bain,
che si comportava come se i pazienti appartenessero a una classe inferiore.
Edgar cominciò a raccontarle la sua vita in ospedale, e lei si rese conto,
con un certo stupore, di aver sempre considerato quello che le accadeva in-
torno solo dal punto di vista di Max, cioè in una prospettiva psichiatrica.
Ora intravedeva una prospettiva nuova, cominciava a capire cosa signifi-
casse vivere, mangiare e dormire in un reparto sovraffollato, sessanta uo-
mini in un dormitorio pensato per trenta, con servizi igienici che risalivano
al secolo prima e che di solito funzionavano per modo di dire. In particola-
re, trovò raccapricciante la storia di un paziente del Reparto 1, che si lava-
va la faccia nella propria urina e poi usava l'asciugamano comune.
Cominciò a sentirsi coinvolta. Il processo di identificazione, in un primo
momento ancora confuso e protetto da un apparente distacco amichevole,
diventò a poco a poco sempre più forte. La indignava l'idea che quest'uo-
mo, questo artista, fosse costretto a subire l'umiliazione dei bagni antidilu-
viani, della mancanza di intimità, delle angherie, della noia, e dell'incertez-
za più assoluta circa il proprio futuro. Adesso era nel Reparto 3, un pazien-
te in semilibertà con una stanza tutta per sé, ma doveva ancora tollerare
cose che il senso di giustizia di Stella considerava incompatibili con la cu-
ra e l'assistenza della malattia mentale. A parte il fatto che non era più così
sicura che Edgar fosse davvero un malato di mente. Pensava avesse com-
messo un delitto passionale; e la passione di per sé è una cosa positiva, no?
Edgar non si spingeva mai troppo oltre, e non rimaneva mai serio troppo
a lungo. Spesso la faceva ridere, come quando le raccontava del matemati-
co di Cambridge che passava i suoi giorni seduto in un angolo della stanza
comune a tracciare calcoli complicatissimi su un foglio di carta igienica, o
di partite di bridge così impetuose che una volta una lite si era messa male
e un paziente ci aveva quasi lasciato un occhio. Le diceva che ogni tanto
gli sembrava di essere diventato socio di un club molto esclusivo, visto che
aveva conosciuto banchieri, avvocati, ufficiali e agenti di cambio; vecchi
etoniani, ma anche uomini dei bassifondi.
«Però abbiamo tutti una cosa in comune».
«Cioè?».
«Siamo tutti pazzi».
Stella ricordava bene quel momento. Era seduta nell'orto, sulla panchina
all'ombra del muro, mentre Edgar era in cima alla scala, a torso nudo, e la
guardava dall'alto ridendo della propria battuta: che lei non aveva trovato
affatto divertente.
«Io non credo che lei sia pazzo».
Il tono di Edgar cambiò di colpo, adeguandosi al suo.
«Neanch'io».
«E allora non dovrebbe essere qui».
Non dovrebbe essere qui. Non era esattamente quello che voleva sentirle
dire? Che la moglie del vicedirettore giungesse alle sue stesse conclusioni,
be', questo sì era un bel passo avanti.

Poi ci fu il ballo.
Stella sostiene che il mattino dopo il ballo era rimasta per ore seduta al
tavolo di cucina davanti a una tazza di tè, sfogliando distrattamente un
giornale. Aveva pensato a quello che era successo per gran parte della not-
te, e si sentiva a disagio. La sostanza, mi disse, era che mentre ballava con
Edgar si era resa conto che quello che lui le stava strofinando addosso at-
traverso i pantaloni era, be' sì, era il pene: e gli stava diventando duro. Dis-
se di ricordare distintamente i due momenti, prima l'indecisione, e poi, un
attimo dopo, la certezza che era proprio quello che pensava che fosse; ma
nell'attimo stesso in cui si scostava da lui, nell'attimo stesso in cui apriva la
bocca per gridare la sua indignazione, qualcosa le aveva fatto cambiare i-
dea, qualcosa che aveva riconosciuto nell'espressione di Edgar - una specie
di sgomento muto come se quello che gli stava succedendo fosse più forte
di lui. Era tutto molto buffo, e anche triste, e Stella si era lasciata com-
muovere da quel bisogno che aveva percepito così all'improvviso. E poi sì,
si era strofinata anche lei contro la sua erezione, e avevano volteggiato per
tutta la sala stretti l'uno all'altro, Edgar palesemente raggiante e Stella con
lo sguardo fisso in un punto lontano, con un'espressione dignitosa e imper-
scrutabile. Quella sua compostezza, del resto, non l'abbandonò mai, né al-
lora né in seguito. Quando la musica finì, e Edgar si voltò di colpo avvian-
dosi dall'altra parte della sala, a Stella era quasi dispiaciuto.
Quel che mi raccontò certo non mi sconvolse. Fui sorpreso, però, sorpre-
so e infastidito, non tanto dalla natura della loro connivenza - sia Edgar sia
Stella avevano una libido molto forte, e tutti e due erano chiaramente ecci-
tati dalla dimensione pubblica dell'episodio -, quanto dal fatto che lui aves-
se messo in pericolo con tanta leggerezza il nostro lavoro, quello che ave-
vamo fatto insieme io e lui: se Stella avesse raccontato quello che era suc-
cesso saremmo tornati indietro di mesi, se non di anni.

Il giorno dopo il ballo fu uno dei più caldi di tutta l'estate. Stella fece tre
o quattro bagni in diversi momenti della giornata, e ogni volta, mentre si
spogliava, le sembrava di sentirsi di nuovo addosso quell'erezione. Fino a
quel momento la sua attrazione per lui era stata una faccenda strettamente
intima, e non le era neppure venuto in mente che potesse essere reciproca;
e invece, a quanto pareva, lo era. La presenza di Edgar nell'orto cominciò
quindi a diventare un problema.
Era seccante, perché nell'orto c'erano molte cose che le servivano, cipol-
line, ravanelli, lattuga. Pur non essendo una donna timida, Stella non aveva
nessuna voglia di riprendere i rapporti con lui, anche perché si rendeva
perfettamente conto che non poteva permettersi di cedere una seconda vol-
ta. Ma siccome prima o poi avrebbe comunque dovuto scendere nell'orto e
affrontare Edgar, decise che tanto valeva farlo subito. Il mattino dopo spa-
recchiò gli avanzi della colazione, si spazzolò i capelli, si mise un po' di
rossetto e uscì, passando dal cortile. Portava un leggero abito estivo, e san-
dali bianchi senza calze.
Il sole era già caldo. Il muro che circondava l'orto era coperto di edera, e
un manto di muschio rivestiva gli interstizi fra i mattoni. Alla porta di le-
gno, col suo arco moresco arrotondato, era appena stata data una mano di
verde. Stella ci si fermò davanti, in ansia. Sentiva la maniglia scottare sotto
le dita. Alla fine la abbassò; il sentiero correva tra una profusione di fiori e
verdure, e cascate di gattaria si riversavano sulla ghiaia. L'aria era immobi-
le e luminosa, e gli insetti ronzavano fra le rose. I vasi da fiori brillavano
nel sole. A metà sentiero Stella vide John Archer seduto sulla panchina.
Era in maniche di camicia, e si arrotolava una sigaretta tutto piegato in a-
vanti, con i gomiti sulle ginocchia. Stella non aveva nessuna voglia di par-
largli, ma era troppo tardi per tornare indietro. Sentendo i suoi passi sulla
ghiaia, John Archer scattò immediatamente in piedi. «Mrs Raphael» disse.
«Buon giorno, Mr Archer».
Contro il muro era appoggiata una pila di pannelli di vetro. Edgar, in gi-
nocchio, stava togliendo con uno scalpello la malta sgretolata dal basa-
mento della serra. Sentendola arrivare si accovacciò sui calcagni, poi, ripa-
randosi gli occhi con la mano, alzò lo sguardo verso di lei, che si era fer-
mata sul sentiero, a pochi metri di distanza. Non disse nulla, la guardò sol-
tanto, in attesa, senza sorridere, con i capelli che gli cadevano sulla fronte
e quella sua espressione di mortale serietà. Stella colse la delicatezza della
situazione. John Archer era tenuto a mostrarle deferenza in quanto moglie
di un dottore, mentre Edgar era un paziente, e quindi, rispetto a loro due,
quasi un intoccabile. Eppure, in un certo senso, a spingerla nell'orto era
stato proprio il suo diretto approccio fisico, quel muto gesto sessuale di un
uomo verso una donna. Adesso Edgar si era alzato in piedi, e rimase fer-
mo, sfidandola in silenzio a tradirlo.
«Mr Archer,» disse Stella «Charlie potrebbe aiutare gli uomini a fare il
falò?».
John Archer rispose di sì.
«Sa come sono i bambini... Ma se disturba lo mandi via».
Mentre risaliva il sentiero inondato di sole immaginava gli sguardi che i
due si scambiavano alle sue spalle. Poco prima, incrociando gli occhi soc-
chiusi di Edgar, Stella aveva provato una fitta di eccitazione, ma aveva re-
sistito: non intendeva spingere oltre la sua connivenza. È abile, pensò, e
sgradevole, e crede di tenermi in pugno perché gli ho lasciato fare quella
cosa al ballo.
Scacciò dalla mente quella sordida esperienza.

Il fatto che io e lei fossimo amici non facilitò in alcun modo i nostri pri-
mi colloqui, anzi. Le inibizioni di Stella erano evidenti. Convinto che,
molto semplicemente, si vergognasse di parlare, cercai di farle capire che
non aveva alcun bisogno di nascondermi nulla, perché non intendevo giu-
dicarla. Solo qualche tempo dopo mi resi conto che il motivo per cui esi-
tava ad aprirsi con me non era la vergogna, ma l'incertezza circa il mio at-
teggiamento verso Edgar. Non era sicura che sarei riuscito a capire quello
che lei aveva fatto, e soprattutto il perché: temeva che avrei dato la colpa a
lui. Appena lo intuii, riuscii a convincerla che non intendevo giudicare
neppure Edgar, perché in quanto psichiatra, le dissi, i giudizi morali non
mi interessavano. Era una rassicurazione di cui Stella sembrava avere e-
stremo bisogno.
Da quel momento in poi, infatti, cominciò a parlare, e fu come se si fos-
se aperta una diga da cui l'intera vicenda si rovesciò in un diluvio di detta-
gli. Era con Charlie nel prato dietro casa. Stava leggendo un romanzo, ma
ogni tre secondi alzava lo sguardo in preda a una certa inquietudine, perché
Charlie era inginocchiato sul bordo dello stagno dei pesci rossi e guardava
nell'acqua. Lo stagno era profondo, e non le piaceva affatto che Charlie
stesse lì, ma si sforzava di non essere troppo protettiva. Era tutta l'estate
che Charlie trafficava con anfibi di varie specie, che teneva in una serie di
acquari in cortile. Max gli aveva detto che sarebbe stato felice se fosse di-
ventato uno zoologo.
A Stella gli anfibi non piacevano, così come non le piaceva vedere Char-
lie zampettare intorno allo stagno in quel modo, ma proprio mentre stava
per dirgli di allontanarsi sentì il telefono che squillava. «Stai lontano dal
bordo» gli disse, poi attraversò il prato ed entrò dalla portafinestra.
La stanza di Edgar era al piano terra del Reparto 3. A un'estremità del
padiglione c'era la stanza comune e all'estremità opposta, vicino al locale
degli infermieri, due piccoli parlatori, in uno dei quali c'era un telefono.
Come Edgar fosse riuscito a trovare il modo di usarlo non l'ho mai capito.
Certo corse un grave rischio, perché se fosse stato scoperto avrebbe perdu-
to all'istante il privilegio della semilibertà. Dato che tutte le chiamate in-
terne passavano per il centralino, immagino si sia fatto passare per un in-
fermiere che voleva parlare col dottor Raphael.
Quando pochi minuti dopo Stella tornò fuori non era ben sicura di cosa
fosse successo. Edgar si era scusato per il suo comportamento, ed era stato
così spiritoso, e così, oh, così adulto che tutto sommato lo trovava di nuo-
vo simpatico. Lui le aveva ricordato la loro amicizia, alludendo di sfuggita
al fatto che non toccava una donna da cinque anni. Non era mica scemo, il
mio Edgar. Disse che quello che aveva fatto era imperdonabile, ma che le
era grato di non aver detto nulla. Né in quel momento né in seguito Stella
pensò di dover riferire a Max della telefonata, non più di quanto pensasse
di dovergli raccontare quello che Edgar le aveva fatto al ballo.
Quando tornò fuori Charlie era ancora sul bordo dello stagno. Le urlò
che forse c'erano delle bisce. Stella andò a sedersi e riprese il suo romanzo.
Charlie si stava sporgendo pericolosamente sull'acqua, tenendosi al bordo
con una mano mentre con l'altra esplorava il fondale, ma lei non gli disse
di allontanarsi. La sua mente cominciò quasi subito a vagare. Seduta al-
l'ombra del vecchio frassino Stella guardava senza vederla la casa, le por-
tefinestre del soggiorno, e più oltre l'anticamera, e in fondo all'anticamera
la porta di casa, che si vedeva anche da lì, e più oltre ancora il viale, gli al-
beri e il Muro. Si sentiva sollevata, in pace con se stessa, come se il tumul-
to nell'ordine delle cose provocato dal quel pene indocile fosse stato seda-
to, e la sua amicizia con Edgar recuperata.

II

In quella fase Stella non si rendeva ancora pienamente conto che Edgar
Stark soffriva di gravi disturbi mentali. Non aveva passato, come me, ore e
ore ad ascoltare i suoi deliri morbosi, e benché avesse appreso dalle sue
labbra quello che aveva fatto continuava a giustificarlo, a ritenere quell'o-
micidio soltanto un delitto passionale, il che naturalmente le consentiva di
farsi di lui un'immagine romantica. Appena Edgar lo intuì cambiò subito
tattica, ma in un primo momento credo avesse un obiettivo più circoscritto:
influenzare, attraverso Stella, Max, portandolo a considerare con un certo
favore l'eventualità di un suo rilascio. In questo, Edgar dimostrava tutta la
sua ingenuità, perché le cose non funzionano così. Dal mio punto di vista,
l'aspetto più interessante era comunque che Edgar si comportava in modo
manipolatorio, e che almeno all'inizio aveva cercato di usare la sua notevo-
le sensualità come strumento di controllo: il fatto poi che questo controllo
avesse deciso di esercitarlo sulla moglie di un dottore era un segno della
debordante megalomania dei suoi piani.
All'inizio del nostro rapporto avevo discusso con lui la strategia psicote-
rapeutica che intendevo adottare. Gli avevo detto che il mio scopo era
smantellare le sue difese: abbattere la facciata, gli atteggiamenti, tutte le
false strutture della sua personalità disturbata, per poi ricominciare da zero,
ricostruendolo, per così dire, dalle fondamenta. E siccome sarebbe stato un
processo lungo ed estenuante, avrebbe avuto bisogno di tutto l'appoggio
che potevo dargli. Lavoravamo insieme da quasi quattro anni, ma adesso
questa sua relazione clandestina con Stella denotava una certa malafede
nei miei confronti. Anziché tentare di analizzare le caratteristiche patologi-
che dei suoi rapporti con le donne, Edgar stava innescando il processo che
già una volta lo aveva condotto all'omicidio, e che era stato la causa del
suo arrivo da noi.
Poi successe qualcosa, qualcosa che credo nessuno dei due avesse previ-
sto, se non altro a livello conscio: Edgar e Stella sottovalutarono - come
può capitare a chiunque in circostanze analoghe - la violenza dei sentimen-
ti che si scatenarono in lei. In sostanza, non si resero conto che le barriere
della cautela e del senso comune minacciavano di crollare, travolgendo il
loro fragile equilibrio.

Parlare di sesso con una persona come Stella, che ovviamente trovava
sgradevole chiamare le cose col loro nome, non era facile. Eppure, quando
mi raccontò com'era cominciata, lo fece senza risparmiare i dettagli. Era
successo tutto nel primo pomeriggio di un'altra limpida, luminosa, calda
giornata estiva. La luce del sole filtrava dalle finestre delle grandi stanze al
pianterreno, facendo brillare il parquet tirato a lucido. Stella gironzolava
per casa a piedi nudi, passando da una stanza all'altra senza trovar pace. A
un certo punto si fermò davanti allo specchio sopra il camino e squadrò
con severità la sua immagine riflessa.
Si diede una sistemata ai capelli, poi salì in camera a cambiarsi; mise un
morbido vestito estivo, leggero e scollato; una passata di rossetto davanti
allo specchio della toilette e tornò di sotto. Andò alla portafinestra che da-
va sul prato e guardò fuori; poi si versò da bere. Quella mattina, Edgar le
aveva proposto senza tante cerimonie di andare nella serra con lui. Agita-
tissima, Stella aveva imboccato di corsa il sentiero ed era tornata a casa.
Sesso con quell'uomo: espressa a chiare lettere, l'idea che da tanto tempo si
agitava nella sua immaginazione aveva una forza devastante.
Uscì di casa dalla porta principale e attraversò il vialetto. Un'apertura
nell'alta siepe di fronte dava su quello che un tempo era stato un grande
prato, ma ora, da quando nessuno se ne occupava più, era diventato una di-
stesa di erbacce e fiori selvatici. Stella la attraversò, dirigendosi verso l'ar-
co che si apriva nel muro dell'orto vicino alla serra, e quando lo raggiunse
si fermò in attesa, con la schiena appoggiata ai mattoni.
Sentiva Edgar lavorare. Sentiva il vetro andare in pezzi nel bidone. Sa-
peva che lui non ci avrebbe messo molto ad accorgersi della sua presenza
sotto l'arco, perché avrebbe visto la sua ombra sul sentiero; ma dubitava di
poter resistere a lungo così lì. Da un momento all'altro avrebbe probabil-
mente trovato ridicolo quello che stava facendo, e sarebbe tornata di corsa
a casa.
Silenzio. Poi vide Edgar di fronte a lei. Senza dire una parola, Stella lo
trascinò nella serra. Gli prese la testa fra le mani, le guance fra le dita, e lo
baciò con foga sulla bocca. Si gettarono sul pavimento, nascosti alla vista
dal basso muro di pietra su cui poggiava la struttura. Lei si sistemò rapi-
damente per terra, mentre lui si inginocchiava sbottonandosi i pantaloni.
Qui usai una certa delicatezza. Non potevo forzare apertamente la sua ri-
luttanza a parlare di quello che accadde poi. Ci saremmo tornati più avanti.
Immagino comunque sia stato tutto piuttosto primitivo, un misto di smania
famelica e di istinto. Immagino che Edgar l'abbia presa subito, e brutal-
mente, e che fosse quello che lei voleva; era avida quanto lui, nessuna ti-
midezza ormai, nessuna esitazione. E immagino che sia finito abbastanza
in fretta, e che subito dopo Stella, rossa e bollente, sia corsa in casa e sia
salita dritta in bagno. Conosco quel bagno. I pezzi originali sono intatti. La
grande vasca ha i rubinetti di ottone annerito, e poggia con le quattro zam-
pe leonine sul pavimento di mattonelle stinte. Una felce, rigogliosa nell'a-
ria densa di vapore della grande stanza umida, deborda dal vaso di terra-
cotta vicino alla porta, e subito accanto c'è la grande cesta di vimini per la
biancheria.
L'acqua scrosciava dai rubinetti. Stella si spogliò ed entrò nella vasca,
sentendo a poco a poco la febbre placarsi. Ci rimase un'ora, con gli occhi
chiusi e la mente vuota, anche se non del tutto, perché sotto la superficie si
agitava la consapevolezza di ciò che aveva appena fatto. Rivedere quella
scena, o anche solo ammettere di averla vissuta, le era intollerabile; ma ci
sono forme di esperienza mentale che sfuggono al meccanismo della rimo-
zione, e in quelle oscure regioni della sua psiche Stella non poteva non
chiedersi se, avendolo fatto una volta, l'avrebbe fatto di nuovo; e benché in
realtà non si ponesse il problema in questi termini (li avrebbe respinti con
sdegno se si fossero affacciati alla sua coscienza), sapeva con certezza, la
certezza che accompagna ogni pensiero intollerabile, che la risposta era sì.

Qualche ora dopo Stella era seduta nel prato all'ombra del frassino, in
una poltrona di vimini bianca, con un bicchiere in mano e il romanzo in
grembo, quando sentì Max alla porta. Entrò in casa, traversò l'anticamera e
gli aprì; sembrava che avesse qualche problema con le chiavi. In abito scu-
ro, con la cravatta allentata, Max era stanco e accaldato, e soprattutto mo-
riva dalla voglia di bere qualcosa.
«Giornataccia» disse.
Alle sue spalle, in fondo al vialetto, i pini si stagliavano in una massa
scura contro il cielo della sera. Stella lo abbracciò con un calore per lei in-
solito, e mentre lo faceva pensò che per spingere un'adultera fra le braccia
del marito non c'è niente di meglio di un bel senso di colpa.
«Ehi» disse Max mentre lei gli si aggrappava come una donna alla deri-
va, una donna che sta per annegare «Che succede?»
Stella andò davanti allo specchio sopra il camino spento e si aggiustò i
capelli, cercando di cogliere sul proprio volto una qualche traccia di pecca-
to.
«Niente. È che oggi mi sei mancato, tutto qui».
«E come mai?»
Si voltò a guardarlo. Nella sua voce c'era una curiosità autentica, e Stella
sentì di avere improvvisamente di fronte lo psichiatra, non l'uomo, o me-
glio vide distintamente l'uomo rientrare nell'ombra, lasciando che lo psi-
chiatra venisse allo scoperto per esaminare quel frammento della sua vita
psichica alla ricerca di un significato. Fu allora, in quel momento, che Max
diventò il suo nemico. Adesso Stella era certa che se avesse abbassato la
guardia lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo. E sentiva di dover usare
tutta l'astuzia di cui era capace per celare il suo esplosivo segreto allo
sguardo di chi era ormai, da pochissimo, un estraneo: un estraneo con una
micidiale capacità di insinuarsi nella mente altrui e interpretarla.
Se non rimarrò costantemente sul chi vive lo scoprirà senza neanche
sforzarsi troppo, pensò mentre versava da bere per tutti e due. E lo scoprirà
non per una mia banale distrazione, ma leggendomi nel pensiero - leggen-
domi come un libro, un libro scritto con frammenti di comportamento, sfu-
mature passeggere di espressione, atti mancati di cui io non mi renderò
nemmeno conto. Ah, devo stare attenta, d'ora in poi devo stare molto atten-
ta. Questo pensava Stella. Ma per mettere a punto una politica di dissimu-
lazione aveva ancora un po' di tempo, perché Charlie entrò di corsa e, sen-
za aspettare di riprendere fiato, cominciò a raccontare a suo padre di un os-
so che aveva trovato nell'acquitrino.
«Penso che sia umano» disse.
«Non credo proprio» rispose Max con un sorrisetto.
«Secondo me ci potrebbe essere stato un omicidio» fece Charlie con aria
tenebrosa.
Stella si avvicinò alla portafinestra, guardò il sole che calava e si conces-
se di pensare al suo amante.
Nei tre giorni successivi ci pensò a intermittenza, senza mai scendere
nell'orto. Una sera, a cena, Max lo nominò, facendola trasalire.
Era riuscita a nascondere lo shock, lo shock che aveva provato nel senti-
re quel nome sulla bocca di Max?
Stella pensava di sì. O forse Max si era distratto; gli capitava spesso di
avere la testa altrove. In ogni caso, Max disse che per qualche giorno E-
dgar Stark si sarebbe occupato del giardino del cappellano. Grazie al cielo,
si disse Stella, adesso non dovrò immaginarlo sempre qua fuori.
Dopo qualche giorno di ansia terribile cominciò a sentirsi più calma.
Pensò fosse il sollievo che si prova dopo uno scampato pericolo. Fu sor-
presa di scoprire in sé un affetto nuovo per Max, e si rese conto che gli era
grata perché non aveva sospettato nulla, perché senza volere le aveva con-
cesso di seppellire il suo colpevole segreto. E così il primo, violento shock
per quella spaventosa trasgressione - fare sesso con un paziente, a neanche
cinquanta metri da casa - cominciò ad attenuarsi, e Stella si disse che era
stato solo un momento di follia, nient'altro; e che, naturalmente, non si sa-
rebbe più ripetuto. Eppure la preoccupava l'idea che prima o poi Edgar sa-
rebbe ritornato in giardino, e che allora, volendo, avrebbe saputo dove tro-
varlo.
Adesso che si stavano avvicinando alla fase dell'organizzazione e della
struttura, Stella, com'era prevedibile, cominciò a creare nella sua mente
una sorta di arabesco, una griglia di pensieri e sentimenti il cui scopo era
riportarla da lui. Mi raccontò che un caldo mattino di luglio uscì a bere il
suo tè sulla terrazza a nord della casa, guardando da sotto l'elegante cap-
pello di paglia i pazienti che svuotavano nel falò le carriole cariche di le-
gna secca e altri rifiuti sparsi nel campo. Abbandonato da anni, quel terre-
no ampio, coperto di bassa vegetazione, si appiattiva gradualmente, per poi
risalire oltre il recinto fino alla macchia di alberi decidui che, coronando la
cima più lontana, segnava il limite della foresta.
Il progetto di Max era farlo ripulire per mettere un manto nuovo. Aveva
in mente di seminarlo a pascolo, un'idea che turbava Stella perché lasciava
supporre che sarebbero rimasti in quella casa più a lungo di quanto lui le
aveva fatto credere. Le sembrava che in realtà la vera ambizione di Max
fosse addomesticare e coltivare sia l'ospedale che la tenuta, fino a farne i
suoi giardini gemelli.
I pazienti continuavano a lavorare sodo. La legna stagionata prendeva
subito, e bruciava nel sole sollevando spruzzi di scintille bianche e oro.
Stella vide gli uomini gettare nel fuoco mucchi di erba secca, e fare un
passo indietro quando cominciarono a sprigionarsi nubi di fumo nero. A-
desso erano tutti a qualche metro dal falò, e lo tenevano d'occhio ap-
poggiati ai forconi. Uno di loro si voltò, e riparandosi gli occhi dal sole
guardò in alto, verso la cima del pendio, dove Stella era in piedi col suo
cappello di paglia e la tazza di tè. Lei gli restituì lo sguardo.
In quell'occasione, Stella era rimasta sconcertata dal proprio comporta-
mento, e mi domandò cosa potesse significare. Non aveva fatto nemmeno
un gesto, era solo rimasta ferma a guardare quell'uomo. Lui aveva afferrato
le maniglie della carriola e l'aveva spinta su per il pendio, senza andare di-
rettamente verso di lei, ma prendendo invece il sentiero che arrivava alla
porta del recinto. Aveva i bragoni di fustagno delle squadre di lavoro e la
casacca azzurra dell'ospedale, coi polsini slacciati. Si fermò per togliersi
un ciuffo di capelli dalla fronte e si asciugò il sudore con un fazzoletto
bianco e rosso che le era certamente familiare, perché Edgar ne aveva uno
identico. Stella non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, e lui lo sapeva.
Cominciò a sventolarsi piano piano col cappello; poi, irritata, si girò e rien-
trò in casa.
Non le dissi che, in funzione del suo rapporto con Edgar, aveva comin-
ciato non solo a identificarsi con i pazienti, ma a erotizzarli. Aveva erotiz-
zato il corpo del paziente.

Edgar lavorò per tutta la settimana nel giardino del cappellano, e tornò
alla serra il lunedì successivo. Stella sapeva che era lì, lo sentiva lavorare,
e sapeva cosa doveva fare. Aspettò che Max andasse in ospedale e che
Charlie uscisse a fare un giro in bicicletta. Aveva deciso di trattarlo con
freddezza quando lo avesse rincontrato, per fargli capire che considerava
quanto era successo un errore di cui non avrebbero dovuto parlare mai più,
e che naturalmente non si sarebbe ripetuto. D'ora in poi avrebbero mante-
nuto un contegno consono alle loro rispettive posizioni. Anche Edgar sa-
rebbe stato d'accordo, ne era certa. Attraversò il cortile ed entrò nell'orto.
Edgar era lì, e vedendolo Stella sentì il suo cuore cantare.
Con Stella c'era sempre di mezzo il cuore, il linguaggio del cuore.
Edgar era in piedi davanti al vecchio tavolo da vasaio che usava per i la-
vori di falegnameria, e le dava la schiena; e anche se doveva averla sentita
sul sentiero non si mosse finché non fu vicinissima. Poi si girò di colpo.
Ora erano in piedi l'uno di fronte all'altra. Stella tremava. Lui le sfiorò la
guancia, sorridendo della sua agitazione.
«Grazie al cielo».
Stella si appoggiò al muro, che le trasmise il suo tepore attraverso la ca-
micetta. Resistere alla tentazione era impossibile, tutto qui. Era perduta.
Edgar appoggiò le sue grandi mani sul muro, ai lati della testa, e si piegò
in avanti, la faccia vicinissima alla sua. Stella lo guardò freddamente negli
occhi, ma i suoi pensieri erano tutt'altro che freddi. Gli afferrò la casacca,
aggrappandosi con tutte le sue forze.
«Mi hai pensato?»
Lui annuì. Stella lo attirò a sé, e mentre si baciavano sentì la mano di
Edgar posarsi prima sul seno, poi sui fianchi, poi scendere ancora.
«Non qui» sussurrò.
Lui fece un passo indietro, e Stella si allontanò dal muro. Arrivata sotto
l'arco si voltò: in piedi davanti alla serra, Edgar si stava pulendo le dita su
uno straccio, senza toglierle gli occhi di dosso. Stella attraversò il campo
fino alla macchia di pini. Non c'era nessuno. Si inoltrò fra gli alberi e andò
a stendersi tra le felci. Poi sollevò una mano per ripararsi gli occhi dal sole
che filtrava tra i rami.
Lo stava aspettando con la camicetta sbottonata, quando sentì le voci. Si
mise a sedere. Non riusciva a distinguere le parole, ma erano voci maschi-
li, e venivano dal campo. Trattenne il respiro. Aveva capito cos'era succes-
so: Edgar aveva incontrato John Archer, e i due si erano fermati a parlare
mentre lei era nascosta lì, sotto gli alberi, a venti metri da loro. Qualche at-
timo dopo Stella si trovò a lottare contro un impulso bizzarro: le scappava
da ridere. Voleva urlare tutta la gioia sfrenata che le dava quella situazione
così indecente ma anche, in tutta franchezza, così comica, perché non riu-
sciva a non pensare come l'avrebbe presa Max, cosa avrebbe detto vedendo
sua moglie nascosta nel bosco, mezza nuda, privata dei suoi pochi, furtivi
momenti di piacere solo perché un infermiere aveva casualmente intercet-
tato Edgar Stark, impedendogli di raggiungerla.
Poco dopo le voci scemarono. Stella sgattaiolò fuori dal bosco e rag-
giunse il vialetto che la riportò a casa. Salì subito al piano di sopra a farsi
un bagno, e quando scese in salotto per bere qualcosa era ancora un po'
stordita. Si sedette in poltrona con un libro, il bicchiere in mano, e si acce-
se una delle sue rare sigarette.
Ancora una volta la sua reazione l'aveva stupita. Perché mai le era venu-
to da ridere? Cosa significava? Sapeva benissimo cosa sarebbe successo
se fosse stata scoperta, e ridere era come dire che non gliene importava
nulla. Questa era la sua interpretazione. La mia era che invece c'entrasse,
in qualche modo, la rabbia.
Quale rabbia?
La rabbia verso Max. Le dissi di non avere molti dubbi sul fatto che il
suo comportamento fosse legato al desiderio di ferire Max.
Scosse la testa. Non credo, Peter, disse. Ma io sospettavo in lei un consi-
stente fondo di rancore, anche se, dato che non era ancora pronta a parlar-
ne, evitai di insistere. Ci saremmo arrivati.

La fase successiva sarebbe stata l'organizzazione. Fissare tempi e luoghi,


dar loro una struttura. A complicare il tutto, naturalmente, c'era il fatto che
Edgar godesse di una libertà di movimento così limitata, ma all'interno di
quei limiti i due riuscirono comunque a trovare tempi e luoghi, ci si riesce
sempre; e insomma sì, si organizzarono.
Il giorno dopo l'interferenza di John Archer si incontrarono alla serra, e
Stella disse a Edgar che dovevano inventarsi qualcosa.
Lui era al banco da lavoro. Rimase in silenzio a lungo.
«Allora vuoi che continuiamo a vederci?» disse alla fine.
Stella era seduta sulla panchina all'ombra del muro, con il cappello di
paglia e gli occhiali da sole. Sollevò la testa e annuì. Lui sembrò barcollare
impercettibilmente e tornò al lavoro. «Archer» mormorò.
Stella gettò qualche fiore nel cestino che aveva con sé, poi si alzò in pie-
di e riprese il sentiero verso casa, lungo il quale, annunciato dallo scric-
chiolio della ghiaia sotto gli stivali, veniva avanti John Archer. Stella si
sforzò di comportarsi con naturalezza.
«Buon giorno, Mr Archer. Complimenti per i pomodori. Belli e dolci».
Archer annuì con aria affabile e disse qualcosa sulle insalate estive. Stel-
la si domandò che cosa, in quel suo sguardo fermo, la mettesse in allarme.
Forse niente. Forse solo il suo senso di colpa, a parte il fatto che Archer
aveva l'abitudine di aspettare che parlasse l'altro, creando un silenzio che
andava riempito; e Stella si sentiva a disagio con gli uomini che si compor-
tavano così.
In questo caso, comunque, il suo disagio era giustificato. John Archer mi
riferiva tutto. Aveva un occhio molto acuto e una mente subdola, subdola
quasi quanto quella di Edgar; mi aveva messo al corrente fin da subito di
quella loro amicizia sempre più stretta. Forse sbagliai, ma avevo deciso di
non intervenire. Ero curioso. Edgar non vedeva una donna da cinque anni.

Il nostro campo da cricket è un'ampia distesa di terreno piatto fiancheg-


giata dai pini e chiusa su un lato dalla strada interna, nel tratto che costeg-
gia il giardino dei Raphael risalendo verso il Cancello. Oltre gli alberi, dal-
la parte dell'ospedale, c'è un'altra strada secondaria che scende passando
vicino al Muro e gira intorno alla casa del cappellano prima di attraversare
gli acquitrini. Subito sopra questa strada, in una posizione che domina il
campo da cricket sorge, all'ombra dei pini, il capanno. È una graziosa co-
struzione in legno, un po' vecchiotta, con il tetto di assi e un galletto segna-
tempo. Sul davanti c'è la veranda ombreggiata dove ci sediamo a guardare
le partite, e dentro uno stanzone fresco e tetro con un bar.
Quell'estate c'era sempre una squadra di pazienti al lavoro nel giardino
del cappellano, il quale, come Max, si era imbarcato in una serie di proget-
ti che comprendevano la costruzione di una serra. Edgar era il miglior car-
pentiere che avessimo nelle squadre di lavoro esterno, e quindi c'era spesso
bisogno di lui. Poteva andare da un giardino all'altro senza scorta, e per
scendere la collina prendeva un sentiero che passava vicino al capanno, di
cui Stella, in quanto membro del comitato del cricket, aveva le chiavi.
Ecco, adesso era tutto organizzato. Si sarebbero visti là.
Nei momenti di lucidità, Stella analizzava freddamente quello che stava
facendo. Una sera, mi raccontò, era uscita per fare quattro passi al chiaro
di luna. Era arrivata allo stagno dei pesci rossi, si era seduta sul bordo a
guardare le forme grasse, vaghe e argentate scivolare tra i gigli nell'acqua
nera, e aveva pensato con un sorriso alle bisce di Charlie. Aveva guardato
la luce che dalle portefinestre del soggiorno si riversava sul prato, e più
sopra, nel buio, le finestre aperte della camera di Charlie, con le tende che
fluttuavano leggere nella brezza, e all'improvviso l'idea della sua vita fami-
liare le era sembrata commovente. Era una vita protetta, e il suo comfort, il
suo senso e il suo ordine erano strettamente connessi a Charlie e al suo be-
nessere. Quindi non riuscì a non pensare all'avventura che si stava conce-
dendo, e d'improvviso si rese conto con assoluta chiarezza che se vi si fos-
se abbandonata avrebbe messo a rischio proprio quell'ordine. Per la prima
volta sentì un brivido di paura.
Fu una sensazione che non l'abbandonò per giorni, bloccando ogni ulte-
riore sviluppo. Ma Stella non riusciva comunque a trovar pace. Un mattino
imboccò il vialetto, attraversò la strada e si diresse verso il campo da cri-
cket. Era l'ennesima giornata calda e luminosa di quell'estate, e in mezzo al
campo, in pieno sole, due pazienti coi bianchi cappelli flosci e la casacca
arrotolata intorno al petto spingevano sudando avanti e indietro il grande
rullo. Passando non vista, o almeno sperava, sotto i pini, Stella fece il giro
del campo e arrivò al capanno. Sul retro c'era una rimessa vuota dove ve-
niva tenuto il rullo. Dentro, nel buio, si sentiva odore di erba tagliata e di
terra. Alla fine Stella trovò proprio quello che cercava, una finestrella rag-
giungibile dal tetto della rimessa.
Tornò sul davanti e salì i gradini di legno che portavano alla veranda. I
pazienti al lavoro erano due macchie indistinte nel sole, e non c'era traccia
di infermieri. Stella si girò verso la porta del capanno e la aprì.
Dentro c'erano alcune sdraio appoggiate contro il muro. Un unico raggio
di sole penetrava il buio, illuminando un pezzo di parquet sul quale, negli
anni, le scarpe da cricket dei giocatori che uscivano dallo spogliatoio ave-
vano impresso centinaia di cerchietti. Nello sgabuzzino Stella trovò co-
perte e cuscini, che sistemò sul pavimento. E mentre contemplava quel let-
to di fortuna si era resa improvvisamente conto, con stupore, di ciò che
stava facendo: stava progettando di portare lì un uomo per fare sesso con
lui. E non un uomo qualsiasi; un paziente. Il tuo paziente, Peter. Scappò
via, chiudendo a chiave e tornò a casa, dove trovò Mrs Bain che trafficava
in cucina.
Quel giorno, e l'indomani, non si avvicinò neppure all'orto, benché sen-
tisse benissimo Edgar martellare e segare. Alla fine una reazione aveva
preso il sopravvento sulle altre. Era una specie di torpido raccapriccio, e
secondo Stella si era manifestato per la prima volta la notte che si era sedu-
ta sul bordo dello stagno e aveva percepito il calore e la sicurezza che la
casa pareva offrirle. Ma come tutte le reazioni nascoste nel profondo della
psiche si manifestò con estrema lentezza, tanto che quando affiorò alla co-
scienza era diventata troppo ingombrante e venne vissuta, più che come
apprensione, come orrore: orrore al pensiero stesso di mettere a repentaglio
non solo la propria sicurezza, ma anche quella di Charlie. E insidiare la fe-
licità del ragazzo le sembrava davvero un atto crudele e irresponsabile.
Com'è tranquillo, a volte, ricorda di aver pensato vedendolo tornare a
casa quel pomeriggio. Aveva voglia di stargli vicino, e mi disse che guar-
dandolo si era sentita in colpa per quello che aveva immaginato la mattina
nel padiglione, come se fosse stata infedele a lui. Ma scusa, provai a dirle,
in cosa credi che consista il tradimento? Nell'andare a letto con qualcuno,
o nella possibilità di distruggere, andandoci, la felicità di qualcun altro?
Non è mai il fatto nudo e crudo, sono le conseguenze che avrebbe se si ve-
nisse a sapere: l'atto in sé è insignificante. In linea di principio Stella era
d'accordo con me, ma nulla di tutto ciò aveva più importanza; adesso l'uni-
ca cosa che importava era garantirsi la segretezza più assoluta. E proprio a
questo stava pensando seduta sotto il frassino. Charlie, al sole, si era messo
a pancia in giù sull'erba, e appoggiato sui gomiti, con i capelli che gli rica-
devano sugli occhi, fissava serissimo il suo libro: poi, come se fosse riusci-
to a sentire i pensieri di Stella, alzò improvvisamente lo sguardo.
«Mami».
«Sì, amore».
Qui Charlie si produsse in una straordinaria contorsione fisica, come se
stesse pensando con tutto il corpo un pensiero particolarmente complicato.
Si rotolò a metà su un fianco e guardò il cielo, un braccio paffuto dietro il
collo, una mano serrata sul mento, l'altra sollevata, con le dita aperte con-
tro il sole.
«Ho inventato una battuta».
«Dimmi...».
«Chiedimi perché quel giorno sono caduto dal melo».
«Perché quel giorno sei caduto dal melo?».
«Perché ero maturo».
«Molto divertente».

Non poteva stare lontana da Edgar. Ce la metteva tutta, va detto, e per un


attimo, se si fermava a soppesare le possibili ripercussioni di quello che
stava facendo, provava un cupo sgomento. Ma era una reazione passegge-
ra. Sentendolo così vicino Stella non riusciva a controllare la continua, in-
stancabile frenesia della propria immaginazione. Il mattino successivo, do-
po che Max era andato in ospedale, si spinse di nuovo fino all'arco nel mu-
ro dell'orto.
E lo sentì tornare, quello stato di grazia cui riusciva a pensare solo come
a un'intossicazione. Edgar era dalla parte opposta, vicino alla serra, dove
aveva appoggiato su due cavalietti vicino al tavolo da lavoro un pezzo di
legno che stava segando con colpi rapidi, e apparentemente senza sforzo.
Quando Stella arrivò a metà sentiero la sentì, si voltò e rimase a guardarla
mentre si avvicinava.
«Continua pure a lavorare» disse Stella con calma, avvicinandosi. «Non
ti fermare per me».
Ma Edgar non continuò a lavorare. Tirò fuori la scatola del tabacco dalla
tasca dei pantaloni, si sedette sulla panchina vicino al muro e si arrotolò
una sigaretta. Stella andò a sederglisi vicino.
«Sono stata al capanno» disse.
«Lo so». Aveva un tono sardonico.
«Come fai a saperlo?».
«Uno degli uomini ti ha visto».
Questo avrebbe dovuto allarmare Stella. Ma non la allarmò.
«Puoi venirci oggi pomeriggio?» gli chiese.
Lui si fermò un momento, accennando un sorriso mentre leccava il bor-
do della cartina. Si stava godendo l'impazienza che aveva suscitato in quel-
la donna pallida e appassionata. Lei se ne accorse, e gli fece una carezza.
«Puoi?» mormorò.
«Sì».
Stella cercava di nascondergli la sua eccitazione, più forte a ogni parola
che si scambiavano. Adesso sentiva il fustagno dei pantaloni di Edgar con-
tro le gambe nude. Era stupido correre rischi nell'orto, ma lo baciò lo stes-
so.
Quel pomeriggio si incontrarono nel capanno del cricket. Eliminarono
rapidamente l'impaccio della polvere e della scomodità, fabbricando coi
cuscini e le coperte una specie di letto. Poi si spogliarono a vicenda e si
buttarono per terra. Sul sesso Stella tendeva a non dilungarsi. Diceva sol-
tanto che era naturale e intenso, per tutti e due, e che lei non aveva mai
provato nulla di simile, nulla di simile alla vigorosa lotta cui i loro corpi si
abbandonavano con tanta immediatezza e tanta forza. Dopo, Edgar aveva
preso del whisky da una bottiglia dietro il bancone, riempiendo la fiaschet-
ta piatta di metallo che portava in tasca. Stella si era un po' agitata, perché
le era sembrato un rischio inutile.
«E se se ne accorgono?».
Edgar attraversò la stanza e andò a inginocchiarsi sul loro letto improv-
visato, dove Stella era seduta, languida, calda e scompigliata. Poi le prese
il viso tra le mani e la baciò.
Stella lo vedeva come una specie di adorabile canaglia. Non riusciva a
contraddirlo. Non era capace di contrastarlo in nessun modo, non era pos-
sibile, perché ormai si era arresa, spingendo così a fondo l'identificazione
da sentirsi incompleta senza di lui. Capiva cosa stava succedendo, si stava
innamorando, e non voleva fermarsi. Non poteva, mi disse. Per questo non
si oppose al suo furto, perché aveva assunto lo stesso atteggiamento di
sprezzo del pericolo di Edgar e lo aveva razionalizzato. Qualche giorno
dopo, quando lui le chiese dei soldi, gli diede tutto quello che aveva nel
borsellino.
Aveva perso il controllo. Non si controlla un innamoramento, mi disse,
non è possibile. E la divertiva che fosse potuto accadere in questo modo,
con quest'uomo. Un paziente. Un paziente che lavorava nell'orto. Stella, le
dissi, non potevi fare una scelta più scriteriata. La verità, mi rispose, è che
non ho scelto affatto.
A casa cercava di funzionare nel modo più normale possibile, ma era
come se fosse da un'altra parte. A poco a poco, le sue giornate cominciaro-
no a concentrarsi sul momento in cui, sempre più eccitata, aspettava al
buio nel capanno del cricket di sentire gli scarponi di Edgar che si arram-
picava sul muro, e da lì sul tetto della rimessa, per poi infilarsi nella fi-
nestrella e saltare sul pavimento. Poi veniva verso di lei con un sorrisetto,
verso di lei che lo aspettava, pronta per lui, sulle coperte, e le si gettava
addosso, e lei si perdeva completamente mentre lo cercava, mentre sentiva
le sue mani forti sul suo corpo. Oh, sì, lo amava.
Chissà.

III
Ormai mi è chiaro che la visita, quell'estate, di Brenda Raphael, la madre
di Max, contribuì stranamente a far precipitare la situazione. Brenda arrivò
alla residenza del vicedirettore un venerdì pomeriggio di inizio agosto,
cinque o sei settimane dopo il ballo. C'ero anch'io. Avevo finito prima del
solito, in ospedale, e tornando a casa ero passato a trovare Stella. John Ar-
cher mi aveva appena riferito della sua amicizia sempre più intima con
Edgar Stark, e naturalmente volevo parlarle. Ma non era stato possibile,
perché Stella mi aveva subito detto che sua suocera sarebbe arrivata da un
momento all'altro.
«Mi sono offerta di andarla a prendere alla stazione,» mi raccontò fa-
cendomi accomodare in soggiorno «ma no, ci mancherebbe, non ha assolu-
tamente voluto che mi disturbassi. Lo ha detto come se fossi, non so, una
specie di invalida, che a ogni spostamento rischia di lasciarci le penne».
Bevemmo qualcosa in giardino, ma Stella era distante, turbata. Lì per lì
non collegai il suo umore all'eco attutita dei vetri infranti e delle martellate
che arrivava fino a noi, nell'aria immobile, dalla parte dell'orto. Cinque
minuti dopo sentimmo una macchina sul vialetto. Andammo nell'anticame-
ra per aprire la porta proprio nel momento in cui il tassista depositava a
terra la prima delle molte valigie di Brenda, e la loro proprietaria scendeva
dalla portiera posteriore. Brenda era una donna sofisticata e dispotica, oltre
che ricca. Ero venuto casualmente a sapere che aiutava Max e Stella a
mantenere anche qui un certo tenore di vita, e in particolare che la loro
macchina - una Jaguar bianca, nientemeno - era stata il suo regalo per la
nomina di Max a vicedirettore. Brenda mi telefonava spesso, un po' perché
io e lei ci capivamo e un po' perché contava su di me per avere notizie fre-
sche di suo figlio.
Con regale noncuranza Brenda pagò il tassista facendogli cenno di tene-
re il resto. «Peter,» disse «che gioia. Stella, cara, ti vedo proprio bene». Si
scambiarono un bacio, e Brenda entrò in casa. Era vestita alla moda, e sa-
pevo che Stella le invidiava la sua vita a Londra e l'aura chic che, come
sempre, Brenda emanava.
«Se non vuoi salire subito in camera potremmo andare a bere qualcosa
in giardino» disse Stella.
«Oh, magnifico, magnifico. Senti Peter, non sognarti di scappare solo
perché sono arrivata io. Dov'è Charlie?».
«Giù agli acquitrini, credo» rispose Stella «oppure nella serra».
Brenda inarcò un sopracciglio sottile e meticolosamente depilato. «Pote-
va anche venire a salutare sua nonna; è proprio figlio vostro. Max non era
certo molto diverso. A proposito, come sta Max?».
E si lasciò cadere in una poltrona, accavallò le gambe eleganti e prese le
sigarette dalla borsa.
«Molto occupato» disse Stella «Contento, mi pare. Si trova bene, qui».
«Lo temevo. Difficile che Max faccia il passo più lungo della gamba, ve
ne sarete accorti anche da soli. E la prospettiva di un lavoro sicuro come
questo dev'essergli sembrata a dir poco attraente».
«Immagino che il posto di direttore non gli spiacerebbe affatto. Non cre-
di anche tu, Peter?» disse Stella.
Io ero di spalle, perché stavo preparando da bere. Trovai quell'insinua-
zione piuttosto sgradevole e mi irrigidii leggermente, mormorando una va-
ga protesta. Poi mi voltai per porgere i bicchieri alle signore.
«Tu non vorrai rimanere qui, spero» disse Brenda a Stella. Era un'altra
conferma di come funzionavano i loro rapporti; Brenda non era una di
quelle donne che piacciono alle donne, ma nel corso degli anni lei e Stella
erano giunte a una sorta di tacito compromesso, e ora apparentemente era-
no alleate, almeno su un punto: nessuna delle due voleva vedere Max sep-
pellito in questo istituto di provincia.
Passai il gin tonic a Stella, che mi lanciò un sorriso di intesa. «Oh, per
un paio d'anni posso anche reggere, ma temo che Max abbia in mente
qualcosa di più. Andiamo in giardino?
«È questa fìssa del giardino che mi preoccupa» continuò dopo averci fat-
to sedere nelle poltrone di vimini sotto il frassino. Per la seconda volta in
pochi minuti mi resi conto di quanto fosse turbata. Davanti a noi c'era il
prato, con lo stagno dei pesci rossi che luccicava nel sole.
«Per sistemare bene un giardino ci vogliono anni, e Max ci sta lavorando
come se dovesse passarci il resto dei suoi giorni».
«Preoccupante». Brenda mi gettò un'occhiata, ma io mantenevo un at-
teggiamento ostentatamente neutrale.
«Adesso sta facendo rimettere a posto la vecchia serra».
Era la seconda volta che la nominava.
«Spero che ti sbagli. Ma dimmi, cara, tu come stai? A vederti, sei pro-
prio un fiore».
Guardai Stella. Un fiore. Non so perché, ma in quella parola ravvisai su-
bito una sfumatura erotica. Fu allora che mi accorsi che quello che stava
succedendo a Stella c'entrava col sesso. La scrutai attentamente.
«Sto passando un'estate pigra» disse in tono salottiero. «Non ho un gran-
ché da fare, in realtà. Certo, la casa è grandissima, ma al mattino viene Mrs
Bain, e in genere lascio che pensi a tutto lei». Scacciò una vespa che ron-
zava intorno al suo bicchiere.
Brenda cominciò a raccontare della sua vita mondana a Londra, e la lita-
nia di colazioni, cocktail e cene eleganti era accompagnata dalla solita la-
mentela di circostanza su come non si facesse che ricevere inviti, e su
quanto ci si stancasse, e su quanto poco la gente capisse che il tempo era
prezioso. Mentre Stella ascoltava, mormorando che una frenetica vita
mondana londinese era la cosa più vicina al paradiso che riuscisse a imma-
ginare, mi domandai oziosamente con chi potesse andare a letto; ma non
mi veniva in mente nessun candidato plausibile, almeno qui.
«Dovreste farvi vedere più spesso in città» le stava dicendo Brenda.
«Tutti ci chiedono vostre notizie. Potreste dormire da me. Magari ce ne
andiamo a teatro, e poi a cena».
«Verremo presto».
Parlarono un po' di Charlie, e alla fine Brenda andò a darsi una rinfresca-
ta prima che Max tornasse dall'ospedale.
Mi alzai anch'io, quasi subito, ma Stella approfittò di quei brevi attimi
per dirmi in un sussurro concitato che i prossimi giorni sarebbero stati tutti
così, un autentico tormento, e che non sapeva come avrebbe fatto a non
impazzire. Le espressi tutta la mia solidarietà, riuscendo persino a strap-
parle un sorriso. Poi ci avviammo verso l'imbocco del vialetto, dove avevo
lasciato la macchina, e Stella mi prese sottobraccio. «Peter» disse.
Aveva un tono assorto, quasi sognante. «Sì, mia cara?».
«Fra quanto uscirà Edgar Stark?».
Non era una domanda così insolita, eppure mi fece sobbalzare. Le rispo-
si che, se fosse dipeso da me, ne avrebbe avuto per un bel pezzo. «Perché
vuoi saperlo?» le chiesi quando arrivammo alla macchina.
«Così. Sta lavorando alla serra di Max. Ci vediamo martedì sera?».
«Certo» risposi baciandole la guancia.
Il mio Edgar?

Alla sera il personale se ne va, e l'atmosfera di questo posto cambia.


Sembra un po' un paese di mare quando la stagione è finita e i turisti tor-
nano a casa. A me piace quell'ora, tanto che negli anni ho preso l'abitudine
di tornare in studio, nel silenzio del crepuscolo, per riflettere con calma sui
fatti della giornata.
«Di nuovo qui, dottor Cleave» mi dice ogni volta l'infermiere al Cancel-
lo quando ritiro le chiavi.
«Di nuovo qui» gli rispondo. Con il personale di custodia ostento, da
sempre, una sorta di distaccata cordialità. A loro piace. Se c'è una cosa che
non gli manca, è il senso della gerarchia, e poi mi conoscono bene: sono
qui da molto più tempo di chiunque di loro.
Il mio studio ha una bella vista sulla campagna, che dà il meglio di sé
nelle sere d'estate, quando, al di là del Muro, gli ultimi raggi di luce proiet-
tano sugli acquitrini un bagliore soffice e caliginoso, mentre a occidente il
sole al tramonto tinge il cielo di tutte le sfumature del rosso. Un giorno,
qualche mese dopo l'arrivo di Edgar in ospedale, ero tornato in studio pro-
prio a quell'ora. Mi ero versato da bere - tengo una piccola riserva sotto-
chiave nella mia scrivania - ed ero rimasto qualche minuto a guardare fuori
dalla finestra. Me lo ricordo così bene perché era stato quello stesso gior-
no, in una seduta di poche ore prima, che Edgar mi aveva lasciato intrave-
dere per la prima volta tutta l'enormità dei suoi deliri, rinunciando a finge-
re che l'omicidio fosse stato, come in un primo tempo aveva sostenuto, un
raptus.
Ero andato da lui quel pomeriggio, nella sala comune del Reparto 3. È
un locale grande e soleggiato, col pavimento lucido e un tavolo da biliardo
al centro. Ci sono poltrone e divani ricoperti in finta pelle verde scuro, e un
grande tavolo a un'estremità dove i pazienti possono giocare a carte o leg-
gere il giornale. Dalla parte opposta era appena stato messo un televisore.
Edgar stava giocando a biliardo. Era curvo sulla stecca, in posizione,
quando qualcuno gli disse sottovoce che c'era il dottor Cleave. Edgar tirò il
colpo come se non avesse sentito.
«Ah sì?» disse poi, raddrizzandosi. Quindi si voltò verso la porta con un
sorrisetto.
Io dissi: «Vieni».
Ho una registrazione integrale del nostro colloquio, che si svolse in par-
latorio e durò quasi un'ora. La prima cosa che Edgar mi raccontò fu che era
stato promosso: lo avevano trasferito al piano terra del Reparto 3. Era evi-
dente che senza il mio consenso non sarebbe mai potuto accadere, eppure
in questo Edgar era come un bambino, aveva bisogno non solo di prendersi
tutto il merito, ma di sentirsi dire da me quanto era stato bravo. Che il pa-
ziente proietti sullo psichiatra i sentimenti di un figlio verso il padre è un
fenomeno abbastanza comune, e a volte, come nel caso di Edgar, questo
tipo di traslazione può essere utile per riportare alla luce materiale rimosso.
Appena ci sedemmo accesi il registratore. Fino a quel momento avevo
una conoscenza tutto sommato superficiale della personalità che mi trova-
vo di fronte. Certo, Edgar mi aveva accennato ad alcuni dei motivi che lo
avevano portato a uccidere sua moglie, ma le sue spiegazioni suonavano a
dir poco inverosimili. In molti casi - e questo non faceva in alcun modo
eccezione - le costruzioni deliranti si reggono su un'evanescente parvenza
di logica. Spinto da morbosi processi inconsci a immaginare che sua mo-
glie lo tradisse con un altro uomo, Edgar si era convinto, primo, che i due
usassero un codice per prendere accordi, e secondo, che i loro misfatti la-
sciassero tracce. Quindi era passato a fabbricare prove sia dei codici che
delle tracce, sfruttando episodi banali, come il fatto che Rutti avesse aperto
la finestra nel preciso istante in cui in strada passava una motocicletta, o
dettagli insignificanti, tipo una grinza sul cuscino o una macchia su una
gonna.
Come all'inizio di ogni colloquio, gli chiesi se continuava a pensare che
sua moglie lo avesse tradito.
«Certo».
Sembrava sicurissimo di quello che diceva. Si stava arrotolando una si-
garetta, gli occhi fissi sulle dita. Annuì più volte.
«E per quanto è andata avanti?».
Sollevò lo sguardo, e gettò un'occhiata fuori dalla finestra per raccoglie-
re le idee. Leccando il bordo della cartina corrugò leggermente la fronte.
Sembrava del tutto ragionevole e padrone di sé. Vidi che stava decidendo
di non nascondermi più nulla.
«Otto o nove anni».
Adesso spero che capirai, diceva la sua faccia.
«Edgar, tu sei stato sposato per otto o nove anni».
Annuì, con una tristezza del tutto credibile.
«Quando hai cominciato ad avere dei sospetti?».
«L'ho saputo fin dall'inizio».
«Mi stai dicendo che per tutto il tempo che sei stato sposato sapevi che
tua moglie ti era infedele?».
«Sì».
«Con lo stesso uomo?».
«No. Ce ne sono stati altri».
«Quanti?».
Il suo volto si animò all'improvviso. Masticava amaro, ma con un certo
gusto, era evidente.
«Quanti? Centinaia. Ho perso il conto».
«E non hai fatto nulla per impedirlo?».
«L'ho supplicata. L'ho minacciata. Non penso fosse colpa sua. Non era
responsabile delle sue azioni».
Cominciò a passarsi le dita fra i capelli.
«E non è servito?».
«Mi ha riso in faccia».
«Capisco».
Rimasi qualche istante in silenzio. I rapporti che avevo letto dicevano
che il matrimonio era stato relativamente stabile fino a un anno prima del-
l'omicidio, ma poteva darsi che fossero inesatti. Forse Ruth Stark aveva
avuto davvero tanti amanti. Forse Edgar aveva cominciato a tormentarla
con le sue accuse fin dall'inizio.
«Qualcuno sapeva che le cose fra di voi non andavano bene?».
Annuì. Ora l'espressione era quella di chi è costretto a fare un'ammissio-
ne difficile e dolorosa, non tanto per sé, ma per l'altro.
«Chi lo sapeva?».
«Parecchia gente».
«Chi? Gli amici? La famiglia?».
Annuì di nuovo. Ormai ero sicuro che tutto quello che stavo ascoltando
facesse parte della sua costruzione delirante.
«E così Ruth andava a letto con un'infinità di uomini fin dall'inizio del
matrimonio. Tu lo sapevi, gliene parlavi, ma lei faceva finta di niente».
Nei suoi occhi brillò una sorta di attonita incredulità.
«Rideva di me!».
«Rideva di te. E anche altri sapevano cosa stava succedendo».
«Non c'era bisogno che glielo dicessi io. Se ne accorgevano da soli».
«E a lei non importava».
«Cosa c'entra, quello era il suo lavoro. Ruth faceva la puttana».
Questo non lo aveva mai detto. «Continua».
«Se li portava in studio quando ero fuori. Li vedevo aspettare in strada,
gironzolare finché non mi toglievo dai piedi. Poteva farsene dieci o dodici
al giorno. Era più forte di lei».
Qui si interruppe. Adesso mi guardava con l'aria disperatamente patetica
di chi ti sta supplicando di credergli. Mi sentii quasi costretto ad alzarmi,
fare il giro del tavolo e posargli una mano sulla spalla.
«E tu lo sapevi» gli dissi con calma. «Per tutti quegli anni, tu lo hai
sempre saputo».
Era l'ultima cosa che ci eravamo detti. Seduto alla mia scrivania, rimasi
ad ascoltare il fruscio del nastro che finiva di riavvolgersi fino a quando
scattò. Poi mi alzai, e andai alla finestra a guardare la sera che avanzava in
silenzio sugli acquitrini. Gelosia morbosa. Il delirio dell'infedeltà. Freud lo
considerava una forma di omosessualità latente, la proiezione sul partner
di un desiderio omosessuale rimosso: non sono io ad amare lui, è lei. Ma in
questo caso non mi sembrava un'interpretazione convincente. Certo, in ap-
parenza Edgar era un uomo sicuro di sé, della sua forza, della sua virilità,
eppure sospettavo che in lui ci fosse un profondo e infantile desiderio di
sublimare, e idealizzare, l'oggetto d'amore. Succede abbastanza spesso, a-
gli artisti, e credo dipenda dalla natura stessa del loro lavoro. Vivere per
lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col ri-
schio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di u-
n'intensità abnorme. E quando, inevitabilmente, arriva la delusione, il sen-
so di tradimento è talmente profondo che in alcuni può tradursi nella con-
vinzione patologica della duplicità dell'altro.
Ma quello che mi colpiva di più, in Edgar, era che fosse riuscito a modi-
ficare retroattivamente la sua memoria fino a estendere ai primi anni di
matrimonio deliri che ne avevano così tragicamente contrassegnato la fine,
e che adesso coinvolgevano centinaia di uomini e un intero sistema di falsi
ricordi. Sentivo che avremmo dovuto lavorare sulla chiarificazione, la-
sciando che fossero le stesse assurdità di cui era intessuto il suo pensiero,
una volta portate allo scoperto, a scuotere dalle fondamenta quella struttura
delirante, facendola crollare. Solo allora avremmo potuto cominciare a ri-
costruire la sua psiche.
Il problema però era che questa storia con Stella ci avrebbe riportato in-
dietro di mesi, perché nascondendomi la verità Edgar aveva interrotto il
flusso di confidenze senza il quale non avremo potuto raggiungere il no-
stro scopo, e aveva trasformato il processo terapeutico in una commedia
degli inganni.

Per la cena avevano spalancato le portefinestre, e dal prato arrivava una


brezza tiepida che portava con sé i profumi dell'orto. Era tutto in onore di
Brenda. L'alto dignitario in visita pretendeva di ricevere il tributo dell'elite
psichiatrica del posto, e Max non intendeva deludere le sue aspettative.
L'invito era fra le sette e mezzo e le otto, e io ero arrivato per primo. Stella
sembrava tranquilla e padrona di sé. Dopo quello che avevo scoperto la
settimana precedente, o meglio dopo aver intuito che fra lei e Edgar Stark
c'era più di una semplice amicizia, la mia disposizione di spirito nei suoi
confronti era profondamente cambiata: ma cercavo di non darlo a vedere.
«Sono riuscita a starmene un paio d'ore da sola in cucina» mi sussurrò
accompagnandomi in giardino. «Se riesco a farle credere che sto lavorando
Sua Maestà mi lascia in pace». Max era stato mandato al pub a prendere
del brandy. Stella continuava a vedere in me un alleato, perché natural-
mente era all'oscuro dei sospetti che nutrivo nei suoi confronti. In qualche
modo, comunque, mi spiaceva non poterle dire quello che sapevo della
sessualità di Edgar. Prima di rientrare in cucina mi chiese di intrattenere
Brenda, che era rimasta sola in giardino, e così andai a sedermi vicino alla
matriarca.
Da dove eravamo si vedeva uno scorcio del prato, e gli alberi sullo sfon-
do. «Che bel quadretto agreste» sospirò Brenda. «Peter, anche a te Max
sembra felice? Stella teme che non abbia la minima intenzione di muoversi
da qui».
Ovviamente capivo che i timori di cui parlava erano i suoi.
«Per un certo tipo di psichiatra» dissi prudentemente «è una situazione
ideale. Una popolazione affascinante, alcuni casi sublimi, il tutto in un'isti-
tuzione abbastanza grande da poter riprodurre i meccanismi del mondo e-
sterno».
«Pensi che voglia diventare direttore?».
Non mi sbilanciai.
«Be', certo,» ammisi «l'idea di dirigere uno di questi grandi ospedali
chiusi è una bella tentazione. Sai, esercitare il paternalismo vittoriano su
vasta scala...».
Mi fermai qui. Restammo in silenzio.
«Sembra che ne sia tentato anche tu».
Mi schermii con una risata. «Oh, no. Io no. No, per mandare avanti que-
sti carrozzoni ci vuole un giovane. Io sono troppo vecchio».
Brenda si voltò verso di me, squadrandomi con uno sguardo affilato co-
me una lama. «Mmm» fece con aria scettica.
Subito dopo ci raggiunse Max, poi arrivarono gli Straffen, e a quel punto
eravamo al completo. Ce ne stavamo tutti in giardino, tutti eccetto Stella,
che era ancora in cucina, e Bridie Straffen, che era salita di sopra per salu-
tare Charlie. Brenda conduceva la conversazione, e noi tre psichiatri ci ri-
trovammo a rivolgere tutte le nostre osservazioni a lei, in ossequio alla sua
autorità matriarcale. Dopo essersi assicurato che i bicchieri fossero pieni,
Max tornò dentro, e dieci minuti dopo venimmo chiamati in sala da pran-
zo. Se sistemando i posti Stella avesse seguito il proprio capriccio, anziché
l'etichetta, non avrebbe potuto andarle meglio: i due padroni di casa erano
a capotavola, ma lei aveva vicino Jack Straffen e me, mentre a Max erano
toccate Bridie e Brenda.
Al salmone, non so più perché, qualcuno si mise a parlare del matrimo-
nio, e quando si è in sei a tavola astrarsi dalla conversazione diventa diffi-
cile. Se non ricordo male Brenda tirò fuori il suo primo marito, Charles, da
cui aveva divorziato quando Max era bambino, e ne parlò in un modo tale
che Max chiese a Bridie Straffen perché, secondo lei, alcuni matrimoni du-
rassero e altri no. Bridie evitò i giri di parole. Era un intelligente donnone
dublinese, che aveva passato qui gli ultimi vent'anni interpretando con
successo il ruolo di moglie del direttore. Aveva una sua rumorosa simpa-
tia, e una tolleranza agli alcolici pari soltanto a quella di suo marito.
«Gli ho fatto fare il Giuramento» disse guardando Jack, che accennò a
un gesto di protesta.
«Quale giuramento?».
Quello di non toccare più un goccio, pensavo.
«Il Giuramento di Ippocrate» disse. «Non farai alcun male. Pensa a me
come a un paziente, gli ho detto, e ne usciremo vivi tutti e due. E così è
andata».
Un brusio divertito percorse la tavola. Ognuno voleva dire la sua, ma la
voce di Stella staccò su tutte.
«Alcun male? Ma se moriamo tutte di trascuratezza cronica!».
Ci fu un attimo di silenzio. Eravamo imbarazzati. In quell'uscita un po'
sopra le righe, un po' troppo personale, risuonava l'eco di un'amara verità.
Stella aveva trasceso. Bridie accorse in suo aiuto.
«Stella cara, mi hai preso troppo alla lettera. Si tratta solo di limitare i
danni, ma cattivelli sono e cattivelli rimangono. Sono fatti così. Tutti, sai,
persino Max».
Max, chiamato in causa, non poté non intervenire, e poco dopo riportò la
conversazione in carreggiata. Ma in quello spaventevole attimo di silenzio
avevo visto Brenda scrutare Stella con uno sguardo sotto le cui braci arde-
va una curiosità famelica.
Dopo cena uscimmo sul prato continuando a chiacchierare. Parlammo
soprattutto del caldo eccezionale, di quell'estate così poco inglese in cui si
poteva stare sotto la luna alle undici di sera, e l'aria era tiepida e profumata
come in pieno giorno. Max raccontò a Jack delle sue migliorie, e lo portò a
dare un'occhiata alla serra. Dopo quanto Stella ci aveva detto sulle sue am-
bizioni non ero sorpresa di vederlo così incollato al direttore: Jack sarebbe
andato in pensione fra un paio d'anni, ma non prima di aver nominato per-
sonalmente il suo successore.
Mi allungai su una sdraio e rimasi ad ascoltare Brenda e Bridie, imbarca-
te in un discorso che passò dall'aristocrazia in generale alle grandi famiglie
irlandesi fino a una conoscenza comune, il conte di Dunraven.
Quando Max e Jack tornarono dall'orto ci stavamo preparando ad andar-
cene. Notai che Stella era di nuovo sulle spine, e che la conversazione sta-
va prendendo una piega decisamente minacciosa.
Dopo aver descritto a Brenda e a Bridie lo stato di abbandono in cui ver-
sava il giardino prima dell'arrivo di Max e Stella, Jack disse infatti di esse-
re felice che Max lo stesse rimettendo a posto.
Max intervenne: «Mi faccio aiutare. Nessuno conosce questi grandi
giardini meglio di John Archer. Sarei perduto senza di lui».
«E senza Edgar Stark» disse Stella. Lo disse piano, quasi a se stessa.
Jack, Max e io ci voltammo a guardarla.
«E tutto il giorno che lo sento martellare» aggiunse, cercando di eludere
quelli che più tardi definì i nostri atroci sguardi psichiatrici. «Quell'uomo
lavora come un ossesso».
«Be' sì, in effetti è il termine appropriato» disse Jack.
«Come pensi di regolarti con lui?».
Mentre Max rivolgeva questa domanda a Jack, Stella provò una sensa-
zione che conosceva bene, quella di sentirsi tagliata fuori dal loro sapere
professionale: che in questo caso, fra l'altro, riguardava Edgar.
«Vorrei saperlo anch'io. Mi interessa moltissimo» disse Brenda.
«È una gran seccatura» disse Jack col tono leggermente annoiato tipico
di quando aveva qualche grana in ospedale, magari anche da poco, ma suf-
ficiente per intralciare l'esercizio della psichiatria criminale; anche se, a
pensarci bene, non si capisce di cos'altro se non di grane la psichiatria cri-
minale - almeno quella carceraria - dovrebbe occuparsi.
«Qualcuno fa entrare alcolici in ospedale. E pensiamo che quel qualcuno
possa essere Edgar Stark».
«Sembra una faccenda piuttosto seria. E perché sospettate proprio di
lui?» chiese Brenda.
Jack si tenne sul vago. Fanno sempre così, pensò Stella con rabbia:
quando ci sono di mezzo i loro sospetti, bocche cucite. Hanno un potere
assoluto, e quei sospetti bastano a decidere il destino di un uomo, per rin-
chiuderlo a tempo indeterminato. E Jack era come tutti gli altri. Pur non
avendo prove, partiva dal presupposto che a portar dentro l'alcol non pote-
va essere che un paziente (e perché non un infermiere corrotto? si chiedeva
Stella), quindi un paziente in semilibertà delle squadre di lavoro, quindi
uno dei tre o quattro possibili colpevoli, fra cui Edgar - che adesso era nei
guai fino al collo. Forse era l'unico sospetto. Sarebbe bastato per farlo e-
spellere dalle squadre di lavoro, privarlo della semilibertà, e allontanare di
mesi, se non di anni, la prospettiva di uscire. Quello che Stella aveva da-
vanti era il vero volto del potere carcerario, e quella che ascoltava era la
voce del padrone. Si sentì ferita, ferita come se le stessero strappando suo
figlio, e il peggio era che quella voce non poteva essere contraddetta, per-
ché Edgar non aveva voce, era muto, com'era muta lei. Non importava che
lei fosse lì, nell'olimpo ospedaliero; prendendo le difese di Edgar avrebbe
solo peggiorato le cose. Non le restava altro che tacere, tacere e piangere in
silenzio per le loro voci perdute.
Cosa gli avrebbero fatto? Lo avrebbero espulso dalle squadre di lavoro?
Lo avrebbero segregato? Jack disse soltanto che non intendeva discuterne
davanti alle signore. La serata era finita, era ora di tornare a casa. Per un
breve attimo la realtà manicomiale si era intromessa in una serata fra ami-
ci. Succedeva abbastanza spesso, e non ci si poteva fare nulla, perché in un
istituto di massima sicurezza come questo le mogli sono strettamente coin-
volte nelle attività dei loro mariti. Ma ci sono segreti che rimangono inac-
cessibili, rifletté Stella, livelli di conoscenza da cui le donne sono escluse.
Il destino del suo amante non sarebbe stato deciso al chiaro di luna, in una
calda serata estiva, da un affabile direttore leggermente alticcio. No, sareb-
be stato deciso alla luce fredda e impietosa del giorno, in un ufficio che si
trovava nel cuore di un complesso di vetusti, enormi edifici con le sbarre a
ogni finestra.

Max e Stella erano a letto in camera loro, al buio. Nessuno dei due par-
lava. Stella pensava alla difficile situazione del suo amante, e Max a quello
che Stella aveva detto a cena, e che aveva provocato quell'orribile silenzio.
«Hanno capito tutti che ce l'avevi con me» disse.
«Non essere così paranoico».
«Risparmiami il gergo psichiatrico».
«Sta' zitto! Almeno sta' zitto!».
Tacquero di nuovo. Con Brenda in casa, muri spessi o no, se si trattava
di questioni personali parlavano sottovoce.
«Che bisogno avevi di umiliarmi?».
«Adesso esageri. Dicevo tanto per dire, nessuno mi ha preso sul serio».
«Eri ubriaca. Perché devi bere in quel modo? Nessun altro ha bevuto
tanto».
Una pausa di silenzio. Era un silenzio cupo, carico di collera e di risen-
timento: il silenzio di Max. Stella aveva passato il segno, e il suo modo di
punirla era creare quel mostruoso silenzio, che riempiva la stanza di dolore
e di rabbia. Stella si voltò dall'altra parte, lasciandosi inondare la mente
dalle immagini di Edgar. Poi pianse sommessamente nel buio, perché non
riusciva a non pensare, con terrore, che Jack Straffen poteva revocargli la
semilibertà. Max non fece neppure il gesto di consolarla, e del resto lei non
glielo avrebbe concesso. Quella sera, per la prima volta, Stella sentì che la
catastrofe si avvicinava.

La giornata era calda e serena, e gli insetti ronzavano fra le rose sfiorite
mentre lei andava incontro al suo amante, che intravedeva al banco da la-
voro nella serra. Con lui c'era anche Charlie. Vedendola arrivare, Edgar
posò gli attrezzi e si pulì le mani sul fustagno dei pantaloni. Stella aveva
con sé il cestino, con dentro i guanti da giardinaggio e le cesoie. Edgar le
aveva raccolto un po' di fagioli e di scarola, e un mazzo di carotine. Mentre
le riempiva il cestino Stella andò a sedersi sulla panchina.
«Mrs Bain ti ha preparato una cosa in cucina» disse a Charlie.
«Ho troppo da fare».
«Ma devi andare, tesoro. L'ha fatta apposta per te».
Charlie la guardò in cagnesco, e lei fece altrettanto. «Torno fra un minu-
to» disse a Edgar, partendo a razzo su per il sentiero.
«Cosa c'è che non va? È successo qualcosa, sei sconvolta» le disse E-
dgar tranquillamente, senza guardarla.
Stella gli disse che lo sospettavano di far entrare alcolici in ospedale.
Non gli fece alcun rimprovero, non le passò neppure per la testa.
«Non ti preoccupare».
«Certo che mi preoccupo».
Stella arrivò fino al melo. Attraverso i rami poteva vedere il Muro, che
incombeva su quella parte dell'orto.
«Cosa farò se non ti lasceranno più uscire?».
Tornò a sedersi vicino a lui. Edgar le prese le dita e se le portò alle lab-
bra. Poi le rovesciò la mano e le baciò il palmo, ma senza riuscire a cal-
marla.
«Cosa farò? Un mattino scenderò e a lavorare qui ci sarà qualche altro
paziente. Io chiederò dove sei, e mi sentirò rispondere che non fai più parte
delle squadre di lavoro. Finirà così. Ci separeranno, mi staccheranno da te,
e non potrò dire nemmeno una parola. Non ti rivedrò mai più».
«Ma no» disse Edgar continuando a baciarle la mano. Lei gliela sottras-
se.
«Tu non li conosci».
«Sì che li conosco».
«Allora saprai che possono fare tutto quello che vogliono, e nessuno può
dirgli nulla. Né tu né io».
«Vieni al capanno oggi?».
«Non lo so».
Stella camminava avanti e indietro sul sentiero. Edgar appoggiò i gomiti
sulle ginocchia, si piegò in avanti e guardò per terra. Credo di sapere a co-
sa stava pensando; stava prendendo una decisione. Stella gli dava la schie-
na, continuando a guardare il Muro fra i rami del melo. Quando sentì E-
dgar scattare in piedi e mormorare «Charlie» raccolse il cestino e riprese il
sentiero verso casa.
Lasciò il cestino sul tavolo della cucina e salì al piano di sopra. La casa
era vuota, perché Brenda era andata a far compere in macchina. Stella si
buttò sul letto e rimase lì a fissare il soffitto.
Dieci minuti dopo si tirò su. Stava cercando le scarpe sotto il letto quan-
do sentì dei passi rapidi sulle scale.
«Charlie, sei tu?».
Non era Charlie. Stella non riusciva a crederci, ma sulla porta c'era E-
dgar.
«Che diavolo ci fai qui?!» gli sussurrò «C'è mia suocera da noi!».
Le venne da ridere. Immaginò Brenda incrociare a metà mattina Edgar
che usciva dalla sua camera riabbottonandosi i calzoni. Senza smettere di
ridere andò a chiudere la porta.

Trovava divertente che Edgar fosse venuto in camera sua?


Lo trovava divertente, spaventoso, eccitante. Capii che le situazioni ri-
schiose la eccitavano. Edgar non perse tempo, si strappò di dosso la casac-
ca azzurra e i pantaloni gialli, la sua divisa da paziente. Stella scivolò alla
svelta fuori dai suoi abiti. Da non credersi: lui lì, in camera di Stella, Stella
che violava con lui il letto coniugale. Eppure non credo che lei si rendesse
conto dell'aggressività insita in quell'atto: più che fare qualcosa con Edgar,
stava facendo qualcosa contro Max.
Adesso era fra le braccia di Edgar. I loro vestiti erano ammucchiati sul
pavimento ai piedi del letto. La sveglia sul comodino segnava le undici
meno dieci. Che gran voglia devo avere di essere beccata, pensò; ma non
era un pensiero allarmante, solo la calma, tranquilla voce della verità. Stel-
la mi disse di aver capito in quel momento che in ciascuno di noi c'è come
l'anelito a gridare al mondo la verità, a qualsiasi costo. O a distruggersi.
Lei in quel momento lo sentì, sentì il piacere che le avrebbe dato dire a
Max, a me, a tutti noi che amava Edgar Stark, e che non sopportava più di
doverlo nascondere! Certo, Stella non era ancora così alla deriva da per-
mettere a queste sensazioni di affiorare per più di qualche secondo, e come
ogni amante clandestino non perdeva mai di vista i problemi pratici: di
conseguenza, quando sentì una macchina sul vialetto ogni sua velleità di
uscire allo scoperto svanì. Doveva essere Brenda, che tornava dal suo giro
con ore di anticipo. Edgar si alzò a sedere e Stella gli disse che dovevano
rivestirsi, aveva sentito una macchina. Nonostante la tensione si scambia-
rono un sorriso di complicità, come due bambini che l'avevano fatta gros-
sa.
Brenda entrò dalla porta sul davanti proprio mentre Stella scendeva le
scale.
«Troppo caldo, tesoro. Io un caldo simile proprio non lo reggo. E poi
senti, non c'era un posteggio, e un orribile omuncolo ha cominciato a
strombazzare col clacson, così ho deciso di lasciar perdere, e di tornare a
casa a rinfrescarmi e a fare un riposino».
«Ottima idea. Metto su l'acqua?».
«Be', una tazza di tè ci vorrebbe proprio».
Brenda salì di sopra. Stella si fermò sulla soglia della cucina, e sentì la
porta della camera che si chiudeva. Poco dopo Edgar scese le scale con gli
scarponi in mano, come il personaggio di una farsa. Stella lo guidò di cor-
sa fino in cucina e aprì la porta sul retro per assicurarsi che in cortile non ci
fosse nessuno.
Quando si voltò vide che Edgar aveva sottobraccio un fagotto di vestiti
di Max.
«Cosa ci fai con quelli?» gli sussurrò.
Lui le appoggiò un dito sulle labbra e attraversò il prato con passo deci-
so. Stella tornò di sopra. Lo sportello dell'armadio era aperto, e parecchie
stampelle dalla parte di Max erano vuote. Mentre faceva il letto per la se-
conda volta nella stessa mattinata, stavolta con le lenzuola pulite, sentì
Brenda uscire dalla sua camera e arrivare fin sulla soglia.
«Ti spiace se faccio un bagno? Mi sento tutta appiccicosa».
«Figurati» rispose Stella senza voltarsi.
Scese di sotto e si sedette al tavolo della cucina. Perché Edgar aveva
preso i vestiti di Max? Cosa diavolo pensava di farci? Cosa si era messo in
testa?
Max rientrò dall'ospedale poco dopo l'una, quindi mangiarono tutti e
quattro insieme. Nelle situazioni di tensione Stella si elettrizzava, e quel
mattino tesa lo era senz'altro. Neanche due gin molto abbondanti erano
serviti a farle dimenticare l'enormità del rischio che avevano corso. Non
poteva neppure pensare a cosa sarebbe successo se li avessero scoperti.
Così, tutta allegra, servì in tavola carne fredda, patatine novelle con burro
ed erba cipollina, e un'insalata di pomodori con un intingolo all'aglio, fa-
cendo il possibile per mantenere una parvenza di normalità. Max era silen-
zioso e preoccupato, e alla fine del pranzo le chiese di portargli il caffè nel-
lo studio.
Era seduto alla scrivania. Sentendola entrare si voltò con un'espressione
che le provocò un'immediata fitta d'ansia. Stella era molto sulla difensiva,
e per reazione assunse un'aria disinvolta, ma aveva paura che qualcuno l'a-
vesse vista e avesse parlato, e i suoi timori parvero confermati quando
Max le chiese: «Stella, cos'hai a che fare con Edgar Stark?».
«Lo vedo quasi tutte le mattine nell'orto» rispose lei, aggrottando la
fronte come se si sforzasse di indovinare il motivo di quella strana doman-
da. «Perché?».
«E mai entrato in casa?».
È mai entrato in casa! Nel letto c'era ancora l'impronta calda del suo
corpo, le lenzuola nella cesta della biancheria sporca erano umide e mac-
chiate.
«Solo la volta che ha portato Charlie».
Max sospirò. Si tolse gli occhiali e si strofinò le palpebre.
«Ormai è appurato che qualcuno fa entrare alcolici in ospedale. Il pro-
blema è che gli infermieri sono in subbuglio. Dobbiamo far vedere che
prendiamo la cosa molto sul serio».
«Non è possibile che il colpevole sia uno di loro?».
Non era sicura che dirglielo fosse saggio. Se c'era qualche sospetto su di
lei, poteva passare per una tattica diversiva. Ma d'altra parte, se nessuno
aveva sospetti, la domanda sarebbe sembrata perfettamente logica. Fissò
Max con estrema attenzione. Non aveva neppure alzato la testa. Stella capì
di essere al sicuro. Per ora.
«Non è impossibile, ma è un'idea che per il momento Jack preferisce
non prendere in considerazione. È una questione di... di buoni rapporti».
«Cioè vi serve un capro espiatorio?». Ora Stella tentava di sfruttare la si-
tuazione a proprio vantaggio. «Non mi sembra molto corretto».
«Certo che no, non cerchiamo nessun capro espiatorio. Non vogliamo
accusare nessuno finché non siamo sicuri».
«L'alcol non è uscito da questa casa».
«Ma potrebbe essere uscito dal capanno del cricket».
«Può darsi». Una pausa.
«Accompagnamici» disse Max. «Prendo le mie chiavi».
Le sue chiavi. Sullo scrittoio al piano di sopra. O forse nelle tasche della
giacca di lino. Nell'armadio. Stella rimase seduta in studio ad aspettare che
scendesse. La scrivania di Max era in perfetto ordine, solo la posta del
mattino e sopra un paio di cartelle, tutte le penne e le matite e le carte di-
stribuite nei vari cassetti. La finestra dello studio guardava su una macchia
di prato costeggiata da lettiere di fiori, e più oltre c'erano i pini che ripara-
vano la casa dalla strada. Sugli scaffali, pile di riviste e di volumi di psi-
chiatria.
«Stella».
Stella si affacciò nell'anticamera. Max era appoggiato alla ringhiera.
«L'hai mandata in lavanderia?».
«Cosa?».
«La mia giacca di lino».
Pensa alla svelta, Stella. Calmati, e vedi di uscirne meglio che puoi.
«No. Non la trovi?».
Max tornò in camera, e lei salì di sopra. Quando entrò, Max le dava la
schiena. Stava frugando tra i vestiti e le giacche appese alle stampelle. Non
si voltò.
«È molto strano. Mi mancano anche una camicia e un paio di pantaloni».
«Non ho mandato niente in lavanderia, questa settimana».
«Avevo tutte le chiavi in tasca. Dov'è Charlie?».
«Non credo proprio che ti abbia preso lui i vestiti».
«Neanch'io».
Max si mise a sedere sulla sponda del letto, fissandosi le unghie con aria
preoccupata. Stella si appoggiò allo stipite. La luce del sole batteva sulla
sua toletta. Sapeva che stava per perdere tutto, e in qualche modo non le
importava. Era curiosa di vedere come sarebbe andata a finire. Da un mo-
mento all'altro Max l'avrebbe accusata, e lei non aveva idea di come difen-
dersi.
«Dev'essere entrato qui».
«Chi?».
«Edgar Stark».
«Impossibile. Come avrebbe fatto, con me e Brenda in casa? Fammi ve-
dere se Charlie è in giardino».
Max era seduto con le mani in grembo e la fronte aggrottata. Un uomo
organizzato come lui, un uomo con un simile controllo sul proprio mondo,
un uomo del genere non perde una camicia e un paio di pantaloni, e una
giacca di lino con tutte le chiavi in tasca.
Stella si precipitò di sotto e uscì dalla porta principale. Gli uomini non
erano ancora tornati dalla pausa per il pranzo. Fece una corsa fino alla ser-
ra, dove trovò la giacca bianca di Edgar appesa alla porta. Aprì una bustina
di semi e con un mozzicone di matita ci scarabocchiò sopra un messaggio,
che poi cacciò nella tasca della giacca in modo che Edgar non potesse non
vederlo.
Mentre tornava a casa vide la squadra di lavoro in fondo al vialetto. Po-
teva solo pregare che Edgar vedesse il suo messaggio e trovasse il modo di
sbarazzarsi dei vestiti. In anticamera incontrò Max. Gli disse che Charlie
non era in giardino, e che probabilmente non sarebbe rientrato prima di
qualche ora.
«Non credo che Charlie abbia toccato i miei vestiti» ripeté Max tornando
nello studio.
Stella rimase sulla soglia. «Cosa farai?».
Max era accanto alla sua scrivania, con la cornetta in mano. «Mi passi il
Reparto 3». Lo disse al telefono, ma continuando a fissare Stella.
La notizia arrivò quella sera. Brenda scese alle cinque e Stella le disse
delle chiavi e dei vestiti scomparsi, dopodiché andarono in soggiorno a
bersi un gin abbondante a testa. Stella non riusciva a star ferma. Natural-
mente, la sua ansia si poteva leggere come affettuosa sollecitudine nei con-
fronti del marito.
«Max sistemerà tutto, tesoro» disse Brenda.
«Certo che sì. Ma sono in pensiero lo stesso».
Prima che Max rientrasse dall'ospedale bevvero un altro gin. Brenda era
ancora in soggiorno, mentre Stella era andata in cucina a preparare la cena.
Quando sentì la porta che si apriva corse nell'anticamera. Max sembrava di
pessimo umore. Gli andò incontro.
«Cos'è successo?».
Max non la guardò neppure; i loro occhi si incrociarono appena. Max
entrò in soggiorno, si mise in piedi di fronte al camino spento e comunicò
la notizia.
«Edgar Stark è evaso».
In quel preciso momento si sentì il terribile urlo delle sirene.

IV

Doveva essere andata così: dopo pranzo Edgar aveva detto a John Ar-
cher che c'era bisogno di lui nel giardino del cappellano, e si era avviato da
solo. Era passato a prendere i vestiti di Max dove li aveva nascosti, cioè fra
gli alberi in fondo al giardino dei Raphael, li aveva indossati ed era fuggi-
to, tenendosi alla larga dalla strada fino a quando non si era allontanato
abbastanza, e poi in qualche modo - in treno, in autobus o in autostop - era
riuscito a raggiungere Londra. Era stato già abbastanza spiacevole scoprire
fino a che punto fossero blande le misure di sicurezza per le squadre di la-
voro esterno, ma la domanda più imbarazzante, tanto per me quanto per
Jack, era che cosa avesse fatto Max fra il momento in cui si era accorto che
gli erano scomparsi i vestiti e quello, intorno alle cinque, della fuga di E-
dgar.
C'era un intervallo di quasi tre ore. La perquisizione della stanza di E-
dgar, e subito dopo quella dell'intero padiglione, non erano approdate a
nulla, ma Max si era ben guardato dal dire a Jack cos'era successo. Se fos-
se andato immediatamente a cercare Edgar nel giardino del cappellano, si
sarebbe accorto che non c'era, l'allarme sarebbe scattato molto prima, e lo
avremmo catturato in quattro e quattr'otto.
Ma a quanto pare Max era così determinato a cavarsela da solo che ave-
va commesso parecchi errori, e soprattutto aveva lasciato passare l'intero
pomeriggio senza scoprire che fine avesse fatto Edgar. Dopo essere tornato
in ospedale e avere controllato col personale del Reparto 3 se ci fossero
novità, era rientrato nello studio. E qui, senza una ragione apparente, aveva
aspettato un'altra mezz'ora prima di chiamare Jack. A quel punto le squa-
dre di lavoro stavano per rientrare, e John Archer aveva già scoperto che il
suo paziente era scomparso. Ne fui subito informato, e mi precipitai nello
studio di Jack, dove mi trovavo quando Max telefonò. Jack sapeva della
fuga di Edgar. Quello che non sapeva, e che per Max era ingrato e umilian-
te dovergli dire - e qui va ovviamente ricercata la spiegazione del suo
comportamento di quel pomeriggio -, era di chi fossero i vestiti che il fug-
gitivo indossava. Con tutta la buona volontà, Max non riusciva a farmi pe-
na; aveva lasciato scappare il mio paziente. E Edgar, nonostante questa
bella impresa, aveva ancora bisogno di me. Era un uomo malato.
Fummo Jack e io a decidere di non far suonare immediatamente le sire-
ne, perché fino a quando non fosse stato proprio necessario preferivamo
non comunicare a tutta la campagna circostante la notizia che un nostro
paziente era evaso. Meglio organizzare una squadra di ricerca e disporre
una rapida perlustrazione della tenuta, nella speranza di prenderlo prima
che arrivasse troppo lontano. Sapevamo entrambi che ci sono due cose di
cui un paziente in fuga ha bisogno, e cioè denaro e vestiti, e che almeno
una delle due Edgar se l'era procurata. Gli infermieri si diedero da fare per
un paio d'ore: perquisirono la fattoria e gli acquitrini, e si inoltrarono per
un tratto nella foresta. Stava calando la sera. Non sapevano con certezza
che vantaggio avesse. Secondo noi non più di tre ore, ma per un uomo
scaltro, con denaro e vestiti a disposizione, tre ore erano più che sufficien-
ti. Nessuno sapeva se avesse dei soldi con sé, nessuno tranne Stella, natu-
ralmente, che gliene aveva dati più volte, e di sicuro abbastanza per arriva-
re fino a Londra. Nel frattempo noi potevamo solo sperare che fosse anco-
ra nei paraggi, che si aggirasse senza meta per la campagna diventando fa-
cile preda della polizia locale, che avevamo avvertito dopo due ore di ri-
cerche infruttuose.
Brenda e Stella reagirono all'annuncio di questi sviluppi drammatici con
esclamazioni tra il sorpreso e lo scomposto. Ma fu Brenda a pensare a
Charlie, che non era ancora tornato a casa. Con una certa presenza di spiri-
to, Stella riuscì a simulare a sua volta un'ansia intollerabile per il ragazzo,
che in realtà le servì a mascherare l'impatto emotivo della fuga di Edgar.
Sperava solo che Max non si accorgesse che la sorte di Charlie era stato il
primo pensiero di Brenda anziché il suo.
La secca risposta di Max fu che a Edgar Stark i ragazzi non interessava-
no. «Vuole solo andare il più lontano possibile».
Poco dopo Charlie entrò di corsa in casa, eccitatissimo; aveva sentito le
sirene, e voleva assolutamente sapere cos'era successo.
Stella tornò in cucina a finire di preparare la cena. Vuole solo andare il
più lontano possibile. Era in piedi davanti ai fornelli, il volto rigato di la-
crime. Sentendo Brenda entrare si asciugò gli occhi col grembiule e accese
il fuoco sotto le patate. Doveva a tutti i costi riuscire a comportarsi come
se la sua unica apprensione fossero i gravi problemi cui l'ospedale sarebbe
andato incontro, a tutto detrimento dei pazienti, ma anche dei medici, degli
infermieri e delle loro famiglie. Fu più o meno quello che mormorò a
Brenda.
«Dio, che seccatura» rispose Brenda. «Quell'uomo si è comportato ma-
lissimo. E lavorava in giardino?».
«Stava restaurando la serra».
«La sola idea che sia entrato qui mi fa orrore. Cosa sarebbe successo se
avesse trovato te, o me? Mi dicono che in passato è stato violento con delle
donne».
«Avrà prima controllato che non ci fosse nessuno in casa».
«E cosa sarebbe successo se Charlie lo avesse sorpreso in camera vo-
stra? Nella vostra camera da letto, Stella! Ma non ti senti violata al pensie-
ro che quell'uomo sia entrato in camera vostra?».
«In effetti è stato uno shock. Non l'ho ancora superato».
«Lo credo bene».
Durante questo interrogatorio Brenda non le aveva mai tolto gli occhi di
dosso. Qualcosa nelle sue reazioni alla fuga l'aveva stupita, e Stella lo sa-
peva. Che cos'era stato a tradirla? Non aver pensato a Charlie quando le
avevano detto che un paziente evaso era a piede libero nei dintorni? O non
essere riuscita a mostrarsi abbastanza sorpresa, come se sapesse già tutto?
Pregava solo di arrivare alla fine della serata senza altre prove come quel-
la.
E invece il peggio doveva ancora venire. A metà della cena squillò il te-
lefono dello studio, quello collegato con l'ospedale, e Max andò a rispon-
dere. Quando tornò disse a Stella che Jack voleva vederli tutti e due da lui.
«Tutti e due?» chiese Brenda.
«Sì, mamma» rispose Max con insolita fermezza. «Tutti e due».
Quando varcarono il Cancello si stava facendo buio. Il cielo pallido era
striato di nuvole rosa, azzurre e malva, e le due grandi torri quadrate, con
la doppia barriera di ferro che le univa, si stagliavano nella luce opaca del-
la sera. Entrando in macchina, Max le aveva chiesto perché pensava che
Jack volesse vedere anche lei, e Stella gli aveva risposto di non averne ide-
a. Max non aveva aggiunto altro, guidando in silenzio fino alla residenza
del direttore, vicino al braccio femminile.
Venne ad aprire Bridie, che aveva messo su una doverosa aria di circo-
stanza. Con un fremito di disgusto Stella notò come, dopo il loro lungo
matrimonio, Bridie si era inserita nel tessuto della vita professionale di
Jack, e in quel momento si rese conto che lei non si sarebbe mai trovata in
quella posizione. Era abituata a pensare che prima o poi le sarebbe toccato,
quel ruolo di moglie del direttore che fra sé e sé snobbava tanto, ma adesso
era chiaro che non glielo avrebbero neppure offerto: la direzione era perdu-
ta. Si chiedeva se Max se ne rendesse conto.
Bridie li fece entrare nello studio di Jack, una grande stanza confortevole
e piena di libri. Rivolgendo loro la sua ampia schiena, Jack armeggiava
con la bottiglia di whisky. Non si voltò subito. Chiese soltanto se qualcuno
voleva da bere, e Stella rispose di sì con un po' troppa sollecitudine. Bridie
chiuse la porta e li lasciò soli.
«Fate come se foste a casa vostra» mormorò Jack con un tono brusco e
distaccato che Stella non gli conosceva.
«Brutto affare» disse quando si furono accomodati. «Questa è la mia
quinta evasione. È sempre un incubo, anche se li prendiamo alla svelta.
Edgar Stark».
Jack si interruppe, fissando corrucciato il suo bicchiere di whisky, e il
nome dell'amante di Stella rimase sospeso nella penombra mentre la sera
moriva e dal giardino arrivava l'ultimo canto degli uccelli.
«Stavolta la faccenda è spinosa. Verrò subito al dunque. Non te ne ho
parlato finora, Max, perché non mi sembrava il caso di metterti in agita-
zione riportandoti voci incontrollate. Ma dopo quello che è successo oggi
pomeriggio bisogna che questa... questa cosa venga fuori».
Fece un'altra pausa. Questa «cosa» - quale «cosa»? In bocca a Jack sem-
brava una parola sporca, disgustosa, immonda. E perché mai lei doveva es-
sere lì mentre veniva fuori una cosa disgustosa e immonda?
«Quali voci?» chiese Max.
Con un sospiro, il direttore si girò verso Stella. «Qualcuno ha detto»
cominciò «che i tuoi rapporti con Edgar Stark sono andati al di là di quanto
si conviene alla moglie di un medico».
«E chi lo ha detto?» chiese Max seccamente. «Perché non sono stato in-
formato?».
«Chi lo ha detto non ha alcuna importanza. Lo sai anche tu come vanno
queste faccende. I pazienti chiacchierano, un infermiere li sente, si precipi-
ta ad aggiornare i colleghi, e in un batter d'occhio la cosa arriva fino a
me».
«E tu l'hai presa sul serio. Non ci posso credere!».
Sia Jack sia Stella furono sorpresi dalla veemenza di Max.
«Max, ascoltami, per favore. Come puoi immaginare, le voci in genere
mi lasciano indifferente. Me ne arrivano un'infinità ogni giorno, e quasi
tutte senza il minimo fondamento. Ma questo è un manicomio molto gran-
de, e la gente parla. Non prendo quello che dicono di Stella per oro colato,
è ovvio, però devo sapere come mai lo dicono».
«L'avranno vista che gli parlava in giardino, tutto qui».
«Stella?».
Si girarono tutti e due verso di lei. Max era in collera. La si poteva anche
scambiare per una naturale reazione alle accuse di Jack, ma in realtà c'era
dell'altro - la necessità stessa di quel colloquio, ad esempio, oltre all'atroce
consapevolezza di aver sottovalutato il furto dei vestiti, rendendo in so-
stanza possibile la fuga di Edgar. Di fatto, l'atteggiamento cavalieresco di
Max era più apparente che reale, e Stella se ne rendeva benissimo conto.
«Ma io ci ho solo parlato, Jack» rispose Stella con una voce impercetti-
bilmente più incredula che offesa. «A volte quando scendo nell'orto ci
scambio - o meglio, ci scambiavo - due chiacchiere. È una cosa che faccio
con tutti i pazienti. La ritengo importante».
«Lo vedevi tutti i giorni? Mi spiace, Stella, ma ti ripeto, devo capire da
cosa è nata, questa voce».
Stella non rispose subito. Prima cercò di impersonare la dignità ferita. In
fondo era una rispettabile donna sposata la cui virtù era stata messa in
dubbio. Poi, a poco a poco, lasciò trasparire una dolorosa accettazione del-
la realtà.
«Be', l'insalata dell'orto la mangiamo tutti i giorni. Se incontro Edgar lo
saluto, e qualche volta, te l'ho detto, mi fermo a parlargli».
Jack si concesse una piccola pausa. Aggrottò la fronte, annuì, e scrutò at-
tentamente Stella.
«Grazie, Stella» disse alla fine. «Ero sicuro che dovesse trattarsi di qual-
cosa del genere. Ti chiedo scusa, ma spero che tu capisca. Sai, a volte le
mogli degli psichiatri mi ispirano una certa compassione. Hanno un com-
pito ingrato, solo noi sappiamo fino a che punto». Questo era rivolto a
Max, che a sua volta aggrottò la fronte e annuì.
«Bevete ancora qualcosa».
«No, grazie, Jack» disse Max alzandosi. «Dobbiamo andare».
Jack non si scusò più. Sapeva che quel discorso andava fatto e non si era
tirato indietro, ma ce ne sarebbe voluto per convincerlo che la moglie di un
medico potesse comportarsi in modo sconveniente con un paziente, e
quanto aveva sentito gli bastava. O almeno, immagino, questo pensava
Max uscendo dal colloquio.
Quando i Raphael se ne andarono Jack venne in salotto da noi: da Bridie
e da me. Ero lì da un'ora per aggiornarli su quel poco che sapevo della re-
lazione di Stella col mio paziente.
«E allora?» chiesi.
Jack annuì. «Temo che sia vero».
«Oh, dio. Cosa farai?».
Jack sospirò. «Dipende».
«Ma Max non si accorge che mente?» chiese Bridie.
Jack allargò le braccia senza dire nulla.
«Sospetto di sì» intervenni. «Ma credo anche che preferisca non vedere.
E che sia per questo che l'ha lasciato andare».
Jack fissava il suo bicchiere. Tutt'a un tratto capii che non riusciva a far-
sene una ragione. Il pensiero che Stella potesse essere colpevole di ciò che
avevo insinuato era un vero shock. Non voleva crederci.
Bridie aveva meno remore. «È inconcepibile» mormorò. «Inconcepibile,
che la moglie di un medico...».
Si interruppe. Era troppo anche per lei.
«Forse è meglio che scambi due parole con Max» dissi.

Quella sera, mi disse Stella, le era sembrata interminabile. Era come se


prima che le fosse concesso di prendere un sonnifero, di mettersi a letto, e
di rimanere veramente sola con un dolore che ormai traboccava dalla fac-
ciata che aveva eretto contro il mondo, dovessero scorrerle davanti agli oc-
chi ogni cerchio, ogni increspatura creata da quel sasso gettato nello stagno
immobile della loro vita. Mentre passavano dal Cancello aveva chiesto a
Max: «Cosa dirai a Brenda?».
«Non ci ho pensato».
Adesso le loro voci funzionavano, apparentemente, su un doppio regi-
stro. Quello che si dicevano, era una mera copertura di emozioni in parte
inconsce, e comunque inespresse. Ora, ad esempio, Max sembrava solo
stanco, e teso, ma subito dietro quel primo fronte nuvoloso Stella sentiva
arrivare la perturbazione molto più intensa della sua rabbia, rivolta sia con-
tro se stesso sia contro di lei. Perché dovesse avercela con lei, però, non lo
capiva: in fondo aveva spiegato ogni cosa, e la sua spiegazione era stata
accettata da Jack Straffen. Ma ormai non aveva più importanza.
Max entrò nello studio e chiuse la porta senza una parola. Brenda moriva
dalla voglia di sapere tutto, e per quanto si sforzasse non riusciva a na-
sconderlo.
«Ho mandato Charlie a letto» disse. «C'è rimasto un po' male, perché
non voleva perdersi il bello». Erano in piedi nell'anticamera. Stella posò la
borsa sul tavolo sotto lo specchio e controllò la propria immagine riflessa.
Brenda stava aspettando.
«E allora?».
«Allora ci sono state delle voci» disse Stella. «Su di me».
Brenda la seguì in soggiorno e rimase vicino al camino mentre Stella si
versava da bere. Prima o poi avrebbe dovuto dirglielo, ma si sarebbe fatta
ammazzare piuttosto che servirle tutto su un piatto d'argento.
«Su di te?».
Stella andò col suo bicchiere alla finestra e si mise a guardare fuori.
Benché fosse calata la sera, le tende erano ancora aperte. C'era la luna pie-
na.
«È una notte magnifica» disse. Dov'era Edgar, adesso? In un fosso, in un
granaio, in un fienile, rannicchiato nel buio, coi vestiti di Max, ad arroto-
larsi il suo tabacco? Oppure era scomparso in qualche mondo di cui lei non
sapeva nulla? Si allontanò dalla finestra.
«Sì, su di me».
«Stella, ti prego, raccontami cos'è successo. Se non vuoi, non importa.
Ma, vedi, sono preoccupata. Vorrei poter fare qualcosa».
«Qualcuno ha detto a Jack che il mio rapporto con Edgar Stark non era
del tutto irreprensibile».
«E lo era?».
«Ma certo. C'è bisogno di chiederlo?».
«Scusa».
Stella la guardò con calma. Oh, Brenda aveva pronta per lei una bella
lettera scarlatta; sarebbe stata felice di darle tutta la colpa dei guai di Max,
ma lei non glielo avrebbe permesso.

Nel frattempo avevo lasciato gli Straffen per raggiungere la casa del vi-
cedirettore. Passando dal Cancello avevo notato un'atmosfera diversa dal
solito; nonostante l'ora tarda c'erano parecchi uomini in giro, e un'aria di
emergenza. Il colloquio che mi aspettava era piuttosto delicato: dovevo
riuscire a evitare che Max, tra i molti meccanismi di difesa a sua di-
sposizione, scegliesse l'isolamento. Purtroppo avevamo ancora bisogno di
lui. Delle reazioni di Stella ero meno sicuro, ma prevedevo che si sarebbe
resa conto di essere stata tradita, e che avrebbe dato la colpa non tanto a
Edgar quanto a se stessa. C'era la possibilità che questo innescasse un epi-
sodio depressivo. Dovevamo vigilare.
Suonai il campanello. Nell'anticamera Stella si fermò di nuovo davanti
allo specchio. Dallo studio non arrivava alcun rumore. Aprì la porta.
«Oh, Peter. Entra, Max è nello studio».
«Vorrei parlare prima con te».
«Sono in soggiorno con Brenda».
La seguii. Si muoveva con una disinvoltura anche eccessiva, come se
cercasse di smentire col corpo la sua tensione. Brenda mi accolse affettuo-
samente. Mi lasciai cadere in una poltrona.
«Proprio una brutta storia, per tutti voi» dissi mentre Stella mi passava
un gin.
«Peter, ma cosa succede?» mi domandò Brenda.
«La solita prassi. Chi se la passerà peggio naturalmente è Jack. La stam-
pa lo metterà in croce, ci saranno interrogazioni parlamentari, tutto il si-
stema della semilibertà verrà condannato. Un'evasione come questa riporta
l'ospedale indietro di cinque anni». Stavo cercando di comunicare una spe-
cie di estenuata prostrazione, come se tutta la faccenda fosse in definitiva
una gran seccatura, e nient'altro. Speravo che sarebbe servito a mascherare
l'effettiva gravita della crisi. Brenda intanto aveva assunto la sua espres-
sione indifesa e disorientata; evidentemente sperava che vedendola in quel-
le condizioni qualsiasi vero cavaliere si sarebbe deciso a vuotare il sacco.
«Ma lo prenderete presto, vero?».
Sorseggiai il mio gin e lasciai cadere una mano dal bracciolo della pol-
trona. «Forse. Anche se pensiamo che possa avere qualche amico a Lon-
dra».
«Non sapevo che avesse amici a Londra» disse Stella.
«E come potevi saperlo?» risposi guardandola con aria assente.
«Max non mi ha parlato di amici a Londra. Che possano essere coinvol-
ti, intendo».
«Ha qualche amico dei vecchi tempi, a Soho».
In seguito Stella mi disse che all'improvviso le era sembrato di vedere la
scena dall'altra parte del vetro, come se stesse guardando dal giardino, nel
buio, un uomo in poltrona parlare con due donne che lo ascoltavano rapite.
Adesso nell'espressione di Brenda la curiosità nuda e cruda si mischiava
alla fascinazione e allo sgomento. Le era caduta la maschera.
Qualche minuto dopo mi alzai. «Sarà meglio che parli un po' con Max»
dissi. «Ti prego Stella, rimani seduta».
Fiato sprecato. Mi accompagnò fino alla porta del soggiorno e rimase a
guardarmi mentre percorrevo il corridoio e bussavo piano alla porta di
Max, poi entravo nello studio e mi chiudevo la porta alle spalle.
Non sapeva dire a che ora Max l'avesse raggiunta in camera. Lei era sali-
ta subito dopo, aveva preso una pillola e si era messa a letto aspettando di
addormentarsi. La luce della luna filtrava attraverso le tende. La casa era
silenziosa. Con la faccia premuta sul cuscino aveva pianto fino a inzuppare
la federa, poi l'aveva cambiata, e a quel punto, alleggerita dal peso più
immediato del suo dolore, era rimasta a fissare il soffitto. Ripensava alle
notizie che aveva appena sentito, che in sostanza significavano una cosa
sola: se Edgar aveva degli amici, probabilmente era al sicuro. Tenendosi
stretta a questo pensiero si era addormentata.
Sono convinto che sia andata effettivamente così. Non credo che avesse-
ro un piano. Non credo che Stella stesse complottando contro di noi.

Andò tutto all'incirca come avevo previsto. La stampa rispolverò il caso,


e Stella fu costretta suo malgrado a rendersi conto del perché Edgar fosse
finito qui. Aveva ucciso sua moglie a martellate, e ne aveva mutilato il ca-
davere. Al processo, due psichiatri avevano testimoniato che soffriva di
psicosi paranoide, e la corte aveva emesso il verdetto di infermità mentale
richiesto dalla difesa. Il giorno dopo me lo avevano consegnato. Adesso la
stampa voleva sapere perché a un uomo simile fosse stato concesso di la-
sciare ogni mattina l'ospedale e di lavorare fuori fino alla sera.
Furono giorni terribili per tutti noi. Nella casa del vicedirettore Brenda si
occupava di Charlie, in modo che Stella e Max potessero concentrarsi sui
loro problemi. Ripensandoci, Stella era convinta di essere riuscita a con-
trollare le proprie emozioni, che com'è ovvio erano tutte rivolte all'amante
scomparso. Naturalmente fingere le riusciva tutt'altro che facile; dopotutto,
era pur sempre nella tana del lupo. Max tornava a colazione quasi tutti i
giorni, e Brenda e Stella cercavano di creare dal nulla una corrente di calda
domesticità femminile che avrebbe dovuto fargli sentire la casa come un
rifugio, un posto sicuro, isolato dalle spaventose tensioni cui in quel pe-
riodo era sottoposto in ospedale.
Eravamo tutti sotto stretta sorveglianza. In giro era pieno di giornalisti
che interrogavano chiunque fosse disposto a parlare. In quell'estate senza
notizie di spicco il caso di Edgar Stark dominò senza sforzo le prime pagi-
ne. Ci sentivamo assediati. A Charlie fu proibito di uscire dal giardino.
L'unica volta che disobbedì a quest'ordine un giornalista lo avvicinò con
aria amichevole, e appena scoprì chi era cominciò a fargli domande imba-
razzanti, come di che cosa parlava papà a tavola. Il povero Charlie tornò a
casa mortificato e in lacrime. Temeva di aver fatto qualcosa di molto brut-
to rispondendo a quell'uomo, ma per educazione non aveva saputo dirgli di
no.
Delle squadre di lavoro non c'era più traccia. Stella andò a fare un giro
in giardino; nell'aria immobile notò subito la tenue vibrazione dell'assenza.
Scese nell'orto per cogliere un po' di lattuga e di uva spina. In quell'esplo-
sione di verde mancava qualcosa: la macchia di fustagno giallo vicino alla
serra. Gli alberi che sovrastavano il muro del giardino sembravano torpidi
e stranamente appesantiti, e gettavano profonde pozze di ombra. Era tutto
così lussureggiante, l'erba del prato era alta e folta e le rose rampicanti pro-
rompevano nella loro seconda fioritura, ma in quel tripudio il suo amante
non c'era. Stella percorse il sentiero ghiaioso col cestino al braccio, e si
fermò vicino al flogo che aveva trapiantato in primavera dai vecchi ceppi.
Ne aspirò il profumo. Un calabrone si arrampicò sulla corolla di un cardo,
poi si alzò nell'aria sonnolenta e volò via. Stella si sedette sulla panchina e
grattò con l'unghia una chiazza di lichene che era spuntato sul tenero legno
grigio. Poi si alzò e andò nella serra.
Anche la serra sembrava triste, in abbandono, dimenticata. Come lei.
Edgar aveva cominciato a sostituire il legno marcio, e i listelli e le tavole
nuovi erano inseriti nelle parti integre dell'originale con una precisione as-
soluta. L'accostamento fra legno vecchio e legno nuovo era piacevole a
vedersi. Stella si sdraiò sulle pietre spaccate, fra le erbacce, nel punto dove
lei e Edgar si erano buttati la prima volta. Sentì gli occhi che si riempivano
di lacrime. Se li asciugò e si alzò in piedi, poi uscì dalla serra e prese il
sentiero come se avesse in mente qualcosa, fermandosi a raccogliere da
terra qualche bastoncino di rabarbaro. Il giardino sentiva la mancanza di
Edgar quanto lei. Molti fiori erano reclinati su se stessi; le ortensie, sen-
z'acqua, si erano seccate. Tutte le piante avrebbero avuto bisogno di una
potata, e il sentiero che attraversava l'erba incolta del prato era cosparso di
denti di leone appassiti. Il tubo dell'acqua, che nessuno usava più, pendeva
dal gancio vicino al rubinetto nella siepe. Il giardino aveva perso tutta la
sua freschezza.
Stella ne parlò a Brenda mentre preparavano il pranzo. «Per forza» ri-
spose lei. «I giardinieri sono così presi, d'estate».
«Mi sa che dovrò farlo da sola».
«Che seccatura. E pensare che mi sembravi l'unica persona di mia cono-
scenza ad aver brillantemente risolto Il problema della servitù».
Adesso fai anche la spiritosa, pensò Stella. E il lieve fremito sulle labbra
di Brenda le dette ragione.

Stella non sapeva se Jack o io avessimo fatto notare a Max che non ave-
va denunciato subito il furto dei vestiti. Per lei era diventato difficile ca-
vargli qualche informazione, oltre alla notizia che le ricerche si erano con-
centrate su Londra e non approdavano a nulla.
«Sembra scomparso» disse Max.
«Qualcuno lo starà nascondendo» fece Brenda.
Era al sicuro, almeno per il momento. A Stella bastava sapere questo.
Era al sicuro, e stava pensando a lei; in qualunque buco fosse andato a na-
scondersi non mollava e pensava a lei. I giorni passavano, era già settem-
bre. A volte Stella si diceva che forse non lo avrebbe più rivisto, e si senti-
va prendere dalla disperazione. Era un'idea sconvolgente, e per scacciarla
ripensava a tutto quello che lei e Edgar si erano detti e ripromessi. Non l'a-
vrebbe abbandonata, ne era certa. Non perse mai la fiducia. Si ripeteva di
essere paziente, e si consolava pensando che, ovunque fosse, non era in pe-
ricolo. Viveva in uno stato di sospensione; nulla era finito, anche se tutto
stava cambiando. Non provava neppure a immaginare quello che poteva
succedere, perché il solo pensiero la faceva star male, ponendole problemi
pratici al momento insormontabili. Si chiedeva soltanto che cosa Edgar a-
vrebbe voluto che facesse, e la risposta era che rimanesse, sì, paziente, mu-
ta, sollevata di saperlo al sicuro.
Beveva in continuazione, le sembrava essenziale per mantenere una
qualche forma di equilibrio. Evitava di pensare agli aspetti pratici e si fa-
ceva cullare il più possibile da una specie di fede assoluta; da quella, e dal
gin. In alcuni momenti, quando agli aspetti pratici era costretta a pensare,
si rendeva conto che quella fede, e il gin, non avrebbero potuto rimanere in
eterno il suo unico nutrimento spirituale; ma finché ci fosse riuscita sareb-
be andata avanti in quel modo. Tutti gli altri erano talmente distratti dal-
l'emergenza, dagli occhi del mondo puntati addosso, da non accorgersi che
Stella trascorreva i suoi giorni in uno stato di distaccata astrazione, fa-
cendo quello che ci si aspettava da lei, certo, ma con la testa sempre da u-
n'altra parte. Tutti, tranne me. Io la stavo osservando.
In quel periodo, Stella subì uno shock piuttosto forte. Una mattina era
nell'orto ad annaffiare. Continuava a far caldo, non pioveva da settimane e
la terra, in superficie, sembrava sabbia. Aveva bisogno di bere molto, una
condizione che Stella in quel momento capiva benissimo. Così attaccò la
canna al rubinetto nella siepe e si mise a dare un sorso d'acqua a ogni pian-
ta, una per una. Con gli stivali di gomma, il vestito estivo, gli occhiali da
sole e il cappello di paglia a tesa larga Stella si muoveva con decisione tra-
scinandosi dietro il tubo, e quello che stava facendo le dava una specie di
piacevole spensieratezza, qualcosa di cui andava alla ricerca in ogni sua at-
tività durante quelle difficili giornate. Il rumore dei passi sulla ghiaia alle
sue spalle la disturbò. Ma quello che vide quando si voltò, con la canna in
mano, la disturbò anche di più. Jack Straffen veniva verso di lei lungo il
sentiero. Allerta. Massima allerta. Gli gridò di aspettare, perché doveva
chiudere l'acqua. Uscì a grandi passi dall'orto della lattuga, mentre a terra il
tubo continuava a zampillare, e andò a chiudere il rubinetto.
«Max è ancora in ospedale» disse.
Con l'abito scuro e il panama, Jack sembrava accaldato, a disagio e del
tutto fuori luogo nel verde che lo circondava da ogni parte.
«Veramente volevo parlare con te. Possiamo sederci?».
Stella gli fece strada fino alla panchina della serra, dove si sedettero al-
l'ombra. Jack si tolse il cappello e lo appoggiò accanto a sé.
«Fumi?».
«No, grazie».
«Un uomo come Edgar Stark» disse, e si fermò. Fece cadere con un ge-
sto studiato la cenere della sigaretta sulla ghiaia sotto di loro e rimase a
guardarla. Poi fece un sospiro. «Sai qual è la sua diagnosi? Paranoia. Ne
abbiamo molti come lui, qui. Vedi Stella, questi pazienti sono pericolosi
tanto quanto gli schizofrenici che hanno commesso un omicidio. Ma il fat-
to singolare è che in nessuno di loro c'è traccia di psicosi. Neanche la mi-
nima traccia. E quindi non gli diamo farmaci. Proviamo con la terapia, ma
purtroppo senza grandi risultati. Possiamo gestirli, possiamo contenerli,
ma non sappiamo esattamente come curarli. Perché non capiamo veramen-
te cosa sono».
A chi ti riferisci, pensò Stella, ai tuoi pazienti o alle donne?
«Anche se non lo sembra affatto, Edgar Stark è un individuo gravemente
disturbato».
«Questo lo so, Jack».
«Mi chiedo se lo sai davvero. Ad esempio, sai cosa ha fatto a quella
donna dopo averla uccisa?».
Stella non rispose.
«L'ha decapitata. Poi l'ha enucleata. Sai cosa vuol dire? Vuol dire che le
ha tagliato la testa e poi le ha cavato gli occhi».
Stella guardò il giardino, meravigliandosi di come le piante che aveva
annaffiato sembrassero già più vive delle loro vicine. Alle due estremità
della panchina, all'ombra, c'erano le metà di un barile che Edgar aveva
riempito di terra e dove aveva piantato dei ciclamini d'inverno. Stella si ri-
cordava benissimo Edgar che segava il barile in due. Gliel'aveva tenuto
fermo lei. Anche i ciclamini avevano bisogno d'acqua.
«Beviamo qualcosa?».
«Non sono neanche le dieci, Stella».
«Il giardino andrà in malora senza le squadre. Guardalo».
«Mi hai ascoltato, Stella? Hai capito cosa ti sto dicendo?».
Stella si voltò verso di lui. «Non so che cosa vuoi da me» disse. «Pensi
che ti stia nascondendo qualcosa, ma non è vero».
«Ti ha mai toccato?».
«No!».
«Ti ha mai chiesto dei soldi?».
«No. Non credi che se fosse successo lo avrei detto a Max?».
Jack si tolse gli occhiali. Si strofinò le palpebre con le dita. Si appoggiò
allo schienale e fissò il giardino illuminato dal sole. Era un uomo corpu-
lento, sulla sessantina, un uomo preoccupato con i capelli grigi cortissimi e
lo sguardo penetrante. Stava per andare in pensione, e avrebbe fatto volen-
tieri a meno di questo problema. Sul suo anulare la fede brillava ai raggi
del sole che filtravano attraverso l'edera sopra le loro teste.
«Non credo che tu mi stia dicendo tutta la verità».
Stella non protestò. Alzò le spalle e scosse leggermente la testa, come se
disperasse di riuscire a convincerlo.
«Stella, se ti sei cacciata in qualche guaio, se ti ha convinta a fare qual-
cosa...».
«Cosa?».
«Io lo conosco, Edgar Stark. So come si muove. Non c'è motivo di ver-
gognarsi ad ammettere che ti ha coinvolta nel suo caso, si è conquistato la
tua simpatia, ti ha montata contro Max, Peter e me. Sai cosa credo? Credo
abbia immediatamente individuato in te una persona da usare. Ti ha detto
che stavamo per rimetterlo in libertà? Non è affatto vero. Ma se non mi di-
ci cosa è successo non posso aiutarti».
«Non è successo niente».
Jack sospirò. «Non è successo niente».
«No».
«Non me lo vuoi dire».
«Te lo sto dicendo».
Jack prese il suo panama. «Forse per te è un bene che se ne sia andato.
Vieni a trovarmi presto, d'accordo?».
Stella annuì.
Lo guardò mentre camminava pesantemente sul sentiero. Il cuore le bat-
teva forte, e le tremavano le mani.

All'erta. Edgar le aveva preannunciato che Jack le avrebbe detto queste


cose, parola per parola. Stella risalì a sua volta, lentamente, il sentiero.
Sentiva con un certo fastidio quanto fosse convincente il direttore, e quan-
to sarebbe stato facile soccombere al tono affettuoso e paterno con cui le
offriva comprensione e sostegno. Doveva stare all'erta, doveva sforzarsi di
non dimenticare mai che era Jack Straffen a cercare di manipolarla, non
Edgar.
Ah, era furbo il mio Edgar. L'aveva preparata a qualcosa del genere, le
aveva spiegato come comportarsi. In un colpo solo si era garantito il suo
silenzio e la propria sicurezza; e senza neanche dirle che voleva scappare.

Durante il periodo immediatamente successivo alla fuga Stella e Max


mantennero una strana distanza fra loro. Stella aveva le sue buone ragioni
per evitarlo, ma si chiedeva perché Max diffidasse tanto di lei. Il perché, in
realtà, era evidente: Max aveva paura che le voci fossero vere. La conosce-
va abbastanza per nutrire quantomeno un dubbio. Alla fine di una seduta
particolarmente lunga e sofferta Stella mi confessò che un anno prima che
tutto questo accadesse aveva detto a Max di non essere disposta a farsi
seppellire viva in un matrimonio freddo, un matrimonio in bianco, solo
perché a lui il sesso non interessava un granché, o perché non aveva abba-
stanza fantasia intellettuale, o fisica, per sentirsi attratto da lei, o perché in-
canalava tutta la sua libido nel lavoro, o per qualsiasi altra spiegazione in-
tendesse offrirle. Secondo Stella, Max a suo tempo aveva probabilmente
sottovalutato la minaccia implicita nell'ultimatum, e ora si trovava di fron-
te all'eventualità non solo che Stella l'avesse messo in pratica, ma che l'a-
vesse fatto con un paziente. Un'eventualità a cui Max ovviamente non po-
teva neppure pensare, perché avrebbe significato accettare la responsabilità
del fallimento del loro matrimonio, almeno sul piano fisico, e forse anche
della disastrosa scelta di Stella. In ogni caso, Max non era disposto a par-
larne con lei: per quanto lo riguardava, la miglior medicina era la negazio-
ne.
Così, nelle ultime giornate di caldo dell'estate si muovevano per quella
loro grande, triste casa come fantasmi, passandosi accanto senza parlare di
nulla, in pratica ignorandosi. Rimaneva soltanto l'attenzione di Brenda ai
rituali della vita civile, che agiva come una sorta di collante, unendoli in
un simulacro di famiglia. Per Charlie era importante, specie adesso che
l'eccitazione per il dramma in atto era smorzata dalla tensione di vivere in
una casa di fantasmi. Brenda li teneva insieme, e Stella, intanto, si soste-
neva con quella sua fede e il gin.
Alla fine Edgar sparì dalle prime pagine, e in assenza di notizie fresche i
giornali smisero di interessarsi a lui. A poco a poco l'ospedale si abituò alla
sua assenza, e l'emergenza sfumò in qualcosa che somigliava alla normale
routine quotidiana. Il tempo alla fine peggiorò, e dopo settimane di clima
caldo e secco cominciò a piovere.

In piedi davanti alla finestra del soggiorno, Stella guardava l'acquazzo-


ne. Si era scatenato senza preavviso e andò avanti per parecchi minuti, poi
si trasformò in una pioggerellina sottile per cedere infine a una timida
schiarita. Ora il giardino brillava nel sole, e tutto sembrava più verde, più
rigoglioso. Ma non durò. Tornarono le nuvole, il cielo si oscurò di nuovo,
e riprese a piovere. Per qualche giorno il tempo fu variabile, e nelle nostre
frequenti conversazioni a riguardo parlavamo di un'estate nel complesso
splendida, ma ormai finita: e dall'Inghilterra, aggiungevamo, non si poteva
pretendere di più. Brenda tornò a Londra, e Stella cominciò a preparare
Charlie per la scuola.
Lei dice di non aver smesso un solo istante di sperare; di non aver mai
voltato le spalle, dentro di sé, a Edgar. Era come se lo sentisse al suo fian-
co, sempre. Aveva imparato a fidarsi di lui. Senza una ragione al mondo,
ovviamente, o forse proprio per questo, sì, perché si stava convincendo che
la fiducia, e la speranza e l'amore sono tali in quanto nascono e crescono a
dispetto della ragione. Stella comunque non aveva idea di che fine avesse
fatto Edgar. Io supponevo che si fosse dileguato in un tenebroso sottobo-
sco londinese di artisti e delinquenti, ma tiravo a indovinare, perché le mie
fonti, che avevo contattato con molta discrezione, mi avevano lasciato a
bocca asciutta. Ero frustrato, questo sì, ma sapevo anche che prima o poi
Edgar sarebbe uscito allo scoperto. La mia vera preoccupazione era piutto-
sto che senza cure, e senza la mia mano a guidarlo, il mio paziente si la-
sciasse trascinare in un rapporto con una donna, e la sua malattia esplodes-
se di nuovo.

***
La mia ansia di sapere dov'era Edgar, e come stava, si rispecchiava, per
una specie di aberrazione ottica, in Stella, tanto che più avanti ravvisai nel-
la sua infatuazione sessuale e amorosa per lui il riflesso, certo primitivo e
distorto, ma comunque un riflesso, della mia sollecitudine per un uomo
malato, che si trovava, privato di qualsiasi appoggio terapeutico, in una si-
tuazione di grande tensione e incertezza. Di fatto, quando Stella mi parlò
di quei giorni ritrovai nella sua esperienza qualcosa della mia. Il peggio e-
rano le sere, mi disse. Dopo cena Max si ritirava nello studio e lei si trasci-
nava in soggiorno. Quando circa un'ora dopo lui andava a letto lei rimane-
va di sotto, dicendo di voler leggere ancora un po'. La porta della camera
da letto che si chiudeva era il segnale per mettere via il romanzo e versarsi
qualcosa di più forte.
Le ore che seguivano erano di Edgar. Stella si abbandonava ai ricordi di
quell'estate. Usava come riferimento la sua agenda; non aveva tenuto un
resoconto scritto, ma grazie a certi segni cifrati in corrispondenza di parti-
colari giorni era in grado di ricordare ogni incontro e, per usare le sue pa-
role, ogni atto d'amore. Aveva imparato ad assorbire le immagini come
boccate di sigaretta: riusciva a trattenerne nella mente tutto il peso, e il si-
gnificato, e le sensazioni che evocavano, e da questo punto di vista, diceva,
alcune erano più potenti di altre. Una volta, nel capanno del cricket, qual-
che secondo dopo aver fatto l'amore, Edgar le aveva appoggiato la testa
sulla spalla, e lei aveva sentito il suo respiro placarsi a poco a poco. Poi
Edgar si era tirato su, e nei suoi occhi Stella aveva visto qualcosa che non
riusciva a spiegarmi, così come non sapeva descrivermi cosa si erano detti
senza parlare in quei pochi secondi, prima che il loro pensiero tornasse a
banalità come la fretta o le precauzioni per non farsi scoprire. In quell'at-
timo sospeso, nel patto che avevano stretto senza parole, Stella aveva sen-
tito infrangersi i loro ego separati, e le loro identità fondersi l'una nell'altra:
adesso fra lei e Edgar non c'era più differenza, ormai erano una cosa sola,
erano, come aveva detto? Inseparabili...
Rimasi pazientemente ad ascoltare tutto questo rinunciando alla doman-
da più ovvia: e lui? E Edgar? Aveva pensato anche lui che erano una cosa
sola, che erano, come aveva detto? Inseparabili? In quel momento credevo
ancora che Edgar avesse suscitato questi sentimenti in Stella per poterla
poi usare, e che una volta uscito dal manicomio sarebbe svanito nel nulla.
Mi sbagliavo.
Una sera, più o meno in quel periodo, Max mi invitò a cena. Eravamo
solo noi tre. Bevemmo qualcosa in soggiorno, e inevitabilmente ci met-
temmo a parlare di Edgar. Max sosteneva che l'evasione era stata studiata
fin nei dettagli. Non pensava quasi più ad altro, e non la finiva mai di par-
larne.
«L'unica cosa che gli serviva erano degli abiti normali. Ha aspettato che
la casa fosse vuota. Appena è stato sicuro che eravamo tutti fuori non ha
perso un secondo».
«La sua fortuna» mormorai, gettando un'occhiata a Stella «è stata avere
la tua stessa taglia».
«Già, proprio una bella fortuna. Per lui» disse Max aggrottando la fron-
te. Odiava questo aspetto della faccenda, e cioè l'identificazione, benché
indiretta, fra lui e Edgar Stark. Stava piegato in avanti, il bicchiere in ma-
no, gli occhiali che dondolavano fra le dita. Dal momento della fuga non
era più riuscito a scrollarsi di dosso il senso di colpa per il tempo perso
dopo la scoperta del furto, che aveva di fatto consentito a Edgar di guada-
gnare terreno. Era uno psichiatra troppo esperto per non aver analizzato,
come me, la ragione di quella perdita di tempo, che ormai era evidente an-
che a Stella: Max aveva esitato perché era giunto alla conclusione che Ed-
gar fosse entrato in camera da letto perché ce l'aveva portato lei. Ma piut-
tosto che accettarla, quella conclusione, meglio lasciar scappare Edgar.
«Una cosa che continuo a non spiegarmi» dissi con una certa malizia «è
quella storia dell'alcol rubato dal capanno. Edgar poteva avere le chiavi so-
lo dal giorno in cui ti ha preso i vestiti, che però è lo stesso della fuga».
Max scosse la testa. «Non credo che quell'alcol venisse dal capanno»
disse.
«Che strano» disse Stella. Si sentiva addosso il mio tipico sguardo sva-
gato, e d'un tratto, ammise più tardi, si era resa conto che di svagato non
c'era proprio nulla nell'intelligenza al lavoro dietro quegli occhi pigri. Si
chiese quanto effettivamente sapessi di ciò che era accaduto nel capanno
del cricket. In quel preciso momento squillò il telefono, e Stella posò il
bicchiere.
«Vi raggiungo a tavola fra cinque minuti» disse. Andò nell'anticamera,
chiudendosi la porta alle spalle, e la sentii sollevare la cornetta.
Solo in seguito ho saputo chi era.

A tavola feci notare che non mi ero sbagliato: Edgar aveva ancora degli
amici a Londra. «Sapevano che stava arrivando» dissi. «C'era un posto
pronto per lui. Adesso non lo prenderemo più, a meno che non faccia qual-
che stupidaggine».
«Ne fanno sempre» sussurrò Max piluccando il suo curry. Stella divide-
va fra Max e me il suo sguardo attento e partecipe da brava moglie di psi-
chiatra. Era su di giri, quasi euforica, ma non mi venne in mente di do-
mandarmi perché. Un errore da parte mia, visto l'effetto atroce che questa
conversazione doveva fare su una donna innamorata.
«Davvero, Peter?» mi domandò.
«Credo di sì. E non credo che rivedremo più Edgar Stark».
Ci mettemmo a parlar d'altro. Stella sparecchiò e portò i piatti in cucina.
Rimase in piedi davanti al lavandino, guardando fuori, il cuore in fiamme.
Puoi immaginare cosa abbia significato quella telefonata per me, mi disse
poi.
Sì, le risposi.
Quello che facevo più fatica a immaginare era perché Edgar, una volta
evaso, stesse rischiando tutto per rivederla. Solo col tempo sono arrivato a
capire che c'entrava la sua scultura. Dopo quasi cinque anni di inattività,
Edgar voleva ricominciare, e per farlo gli serviva una testa. E considerando
chi era lui, e chi era lei, e soprattutto che lei lo amava, non poteva essere
che la testa di Stella.

Ora le giornate si trascinavano con una lentezza esasperante. Anche a di-


stanza dai fatti, certe volte Stella si sentiva prendere dal panico. Sono paz-
za? si chiedeva. Come posso giocarmi tutto quello che ho, come posso es-
sere così irresponsabile, io, una donna adulta, una madre? Ma alla sola i-
dea di rivedere Edgar tutti i dubbi e le esitazioni svanivano.
La domenica sera disse a Max che l'indomani avrebbe fatto un salto a
Londra. Lui le chiese se le serviva la macchina per andare alla stazione.
Solo se non la prendi tu, altrimenti chiamo un taxi, rispose Stella. Erano
diventati molto cerimoniosi. Quella sera, quando andò a letto, trovò Max
ancora sveglio. La sua voce risuonò nel buio.
«Cara?».
La risposta di Stella fu un gemito assonnato.
«Questa maledetta storia ha rovinato tutto, mi dispiace».
Max si girò sul fianco. Ora erano uno di fronte all'altra. La sua mano si
insinuò sotto il lenzuolo.
«Sono molto stanca, Max».
«Non lo facciamo da settimane».
Stella si voltò di spalle, e Max si strinse a lei. Se lo sentiva addosso, pet-
to contro schiena, gambe contro gambe. Perché proprio quella sera?
«Adesso dormi» gli sussurrò. Si era accorta che si stava eccitando.
«Ti ho perduta» sussurrò Max.
«Non dire sciocchezze. Dormi».

Dopo, fu per me fin troppo facile immaginare quello che aveva provato
Stella: l'attesa febbrile, la tensione quasi insopportabile mentre contava le
ore che la separavano da lui. Aveva deciso di prendere un treno al mattino
presto. In un'ora avrebbe potuto comprare qualcosa per giustificare il viag-
gio, e avere così il resto della giornata tutto per sé. Dalla Victoria Station
prese un taxi fino a Knightsbridge, dove fece qualche acquisto in fretta e
furia. Poi tornò alla stazione e sedette in un bar davanti a una tazza di caf-
fè. Il grande tetto di vetro le ricordava la serra. Si mise ad aspettare. Porta-
va un tailleur bianco, e scarpe bianche con il tacco alto. Si era trovata un
posto verso il fondo da dove poteva tener d'occhio l'ingresso. A mezzo-
giorno e dieci vide Edgar entrare, andare al banco e ordinare un tè, conti-
nuando a darle le spalle. Stella era fuori di sé, non sapeva nemmeno più se
per l'esaltazione o il terrore, ma quando lui si voltò fu costretta ad accen-
dersi una sigaretta per nascondere l'imbarazzo: non era Edgar, non gli so-
migliava neanche un po' ! L'uomo si rese conto di essere osservato, e Stella
si voltò da un'altra parte, dando spasmodici segni di disinteresse; con suo
grande sollievo lui non si avvicinò. Per molti uomini, una donna sola nel
bar di una grande stazione ha tutta l'aria di una preda.
Edgar non arrivò, e alle due Stella si arrese. Non se la sentiva di fare al-
tre compere. Prese il primo treno e guidò senza problemi dalla stazione fi-
no a casa. In casa non c'era nessuno. Si infilò in un bagno caldo con un
gran bicchiere di gin tonic dicendosi che Edgar non era potuto venire al-
l'appuntamento per qualche ragione indipendente dalla sua volontà.
Tornò l'indomani. La seconda volta fu più facile; come andare a letto
con Edgar la seconda volta. Il confine lo aveva passato, poi si era sempli-
cemente ritrovata dall'altra parte. E ormai aveva infranto tutte le leggi, an-
che quelle non scritte del suo matrimonio, della sua famiglia, e della sua
società, che naturalmente era l'ospedale. Di nuovo si sentì esaltata e terro-
rizzata. Essere fuori, al di là della legge, era sempre la sensazione più forte
che si potesse provare, mi disse, era quello che le dava alla testa. Le donne
romantiche, riflettei: non pensano mai al male che fanno in quella loro for-
sennata ricerca di esperienze forti. In quella loro infatuazione per la libertà.
Era di nuovo seduta al bar di Victoria Station. Si era messa gli occhiali
scuri e un cappello a tesa corta, in modo da sorvegliare l'ingresso senza at-
trarre l'attenzione. Verso mezzogiorno un ragazzo alto e allampanato ven-
ne a sedersi sulla sedia di fronte alla sua, tenendo gli occhi fissi sul tavolo.
Aveva i capelli color paglia e la barba a chiazze. Portava una vecchia giac-
ca di tweed macchiata e una camicia senza cravatta, con il colletto lurido.
Era tutto schizzato di vernice. Mise lo zucchero nel tè e mentre lo mesco-
lava, senza sollevare lo sguardo, disse: «Stella?».
Lei rabbrividì. Pensò che, nonostante le apparenze, fosse un poliziotto.
Non aveva messo in conto che Edgar potesse mandare qualcuno, invece di
venire di persona. Fece per prendere la borsa e andarsene.
«Lei è Stella Raphael» disse quella specie di barbone, lanciando occhiate
furtive da una parte all'altra. Stella riconobbe subito l'accento dei college
giusti. Adesso il ragazzo, per parlarle, si era appoggiato al tavolino. «E-
dgar mi ha detto di portarla da lui. Be', è lei o non è lei?».
Continuava a non trovare un solo motivo per fidarsi di lui. Incontrare
una terza persona a conoscenza della sua storia con Edgar, così segreta, era
sconvolgente. Stella decise che, nel dubbio, era meglio considerarlo un
nemico.
«Lei sta sbagliando persona» disse freddamente. «Io non la conosco, e
non conosco nessun Edgar».
Fece per alzarsi dalla sedia. L'uomo gettò un'altra rapida occhiata ansio-
sa al bar pieno di gente. «Tu sei Stella» le disse. «Edgar mi ha detto com'e-
ri fatta. Io sono quello che si occupa di lui».
Il ragazzo si sporse ancora di più, come per sfidarla a negarlo. Stella
percepì la sua paura e la sua impazienza. Rimase zitta per qualche istante,
e non si alzò. L'altro aspettava una risposta, tamburellando nervosamente
con le dita su un pacchetto di sigarette. Diede un'ennesima occhiata in giro,
e fu questo a convincere Stella. Era un'occhiata solo apparentemente ca-
suale: in realtà aveva uno scopo ben preciso e registrava tutto. Era identica
a quelle che lei aveva gettato alla porta nell'ultima ora.
«D'accordo» disse Stella. Tirò fuori una sigaretta e il ragazzo le tese un
fiammifero. Era visibilmente sollevato.
«Ti ho già visto ieri» le disse. «Ma dovevamo essere sicuri che nessuno
ti seguisse».
«Dovevamo?»
«Edgar e io».
«Come ti chiami?».
«Nick».
Più tardi, Stella mi disse di aver avuto la sensazione che tutto si fosse
capovolto. Non era lei che stava abbandonando il suo mondo per raggiun-
gere un uomo braccato, un fuggitivo; era il fuggitivo che aveva un suo
mondo protetto, in cui le stava offrendo asilo. Era lei la braccata, e non a-
veva più un posto dove andare. Il comportamento melodrammatico di
quello spilungone vestito di stracci non faceva che rendere la situazione
ancora più bizzarra.
Da lì in poi fu come entrare in un sogno. Quel Nick la accompagnò a
una Vauxhall parcheggiata dietro la stazione, una macchina sporca con le
imbottiture strappate e rifiuti ovunque, sui sedili, sul pavimento, sul cru-
scotto. Passarono il fiume a Westminster e si diressero a est. C'era un caldo
fuori stagione, e molto smog, e benché il sole splendesse sul Tamigi l'aria
era ferma, polverosa, opprimente. Non un alito di vento. Era una zona di
Londra che Stella non conosceva. Stradine anguste separavano magazzini
in disuso del secolo scorso, o forse di quello prima. Gli edifici lasciavano
filtrare pochissima luce, e avevano tutte le finestre murate, o spaccate, o
incrostate di polvere. Passarono vicino a un cratere dell'ultima guerra cir-
condato da una catena, e Stella notò un gattino nero sotto il sole che si fa-
ceva strada tra le macerie. Ciuffi di erbacce ricoprivano le cataste di mat-
toni rotti e di legname. Nonostante l'ora non c'era in giro un'anima. Per tut-
to il viaggio si concessero un solo, breve scambio di battute, quando a
Stella venne spontanea una domanda.
«Come ti ha detto che ero?».
Nick sorrise senza rispondere.
«E dài».
«Un Rubens».
«Oh, un Rubens».
Era un modo di dire tutto loro, suo e di Edgar, ma adesso lo sapeva an-
che Nick. Stella ci rifletté. Strano, non le importava. Vide il ragazzo con-
trollare lo specchietto. Erano arrivati in una strada deserta vicino al fiume.
Nick frenò di colpo, ingranò la retromarcia e si infilò velocemente in un
vicolo che portava a un cortile dietro a un magazzino. C'erano edifici su tre
lati, e sul quarto, proprio di fronte a loro, un viadotto ferroviario. Sotto le
arcate, un mercato all'ingrosso di frutta e verdura: deserto, come tutto il re-
sto, con i lucchetti appesi a porte e inferriate.
«Eccoti arrivata».
Stella scese dalla macchina. Nell'aria c'era odore di arance marce. Le fi-
nestre degli edifici tutt'intorno al cortile sembravano fissarla come tanti
occhi ciechi. Contro il muro, pile e pile di copertoni usati cuocevano al so-
le. Per terra, un foglio di giornale si muoveva appena. Nick lasciò Stella
vicino alla macchina in mezzo al cortile e sparì nel vicolo. Tornò quasi su-
bito e la accompagnò fino a un andito sul retro di uno degli edifici. Era
buio e puzzava di urina. Stella pensò che stessero per ammazzarla.
Nick aprì una porta in fondo all'andito. Una scala stretta e ripida si ar-
rampicava nell'ombra. L'aria era umida, fredda. Adesso c'era puzza di muf-
fa e di escrementi.
«Sali, dai» la incitò.
«Lui dov'è?».
«All'ultimo piano. Sali».
Nick sembrava vagamente divertito, e Stella pensò che la schernisse;
perché si era fatta portare fin lì di buon grado, forse, oppure perché adesso
esitava, la gran signora fuori dal suo ambiente naturale e sul punto di per-
dere le sue fragili sicurezze. Ora Nick non era più comico, era sinistro, ma
Stella cominciò lo stesso a salire, e del resto che cos'altro avrebbe potuto
fare? I gradini si incurvavano scricchiolando sotto i suoi piedi. L'aria era
appiccicosa. Un corrimano di legno levigato dall'uso era malamente fissato
al muro. Quando si rese conto che Nick non la seguiva Stella si fermò, ap-
poggiata al corrimano, e si voltò a guardare. Nick era ai piedi della scala, e
la teneva d'occhio. Il suo lungo indice le faceva cenno di salire, di conti-
nuare a salire, di salire fino in cima.
Stella fece diversi piani. In cima, una finestra polverosa dava sul cortile
sottostante. Vide Nick aprire la portiera della Vauxhall e si tirò indietro,
urtando un pezzo di tubo metallico che cadde sull'assito sollevando una
nuvoletta di polvere. Sul pianerottolo c'era una porta, che Stella aprì timi-
damente. Era terrorizzata. Davanti a lei si apriva uno stanzone talmente
ampio che le finestre rischiaravano soltanto una striscia di pavimento. A
poco a poco i suoi occhi si abituarono alla penombra. Sulla parete di fon-
do, da cui l'intonaco si era staccato scoprendo le assi e il canniccio, si apri-
vano alcune porte.
«Edgar?».
Stella avanzò di qualche passo. Il rumore dei suoi tacchi alti sull'assito
sembrava assordante. Portava un foulard e un impermeabile estivo color
tabacco con la cintura annodata, e aveva una grande borsa gettata su una
spalla. Una figura con la barba la guardava dall'ombra. Stella lo vide al-
l'improvviso, e non riuscì a trattenere un grido. Edgar si fece avanti sorri-
dendo, e lei gli corse incontro.

***

Rientrò a casa qualche minuto dopo le sei, e quando scese dopo il bagno
trovò Max, appena tornato dall'ospedale. Era di buon umore, evento raro in
quei giorni. Voleva sapere com'erano andati i suoi acquisti, e, visto che il
suo era un interesse puramente formale, per Stella non fu difficile elencare
i contrattempi e i giri a vuoto che avrebbero reso necessario un'altra punta-
ta a Londra venerdì. Lui le propose una passeggiata in giardino prima di
cena, e Stella trovò prudente acconsentire.
Cominciarono dall'orto, e Stella trovò paradossale che quello fosse, al-
meno tecnicamente, territorio di Max, perché lei sentiva ovunque la pre-
senza del suo amante. Edgar. Si era fatto crescere la barba. Nella tiepida
serata di inizio settembre l'aria era stagnante, afosa. Il rigoglio estivo aveva
prostrato la terra, e i frutti di quell'effimera esplosione di vita si stavano
decomponendo. Da dietro il muro si sentivano gli uccelli cantare.
«Hai visto Brenda?» chiese Max mentre risalivano il sentiero, fermando-
si a ispezionare ora questa ora quella pianta.
«Non ho avuto tempo».
«Ma sì, in fondo perché avresti dovuto? Ne avrai fin sopra i capelli di
mia madre, dopo quest'estate. Per non parlare di quell'altra storia...».
La sua voce si spense.
«Brenda e io andiamo d'accordo, quando è necessario. Anzi, mi ha fatto
piacere averla qui. È stata preziosa, con Charlie».
Erano arrivati alla serra. I lavori erano stati interrotti, e lo scheletro in-
completo della grande struttura bianca, col suo debole lucore nel crepusco-
lo, sembrava una rovina. Max sospirò. Inesorabilmente, la conversazione
si era spostata sul periodo successivo alla fuga di Edgar. Non riuscirono
mai a parlare a fondo di ciò che era accaduto e di come da allora la posi-
zione di Max in ospedale fosse cambiata. Ma era davvero cambiata? Si se-
dettero a fumare sulla panchina vicino al muro. Max le chiese di nuovo
della sua giornata a Londra, e per Stella non fu facile riportarlo ai suoi so-
liti argomenti di conversazione, che in genere avevano a che fare con il suo
lavoro. Si domandava perché lui le stesse così addosso, e ricordò che a let-
to, qualche notte prima, le aveva detto di averla perduta. Pensò che se vo-
leva vedere regolarmente Edgar a Londra bisognava che nel suo matrimo-
nio tutto tornasse normale. Doveva ridiventare invisibile, per Max.
Lui le prese la mano. «Mi piace questo posto, la sera». La guardò: «Ti
sta venendo freddo?».
«Ho un po' di brividi. Dovevo portarmi il cardigan».
«Torniamo dentro».
Risalirono il sentiero nel tramonto, mano nella mano.

Solo qualche giorno dopo venni a sapere di questo viaggio a Londra, e


del secondo che Stella fece nella stessa settimana. In quel momento Stella
era in una posizione precaria. Curiosamente, nonostante la frenesia che a-
vevano di vedersi, nei primi giorni della loro storia la tensione era stata
minore. Allora Stella aveva persino temuto che quella follia amorosa fosse
causata proprio dai limiti della situazione, e che senza quei limiti, e la
smania che alimentavano, prima o poi si sarebbe chiesta, per puro sfini-
mento, che cosa l'avesse spinta a correre quei rischi. Mi confessò che certe
volte, in qualche angolo della sua mente - un luogo in cui le priorità erano
la sicurezza, la prudenza, la salute - era arrivata a sperare di vedere la cosa
ridimensionarsi da sé, di sentirsi libera da quell'ossessione su cui non ave-
va alcun controllo.
Ma adesso no. Adesso tutte le strutture che avevano sorretto la sua vita
quotidiana, le sue responsabilità, la famiglia, le apparenze, la routine erano
diventate meri involucri. Continuava a tenerle in piedi, ma per ragioni di
puro pragmatismo; non voleva attirare né attenzione né interferenze, disse,
perché altrimenti non avrebbe potuto andare da lui.
E allora, che cos'era successo?
Stella pianse sommessamente raccontando di quel giorno, quando aveva
salito le scale fino al sottotetto, dove Edgar la stava aspettando. Non ave-
vano perso tempo. Erano corsi nella stanza in fondo, quella che lui chia-
mava il suo studio, ed erano saliti su per una scala fino a una specie di
soppalco con un materasso, dove si erano buttati. Qui provai a farle dire
qualcosa di più, perché mi interessava sapere se dal punto di vista sessuale
avesse notato qualcosa di diverso rispetto a prima, al manicomio, ma la sua
unica risposta fu che stavolta non c'era stato bisogno di non farsi sentire.
Dunque primitivo, frenetico, e anche rumoroso (il corsivo è mio). Più tar-
di, nudi sulle coperte, avevano parlato dei giorni successivi all'evasione,
dell'arrivo di Edgar a Londra, di come Nick fosse andato a prenderlo e lo
avesse portato lì, mettendogli a disposizione il suo studio. Stella mi disse
di non essere mai stata in una stanza come quella. Era uno spazio indu-
striale, con le pareti di mattoni fuligginosi e gli alti soffitti lungo i quali
correvano le tubature. C'erano tre grandi finestre che davano su un magaz-
zino abbandonato in fondo alla strada. Un tavolo su cavalietti addossato al
muro era ingombro di carta da disegno e altri materiali. Stella disse poi che
quella stanza da artista le piaceva, la faceva sentire, oh, spericolata, origi-
nale, e libera. Scese di sotto e fece un giro con l'impermeabile aperto, un
bicchiere in mano, raccogliendo oggetti, esaminando tutto. Più tardi, di
nuovo a letto, raccontò a Edgar di come aspettando la sua chiamata avesse
tirato avanti a fede e gin.
«E insomma non hai mai dubitato di me».
Stella lo guardò e scosse la testa.
«Io al tuo posto qualche dubbio l'avrei avuto».
«Tu non sei me».
«E chi sono, allora?».
Si strinse a lui, le mani che esploravano il suo corpo, seguendone le
forme, e poi la sua faccia, strofinandogli le dita nella barba umida. Fecero
di nuovo l'amore, il tempo volò, e solo quando Stella si rimise a sedere di-
cendo che doveva andare risuonò un'unica nota aspra, minacciosa. Stella lo
sentì muoversi nel letto, alle sue spalle.
«Torni da Max» disse.
«Torno da Max».
«Sa di noi?». I «Non vuole saperlo».
All'improvviso la voce di Edgar si riempì di scherno.
«È uno smidollato. E gli altri? Peter Cleave sarà fuori di sé!».
Stella fu colpita da questo sfogo. Edgar era improvvisamente passato
dall'indolenza del dormiveglia al furore del risentimento e del disprezzo.
Stella si inginocchiò vicino a lui baciandogli il viso e il collo, accarezzan-
dogli la testa, mormorando parole di conforto. Lui scrollò la testa, scacciò
l'irritazione, e si calmò. Adesso non voleva lasciarla andare. Voleva sapere
quando sarebbe tornata. Le disse che aveva bisogno di lei. Stella gli si
sdraiò vicino e lo strinse fra le braccia. Non lo aveva mai visto così, la sua
immagine di lui era sempre stata quella del fuorilegge, dell'artista beffardo,
spavaldo, appassionato, libero. Ora vedeva con chiarezza la forma che la
sua vita avrebbe preso: frequenti viaggi a Londra con pretesti che non de-
stassero sospetti. Non le importava quanto sarebbe stato difficile.
Questa improvvisa vulnerabilità non mi sorprendeva. Gli uomini gelosi
sono intrinsecamente deboli. Hanno il terrore di essere abbandonati. Edgar
la accompagnò, anche se lei non voleva. Era di nuovo di buon umore, e
non ci furono altri drammi. Tenendosi abbracciati stretti andarono fino alla
prima strada frequentata, dove Edgar rimase a fumare sulla soglia di un
pub mentre lei chiamava un taxi. Adesso il caldo era meno soffocante. Dal
finestrino posteriore del taxi Stella lo vide allontanarsi dal pub, buttar via
la sigaretta e tornare verso il fiume. Si rese conto che portava la giacca di
lino di Max, e i suoi calzoni, legati stretti in vita con una sottile cintura di
cuoio. Ripensandoci, le veniva da sorridere.

Il venerdì Nick tornò a prenderla. Ora Stella lo vedeva come il suo allea-
to, il suo intermediario. La accompagnò al magazzino, e stavolta Stella no-
tò il nome della strada, che era Horsey Street. Salendo le scale non fece
quasi più caso al buio, agli scricchiolii, al penetrante, fetido puzzo dell'edi-
ficio abbandonato che ormai ospitava soltanto derelitti e parassiti. Si ar-
rampicò in fretta su per l'ultima rampa, aprendosi il cappotto, e si precipitò
dentro. Edgar le saltellò incontro (come un lupo, disse Stella, un grosso lu-
po) e passarono un altro pomeriggio a letto, e di nuovo il tempo scivolò via
in modo quasi irreale. Lei gli aveva portato dei vestiti, del sapone e una
bottiglia di whisky, e bevvero un bel po'. Scendendo le scale per andare
nello studio Stella barcollò, e inciampò mentre si infilava la gonna. Tutto
quell'alcol a stomaco vuoto: Stella lo reggeva bene, ma non senza mangia-
re niente. Mentre percorrevano Horsey Street alla ricerca di un taxi notò di
avere qualche problema ad avanzare in linea retta; si rese conto che prima
di rientrare a casa sarebbe stato il caso di riprendere il controllo. Voleva o
non voleva ridiventare invisibile? Be', il modo migliore non era certo tor-
nare da un giro di negozi barcollando.

Alla stazione prese un caffè nero e un sandwich, e passeggiò avanti e in-


dietro sulla banchina fino alla partenza del treno. Poi si sedette vicino a un
finestrino aperto inspirando profondamente, ma d'un tratto si sentì ridicola,
chiuse il finestrino e si accese una sigaretta. Non era ubriaca, assoluta-
mente no.
Appena scesa dal treno si incamminò verso il parcheggio. Mise in moto,
ma staccò la frizione troppo bruscamente e la macchina fece un salto indie-
tro come una gazzella impaurita, e si spense. Stella la rimise in moto e in-
granò la retromarcia con estrema prudenza, stavolta senza errori. Quindi
tornò a casa lentamente, guidando con una concentrazione spasmodica.
Andò dritta in cucina e si mise davanti al lavandino a bere acqua fresca.
Per fortuna, Max non era ancora tornato dall'ospedale. Prima di incontrarlo
doveva assolutamente andare di sopra a farsi un bagno. Si girò, e rimase di
sasso vedendo Charlie seduto al tavolo della cucina, che dondolava le
gambe e la fissava con sguardo clinico.
«Tesoro! Da quanto tempo sei qui?».
«Da non molto. Dove sei stata?».
«Sono dovuta tornare a Londra. Perché?».
Mentre Stella beveva il suo bicchier d'acqua, Charlie continuava a fissar-
la.
«Sei ubriaca?».
«Certo che no! Perché diavolo me lo chiedi?».
«Hai gli occhi strani».
Quando Max tornò a casa dal lavoro, Stella era nella vasca. Lo sentì par-
lare di sotto con Charlie. Uscita dal bagno, si sentiva assolutamente pre-
sentabile. Si era lavata e truccata, si era lavata i denti e si era esaminata at-
tentamente gli occhi alla ricerca di quei sintomi di ubriachezza che Charlie
sembrava avervi scorto, ma non ne trovò. Si sarebbe vestita, sarebbe scesa
di sotto e avrebbe preparato la cena, e sarebbe stato tutto come al solito,
una tipica serata casalinga, en famille, nella casa del vicedirettore. Dopo-
tutto, lei era la donna invisibile.
Invisibile fino a un certo punto. Dal bagno passò in camera da letto, la
vestaglia leggera aperta sulla pelle nuda, e lì trovò Max. In abito scuro, era
appoggiato alla finestra vicino alla sua toletta, e guardava fuori. Quando la
sentì entrare si voltò, e Stella si richiuse la vestaglia annodandosi la cintu-
ra.
«Ah, sei qui» mormorò. Gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla guan-
cia, poi sedette alla toletta e cominciò a passarsi il detergente sul viso.
Mentre lo faceva, sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi di lui che la fis-
savano.
«Siediti, caro» disse. «Parlami. Raccontami cosa hai fatto oggi». Max
aveva qualcosa che non le piaceva, qualcosa che la inquietava.
«Dove sei stata?» le chiese.
Stella posò il vasetto della crema. «Dove sono stata? Lo sai dove sono
stata. A fare spese in città. Cosa c'è, Max?».
«Dimmi la verità».
«Ti sto dicendo la verità. Perché diavolo dovrei mentire? Scusami, ma
non capisco. Perché mi fai questo interrogatorio?».
«Fammi vedere quello che hai comprato».
Ci fu una lunga pausa. Lei rimase seduta alla toletta, girata a metà verso
Max, che si era seduto sul letto. Secondo Stella in quel momento, mentre si
guardavano, era come se fossero stati nudi l'uno di fronte all'altra. Ma Stel-
la non aprì bocca. In quei momenti di nudità era forte quanto lui, e tutto
l'acume, tutta l'esperienza psichiatrica di Max non potevano perforare il
suo scudo femminile. Sempre senza dire una parola, Stella si voltò di nuo-
vo verso lo specchio, ricominciando a passarsi la crema. Lo specchio ave-
va due ante orientabili, che lei regolò in modo da continuare a guardarlo.
Max non si mosse dal bordo del letto. Dandogli la schiena, Stella cercava
di fargli capire che nei limiti del possibile avrebbe cercato di far finta che
lui non avesse parlato. E, soprattutto, che non avesse voluto insultarla. Gli
stava offrendo la possibilità di scusarsi. Ma lui non si scusò. Il suo volto
rimase freddo come l'acciaio.
«Fammi vedere quello che hai comprato» disse lui di nuovo.
Senza una parola, Stella si pulì le dita su un fazzoletto e si alzò in piedi.
Passò vicino al letto per andare fino all'armadio che correva lungo tutta la
parete vicino alla porta. Lo aprì dalla sua parte e si alzò in punta di piedi
per prendere una scatola dallo scaffale sopra gli attaccapanni. La scatola
era avvolta in carta da regalo. Tornando alla toletta la gettò sul letto.
«Cos'è?».
Stella taceva, spalmandosi la crema. Adesso nella voce di Max c'era una
punta di incertezza, ma Stella continuava a non dire nulla.
«Romperò la carta» disse lui. Stella aveva la faccia vicina allo specchio,
ma riusciva a vedere Max che apriva il pacco senza strapparla. Dentro c'e-
ra una lunga scatola di cartone.
«Harrods» mormorò. Aprì la scatola. Scostò le falde di carta velina e tirò
fuori due pigiami di seta. Poi si voltò verso la toletta.
«Sono per me?» chiese.
La collera era come rifluita via. Stella uscì di corsa dalla stanza, ma sulla
porta si fermò per dire: «E per chi diavolo vuoi che siano?».
Sbatté la porta del bagno, la chiuse a chiave e aspettò. Dopo un paio di
minuti lo sentì scendere di sotto; non aveva neppure tentato di scusarsi da
dietro la porta. Stella tornò in camera a vestirsi.
Quando scese di sotto Max era in soggiorno. Andò dritta al mobiletto
degli alcolici e si versò un gin; ormai era decisamente sobria, e ne voleva
uno abbondante. Max andò a chiudere la porta.
«Sono uno stupido» disse. «Ora ti spiego cosa è successo. Charlie mi ha
detto che eri tornata a casa ubriaca e io ci ho costruito su tutta una fantasia.
Una fantasia di tradimento. Ti devo delle scuse».
Stella si mise a sedere in poltrona, e per qualche istante rimase a godersi
il disagio di Max. Alla fine decise di parlare. «Charlie ti ha detto che sono
tornata a casa ubriaca?».
«Sì».
«Bisogna che gli parli. Anzi no, a pensarci meglio gli parlerai tu. Come
si permette, Max? E come ti permetti tu? Come ti permetti di accusarmi di
averti tradito solo perché il bambino ha una fantasia perversa?».
«Mi sento uno stupido. Mi dispiace».
Stella continuò a guardarlo bevendosi il suo gin. «Non penso che basti.
Sono preoccupata. Questi ultimi mesi sono stati un'autentica tortura. Tu
non te ne sei neanche accorto, ma nel bel mezzo del finimondo chi ti ha
fatto trovare la casa pulita e la cena pronta? Chi, dimmi un po'? Non certo
tua madre».
«Lo so».
«Già, lo saprai anche, ma è la prima volta che te lo sento dire. Io ho vi-
sto com'è stato difficile per te, ma credo che tu non abbia pensato neppure
per un attimo a quello che stavo passando io. E con tua madre per casa».
«È arrivata al momento sbagliato».
«Eh, sì» disse Stella con sarcasmo.
Adesso era arrabbiata, ma si divertiva anche. Max andava avanti e indie-
tro con lo sguardo corrucciato. Una volta le aveva detto che dalle loro di-
scussioni imparava sempre qualcosa.
«Perché mi hai comprato quei pigiami?».
«Come pegno di pace. O premio di consolazione. O nuovo inizio. Non
lo so, perché una moglie compra un regalo a suo marito dopo un periodo
difficile? Sei tu lo psichiatra, o no?».
Max si sedette sul sofà con i gomiti sulle ginocchia, fissando il tappeto,
rigirando gli occhiali tra le dita. «Mi sento un verme. Devo sembrarti pro-
prio un becero».
«Guarda, lascia perdere».
Max alzò lo sguardo. Sorrise. «Non cedi di un millimetro, eh?».
«Non sono più disposta a tollerare che tu prenda quello che ti viene da
me come qualcosa di dovuto, né tantomeno che tu creda alla prima storia
che Charlie ti racconta. È offensivo. Ma come gli viene in mente? E so-
prattutto, come viene in mente a te di dargli retta?».
«Gli parlerò, Stella. Per la terza volta, ti chiedo scusa. E mi piacciono, i
pigiami. Grazie». Max le si avvicinò, e Stella si lasciò baciare una guancia.
«L'alcolista ne vuole ancora un goccio?».
«Sì,» rispose Stella «lo vuole».
Quella notte lui insistette per fare l'amore e lei non poté tirarsi indietro,
anzi, dovette fingere entusiasmo, sempre per quella storia dell'invisibilità.
Dopo, Max era soddisfatto di sé. Si fumò una sigaretta col suo pigiama di
seta, appoggiato contro la testiera del letto, mentre le ombre dei rami fuori
dalla finestra si muovevano sulla parete e sul soffitto. Stella lasciò che si
crogiolasse nel suo piccolo trionfo post-coitale. Voleva vederlo contento,
voleva che sentisse che nel suo matrimonio tutto andava per il meglio, che
lui era un buon marito e lei una buona moglie.

In quegli stessi giorni Stella fece un'altra scappata a Londra, che ci dice
molto sulle tensioni e le contraddizioni della doppia vita che tentava di
condurre in quel periodo. Prese un taxi dalla stazione fino in fondo a Hor-
sey Street, imboccò il vicolo e salì le scale. Aveva solo un'ora, perché più
tardi nel pomeriggio doveva passare a prendere Charlie. A letto, Edgar le
disse: «Non farti toccare da lui».
Avrebbe dovuto sembrarle un campanello d'allarme, ma non fu così.
«Non farmi toccare da chi, amore mio?».
«Da Max».
«Non ti devi preoccupare di Max, è finita tra noi. Da un pezzo».
«Ma devi dormire nel suo stesso letto?».
Stella si rese conto che Edgar non aveva un'immagine chiara del suo ma-
trimonio, né più in generale della sua difficile situazione.
«Troverebbe strano che non lo facessi».
«E tu sei contenta».
«Naturalmente no, ma cosa posso farci? Amore, non sopporto che nes-
sun altro mi tocchi, a parte te. Certo che non mi lascio toccare da lui. E
comunque lui non si sogna di farlo».
«No?».
«Da anni».
Questo parve sollevarlo. Stella lo prese di nuovo fra le braccia, e poi,
con grande disappunto di entrambi, dovette staccarsi da lui, lavarsi, vestir-
si, e trovare un taxi che la portasse alla stazione. Aveva lasciato che si fa-
cesse pericolosamente tardi.
Scesero in cortile e andarono al solito posto, dove si abbracciarono per
qualche istante sulla soglia del pub; poi Edgar si alzò il colletto e sgattaio-
lò via, mentre Stella cercava un taxi. Non ce n'erano, e col passare dei mi-
nuti Stella si rese conto che avrebbe perso il treno, e che non sarebbe anda-
ta a prendere Charlie a scuola come aveva promesso. Per qualche secondo
si sentì prendere dal panico, e corse quanto i tacchi alti le consentivano fi-
no all'angolo più vicino, dove il traffico era più intenso.
Poi scoprì che non le importava. Non le importava di perdere il treno e
non le importava neppure di essere in ritardo. Charlie sarebbe andato a ca-
sa in autobus, lei avrebbe raccontato una storia qualsiasi e non sarebbe
successo nulla. Era abbastanza lucida per riconoscere l'aggressività che si
annidava in quel pensiero, e per capire che non aveva ancora perdonato al
bambino di aver fatto la spia. Prese il treno all'ultimo minuto. Sedette ac-
canto al finestrino e guardò i cortili delle villette a schiera, con i loro muri
alti e le lenzuola che sbattevano al vento. Vide passarle davanti agli occhi
gli scambi, i cortili delle fabbriche, gli appezzamenti di terreno, poi i prati
e l'aperta campagna. Pensò a Edgar. Quel suo insistere perché Max non la
toccasse l'aveva commossa. Sapeva come potesse diventare mostruosa la
gelosia nelle situazioni sbagliate. E la loro situazione, piena di difficoltà e
di frustrazioni, non era un terreno fertile per la gelosia? Edgar era così iso-
lato, lei era il suo solo porto, il suo unico rifugio, e ogni volta lo lasciava
per tornare alla casa e al letto di un uomo che lui odiava. Era una situazio-
ne che poteva facilmente provocare un parossismo di gelosia. Avrebbe fat-
to qualsiasi cosa per impedire che accadesse. Avevano già abbastanza ne-
mici intorno a loro.

Questo sfoggio di ingenuità mi lasciò francamente stupefatto. Davvero


Stella non riusciva a vedere il rischio che correva? Vivere in mezzo agli
psichiatri non le aveva insegnato nulla?

VI

Stella era nell'orto; mi disse poi che ci andava quando voleva abbando-
narsi alla nostalgia degli inizi della loro storia. Tutt'intorno si coglievano
già i primi segni dell'autunno, le ombre lunghe nella luce del pomeriggio, i
colori più cupi e più brillanti. Qualcosa, nell'aria appena pungente, le par-
lava di foglie morte, di notti fredde, e della densa rugiada che all'alba bril-
lava sulle ragnatele fra i rami. La squadra di pazienti in semilibertà era di
nuovo al lavoro, sorvegliata come prima da John Archer. Spazzavano, pu-
livano, bruciavano, potavano quello che era cresciuto nella stagione ormai
finita; preparavano il giardino per il letargo invernale. Seduta sulla panchi-
na vicino alla serra, Stella guardava un paziente sconosciuto spingere una
carriola fino al falò che bruciava senza fiamma in una radura in fondo al-
l'orto. Il fumo saliva dal cumulo maleodorante offuscando la luce del po-
meriggio. Stella provava un senso di conclusione, di fine. I meli erano ca-
richi e i frutti caduti cominciavano a marcire nell'erba. Avrebbe dovuto
raccoglierli per la conserva, ma preferiva rimanere seduta e pensare a quel-
lo che era successo durante l'estate. Non si erano mai fermati a riflettere,
avevano agito alla cieca. Adesso che riusciva a vedere le cose con un mi-
nimo di prospettiva capiva che fermarsi sarebbe stato impensabile. Ma c'e-
ra qualcos'altro che non avrebbe pensato, fino a poco tempo prima: di po-
ter essere così temeraria. Il loro amore oggi era più forte, si ripeteva, più
solido, più tenace di quanto avesse osato sperare in estate. Il giardino stava
morendo, andava in letargo per l'inverno, ma i suoi germogli erano ancora
in fiore.
Lasciandosi cullare da questi pensieri gradevoli e vagamente elegiaci, al-
la cui formulazione avevano contribuito i due gin che aveva bevuto prima
di pranzo, Stella pensò di rientrare in casa. Ancora cinque minuti, si disse,
e in quel preciso istante la porticina in fondo all'orto si aprì.
Imboccai il sentiero, avanzando con cautela fra l'erba secca e i fiori am-
mucchiati sulla ghiaia e cercando di non inalare il fumo. Dopo la fuga di
Edgar avevo intuito che Stella nascondeva qualcosa; e secondo me, visto
che da un po' mi girava alla larga, lei sapeva che sapevo. Fino a quel mo-
mento la mia tattica era stata rimanere alla finestra senza fare nulla ma ap-
pena messo al corrente di quelle sue gite a Londra capii che dovevo agire
senza perdere altro tempo. La mia intrusione l'allarmò. Vedendomi attra-
versare la cortina di fumo le tornò in mente Jack Straffen, che qualche set-
timana prima le era andato incontro sullo stesso sentiero. Evidentemente
noi psichiatri dovevamo trovarla irresistibile?
«Peter, che bella sorpresa. Siediti. Mi stavo giusto godendo l'ultimo
scampolo di estate».
«E che estate. Mi verrebbe quasi voglia di andare in letargo fino a pri-
mavera. Come stai, mia cara?».
«Bene, grazie. Credo che Max sia in ospedale».
«Posso fare a metà dello scampolo? Cosa dici? Ci siamo visti così poco,
negli ultimi tempi. Mi sembri in gran forma. Sbaglio?».
E qui, vedendomi sfoderare, be', sì, lo sguardo svagato, Stella si mise
sulla difensiva; ma al tempo stesso lottava contro un bisogno quasi insop-
primibile di aprirsi come un tempo, prima che la nostra amicizia fosse
compromessa. Tutte le grandi passioni hanno la disperata necessità di rive-
larsi, di raccontare la loro storia, e io ero proprio l'ascoltatore perfetto, un
amico saggio e gentile. Stella doveva costringersi a uno sforzo incessante
per tenermene fuori.
«Adesso che Charlie ha ripreso la scuola ho più tempo per me. Quest'e-
state con lui in casa è stato faticosissimo. Per non parlare di Brenda. Non
credo che Max si renda ben conto di cosa significhi avere sua madre fra i
piedi a metter becco su tutto».
Più tardi mi confidò di aver gettato l'amo per vedere se abboccavo.
«Quel tesoro di tua suocera. È davvero impagabile. Sai che mi ha chiesto
di convincere Max a non candidarsi per il posto di Jack?».
«Non ci posso credere».
«Mi ha preso da parte, mi ha detto quanto ci tenesse a sapere cosa ne
pensavo, e poi mi ha chiesto di non incoraggiarlo, anzi se possibile di dis-
suaderlo».
«Devo dire che in questo sono d'accordo con lei».
«Immagino che tu preferisca tornare a Londra, no?».
Prima di proseguire lasciai che questa frase così densa di significato ri-
manesse nell'aria per un po'.
«Ma Max ci tiene davvero a quel posto? Io come puoi immaginare non
gliene ho parlato».
«Temo di sì» rispose Stella.
«Capisco».
Presi il portasigarette d'argento dalla tasca interna della giacca e fu-
mammo. Poi Stella mi domandò una cosa che fino a quel momento non le
era mai passata per la testa.
«Peter, non è che lo vuoi tu, il posto di Jack?».
Mantenni un'aria assorta e pensierosa, ma non sorpresa.
«A volte me lo chiedo. Ma no, sai, credo di no. È roba da giovani, e mi
toccherebbe lavorare troppo. E poi ormai in posti come quello finisci per
fare il passacarte».
Mi fermai lì. La lasciai pensare alla mia vita, alla mia bella casa a pochi
chilometri da lì, con i suoi bei quadri, i suoi bei mobili, e la sua bella bi-
blioteca. No, non riusciva proprio a vedere come in un'esistenza come la
mia, tutta giocata sull'equilibrio fra il rigore dello psichiatra criminale e le
debolezze dell'esteta, potessero trovar posto i complicati problemi am-
ministrativi di un grande istituto come il nostro. O una vita sessuale, fra
l'altro. Immagino che, a riguardo, avesse sentito le solite congetture, ma
probabilmente il suo sesto senso le diceva che, qualunque cosa avessi
combinato da giovane, ormai era acqua passata. E nonostante la franchezza
che c'era, o c'era stata fino a poco tempo prima tra noi, non mi aveva mai
chiesto niente. Si doveva essere fatta l'idea che i miei appetiti non fossero
poi così voraci, e cercava di immaginarsi che razza di vita conducessi.
Senza riuscirci.
La sentivo pensare queste cose.
«Caro Peter» mormorò.
«Vedi ancora Edgar Stark?» le chiesi.
Allerta! Ero pericoloso. Non doveva sottovalutarmi. Un'ammissione
parziale l'avrebbe messa al riparo dal peggio? No, doveva negare tutto. Ed
essere convincente. Si girò lentamente su se stessa con un sorrisetto incre-
dulo, sgranando gli occhi.
«Cosa te lo ha fatto pensare?». Il tono era calmo; niente onta, per inten-
derci.
Mi tolsi un immaginario granello di polvere dai pantaloni. Ero vestito da
lavoro: ottima stoffa, taglio impeccabile, il tutto di un bel nero psichiatrico.
«La tua reazione alla sua fuga».
Stella capì subito che non avevo avuto bisogno di prove circostanziali,
tipo le ore che aveva passato qui nell'orto sola con Edgar (certo, John Ar-
cher mi aveva informato, ma lei non poteva saperlo), o la sua presenza al
campo da cricket proprio mentre si sospettava che Edgar stesse rubando gli
alcolici dal capanno. No, mi era bastato il mestiere, tutto qui. Avevo sem-
plicemente osservato e interpretato la sua reazione emotiva all'evasione.
«Non capisco».
«Edgar non ti ha detto che se ne andava, questo è chiaro».
«E perché avrebbe dovuto dirmelo?».
Non risposi.
«Perché, Peter? Perché un paziente dovrebbe dire alla moglie di un me-
dico che sta per scappare?».
«Proprio così. Perché?».
Eccola, l'onta. «Questa è una cattiveria, e un insulto, anche. Non ti per-
metto di parlarmi così!».
Si alzò, passò di corsa in mezzo al fumo del falò e continuò a correre fi-
no a casa. Entrò in cucina e si mise davanti al lavandino. Sentiva il nostro
fiato caldo sul collo.
Ma non si era ancora liberata di me. La seguii fin dentro casa, tenendola
d'occhio dalla finestra mentre mi avvicinavo. Era lì in piedi, tremante. Non
mi aveva mai visto così. La mia abituale espressione ironica aveva lasciato
il posto a qualcosa di molto serio, che la spaventava a morte. Un attimo
dopo ero vicino a lei in cucina.
«Adesso ascolti tutto quello che ho da dirti. Voglio che tu ti metta bene
in testa che Edgar Stark è un uomo pericoloso. Guarda che non sto scher-
zando. Lo capisci?».
Mi ero portato dietro il suo cestino, e lo tenevo ancora in mano. Notan-
dolo, Stella accennò un sorriso, poi me lo prese e appoggiò le mele sul ta-
gliere vicino al lavandino. Aprì il cassetto delle posate, scegliendo un ag-
geggio con cui cominciò a togliere i torsoli. Ora non avevo tempo per ana-
lizzare le sue attività di spostamento. Le appoggiai le mani sulle spalle. La
costrinsi dolcemente a voltarsi, quindi le presi l'aggeggio e me lo infilai in
tasca.
«Hai paura che ti ci accoltelli?» disse.
«Stammi molto bene a sentire. Edgar beve?».
Stella capì che non avrei mollato tanto facilmente. Sedette al tavolo della
cucina e disse che non capiva perché dovesse starmi a sentire. Mi sedetti
anch'io. Le dissi che Ruth Stark era stata la moglie di Edgar, ma prima an-
cora la sua modella, di più, il cuore, l'origine stessa del suo lavoro. Questo
almeno fino a quando, per una qualche ragione, non lo aveva deluso. Allo-
ra la sua idealizzazione era crollata, e Edgar aveva cominciato a sviluppare
una serie di deliri morbosi che si erano dilatati fino a sfuggire del tutto al
suo controllo. A questo punto aveva ucciso Ruth, poi le aveva tagliato la
testa e l'aveva mutilata. Senza mai dare segno di capire davvero perché lo
avesse fatto, né di provare un sincero rimorso.
Stella rimase ad ascoltare in un silenzio assente, rifiutando di guardarmi
in faccia. Quindi ripeté più volte che stavo sprecando il fiato, perché in-
nanzitutto lei non sapeva dove fosse Edgar, e in secondo luogo non aveva
alcuna ragione per vederlo; e ora, se non avevo altro da aggiungere, mi
pregava di andarmene. Le dissi ancora una volta che avevo voluto solo
metterla in guardia, e la pregai di prendere molto seriamente le mie parole,
qualsiasi cosa intendesse fare; quindi me ne andai. Più tardi mi raccontò
che subito dopo corse di sopra, si gettò sul letto e scoppiò in lacrime. Mi
odiava per quello che le avevo appena fatto.
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta sul letto a piangere. Sperava
che insieme alle lacrime scivolassero via sia l'angoscia delle ultime setti-
mane sia la consapevolezza che, ormai, noi sapevamo. Ma se davvero sa-
pevamo, pensò, per loro era finita. Questo innescò un'altra crisi di dispera-
zione, e Stella pianse fino a sentirsi esausta, svuotata. Poi cominciò a pen-
sare. Si girò su un fianco e decise che, tutto sommato, non era detto che
fosse davvero finita.
Andò in bagno a sciacquarsi la faccia, poi passò davanti alla toletta per
riparare i danni. Non è detto, si ripeteva, non è affatto detto. Se mollava
adesso, se non tornava a Londra, Edgar non avrebbe corso rischi, ma sa-
rebbe stata la fine. Se prendeva tempo, la prossima volta non l'avrebbe più
trovato. Ma se si muoveva subito, se andava subito da lui, che cosa a-
vremmo potuto fare? Niente, se si muoveva subito non potevamo fare
niente.
Se si muoveva subito. Tornò di sotto, in soggiorno. La casa era vuota.
Max si fermava a colazione in ospedale e Mrs Bain era tornata a casa sua.
Charlie era a scuola. Bevve qualcosa. Se si muoveva subito. Camminò a-
vanti e indietro per il soggiorno. Faceva freddo, e c'era una leggera fo-
schia. Da fuori arrivava l'odore del fumo. Muoversi subito significava sali-
re di sopra, riempire una valigia e chiamare un taxi per farsi portare alla
stazione. Da lì sarebbe andata in Horsey Street senza più tornare indietro.
Dopo un altro bicchiere chiamò il taxi. Rimase per qualche attimo in-
chiodata dov'era a pensare a cosa ne sarebbe stato di Charlie, e per poco
non cambiò idea. Ma non lo fece, scacciò quel pensiero. Il taxi arrivò, e
Stella disse all'autista di portarla alla stazione. Lungo la strada gli chiese di
fermarsi davanti alla banca, dove ritirò le poche centinaia di sterline che lei
e Max avevano sul conto comune. Nell'atrio della Victoria Station si sentì
oppressa dalla calca, e con una certa ansia si fece largo fino al bar. Non se
la sentiva di bere di nuovo, così andò a sedersi a uno dei soliti tavolini sul
fondo dove si fece portare un caffè. Poi fumò una sigaretta. Era terrorizza-
ta. Si vide mentre posava una moneta di fianco al piattino, si alzava dalla
sedia e raccoglieva valigia e borsa, poi, in uno stato di assoluto strania-
mento, si vide che usciva dal bar come una qualsiasi signora in arrivo dalla
provincia per un pomeriggio di commissioni, e magari un teatro in serata
(il che giustificava la valigia). Come una di loro, Stella uscì dalla stazione
e si avviò alla fila dei taxi. Dopo aver dato l'indirizzo al taxista si sistemò
dietro, accese un'altra sigaretta e si mise a guardare fuori dal finestrino.
Quasi subito il senso di distacco si trasformò in una specie di euforia: non
c'erano altre decisioni da prendere. Lo aveva fatto, e adesso sentiva solo
quella specie di ebbrezza, di vertigine che la prendeva sempre, prima di in-
contrare Edgar: l'unica cosa importante era che i pochi minuti che li sepa-
ravano smettessero di trascinarsi e cominciassero a volare finché non fos-
sero stati di nuovo insieme.
Adesso ogni semaforo, ogni ostacolo lungo la strada ce l'avevano con
lei. Alla sua sinistra, con la coda dell'occhio, vedeva il fiume brillare al so-
le, la foschia del mattino dissolversi, e sulla riva opposta la cupola di St
Paul. Un attimo, e arrivarono nella zona dei magazzini. Un altro, e Stella si
ritrovò con la sua valigia all'inizio di Horsey Street, mentre il taxi ripartiva.
Si avviò verso il fiume, i tacchi alti che picchiettavano sul selciato. In
fondo alla strada due ragazzini calciavano un pallone contro un muro, u-
sando come bersaglio la sagoma umana che ci avevano disegnato sopra col
gesso. Imboccò il vicolo. Nel cortile tirava vento, e i fogli di giornale vor-
ticavano in cerchi sempre più stretti a pochi centimetri da terra. Improv-
visamente un treno sfrecciò rombando sul viadotto, sopra il mercato della
frutta, facendola trasalire.
Salì di corsa le scale fino all'ultimo piano. La porta era chiusa a chiave.
Appoggiò la valigia per terra e bussò. Niente. Chiamò attraverso la porta
con tutta la voce che si sentiva di usare. Ancora niente. Era di nuovo spa-
ventatissima. Che Edgar potesse essere fuori non lo aveva proprio messo
in conto. Bussò di nuovo, lo chiamò a voce più alta, poi si sedette sulla va-
ligia ad aspettare. Venti minuti dopo scattò in piedi sentendo qualcuno sa-
lire. Non c'era modo di nascondersi, tanto valeva rimanere lì. I passi diven-
tarono più pesanti, e una figura comparve sul penultimo pianerottolo. Con
enorme sollievo, Stella vide che era Nick.
«Grazie al cielo. Lui dov'è?» disse.
«Non ti aspettavamo».
«Non sapevo che sarei venuta. È dentro?».
Nick bussò, urlando a Edgar di aprire. Finalmente la porta si aprì, e sulla
soglia c'era Edgar, che la guardava. Stella raccolse la valigia.
«Posso entrare?» disse.
Gli occhi di Edgar si fermarono per un attimo su Nick, poi tornarono su
di lei. «Vieni a stare qui?».
«Sì».
«Lo hai lasciato?».
Stella annuì.
«Stai con noi, adesso?».
«Sto con te».
Edgar sorrise con quel suo largo sorriso da lupo, le passò cameratesca-
mente un braccio intorno al collo ed entrarono dentro allacciati, ondeg-
giando. Poi rimasero stretti in un abbraccio, in mezzo alla stanza.
Com'è ovvio non avevo affatto escluso che Stella potesse fare qualcosa
del genere, ma ero incline a ritenere che mi avrebbe dato ascolto. Sottova-
lutavo, credo, sia la sua disperazione sia il potere che evidentemente Edgar
aveva su di lei. Risultato, da qui in poi la perdo di vista, e di quanto accad-
de nei giorni successivi so soltanto quello che in seguito mi ha raccontato
lei, con parole sconnesse, frammentarie, e spesso cariche di emozione. Una
delle prime cose che le chiesi fu come pensava avessimo reagito alla sua
scomparsa. Stella era in grado di descrivere la scena con lucidità e preci-
sione. Rientrando a casa, Max si sarebbe chiesto dove fosse finita. Anche
Charlie, a quell'ora, doveva essere tornato da scuola, benché Stella prefe-
risse non pensare all'effetto che tutto questo poteva avere avuto su di lui.
Sarebbe partita qualche telefonata, poi lo sconcerto si sarebbe trasformato
in preoccupazione, quindi in angoscia. A un certo punto della serata Max,
Jack e io ci saremmo riuniti per cercare di capire che cosa fosse successo.
In un primo momento Max si sarebbe rifiutato di accettare l'evidenza, poi,
via via che passavano le ore e di Stella continuava a non esserci traccia, si
sarebbe reso conto di quello che lei gli aveva fatto. Stella disse di non aver
voluto pensare né allo stato d'animo di Max, né a Charlie e a come gli a-
vrebbero spiegato la sua assenza. Mentre preparava la valigia e chiamava il
taxi senza neppure una riga di spiegazione lo aveva volutamente lasciato
fuori dai suoi pensieri, cercando di sovrapporlo a Max, di renderlo tutt'uno
con l'uomo che stava lasciando. Immaginare la sua reazione sarebbe stato,
ovviamente, troppo pericoloso. Si era rifiutata di farlo anche il mattino do-
po, quando ormai la situazione le era perfettamente chiara. L'unica traccia
di senso di colpa era una presenza in ombra dietro la luce del suo amante.
E non poteva guardarla, doveva fingere di non vederla, ne andava della sua
felicità.
Ma come era stata quella prima notte?
Stupenda, ma neanche, era stata la notte più bella della sua vita. Nick era
uscito a prendere pesce fritto e patatine e qualcosa da bere, poi erano rima-
sti ore seduti al tavolo di cucina. Era come se l'avessero rubata, quella fe-
licità, anzi come se l'avessero trovata per caso e se la fossero portata via di
corsa, perché in realtà apparteneva a qualcun altro e loro non ne avevano
alcun diritto. Rimasero a bere fino a tardi, e Stella era elettrizzata alla pro-
spettiva di passare la notte lì senza dover mai più tornare al nostro ospeda-
le. Nel loro cerchio magico era compreso anche Nick. In fondo era stato
fin dall'inizio il loro amico, e il loro salvatore, e poi quel posto era suo, era
lui che aveva offerto loro un rifugio. Stava bene con Nick, e lui con lei, ed
era evidente che la triste vita che i due artisti avevano condotto fino a quel
momento stava per cambiare in meglio. Quanto a Edgar, immagino benis-
simo la sua soddisfazione per la piega che avevano preso gli eventi. Ce l'a-
veva portata via, l'aveva convinta a lasciarsi alle spalle ogni sicurezza e a
seguirlo nella latitanza, dove Stella credeva di trovare la libertà. La libertà!
Come sempre, Edgar non perse tempo. Sapeva cosa voleva, credo sin da
prima della fuga, e credo fosse per questo che si era spinto a fare quella
folle telefonata da Londra: voleva scolpire la sua testa. Adesso era di nuo-
vo un artista, ed era smanioso di tradurre in una qualche forma di espres-
sione il suo rapporto con Stella, il complesso di emozioni forti che lei gli
aveva fatto provare. Passò un'ora nello studio lavorando a uno schizzo. Per
Stella era tutto affascinante: vedere gli occhi di lui che si alzavano dal fo-
glio, sentirsi addosso quel suo sguardo impersonale, e poi i rumori: i fru-
scii della matita sul blocco, e i mormorii e i sospiri di Edgar. Sembrava che
stesse eseguendo una delicata operazione chirurgica, non un disegno. Era
la prima volta che lo vedeva lavorare sul serio, e si rese conto che solo a-
desso cominciava a conoscerlo.
Più tardi guardò quello che Edgar aveva fatto, e ciò che vide la sbalordì.
Era un groviglio di linee multiple, contorni sbavati, tratteggi, spirali. Forse
sentiva la propria presenza, in quel ritratto, ma non vi si riconosceva. Le
sembrava tutto così provvisorio e incerto, così indefinito, in qualche modo.
Chiese a Edgar se avesse sempre disegnato così. Nello studio, seduto sul
davanzale della finestra, c'era anche Nick.
«Ho sempre disegnato così?».
Edgar scambiò con Nick un largo sorriso e un'occhiata.
Stella era in piedi vicino al tavolo e guardava il foglio, scura in viso.
«Intendo dire,» fece «perché?».
Edgar le si avvicinò. «Perché cosa?».
«Perché non fai i contorni? Sarà una domanda stupida, ma è come... co-
me se non sapessi chi sono».
«È questo il punto» disse Nick.
«Quello che non voglio» disse Edgar «è vederti...».
Si passò una mano sulla faccia, irritato per essere costretto a spiegarlo a
parole. Aveva le mani macchiate di grafite. Si scostò i capelli, ormai lun-
ghi e incolti, dagli occhi, sporcandosi la fronte. Non capiva bene neanche
lui perché lavorasse come lavorava. E per quanto strano possa sembrare,
negava le proprie emozioni.
«Vedermi come?».
«Come ti vedi tu. O come ti vedono gli altri. Come una donna affasci-
nante, bellissima. Non me ne importa nulla. Io cerco solo un'immagine rea-
listica. La realtà, capisci?».
No, Stella non capiva.
«Nel senso che vuoi vedermi dal di fuori, come se fossi un'estranea?».
Adesso anche lui guardava corrucciato il disegno, picchiettando con im-
pazienza la matita sul tavolo.
«Neanche».
«Come un oggetto?».
Edgar si strofinò la macchia sulla fronte.
«Una cosa inanimata? Insensibile?».
«No, non inanimata. Solo quello che vedo».
Qui Stella cominciò a scorgere un significato.
«Non quello che senti».
«Ecco. Non quello che sento».
«E questa sarebbe la realtà».
«Questa sarebbe la verità» disse Nick.
Edgar alzò lo sguardo e gli lanciò un'occhiataccia. «Questa sarebbe una
gran stronzata» disse, e i due uomini scoppiarono a ridere. Edgar continuò
a sorridere a Nick, poi attraversò la stanza, gli prese la faccia tra le mani e
lo baciò in fronte. Nick aveva un'aria un po' ridicola, tanto pareva felice
per quello slancio.
I primi giorni insieme furono più o meno tutti uguali. Passavano la mat-
tina a letto, poi si vestivano e scendevano di sotto. Stella non si truccava
più, portava un foulard e una vecchia camicetta su una gonna nera qualsia-
si o su dei calzoni. Preparava qualcosa e mangiavano in cucina con Nick.
Dopo pranzo Edgar si metteva al lavoro, e Stella posava per tre ore di se-
guito, a volte anche quattro. La concentrazione di Edgar era assoluta. Le
aveva detto che prima di cominciare il modellato vero e proprio aveva bi-
sogno di disegnare. Il terzo giorno la fece posare nuda su un lenzuolo da-
vanti al muro. Lui sembrava perfettamente a suo agio, e lei si mostrò al-
trettanto disinvolta. Nick si affacciò dal fondo dello stanzone e rimase a
guardarla freddamente. Stella pensò che non importava. Edgar non si era
accorto di lui, ma appena Nick aprì bocca gli disse, senza alzare la voce, di
togliersi dalle scatole. Per Stella fu un'esperienza molto eccitante.
Quando Edgar aveva finito, Stella andava a sedersi per conto suo al ta-
volo di cucina, e si guardava nello specchietto del portacipria cercando di
vedere quello che vedeva lui. Se tornava nello studio Edgar la ignorava,
continuando a lavorare, oppure la portava di sopra, a letto.
La sera Stella cucinava di nuovo per tutti, a meno che Nick non uscisse a
rimediare un po' di pesce fritto. Poi si prendevano una sbronza tutti insie-
me e parlavano. Parlavano di qualsiasi cosa, ma soprattutto di arte.

Gli attacchi d'ansia, violenti e improvvisi, cominciarono dopo i primi


quattro o cinque giorni. In genere le succedeva al mattino presto, quando
Edgar dormiva ancora e lei si svegliava col senso dell'enormità di quel che
aveva fatto e della situazione in cui si era messa. Cercava di non pensarci,
non sopportava che nulla venisse a turbare quell'idillio, e non ne parlava
mai. Passerà, si diceva, dimenticheranno, presto potremo tornare in punta
di piedi nel mondo e passare inosservati. Quando cercava di pensare al fu-
turo, non andava più in là di così. Ma al vasto mondo di fuori non pensava
quasi mai. Soprattutto cercava di non soffermarsi su Charlie, ma senza un
gran successo, temo.
Al suo arrivo nel sottotetto l'economia domestica era ridotta ai minimi
termini. C'era molto da fare, e di questo era ben contenta. Anche solo tener
pulito era un'impresa, perché i due uomini erano ben più trascurati di lei.
Avevano solo un gabinetto e un lavandino con un unico rubinetto, e spesso
pieno di pennelli. Non importava. L'unica cosa che importava era stare in-
sieme, puliti o no. La sua identificazione con Edgar diventava ogni giorno
più profonda. Mi disse che stava assumendo consapevolmente tutti i suoi
gusti, le sue idee, i suoi sentimenti. L'indifferenza di Edgar alle comodità
domestiche la faceva vergognare di tutti gli anni in cui la sua unica occu-
pazione era stata assicurare una vita materialmente piacevole a suo marito
e a suo figlio. Quando nessuno la vedeva cominciò a scribacchiare.
Preparava piatti molto semplici su un fornelletto a due fuochi, e se le
serviva qualcosa faceva una lista per Nick, che divideva le spese con lei. I
momenti più belli erano le sere in cui si sedevano tutti e tre intorno al tavo-
lo a bere e a parlare. Stella si sentiva come risucchiata dentro un modo di
pensare e di sentire completamente nuovo, e stava perdendo quella che ora,
fra sé e sé, chiamava la sua identità vecchia e stantia. Ogni giorno che pas-
sava Max e l'ospedale erano un po' più lontani.
Quello, mi disse, era stato il periodo in cui era cresciuta di più, perché
ogni giorno arrivava a capire meglio cosa significasse pensare, e sentire, e
vedere come un artista. Della sua nuova vita le piaceva tutto, persino che
lei e Edgar fossero due fuggitivi e non potessero uscire alla luce del sole
per paura di venire scoperti e arrestati. Era inebriante, le faceva assaporare
quel profumo di pericolo connaturato all'esistenza di ogni vero artista.
Scoprire che Nick e Edgar ricevevano visite fu una sorpresa. Da quando
in qua i latitanti ricevevano visite? Eppure, il secondo o terzo giorno, men-
tre erano seduti tutti e tre in cucina a mangiare toast e sardine, sentirono
bussare alla porta. Stella scattò in piedi dallo spavento, ma Edgar si limitò
a gettare un'occhiata a Nick, che disse: «È Tony» e andò ad aprire.
«Chi è Tony?» sussurrò Stella.
«Un amico» tagliò corto Edgar, tornando alle sue sardine. Poi la guardò
con un sorrisetto.
«Non preoccuparti» disse. «Ti piacerà».
E in effetti Tony le piacque. Era un artista, come del resto tutti quelli che
passavano per casa, e almeno a giudicare dai vestiti doveva essere senza un
soldo; inoltre non badava un granché alle forme, beveva e fumava troppo,
e sembrava non prendere nulla sul serio. Che Edgar fosse fuggito da un
manicomio sembrava lasciarlo del tutto indifferente, ma che la moglie del
vicedirettore lo avesse seguito, be', questo doveva proprio averlo stupefat-
to.
Tony sedette con loro in cucina, prese il suo piatto di toast e sardine -
che mangiò con le mani, pulendosele poi sui pantaloni - e si mise a spette-
golare con Edgar e Nick di gente che Stella non conosceva, ma i cui nomi,
a forza di sentirli ripetere, cominciavano a diventarle familiari. Da soli o in
due, tutti quei personaggi si presentarono allo studio nei giorni successivi.
La fuga di Stella a Londra aveva evidentemente stuzzicato la loro fantasia,
ed erano tutti gentilissimi con lei. All'inizio Stella rimaneva sulle sue, per-
ché non le sembrava una gran trovata che mezza Londra conoscesse il na-
scondiglio di Edgar, ma poi finì col ricambiare l'affetto di quegli uomini
strani, cordiali, trasandati, così lontani da quelli che aveva frequentato nel-
la sua vita di prima. Ma una sera che erano loro tre soli a bere in cucina
Stella espresse la sua inquietudine. Nick parve sorpreso. Evidentemente
non aveva mai pensato che qualcuno potesse tradire Edgar.
«E chi avrebbe interesse a fare una cosa simile?» chiese con sincero stu-
pore.
Edgar scrollò le spalle.
Se non si preoccupa lui, pensò Stella...

Dopo giorni e giorni passati al chiuso Edgar era sempre più irrequieto, e
una sera andò con Stella fino al fiume, a guardare le torri di Cannon Street
e la cupola di St Paul sull'altra riva. Da quella volta cominciarono a uscire.
Non entravano ancora nei pub, ma nelle stradine buie si sentivano abba-
stanza al sicuro. Se qualcuno gli si avvicinava si infilavano in un portone o
in un vicolo e si abbracciavano, eccitandosi al punto da correre, a volte, ri-
schi superflui. Il fatto - ormai quasi preoccupante, secondo Stella - era che
appena si sfioravano i loro corpi prendevano fuoco. Né lei né Edgar sem-
bravano in grado di controllare la fame che avevano l'uno dell'altra. Edgar
la notte dormiva profondamente, ma lei rimaneva sveglia per ore nel buio a
guardare il soffitto e ad ascoltare i treni che passavano rombando sul via-
dotto.
Una notte aveva sentito il Big Ben battere le quattro, si era girata su un
fianco e aveva guardato Edgar dormire. Chi era? Chi era quell'estraneo, il
suo amante? Si accese una sigaretta. Ricordò la prima impressione che a-
veva avuto di lui, di quell'uomo coi calzoni gialli che restaurava la serra. Si
ricordò del ballo, di quando aveva sentito la sua erezione premerle addos-
so, e si era eccitata perché lui era eccitato, e l'aveva voluto perché lui vole-
va lei. Poi la brusca impennata della loro storia, il terrore sempre più forte
di venire scoperti, e la fuga. E adesso tutto questo. Ma lui chi era? Dagli
episodi frammentari delle ultime settimane cercò di ricostruire un uomo.
Adesso era più forte. Da quando era libero parlava e si muoveva con u-
n'autorevolezza che all'ospedale non gli aveva mai conosciuto. Bastava ve-
derlo con Nick. Per gran parte del tempo sembravano vecchi colleghi, e
amici intimi, ma appena saltava fuori un problema serio Nick, prima di e-
sprimere un'opinione, aspettava di vedere cosa ne pensasse Edgar. E del
resto con lui un po' tutti avevano un atteggiamento deferente. Durante le
discussioni Stella rimaneva in disparte, limitandosi ad ascoltare. Tirava giù
uno dei volumi gualciti di riproduzioni di Nick e si metteva a sfogliarlo sul
tavolo, guardando le tavole e cercando di capire che sensazioni le suscitas-
sero.
Si lasciò scivolare nel dormiveglia. Pensava alla parola che Edgar aveva
usato, realtà, all'idea di riuscire a staccarsi dagli interessi e dai sentimenti
degli altri e diventare puro sguardo. Avrebbe saputo vedere Edgar in quel
modo? E sarebbe stata la verità? Si sporse dal materasso per spegnere la
sigaretta. Adorava dormire con lui sotto quella coperta ruvida. Adorava
svegliarsi al mattino e trovarlo ancora vicino a lei.

Durante il giorno, quando Edgar non aveva bisogno di lei per lavorare,
Stella scendeva in cortile a prendere una boccata d'aria. Il mercato dall'al-
tra parte della strada era coperto da un'alta tettoia vetrata sorretta da snelle
colonnine di metallo, dagli elaborati montanti traforati. Molte bancarelle
erano chiuse e ingombre di casse di legno e scatole di cartone. Una mattina
Stella vide due uomini caricare dei sacchi di patate sul pianale di un ca-
mion polveroso. Quando si rese conto che l'avevano notata si allontanò,
perché ormai evitava per istinto di attrarre l'attenzione. Prese Horsey
Street, poi girò verso il fiume e si imbatté in una grande chiesa, antica e fa-
tiscente. Fu sorpresa di trovare una chiesa lì, in fondo a quell'oscuro intrico
di strade e vicoli. E lo fu ancora di più scoprendo che si trattava della cat-
tedrale di Southwark.
Appena dentro ebbe la sensazione di trovarsi in un'isola di pace, che in
centinaia di anni il male e la violenza non avevano scalfito. Si sedette in
fondo e guardò un barbone che parlava concitato con un giovane sacerdote
dalla lunga tonaca nera. In una cappella laterale vide un uomo di mezza età
assorto in preghiera, coi calzoni del gessato che spuntavano sotto il cappot-
to nero. Contò i venti santi nelle nicchie dietro l'altare e si fermò vicino al-
la tomba del primo poeta inglese, la cui effigie era in posizione di riposo,
con le mani strette in preghiera sul petto e la testa poggiata su tre libri, uno
dei quali era la Confessio Amantis. Tornò in Horsey Street rinfrancata dal-
l'ora di serenità trascorsa nella chiesa, ma non ne parlò né a Nick né a E-
dgar. Sospettava che la cattedrale sotto casa non li avrebbe interessati più
di tanto.
Cominciarono a passare qualche sera al pub. Nick o Stella andavano al
banco a prendere da bere mentre Edgar rimaneva seduto al tavolo nell'an-
golo più buio del locale. Non sembrava così rischioso. Erano tutti pub da
due soldi, con il pavimento di assi e il rivestimento di legno alle pareti cor-
roso dagli anni. Poco illuminati e squallidi, accoglievano uomini e donne
ansiosi di affogare il tedio delle loro giornate dure e monotone in una birra
o un liquore scadente. Nessuno faceva caso a Stella e ai due artisti scalci-
nati chini sui loro bicchieri e le loro sigarette, che parlavano a voce bassa
in fondo alla stanza. Stella trovava già più emozionante andare al Sou-
thwark o al Globe, perché significava che nella loro vita clandestina si sta-
va facendo largo una sorta di normalità, e che entro certi limiti potevano
comportarsi come persone qualsiasi. Cominciava a intravedere un futuro.
Affrontare il mondo comportava comunque qualche problema. Un saba-
to sera lei e Edgar erano da soli nell'angolo più nascosto di un pub molto
grande e affollato. Il locale era pieno di fumo e di rumore e Stella si senti-
va a proprio agio, parte dell'ambiente. Sedevano vicini su una panca da-
vanti a un tavolino rotondo, e lei gli teneva la mano sotto il tavolo. Anche
se non conoscevano nessuno, in quel pub accogliente e chiassoso tutti le
sembravano, in qualche modo, loro compiici. Stella ripensò con un brivido
a tutti i salotti in cui era stata, ciascuno governato da una moglie o da una
madre di psichiatra, e ricordò l'orribile senso di estraneità che aveva prova-
to ogni volta. Edgar prese i bicchieri e si diresse verso il bancone, mentre
lei lo seguiva con uno sguardo ardente. Il gin la teneva su, trasmettendole
una sorta di pacata euforia.
Tutto, praticamente tutto riusciva a sembrarle romantico.
All'improvviso un uomo si materializzò davanti al tavolo, spogliandola
con gli occhi. Stella abbassò lo sguardo e si mise a frugare nella borsa alla
ricerca delle sigarette, dell'accendino, di una cosa qualsiasi.
«Sola soletta, gioia?» disse l'uomo.
Stella alzò lo sguardo. «No, direi di no. Sono con mio marito».
«Con tuo marito, eh?».
Era un uomo grande e grosso, piuttosto bello, ma aveva bevuto e non fa-
ceva niente per nasconderlo. Appoggiò le mani sul tavolo e si chinò verso
di lei. Stella sperava che se ne andasse. Non le piaceva che le facesse il
verso, e si malediceva per avergliene dato l'occasione.
«Sì, proprio» disse calcando molto il «proprio». Un'idea balorda, perché
l'uomo lo trovò divertente, prese una sedia e si sedette. No, pensò Stella, io
non volevo... In quel preciso momento Edgar tornò con i bicchieri.
«E questo chi è?» disse.
L'uomo aveva piantato i gomiti sul tavolo, e teneva gli occhi fissi su
Stella. Poi si voltò e lanciò un'occhiata a Edgar.
«Questo sarebbe il maritino, vero gioia?».
Stella lanciò a Edgar uno sguardo disperato. Non so nemmeno chi sia,
stava cercando di dirgli. Edgar appoggiò piano i bicchieri sul tavolo, senza
guardare l'uomo. Poi lo prese per il bavero, e adesso la sua grande faccia
barbuta era incollata a quella dell'altro. Intorno a loro si fece improvvisa-
mente silenzio. Stava per succedere qualcosa, e Stella vide con assoluta
chiarezza la scena: la rissa, i bicchieri rotti, il sangue, le urla, la polizia.
Edgar lasciò andare il colletto dell'uomo, che indietreggiò. Poi si sedette.
La gente ricominciò a bere e a chiacchierare. Ma intorno a loro la conver-
sazione si era come smorzata, e Stella sapeva che li stavano ascoltando.
Edgar si arrotolò una sigaretta senza guardarla.
«Che cosa gli hai detto?» mormorò Edgar.
«Niente!».
Lui leccò la cartina, e scosse la testa. «Gli avrai pur detto qualcosa».
Stella gli raccontò in un sussurro concitato cosa era successo. Per un po'
Edgar rimase tranquillo. Pensava forse che lo avesse adescato lei? Era
freddo e distante come non lo aveva mai visto. Stella provò a ripetergli che
l'uomo si era seduto senza essere invitato né incoraggiato.
«Tu non mi tradirai, vero, Stella?» disse alla fine con una voce calma e
amichevole.
«Non dire vaccate!».
«Allora tutto a posto».
Sarà stato anche tutto a posto, ma quella frase pacata, che Stella aveva
sentito così minacciosa, le lasciò un sapore amaro in bocca. Sentì montare
l'orgoglio di un tempo e pensò: vai al diavolo. Guardò dritto davanti a sé,
fumando rabbiosamente la sigaretta a brevi, rapide boccate. Quando sentì
le dita di Edgar sulla coscia e la sua bocca sul collo cercò di ignorarlo, e gli
tolse la mano. Ma non c'era verso, appena lui la toccava si sentiva morire.
«Dammi un bacio, amore» le sussurrò Edgar.
«Crepa» rispose Stella, mordendogli un labbro.
Pochi minuti dopo, mentre correvano a casa nella notte buia e umida,
dimentichi di tutto, smaniosi di arrivare il più presto possibile, videro i po-
liziotti che Stella si era immaginata poco prima. Erano in due. Avanzavano
lentamente nella loro direzione dalla parte opposta della strada, con le ma-
ni dietro la schiena. Stella si strinse a Edgar, aggrappandoglisi al braccio
con tutte e due le mani, ma lui non rallentò il passo. Stella si rese conto che
li avrebbero incrociati proprio sotto un lampione.
«Ci vedranno» mormorò.
Edgar continuava a camminare. Stella non riusciva a pensare a niente, un
rigurgito di terrore cieco le riempiva la gola, ne sentiva persino il sapore.
La nebbia del gin si dissolse rapidamente, e il ticchettio dei suoi tacchi sul
marciapiede bagnato sembrava scandire vi-sti, vi-sti, vi-sti.
Edgar la fece scendere dal marciapiede, poi passarono vicino a una fila
di argani e scesero qualche gradino fino al fiume; lì, dove l'acqua nera
lambiva le pietre, la baciò. Lei gli gettò le braccia al collo e bevve avida-
mente i suoi baci: sperava che, vedendo tutta quella passione, i poliziotti se
ne sarebbero andati, lasciandoli in pace. Adesso sentiva solo il respiro di
Edgar e i passi che si avvicinavano. I poliziotti si fermarono in cima alla
gradinata. Stella passò le dita sulla nuca di Edgar, si riempì il pugno di ca-
pelli, la bocca incollata a quella di lui.
«Via di lì» disse uno dei poliziotti. Poi, un attimo dopo, più forte: «Via
di lì, voi due».
Obbedirono. Si allontanarono imboccando un vicolo, avvinghiati come
due amanti che erano stati interrotti e volevano a tutti i costi preservare il
loro calore, e affrettarono talmente il passo che quando sbucarono sulla
strada stavano correndo.
Si precipitarono nel cortile e salirono le scale urlando. Stella disse che
non avrebbe mai dimenticato quella notte. Anche Edgar sentiva che qual-
cosa era cambiato, che nonostante lo spavento di poco prima adesso pro-
vavano una sicurezza nuova. Il senso di panico, il senso di avere solo un
passo di vantaggio, del fiato caldo sul collo, era scomparso, sostituito da
una provvisoria tracotanza, dalla consapevolezza che ogni ora, ogni giorno
diventava più facile mantenere il vantaggio, confondere le tracce e far per-
dere la pista ai segugi. Per la prima volta Stella sentiva che era valsa la pe-
na di saltare nel vuoto, perché alla fine avrebbero trovato il posto sicuro
dove amarsi senza paura. E fu in quello spirito che fecero l'amore: senza
paura, liberamente, mentre i treni rombavano sul viadotto nella notte. E
Stella lo fece ridendo, gridando, urlando al magazzino intero tutta la vita
che aveva dentro, senza curarsi se Nick sentisse o meno. Almeno, così è
come lo descrisse.

VII

Stella andava spesso nella cattedrale. Si sedeva su una panca di pietra


verso il fondo, nella penombra, oppure camminava lungo una navata late-
rale, passando davanti alle tombe e alle cappelle, i tacchi che risuonavano
sulle lastre del pavimento. Portava sempre gli occhiali da sole e un foulard
legato stretto sotto il mento. Quando raccontava di quei giorni, del mo-
mento che stava attraversando, si teneva sul vago, ma io la immaginavo
così, come la Triste Signora nella Cattedrale. Il problema era che più era
lontana dall'ospedale più trovavo difficile ricostruire la sua esperienza, dar-
le una qualche forma riconoscibile, almeno per me.
Edgar aveva cominciato a lavorare con l'argilla, e le cose non andavano
bene. All'inizio Stella cercava di dirgli che doveva avere pazienza, in fon-
do era da moltissimo che non scolpiva e non poteva pretendere di recupe-
rare di colpo la mano di un tempo. Ma Edgar non le dava retta. Le giustifi-
cazioni non lo interessavano, e la mano ritrovata o no c'entrava fino a un
certo punto. Era in collera, frustrato. Appena sfiorava l'argilla gli si scate-
nava un furore freddo, e finiva immancabilmente col distruggere quello
che aveva appena fatto. Edgar lavorava in piedi, spalmando l'argilla su u-
n'anima di fil di ferro che aveva grossomodo la forma di una testa ed era
montata su un logoro supporto di legno. Gli strumenti e l'argilla li aveva
procurati Nick, e Stella li aveva pagati. Il problema dei soldi la preoccupa-
va sempre più. A parte il contributo di Nick - un po' di spesa e qualche
spicciolo -, non sapeva né dove né come trovarne.
Cercava comunque di scacciare questo genere di pensieri. Erano inutili.
Stella aveva cominciato a dividere il mondo in ciò che era utile e ciò che
non lo era, e parlare di denaro con Edgar rientrava decisamente nella se-
conda categoria. Ai suoi bisogni personali non badava affatto; non se la sa-
rebbe sentita di spendere per sé. Aveva finito tutti i cosmetici, e i ricambi
di biancheria pulita scarseggiavano. Le sarebbe servito un cappotto pesan-
te, ma non se ne parlava neanche, e tutti gli altri vestiti puzzavano di chiu-
so e di fumo. Il tempo si era fatto umido e nuvoloso, e se apriva le imposte
entravano folate di pioggia.
Con Edgar totalmente assorbito dal suo lavoro, Stella aveva molto tem-
po per pensare, specie se Nick era fuori, come ormai capitava sempre più
spesso. Ma un pomeriggio, mentre Edgar dormiva, Nick attaccò discorso.
L'umore di Edgar, disse, era normalissimo. Tutti gli artisti sono così,
quando il lavoro non ingrana.
«Tu però no».
«No, io no».
Era seduto sull'orlo di un vecchio divano dall'altra parte della stanza, con
la fronte aggrottata, i gomiti sulle ginocchia e le dita intrecciate. Una siga-
retta gli pendeva dalle labbra. «Ma io non sono un vero artista. Non come
lui».
Stella fece un giro per la stanza dando un'occhiata alle tele di Nick. La
sua pittura aveva un che di pomposo. Si fermò vicino alla finestra. Un ca-
mion di patate stava entrando a marcia indietro nel mercato.
«E quando ingrana, come sono?» chiese Stella.
«Idem».
Le venne da ridere, e Nick la guardò sorpreso. «Cosa ci trovi di così di-
vertente?».
«Il modo in cui l'hai detto».
Nick ci pensò su. Senza muoversi dalla finestra, e senza smettere di fis-
sarlo, Stella si accese una sigaretta.
«Non ce l'hai una donna, Nick?».
Lui scosse la testa.
«Pensavo che andassi da lei, quando esci. Dalla tua amante».
Nick continuava a scuotere la testa, lo sguardo fisso a terra, torcendo le
lunghe dita. Poi le lanciò un'occhiata di cui Stella non colse bene il senso;
decise comunque di lasciar perdere. Strano ragazzo, pensò, così bloccato.
In ogni caso, Nick passava sempre meno tempo con loro, e Edgar rima-
neva per ore sulle sue, torvo e distante. A volte Stella si sentiva quasi sof-
focare dall'ansia, e l'unico modo per scacciarla era tener viva la fiamma del
loro amore, farla divampare: ma le costava sempre più fatica. Non voleva
parlarne a Edgar, non era utile. Così mentre lui lavorava, o dormiva, o be-
veva, Stella combatteva battaglie atroci e silenziose con se stessa, da cui
usciva prostrata: eppure la notte rimaneva sveglia a lungo, sentiva i treni
rombare sul viadotto e il Big Ben battere le ore. Cominciava a porsi do-
mande che la turbavano. Sullo squallore, ad esempio, e la paura, e l'incer-
tezza, e l'eccesso di intimità. Queste cose avevano impedito al loro amore
di crescere, e adesso era quasi sicura che lo avrebbero presto fatto morire.
Come aveva potuto non rendersene conto? Com'era stata stupida, e impul-
siva, e ingenua! A volte ripensava alla sua vita di prima, al manicomio e a
quello che adesso rappresentava per lei, una specie di luogo remoto e va-
gamente irreale dove splendeva sempre il sole e l'ordine regnava sovrano,
dove ognuno aveva un posto preciso, e nessun desiderio: un castello ab-
barbicato su uno sperone di roccia, e fra le sue mura sicurezza e abbondan-
za. Era un'illusione, lo sapeva, ma abbastanza plausibile, e poter pensare a
un luogo sicuro le dava sollievo; che poi esistesse solo nella sua mente a-
veva un'importanza relativa. Più tardi le sarebbe sembrato a dir poco curio-
so considerare un'isola felice proprio il posto da cui lei e Edgar avevano
scelto di fuggire, finendo per cercare sicurezza, calore e abbondanza in una
strada di magazzini abbandonati.

Finalmente Edgar cominciò a fare qualche progresso. Ora aveva bisogno


di lei anche per quattro o cinque ore al giorno. Stella vedeva la sua testa e
il suo collo emergere a poco a poco dall'argilla, stranamente allungati e
appiattiti, eppure riconoscibili. Ma Edgar era nervoso e distratto come pri-
ma, e quando un paio di giorni dopo Nick fece i bagagli Stella si ritrovò
completamente sola. Ora non faceva che pensare, mi raccontò, e non all'o-
spedale, non a Max, ma a Charlie. Non poteva fare a meno di contare i
giorni trascorsi dall'ultima volta che lo aveva visto. Era sicura di mancar-
gli, ma anche che lui stesse imparando a odiarla. Charlie vedeva suo padre
soffrire, sapeva di chi era la colpa, e più Stella rimaneva lontana più il suo
odio metteva radici.
Stella lasciò che questi sentimenti contaminassero i suoi rapporti con
Edgar, e le conseguenze furono nefaste. Raggiunto solo a prezzo di sforzi
enormi, l'equilibrio psichico di un artista è così delicato che ogni distrazio-
ne, ogni interferenza della cruda realtà esterna possono distruggerlo in un
attimo: per fare arte bisogna voltare le spalle alla vita. Sotto questo profilo
Edgar era talmente sensibile che avevo sempre considerato la sua una per-
sonalità artistica allo stato puro. Per lui la relazione tra arte e salute menta-
le era tanto precisa quanto delicata: se la prima veniva disturbata, la secon-
da ne avrebbe risentito, finendo per andare in pezzi.
Un mattino, al risveglio, Stella si ritrovò sola. Prima di allora Edgar non
era mai uscito di giorno. All'inizio Stella la prese abbastanza bene. Si pre-
parò una tazza di té, poi fece un po' di bucato nel lavandino e lo appese ad
asciugare sullo stendipanni. Quindi passò nello studio e aprì le imposte.
Era una giornata tersa e ventosa, con qualche nuvola alta a rincorrersi nel
cielo. Girando per la stanza, diede un'occhiata ai disegni attaccati al muro
con le puntine. La testa di argilla era coperta da qualche straccio umido.
Andò di sopra e si mise a sfogliare un giornale vecchio. Dopo un'ora
cominciò a torcersi dalla preoccupazione. Edgar non le aveva detto né do-
ve andava né quanto sarebbe stato via, e non ci voleva molto a immaginare
un altro incontro casuale con la polizia, stavolta senza il favore delle tene-
bre e senza un vicolo in cui infilarsi. Come l'avrebbe saputo, lei? Il pensie-
ro la colpì all'improvviso, in tutta la sua brutalità: se prendevano Edgar, lei
come l'avrebbe saputo? Di colpo la sua impotenza le sembrò terrificante.
Senza i due uomini era perduta. Dipendeva in tutto e per tutto da loro. Nel
loro sistema c'era una falla. Casi come questo andavano previsti, e Edgar
non doveva più piantarla in asso in quel modo.
A mezzogiorno aveva perso ogni speranza. Non aveva più dubbi che
Edgar fosse nelle mani della polizia. Si sentiva in collera con lui, ma intui-
va confusamente che doveva essere una conseguenza dell'ansia, perché si
ricordava che quando Charlie spariva negli acquitrini per ore aveva una re-
azione molto simile. Pensare a Charlie fu un errore. Stella non aveva l'e-
nergia mentale per affrontare il senso di colpa, specie adesso che proba-
bilmente aveva perduto anche Edgar. Comunque non poteva rimanere lì un
minuto di più. Si precipitò giù dalle scale.
Ora non ricorda dove avesse voluto andare, ma ricorda la fretta, l'im-
provvisa, folgorante certezza che non facendo nulla avrebbe perso tutto.
Provai a suggerire che forse voleva tornare a casa, ma la sua risposta fu un
cenno di diniego. Aveva sceso le scale a precipizio, imboccando l'andito di
corsa e ritrovandosi fuori, nel sole: e tra le braccia di Edgar.
«Che diavolo succede?» fece lui.
Solo allora Stella si rese conto dello stato in cui era, senza impermeabile,
senza cappello, i capelli conciati da far paura, la faccia gonfia e sporca.
Sentendo il panico scemare, lasciò che Edgar la aiutasse a risalire le scale.
Sembrava molto irritato dal suo comportamento.
Stella cercò di spiegargli che si era ridotta in quello stato dalla paura,
anzi, dalla certezza che fosse caduto nelle mani della polizia, ma Edgar si
allontanò da lei, mettendosi a camminare avanti e indietro. Aveva un'e-
spressione allucinata, si rosicchiava il pollice e ogni tanto le lanciava u-
n'occhiata feroce. Non lo aveva mai visto così, finora era sempre stato ab-
bastanza forte da contenere le ansie di lei e riuscire a calmarla. Stella non
capiva che cosa avesse.
«Ti piacerebbe, eh?» disse.
Stella lo guardò. Era in mezzo alla stanza e la fissava freddamente.
«No! Come puoi pensarlo?».
«Così torneresti alle tue comodità, che ti mancano tanto».
Ora Edgar si era avvicinato al tavolo, e sfogliava distrattamente gli
schizzi senza guardarla, continuando a rosicchiarsi il pollice.
«Ma mi hai sentito? Pensavo che ti avessero preso. Pensavo di essere
rimasta sola».
«Non lo saresti rimasta per molto, in ogni caso».
Stella racconta di non aver capito subito quello che Edgar intendeva.
Sentiva solo che stava male, e gli si avvicinò cercando di abbracciarlo. Lui
la respinse e andò a sedersi su una sedia vicino all'argilla, arrotolandosi
una sigaretta. Stella si inginocchiò ai suoi piedi. «Mi sono spaventata» sus-
surrò. Edgar non la guardò neppure: scrollò le spalle e si accese la sigaret-
ta. Stella si alzò in piedi, andò alla finestra e si sedette sul davanzale, guar-
dando in strada. Sentì una stretta al cuore. Tutta quell'arte, tutto quello
squallore, a cosa servivano?
«Spaventata» disse Edgar con sarcasmo, ma sembrava spaventato anche
lui, e d'improvviso le parve una cosa così infantile, così meschina, così e-
goista prendersela con qualcuno che ha avuto paura per noi!
«Oh, tu non mi ami. Non sai neanche cosa vuol dire».
Glielo disse senza guardarlo. Quindi sentì uno schianto, e vide Edgar in
piedi vicino alla sedia rovesciata; poi se lo ritrovò quasi addosso, enorme,
furioso, con i pugni serrati.
«Hai intenzione di picchiarmi?» gli chiese con calma. Lo guardò senza
paura. Non aveva più importanza, ormai. Nulla aveva più importanza. Po-
teva anche massacrarla di botte. Era solo un animale come tanti, il mondo
ne era pieno.
«Stavi tornando da Max».
«Non dire assurdità».
Edgar si voltò e diede un gran pugno contro il muro. La stanza adesso
era satura di violenza. Da così vicino, la rabbia di Edgar era spaventosa.
Come mai non se n'era accorta prima?
«Dunque avevano ragione, su di te».
«In che senso?».
«Nel senso che sei uno psicopatico».
Si sarebbe arrabbiato ancora di più, ma Stella non riusciva a preoccupar-
sene. Aveva superato quella fase. Edgar si girò di nuovo verso di lei, e il
suo furore trattenuto pervase la stanza, facendola tremare come un istante
prima del crollo.
Poi qualcosa cambiò. Con un respiro profondo, Edgar si appoggiò al
muro con entrambe le mani, a occhi chiusi. La sua rabbia si era placata.
«Già, uno psicopatico» disse. «Da chi l'hai sentita questa, da Max? O da
Cleave?».
Certo non da me. Edgar è molte cose, ma non uno psicopatico. In ogni
caso, Stella poteva accettare tutto, ma non questo. Non di essere accomu-
nata agli psichiatri. Gli si avvicinò cercando di prendergli le mani. Edgar la
respinse continuando a tenere gli occhi chiusi, ma stavolta lei non gliene
fece una colpa. Aveva ragione lui.
«Scusa» gli sussurrò. «Ero disperata. Non ti vedevo tornare, ed ero sicu-
ra che ti avessero preso. Non sapevo dov'eri».
Edgar aprì gli occhi e le fece una carezza distratta. Aveva di nuovo cam-
biato umore. Adesso sembrava tutto contento. «Guarda qui» le disse. Tirò
fuori dalla tasca interna una busta e gliela porse.
«Avanti, aprila». Stella la strappò con l'unghia. Dentro c'era un fascio di
banconote da dieci.
«Eri andato a cercar soldi» gli disse.
Poi tirò fuori il denaro. Denaro voleva dire roba da mangiare e da bere.
Avrebbe dovuto farla felice, e invece si sentì depressa. Il pensiero di cosa
comprare con quel denaro, il denaro di Edgar, era di una volgarità intolle-
rabile. La vita era uno squallido baratto, soldi contro tempo. Coi soldi po-
tevano comprarsi un po' di tempo, va bene, e col tempo che cosa si sareb-
bero comprati, la possibilità di vedere il loro amore trasformarsi in cenere?
Sentire che tutto si svuotava di significato era spaventoso. Stella lasciò ca-
dere i soldi sul pavimento.
«Cosa ne sarà di noi?» disse.
Edgar raccolse il denaro, e senza toglierle gli occhi di dosso se lo portò
alle labbra. Poi lo rimise in tasca.
«Niente di buono» sussurrò lei.
«Soldi, Stella».
«Già, soldi».
Stella rimase in piedi alla finestra, dandogli le spalle.
«Soldi, proprio così» disse Edgar. Lei sapeva cosa avrebbe aggiunto.
Che trovarli era stato tutt'altro che facile.
«Pensi che sia stato facile?».
«Voglio andare a dormire».
Si allontanò dalla finestra e salì stancamente i gradini senza guardarlo.
Poi si coricò e chiuse gli occhi. Si sentì subito ad anni luce da lì. Era esau-
sta. Voleva dormire per mesi, e al risveglio sarebbe stato tutto come prima,
avrebbe riavuto il suo bambino. Ma Edgar la scrollò, svegliandola.
«Mi scusi?» disse. Aveva bevuto, l'alito gli puzzava di vino.
Stella si girò sulla schiena, poi si appoggiò sul gomito cercando una si-
garetta.
«Oh, lascia perdere».
Ci fu un attimo di silenzio. Edgar non la capiva. Come mai? Lui che era
così intelligente, che capiva sempre tutto, perché adesso era così ottuso?
Sedeva in fondo al materasso guardando fisso davanti a sé. Appoggiata su
un gomito, Stella continuava a fumare, dandogli la schiena.
«L'ho preso per noi» disse Edgar.
In qualsiasi altro momento quella frase l'avrebbe riempita di gioia. Ora
la lasciava indifferente. Stella non disse nulla, si limitò a una scrollata di
spalle, ma Edgar la stava tenendo d'occhio e reagì malissimo. La afferrò
per i polsi, facendola quasi scendere dal letto.
Bastò questo a eccitarli. Un bacio, e si stavano già strappando i vestiti di
dosso. Era proprio quella specie di voracità, di lussuria famelica a spaven-
tare Stella. Odiava essere costantemente preda di qualcosa che non riusciva
a dominare. Adesso lo facevano con disperazione, con aggressività. Stella
ci metteva tutta la sua ansia e la sua frustrazione, e stavolta, durante un ab-
braccio convulso, morse Edgar su una spalla, e non ci andò leggera. L'ef-
fetto fu drammatico. Lui schizzò su e le diede uno schiaffo, ma non si fer-
marono lì, e solo un minuto o due più tardi, quando ognuno rotolò dalla
sua parte, Stella nascose la faccia nel cuscino. Si sentiva completamente
intorpidita. Come aveva previsto, stava andando tutto in pezzi, ma non le
importava. Sentì Edgar borbottare qualche idiozia che non ascoltò. Era co-
ricata sul materasso, con la faccia che bruciava e la testa vuota. Pensava
che l'avrebbe picchiata, e non le importava. Ma qualche attimo dopo Edgar
scese nello studio.
Stella si mise a sedere e trovò il portacipria. La faccia era già rossa. Le
sarebbe rimasto un livido. Chiuse di scatto l'astuccio. Stupida, stupida, stu-
pida, si ripeté.

Quando Stella tornò dalla cattedrale era pomeriggio inoltrato. Edgar non
le chiese scusa. Si era rimesso a lavorare senza accendere la luce, e lo
stanzone, con le imposte socchiuse, era immerso nella penombra. La luce
del giorno, il suo abbacinante chiarore, avevano avuto il loro momento,
adesso era il tempo del buio, del gin, e infine del sonno. Una notte di buio
e di gin. Erano tutti e due depressi, non parlavano, non avevano voglia di
uscire. Stella era sul letto, buttata sopra le coperte in calze e slip, una don-
na alla deriva in un mare di boccette vuote e giornali vecchi. Quando si fe-
ce buio Edgar non accese neanche la luce, ma aprì le imposte, e i lampioni
della strada diffusero nello studio un alone grigiastro. L'unica cosa che
Stella voleva era ubriacarsi e tentare di vedere le cose con un minimo di
ottimismo. Si portò il gin nello studio e andò alla finestra. Edgar continuò
a lavorare curvo sull'argilla, senza neanche voltarsi.
«Vorrei che ci fosse Nick» disse Stella, e lo vide irrigidirsi.
Si svegliò all'alba. Non si era neppure infilata sotto le coperte, in com-
penso ci aveva rovesciato sopra il gin. Edgar si era buttato sul letto senza
spogliarsi, e dormiva. Stella si tirò a sedere. Aveva la bocca secca, impa-
stata. Sentiva il saporaccio amaro del gin, che a stomaco vuoto le faceva
pulsare la testa. Mise a letto Edgar e si riaddormentarono di schianto.
Il giorno dopo, mentre cercava svogliatamente di dare una pulita, pensò
che è impossibile elevarsi al di sopra dell'ambiente in cui si vive; non mol-
to a lungo almeno. Basta stare in un lurido buco e guardarsi allo specchio
per vedere qualcosa di altrettanto lurido, e cominciare a comportarsi di
conseguenza. Stella era sempre stata considerata una donna bellissima; a-
desso le avevano tolto anche quello. In un posto così la bellezza era fuori
luogo, e per quanto Stella cercasse di rimediare con il trucco, l'unico risul-
tato era che somigliava sempre più a una puttana.
Sembrava che Edgar non se ne rendesse conto, o quantomeno non se ne
preoccupava. A preoccuparlo era lei. L'episodio del cortile lo aveva inso-
spettito, mettendogli in testa che volesse tornare da Max. Lei cercava di
spiegargli che semmai le mancava Charlie, non certo Max, non poteva non
capirlo. Eppure, a quanto pareva, non lo capiva: sembrava aver perso quel-
la prontezza cui Stella era così abituata. Quando faceva così, mi disse, di-
ventava volgare. Persino la voce gli si involgariva.
Io penso che fosse solo spaventato. Penso che scambiasse qualsiasi ma-
nifestazione di stanchezza da parte di Stella per il segno di un abbandono
imminente. Dopotutto era un artista, e in ogni artista si annida un bambino
sperduto e indifeso.
La sera dopo, al pub, Edgar le fece paura. Era così strano, si comportava
come se qualsiasi uomo che vedeva fosse lì per portargliela via. Rimase
per un pezzo a borbottare fra sé, con rabbia, poi se ne accorse e smise,
scrollando la testa, imbarazzato e stupito da quella voce estranea che senti-
va uscirgli da dentro: la voce distorta e ripugnante della gelosia, del terrore
e del bisogno. Stella non sopportava di vederlo soffrire così, di vederlo lot-
tare inutilmente per non trasformarsi in quell'essere che odiava, che non
voleva diventare. Prendendogli la mano gli disse con molta forza di resi-
stere, di continuare a combattere, perché sarebbe andato tutto bene, e lei
non lo avrebbe mai lasciato. Alla fine, con grande fatica, Edgar riuscì a
dominarsi, e per un po' sembrò tornato quello di un tempo. Ma adesso Stel-
la non poteva fidarsi, perché non sapeva quanto sarebbe durata. Vedeva un
uomo diviso: l'uomo che aveva conosciuto all'ospedale c'era ancora, ma
adesso era come invaso, come posseduto da uno spirito che non era il suo.
Provò a dirgli che dipendeva dalla tensione in cui vivevano, e che avevano
solo bisogno di un po' di tempo, ma non riuscì a convincerlo fino in fondo.
Edgar continuava a sfregarsi la testa con un'espressione torva, come se
cercasse di scacciare un brutto sogno, non una malattia.
Quanto tempo avevano? Stella rimaneva sveglia la notte a chiedersi per
quanto poteva andare avanti così. Il livido sulla faccia si vedeva ancora, e
la gente da quelle parti era piuttosto smaliziata. Stella si accorgeva benis-
simo degli sguardi di solidarietà delle altre donne, e quando uscivano la se-
ra vedeva i loro occhi che scrutavano Edgar per paragonare il suo bruto ai
loro. Era una sensazione molto sgradevole. In ognuna di quelle occhiate
avrebbe potuto balenare, all'improvviso, il lampo di un riconoscimento. E
intanto i giorni passavano. Stella faceva l'impossibile per sostenere Edgar,
anche se quando andava a dormire e lui tornava al suo lavoro ricominciava
a pensare a Charlie, e a piangere in silenzio sul cuscino. Ora che doveva
trattare Edgar come un bambino, un bambino suscettibile e bisognoso d'af-
fetto, Stella si domandava perché si occupasse di quel bambino, e non del
suo.

Che fosse rimasta con lui mi sembrava tutto sommato logico. In fondo
credo che, nonostante tutto, lo amasse, o almeno si dicesse che lo amava, e
in queste cose le donne sono ostinate. Aveva fatto la sua scelta, era andata
da lui di sua volontà, e adesso non sarebbe certo corsa a casa solo perché
Edgar era malato, e quindi meno responsabile. Quello che mi sorprendeva,
semmai, era che fosse riuscita a ignorare le molteplici avvisaglie di un'im-
minente esplosione di violenza. Ma va detto che le capacità di negazione di
Stella erano sbalorditive, tanto da farle addirittura dimenticare ciò di cui
Edgar era capace. Neanche quando vide quello che stava facendo al suo
lavoro, neanche allora arrivò a riconoscere il pericolo che stava correndo.
Fu svegliata all'alba dalle grida del mercato. Edgar dormiva vicino a lei.
Stella si alzò, si infilò l'impermeabile e scese nello studio. Aprì le imposte,
lasciando entrare la pallida luce autunnale. Fumò una sigaretta e ascoltò il
mercato che si animava. Poi, d'impulso, scostò a uno a uno gli stracci umi-
di che, come sempre, coprivano l'argilla. Quello che vide era orribile, e
impressionante. È probabile che quella testa e quelle spalle stranamente
oblunghe, innegabilmente sue, ma piene di tagli e di buchi, le avessero fat-
to finalmente capire a quale livello di violenza fosse arrivato Edgar con le
sue mani e con i suoi strumenti. Si sentì male, e ricoprì immediatamente la
testa. Ma invece di correr via da lì, di mettersi in salvo, tornò a letto, e
strinse Edgar fra le braccia.

Adesso era di nuovo l'Edgar di prima: ci furono di nuovo passione e,


poi, tenerezza. In quella fase il sesso, mi disse, le dava qualche problema.
Il suo ciclo era irregolare, e una volta aveva addirittura pensato di essere
incinta. Le chiesi se volesse farsi vedere da un medico, ma mi disse di no,
era tutto a posto. Aveva sempre pensato lei alla contraccezione, e in realtà
non era preoccupata. No, la sua unica preoccupazione era lui. Quando te-
neva la guardia bassa, quando si fidava di lei, quando era se stesso, Stella
non rimpiangeva nulla. Ne era valsa la pena. Appena Edgar si mostrava ri-
cettivo lei si arrendeva. Voleva solo amarlo, la sua volontà era piegata, il
suo orgoglio di un tempo dissolto.
Se solo avessero avuto abbastanza tempo, pensava, sarebbe andato tutto
bene. Sempre che Edgar non facesse qualche stupidaggine. Ma era così
difficile rassicurarlo. Le rispondeva che sui giornali era finita la sua foto-
grafia, che era lui che cercavano, lui che avrebbero riportato dentro, lei era
al sicuro, lei aveva Max da cui tornare. Su questo punto Stella aveva smes-
so di discutere, farlo arrabbiare ancora di più non sarebbe servito a nulla.

E Max? Aveva mai sentito la sua mancanza?


Mai. Stella ammise di averci pensato, naturalmente, ma senza un bricio-
lo di rimorso, il che faceva sembrare tristemente fuori luogo la gelosia di
Edgar, e il suo timore che Stella volesse tornare da lui. No, per Max non
provava niente. Disse che se fosse stato un vero marito nulla di tutto que-
sto sarebbe mai successo, lei non avrebbe sentito quel vuoto, quell'avidità,
non avrebbe avuto bisogno di quello che Edgar le aveva offerto e che era
stata incapace di rifiutare, anche se significava perdere tutto il resto, suo
figlio, la casa, un posto nel mondo. Max adesso le sembrava una specie di
morto vivente, una creatura esangue che osservava l'umanità con uno
sguardo da entomologo, rinchiudendo le persone in tante bacheche con
sotto la loro brava etichetta, questo è un disturbo della personalità, questo
un isterico. Solo dopo averlo lasciato, mi disse, si era resa conto di quanto
grande fosse il vuoto che Max aveva creato in lei. Lo odiava per questo,
per averla spinta a quel parossismo di disperazione. Non sapeva che cosa
ne sarebbe stato di lei, ma le sembrava di non avere altra scelta che giocar-
si la partita fino in fondo.

Un giorno, mentre stava posando, Stella chiese a Edgar di Ruth. In parti-


colare, gli domandò se le avesse fatto una testa in argilla.
«Inutile» rispose Edgar senza interrompersi.
«Perché?».
«Alla fine la guardavo e non vedevo più niente».
«Come mai?».
Edgar era molto concentrato, e le rispose solo dopo qualche minuto, in
tono vago.
«Tutti quegli uomini. Mi stavano davanti. Mi impedivano di vedere».
«Di vedere cosa?».
«Di vedere com'era».
«Ah».
Stella rimase in silenzio per un po'.
«La sua verità» disse poi.
«Ho provato con un'altra, ma anche la sua testa era tutta sbagliata. E la
sua verità comunque non mi interessava».
«E Ruth come l'ha presa?».
«Cosa?».
«L'altra donna».
Edgar sbuffò. «Non le è piaciuto per niente».
«E quindi?».
Un altro silenzio.
«E quindi le ho detto che se non le andava la porta era quella».
«Ci sei andato a letto, con l'altra?».
Qui Edgar si interruppe e la guardò per un attimo, con la spatola di legno
impiastricciata che gli pendeva fra le dita. Sorrise.
«No».
«Ne avevi voglia?».
«No! Mi interessava solo fare quella maledetta testa!».

A questo punto Stella credette di scorgere qualche segnale incoraggiante


dal mondo esterno. Sui quotidiani, che leggeva regolarmente, il nome di
Edgar non compariva da settimane. Il suo non era mai neppure stato citato,
e naturalmente non era mai stata pubblicata una sua fotografia. Stella in-
dovinò il motivo. Com'è ovvio l'ospedale non ci teneva a far sapere che la
moglie del vicedirettore era l'amante del paziente evaso, e che era scappata
con lui. Quella sì sarebbe stata una notizia sensazionale, e un ulteriore
scandalo era proprio ciò che Jack e tutti noi volevamo evitare. E così, è ve-
ro, avevamo messo tutto a tacere, e dal punto di vista di Stella questo gio-
cava a loro favore. Erano in vantaggio.
Ed è qui che rientra in scena Nick.

VIII

Caro Nick. Si era affezionata a Nick, all'alto, allampanato, premuroso


Nick. I pochi soldi che Edgar portava a casa venivano quasi sempre da lui.
Aveva una sua piccola rendita, e la metteva generosamente in comune.
Quando aveva visto come si mettevano le cose tra Edgar e Stella si era fat-
to prestare un appartamentino a Soho, in modo che loro due avessero più
spazio. Rivederlo per Stella fu un sollievo. Credo anche per Edgar, a modo
suo; sentiva di fare sempre più fatica a dominarsi, e probabilmente era
spaventato. Senza di me, il lavoro era la sua unica ancora di salvezza, l'u-
nica cosa che desse alla sua esistenza una sorta di struttura e di scopo. E
più i sospetti lo tormentavano, meno Stella sembrava contare per lui. Per
quanto si sforzasse di combatterli, infatti, quei pensieri gettavano un'ombra
sulla sua mente, e Edgar viveva sotto una cappa di dolore e di dubbio che
si sollevava solo di rado, e cioè quando lavorava: solo allora vedeva Stella
con piena chiarezza.
Edgar era andato avanti con la sua scultura, continuando a sfigurarla, ma
ormai buchi e tagli si potevano considerare uno stadio nell'evoluzione del
pezzo. Fu felice di mostrarla a Nick, e guardandola Stella capì che quella
testa, la sua testa, era diventata anche qualcos'altro, una trasposizione dei
sentimenti sempre più oscuri e tormentati di Edgar: era, penso, patologia in
argilla. Nick si rese immediatamente conto che Edgar stava facendo qual-
cosa di importante. La sua reazione portò Stella a domandarsi se tutto
quello che lei e Edgar stavano passando non si potesse in fondo attribuire
ai sussulti connaturati a qualsiasi progetto artistico degno di questo nome,
e a nient'altro. Non si dà creazione senza sofferenza, e la grande arte nasce
solo da grandi sofferenze, non è così? Ma certo, la colpa di tutto era della
testa, pensò. Preferiresti tornare nei salotti degli psichiatri, con le loro mo-
gli e le loro madri? si chiese. Naturalmente no. Era grata a Nick per averla
aiutata a capire questo. Forse lei e Edgar avevano passato troppo tempo da
soli. Nick era una ventata d'aria fresca. La tensione calò di colpo.
Senza contare che Nick aveva un influsso benefico anche su Edgar. Per
quanto cercasse di nasconderlo, Edgar era molto compiaciuto della sincera
ammirazione di Nick per il suo lavoro, Stella lo vedeva benissimo. La rea-
zione di Nick era molto più importante della sua, perché essendo un artista
Nick capiva dove Edgar stesse cercando di arrivare. Più tardi i due usciro-
no e tornarono con una cassa di vino rosso e una busta con la spesa. Quella
sera fu una delle più felici che Stella avesse passato nel sottotetto. Nick e
Edgar erano allegrissimi, e rimasero tutti e tre a gozzovigliare, a ridere, a
far baccano fino all'alba. Senza parere, Stella teneva d'occhio Edgar, felice
di vederlo star bene. Quella notte rivide il vecchio Edgar, l'Edgar spiritoso,
tenero, brillante, acuto, laconico: e pericoloso. A un certo punto lui e Nick
cominciarono a discutere piuttosto animatamente di altri pittori. Tirarono
fuori un blocco e Nick fece uno schizzo dei dipinti cui intendeva lavorare.
Edgar gli diede una serie di rapidi consigli e Nick ascoltò annuendo, mor-
dicchiandosi il labbro come faceva sempre quando si concentrava, pren-
dendo nota di tutto più in fretta che poteva. Più tardi, mentre Nick, ubria-
co, si era allungato sul divano a fumarsi un sigaro, Stella disse a Edgar che
non aveva rimpianti. Erano ubriachi anche loro. Stella era stravaccata sulla
sedia, con un piede appoggiato sul tavolo e la gonna che le lasciava sco-
perta la coscia; Edgar si alzò barcollando e fece il giro del tavolo per rag-
giungerla, poi le strinse le spalle, si chinò, e le chiese solennemente scusa
per essere la merda che era.
«Non sei una merda» disse lei.
«Sì, invece».
«Eccome» fece Nick dal divano.

Nick si addormentò dov'era, e il mattino dopo, che era domenica, si sve-


gliarono tardi. Edgar dormiva ancora quando Stella si alzò per andare in
cucina, dove trovò Nick che frugava tra i suoi schizzi tentando di decifrare
gli appunti buttati giù mentre Edgar gli rovesciava addosso un'idea dopo
l'altra. Stella disse che la sbronza non le era ancora passata, e che aveva bi-
sogno di una boccata d'aria. Nick si offrì di accompagnarla. Uscirono di
soppiatto per non svegliare Edgar.
Andarono a passeggiare lungo il fiume. Nick era ridotto da fare spaven-
to. Aveva la sua vecchia giacca di tweed, i calzoni e le scarpe macchiati di
pittura, la barba lunga, gli occhi rossi e la faccia gonfia. Era una mattina
grigia e gelida, il vento portava folate di pioggia. Rimasero qualche minuto
a guardare l'acqua, ma faceva troppo freddo, e Nick propose una sosta al
pub.
L'incubo cominciò un'ora dopo, al rientro. Nick e Stella trovarono Edgar
sulla porta dello studio, che li fissava. Non aveva aperto le imposte e la
stanza era ancora buia; la sua faccia non si distingueva bene. Al pub Stella
si era scolata un paio di bicchierini che le avevano rimesso in circolo l'al-
col della sera prima, ed era già alticcia.
«Tesoro!» strillò. «Ti abbiamo portato la colazione!».
Nick gli mostrò due bottigliette di birra scura. «E l'antidoto» disse. «Co-
s'hai?».
Edgar non si era mosso, non aveva detto una parola, era solo rimasto a
guardarli con una strana luce negli occhi, il labbro superiore piegato in una
smorfia e i denti serrati. Stella gli si avvicinò, mentre il riso le si spegnava
in gola lasciando il posto a un'espressione preoccupata. Adesso c'era l'al-
tro, lì, il malato, e solo lui. Edgar era scomparso.
«Cosa c'è? È successo qualcosa?».
«Non ti avvicinare».
Stella si girò verso Nick, che fissava Edgar con le sopracciglia aggrotta-
te, turbato quanto lei dal suo comportamento. Ormai la sbornia se l'erano
fatta passare, e alla svelta.
«Edgar...».
«Vattene, Nick. E non farti mai più vedere».
«Ma...».
«Fuori dai coglioni, Nick!».
«Senti...».
Edgar gli si avvicinò con la chiara intenzione di picchiarlo. Nick indie-
treggiò.
«Fuori dai coglioni!».
Nick obbedì. Stella, sbigottita, rimase a guardarlo in silenzio mentre se
ne andava.
«Bastardo» mormorò Edgar mentre in sottofondo si sentivano i suoi pas-
si giù per le scale.
«Adesso smettila, mi fai paura...».
«Tu, puttana. Con Nick». Imitò l'accento da college dell'altro.
«Non capisco» rispose Stella. Ma non era vero.
«"Non capisco"». Le fece il verso. «Certo che capisci, smettila di menti-
re».
Di colpo, Stella si sentì a pezzi. Lo aveva già visto, l'altro, ma mai così.
E non se l'era mai presa con Nick. Quanto ci sarebbe voluto, questa volta,
prima che se ne andasse? Si mise a sedere e accese una sigaretta. Era nau-
seata e depressa.
«Queste assurdità mi annoiano a morte» disse senza alzare la voce.
Prese un'arancia dalla coppa sul tavolo e se la rigirò pigramente fra le di-
ta. Fu un attimo. Edgar le saltò addosso, trascinandola sul pavimento. Stel-
la rimase concentrata sull'arancia, la seguì con lo sguardo mentre rotolava
verso la finestra, e avrebbe voluto dire a Edgar di stare attento a non pe-
starla, con quello che costava. Poi lui la sollevò per i polsi, come aveva
fatto qualche notte prima, urlandole che sapeva benissimo che si fotteva
Nick, cosa credeva, che fosse cretino? Stella non gli rispose, non sarebbe
servito a nulla, e lui le diede un ceffone, e stavolta per farle male. Stella
cadde per terra e si girò, riparandosi il viso con le braccia.
Poi cercò di rimanere immobile. Aveva il fiato corto, e tremava tutta.
Non sentiva niente. Non capiva che cosa stesse facendo Edgar, ma era an-
cora nello studio. Il tempo sembrava scorrere più lento, e Stella non sapeva
se da quando Edgar l'aveva colpita fosse passato un minuto o dieci. Non
osava mettersi a sedere per paura che si arrabbiasse ancora di più. Poi sentì
una specie di strofinio, che in un primo momento non riconobbe. Alzò leg-
germente la testa e aprì gli occhi. Adesso lo vedeva. Era in piedi vicino al
tavolo dall'altra parte della stanza, e le dava la schiena.
«Cosa stai facendo?»
Edgar non si girò e non le rispose. Che noia, pensò di nuovo Stella. Si
alzò a sedere con un sospiro, toccandosi con cìrcospezione la faccia, che
sentiva pulsare. Cercò il portacipria per verificare i danni. Edgar continua-
va a darle la schiena, e a strofinare un oggetto contro un altro.
«Ti ho chiesto cosa stai facendo» disse Stella.
Poi ci arrivò da sola: Edgar stava passando una lama su una pietra. Aprì
di scatto il portacipria. Era molto spaventata. Si guardò nello specchietto
rotondo; un lato della sua faccia stava già cambiando colore. La pulsazione
era lieve, ma faceva male.
«Cosa stai affilando?».
Nessuna risposta. Per un attimo, Stella pensò di correre alla porta. In
fondo lo conosceva così poco. Nella serra sapeva chi aveva davanti, nella
serra si era sentita sicura che qualsiasi cosa fosse accaduta in futuro, qual-
siasi cosa lui avesse fatto, sarebbe stato sempre Edgar. Ma quello che ave-
va davanti non era lui. Era un altro. A meno che l'uomo del giardino non se
lo fosse inventato lei a misura dei propri bisogni.
«Cosa stai affilando?».
«Un coltello».
Un coltello con cui tagliarle la testa.
«E perché, scusa?».
Con una calma anche eccessiva, Stella si diede una controllata alla fac-
cia. Ricorda di aver pensato che in fondo le era andata bene, la pelle era in-
tatta. Si passò con cautela un fazzoletto sul trucco sbavato intorno agli oc-
chi. Devo scappare, pensava, sta per uccidermi. Ma lo pensava senza terro-
re, era come staccata da tutto. Le cose, intorno a lei, non erano più in scala.
Lo specchietto che si teneva davanti alla faccia sembrava lontanissimo, e
piccolo come una moneta. Anche la sua immagine riflessa era minuscola,
talmente minuscola che non riusciva neppure a distinguerne i tratti.
«Per sbucciare l'arancia» disse Edgar.
Anche lui era minuscolo, e lontanissimo, come se lo stesse guardando
dall'estremità sbagliata di un cannocchiale. Aveva finito di affilare la lama.
Continuava a darle la schiena, ma la teneva d'occhio. Un omino minuscolo,
lontano lontano, dall'altra parte di una stanza enorme.
«Per sbucciare l'arancia?» chiese Stella.
La sua voce, atona e metallica, sembrava arrivare da chissà dove. Edgar
attraversò la stanza con il braccio teso, porgendole uno spicchio. Stella se
lo mise in bocca. Non voleva ucciderla, ma solo darle un po' di frutta.
Mentre masticava, Edgar non le tolse gli occhi di dosso.
«Cosa c'è?» chiese.
Aveva uno sguardo stranissimo. Stella non riusciva a immaginare a cosa
stesse pensando. Lui si voltò scuotendo la testa, poi Stella lo vide prendere
un altro spicchio e portarselo alle labbra con diffidenza, come se non aves-
se mai assaggiato un'arancia in vita sua. E allora capì. Le tornò in mente
una cosa che le avevo raccontato proprio io, a proposito dei deliri di Edgar.
Una delle sue idee fisse, le avevo detto, era che Ruth gli avvelenasse il ci-
bo.

Per Stella, fino a quel momento impermeabile a tutto, fu un'intuizione


sconvolgente. Era riuscita a razionalizzare la violenza di Edgar, e a spie-
garsi la sua gelosia. Ma il sospetto che lei stesse cercando di avvelenarlo
con un'arancia era davvero preoccupante. Stella capiva che per il suo bene
avrebbe fatto meglio a lasciarlo, e tutto quello che le avevamo detto, e che
fino ad allora era riuscita a rimuovere, le riaffiorò alla coscienza. Per la
prima volta Edgar la spaventava a morte - anche se più tardi mi avrebbe ri-
petuto con insistenza che non aveva paura di lui, ma della sua pazzia. Inol-
tre sapeva che non doveva mostrargli il suo terrore, perché altrimenti E-
dgar avrebbe potuto diventare violento, e farle quello che aveva fatto a
Ruth. Anzi, forse con lei non avrebbe avuto neppure bisogno di ubriacarsi,
forse aveva già perso il controllo. Forse a scatenarlo sarebbe bastato l'odo-
re della sua paura.
Voleva scappare, ma non osava uscire dalla stanza. Sentiva che Edgar
avrebbe capito che cosa le passava per la testa, e allora sarebbe stata la fi-
ne.
«Vado di sopra» disse soltanto.
Raccolse la borsa, salì lentamente le scale e si sedette sul materasso. Si
asciugò le dita appiccicose di arancia e si diede un'altra controllata allo
specchio. Poi prese un libro, si coricò sulla schiena e cominciò a leggere
senza guardare di sotto. Sentiva che Edgar la sorvegliava. Era venuto il
momento? La calma che Stella tentava di trasmettere era assolutamente
falsa. Il cuore le batteva all'impazzata, era madida di paura, e il panico mi-
nacciava di sopraffarla da un momento all'altro.
Edgar passò l'intero pomeriggio nello studio, a lavorare alla testa. Credo
di immaginare quale sforzo sovrumano gli sia costato dominarsi. Penso
che tutto quell'accanirsi sulla testa fosse in realtà un modo per cercare di
vedere Stella con chiarezza, di cogliere la sua verità, nella speranza di riu-
scire prima a dominare, poi a sconfiggere la pazzia. Stella, di sopra, non
aveva idea di tutto questo, pregava solo che lui uscisse, e intanto si con-
centrava mentalmente sui preparativi per la partenza. Sul letto sfatto, fu-
mava con la schiena appoggiata contro i mattoni. Dopo averlo censurato
per tanto tempo, ora non riusciva a pensare quasi ad altro che all'omicidio
di Ruth. Se Edgar era arrivato a pensare che lei lo stava avvelenando, allo-
ra era pazzo, sì, era pazzo. Ma nonostante il terrore che ne provava, Stella
riusciva ancora a compatirlo, perché sapeva che un pazzo è, prima di tutto,
un malato. Era vissuta troppo a lungo tra gli psichiatri per dimenticarsene.

Appena buio Edgar uscì senza una parola. Stella lo sentì andar via, quel-
l'uomo così forte, e non perse tempo. Aveva pianificato tutto fin nei detta-
gli. Per vestirsi e riempire la valigia le ci vollero una decina di minuti. Si
mise l'impermeabile, il foulard e gli occhiali scuri e si precipitò giù dalle
scale. Si fermò nell'andito e gettò un'occhiata al cortile. Era deserto. Cam-
minò rapidamente fino alla strada, poi si fermò accanto al muro per con-
trollare che Edgar non stesse tornando. Via libera. Un vento freddo saliva
dal fiume. Si allontanò di corsa.
Una mezz'ora dopo Stella entrò con circospezione in un piccolo pub
piuttosto squallido dalle parti di Waterloo. Era un locale pulito, caldo, vuo-
to, e pericoloso; Stella pensò che Londra era piena di locali identici a quel-
lo, posti apparentemente sicuri, ma in ciascuno dei quali, da un momento
all'altro, poteva entrare Edgar. L'unico cliente, oltre a lei, era un tale con
l'impermeabile grigio, che se ne stava al banco col giornale della sera e il
suo bicchiere di birra. Un tappeto sul pavimento e un caminetto a gas acce-
so. Vicino al fuoco, nell'angolo, un tavolino rotondo con le gambe di me-
tallo. Tutto qui: un uomo al banco, il tepore del caminetto, le calde luci
soffuse, le sigarette, l'alcol, e fuori il freddo e il crepuscolo, uno studio
vuoto, un pazzo. Stella decise di bere qualcosa al tavolino. Chiese alla ba-
rista un pacchetto di sigarette e un gin tonic abbondante e se li portò vicino
al caminetto, dove si sistemò con la guancia tumefatta rivolta verso il mu-
ro. Allungò il gin con l'acqua tonica e si accese una sigaretta. Dopo un paio
di minuti si rese conto che l'uomo al banco la stava osservando, ma appena
lei alzò lo sguardo lo vide tornare al suo giornale.
L'atmosfera era calda e tranquilla, le luci basse. Dato che le era avanzata
un po' di acqua tonica, Stella prese un altro gin. Quando si avvicinò al ban-
co l'uomo le chiese se voleva bere qualcosa con lui. Stella rispose di no,
che stava aspettando suo marito. Probabilmente, mi disse Stella, si stava
chiedendo il perché degli occhiali scuri, e anche del livido in faccia, ma
che pensasse pure quello che voleva, per lei era lo stesso. Si portò il gin al
tavolino vicino al caminetto e ricominciò ad aspettare. Aveva scelto quel
pub perché subito fuori c'era una cabina telefonica. Prima di entrare aveva
cercato Nick, ma le avevano detto che era uscito. Avrebbe richiamato fra
mezz'ora.
Un'ora dopo non era ancora tornato. Sentiva la tristezza montare in lei,
un'onda dopo l'altra, ma si diceva severamente, con un tono che conosceva
bene, il tono di Max, che non doveva fare la stupida né commiserarsi - do-
veva darsi un contegno. E in una situazione simile era davvero il colmo
che le venisse in aiuto uno dei precetti di Max contro gli eccessi dell'emo-
tività femminile. Datti un contegno, cara, sei in un posto pubblico, vuoi da-
re spettacolo? Sì, era proprio questo che la sconvolgeva, l'idea di dare spet-
tacolo. Come se ci fosse una cornice intorno alla figura piangente seduta al
tavolino, una cupa cornice nera con sotto il titolo: «Melanconia». Nono-
stante la faccia indolenzita Stella sorrise, mentre le lacrime continuavano a
rigarle silenziosamente le guance. Dal bar arrivarono delle risate maschili.
Adesso basta, si disse Stella, ma servì solo a peggiorare le cose: l'uomo al
banco si voltò e cominciò a fissarla ostentatamente. Stella diede di nuovo
spettacolo uscendo a chiamare Nick una terza volta.

***

L'appartamento era un buco, ma sempre meglio del sottotetto, senza con-


tare il piacere di un vero bagno. Nick si era preso uno spavento terribile.
Era tornato da loro, non li aveva trovati, e pur non sapendo bene cosa pen-
sare aveva temuto il peggio. Sentire la voce di Stella al telefono era stato
quindi un enorme sollievo. Nick si era precipitato al pub, avevano bevuto
qualcosa insieme, e poi l'aveva portata a casa sua. Lei gli aveva detto che
quello che desiderava di più era farsi un bagno.
Si era quasi strappata i vestiti di dosso, poi si era immersa nell'acqua
calda ed era rimasta a lungo sdraiata con gli occhi chiusi. Non si sentiva
veramente pulita da un'eternità, e le parve che un po' dell'infelicità, dello
squallore, dell'ansia e del senso di colpa degli ultimi giorni scivolassero via
insieme allo sporco. Dopo qualche minuto cominciò a esaminare il suo
corpo - la pelle bianca, i seni, le gambe, le mani diafane e sottili, i piedi. A
Max, dopo tre o quattro anni di matrimonio, quel corpo non aveva detto
più niente, ma del resto per mantenere viva l'attrazione sessuale ci vuole
fantasia, e lui non ne aveva. Sta di fatto che, fino a Edgar, Stella era vissu-
ta in castità, o quasi. Ora però non se la sentiva di pensare a lui, e lo cacciò
via dalla sua mente.
Uscì dalla vasca e si diede il borotalco davanti al lungo specchio appeso
alla porta.
Caro Nick. Pur non essendo attrezzato per offrire ospitalità e appoggio a
una donna in fuga, faceva del suo meglio. Insistette perché Stella prendes-
se il letto; per lui sarebbe andata benissimo la poltrona. Stella era già in
camicia da notte, e finì per accettare. Giusto il tempo di allungarsi sotto le
lenzuola, e Nick le stava già portando da bere.
«Vuoi mangiare qualcosa?».
«Non ho fame, Nick, grazie».
Stella era dignitosa e garbata, come qualsiasi vera signora in circostanze
analoghe. Quell'uomo debole, disordinato e buono le piaceva. I suoi calzo-
ni perennemente macchiati l'avevano sempre fatta sorridere. Una volta,
scherzando, lei e Edgar gli avevano detto che avrebbe dovuto farci su una
mostra, in fondo erano opere d'arte. Il povero Nick ci aveva riso, ma il
giorno dopo si era presentato con un paio pulito, che tuttavia non era rima-
sto tale a lungo. Ora sedeva, sul bordo della poltrona, chino in avanti, stro-
finandosi le grandi mani e raccontandole timidamente dell'enorme sollievo
che aveva provato qualche ora prima sentendo la sua voce al telefono.
«Sai, lo conoscevo già quando si è messo in testa quelle idee su Ruth»
disse.
«Oh, Ruth» fece Stella. Non aveva nessuna voglia di parlarne. Poi le
venne in mente una cosa.
«Nick» disse.
«Sì?».
«Edgar è mai stato qui?».
Nick, terreo, rispose di sì.
Stella non riusciva a dormire, e nemmeno Nick. Stravaccato sulla pol-
trona, con una coperta buttata addosso, continuava a rigirarsi cercando una
posizione comoda; a un certo punto lei si chiese se non fosse il caso di
prenderselo a letto. Più tardi Stella andò fino alla finestra e scostò la tenda
di qualche centimetro. La pioggia cadeva molto forte, tagliando di sbieco il
fascio di luce dei lampioni. La stradina davanti a casa era lucida e deserta.
Che cosa si aspettava, di vedere Edgar in piedi sotto il lampione, nella
pioggia, a guardare la finestra?
Qualche istante dopo sentì Nick che cercava di prendere le sigarette sen-
za farsi sentire. Poi ci fu il bagliore del fiammifero.
«Non riesco a dormire» disse Stella nel buio.
«Neanch'io».
«Nick».
«Cosa?».
«Verrà, non è vero?».
«Non lo so».
«Ho paura».
Nick andò a sedersi sul bordo del letto e le prese la mano.
«Non è per lui» disse Stella. «È perché è malato. Tu lo sai che può esse-
re diverso, vero?».
Nick non disse nulla. Le stringeva forte la mano, e Stella si rese conto
che era eccitato. Non aveva mai immaginato che Nick potesse desiderarla,
ma forse Edgar sì, e forse da lì era cominciato tutto. Forse era colpa di
Nick.
«La porta è chiusa a chiave» disse Nick.
Stella ricambiò la sua stretta, e un attimo dopo si lasciò baciare. Poi
Nick infilò le mani sotto la coperta e provò a toccarle il seno.
«No, Nick».
«Scusa».
Nick tornò in poltrona.
«Ora cerca di dormire» disse Stella.

Edgar arrivò all'alba. A svegliarli fu il rumore della maniglia che girava.


Non scoprirono mai come avesse fatto ad arrivare fin lì, visto che anche il
portone sulla strada era chiuso a chiave. Si ritrovarono seduti a fissare i-
norriditi la porta.
«Nick, apri».
Quella voce attutita li terrorizzava. Non era lui, era sempre l'altro, con
quello strano accento posticcio. Nick fissava Stella con uno sguardo spiri-
tato, scuotendo la testa. Anche al buio Stella gli vedeva il terrore sul viso.
«Apri la porta, Nick. Avanti, bello, mi hai riconosciuto, no? Non voglio
farti niente di male».
Silenzio. Erano assolutamente immobili. Non vorrà farsi sentire da tutti,
pensò Stella. Non oserà sfondare la porta, sarebbe la sua fine. A meno che
non gliene importi più nulla.
«Lei è lì, vero? È lì?».
Nick non sapeva cosa fare. Era paralizzato. Stella lo fissava facendo
cenno di no con la testa. Non doveva mettersi a parlare con lui, nemmeno
attraverso la porta. Nick scrollava le spalle come un bambinetto impaurito.
Stella attraversò la stanza con un dito sulle labbra, andò a sedersi su un
bracciolo della poltrona e gli appoggiò una mano sulla bocca, mentre con
l'altra gli teneva fermo il polso. Quando lui alzò lo sguardo, gli fece segno
con le labbra di tacere.
«Non è colpa tua, Nick» disse la voce dietro la porta. «Lo so com'è, lei».
Nick sgranò gli occhi. Stella non capiva che intenzioni avesse. Gli tolse
la mano dalla bocca, si chinò su di lui e lo baciò.
«È una donnaccia» fece Edgar.
Nick cercò di girarsi verso la porta, ma Stella lo teneva per i capelli,
continuando a premergli la bocca sulla sua.
«Nick!».
Edgar diede un gran colpo alla porta. Nick schizzò quasi dalla poltrona,
ma Stella lo trattenne cacciandogli la lingua in bocca. Nel tentativo di
mantenersi in equilibrio sul bracciolo la vestaglia le si era aperta sulle
gambe, e Nick ci infilò sotto una mano, toccandole timidamente la coscia.
Adesso da dietro la porta veniva solo silenzio. Edgar doveva essere sgat-
taiolato via per paura che il baccano avesse tirato giù dal letto tutta la casa.
Oppure stava aspettando sul ballatoio. Stella sentì la mano di Nick risalirle
lungo la coscia. La lasciò arrivare fino in fondo. Si stava eccitando anche
lei, e non solo perché Nick la toccava: per la situazione in sé. Ma alla fine
gli tolse la mano, andò alla porta e ci appoggiò sopra l'orecchio. Niente.
Nick, sprofondato in poltrona, era pallidissimo. Stella si spostò alla fine-
stra e sollevò appena la tenda. Vide Edgar uscire allo scoperto e lo seguì
con lo sguardo mentre si allontanava. Anche il suo modo di camminare era
diverso, rispetto a prima: si muoveva a scatti, come se non riuscisse a co-
ordinare i movimenti. Stella dovette fare uno sforzo per non chiamarlo, per
lasciarlo andar via. Aveva smesso di piovere. Si voltò verso la stanza e si
trovò di fronte Nick, prostrato e sconvolto.
«Se n'è andato» disse Stella.
«Devo bere qualcosa».
«Poveraccio. Povero Edgar».

Un'ora dopo uscirono. Sgattaiolarono via da una porta secondaria con


una valigia per uno. In giro non c'era un'anima, la strada era praticamente
deserta. Passarono vicino a due uomini in abito da sera che cercavano un
taxi schiamazzando. Stella era rimasta con un solo paio di scarpe, quelle
coi tacchi alti, e arrancava cercando di tener dietro a Nick, che era ancora
spaventatissimo. Gli lasciò la borsa e si aggrappò al suo braccio. Salirono
su un autobus che andava verso ovest, il più lontano possibile da Sou-
thwark, e sedettero in mezzo a uomini e donne silenziosi, insonnoliti e
troppo presi dai loro giornali e dal loro malumore per fare caso alla donna
con l'impermeabile coperta di lividi e all'uomo alto, malandato e nervoso
che sedeva vicino a lei.
Era una giornata nuvolosa. Brevi raffiche di pioggia spazzavano i fine-
strini dell'autobus. Dopo qualche minuto scesero. Nick disse di sapere do-
v'erano. La guidò in una stradina che sbucava in una piazza fatiscente di
grandi case georgiane con in mezzo un albero e una macchia di erba mar-
rone cinta da uno steccato. La pensione era indistinguibile dagli altri edifi-
ci. Una donna stanca li accompagnò su per due rampe di scale coperte da
una moquette scadente e mostrò loro la stanza. La finestra dava su un alto
muro di mattoni con in cima cocci di bottiglia e su un vicolo ingombro di
bidoni della spazzatura, di corde per il bucato e di gatti.

Stella disse che i due giorni passati con Nick erano stati i più deprimenti.
Le era rimasto impresso solo qualche dettaglio. Nick era una persona piut-
tosto sporca, mangiava nelle scatolette, si puliva le mani sui calzoni. Era
gentile e affettuoso, certo, ma non faceva che fissarla, e non con tenerezza,
ma con bramosia. Stella si chiedeva se sarebbe stato capace di violentarla.
Lei passava ore e ore sul letto matrimoniale sfondato, e la lampadina appe-
sa al soffitto mandava una fioca luce giallastra che imbruttiva tutto, loro
due inclusi. Rimaneva coricata lì a preoccuparsi per Edgar. La sua paura
era che ormai fosse troppo disturbato per non attrarre prima o poi l'atten-
zione su di sé. Temeva che facesse qualche stupidaggine.
E il loro futuro insieme?
Oh, mi disse con un'aria spensierata, di quello non aveva mai dubitato.
Sapeva che il filo non si era spezzato, sentiva che anche nelle sue peggiori
crisi di gelosia Edgar non aveva smesso di amarla, che la sua passione era
solo confusa e deviata, come se fosse stata infilata a forza in qualche oscu-
ro cunicolo da cui era riemersa mostruosa e irriconoscibile. E quel cunico-
lo era la sua malattia. E mi rivelò che proprio durante i due giorni passati
con Nick aveva tentato per la prima volta di seguire quello che chiamava
l'istinto del cuore, cioè di separare, su un piano non intellettuale ma emoti-
vo, l'uomo dalla sua malattia, e si era accorta che sì, ci riusciva. Oh, era fa-
cile, poteva farcela tranquillamente, vedeva Edgar con la testa fra le mani
mentre l'uragano infuriava nella sua povera mente ottenebrata, ma l'uraga-
no e lui erano due cose diverse! Passato l'uragano sarebbe guarito, sarebbe
stato di nuovo lui. Ma nei momenti di pazzia doveva stargli lontano, per il
suo bene; sarebbe tornata da lui più tardi. Decise di credere a tutti i costi
che sarebbe andata così, per quanto impossibile potesse sembrare.

Nick aveva troppa paura per tornare nel sottotetto, o anche solo per usci-
re, e così finirono col passare troppo tempo insieme. Presto Stella diventò
insofferente, ma non aveva più soldi e non sapeva come trovarne. In fondo
al corridoio c'era un bagno, che lei e Nick condividevano con gli altri
clienti del piano. Stella ci passava più tempo possibile, anche solo per
sfuggire a Nick, ai suoi odori, alla sua ansia, alle sue voglie. La casa puz-
zava di cavolo bollito, e a quanto pareva ospitava solo esseri grigi e sciatti,
che quando la incrociavano in corridoio o per le scale evitavano il suo
sguardo.
Alla fine Stella non ce l'aveva fatta più. E se l'era presa con Nick. La
mattina del terzo giorno, dopo un'ennesima notte agitata e infelice, Stella
ci era andata a letto. Era stato un momento di debolezza, o forse era solo
stufa di vederselo ronzare intorno con la lingua di fuori. Era rimasta prati-
camente immobile, anche perché era un po' indolenzita. C'era stato un solo
aspetto positivo, che mentre Nick si dava macchinosamente da fare per
raggiungere l'orgasmo Stella, all'improvviso, si ricordò come fosse fare
l'amore con Edgar. E così, nella sua lancinante degradazione, ritrovò l'im-
magine del suo amante.
Una volta finito, Nick commise l'errore di mostrarsi pateticamente com-
piaciuto, e fu questo a far scattare la molla. Stella gli si rivoltò contro, lo
prese ferocemente in giro, gli disse che era un debole, che non sapeva cosa
farsene di un uomo così moscio, e quando Nick provò a dire che le voleva
bene e la voleva aiutare lo mandò all'inferno. Poi andò in bagno, tornò e si
vestì davanti a lui, provocandolo apertamente; quindi uscì senza dirgli do-
ve stava andando, perché non lo sapeva nemmeno lei. Lo lasciò a leccarsi
le ferite, come un cane bastonato.
Vagabondò per le strade, una donna triste e stordita, con l'impermeabile
aperto e una sigaretta tra le dita. Non le importava dell'effetto che poteva
fare. Una donna triste alla deriva per strade tristi, incorporea, irreale, forse
solo un fantasma. Alla fine prese una decisione.
D'improvviso, mi disse, le parve assurdo continuare a nascondersi, e non
dalle autorità dell'ospedale, ma da Edgar! Prese un autobus che la portò a
Blackfriars, da dove raggiunse Horsey Street a piedi, sotto la pioggia. In
strada i soliti ragazzini giocavano a pallone contro il muro, ma al suo pas-
saggio si fermarono. La guardarono infilarsi nel vicolo che portava al cor-
tile, e quella loro attenzione silenziosa ebbe un effetto tutt'altro che tran-
quillizzante. Il suo terrore era quasi fisico, adesso. Aveva la nausea. Conti-
nuava a inciampare, e pensò che non ce l'avrebbe fatta a proseguire.
Entrò nell'andito. Anziché riprendere il gioco, i ragazzini l'avevano se-
guita fino al cortile, e adesso se ne stavano lì a guardarla in silenzio. Presto
Stella capì perché. La porta in cima alle scale era aperta, e nel sottotetto
c'era qualcuno. Stella tornò immediatamente indietro, ma ormai l'avevano
vista. Continuò a scendere anche quando una voce la chiamò. Un uomo la
rincorse, raggiungendola a metà delle scale. Solo un momento, prego, dis-
se appoggiandole una mano sulla spalla. Lei si voltò, e l'altro la riconobbe.
Cristo, disse, è Mrs Raphael. Lei è Stella Raphael. Stella lo guardò. Non
l'aveva mai visto. Lui cominciò a chiamare gli altri uomini. In un attimo ne
arrivarono due, entrambi sorpresi quanto il primo. La riportarono nel sotto-
tetto. Edgar non c'era, e a quanto pareva non sapevano dove fosse. Vole-
vano farle qualche domanda, dissero. Se non le dispiaceva.

IX

Dopo questa svolta drammatica Stella rientra nel mio campo visivo, ri-
torna a fuoco; il mio resoconto si basa quindi di nuovo sull'osservazione
diretta, e su quello che lei stessa mi dice. Ad esempio di essere grata ai po-
liziotti per averla trattata con una certa umanità. Personalmente, ritengo si
sia trattato, più che altro, di stupore. L'ultima cosa che si aspettavano era di
vedersela cadere fra le braccia in quel modo, tant'è vero che le chiesero so-
lo se sapesse dov'era Edgar, rinviando a più tardi l'interrogatorio vero e
proprio.
Gli eventi delle ore successive sono nella sua memoria qualcosa fra l'al-
lucinazione e l'incubo. Stella ricorda un locale nella stazione di polizia, e
una donna in uniforme che le offre un tè. Dopo circa un'ora era arrivato
Max. Evidentemente anche lui, come la polizia, aveva scelto un approccio
morbido: Stella la vittima, sedotta e abbandonata, una povera donna cor-
rotta da un uomo diabolico, che dopo averla manipolata e irretita si è sba-
razzato di lei. Vedendo Max entrare Stella aveva cercato di controllarsi,
ma le sarebbero servite energie che non aveva più: prima che lui avesse il
tempo di aprir bocca si era ritrovata fra le sue braccia, avvinghiata dispera-
tamente a lui. Negli ultimi giorni si era sentita troppo debole, e sola, e di-
sperata. Max le aveva fatto qualche carezza - da medico, da psichiatra,
Stella se ne rendeva perfettamente conto, ma non le importava, anzi, era
proprio ciò di cui aveva bisogno. Solo qualche tempo dopo il medico a-
vrebbe lentamente ceduto il passo al marito, e per Stella sarebbe iniziato
un altro incubo.
Si era concessa di crollare. Era diventata docile e remissiva come una
bambina, o una malata. Aveva risposto alle domande sempre gentili dei
poliziotti. Vedeva le loro espressioni preoccupate, li sentiva scambiarsi pa-
reri a bassa voce, ma non tentava nemmeno di capire, o di avere una parte
attiva in ciò che stava accadendo. Voleva solo che qualcuno si occupasse
di lei. Non chiedeva altro.
Passò la notte in cella. I poliziotti sembravano quasi contriti, ma a Stella
importava solo dormire, e loro le avevano promesso una pillola. La stanza
era spoglia, e le lenzuola pulite. Stella inghiottì la pillola e chiuse gli occhi.
Non riusciva più a pensare né a sentire nulla. Fece un lungo sonno profon-
do, e il mattino dopo l'unico sogno di cui conservasse traccia riguardava
l'orto e la serra, ma non riusciva a ricordare altro.

A poco a poco il senso di stordimento svanì. Il giorno dopo dovette sot-


toporsi a un lungo interrogatorio. Il poliziotto, disse, era molto corretto,
anche se un po' brusco. Gli occhi di Stella vagavano per l'ufficio. Le pareti
erano di un verdino lucido fino all'altezza della spalla, e da lì in su color
crema. C'erano due grandi finestre ad arco polverose, diversi archivi di
metallo, una carta topografica piena di puntine colorate e un grande orolo-
gio sopra la porta. Il poliziotto le chiese dove avesse vissuto con Edgar
Stark, che cosa avessero fatto insieme, chi avessero visto. Stella gli disse
tutto quello che riusciva a ricordare, anche perché ormai non vedeva come
potesse nuocere a Edgar, ma non riuscì a fare un solo nome. Il poliziotto
annuì, prese qualche appunto, e soprattutto la aiutò a ricostruire i fatti nella
loro concatenazione, a partire dalla prima volta che era stata in Horsey
Street. Stella gli fornì la propria versione senza preoccuparsi delle reazioni
che suscitava. Sorvolò sulle crisi di gelosia, e nei limiti del possibile cercò
di lasciar fuori Nick. C'erano parti del racconto che al poliziotto sembrava-
no interessare più di altre, ma Stella non capiva perché, né si sforzava di
capirlo. Era finita, tutto qui, e per certi versi si sentiva sollevata e svuotata,
anche se cominciava a intravedere, come attraverso una nebbia, la morsa
lacerante del rimpianto per ciò che aveva perduto, e a intuire vagamente
che cosa la aspettasse. Si stava preparando per le tenebre.
Il giorno dopo Max la riportò a casa. La Jaguar bianca aspettava nel cor-
tile della stazione di polizia. Mentre Max le apriva la portiera Stella solle-
vò lo sguardo e vide le sbarre della cella dove aveva passato le ultime due
notti. Poi la macchina uscì silenziosamente dal cortile confondendosi nelle
luci del traffico londinese. Da quando l'avevano presa era la prima volta
che Stella si ritrovava a tu per tu con Max.
«Hai l'aria stanca» buttò lì.
Max non rispose subito. Fumava, tenendo gli occhi fissi davanti a sé.
«Ieri sera ho telefonato a Jack. Siamo tutti e due convinti che la polizia
archivierà il caso».
«Quale caso?».
Max si voltò un attimo a guardarla. Stella era raggomitolata sul sedile,
avvolta nel cappotto che le aveva prestato lui. Sentendosi osservata, si girò
a sua volta. Gli occhi di Max tornarono a fissarsi sulla strada.
«Nel caso tu non ne sia al corrente, quello che hai fatto è un crimine».
Il suo tono di voce non le piaceva, e quello che diceva non le interessa-
va. Non gli rispose neanche. Adesso fissavano tutti e due la strada.
«Uno scandalo non serve a nessuno» disse Max.
Stella rimase in silenzio.
«Non dirmi grazie, per carità» aggiunse lui.
Davanti a loro un camion cambiò corsia e Max dovette frenare brusca-
mente. Poi si concentrò sul sorpasso, e quando riprese un'andatura normale
sembrava aver dimenticato le sue pretese di gratitudine. Ma Stella no. Ora
che era tutto finito, capiva di avere davanti a sé trattative complesse e deli-
cate. Sempre che fosse tutto finito. In apparenza il comportamento di Max
era molto nobile. Aveva fatto in modo che la polizia non andasse a fondo.
Era al suo fianco. Ma tutto questo avrebbe avuto un prezzo. La gratitudine
era solo un anticipo.

Parlai con Stella un freddo mattino di fine ottobre. Ricordo ancora i ba-
tuffoli di bruma fra i rami. Passeggiavamo nell'orto, dove era cominciato
tutto. Gli uomini stavano bruciando foglie secche, e c'era odore di falò.
Stella mi disse che le dispiaceva non vedere un'altra primavera e un'altra
estate nel giardino. La trovavo molto cambiata. Era più pallida, più lenta,
più pesante; adesso in lei c'era una specie di strana gravita. I meli erano ca-
richi di frutti, e il terreno tutto intorno era cosparso di morbide sferette
spugnose, verdi o gialle, picchiettate di puntolini scuri. Mentre avanzava-
mo cercando di evitarle, Stella mi prese sottobraccio. In seguito mi confes-
sò che ero il suo primo e unico visitatore. Gli altri le facevano tutt'al più un
cenno di saluto, ma non riuscivano a guardarla negli occhi: evidentemente
offendeva il loro senso del decoro. Questo valeva per tutti, anche per gli
Straffen, che sembravano svaniti nel nulla. E lei supponeva che anche il
suo vecchio amico Peter Cleave fosse dalla loro parte.
«Insomma, come stai, mia cara?» le chiesi.
«Be', Peter,» rispose «ho passato periodi migliori. È davvero molto cari-
no da parte tua venirmi a trovare. Ti pensavo a fischiare con gli altri».
«Io?» le dissi. «Io fischiare te? Non prendo le mie amicizie tanto alla
leggera».
«Dovevo immaginarlo».
«E in ogni caso io sono un medico, non ho nulla da rimproverare a chi si
ammala. E come potrei rimproverare a te di esserti innamorata?».
«Gli altri ci riescono benissimo».
«Ah, ma perché per loro è stato un trauma. Se ci pensi, quand'è che co-
minciamo a fare delle distinzioni tra quel che è giusto e quel che è sbaglia-
to? Quando qualcosa ci ferisce o minaccia di farlo».
«Funziona così?».
«Almeno credo. Non sei d'accordo?».
Arrivati alla panchina vicino alla serra ci mettemmo a sedere. Stella ro-
vesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.
«Non lo so, sono troppo stanca per pensare».
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. In seguito Stella mi disse
com'era stato meraviglioso anche solo sentire qualcuno vicino; e che fino a
quel momento non si era resa conto di quanto le fosse mancato.
«Come vanno le cose con Charlie?» le chiesi tranquillamente.
Stella aprì gli occhi.
«Caro Peter» mormorò. Mi era grata per il mio tatto, perché non le ave-
vo chiesto come andava con Max; avevo individuato, mi rivelò in seguito,
quale fosse l'unico rapporto che davvero contava per lei.
«Lo sto riconquistando. Ha bisogno di volermi bene».
«Mi mancherai» le dissi.
«Così hai sentito?».
«Di Cledwyn? Sì».
«Conosci il posto?».
«Ci sono stato una volta, a trovare un paziente. È tutto pecore e trattori.
Temo che non ti piacerà».
Stella sorrise.
«Pecore e trattori. Farò la donna di campagna. E nessuno saprà del mio
sordido passato».
Prima di alzarmi per andarmene le dissi quello che ero venuto a dirle, e
cioè quanto sollievo mi dava vederla uscita indenne da quella storia.
«Tu questo non puoi saperlo».
«Ma sei tutta intera, mi sembra».
Stella si portò una mano al petto.
«Non qui».
«Lì guarirai» le dissi.
«Torna a trovarmi, ti prego. Sei l'unico amico che ho».
Promisi di farlo. Al momento dei saluti Stella mi chiese, facendo finta di
niente, se sapevo dove fosse Edgar.
Le risposi di no.
In seguito mi disse di essersi sentita più serena, dopo la mia visita. Per
un po' le tenebre parvero diradarsi. Decise di appoggiarsi il più possibile a
me, prima della partenza per il Galles. Lo avrebbe preso come un esercizio
spirituale, per prepararsi a ciò che la aspettava.

Nei giorni successivi andai spesso a trovarla, e Stella mi parlò in modo


molto esplicito dei rapporti con suo marito. A quanto pareva, Max provava
una specie di sinistro compiacimento nel vederla subire il contraccolpo del
suo adulterio, e il sottinteso costante di ogni sua parola e di ogni suo gesto
era più o meno lo stesso: te la sei cercata, è colpa tua. Ma va' all'inferno,
pensava Stella, posso sopportare tutto, tutto tranne la tua finta calma, e lo
so benissimo cosa nascondi dietro quella maschera asettica che porti: la tua
mefitica superiorità morale. Max voleva fare il magnanimo davanti agli al-
tri, ma a lei non avrebbe mai concesso di dimenticare che l'aveva ferito, o
meglio, che l'aveva umiliato, davanti a tutti; avrebbe scelto lui dove e
quando colpire. Secondo Stella, Max dava per scontato che una donna così
enormemente in torto non avrebbe mai avuto il coraggio di ribellarsi alle
sue velenose punzecchiature. La vedremo, pensava Stella, preparandosi al
peggio con animo di sfida.
Com'era stato il ritorno a casa?
Oh, disse Stella con un brivido, di colpo le stesse stanze in cui era tran-
quillamente vissuta fino a qualche settimana prima le erano sembrate an-
guste, sembravano celle, peggio di quelle della polizia da cui era appena
uscita. Duro e asciutto come sempre, Max aveva pronunciato tre parole in
tutto, «Eccoci a casa», dirigendosi subito verso il mobile bar. Stella era ri-
masta in silenzio, ma per una ragione diversa: sentiva la morsa delle tene-
bre che la stringeva alla gola.
In casa, quella sera, c'era uno strano silenzio. L'estate era finita da un
pezzo, e il tempo era umido e nebbioso. Max e Stella si aggiravano per le
stanze improvvisamente troppo grandi come due estranei in un albergo
vuoto. Max aspettava a dare inizio alle rappresaglie, ma secondo Stella era
perché l'enormità della sua colpa lo metteva in soggezione. Che nonostante
il peso del suo peccato lei riuscisse ancora a mangiare, a bere, o a entrare
in una stanza lo lasciava stupefatto, e in un certo senso anche ammirato.
Non riusciva a capacitarsi di non vederla strisciare, piangere e strapparsi i
capelli implorando il suo perdono. Meno Stella sembrava vergognarsi di
ciò che aveva fatto, più appariva svergognata agli occhi di Max; e più lo
inorridiva il piacere inconfessabile che egli stesso in realtà traeva da quel
sordido gioco delle parti. Era una sera decisamente fredda, ma Stella si
portò da bere sul prato e rimase in piedi a fissare il buio. Alle sue spalle
sentiva Max muoversi per casa. Era quasi l'ora della buona notte.
Stella si fece il letto nella stanza degli ospiti. Era sicura che Max lo a-
vrebbe preso per un atto di riguardo, che lo sollevava dall'imbarazzante ri-
fiuto di dormire con lei. Invece era una decisione tutta sua; se avesse volu-
to dormire nel suo letto l'avrebbe fatto e basta. Non aveva paura di lui, e
non gli avrebbe certo tolto le castagne dal fuoco. Se voleva punirla, che si
arrangiasse da solo. Come? Era un problema suo, non la riguardava. Stella
sentì il terreno tremarle sotto i piedi, e l'abisso che cominciava a spalancar-
si.

Per qualche giorno tutto sembrò intriso di un solenne, pesante formali-


smo. Stella ricorda di aver trascorso un lungo pomeriggio di pioggia prima
nella vasca con un gin tonic, poi vagando da una stanza all'altra senza far
niente, senza annoiarsi, solo inerte, passiva. Era entrata nella stanza di
Charlie e si era buttata sul letto. Probabilmente si era addormentata, perché
tornando dal lavoro Max l'aveva trovata ancora lì. Era nervoso, come al so-
lito, ma c'era qualcos'altro: stavolta il motivo dell'ansia che Stella percepi-
va non era lei.
«Cosa c'è?» gli chiese. «È successo qualcosa a Charlie?».
Max era appoggiato contro lo stipite. Tirò fuori le sigarette, guardando
ostentatamente da un'altra parte.
«Sei sicura che ti interessi?».
«Certo che mi interessa. Dimmi».
Era seduta sul bordo del letto. Max si accese una sigaretta, piegò la testa
all'indietro e soffiò il fumo verso il soffitto.
«Mi hai rovinato».
«Cosa intendi?».
«Jack mi ha buttato fuori».
Stella non sapeva cosa dire.
«Oh, ma non può!».
Max si strofinò la faccia e mandò un sospiro.
«Non ti interessa sapere perché sono diventato una persona non grata?
O, se preferisci, un medico che non offre molte garanzie, da quando sua
moglie è fuggita con un paziente».
Nella sua voce, all'improvviso, c'era la collera.
«Cosa farai?» gli chiese.
Max aspettò prima di rispondere. Stava di nuovo covando in silenzio.
«Jack è convinto che la mia presenza comprometterebbe la missione del-
l'ospedale».
Stella sbadigliò.
«Che trombone» disse.
Max scosse la testa, poi scese di sotto. Stella lo sentì entrare in studio,
dove rimase chiuso per il resto della sera, e dov'era ancora quando lei andò
a dormire. Si sentiva terribilmente stanca.

Il mattino dopo telefonò a Charlie. Stava da Brenda e non si erano anco-


ra visti, ma lo aveva chiamato tutti i giorni. Aveva sofferto, certo che ave-
va sofferto; lei era sparita nel nulla senza prepararlo, mi disse, e natural-
mente si era sentito abbandonato. Secondo Stella si era addirittura attribui-
to tutta la colpa, almeno fino a quando Brenda e Max non gli avevano
spiegato che non doveva tormentarsi, che non era lui il responsabile della
sua infelicità, ma lei, soltanto lei. Eppure Stella era sicura che Charlie vo-
lesse tornare a casa. Aveva bisogno di voler bene a sua madre, e di sentire
che anche lei gliene voleva. Ma Brenda faceva il possibile per impedirlo.
«Non è in casa» le disse. Stella sapeva che non era vero.
«Fammici parlare, Brenda».
«Ieri sera era molto agitato. Credo che dovresti dargli il tempo di capire
un po' alla volta».
«Passamelo, per favore».
«Hai pensato cosa è meglio per lui?».
«Per favore, non ti intromettere. Lasciamici parlare».
Qualche attimo di silenzio, poi Charlie venne all'apparecchio.
«Mami?».
«Ciao, tesoro. Cosa fai?».
«Oh, ho fatto un sacco di gite. Adesso però voglio tornare a casa».

Nel pomeriggio andò con Max alla stazione. Durante il tragitto rimasero
in silenzio. Stella era sicura che lui volesse il divorzio, ma non ne aveva
ancora parlato, e non sarebbe stata certo lei ad affrontare l'argomento. A-
veva avuto abbastanza traumi, ora le servivano solo un rifugio e un po' di
tempo: per riprendersi dallo stato di shock, innanzitutto, e poi per affronta-
re il dolore della perdita di Edgar.
Charlie scese dal treno nervosissimo, ma quando si ritrovarono tutti e
quattro sulla banchina (era venuta anche Brenda), e Stella si accovacciò e
gli prese le mani, si buttò fra le sue braccia, e la baciò sulla bocca. Stella
colse l'occhiata che Brenda gettava a Max, e l'inarcarsi di un sottile so-
pracciglio depilato.
La macchina era posteggiata subito fuori dalla stazione. Charlie e sua
madre si avviarono tenendosi per mano, seguiti da Max e Brenda. Stella
disse che si era sentita sollevata da un grosso peso. Le sembrava che se lei
e Charlie avessero ritrovato l'armonia di prima si poteva recuperare almeno
una parvenza di vita normale. Max avrebbe continuato a bollire nel suo
brodo, e Brenda avrebbe sicuramente detto ai suoi amici di Knightsbridge
che suo figlio aveva sposato una troia, ma nulla di tutto questo la toccava,
nulla aveva la minima importanza.
Mentre Max offriva da bere a sua madre in soggiorno, Stella accompa-
gnò Charlie in camera.
«Sono proprio felice che tu sia tornato a casa» gli disse appendendogli i
vestiti mentre lui si preparava per andare a dormire.
«Adesso torni a Londra?».
«No, non andrò mai più via. Mi dispiace tanto. Mi perdoni?».
Si sedette sul letto. Charlie finì di abbottonarsi il pigiama, poi la baciò di
nuovo. Stella lo abbracciò, stringendo forte a sé il suo corpiciattolo paffuto
e chiedendosi come avesse potuto abbandonarlo. Poi gli disse quanto le
fosse mancato, e scoppiò a piangere. Charlie la consolò, comportandosi da
vero cavaliere: rimase ad ascoltarla parlare dei suoi rimorsi accarezzandole
i capelli e ripetendole solennemente che ormai era tutto a posto, e quindi
non c'era nessun bisogno di piangere, per favore.

Quella notte Stella si sentì sommergere dai ricordi di Edgar. Ma perché


proprio quella notte? Perché la crosta ovattata che le ricopriva il cuore a-
spettò proprio quella notte per spezzarsi? Secondo Stella, perché Charlie
era tornato, e amare lui aveva risvegliato quell'altro, più grande amore, di
cui aveva subito sentito la mancanza e il desiderio. Dopo cena era salita
nella stanza degli ospiti, la sua stanza, lasciando Max a occuparsi di offrire
il caffè a Brenda e di riaccompagnarla alla stazione. La cena - prosciutto e
patate lesse - era stata consumata con tetra compitezza. Per lunghi tratti, a
spezzare una tensione quasi palpabile e che nessuno si sentiva di affronta-
re, c'era stato solo il tintinnio delle posate (a parte le banalità che Brenda
ogni tanto sussurrava, ma con le quali era difficilissimo imbastire una con-
versazione, perché presupponevano che loro tre sarebbero rimasti a vivere
lì). Max non le aveva detto di aver perduto il posto. Troppo imbarazzante,
immaginava Stella. Per lei, comunque, andava benissimo così: Brenda le
avrebbe sicuramente dato addosso, l'avrebbe considerata una volta per tutte
la rovina di suo figlio, e Stella proprio non se la sentiva di affrontare anche
questo. Insomma eccola lì, l'allegra famigliola riunita in una fredda serata
d'autunno, e meno male che alle chiacchiere pensava Brenda, altrimenti il
silenzio in agguato negli angoli della stanza li avrebbe fatti a pezzi. Stella
rimase a tavola il minimo indispensabile, poi scappò di sopra. Per la cena
non ci fu neanche un grazie, né da Max né da sua madre.
Entrò un attimo da Charlie, che dormiva, poi si buttò sul letto, lascian-
dosi sommergere da un'ondata di dolore e di pianto che la lasciò prostrata.
Più tardi si mise alla finestra, con un cardigan sulle spalle, e si consolò ri-
pensando alle notti di Londra e a quanto viva si fosse sentita, pazza d'amo-
re per quel povero malato e per la loro vita insieme in quelle poche, splen-
dide settimane prima della catastrofe. Dov'era, dov'era Edgar? Le bastava
pensare a lui per vederlo come se lo avesse davanti agli occhi; non era né
facile né indolore, ma per nulla al mondo lo avrebbe lasciato andare. Capì
allora che non sarebbe finita tanto presto. Sentì Max e Brenda uscire di ca-
sa, e subito dopo il rumore della macchina che partiva. Dopo un po' lo sen-
tì rientrare, spegnere le luci e salire di sopra. Si era fermato in corridoio;
grazie al cielo non aveva bussato alla sua porta.
Il mattino dopo si parlarono. Fu Max a prendere l'iniziativa. Rientrò dal-
l'ospedale a mezzogiorno, e Stella era sola in cucina. Le disse che forse era
il caso di scambiare due parole, in studio da lui, se non le dispiaceva. Stel-
la non poté tirarsi indietro. Max non sembrava in collera, e neanche parti-
colarmente risentito, solo stanco, e preoccupato, e triste. Le faceva quasi
pena. Stella si asciugò le mani su uno strofinaccio e lo seguì in studio.
«Siediti» le disse. «Sto pensando al nostro futuro».
Obbediente, Stella si sedette, pronta ad ascoltare quello che Max aveva
da dirle.
«Ho cominciato a cercare un posto. Ci sono diverse possibilità. Niente di
trascendentale, solo incarichi clinici. Al momento nessuno smania per of-
frirmi un posto di responsabilità. Non sembro la persona più indicata».
La frase fu lasciata sospesa nell'aria per qualche secondo.
«Di tornare a Londra per ora non se ne parla».
Altra pausa. Max fissava Stella con un'espressione fredda e concentrata,
da entomologo. Aspettava una sua reazione.
«Peccato» mormorò Stella.
«Già, peccato».
Max si rabbuiò, armeggiando con fiammiferi e sigarette senza offrirne a
Stella.
«Temo non ci si possa fare nulla. Del resto te la sei voluta».
«Posso avere una sigaretta anch'io, per favore?».
«Certo, scusa».
Per qualche attimo fumarono in silenzio.
«Stella, vorrei sapere se intendi continuare a vivere con me o no. Se hai
altri progetti sono qui per ascoltarli. In ogni caso Charlie rimarrà con me,
non c'è bisogno che te lo dica. Hai altri progetti?».
«Non ho nessun progetto, Max».
«Siamo ancora sposati. Di quello che è successo parleremo quando sarai
pronta per farlo. Non vedo che senso abbia metterti fretta, mi sembri anco-
ra sotto shock. Nel frattempo ti propongo di salvare le apparenze, nei limiti
del possibile».
Stella non disse nulla.
«Penso che potremmo se non altro provare ad avere rapporti civili. Dio
sa se non è già abbastanza dura per me. Mi hai fatto molto male, Stella».
«Nel senso che ti ho fatto fare la figura del cretino».
«No, non in quel senso».
Max si sforzò di contenere l'irritazione.
«Non in quel senso» ripeté. «Ma ne parleremo a suo tempo. Non ora.
Vorrei che tu e io prendessimo alcuni accordi di base. Penso che sia me-
glio se porti le tue cose nella camera degli ospiti. E credo che dovresti con-
tinuare a occuparti della casa, cucinare, fare le pulizie, e così via. Io trove-
rò un posto e mi occuperò del trasloco. Propongo di andare avanti alla
giornata, per un po', e di provare a ricostruire una specie di vita».
Fuori dalla finestra dello studio c'era un albero. Quasi tutte le foglie era-
no cadute ma qualcuna ancora si staccava ogni tanto dai rami.
«Fin qui sei d'accordo?».
«Si».
Max si tolse gli occhiali e si passò la mano sul viso.
«Posso chiederti almeno di fare uno sforzo?».
«Mi occuperò della casa».
«Non intendevo questo. Non importa».
Max diede un'occhiata all'orologio e disse che doveva rientrare in ospe-
dale. Si alzarono insieme, ritrovandosi uno di fronte all'altro al centro della
stanza. Max sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma squillò il tele-
fono e andò a rispondere.
«Pronto?».
Silenzio.
«Pronto?».
Dopo qualche attimo, Max riagganciò.
«Chi era?» chiese Stella.
«Nessuno».
Ma Stella sapeva che era lui.

Tre giorni dopo Max le comunicò di aver fatto domanda per un posto in
un ospedale psichiatrico nel nord del Galles. Disse che glielo avrebbero ti-
rato dietro, sottintendendo che si trattava di una soluzione molto al di sotto
delle sue possibilità. Non ne aveva ancora parlato a sua madre. Stella cercò
di immaginare da dove avrebbe cominciato. Dalla troia che era stata la sua
rovina?

I ricordi di Edgar erano calci nello stomaco, la coglievano sempre alla


sprovvista e la lasciavano boccheggiante. Ma adesso a mitigare il dolore
c'era la convinzione che Edgar stesse cercando di raggiungerla e, a tratti,
sentiva riaffiorare la speranza. Quando Max era a casa, comunque, le riu-
sciva impossibile anche solo darsi un contegno. Secondo Stella lui sapeva
cosa stava succedendo: qualsiasi psichiatra, da una distanza così ravvicina-
ta, sarebbe stato in grado di diagnosticare un cuore infranto. Ma non le
mostrava un briciolo di comprensione, e Stella lo odiava. Lo odiava perché
non era Edgar, eppure era lì con lei, e tanto bastava. Non era giusto, ma
non poteva farci nulla. In alternativa all'odio provava solo indifferenza, un
senso di vuoto, di morte, di freddezza in cui riconosceva una forma di ag-
gressività passiva. Se fosse stata meno esausta non avrebbe tollerato di vi-
vere in quel modo. Ma siccome aveva bisogno di un rifugio, e di Charlie,
finì per trascinarsi un giorno dopo l'altro, mandando più o meno avanti la
casa e aspettando nel più assoluto disinteresse la partenza per il Galles. E
ogni volta che suonava il telefono sentiva un colpo al cuore.
Ma non era mai lui. Il tempo continuava a peggiorare, e la prospettiva
dell'inverno le dava uno strano senso di sollievo. L'unico desiderio che a-
veva era dormire, e per una persona nella sue condizioni l'aria fredda e le
notti sempre più lunghe significavano una cosa soltanto: poter scivolare
dolcemente nel buio. Stella pensava che volendo, avrebbe sempre potuto
risvegliarsi in primavera. Il sonno era una promessa di oblio, e nell'oblio,
se non altro, il fantasma di Edgar avrebbe smesso di perseguitarla. Ma E-
dgar, il vero Edgar, dov'era? Spesso, in quelle umide giornate d'autunno, a
letto o passeggiando in giardino, Stella cercava di immaginarsi la scena del
suo ritorno, o del loro prossimo incontro. Se lo sarebbe semplicemente ri-
trovato davanti, o l'avrebbe mandata a prendere come aveva fatto l'altra
volta? E lei gli avrebbe risposto? Sarebbe corsa di nuovo da lui senza pen-
sarci un minuto? Non lo sapeva. Non lo sapeva.

Ma prima di tutto Stella doveva prepararsi alla tempesta che Brenda a-


vrebbe scatenato appena messa al corrente delle
novità. Max esitava a parlargliene, era evidente, ma non poteva tempo-
reggiare in eterno. Qualche giorno dopo prese la macchina e andò a
Cledwyn, da dove tornò meno abbattuto di quanto Stella si sarebbe aspet-
tata. Disse che c'erano possibilità interessanti. Interessanti in che senso, gli
domandò Stella. Oh, rispose lui, in ospedale. Il direttore è una mia vecchia
conoscenza. Ha qualche buona idea. Vuole fare dei cambiamenti.
«Dove vivremo, Max?».
«Ho pensato che potremmo comprare una fattoria e rimetterla a posto. È
pieno di grandi fattorie di pietra, da quelle parti. Anche piuttosto belle, a
modo loro. Potrebbe essere divertente».
E da quando in qua a Max interessava il divertimento? Magari, chissà, le
ambizioni frustrate lo avevano condotto a sperimentare una nuova filosofia
di vita in cui rientrava anche quello. Be', se davvero il lavoro era meno
grigio del previsto, forse si sarebbe divertito; quanto meno di giorno, in
ospedale. Diverse erano le prospettive dell'intrattenimento serale, fra le
mura domestiche.
«Cos'hai detto?» chiese Max.
«Ho detto, perché no».
Erano in sala da pranzo, dopo cena, e stavano finendo il vino. Charlie
era salito in camera a leggere.
«Quando pensi di dirlo a Brenda?».
Il «perché no» di Stella aveva strappato a Max un sospiro di rassegna-
zione. Avrebbe preteso un minimo di entusiasmo, da parte sua. Anche fin-
to, sarebbe andato bene lo stesso. In fondo lui stava dannandosi per mante-
nere una parvenza di normalità, e non capiva perché Stella, che quella
normalità aveva infranto con tanta violenza, non dovesse fare altrettanto.
Ma sapeva anche che arrabbiarsi con lei non sarebbe servito a niente. Da
qui il sospiro.
«Vado di là e la chiamo» rispose. «Così la facciamo finita».
«Dio, le piglierà un colpo».
«Cercherò di calmarla. La sola idea di noi tre nel Galles le sembrerà rac-
capricciante».
«Non di noi tre. Di te e di Charlie. Che io ci sia o no per lei è identico».
Max non accennò neppure a contraddirla. Prese il suo bicchiere e andò
in studio, chiudendosi la porta alle spalle.
Stella rimase seduta a tavola, nel suo strano torpore, senza la forza di
muoversi. Brenda avrebbe odiato a morte la donna che stava trascinando
suo figlio e suo nipote in esilio. Li stava trascinando a fondo con lei, glieli
stava strappando. Sì, Brenda l'avrebbe odiata come non mai.
Non era andata bene, se ne rese conto vedendo Max uscire dallo studio,
afflosciarsi in poltrona, e, soprattutto riempirsi di nuovo il bicchiere.
«Non compreremo nessuna fattoria» disse. Non riusciva a guardarla in
faccia.
«Come?».
«Se andiamo a Cledwyn non vedremo più un soldo da lei».
«E il tuo stipendio?».
«Col mio stipendio non potremo certo permetterci la vita che facciamo
qui. In un buco come quello, uno psichiatra qualsiasi...».
Max era impietrito alla prospettiva della loro imminente povertà. A Stel-
la invece non faceva né caldo né freddo, come tutto il resto. Poi, di colpo,
le venne in mente una cosa.
«Scusa, Max,» disse «ma se divorziassimo? Voglio dire, se tu e Charlie
andaste a Cledwyn senza di me, anche in quel caso Brenda ti taglierebbe i
fondi?».
Max non rispose. Il suo silenzio equivaleva a un no.
«Capisco. Ti ha messo di fronte a un aut aut. O ti sbarazzi di me o niente
soldi».
Max continuava a tacere.
«O me o lei, Max» disse Stella. «Sta a te scegliere».
Povero Max, pensò suo malgrado. Sua madre lo aveva messo in una
gran brutta posizione. Solo in apparenza, però, perché in realtà Max non
aveva scelta. Ormai aveva deciso di fare il bel gesto, e non avrebbe certo
potuto cambiare idea per denaro. Era una questione di principio.
«La macchina possiamo tenerla, spero» disse.
Max allora la guardò. La sua faccia stanca era stravolta dall'amarezza e
dal disgusto.
«Sì, Stella. La macchina possiamo tenerla».
In realtà, a Stella non importava affatto. «Be', è già qualcosa» disse.

Cominciò a preparare i bagagli. Era un lavoro che non le impegnava la


testa, e richiamava l'idea di una famiglia che si sposta in continuazione pur
rimanendo unita. Ma che cosa teneva uniti loro tre, che tipo di futuro pote-
va mai attenderli? Non gliene veniva in mente nessuno, ma sentiva di non
avere alternative. Così imballò stoviglie e porcellane sistemando i pacchet-
ti negli scatoloni, che chiuse col nastro adesivo ed etichettò. La stessa fine
fecero quadri, vestiti e lenzuola. Mrs Bain le diede una mano, mettendo
bene in chiaro che lo faceva per puro senso del dovere, non certo perché le
andava. Stella vuotò le stanze una per una, sistemando le loro cose in sca-
tole, casse, bauli e valigie, e in qualche modo impacchettare la vecchia vita
e spedirla altrove finì col sembrarle la soluzione migliore.
Una mattina, mentre stava ancora trafficando con le casse e il nastro a-
desivo, tornai a trovarla. Mi preparò un tè, poi mi disse che non poteva as-
solutamente smettere di lavorare, era troppo occupata, ma che le avrebbe
fatto piacere se fossi rimasto. Magari potevo accompagnarla in soggiorno e
raccontarle qualcosa, mentre lei avrebbe continuato a impacchettare i libri.
Così me ne stetti per un po' a guardarla, prima di dirle quello che avevo in
mente.
«Stella, Max ti dà qualche medicina?». Mi guardò rimanendo piegata su
una cassa di libri. La domanda l'aveva colta di sorpresa.
«No, certo che no» rispose. «Perché me lo chiedi?».
«Perché penso che tu sia depressa».
«Be', certo che sono depressa. Tu non lo saresti?».
Si raddrizzò, passandosi una mano fra i capelli. Adesso trovava buffo
che me ne stessi lì a fissarla dicendole, con una serietà mortale, delle bana-
lità assolute.
Io non ci trovavo niente da ridere.
«Non sarà facile, per lui, cogliere i segnali» dissi.
«Quali segnali?».
«Qualcuno dovrebbe seguirti. Qualcuno che non sia Max, intendo».
«Cosa stai cercando di dirmi?».
Si sedette sul bordo di una poltrona accendendosi una sigaretta.
«Stella, in questo momento tu sei vulnerabile. Stai per trasferirti in una
regione in cui la gente non va famosa per la sua cordialità con i forestieri,
dove non conosci nessuno, e con un marito che è ancora furioso con te.
Sono preoccupato, Stella».
«Ce la farò» mi rispose tranquilla.
«Lo spero. Vorrei che mi scrivessi».
«D'accordo».
«Regolarmente».
«E va bene, va bene!». Adesso rideva. «Ma davvero il Galles è questo
inferno? Da come ne parli sembra la Siberia».
«Per te sarà proprio questo. Una specie di Siberia».
«Oh, smettila».
Poi, accompagnandomi alla porta, mi fece la solita domanda.
«Nessuna notizia di lui?».
Mi presi un momento prima di risponderle. Stella dava per scontato che
fossimo entrambi in ansia. Frenai l'impulso di dirle che doveva smettere di
pensarci, e mi limitai a scuotere la testa.
«Povero Edgar. Peter, dove vive suo figlio?» mi chiese.
«Suo figlio?».
«Leonard».
«Edgar non ha figli».
«Sì, invece!».
«Stella, Edgar non ha figli. Credi che non lo saprei?».
Stella fece una risatina nervosa.
«Forse non dovremmo parlare di lui, vero?» disse.
Si aggirava per le stanze vuote ripensando agli avvenimenti dell'estate.
Fra meno di una settimana sarebbe stata in Galles, e non avrebbe più rivi-
sto quella casa. Alla fine Max aveva rimediato una sistemazione: avrebbe-
ro preso in affitto parte di una fattoria in cui vivevano anche il proprietario
e sua moglie. Pareva non ci fosse un vero e proprio giardino, ma Max di-
ceva che tutt'intorno era aperta campagna, con prati, boschi, una cava.
Charlie seguiva con molta attenzione, cercando di convincersi che nel
cambio ci avrebbe guadagnato.
Non ci furono cerimonie di commiato. Jack Straffen offrì a Max un bic-
chiere di sherry nel suo studio. C'ero anch'io; si scambiarono qualche ov-
vietà, come che la casa della psichiatria è molto grande e c'è posto per tutti,
poi Jack espresse a Max la sua comprensione, anche se non si capiva bene
che comprensione potesse mai avere per un uomo che voleva il suo posto,
e che senza il fatale sabotaggio di sua moglie sarebbe anche riuscito ad a-
verlo. Ma la domanda che si ponevano tutti era in realtà un'altra, e cioè se
Max non fosse un po' matto anche lui, visto che aveva sposato una donna
capace di fare quel che aveva fatto Stella. Insomma, se era uno di cui ci si
poteva fidare. Io mi sforzavo di non giudicare, ed esortavo gli altri a fare
altrettanto, anche se pensavo, come del resto penso ancora oggi, che Jack
avesse fatto bene a mandarlo via. La nostra è un'istituzione troppo esposta
per affidare un ruolo di responsabilità a un uomo come Max Raphael.
Mi sembra di sentirlo: «Le sono rimasto vicino, nonostante tutto le sono
rimasto vicino».
La mattina della partenza pioveva. I traslocatori erano venuti il giorno
prima a caricare su un grande furgone nero i mobili, poi le casse e infine le
scatole con il loro bel nastro adesivo e le loro belle etichette. Quando ebbe-
ro finito Charlie e Stella li guardarono andar via, mentre Max faceva il giro
della casa per chiudere tutto. Andarono per l'ultima volta fino al Cancello e
consegnarono le chiavi. Poi partirono per il nord.

Il viaggio durò diverse ore. Siccome a Charlie il paesaggio interessava


più che a Stella, si era messo davanti; Max guidava. Almeno ci rimane la
macchina, Stella ricorda di aver pensato; era affezionata a quella macchina
così comoda. A nord di Birmingham le venne un pensiero terribile: come
farà Edgar a trovarmi? Quando verrà a cercarmi, chi gli dirà dove sono an-
data? A chi potrà chiederlo? Guardò fuori dal finestrino cercando di ricac-
ciare indietro le lacrime. Poi colse nel retrovisore il lampo degli occhi di
Max che la fissavano, come sempre, in attesa di un momento di debolezza
come quello, della conferma che lei era ancora da un'altra parte, e niente
affatto pentita. Oh Edgar, pensò, perché mi hai fatto questo, perché mi hai
lasciato qui a torcermi dal dolore sotto lo sguardo di quest'uomo gelido?
Allora era in collera col suo amante, e poteva permetterselo: sapeva che
stava cercando di raggiungerla.
Quando arrivarono era già buio. Avrebbero trascorso la notte in paese;
avevano appuntamento con i traslocatori il mattino dopo davanti a casa.
Max era stanco, e arrabbiato: si era accorto che Stella aveva pianto, e sa-
peva per chi. Si era distratto facendo quattro chiacchiere con Charlie, e do-
po un po' Stella si era messa a seguire la loro conversazione. Quello che si
stavano dicendo la lasciava indifferente, mentre la affascinava, e la inorri-
diva, il modo in cui Max stava modellando i pensieri di Charlie. Gli incul-
cava i propri schemi logici, lo allontanava dalla sua sfera d'influenza; non
sapeva se la ritenesse inadatta come madre o se, come sospettava, seguisse
un impulso più primitivo, quello di punirla. In ogni caso, Stella lo trovava
sgradevole, anche perché Charlie era proprio nell'età in cui si viene pla-
smati come cera dall'impronta di una mente adulta.
Stavano mangiando nel ristorante dell'albergo, e Stella osservava con
calma lo squallore provinciale dell'ambiente. All'improvviso ebbe la cer-
tezza che la casa in cui sarebbero andati ad abitare il giorno dopo fosse or-
renda.
«Max» disse. «È brutta, la casa? La odierò?».
Padre e figlio smisero di parlare e la guardarono. Li aveva interrotti. Be-
ne, pensò. Devo interromperli il più spesso possibile. Non devo permettere
che Max si tenga il bambino tutto per sé. Che gli rubi l'anima.
«Non mi sembra brutta, no» disse Max. «Anzi, è una casa abbastanza
bella».
«Di cosa è fatta?» chiese Charlie.
«Di pietra» rispose Max. «Qui per costruire usano la pietra».
«Chissà com'è fredda» disse Stella a Charlie. «Tu cosa ne pensi, tesoro?
Non pensi che sarà fredda?».
Charlie era indeciso.
«È fredda?» chiese.
«C'è una stufa a legna in soggiorno, caloriferi elettrici, e moquette in tut-
te le stanze, tranne in cucina».
«Non intendevo questo» disse Stella.
«E allora cosa?».
«Intendevo fredda dentro».
Max non disse nulla. Sorseggiava la sua acqua continuando a fissare
Stella con due occhi che dicevano stai attenta, basta così. Charlie guardava
ora l'uno ora l'altro, senza capire.
«Ma noi la scalderemo, vero tesoro?» disse Stella.
«Cosa vuol dire?» chiese Charlie.
«La mamma vuol dire che nella nuova casa saremo felici». Max la guar-
dò. «Non è così?».

Dalla strada la casa si vedeva a un chilometro di distanza. L'ampia valla-


ta era chiusa da lunghe colline basse con file di alberi in cresta. Era una
giornata limpida e ventosa, e Stella non riusciva a scrollarsi di dosso la
paura che l'opprimeva. Banchi di nuvole si inseguivano nel cielo. La stra-
da, stretta e cosparsa di letame, correva fra siepi selvatiche e muri a secco.
A quattro o cinque chilometri dal paese Max indicò a Stella e a Charlie la
fattoria, un massiccio blocco grigio e squadrato che dominava la vallata.
Sembrava una roccaforte costruita per difendere i suoi occupanti, ma da
cosa? Max gettò un'occhiata nel retrovisore.
«Che ne pensi?» disse. «Non la trovi bella?».
Nella sua voce Stella colse una sfumatura di trionfo; sapeva di averla
presa in trappola.
«Non lo so» mormorò lei. Non riusciva a capire se quella grande casa
grigia l'avrebbe protetta o no. Cinque minuti dopo oltrepassarono il cancel-
lo e scesero timidamente dalla macchina. Sulla targa subito fuori c'era
scritto «Plas Mold».
Il camion dei traslochi era già parcheggiato dietro casa, con la ribalta
abbassata e gli uomini tutt'intorno a fumarsi una sigaretta. Uno di loro, un
piccoletto smilzo con una giacca ruvida di tweed, si fece avanti. Per scap-
pare dal vento che tirava, e dalla puzza di letame, Stella tornò in macchina,
e rimase a guardare Max e Charlie stringere la mano all'uomo in giacca di
tweed, che subito dopo tirò fuori un mazzo di chiavi. Poi i tre si diressero
verso la porta sul retro e sparirono dentro. Da qualche parte, dietro la casa,
un cane abbaiava. I traslocatori si arrampicarono sul camion e cominciaro-
no a passarsi le scatole. Qualche minuto dopo Max uscì e si avvicinò alla
macchina.
«Vieni a dare un'occhiata» disse. Sembrava proprio convinto che il posto
le sarebbe piaciuto.
L'uomo in giacca di tweed era il proprietario, Trevor Williams, che vi-
veva nell'altra metà della casa con sua moglie Mair. Non avevano figli.
Williams accompagnò i nuovi inquilini a fare un giro. Era un tipo silenzio-
so, e Stella ebbe la netta sensazione che preferisse avere il meno possibile
a che fare con loro. Il vento ululava intorno alla casa, facendola gemere e
scricchiolare come una nave. La cucina era una lunga stanza al pianterre-
no, identica al soggiorno del piano di sopra, mentre il secondo piano era
diviso in due stanze da letto, con un corridoio e un bagno. Stella capì subi-
to che avrebbe dovuto dormire con Max, e si chiese perché lui non l'avesse
informata. Cosa gli faceva credere che avrebbe accettato? Ma sul momento
non disse nulla, perché Trevor Williams la stava guardando.
Il padrone di Plas Mold non le piaceva affatto. Mi disse che nelle setti-
mane successive avrebbe incontrato diversi personaggi dello stesso genere,
uomini guardinghi, sospettosi, cupi, sfuggenti, che per i Raphael, come per
tutti gli inglesi, covavano un risentimento antico. Quanto alle donne, erano
tutte incattivite dalla fatica. Più tardi Stella incontrò Mair che usciva di ca-
sa con il cesto del bucato. Stava andando a stenderlo sulla corda tesa di
fianco alla casa, dove c'era una macchia d'erba. Mentre Mair faceva avanti
e indietro col cesto, un paio di mollette fra i denti, il bucato sbatteva rumo-
rosamente nel vento. Era magra come suo marito, ma senza quella scintilla
di vitalità furtiva che Stella aveva colto nello sguardo di lui e che testimo-
niava il desiderio di piaceri segreti, anche da poco, purché insaporissero
quell'esistenza scialba. Negli occhi di Mair c'erano solo lavoro, delusione,
rancore e sterilità; non aveva figli. Si presentò, poi le due donne rimasero
in piedi nel vento, Mair aggrappata con tutte e due le mani al suo cesto di
biancheria, mentre gli uomini, ansimando, portavano in casa il letto ma-
trimoniale. Mair chiese a Stella se venissero da Londra, e Stella disse di
no, non da Londra, ma da un posto abbastanza vicino. Ah, disse Mair, e
Stella capì che per il momento il lezzo dello scandalo non era arrivato a
quelle sottili narici arcuate.
«Quanti anni ha suo figlio?» chiese Mair.
«Dieci».
«È piccolo».
«Sì».
Sollevato da un uomo a ogni estremità, il telaio del letto venne fatto pas-
sare attraverso la porta. Stella offrì una sigaretta a Mair, che per prenderla
posò il bucato. Sapeva come si accende una sigaretta nel vento. Non dove-
va avere più di trentacinque o trentasei anni, ma la sua bellezza si era come
prosciugata. Nonostante gli occhi chiarissimi, e la pelle che un tempo era
stata liscia, sembrava senza età e senza sesso, un frutto dimenticato da
tempo immemorabile, e ormai senza più una stilla di succo.
«Vi ha già fatto vedere tutto, vero?» disse.
«Sì».
Mair annuì, raccolse il cesto, e con la sigaretta che le penzolava dalle
labbra, gli occhi socchiusi per il fumo, si trascinò dietro la casa, dove il
cane continuava ad abbaiare. I traslocatori tornarono fuori. Stella non ave-
va ancora affrontato con Max il problema del letto.
Riuscì a farlo solo dopo cena, quando Charlie salì di sopra e loro due
rimasero seduti al tavolo di cucina. Dalla finestra in fondo alla stanza, an-
cora senza tende, si vedevano la vallata buia e il cielo stellato. L'incessante
ruggito del vento non copriva del tutto i rumori del bestiame nei campi sot-
to casa. A molti chilometri di distanza, i fari di una macchina avanzavano
lentamente lungo la strada principale.
«Hai pensato a come fare per la notte?».
Max posò il giornale. Ormai, a meno che con loro non ci fosse anche
Charlie, non facevano più neppure finta di parlare.
«Io con te non dormo» disse Stella. «O trovi una soluzione o ci toccherà
trovare un'altra casa. Così non può andare».
«Non faremo un altro trasloco» rispose Max. Oh, per quanto determinato
fosse a mantenersi calmo e ragionevole, lei riusciva subito a fargli perdere
le staffe. Stella sentì l'irritazione montargli nella voce, il fremito lamentoso
che reprimeva a fatica sentendosi dettare condizioni da lei, lei, che era la
responsabile di quello sfacelo. Max era imprigionato nell'idea dei propri
obblighi morali, ma temo avesse un carattere troppo debole per crederci fi-
no in fondo.
«Perché non vuoi aiutarmi?» disse a denti stretti.
Stella era spietata. Lo odiava solo perché non era Edgar.
«Uno di noi due deve dormire in camera di Charlie» rispose. «Non im-
porta chi».
Max si alzò, andò alla finestra e rimase a guardare fuori, nel buio, con le
mani in tasca e le dita che si contraevano nello sforzo di controllare i nervi.
«Per stanotte dormirò sul divano» disse Stella. «Per me è lo stesso».
«No,» disse Max continuando a darle la schiena «ci dormirò io».
«Perché?».
Si girò. «Perché non mi sembra il caso che Charlie ti veda dormire sul
divano. Veramente non dovrebbe vedere nessuno dei due. Non puoi aspet-
tare finché non faccio portare il letto degli ospiti nella sua stanza?».
«No. Perché non ci hai pensato prima?».
Max si voltò di nuovo verso la finestra. Non voleva dirglielo, perché non
ci aveva pensato. Forse aveva sperato che ricominciassero a dormire in-
sieme. In quel momento Stella si rese conto, con una punta di soddisfazio-
ne, di avere ancora un certo potere: di essere ancora, a dispetto di tutto, più
forte di lui.
Il giorno dopo, quando Trevor Williams passò da loro, Max gli disse che
voleva portar dentro il letto singolo che avevano messo nel fienile. Quando
Stella scese in cucina Williams le gettò una rapida occhiata. Forse non sa-
peva nulla del suo scandaloso passato, ma sullo stato attuale di quel ma-
trimonio doveva aver già tratto le sue conclusioni.

Il lunedì successivo accompagnarono a scuola Charlie, che tornò a casa


piuttosto abbacchiato. Con gli altri bambini non si era trovato. Erano anti-
paticissimi, diceva, e lo trattavano male. Stella passò molto tempo con lui,
a sentirlo raccontare di come a ricreazione se ne fosse rimasto per conto
suo, e in classe non avesse capito niente di quello che bisognava fare. Stel-
la gli disse che tutto si sarebbe risolto, che cominciare da zero in un posto
nuovo non era mai facile, ma visto che gli sarebbe toccato farlo per tutta la
vita tanto valeva imparare subito.
«Ma perché dobbiamo ricominciare da zero?» le chiese Charlie.
«Per via del lavoro di papà».
Dopo averci pensato su, Charlie disse che siccome voleva diventare uno
zoologo, e viaggiare parecchio, la cosa migliore sarebbe stata non sposarsi.
Stella rispose che le sembrava una decisione molto saggia. Il lavoro di
Max si era rivelato meno interessante di quel che lui aveva sperato. Forse
si era illuso, aveva cercato di convincersi che non sarebbe stato un lavoro
come tanti, ma si vedeva che era già stufo, e che della loro nuova situazio-
ne pensava più o meno le stesse cose di Charlie. Non l'avrebbe mai am-
messo, così come non avrebbe mai ammesso l'idea, decisamente troppo
penosa, di essere stato spedito nelle retrovie, dove la sua carriera si sarebbe
arenata mentre i posti che già aveva considerato suoi andavano a colleghi
meno dotati di lui. Max era un ambizioso, e a volte Stella si chiedeva se in
realtà non le rimproverasse più di avergli rovinato la carriera che di esser-
gli stata infedele.
L'inverno arrivava presto nel nord del Galles, ed era molto rigido. Al
mattino, prima di andare in ospedale, Max accompagnava Charlie a scuola,
e Stella rimaneva abbandonata a se stessa. Se voleva la macchina doveva
alzarsi insieme a loro, ma ora restava a letto fino a tardi, visto che di notte
non chiudeva occhio. Pioveva per giorni, e ogni mattina, al risveglio, Stel-
la ritrovava i banchi di nuvoloni grigi che passavano sulla vallata, il pic-
chiettare della pioggia sul tetto, e i latrati del pastore bianco e nero che
Trevor Williams teneva alla catena dall'altra parte della casa, e che lei e
Charlie chiamavano Lo Sgolato. Un giorno erano andati a dargli un'occhia-
ta, e quello gli si era avventato contro: non fosse stato per la catena, li a-
vrebbe sicuramente azzannati alla gola. Charlie era molto turbato, pensava
che tenere un cane legato per tutto il giorno fosse una crudeltà. Cercò di
farci amicizia, ma ogni volta che si avvicinava alla cuccia Lo Sgolato gli si
buttava contro scoprendo le zanne e abbaiando a più non posso. Alla fine,
temendo che prima o poi la catena si spezzasse, decise di lasciarlo perdere.
Per Stella le giornate scivolavano via tutte uguali. Tenere in ordine e cu-
cinare le pesava sempre di più. Stava mettendo su chili, ma non le impor-
tava. Passava moltissimo tempo alla finestra della cucina. Guardava la
pioggia cadere sui campi, e quando si scuoteva dalle sue fantasticherie si
era già dimenticata a cosa stava pensando un attimo prima. Ogni volta che
smetteva di piovere andava a fare due passi. Dal prato dietro casa arrivava
fino in cima alla collina, dove la vista spaziava sulla vallata successiva,
con le fattorie sparse e la cava in lontananza. L'acqua piovana scorreva giù
per i fossi, e al passaggio di Stella le pecore si ammucchiavano belando
dietro le spesse siepi potate. A parte qualche contadino, non incontrava
mai un'anima. Sì, ogni tanto passava Trevor Williams, che andava chissà
dove sulla sua Land Rover arrugginita e incrostata di fango. Le faceva un
cenno di saluto, ma non si fermava mai. Trasportate dal vento, le foglie
cadute si raccoglievano in mucchi fradici lungo i canali di scolo. L'acqua
gocciolava dai rami spogli degli alberi. Una volta Stella era in cima alla
collina, nel vento, lo sguardo a occidente; all'improvviso le nuvole si dira-
darono, e il sole fece una breve apparizione. Quello splendore acquoso le
sembrò un miracolo, una piccola visione celestiale. Portava degli stivali di
gomma che la riempivano di vesciche, e un lungo impermeabile grigio.
Erano settimane che non andava da un parrucchiere, ma non gliene impor-
tava nulla, tanto non vedeva mai nessuno. Cercò di immaginare Edgar lì
nei dintorni, che si avvicinava, che la veniva a prendere.
Il sabato andavano a fare la spesa tutti e tre insieme. Stella detestava i
weekend: la casa le sembrava invasa, le dava fastidio tutto quel rumore, e
di cucinare aveva sempre meno voglia. Ormai si era abituata a mangiare la
prima cosa che le capitava e alle ore più strane; per questo stava ingrassan-
do. Non vedeva l'ora che arrivasse lunedì, quando intorno a sé avrebbe a-
vuto di nuovo il vuoto e il silenzio. Ogni tanto prendeva un tè in cucina
con Mair, che non la disturbava, perché nessuna delle due sentiva il biso-
gno di fare conversazione.
La prima volta che andò a letto con Trevor Williams fu a metà novem-
bre. Non fu Stella a prendere l'iniziativa, non si era mai neppure sognata di
vedere Williams in quella luce. Successe la mattina che Mair partì per an-
dare qualche giorno da sua madre. Stella sfogliava distrattamente una rivi-
sta al tavolo di cucina, davanti a una tazza di tè. Sentendo bussare si affac-
ciò alla finestra del lavandino e lo vide. Benché fosse ancora in vestaglia
aprì, e Williams chiese se poteva entrare un minuto: ricevuto il permesso,
andò dritto alla finestra di fronte e si mise a guardare la vallata. Era uno di
quei giorni in cui sulla campagna regnava un silenzio di morte. Non c'era
una bava di vento, sembrava che gli alberi auscultassero immobili il respi-
ro della terra, o forse l'urlo del sangue, il sangue rappreso dei gallesi morti,
dei figli trucidati di Owen Glendower. A Stella quel silenzio metteva i bri-
vidi, si sentiva minacciata da cose innominabili. Stava davanti ai fornelli a
braccia conserte e guardava Williams.
«Perché è tutto così immobile? Non lo sopporto».
Lui si girò. «Davvero, Stella?».
Era la prima volta che la chiamava così, in realtà, non l'aveva mai chia-
mata in nessun modo. Di colpo capì perché era venuto. Si chiese meccani-
camente cosa fare. Adesso Williams era in piedi di fronte a lei. Stella era
ancora a braccia conserte.
«Sei una gran bella donna» le disse.
La voce di Williams, col suo greve accento gallese, era bassa e roca.
Stella sentì una specie di piccola contrazione, la debole fiammella di un
desiderio indagatore, una reazione così automatica e impercettibile che a-
vrebbe potuto reprimerla in un secondo. Invece aspettò. Lui le disse chiaro
e tondo che cosa aveva voglia di fare. La fiammella si ravvivò, e Williams
se ne accorse. Le sfiorò i capelli, passandole una mano dietro la nuca. Poi
le si avvicinò fino a toccarla, e mentre con l'altra mano le cercava il seno
fece per baciarla. Stella si allontanò leggermente. Aveva sentito una fitta di
calore; ma si rendeva conto di provare solo una blanda, distaccata curiosità
per quell'uomo, quel rozzo contadino che si era presentato nel bel mezzo
del mattino a parlar di sesso.
«Qui da voi si usa così?» domandò Stella.
«Cosa?».
Il pube di lui premeva appena contro il suo. Lei gli appoggiò le mani
sulle spalle come per respingerlo. Williams aveva la pelle sbiancata dal
vento. Gli occhi grigio ardesia erano piccoli e infossati e il fiato sapeva di
tabacco.
«Chiedevo se qui da voi usate così. Entrate e dite subito quello che vole-
te».
Lui non rispose, ma guardandola fissa negli occhi cominciò ad accarez-
zarla nella piega dell'inguine, finché senza neppure volerlo Stella allargò
leggermente le gambe. Lui le infilò le dita sotto la vestaglia; poi premette,
delicatamente. Stella pensò che tutto sommato poteva anche dargli quello
che voleva, perché no? In fondo lui ne aveva una voglia tremenda, e poi le
sembravano secoli dall'ultima volta che si era sentita anche solo lontana-
mente viva da quel punto di vista, e a parte tutto sarebbe stato troppo com-
plicato fermarlo. Come niente l'avrebbe violentata.
«Se vuoi andiamo di sopra» gli disse, e lui le lanciò uno sguardo volpi-
no, come se fosse riuscito a fregarla.
Quando furono in camera Stella si inginocchiò sul letto, aggrappata alla
testiera, e rispose ai colpi di lui con forza, a occhi chiusi, senza pensare a
niente; aprì bocca solo per dirgli che non poteva venirle dentro: da qualche
settimana, convinta che non le sarebbe più servito, aveva buttato via il dia-
framma.
«Non lo fai con Mair?» gli disse dopo, mentre lo guardava rimettersi i
calzoni.
«Non tanto. E tu con lui non lo fai per niente».
Non gli rispose neanche. Lui si mise a sedere sul letto e la studiò con l'a-
ria di uno che calcola le sue entrate. Stella avrebbe giurato di sapere sotto
quale voce compariva sul libro mastro di Williams: donna disponibile a
portata di mano.
«Tipo fortunato, eh? Non credevi che sarebbe stato così facile».
«Me n'ero accorto che ti sentivi sola».
«Io non mi sento sola».
Subito dopo Williams se ne andò. Cercò di prendere degli «accordi», ma
Stella non gli diede retta. Passi il libro mastro, ma l'agenda proprio no. Ora
che aveva appagato la curiosità, provava di nuovo un'assoluta indifferenza;
anche se continuava a meravigliarla che un uomo potesse entrare in pieno
giorno nella cucina di una donna, dirle che cosa voleva fare, e farlo. Ma
forse non c'era niente di così strano.
Max tornò a casa nervoso, come se sapesse di essere stato di nuovo tra-
dito, mentre in realtà era solo irritato dalla questione dei letti. Adesso dor-
miva in camera di Charlie, una sistemazione per lui scomodissima. Sicco-
me nell'armadio non c'era abbastanza posto gli toccava tenere i vestiti in
camera di Stella, che, per non essere svegliata, lo costringeva a prendere
alla sera quello che gli sarebbe servito al mattino. Non aveva neppure un
angolo per lavorare, e non poteva nemmeno sistemare le sue carte sul tavo-
lo del soggiorno, perché la parete della stanza confinava con le scale e ogni
volta che qualcuno saliva al piano di sopra lo disturbava.

Max sentiva di aver subito un torto, e faceva sempre più fatica a nascon-
derlo. A poco a poco, l'equilibrio del loro rapporto cambiò. Libero dai do-
veri che il codice cavalieresco gli imponeva verso la peccatrice, Max sem-
brava preoccuparsi solo di Charlie, e Stella si rendeva conto che prima o
poi non sarebbe stata più al sicuro. Un giorno, forse non domani, certo, ma
un giorno Max l'avrebbe lasciata, portandosi via Charlie: e ora, nell'attesa,
quel simulacro di vita familiare, per quanto superficiale fosse, era l'unica
struttura, l'unica protezione che le rimanesse. La sola idea di perderla a-
vrebbe dovuto terrorizzarla, eppure persino in quel momento, mentre sen-
tiva che stava per sfuggirle di mano, non poteva fingere di provare per
Max altro che indifferenza.
Adesso Max si comportava come se avesse messo da parte gli obblighi
morali e anteponesse a tutto le proprie esigenze. Stella lo sorvegliava con
una certa apprensione: lui non la degnava di uno sguardo, ai suoi occhi era
come trasparente. Se poteva farne a meno non le rivolgeva neanche più la
parola. Aveva smesso persino di avercela con lei. Era solo stanco, im-
paziente, irritabile, distratto. Si era arreso.
Per cambiare le cose Stella avrebbe dovuto fare uno sforzo, ma non ci
riusciva. Viveva in una specie di nebbia, e le persone intorno a lei erano
solo buie figure spettrali, fantasmi privi di una vera sostanza. Né lei sem-
brava averne ai loro occhi. Qualche giorno dopo Trevor Williams tornò a
trovarla. Stella gli cedette come la prima volta, perché almeno con lui si
sentiva viva a metà, e il sesso la calmava, le faceva venire sonno, e per un
po' metteva a tacere la sua ansia.
Mair doveva aver intuito qualcosa. Conosceva abbastanza suo marito per
sapere che una donna infelice sotto lo stesso tetto non gli sarebbe sfuggita
a lungo. Ma non sembrava importarle granché. Veniva a trovare Stella co-
me al solito, e come al solito sedevano davanti a una tazza di tè senza qua-
si parlare. A Stella era tutto sommato indifferente chi venisse dei due: sia
lui che lei, ciascuno a suo modo, la aiutavano a sollevare, almeno per un
po', la spessa coltre che soffocava il mondo, e scoloriva e offuscava tutto.
Ogni volta che smetteva di piovere Stella, sempre con gli stivali di gomma
e l'impermeabile, saliva su per la collina dietro casa, perché si era affezio-
nata a quei sentieri solitari e ai fitti cespugli, e alle pecore, e agli alberi
spogli e sgocciolanti, e ai muri di pietra coperti di licheni verde pallido e di
piccoli, delicati funghi bianchi. Era tutto così bagnato! Nei rigagnoli ai
bordi del sentiero l'acqua scorreva a valle sulle pietre, e quando un attimo
prima di raggiungere la cima, si voltava a guardare la vallata sotto di lei
vedeva i campi di stoppie, dove le strisce di acqua piovana luccicavano
come vetro nei solchi dell'aratura. Allora si fermava e pensava: lui è qui,
non so dove ma è qui. E mentre i corvi si levavano in volo dalla terra ba-
gnata che il bestiame trasformava in fango, Stella attraversava i boschi in
cima alla collina, ritrovandosi d'improvviso in radure scoscese circondate
da alberi secolari. A volte le sembrava che la terra custodisse segreti anti-
chissimi: e in qualche modo, stranamente, si sentiva a casa.

Una mattina, mentre era seduta in cucina con Mair, suonò il telefono.
Chiamavano da scuola per dirle che Charlie non stava bene, e se, per favo-
re, poteva andarlo a prendere. Quel giorno Max non aveva preso la mac-
china, e Stella rispose che sì, poteva. La voce maschile all'altro capo disse
che non c'era ragione di spaventarsi, e Stella ribatté di non essere affatto
spaventata. Mair si offrì di accompagnarla.
Le strade intorno a Cledwyn erano una distesa di fango e letame, e la
macchina aveva fatalmente perso la sua aria chic; con tutte quelle incrosta-
zioni sembrava una carretta da contadini. Come non bastasse, la settimana
prima Stella aveva strisciato contro un muro, e non potevano rifare la fian-
cata perché costava troppo. Così quella che poco dopo la telefonata si fer-
mò davanti alla scuola era una Jaguar sciatta e ammaccata, un po' come la
madre che ne scese avviandosi verso il portone.
La scuola era un grande edificio vittoriano di mattoni a tre piani, con alti
finestroni e un campo da gioco su un lato. Stella non ci aveva mai messo
piede, e le incuteva un certo timore. Andò in segreteria, dove le dissero di
accomodarsi in sala professori mentre cercavano l'insegnante di Charlie,
un certo Mr Griffin. Dietro di lei, nel frattempo, erano comparsi parecchi
bambini, ognuno col suo messaggio da recapitare in segreteria. Sembrava-
no molto incuriositi da lei, e si parlavano all'orecchio lanciandole sguardi
furtivi e ridacchiando fra loro. Stella si chiese che cosa avesse di così stra-
no. Le gambe nude, forse, o l'accento inglese? Non che gliene importasse
nulla. Entrando in sala professori notò che la segretaria si voltava verso i
bambini e li zittiva con un'occhiataccia.
Qualche minuto dopo, mentre fumava una sigaretta leggendo gli avvisi
affissi in bacheca, entrò Hugh Griffin. Si presentò, scusandosi di averla
fatta aspettare. La stanza era tutta per loro. Griffin spostò una pila di sussi-
diaci da un divano e la invitò a sedersi. Era un ragazzo alto, con una folta
massa di capelli biondi e ondulati. Aveva un lungo naso a punta e una
giacca di tweed verde con i risvolti impolverati di gesso.
«Spero di non averla messa in agitazione» attaccò.
«Certo che no. Mi ha detto di non spaventarmi e io non mi sono spaven-
tata».
«Bene».
Sentiva di aver fatto colpo. Gli piacevo, mi raccontò, e la cosa lo imba-
razzava, un po' perché lei era la madre di ano dei suoi scolari e un po' per-
ché era diversissima dalle maestre e dalle mogli dei fattori che in genere
costituivano l'elemento femminile del suo mondo. Stella guardava divertita
quel ragazzo allampanato, con le dita lunghe e i vestiti impolverati di ges-
so.
«Allora, Mrs Raphael. Perché Charlie è così infelice?».
«Infelice?» rispose Stella con una certa sorpresa. Non le era venuto ne-
anche in mente che potesse dirle una cosa del genere. L'altro aggrottò la
fronte e si guardò le scarpe passandosi una mano fra i capelli. Poi la fissò
dritta negli occhi.
«È un ragazzino sveglio,» le disse «ma non si applica. Credo sia un fatto
di ansia, ma a me non dice cosa c'è che non va».
«Non mi ero mai accorta che ci fosse qualcosa che non andava».
«Mi sta dicendo che non ha notato niente di strano?».
«Forse sarebbe meglio che parlasse con suo padre».
«Lei non può aiutarmi?».
«È lui lo psichiatra, sì o no?».
Lo disse con più livore di quel che avrebbe voluto, e la risatina che fece
subito dopo suonò falsa persino a lei. Hugh Griffin si sporse sul bordo del-
la sedia, le lunghe gambe distese e le mani fra le ginocchia. Le ricordava
Nick.
«Con lei il ragazzo non parla, Mrs Raphael? E come mai non parla con
sua madre? Potrebbe essere questo il problema».
«Ma lei di che diavolo si impiccia?» rispose Stella scattando in piedi.
Poi frugò nella borsa alla ricerca di una sigaretta.
«Si sieda, prego» disse quel villano di un maestrino con la sua servile
vocetta gallese.
«Non ho tempo» rispose Stella. Ora gli dava le spalle, fissando la bache-
ca senza vederla e fumando avidamente la sua sigaretta. L'altro sospirò.
Non voleva lasciarla andare. Stava per aggiungere qualcosa quando la por-
ta si aprì ed entrarono due donne che stringevano al petto una pila di qua-
derni e parlavano ad alta voce. Andarono in fondo alla stanza e lanciarono
un'occhiata distratta a Hugh Griffin e a Stella. Alla fine il maestro si alzò
stancamente e disse che andava a prendere Charlie.
Raggiunsero la macchina quasi di corsa, e Stella era ancora talmente ar-
rabbiata con quell'uomo che riusciva a malapena a parlare. Subito dopo,
uscendo sulla statale, mancò per un pelo un'altra macchina, e dovette fer-
marsi un attimo a riprendere fiato e riacquistare il controllo dei nervi. Non
si sentiva volare una mosca. Sulla via del ritorno, senza neppure voltarsi,
Stella disse a Charlie che secondo il maestro non si impegnava abbastanza.
Charlie non le rispose.
«Dice che è perché sei infelice» aggiunse Stella.
Silenzio.
«Io gli ho detto che mi sembrava tutto a posto».
Stella gettò un'occhiata a Mair, che era seduta al suo fianco e guardava
davanti a sé.
«Charlie, sei infelice?».
Il bambino scrollò le spalle e si mise a guardare fuori dal finestrino. Per
il resto del viaggio rimasero in silenzio. Una volta a casa, Charlie salì in
camera senza dire una parola. Stella chiese a Mair se voleva una tazza di
tè, ma lei disse di no, e a quel punto si sedette da sola in cucina a guardare
fuori dalla finestra. Dopo un po' si versò da bere. Sapeva che cosa le stava
succedendo. Cominciava a vedere Charlie come un'estensione del padre,
anche lui parte di un complotto ai suoi danni. Non avrebbe voluto pensare
al bambino in quel modo, sapeva che non era giusto, ma non poteva farci
niente.
Quando la sera Max tornò a casa Stella non gli disse che cosa era suc-
cesso. Preferiva che glielo raccontasse Charlie a modo suo, e che fosse poi
Max a parlargliene. Ma quando Max scese di sotto, dopo aver dato la buo-
na notte a Charlie, si sedette in soggiorno per conto suo, con una rivista di
medicina.
Stella passò la notte in bianco. Era sicura che anche Max fosse sveglio, e
la sentisse passeggiare avanti e indietro. Fuori soffiava il vento, la casa era
tutta uno scricchiolio, e, nonostante il maglione sulla camicia da notte, i
calzettoni di lana e la vestaglia, Stella aveva freddo. Rimase a lungo alla
finestra, rabbrividendo. Guardava il cielo stellato fumando una sigaretta
dopo l'altra, mentre i pensieri correvano a briglia sciolta. Rivide i bambini
che avevano riso di lei davanti alla segretaria, e il maestro che le diceva
che stava rendendo infelice suo figlio. Poi pensò a Trevor Williams, che
dormiva dall'altra parte del muro, e a quelle loro gelide scopate. Da quando
sua moglie era tornata, Williams aveva trascinato Stella un paio di volte in
un capanno di pietra, dove l'aveva fatta piegare su un mucchio di balle di
fieno. Che bel culo bianco che hai, le aveva detto. Sembrava ce l'avesse
sempre duro. Tutte e due le volte, attraversando il cortile per rientrare,
Stella non se l'era sentita di alzare gli occhi per paura di vedere Mair alla
finestra, ma se anche ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla, a quanto
pare, perché veniva sempre a bere il tè.
Pensò a Edgar, e alle loro settimane a Londra, e si rese conto che i suoi
ricordi cominciavano a scolorirsi come vecchie foto. Per mantenere una
sorta di contatto con lui le rimanevano solo i fenomeni naturali che aveva-
no vissuto insieme - certe formazioni di nuvole, il canto di alcuni uccelli
particolari, certi fiori - e che Stella ora considerava come un privato siste-
ma di segni. Ogni volta che andava a fare la spesa, da sola o in compagnia,
a Cledwyn o a Chester, frugava con gli occhi ogni angolo di strada nella
speranza di vedere spuntare Edgard. Almeno una decina di volte si era det-
ta eccolo, è lui, ma era sempre rimasta delusa. Eppure quell'attimo di emo-
zione, quel colpo al cuore le bastavano, anche se a suscitarli era stata l'am-
pia schiena nera di un corpulento fattore del Galles che entrava ai grandi
magazzini con la moglie.
Si rimise a letto, ma senza riuscire a prender sonno. Mentre si rigirava da
una parte e dall'altra cominciò a singhiozzare. Nessuno venne alla porta.
Nessuno bussò sussurrando: «Cosa succede? Tutto bene?». Stella pensò a
suo padre, e si ricordò di quando scivolava nel sonno mentre quell'uomo
forte e massiccio, seduto sul bordo del letto, le accarezzava i capelli ascol-
tandola mormorare gli ultimi pensieri della giornata. Poi pensò di nuovo a
Edgar, e al loro ballo all'ospedale - due dèi che danzavano fra i mortali -, e
non sentì alcun rimpianto, alcun rimorso: potendo, avrebbe rifatto tutto,
assolutamente tutto.

Vide il cielo impallidire, poi si addormentò. Si svegliò nella tarda matti-


nata, fece un bagno e si preparò una tazza di tè con tre cucchiaini di zuc-
chero e uno spruzzo di gin. Dopo si sentì meglio. Riempì un termos e se lo
portò in cima alla collina, dove trascorse il resto del pomeriggio.
Charlie tornò a casa con una lettera del maestro. Stella gli domandò se
aveva parlato di lei con Griffin, o se Griffin gli aveva chiesto qualcosa.
Charlie scosse la testa. Sembrava terrorizzato, come se non riconoscesse
più la persona che aveva davanti. Stella gli chiese se quel cenno voleva di-
re sì o no, e lui rispose che voleva dire no. La lettera era molto educata.
Griffin si scusava ancora di averla disturbata, e ripeteva di volere solo il
bene di Charlie. Poi chiedeva se il dottor Raphael e lei erano disposti a
prendere un appuntamento con lui per parlarne. No, pensò Stella. Appal-
lottolò la lettera e la gettò via.

Passarono le settimane, e passò anche Natale. Stella disse di averlo tra-


scorso da sola, a ubriacarsi. Max e Charlie erano andati tre giorni a Lon-
dra, da Brenda. Al ritorno, Max era in uno stato pietoso; di sicuro Brenda
non si era lasciata sfuggire l'occasione di insistere perché la lasciasse. Lui
tuttavia non prese iniziative, e la vita continuò come al solito. Hugh Griffin
non si era fatto più sentire, anche se secondo Stella aveva scritto a Max in
ospedale. Il sospetto le era nato da una discussione che avevano avuto una
sera, dopo che Charlie era andato a dormire.
«Non hai motivo per odiare anche Charlie» aveva detto Max senza pre-
amboli.
Erano in cucina. Lei stava lavando i piatti, e Max, seduto al tavolo, sfo-
gliava un giornale.
«Hai parlato col maestro?» gli chiese Stella.
«No, perché?».
Stella non gli credeva, ma non disse nulla, e si rimise a lavare i piatti.
«Perché, con te ha parlato?» domandò Max.
«Non di recente».
«E quando, scusa?».
«Oh, che noia. Ci siamo visti in autunno, quando non me lo ricordo,
prima di Natale. Ha cercato di dirmi che Charlie era infelice per colpa
mia».
«Ma tu non te ne accorgi che sta male?».
Lei scrollò le spalle.
«Stella, davvero non te ne accorgi?».
Stella fece finta di non aver sentito.
«Cristo!» esclamò Max. Lei si voltò. Lui si sforzava di mantenere la
calma. «Ascolta,» disse «io rimango qui, con te, per una sola ragione, e
cioè perché penso che il bambino abbia bisogno di una madre. Ma se non
sei in grado di dargli un po' di calore non ha molto senso. Mi segui?».
Lei lo guardò in silenzio.
«Mi segui, Stella?».
«È tuo figlio» rispose Stella. «Per me prova quello che provi tu, o me-
glio, quello che tu gli hai insegnato a provare».
«Queste sono stronzate».
«È la verità».
«La mia pazienza si sta esaurendo. È da settimane che sei così. Non ser-
vi a niente, né a me né a lui».
«Avevamo detto che mi sarei occupata della casa» rispose Stella.
«È vero, ti occupi della casa, ma in realtà sei da un'altra parte. Possibile
che tu non riesca a venirne fuori? E se proprio non ci riesci, perché devi
prendertela col bambino?».
«Perché tu gli hai insegnato a odiarmi».
In quel momento si resero conto che Charlie era in piedi in fondo alle
scale, in pigiama, pallido e sgomento. Max fulminò Stella con lo sguardo,
poi andò da lui e lo prese per mano.
«Avanti, giovanotto, è ora di andare a letto» gli disse.
Mezz'ora dopo scese di nuovo in cucina.
«Non capisce» disse. «Non capisce perché sei così. Per amor di dio,
Stella, parlagli. Non rimane molto tempo».
Stella non era per niente convinta, ma per stanchezza acconsentì. Max
andò alla finestra e guardò fuori, serrando ritmicamente i pugni come fa-
ceva sempre quando era nervoso. Si vedeva benissimo che non riusciva a
tollerare questo fallimento; l'idea che Charlie soffrisse perché il matrimo-
nio dei suoi genitori stava andando in pezzi lo metteva in un enorme imba-
razzo. Stella salì di sopra senza aggiungere altro. La porta della camera di
Charlie era aperta, e lei si fermò sulla soglia. Il bambino era a letto, di
schiena. Sapeva che era sveglio, e che l'aveva sentita, ma siccome non si
girava esitò, poi andò in camera sua e chiuse la porta.
Il pomeriggio dopo stava sbucciando le patate davanti al lavandino
quando Charlie, di ritorno da scuola, entrò di corsa, gettò la cartella su una
sedia e si sedette per cambiarsi le scarpe.
«Che si mangia?» disse.
«Stufato».
«Mami?».
«Cosa c'è?».
«Posso chiederti una cosa?».
«Se vuoi».
Stella continuò a pelare le patate. La finestra sopra il lavandino dava sul-
la rimessa dall'altra parte della strada, dove Trevor Williams teneva il trat-
tore. In alto c'era una finestra senza vetri. Un corvo si posò sul davanzale
con un frullo di ali e fece qualche saltello becchettando. Poi Trevor Wil-
liams uscì dalla rimessa. Nella luce fioca del tramonto, e dietro la finestra
della cucina, forse non la vedeva neppure; in ogni caso si portò la mano al-
la patta dei pantaloni e se la strofinò. Stella non poté fare a meno di sorri-
dere.
«Mami».
«Insomma, si può sapere che c'è?».
Trevor aprì il recinto del campo sotto la rimessa, dove aveva appena por-
tato le vacche. Stella non capiva perché le spostasse in continuazione; do-
veva essere un problema di pascolo. Williams si richiuse il cancello alle
spalle e si avvicinò alla mandria, che si era raccolta dalla parte opposta.
«Voglio che siamo amici».
Stella si voltò, commossa da quella richiesta così struggente, ma fece
finta di volerci pensare su.
«Sei sicuro?».
«Sì».
«Mmm. Ti ha mandato papà a dirmelo?».
«No».
«È stato Mr Griffin?».
«No».
Stella tirò su col naso, si voltò di nuovo verso il lavandino e cominciò a
tagliare le patate sul ripiano. Conosceva bene l'espressione cupa e adirata
di Charlie: era quella di Max. Ci fu un altro lungo silenzio mentre Stella
riempiva una pentola d'acqua, ci metteva dentro le patate e aggiungeva il
sale, voltandosi ogni tre secondi per guardare Charlie con le sopracciglia
esageratamente aggrottate. Il bambino non capiva bene fino a che punto
sua madre stesse scherzando. Nel buio sempre più fitto, Stella sentiva la
mandria rumoreggiare.
«Accendi la luce,» disse «non ci vedo più».
Si mise a tagliare una cipolla. Aspettava lo scatto dell'interruttore, ma
niente. La stanza rimaneva buia e silenziosa.
«Charlie!» disse girandosi, e vide dal tremolio del suo visino che stava
per piangere.
«Oh, amore!» gridò gettandoglisi addosso e prendendolo fra le braccia.
«Certo che voglio che siamo amici! Non lo eravamo già? Io credevo di
sì!».

L'indomani Stella, davanti a casa, guardava il panorama. Come al solito


c'era molto vento, ma non pioveva. Stormi di nuvole bianche passavano
davanti al sole, che qua e là bagnava di luce slavata una collina, lasciando
quella dopo immersa nell'ombra. Era un cielo irrequieto, mosso, e Stella
rimase a guardarlo per qualche minuto con un senso di felicità. I piloni del-
la luce, installati da poco, marciavano per la vallata e salivano in fila in-
diana verso le colline in lontananza. Quando ci passava sotto li sentiva
crepitare e ronzare. Adesso il sole era più alto nel cielo; la primavera era
alle porte. Il fumo bianco che usciva dai camini andava verso est. Per la
prima volta da mesi, Stella provò qualcosa di simile alla speranza.
Quella sera chiese a Max perché non cercava lavoro a Londra. Con un
evidente fremito di piacere, lui le rispose che intendeva rimanere dov'era
per almeno altri due anni.
«E quindi, mi sa che devi fartene una ragione» aggiunse.
Stella si attaccò al gin. A volte la crudeltà di Max era come una pugnala-
ta, disse. Oh, era diventato bravissimo, ormai sapeva insinuare la lama fra
le piastre della sua corazza e arrivare dritto al cuore. E riusciva a farla sen-
tire una stupida. Come aveva potuto dimenticare anche solo per un attimo
che la loro era una sfida all'ultimo sangue, un duello mortale? Dopo cena si
riempì il bicchiere, infilò il cappotto e uscì a guardare le stelle. Rimase ap-
poggiata al cancello per un pezzo, poi, quando il freddo diventò insoppor-
tabile, si trasferì in cucina, dove continuò a bere piazzando una sedia da-
vanti alla finestra, appoggiando i piedi sul davanzale e dondolandosi, con
la bottiglia sul pavimento, a portata di mano. Aveva un solo problema con
l'alcol: la faceva pensare a Edgar, e pensare a Edgar le faceva venire la la-
crima facile. Quando Max scese in cucina gli disse che era un pezzo di
merda, e lui, con la solita voce venata di furore freddo, le rispose che la
sua pazienza era quasi al limite, il che scatenò un'altra raffica di insulti da
parte di Stella e un rapido ripiegamento di Max alla volta delle sue riviste
di medicina. Ecco, adesso Stella piangeva di nuovo, ma non un cane che si
scomodasse a venire a vedere come stava, in fondo cos'era mai, solo la
troia giù in cucina, la troia che aveva rovinato le loro vite e tracannava gin
dalla bottiglia frignando per il suo amante pazzo.
Fece un'ultima sortita - al culmine della quale si mise a tempestare di
pugni la porta dei Williams, chiamando a gran voce Trevor - e una sosta in
soggiorno, dove era stata tentata di scaraventare dalla finestra la bottiglia
del gin, così, tanto per vedere la faccia di Max tirato giù dal letto. Poi, pen-
sandoci meglio, decise che non valeva la pena di sprecare tutto quel gin
per una stupidaggine simile, e con una risata rumorosa salì faticosamente
di sopra, addormentandosi senza neppure spogliarsi.
Al mattino Max era furibondo, tanto che Stella si sentì in dovere di chie-
dergli scusa. Per fortuna bussando alla porta dei Williams nel cuore della
notte aveva evitato di dire perché voleva Trevor.
Ecco com'erano i giorni a Plas Mold, mi disse.

E che fine aveva fatto Edgar, il pazzo, il suo amante perduto? Per un
lungo periodo, con mia profonda costernazione, non ne avevo saputo più
nulla. Sembrava scomparso dalla faccia della terra, tanto che più di una
volta lo avevo dato per morto. Fui dunque molto sollevato quando final-
mente mi giunse una segnalazione attendibile: Edgar era stato visto dalle
parti della stazione di Euston. Siccome tutto lasciava supporre che fosse
diretto a nord, chiamai subito Max. Gli dissi che sospettavamo avesse sco-
perto dove vivevano lui e Stella, ma ammesso che stesse davvero cercando
di raggiungere Cledwyn, sulle sue intenzioni potevamo solo fare delle ipo-
tesi. Gli parlai delle misure precauzionali che la polizia stava comunque
prendendo, e riuscii almeno in parte a rassicurarlo. In effetti erano notizie
tutt'altro che rassicuranti e non gli nascosi che ero anch'io piuttosto inquie-
to.
Poi gli domandai di Stella. Le avevo parlato da poco al telefono, e non
mi sentivo tranquillo; mi sembrava abbandonata a se stessa. Max si tenne
sulla difensiva, ma mi bastò sondare un po' il terreno per percepire subito,
nella sua voce, l'immenso peso della collera repressa. Cercai quindi di in-
coraggiarlo, con tutta la delicatezza possibile, a adottare una prospettiva
differente, più distaccata: in altre parole, una prospettiva psichiatrica. Gli
dissi che Stella aveva attraversato una fase di isteria, che stava cercando di
elaborare uno schiacciante senso di colpa e che da sola rischiava di non
farcela. Aveva bisogno di tutto il suo aiuto.
Max non disse nulla, e io presi il suo silenzio per un assenso.
Mi aspettavo che riferisse a Stella quello che la polizia aveva scoperto su
Edgar, ma in seguito scoprii che non gliene aveva neppure accennato, forse
per un malinteso senso di protezione.
O forse piuttosto per mera aggressività passiva: altrimenti perché na-
sconderle che un uomo stava venendo da lei con l'intenzione pressoché
certa di ucciderla?

Qualche giorno dopo arrivò un'altra lettera di Hugh Griffin. Stella stava
quasi per gettarla via senza neppure aprirla, immaginando che fosse un'en-
nesima esortazione a coccolare più spesso il suo bambino, o qualche altra
sciocchezza del genere, ma poi pensò a quel lungagnone piegato in avanti
sulla sedia che la fissava intrecciando le dita ossute, e cambiò idea. Era in
cucina, ancora in vestaglia, col bollitore sul fuoco. Aveva appena lavato un
paio di calze e le aveva messe ad asciugare sullo schienale della sedia, per-
ché non aveva nessuna voglia di andare a stenderle fuori. Si sedette a leg-
gere la lettera: il maestro non la esortava a essere più sensibile e compren-
siva, né le chiedeva un appuntamento per «parlarne». Voleva semplice-
mente invitarla a una gita scolastica a Cledwyn Heath, una zona di bru-
ghiera a qualche chilometro dal paese, che rientrava nel programma sulla
flora e la fauna del posto. Lì per lì Stella non ci pensò neppure, ma poi,
mentre beveva il tè guardando fuori dalla finestra, decise che quasi quasi,
se fossero stati molto gentili con lei, si sarebbe lasciata convincere.
Lo annunciò quella sera stessa, a tavola, scatenando l'entusiasmo di
Charlie, che evidentemente aveva considerato pressoché nulle le sue pos-
sibilità di presentarsi alla gita con almeno un genitore. Anche Max si tirò
un po' su; poveraccio, l'aveva ridotto proprio male durante l'inverno, ben-
ché fosse disposta ad assumersi solo una parte di responsabilità per la de-
pressione in cui era sprofondato da settimane: il resto, ne era sicura, dipen-
deva dal lavoro. Sapeva ad esempio che nel reparto di Max le pazienti era-
no in gran parte schizofreniche, donne di mezza età, se non decisamente
anziane, internate da tempo immemorabile, quindi senza alcuna speranza
concreta di miglioramento. Certo non era la situazione ideale per uno come
lui, che aveva costantemente bisogno di stimoli. Max avrebbe preferito ve-
dersi affidare i pazienti più giovani e con disturbi più acuti, ma John Da-
niels, il direttore, proprio colui che gli aveva fatto intravedere la prospetti-
va di un lavoro interessante, se ne occupava di persona. John Daniels è un
mio vecchio amico. Quando gliene parlai mi disse che Max era arrivato
tardi, tutto qui.

La situazione rimase immutata fino alle prime due settimane di febbraio.


La polizia non aveva ricevuto altri rapporti, e Max non aveva detto a nes-
suno che Edgar poteva essere da quelle parti. La famiglia conservava quel
suo delicato equilibrio esplosivo, tirando avanti alla giornata, senza far de-
flagrare le spaventose energie distruttive che si annidavano al suo interno.
Chi ne soffriva di più, naturalmente, era Charlie; quando non poteva star
fuori passava il tempo chiuso in camera, e a tavola era triste e silenzioso.
Poi giunse una notizia ovviamente destinata a esacerbare una situazione
già tesa; a Max suonò come un presagio di sventura, mentre a Stella scate-
nò un soprassalto di sarcasmo. Brenda era in arrivo. Max ricevette la tele-
fonata in ospedale, un martedì mattina, e la sera stessa ne parlò a Stella.
«E dove pensa di alloggiare?» gli chiese lei.
«Ha prenotato una stanza al Bull».
«Mmm, che tatto!».
Stella immaginava benissimo la strategia della suocera. Brenda non in-
tendeva in alcun modo permettere che suo figlio si rovinasse la vita e la
carriera marcendo in un buco gelido come quello, un posto abbandonato da
dio, e poi nel Galles, figurarsi. Però sapeva di avere due nemici, l'inerzia e
Stella. Queste erano le forze che avrebbe dovuto combattere, se voleva che
l'astro di Max tornasse a splendere nel firmamento psichiatrico. Tutto con-
siderato, quindi, non le rimaneva che intervenire: doveva impedire a tutti i
costi che l'inerzia, e Stella, trascinassero Max in un pantano di mediocrità
da cui non sarebbe più stato in grado di risollevarsi. La cosa che mi fa più
paura, mi disse Brenda, è che quella donna me lo involgarisca. Io avevo
cercato di dissuaderla in tutti i modi, non mi sembrava davvero il caso che
andasse, ma Brenda, quando prendeva una decisione, aveva una volontà
d'acciaio.
A pagare il prezzo più alto, naturalmente, era Max. Fin dall'inizio aveva
faticato non poco per mantenere una qualche armonia fra sua moglie e sua
madre, e ora che Brenda poteva dire di aver visto giusto, adesso che era
chiaro a tutti che Stella era una poco di buono, una troia, una madre inde-
gna, che cosa avrebbe potuto ribattere: come avrebbe potuto sostenere che
intendeva restare con lei, continuare a sacrificarsi per una donna che non lo
meritava? Max annaspava, e Stella si godeva lo spettacolo. Gli propose di
invitare Brenda a cena.
«Ma neanche per sogno!» sbottò lui.
«Perché no?».
«Lo sai benissimo. Non rigirare il coltello nella piaga».
Rigirare il coltello nella piaga. Era questo che stava facendo? Almeno
Charlie era contentissimo, lui voleva bene a quella nonna che lo riempiva
di soldi e dimostrava continuamente di stravedere per lui. Era davvero feli-
ce, Stella non lo vedeva così vispo da un sacco di tempo. Certo, per Max
era diverso. A lui quella visita faceva solo paura.
Un sabato di pioggia Max e Charlie andarono a prendere Brenda alla
stazione di Chester. A quanto pare la prima cosa che la irritò furono le
condizioni della macchina; non la vedeva da quando erano partiti per il
nord, e un inverno di strade di campagna non le aveva fatto granché bene.
D'altra parte non poteva essere entusiasta dell'umore di Max, e Cledwyn
non le aveva certo strappato nessun commento favorevole. E meno male,
mi disse Stella, che non l'avevano portata a casa, perché neppure nelle sue
fantasie più cupe Brenda avrebbe immaginato uno sfacelo simile, con le
pile di piatti sporchi nel lavandino, le calze stese sullo schienale della se-
dia, e sua nuora ancora in vestaglia alle undici e mezzo del mattino che si
beveva un bel tè corretto.
Brenda aveva avanzato fin da subito richieste eccessive, cui Max non era
stato in grado di opporsi. La prima era che suo figlio cenasse con lei tutte
le sere, e siccome aveva già visto che a Cledwyn non c'era uno straccio di
ristorante degno di questo nome dovevano andare fino a Chester, cioè a
quindici chilometri. Inoltre voleva assolutamente vedere l'ospedale e co-
noscere il direttore, senza capire che ora la posizione di Max era molto di-
versa da quella di un tempo. In ogni caso fecero come voleva, e Max la
portò a conoscere John Daniels.
E Stella? E quella piagnona, quella poco di buono di una nuora fradicia
di gin? Voleva incontrare anche lei? No grazie, preferiva di no. Per Stella,
fra parentesi, era meglio così; neppure lei moriva dalla voglia di vedere
Brenda. Avrei detto che neanche Max auspicasse un loro incontro, ma qui
mi sbagliavo. Max infatti aveva intuito (giustamente, come poi mi confidò
Brenda) che il vero obiettivo della venuta di sua madre a Cledwyn era
quello di dividerli: sperava che passando un po' di tempo con suo figlio e
suo nipote, ed escludendo Stella, sarebbe riuscita a porre le basi di una
struttura familiare alternativa. Voleva dimostrare a Max che questa fami-
glia alternativa era realizzabile, che lei avrebbe potuto prendere il posto di
Stella e occuparsi di tutti e due, di lui e di Charlie. Fra le righe, gli fece ca-
pire di essere pronta ad aiutarli come prima.
A Max quell'accenno di ricatto non piacque, e comunque aveva escogi-
tato una soluzione migliore. La spiegò a Stella una sera dopo cena. La sua
intenzione era quella di prendere in contropiede la madre, tentando di ri-
baltare il suo tentativo di esclusione: provare, provare adesso, subito, a far-
cela tutti e quattro insieme. Fu il suo ultimo, coraggioso, disperato tenta-
tivo di salvare la sua famiglia. Se la invitiamo a cena da noi, concluse, so-
no certo che arriveremo a una riconciliazione.
Che strano effetto le fece sentirgli dire «noi». Perché la voleva ancora?
Perché non accettava l'offerta di Brenda, perché non afferrava al volo l'idea
di una famiglia alternativa, perché non la abbandonava alle sue tenebre?
Dio sa se se l'era meritato, e dio sa se Max non avrebbe avuto una vita mi-
gliore sotto l'ala protettiva di sua madre piuttosto che sul seno freddo di
sua moglie. In ogni caso, Stella promise che ce l'avrebbe messa tutta.
Max sapeva che convincere Brenda sarebbe stato tutt'altro che facile.
Quando gli avevo parlato a gennaio, e avevo colto il furore represso con
cui parlava di Stella, l'avevo esortato a mettere da parte i sentimenti e a
rendersi conto che sia la storia con Edgar Stark sia tutto quello che era
successo in seguito andavano visti nel quadro clinico dell'isteria; ragion
per cui, in primo luogo, Stella non si poteva considerare del tutto colpe-
vole, e in secondo luogo, più che di un castigo aveva bisogno di affetto e
attenzioni. Allora sarebbe stata meglio.
Con Brenda Max adottò una linea molto simile. Non era un punto di vi-
sta che lei potesse condividere fino in fondo, e infatti, con i suoi tipici giri
di frase, tentò di sostenere che la psichiatria non poteva risolvere tutto. Ma
Max, va detto a suo onore, tenne duro, le spiegò che Stella aveva avuto un
esaurimento nervoso e che adesso ci volevano molta pazienza e molta
comprensione. Accettare la proposta, da parte di Brenda, fu un indubbio
segno di affetto per suo figlio, ma si dà il caso che io la sapessi scettica
almeno quanto Stella circa i risultati.
Fu quindi deciso che Brenda sarebbe andata a cena da loro. Per il mo-
mento le rovinose sbronze di Stella erano dimenticate, così come era di-
menticato tutto il resto, la sua feroce indifferenza ai sentimenti altrui, la
sua sciatteria, la sua egoistica espropriazione della camera da letto. No, a-
desso l'unica cosa importante era che preparasse la cena, la servisse in ta-
vola e facesse il possibile per dimostrare di essere ancora parte di una fa-
miglia con qualche problema, ma sostanzialmente solida. Con grande sol-
lievo di suo marito, Stella si dedicò di buon grado all'ideazione e alla pre-
parazione di quell'evento decisivo, scelse il menu e fece di persona la spe-
sa, e già solo questo, Max cercava di convincersi, era segno che stava mi-
gliorando, e lasciava intravedere un possibile, graduale ritorno alla norma-
lità.
Stella aveva deciso cosa avrebbe cucinato: rognone.

Fu un disastro. Max era andato a prendere sua madre in albergo, e appe-


na entrata in casa Brenda non era riuscita a mascherare il disgusto che il
loro stile di vita le ispirava. Aveva attraversato il cortile con aria schifata,
anche perché Trevor Williams stava concimando da giorni, e il tanfo era
insopportabile. Brenda entrò in cucina, diede un bacio a Charlie e salutò
Stella con una freddezza appena attenuata da una punta di compassione;
questo naturalmente per far contento Max, che aveva continuato a insistere
sul tema della sua «malattia», del suo «esaurimento». Stella si era messa
un vestito vecchio e liso, con sopra il grembiule. Max propose di bere
qualcosa in soggiorno, e Brenda accondiscese a salire di sopra.
Poi insistette per fare il giro della casa, e scoprendo come dormivano le
venne quasi un colpo. Max non l'aveva preparata alle camere separate. Che
suo figlio, uno psichiatra di prim'ordine, fosse ridotto a vivere come uno
scolaro! Quando Stella li raggiunse trovò Brenda appollaiata su un angolo
del divano, come se avesse paura di prendersi, al contatto, una malattia in-
fettiva. Sua suocera le rivolse uno sguardo smarrito; era la prima volta che
Stella la vedeva in difficoltà.
«Mia cara,» disse «non avevo idea che le case gallesi fossero così spar-
tane».
Stella rise allegramente. «Eh già, prima eravamo molto viziati, con tutte
quelle grandi stanze. Adesso ci tocca arrangiarci, come tutti gli altri».
«Eh già, vedo».
Le prime stilettate. Max era sul chi vive, e intervenne tempestivamente.
«Non ci troviamo male» mormorò. «Ci sono posti molto peggiori dove
abitare».
«Ah sì?» disse Brenda. Era evidente che stentava a crederlo.
«Sì» disse Max. «I gallesi sono gente abituata a vivere nascosta, appena
possono costruiscono ai piedi delle colline, o in mezzo ai boschi. Hanno
una specie di passione per tutto ciò che è cupo. Questa casa almeno cupa
non è».
Sulla fronte marmorea di Brenda un sopracciglio si inarcò di un millime-
tro. Era il segno di un crescente scetticismo.
«John Daniels mi diceva» aggiunse Max «che in questa parte del Galles
c'è il più alto tasso di depressione di tutta Europa. Scandinavia a parte, na-
turalmente».
Se l'era inventato lì per lì. Stella l'aveva capito dal tono. Max doveva es-
sere già alle corde.
«Quel John Daniels non mi ha fatto una grande impressione» disse
Brenda. «Dove ha studiato?».
«A Edimburgo».
«Ah, ma pensa».
Madre e figlio cominciarono a discutere dei dipartimenti di psichiatra
delle varie università inglesi, e Stella li lasciò soli. Scese in cucina a dare
un'occhiata al rognone e a riempirsi il bicchiere da una bottiglia nuova.
Quando li chiamò a tavola aveva finito la bottiglia e ne aveva attaccata
un'altra. Dio sa se ne ho bisogno, stasera, si era detta. Il problema, natu-
ralmente, era che bere le calmava l'ansia, ma influiva anche sul suo auto-
controllo; dopo tre o quattro bicchieri diventava «disinibita». L'espressione
era di Max, e Stella me la ripeté con una smorfia sarcastica. Comunque,
mentre portava in tavola la zuppa di porri e patate si sentiva esattamente
così, disinibita.
«Non è precisamente quello a cui sei abituata, Brenda,» disse Stella «ma
la necessità aguzza l'ingegno».
«Eppure la cucina regionale può riservare delle sorprese, mia cara, non
credi?». Brenda si mise il tovagliolo sulle ginocchia e prese il cucchiaio.
«Bene, bene,» disse speranzosa «ha proprio un bell'aspetto».
Stella si servì per ultima e si mise a sedere, slacciandosi il grembiule e
lanciandolo all'inarca verso la zona dei ganci.
«Certo,» disse «se puoi permetterti gli ingredienti. Non che ci sia molto
da comprare da queste parti. E con quello che guadagna Max è già tanto
riuscire a portare qualcosa in tavola».
«Adesso stai un po' esagerando, cara» intervenne Max.
«Di solito ai ragazzi preparo dei bei panini al montone freddo. E la do-
menica cavolo. Per festeggiare» disse Stella.
Lanciò un'occhiata a Charlie, che si agitava sulla sedia ridacchiando.
Almeno lui si stava divertendo.
«Ci prendi in giro, cara» disse Brenda conciliante. «Ma capisco cosa
vuoi dire, la disponibilità degli ingredienti è spesso un limite. Quando il
padre di Max e io viaggiavamo in Spagna, negli anni Quaranta, spesso ce-
navamo con una zuppa d'aglio e una fetta di pane. Non si trovava altro».
«Ma non mi dire» fece Stella. Aveva cercato di farle capire che erano
poveri, ed eccoli lì a parlare di zuppe d'aglio spagnole. Max colse l'occa-
sione per far notare a sua madre che tutte le storie della Spagna di un certo
valore erano opera di autori inglesi. Stella non riuscì a capire se fosse u-
n'altra invenzione.
«Già, interessante» disse Brenda.
«Per favore, Max, riempici i bicchieri» disse Stella. «Se si beve abba-
stanza si riesce a mandar giù senza farci tanto caso. Charlie, per favore,
porta via i piatti».
Poi Stella si alzò e si mise a trafficare con i fornelli.
«Immagino che tu non abbia mai mangiato in cucina, vero Brenda?» dis-
se senza girarsi. «Be', così vedi come vivono gli altri».
«Nei primi anni di matrimonio Charles e io ci siamo spesso trovati in ri-
strettezze» disse Brenda.
«Mi riesce un po' difficile immaginarlo» disse Stella e, mentre si girava
per portare in tavola il tegame del rognone, sorprese lo sguardo, accompa-
gnato da un sospiro sommesso, che Brenda lanciava a Max. La cena non
stava andando come lui aveva sperato.
E non migliorò. Senza arrivare a una vera e propria lite, continuarono a
punzecchiarsi per tutta la sera, spezzettando la conversazione che Max fa-
ceva l'impossibile per sostenere. Tutta colpa di Stella, naturalmente, che
era disinibita; e verso la fine addirittura delusa per non essere riuscita a tra-
scinare Brenda in una bella scenata. Ma sua suocera era troppo scaltra per
raccogliere le sue provocazioni.
«Buona notte, mia cara» le disse quando Max fu pronto per riaccompa-
gnarla al Bull. «Spero che presto starai meglio».
E con questo si infilò in macchina.

Un'ora dopo Max rientrò inferocito e trovò Stella ancor più disinibita di
prima. Attraversò la cucina come una furia e andò a piazzarsi schiumando
davanti alla finestra. Stella era ancora a tavola fra i piatti sporchi, a bere
vino e a fumare.
«Non sei solo egoista» disse Max con la voce arrochita dall'ira. «Sei an-
che cretina».
Stella appoggiò i gomiti sul tavolo. Teneva il bicchiere davanti a sé,
guardando Max da sopra l'orlo senza dire nulla.
«Ti rendi conto di quello che hai fatto?».
«Che cosa ho fatto, Max?».
Pensava di sentirsi dire che per colpa sua non avrebbero più avuto un
soldo da Brenda. Ma stavolta Max la sorprese.
«Hai sprecato la tua ultima occasione» disse con una voce improvvisa-
mente placata.
Stella non riusciva a calarsi nell'atmosfera melodrammatica del momen-
to.
«La mia ultima occasione» disse. «E cioè?».
Max fece un sorrisetto sgradevole. Ci fu un breve silenzio. Poi Stella
sbuffò.
«Cosa vuoi dire, Max?».
«Voglio dire che d'ora in poi dovrai cavartela da sola».
«Io me la sono sempre cavata da sola».
«Ma fammi il piacere. Io vado a dormire».
«Che cosa diavolo stai dicendo?».
Si era alzata in piedi. Tutta quell'aria grave, definitiva, non le piaceva
neanche un po'. Senza muoversi da dov'era lo afferrò per la manica, mentre
lui cercava di raggiungere le scale. Max la guardò con una rabbia, se pos-
sibile, più fredda del solito.
«Lasciami» le disse.
Stella si aggrappò ancora di più alla sua manica, stringendo nel pugno
un pezzo di stoffa con un sorrisetto.
«Ti ho detto lasciami!».
Per divincolarsi, Max perse leggermente l'equilibrio. Poi inciampò, e si
aggrappò alla ringhiera.
«Ma come siamo disinibiti!» gli gridò Stella.
Max cominciò a salire.
«Che cazzo dici, Max?» gli urlò dietro Stella. «Che cazzo vuoi dire devi
cavartela da sola? Io sono sempre stata sola! Nel caso non te lo ricordassi,
ho sposato te!».
Max scese qualche gradino.
«Adesso taci, va bene? Dei dettagli parleremo domattina, ma non voglio
che svegli Charlie».
«Quali dettagli?».
Rimasero a fissarsi così, lei in fondo alle scale, lui a metà, ma voltato
verso il basso. E fu Stella ad accorgersi per prima che sul pianerottolo c'era
Charlie, in pigiama, che si stropicciava gli occhi con aria imbronciata.
«Tesoro, ti abbiamo svegliato? Scusaci, papà stava solo facendo finta di
essere un imbecille».
Max si precipitò su per le scale. «Avanti, tu,» lo sentì dire «fila a letto».
Scomparvero entrambi, e Stella tornò al tavolo della cucina a scolarsi tutto
quello che riuscì a trovare. Quando Max tornò di sotto le comunicò bru-
talmente la notizia che aveva tenuto in serbo per lei tutto il giorno. Edgar
Stark era nelle mani della polizia. Lo avevano preso quella mattina. A
Chester.
Per il momento lo avrebbero trattenuto lì.

I due giorni successivi furono irreali. Stella represse il suo dolore e lo


incanalò nell'ira per quello che aveva dovuto subire: era stata esibita da-
vanti a Brenda, in modo che quella carogna, constatando di persona la sua
malattia, ricominciasse a foraggiare Max. Quanto a Max, non lo aveva mai
visto così calmo. Avevano litigato con una tale ferocia che evidentemente
lui non vedeva più alcun futuro per il loro matrimonio. Max aveva abban-
donato anche la prospettiva psichiatrica, e come dargli torto? Tuttavia,
quando tentò di parlarle di separazione, Stella si rifiutò di ascoltare e uscì
dalla stanza.
«Così non risolverai niente» disse Max.
Ma Stella non se la sentiva di affrontare un'altra lite. E dal momento che
Max non voleva parlarne con Charlie in casa, Stella riuscì a evitare quell'e-
same dei dettagli in cui lui sembrava così smanioso di addentrarsi.
Non quello che si dice una famiglia felice, insomma. Ogni volta che u-
sciva, Stella pensava che al ritorno avrebbe trovato la serratura cambiata.
Ne parlò con Trevor Williams, notando uno strano lampo passargli negli
occhi. Lascia solo che ci provi, le disse. Poi le assicurò che nessuno poteva
cambiare la serratura tranne lui, il che parve rassicurarla. In qualche modo,
le forme esteriori della vita familiare erano rimaste in piedi. Nonostante
l'abisso fosse ormai spalancato, Stella continuava a occuparsi della casa, e
cucinava, ma solo perché le dava una specie di sollievo che non aveva nul-
la a che vedere con nessuno, solo con lei, col fatto di conservare alle sue
giornate una qualche struttura, un senso di ordine di cui sembrava avere
più bisogno che mai. Non le restava altro. Riusciva a tollerare il silenzio e
l'odio, la disperazione e la vacuità, ma il disordine no. Il caos no. La casa
sporca e la tavola vuota no.
Perché ormai si reggeva a un filo. Si sentiva travolgere da improvvise
ondate di disperazione, e in quei momenti avrebbe solo voluto coricarsi e
morire, ma resisteva, non avrebbe ceduto, non si sarebbe arresa, non anco-
ra, a costo di intaccare le ultime riserve di energia rimastele. Era questo ri-
fiuto convulso di cedere che la costringeva a continuare la solita routine, a
fare il letto e il bucato e a preparare la cena. Non lo faceva per gli altri due,
lo faceva per se stessa. Per questo si aggrappò ai lavori di casa: per non
perdere la ragione.

***

Tutte le sere mangiavano in silenzio, e dopo cena, se non pioveva, Max


e Charlie andavano a fare una passeggiata. Stella sparecchiava e lavava i
piatti, e beveva ancora un bicchiere seduta davanti alla finestra. Guardava
la luce spegnersi a poco a poco, perché ora faceva buio più tardi. Fra tre
ore dormirò, si diceva, e avrò passato un altro giorno senza impazzire. Si
stava abituando a considerarlo un risultato. Non pensava al futuro, perché
pensare al futuro ha senso solo se si desidera qualcosa, e lei ora non desi-
derava niente, le bastava arrivare in fondo alla giornata senza diventare
pazza.
Lui era a Chester. A quindici chilometri.
In mano alla polizia.
Tutto perduto. I sogni di evasione e di fuga non avevano più senso. Tut-
to, tutta la struttura era crollata. In senso strettamente clinico, la depressio-
ne di Stella cominciò in quel momento.

Una sera, a tavola, Charlie era irrequieto. Lanciava continue occhiate a


Max, e Stella capiva che gli stava chiedendo di dirle qualcosa.
«Be', cosa c'è? Non ce l'hai la lingua?».
Charlie lanciò uno sguardo sconsolato a Max, che sospirò pulendosi le
labbra col tovagliolo.
«Charlie ha paura che tu ti sia dimenticata la sua gita scolastica di do-
mani».
«Vuoi sempre venire?» le chiese Charlie.
Stella si alzò, andò al lavandino, posò il piatto sull'asciugatoio e si ap-
poggiò al ripiano dandogli le spalle. Dalla finestra vedeva il cielo a occi-
dente, isole merlettate di nuvole che passavano sul sole al tramonto, e una
luminescenza dell'arancio più tenue immaginabile. Passò qualche secondo.
Sentì il buio invaderla.
«Sì, direi di sì».

XI
La corriera arrivò alle nove e mezzo. Charlie era pateticamente grato a
sua madre per aver detto di sì. Stella invece aveva una nottataccia alle
spalle, e potendo si sarebbe tirata indietro, anche se la prospettiva di rima-
nere a casa da sola le sembrava ancora meno attraente. In tempi migliori,
pensò, avrebbe chiesto a Max di prescriverle qualcosa, perché doveva pur
esserci qualche vantaggio a vivere con uno psichiatra; ma in tempi miglio-
ri, del resto, non ne avrebbe avuto bisogno. Così bevve il caffè e fumò le
sue sigarette mentre Charlie preparava lo zaino e le raccontava delle mera-
viglie che li aspettavano. Stella notò stupita come il bambino riuscisse a
vivere nel presente senza farsi toccare, almeno in apparenza, dall'infelicità
che lo circondava; lei se ne stava seduta in un angolo, con lo sguardo as-
sente, in silenzio, il buco nero nel cuore della famiglia che aveva inghiotti-
to tutta la gioia della sua infanzia, eppure, nell'eccitazione di una gita, a
Charlie importava solo salire su quella corriera con sua madre, anche se
era una donna dura e depressa, che nelle ultime settimane gli aveva lesina-
to persino le carezze.
Quando salirono sulla corriera Stella si sentì rabbrividire: una ventina di
scolari gallesi e una decina di adulti li guardavano in silenzio prender po-
sto negli ultimi sedili disponibili, quelli in fondo. Di fianco al conducente,
Hugh Griffin disse qualcosa di amichevole, ma fu l'unico a parlare. In quel
momento Stella si rese conto che l'infelicità di Charlie aveva fatto di lui un
escluso, proprio come era successo a lei, e ne trasse una mesta sensazione
di conferma; avrebbe dovuto saperlo, la gente è fatta così, seleziona con
fiuto infallibile le proprie vittime fra chi avrebbe più bisogno di calore. Lei
e Charlie erano due estranei, e solo quando furono seduti buoni buoni in
fondo alla corriera sentirono riprendere, a poco a poco, il mormorio degli
adulti, e gli strilli e il chiacchiericcio dei bambini. Madre e figlio si misero
a guardare il paesaggio ignoto fuori dal finestrino.
Cledwyn Heath era un altopiano insignificante cui si arrivava attraver-
sando una zona collinosa, e l'autobus faticò parecchio per risalire dalla val-
le. Per chilometri, tutt'attorno, si apriva un panorama desolato di muschio e
felci, con qua e là un albero rachitico, ma abbastanza resistente da opporre
al vento il suo profilo ricurvo. Cominciavano a comparire precipizi im-
provvisi, nelle cui profonde fenditure si raccoglieva l'acqua stagnante; le
pozze erano circondate da un intrico di vegetazione bassa, e l'acqua, in
ombra, sembrava nera, e limacciosa, e sinistra. Stella odiava quella bru-
ghiera solitaria, c'era un'atmosfera di violenza che non doveva essere la so-
la a percepire, se anche gli altri si erano zittiti. Per un po' si sentì solo il
rumore del vento. Finalmente si fermarono in un posto riparato vicino a un
bosco. Appena scesi dalla corriera, i bambini ricominciarono a far bacca-
no. Hugh Griffin li divise in gruppi, spiegando dove e quando ritrovarsi
per pranzo. Il gruppo di Charlie e Stella doveva seguire un sentiero lungo
il margine orientale della brughiera fino a un punto panoramico da cui si
vedeva il mare a una cinquantina di chilometri. Madre e figlio si accodaro-
no al gruppo, con un altro genitore, un padre che era già stato in gita nella
zona, a far loro da guida.
Mentre si trascinava con gli stivali di gomma, l'impermeabile stretto in
vita e un foulard annodato sotto il mento, Stella provava un disagio sempre
più forte. Il sentiero era stretto e pietroso, e più ripido di quanto era sem-
brato da lontano. C'erano nuvole basse, e il cielo minacciava pioggia. Gli
altri erano già scomparsi, e ora lei e Charlie sembravano gli unici esseri
viventi in quel posto lugubre, col sentiero che saliva e scendeva fra monta-
gnole e ciuffi d'erica, e nessuna struttura in vista, nemmeno un albero a
spezzare il paesaggio vuoto e quel cielo troppo vicino. Charlie marciava
davanti a Stella, con lo zaino che gli saltellava sulla schiena e la testa che
si girava a destra e a sinistra per non perdere nulla. Ogni tanto la sua fac-
cetta felice e ansiosa di bambino solo si voltava per assicurarsi che sua
madre non rimanesse indietro. Stella sentì di nuovo il buio che le si gon-
fiava dentro, e pensò che avrebbe fatto meglio a rimanere a casa, quel po-
sto non andava bene per lei, non le piaceva per niente ritrovarsi in quel
nulla, fra estranei ostili, a lottare contro il vento umido e sferzante. Quando
arrivarono in vista del mare Stella non ce la faceva quasi più, camminare
era diventato un incubo, perché una forza oscura la spingeva a gettarsi a
terra e a ripararsi la testa con le braccia, per non alzarsi mai più. Il padre
cercò di attaccare discorso, ma Stella non riuscì neppure a rispondergli.
Ormai aveva passato il confine.
Continuando a camminare arrivarono al posto del picnic, un luogo ripa-
rato ai piedi di una collina. Hugh Griffin e gli altri avevano cominciato a
disporre i panini e le bibite su una roccia bassa e piatta. I bambini si erano
divisi in tanti piccoli gruppetti rumorosi, mentre gli adulti raccolti intorno
al maestro versavano il tè caldo dai termos. Quando un'improvvisa raffica
di vento fece volar via una mappa dalla roccia si sentirono grida e risate.
Stella si allontanò di qualche passo, e un paio di minuti dopo si rese conto
che Charlie camminava al suo fianco mangiando in silenzio un panino. Le
chiese se aveva fame, e lei fece segno di no con la testa, ma rispose di sì
quando le domandò se voleva vedere cosa c'era dall'altra parte della colli-
na. Poco dopo sparirono dalla vista degli altri. Charlie scese lungo il pen-
dio fino allo stagno giù in fondo, circondato da folti ciuffi di erbacce. Stel-
la lo seguì andando a sedersi un po' in disparte. Sentiva cadere le prime
gocce. Charlie le gridò che secondo lui c'erano dei tritoni. Stella si ritrovò
con la testa sulla ginocchia, la faccia tra le mani. Stavolta era una tortura.
Onde nere infuriavano dentro di lei, sentiva la terra sussultare. Quando ri-
sollevò la testa l'aria era oscurata da una fuliggine impalpabile, come lima-
tura di grafite. Stava cominciando a piovere. Dietro lo spesso schermo che
si era chiuso intorno a lei vedeva, infinitamente lontani, lo stagno nero, la
superficie increspata dell'acqua, ora picchiettata dalla pioggia, e Charlie
che saltellava sulla riva nel folto delle erbacce. Tirò fuori le sigarette e se
ne accese una, tenendo le mani a coppa davanti alla fiamma. Charlie stava
tentando di afferrare qualcosa che gli sfuggiva. Stella lo guardava in silen-
zio, inerte, continuando a fumare. Vide il bambino afferrare la preda e, nel
farlo, perdere l'equilibrio. L'aria era nera, la pioggia cadeva più forte, le
spaventose scosse sotto i suoi piedi si andavano spegnendo. Stella sentì ar-
rivare a poco a poco la sensazione di stordimento che si prova sempre, do-
po. Charlie si era inoltrato nello stagno e cercava di reggersi in piedi nel
fango, agitava le braccia e gridava, e qualcosa in quel grido la fece alzare
in piedi. Per qualche attimo rimase così, ingobbita nel turbine di vento e di
pioggia, a guardare il bambino. Poi si voltò dall'altra parte, portando la si-
garetta alle labbra. Gli orli del foulard le sbattevano furiosamente sulla
faccia; la superficie dell'acqua, adesso, era quasi piatta. Tornò a guardare
lo stagno e vide confusamente una testa affiorare, una mano che annaspava
e poi tornava sotto, e si voltò ancora dall'altra parte; e mentre avvicinava il
braccio irrigidito alla bocca si afferrò il gomito con la mano. Si girò di
nuovo, e di nuovo portò la sigaretta alle labbra. Si muoveva a scatti, spez-
zando ogni gesto in tanti frammenti distinti e misurati.
Hugh Griffin comparve in cima alla collina alle sue spalle, ma lei non se
ne accorse, e non lo sentì neppure urlare quando la vide fumare, con la te-
sta che continuava a voltarsi prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a de-
stra, mentre una figura indistinta si dibatteva nello stagno. Lo vide solo
quando le passò vicino di corsa nella pioggia, e sempre urlando si tuffò in
acqua.

Quello che venne dopo fu abbastanza confuso. Stella rimase a guardare


mentre Hugh Griffin usciva dall'acqua con Charlie tra le braccia e lo depo-
sitava a terra cercando di rianimarlo. Poi arrivarono gli altri di corsa giù
dalla collina, e nella concitazione qualcuno riportò i bambini alla corriera,
qualcun altro andò a chiamare la polizia e tutti si dimenticarono di lei, fin-
ché una donna non le porse una tazza di tè e le mise una coperta sulle spal-
le, mentre Stella la sentiva dire che Mrs Raphael era in stato di shock.
Quindi la corriera ripartì, e arrivarono gli agenti, e quando la portarono alla
stazione di polizia c'era Max, che dopo qualche altra tazza di tè la accom-
pagnò a casa e le diede una pillola, e lei andò a letto e si addormentò di
schianto.
Dormì fino al mattino dopo. Quando scese di sotto Mair le disse che
Max era alla polizia, e sarebbe ritornato a pranzo. Sedettero senza parlare
al tavolo di cucina. Stava ancora piovendo.
«Che cosa terribile» disse Mair dopo un lungo silenzio. «Terribile».
Che ne sapeva, lei? si chiese Stella. Non aveva figli. Che ne sapeva di
come ci si sente quando ti annega un figlio?

Alla fine Max rientrò a casa, e Mair li lasciò soli. Max sedette al tavolo e
guardò Stella. La guardò e basta. Poi, in un tono di sbigottimento assoluto,
le chiese: «Ma perché non hai gridato?».
Stella lo trovò buffo; proprio lui, Max, che le chiedeva perché non aves-
se gridato.
«Non hai fiatato» ripeté Max con la stessa voce attonita. «Non hai aperto
bocca».
Di solito vogliono che tu tenga la bocca chiusa, a volte invece pretendo-
no che gridi, e si aspettano che sappia tu la differenza. Era questo che tro-
vava buffo.
«Quel Griffin,» disse Max «quel Griffin sostiene che è stata colpa tua».
Silenzio.
«Be', di' qualcosa, per dio! Non startene lì come una mummia, di' qual-
cosa, spiegami come è potuto succedere. Oh, Cristo».
Si calmò.
«Non so cosa sto dicendo» mormorò. «È una reazione traumatica; credo
che sia lo stesso per te. Ci vorranno un paio di giorni perché cominciamo a
renderci conto. Meglio rimanere calmi».
Si strofinò il volto con le mani per qualche attimo, e la guardò con la
faccia scavata che gli era venuta da poco.
«Ma perché non hai gridato?» sussurrò.

«Ma perché non ha gridato, Mrs Raphael, quando ha visto che il bambi-
no era in pericolo?».
Era nella stazione di polizia, e anche lì non sapeva rispondere.

Nei giorni seguenti la solidarietà nei suoi confronti scomparve. Questo


perché Hugh Griffin insisteva sulla sua versione: quando lui era arrivato in
cima alla salita aveva visto Charlie in acqua che gridava e sua madre che
fumava una sigaretta come se niente fosse. Non aveva battuto ciglio, soste-
neva Griffin, benché fosse chiaro che il bambino era in grave pericolo. Se-
condo lui, se Stella avesse dato l'allarme Charlie si sarebbe potuto salvare.
Ora, considerata la distanza fra la cresta della collina e lo stagno, quest'ul-
timo punto era piuttosto dubbio, ma il lato veramente scabroso della vi-
cenda era che Stella fosse rimasta per tutto il tempo muta e immobile.
Quando questo fu accertato, cambiò tutto. Da un momento all'altro Stella
diventò una madre che aveva guardato affogare suo figlio senza muovere
un dito. Era una cosa contro natura, dicevano. Una cosa perversa. Non riu-
scivano a capirlo; non ha sentimenti, dicevano, non è un essere umano, è
un mostro. O forse è pazza.
Era pazza. Quale altra spiegazione dare? Una spiegazione ci voleva, per-
ché un bambino era morto, e allora delle due l'una, o Stella era un mostro
oppure era pazza. La prima cosa che fecero fu accusarla di omicidio colpo-
so. Venne trattenuta in stato di fermo e messa di nuovo in cella. Intontita,
svuotata, Stella era del tutto staccata dalla donna che veniva spostata da
una stanza all'altra, e interrogata all'infinito, senza peraltro riuscire a dir lo-
ro quel che volevano sapere. Guardava se stessa mentre affrontava le in-
terminabili ore di quelle strane giornate. A volte si guardava dal di dentro,
da una specie di cittadella fortificata all'interno della sua psiche, a volte dal
di fuori, cioè da un punto che secondo lei era qualche spanna sopra la testa,
un po' di lato.
Fu allora che andai a trovarla. Non mi aspettava, e vedendomi provò il
primo, fioco barlume di emozione dopo molti giorni. Appena entrato nella
stanza feci del mio meglio per mostrarle che le ero vicino, e che intendevo
occuparmi di lei.
«Povera cara» le dissi. Nient'altro. Le lacrime arrivarono subito.

***

Adesso che le davano delle pillole, e che nessuno sembrava volere più
niente da lei, Stella riusciva ad allentare la morsa della tensione. Dormiva,
sognava, si lasciava andare. Arrivò persino a dirmi che cosa aveva visto
nell'acqua. Non ne fui sorpreso, così come non lo fui notando che dal no-
stro ultimo incontro era cambiata: aveva qualche chilo in più, i capelli in
disordine e le occhiaie, ma la pelle liscia e bianca di sempre. Era ancora
una splendida donna. Però era anche una donna gravemente depressa. La
mia visita divenne l'evento principale delle sue giornate, quello che rende-
va tutto il resto sopportabile. Ci furono vari altri interrogatori, cui presen-
ziai. Ci fu un'udienza in tribunale, che cercai di renderle il meno traumati-
ca possibile. Stella del resto non provava neppure a capire che cosa le sta-
va accadendo, lasciava che me ne occupassi io. Un giorno le domandai se
voleva che continuassi a farlo.
Certo, mi disse con una punta di inquietudine. C'era bisogno di chieder-
lo? Le stavo dicendo che avrei anche potuto abbandonarla?
Cercai di spiegarle che cosa la aspettava. L'avrebbero ricoverata. Era sta-
ta molto male, e io volevo curarla. Ma era sicura di volerlo anche lei?
«Oh, sì» rispose.
Allora doveva venire da me. Si ricordava il nome del mio ospedale?
Se lo ricordava.
«Perfetto» le dissi. «Allora siamo d'accordo. Verrai in ospedale e ti se-
guirò io».
Ero convinto che nessuno avrebbe saputo curarla meglio di me. Certo,
riportarla in ospedale poteva sembrare poco ortodosso, se non, date le cir-
costanze, obiettivamente pericoloso; ma nella mia posizione attuale ero in
grado di decidere liberamente.
Max andò a trovarla. Era una visita che le avevo preannunciato, e che lei
mi aveva supplicato di risparmiarle. Con molta calma, ma con altrettanta
fermezza, l'avevo pregata di non opporsi. Stella mi disse che ero un sadico
e un bastardo, e io le ricordai che se mi accettava come medico doveva fi-
darsi di me. Le spiegai che avrebbe fatto bene anche a lei, non solo a Max.
«Questa cosa lo ha distrutto» le dissi. «Cerca di fare pace con lui».
«Pace!».
«È per il bene di entrambi».
Così accettò.
Si incontrarono in una stanza spoglia, con un tavolo di legno al centro e
un'unica finestra molto alta. Stella fu accompagnata dentro. Stringeva in
mano un pacchetto di sigarette e un accendino, ed era in uno stato di pro-
fonda ansia. Max era già lì; si alzò in piedi, e mentre la porta si chiudeva
rimasero l'uno di fronte all'altra.
«Ciao, Stella».
Il suo primo impulso fu di girare i tacchi e andarsene, ma si trattenne. Lo
fece per me, non voleva deludermi. Si mise a sedere, e Max la imitò. Era
dimagrito ancora, ma non solo; dava come l'idea di una grande fragilità. Lo
guardavi e pensavi: se lo tocco va in mille pezzi. Le offrì una sigaretta.
Sembrava anche invecchiato. Non era tanto una questione di aspetto, ma
dei gesti che faceva, del portamento che aveva. Forse aveva raggiunto
quella fase in cui gli uomini cambiano percezione di sé, pensano di non es-
sere più di ferro e adottano le movenze della vecchiaia, comportandosi
come se le loro risorse fossero limitate, e andassero dosate con cura. Stella
accettò la sigaretta. Si stava chiedendo se ora la vedesse come la troia che
gli aveva rovinato la vita o come la pallida strega grassa che aveva affoga-
to suo figlio.
«Perché hai voluto incontrarmi?» gli domandò.
Max non se l'aspettava. Aprì la bocca e gli uscì una via di mezzo fra un
colpo di tosse e una risatina.
«Scusa tanto» disse. «Veniamo subito al dunque? Va bene. Non credevo
ci fosse bisogno di fare questa domanda».
Stella aspettò di sentire che cosa aveva da dirle.
«Immagino non ti interessi sapere cosa penso di quello che ci è succes-
so. Di chi credo sia la responsabilità».
Come un ragioniere, pensò Stella. La colonna dei debiti e quella dei cre-
diti. Io mi prendo la colpa di questo, tu ti prendi la colpa di quello, così
possiamo dormire tranquilli.
«In effetti forse a questo punto non ha più importanza. Be', di' qualcosa
tu» fece Max.
«In acqua c'era Edgar».
Max annuì. «Lo avevo immaginato».
Dopo qualche attimo di silenzio, Stella cominciò a innervosirsi. Si rigi-
rava sulla sedia e lanciava continue occhiate alla porta. Voleva che venis-
sero a prenderla.
«Mi odi ancora?» chiese Max.
Stella pensò a un sogno che aveva fatto qualche notte prima. Era a letto
con Max, e il letto era pieno di merda. Glielo raccontò e lo vide trasalire.
«Sì, mi odi ancora» concluse Max. Poi sbuffò, quasi impercettibilmente.
Stella lo osservava con estrema attenzione. Lui si portò la mano alla bocca
fissandola con quei suoi occhi vuoti, e Stella si girò dall'altra parte.
«Dovrei odiarti anch'io?».
A Stella quella contabilità non interessava.
«Non sarebbe giusto verso Charlie» disse Max.
Un colpo basso, probabilmente, ma senza alcun effetto visibile. Un altro
breve silenzio. Forse sarebbero rimasti nella stanza finché lei non fosse
andata alla porta a chiamare qualcuno. Stava per chiedere a Max di farlo,
ma lui riprese a parlare.
«Sai cosa succederà adesso? Lo shock passerà, e tu comincerai a sentirti
in colpa. Me ne intendo, sai, di queste cose. Sarà un senso di colpa atroce.
Dovranno tenerti d'occhio perché starai talmente male che potresti tentare
il suicidio. Alla fine, con l'aiuto di Peter, riuscirai ad accettare quello che
hai fatto, e a quel punto smetterai di odiare sia me sia te stessa. Almeno
spero. L'unica cosa che proverai sarà una tristezza mortale, e quella tristez-
za non ti abbandonerà più per il resto dei tuoi giorni».
Fu in quel momento che Stella gli tirò l'accendino e cercò di arrampicar-
si sul tavolo per piantargli le unghie in faccia. Le sue urla fecero accorrere
le infermiere. La portarono via, lasciando Max a congratularsi con se stes-
so per la perfetta riuscita della seduta.

Il braccio femminile dell'ospedale è composto di due reparti, che visti


dal di fuori non fanno un brutto effetto: in mezzo c'è un grande giardino
con aiuole fiorite, prati e panchine. A sud il giardino dà sulle terrazze, e
così le pazienti che godono della semilibertà possono passeggiare tranquil-
lamente in mezzo al verde proprio come i loro colleghi maschi, dai quali,
com'è ovvio, le separa un muro interno. Tecnicamente, il braccio femmini-
le è il mio territorio da anni. E quando ogni tanto mi fermo a guardare quei
sentieri, quei prati e quelle terrazze così curate e in ordine mi sento un po'
come se posassi orgogliosamente l'occhio su qualcosa di mio.
L'indomani Stella venne accompagnata in ospedale. Non le chiesi com'e-
ra stato risalire la collina su una macchina della polizia, vedere dal fine-
strino la sua vecchia casa, entrare non dal Cancello principale ma dall'in-
gresso del braccio femminile, e da lì passare direttamente all'accettazione.
Mentre la polizia mi consegnava i suoi documenti, Stella rimase in dispar-
te. Dopo il breve colloquio di rito la affidai a Mary Muir, un'infermiera
giovane ma molto preparata. La prima tappa fu il grande bagno comune.
La fecero spogliare, e poi la accompagnarono in una delle cabine con la
vasca, dove la aiutarono a lavarsi. Quindi si sottopose alla mia visita medi-
ca, indossò un camice di cotone e alla fine si lasciò condurre alla stanza
che le era stata assegnata.
«Eccoci qui» disse Mary aprendo la porta. C'erano un letto, una finestra
con le sbarre, un lavandino e un gabinetto. Nella porta si apriva uno spion-
cino. Dopo Stella entrai anch'io.
«E adesso?» mi chiese.
«Adesso voglio che tu ti sistemi e ti faccia una bella dormita» risposi.
«Pensi di aver bisogno di qualcosa?».
Più tardi ammise che in quel momento riusciva a pensare solo al mazzo
di chiavi in mano all'infermiera. Scosse la testa.
«Aspetta!» disse subito dopo.
Mary e io ci bloccammo sulla soglia. «Sì?».
Avrebbe voluto chiedermi con una voce normale per favore non andar-
tene, non chiudere la porta, non chiudermi dentro. Ormai avrebbe dovuto
esserci abituata, durante il fermo era già stata in cella, ma adesso era diver-
so, aveva creduto che arrivando qui l'incubo sarebbe finito, o se non altro
sarebbe stato meno spaventoso. Ma non riuscì a dire nulla di tutto ciò, non
a quelle che più tardi definì le nostre facce fredde e cortesemente stupite.
Scosse solo la testa.
La porta si chiuse con un colpo, e Mary girò la chiave.
Un'ora dopo tornò. Quando sentì la chiave nella serratura Stella era cori-
cata sul letto, gli occhi fissi al soffitto. Mary le aveva portato una tazza di
tè e delle pillole. Stella domandò cosa fossero, ma si sentì rispondere di
prenderle e basta, perché le aveva prescritte il dottor Cleave.
Stella si mise a sedere, ingoiò le pillole e bevve un sorso di tè. Mary se-
dette all'altro capo del letto e rimase a guardarla. Le disse che il direttore
era molto preoccupato per lei.
«Chi è il direttore, adesso?» chiese Stella.
«Non lo sa?».
«Una volta era Jack Straffen, ma è andato in pensione, no?».
«Certo, il dottor Straffen non c'è più. Adesso c'è il dottor Cleave».
Preferivo che lo venisse a sapere così, apparentemente per caso, da qual-
cuno del personale. Comunque sì, quando Jack Straffen era andato in pen-
sione avevano chiesto a me di sostituirlo, forse perché conosco questo o-
spedale meglio di chiunque altro. Avevo accettato con riluttanza. Stella mi
disse che prima di addormentarsi il suo ultimo pensiero era stato per Max,
che per tanto tempo aveva considerato quel posto praticamente suo.

Il mattino dopo un'altra infermiera, una certa Pam, le portò il vassoio


della colazione. Stella aveva dormito profondamente e ora faticava a sve-
gliarsi del tutto, intontita com'era dai farmaci. Si tirò a sedere sul bordo del
letto, ma la testa le crollava sul vassoio, che le scivolò dalle ginocchia.
Pam lo prese al volo e lo appoggiò sul pavimento. Stella ripiombò sul letto
riaddormentandosi subito.
Più tardi, nel pomeriggio, fu svegliata, al solito, dal rumore della chiave
nella serratura; stavolta ero io. Mi misi a sedere sul letto.
«Come ti senti, mia cara?».
Le presi la mano e gliela accarezzai.
«Da cani».
Si strofinò la faccia. L'obnubilamento indotto dai farmaci sembrava leg-
germente attenuato. Mi scusai con lei, spiegandole che prescrivere sedativi
pesanti ai nuovi arrivati era una procedura standard, serviva al personale
per rendersi conto delle condizioni del paziente.
«Credo che l'unica cosa di cui si renderanno conto è di come dormo»
disse Stella.
«Passerà. Fra un paio di giorni ti portiamo nella sala comune, vedrai».
Sbadigliò. «Sono distrutta».
«Lo so». Le diedi un colpetto sulla gamba. «Torno a trovarti domani».
Mi alzai per andarmene. Stella ricadde sul cuscino, gli occhi sgranati a
guardare il soffitto. Quando la sera Mary Muir arrivò con le pillole provò a
dirle che le sembravano troppe, ma Mary non le diede retta, e lei non ebbe
la forza di discutere.

Almeno i primi tre, dunque, furono giorni perduti. Stella visse in una
specie di crepuscolo della coscienza, e non lasciò mai la sua stanza. I con-
tatti con l'esterno furono qualche breve, impastato scambio di battute con
le infermiere e la mia visita quotidiana. Cominciai a diminuirle gradual-
mente i farmaci, e riguadagnò un minimo di lucidità. Il quarto giorno le fe-
ci portare dei vestiti - non i suoi, quelli dell'ospedale -, e per la prima volta
Stella si affacciò nel reparto. In seguito mi disse che sentirsi ancora otte-
nebrata, da un certo punto di vista, era stata una fortuna, perché la sua pri-
ma impressione di quel posto era stata di assoluta estraneità. Mentre Pam
la accompagnava fino alla sala comune Stella fissava con sgomento, da
sotto le palpebre appesantite, le povere creature che si trascinavano lungo
il corridoio, donne piegate dal dolore, con la testa china, che abitavano altri
mondi, mondi infernali da cui erano incapaci di distogliere lo sguardo.
Nessuna rispondeva agli allegri saluti di Pam.
Arrivarono alla sala comune. Ecco, ora Stella poteva godersi lo spettaco-
lo delle sue compagne a ricreazione. Non riuscì a non pensare di nuovo,
con un brivido, a tutti quegli inferni privati, che coesistevano in un unico
spazio. Era una stanza lunga, col sole che filtrava attraverso i finestroni a
sbarre andando a cadere sul pavimento lucido. Lungo le pareti c'erano ta-
voli e sedie, e dalla parte opposta il televisore, con attorno un divano e
qualche poltrona. Una donna era in piedi assolutamente immobile, e guar-
dava il muro. Un'altra cercava di togliersi pelucchi invisibili dalla gonna,
cioè cercava, con una concentrazione spasmodica, di afferrare il nulla. Una
terza sedeva dondolandosi da una parte e dall'altra, sorridendo e mormo-
rando qualcosa.
«Eccoci qua» disse Pam in tono ilare. «Andiamo a conoscere qualcuna
delle ragazze».
Le ragazze che Stella conobbe erano tutte intontite dai farmaci e affran-
te, proprio come lei. Si sedette a un tavolo con Pam e altre due, a fumare.
Stella le guardava e loro guardavano lei, ed era come scrutare da una fen-
ditura vette lontanissime, e sentire che non era completamente sola, che in
quella regione desolata c'era qualcun altro. Nonostante i coraggiosi sforzi
di Pam, una conversazione sembrava impossibile. Il tranquillo mormorio
della stanza fu scosso una volta dallo scoppio di una strana risata, un'altra
da una specie di gemito, e una terza da un piccolo tumulto di eccitazione
quando venne portato dentro il carrello, e qualcuno gridò «Il tè, signore!».
Più tardi, al momento di rientrare nelle camere, una donna che Stella non
aveva notato si materializzò al suo fianco chiedendole da fumare. Muo-
vendo molto lentamente le dita, Stella aprì il pacchetto e tirò fuori un paio
di sigarette, che la sconosciuta si infilò nella manica del cardigan con un
«Grazie, tesoro». Poi fecero tutto il corridoio insieme. Mi hanno portato
qui senza niente, disse la donna, solo con i vestiti che avevo addosso.
Stella scosse la testa. Avrebbe voluto risponderle che era una vergogna,
ma non ci riuscì. Riguardati, tesoro, le sussurrò la donna. Poi le sfiorò la
mano e sparì nella sua stanza.

Nei giorni seguenti la vita di Stella seguì uno schema tipicamente ospe-
daliero, in cui si succedevano i pasti, la somministrazione dei farmaci, le
ore nella sala comune e quelle in camera. Andai a trovarla più volte, di-
cendole di non preoccuparsi, perché presto avremmo cominciato a parlare
davvero. Nel frattempo, volevo soltanto che si calmasse.
Calmarsi. Più tardi mi disse che l'avevo fatta sentire come una bambina
pestifera.
Col passare dei giorni cominciò a sentirsi meno estranea a quanto la cir-
condava, anche se ogni volta che se ne rendeva conto si sforzava di resiste-
re. Questo non è il mio mondo, si ripeteva, anche se quale fosse, il suo
mondo, ormai non lo sapeva più. Ma le altre donne non le sembravano più
così pazze, o così strane, o così diverse da lei. Cominciava a capire perché
erano finite da noi. Spesso si era trattato di una bizzarra concatenazione di
eventi, non diversissimi da quelli capitati a lei, che erano culminati in una
sorta di pubblica umiliazione. La donna che le aveva detto di essere stata
portata qui con solo i vestiti che aveva indosso, ad esempio, le raccontò di
chiamarsi Sarah Bentley, e di essere stata sposata a un tale che quando si
ubriacava, e cioè tre o quattro volte alla settimana, la picchiava. Arrivata al
limite della sopportazione, Sarah gli aveva detto che se l'avesse toccata u-
n'altra volta l'avrebbe ucciso. Lui aveva promesso di non farlo più, ma un
paio di mesi dopo era tornato a casa ubriaco, e prima di stramazzare sul di-
vano le aveva di nuovo messo le mani addosso. Così, con le forbici da cu-
cina, lei gli aveva prima tagliato la gola e poi aperto la cassa toracica per
strappargli il cuore, che aveva gettato nella tazza del gabinetto. Dopodiché
se ne era andata a dormire. Il mattino dopo era arrivata la polizia, e quando
l'avevano portata via tutte le donne del vicinato erano scese in strada a go-
dersi la scena. Applausi e fischi, secondo Sarah, si erano più o meno divisi
in parti uguali. Certo, nessuno riusciva a capire perché avesse buttato il
cuore nel gabinetto. Per lei invece era chiaro come il sole: non voleva che
quel bastardo ritornasse.
Poi Sarah le chiese che cos'avesse fatto lei. Stella tentò di abbozzare una
risposta, sentendosi immediatamente sopraffare da un orrore senza nome.
Erano sedute vicino alla finestra nella stanza comune, e Sarah cercò, senza
riuscirci, di placare la crisi. Pochi minuti dopo Stella era stata chiusa nella
sua stanza, imbottita di sedativi ma ancora in lacrime.
Il giorno dopo andai a trovarla. Mi sedetti in fondo al letto, annuendo al
racconto dell'ondata di orrore da cui si era sentita travolgere. Le dissi che
era del tutto naturale e prevedibile, che per stare meglio avrebbe dovuto
stare peggio, e che anzi quel dolore era un buon segno. Qualcosa stava
cominciando a muoversi. Le dissi anche che non intendevo aumentarle i
farmaci, ma che l'avremmo tenuta sotto osservazione.
La volta successiva le chiesi se era pronta a raccontarmi quello che era
successo, cominciando dall'inizio.
«E quale sarebbe l'inizio?».
«Io credo Edgar. E tu?».
Sollevò la testa, guardandomi con un'espressione che non riuscii a inter-
pretare fino in fondo. Dolore, apprensione, paura, c'era tutto questo, natu-
ralmente, ma anche qualcos'altro, qualcosa che ora credo fosse la consape-
volezza insorgente della nuova natura del nostro rapporto. Le cose non e-
rano più semplici come prima. Adesso io ero il medico, e lei la paziente.
Eravamo su due fronti opposti. Le serviva una strategia.

Era ovvio che dovessimo cominciare da Edgar. Stella era finita da noi
perché era rimasta a guardare suo figlio che affogava, ma per quanto ri-
guardava quell'episodio specifico la patologia in atto non presentava zone
d'ombra. La letteratura sulle madri infanticide è infatti limitata, ma esau-
riente: in genere si tratta di un suicidio allargato, della rimozione del figlio
da un contesto che la madre ritiene intollerabile, anche se nel caso di Stella
tutto era complicato dall'intensa avversione verso il padre del bambino; un
classico complesso di Medea. Anche il procedimento terapeutico è sostan-
zialmente noto. Si tratta in primo luogo di assistere il paziente durante un
periodo iniziale di sofferenza molto intensa, caratterizzato essenzialmente
dal senso di colpa, cui seguono in genere il riconoscimento del trauma e la
reintegrazione del trauma nella memoria e nell'identità. In altre parole, me-
ra routine. No, da un punto di vista clinico era molto più interessante la sua
relazione con Edgar, uno dei più complessi e drammatici casi di ossessione
sessuale morbosa che io avessi mai incontrato in molti anni di pratica. Ba-
sti solo pensare che nell'acqua, in extremis, Stella non aveva visto Charlie,
e neppure Max. Aveva visto Edgar.
Adesso che l'avevo qui, nel braccio femminile, non vedevo l'ora di far
saltare le sue difese, di aprire Stella con le mie mani per vedere com'era
fatta la sua psiche. Naturalmente sapevo che mi avrebbe resistito, ma non
era certo il tempo a mancarci.
Mi parve incoraggiante che si preoccupasse di nuovo del proprio aspet-
to. Mi disse che da quando portava solo la divisa delle pazienti - cardigan
grigio, camicetta azzurra, gonna grigia, calze grigie e scarpe nere con le
stringhe - io, al confronto, le sembravo un damerino. Ogni volta che dove-
vamo vederci andava nell'ufficio in fondo al padiglione e chiedeva di poter
usare il beauty. Il beauty era in realtà una vecchia scatola di biscotti dove il
personale metteva rossetti, matite per gli occhi, campioncini di profumo,
vasetti di crema e di cipria, tutti omaggi che le pazienti potevano usare nel-
le occasioni importanti, come la visita di un dottore. Seduta al tavolo del-
l'ufficio, Stella prese uno specchietto e cercò di fare del suo meglio col ma-
teriale a disposizione. Poi si pettinò, chiedendomi mentalmente scusa per
essere cosi tristemente al di sotto delle mie sofisticate aspettative. Quindi
tornò nella sala comune, dove le altre si complimentarono cameratesca-
mente con lei per il risultato dei suoi sforzi.
La nostra prima, vera seduta si svolse in un piccolo studio vicino all'uf-
ficio. Prima di cominciare, le chiesi come stava. La osservavo tenendo i
polpastrelli uniti e gli indici appoggiati al labbro superiore. Più tardi mi
disse che in quel momento i miei occhi erano come due spilloni che le in-
filzavano l'anima.
«Peter, cosa fai? Guarda che non sono un coleottero! E comunque in
questi giorni non ho nessuna voglia di lasciarmi sezionare. A proposito,
perché ci fate vestire come suore?».
Era un secolo che non la sentivo parlare così, nello stile da commedia
brillante di tutti i nostri dialoghi di un tempo. Per un breve attimo era quasi
tornata quella di una volta, una donna in confidenza con un vecchio amico.
«Abbiamo parecchio lavoro da fare» le dissi. «E sarà piuttosto doloroso,
per te».
Si concentrò sul tentativo di accendersi una sigaretta. Nonostante i suoi
sforzi quella debole fiammella di allegria si estinse subito, di fronte alla
mia gravità.
«Parliamo di Edgar. Dimmi della prima volta che hai pensato seriamente
a un rapporto sessuale con lui».
Suonava piuttosto brutale, ma l'avevo fatto apposta. Stella abbassò gli
occhi e giocherellò col pacchetto di sigarette, allineandolo meticolosamen-
te al bordo del tavolo. La sua voce era guardinga.
«Dio mio, non lo so. La prima volta?».
Annuii.
«Nell'orto» disse con calma. Vedevo la sua esperienza riprendere lenta-
mente forma.
«Continua».
Dentro di sé rivisse quel momento al sole, in cui si era resa conto che sa-
rebbero andati a letto, perché ormai non si potevano più fermare. Era mol-
to semplice: non farlo era impossibile. Impensabile. E quando capisci che
non puoi più evitare, o rinviare, o ignorare una necessità, il rischio cessa di
essere un deterrente. Stella cercò di spiegarmi questo.
«Ed era davvero una necessità?».
«Sì».
«E pensi che Edgar avesse questa tua stessa sensazione di... necessità?
Nonostante i rischi, voglio dire?».
«Oh, sì».
«E perché?».
Scrollò leggermente le spalle. «Non lo so. Ne ero certa, tutto qui».
«È possibile che Edgar ti abbia usato perché stava progettando una fu-
ga?».
«No».
«D'accordo. Ed è stato tutto come te lo aspettavi?».
Stella cercò di scherzarci su: «Vuoi i dettagli, Peter? Devo farti un dise-
gnino?».
«Avevate trovato un posto nell'orto».
«All'inizio, sì. La serra».
Cercai di ignorare il tono di fastidio con cui mi passava questo scampolo
di informazione.
«E poi?».
«Nel capanno».
«Ah già, il capanno». Mi appoggiai allo schienale. «Mi spiace, cara. Non
mi diverto a metterti in imbarazzo. Davvero Max era così deludente?».
«Tu che ne dici? Altrimenti tutto questo non sarebbe successo».
«No?».
«No. Penso che ci si possa innamorare di qualcuno solo se non si è già
innamorati di qualcun altro».
«E tu di Max non eri innamorata. Ma gli volevi bene?».
Mi fissò con aria inespressiva.
«Tu non sei mai stato sposato, vero?» disse alla fine.
«Eri frustrata?».
Uno scoppio di riso. «E chi non lo è?».
Aspettavo ancora una risposta.
«Oh, Peter, non so cosa dirti. Nei primi tempi provavo una grande am-
mirazione per Max, ecco. E quando siamo arrivati qui, dopo un po' avrei
preferito tornare a Londra, ma in pratica era l'unica cosa su cui litigavamo.
Non smaniavo dalla voglia di un'avventura, se è questo che vuoi sapere».
«Un matrimonio come tanti, allora».
«Immagino di si».
«Un marito, una casa, un figlio, una serenità accettabile. Eppure hai
messo in gioco tutto per una storia di sesso con un paziente».
«Sai, sono calcoli che uno non fa».
«Ma come ti sembrava l'idea che tutto il tuo mondo fosse in pericolo?
Non so, era inebriante?».
Mi ero appoggiato con un gomito al tavolo, e la guardavo con un'espres-
sione di partecipe, aperta curiosità.
«Essermi innamorata, questo mi sembrava inebriante».
Ci fu un attimo di silenzio.
«Già, l'amore» dissi. «Parliamo di questo sentimento che non riuscivi a
dominare. Come lo descriveresti?».
Qui Stella fece un'altra pausa. Poi, con voce stanca, riprese: «Se non lo
sai non posso spiegartelo».
«Allora non si può definire? Non se ne può parlare? È una cosa che na-
sce, che non si può ignorare, che distrugge la vita delle persone. Ma non
possiamo dire nient'altro. Esiste, e basta».
«Queste sono parole, Peter» mormorò Stella.
«Forse» dissi un po' piccato. «Ma sono anche l'unica cosa che abbiamo.
Vorrei chiederti di considerare la possibilità che questo tuo amore, in real-
tà, fosse la copertura di qualcos'altro».
«Cosa intendi dire?».
«Guarda gli effetti che ha avuto. Hai mollato tutto. Hai cominciato a di-
sprezzare l'uomo che avevi imparato a...».
Mi interruppi. Stella aveva cominciato a piangere sommessamente. Le
diedi un fazzoletto. Vedevo che si odiava per quell'esibizione di fragilità
femminile, tanto che in una seduta successiva sentì il bisogno di parlarme-
ne. In quella fase, mi disse, sapeva che se io l'avessi respinta, disprezzata,
condannata, non le sarebbe rimasto nulla. Lei non era nulla. Il quadro mi
era perfettamente chiaro.
«D'accordo, basta così» le dissi affettuosamente, e parlammo d'altro. Ma
prima di andarmene le chiesi di pensare a quel che significava, per lei, a-
mare. Cerca di essere rigorosa, le dissi.
Ci proverò, rispose.

Più tardi mi disse che quel colloquio l'aveva gettata in uno stato di con-
fusione e di ansia. Era tornata alla routine del padiglione con un'inquietu-
dine che non l'aveva lasciata neanche nella sala comune, dove non aveva
parlato con nessuno. Tentava di capire dove volessi arrivare. L'avevo tur-
bata di proposito, ma perché? Probabilmente per metterla alla prova, per
saggiare la sua forza. E lei non aveva certo reagito bene, crollando in quel
modo. Le avevo fatto capire quanto fragile fosse diventata, mostrandole
tutta la sua debolezza. In fondo, concluse, mi ero semplicemente compor-
tato da psichiatra: non le avevo chiesto di essere forte, l'avevo solo portata
a desiderare di esserlo.
Ammise che per capirlo le ci erano voluti giorni e giorni di riflessione,
durante i quali era giunta alla conclusione di essere fortunata a vivere in un
posto sicuro, dove nessuno le avrebbe fatto del male, e dove era affidata a
mani esperte che avrebbero saputo curarla. Provò anche, faticosamente, a
vedersi in un modo nuovo. Dopo Cledwyn Stella si era ridotta a un grumo
di preoccupazioni superficiali, egoistiche, e cercava di ottundere le proprie
sensazioni per non pensare a Charlie; adesso si aprì quel poco che bastava
a riconoscere di essere malata e di aver bisogno di aiuto. Aiuto che, natu-
ralmente, si aspettava da me. Nel nostro incontro successivo raccolse tutto
il suo coraggio e si presentò con un sorriso intrepido, col quale voleva di-
mostrarmi di essere pronta ad andare oltre. Vidi immediatamente che la so-
la idea la terrorizzava. Feci il giro del tavolo e le spostai la sedia.
«Cerca di rilassarti» le dissi nel tono più tranquillizzante possibile. Si
sedette, la aiutai ad avvicinare la sedia al tavolo e le poggiai la mano sulla
spalla.
Ce la lasciai per qualche secondo, il tempo di percepire la sua intensa re-
azione a quel contatto fisico. Poi andai a sedermi e le chiesi come andava
nel padiglione, e di nuovo lei sembrò tornare la Stella ironica e pungente di
un tempo; mi regalò una descrizione decisamente spassosa dell'eccentrica
comunità di cui si trovava a far parte. Ma appena mi vide appoggiare le di-
ta alle labbra, e assumere l'espressione contemplativa che probabilmente
cominciava a riconoscere, il suo umore cambiò.
«Hai pensato a quello a cui ti avevo chiesto di pensare?» le chiesi.
«Sì, ma non so cosa dirti, Peter».
«Prova a descrivermi Edgar. Fisicamente, intendo».
La sua risposta fu che aveva paura di farlo, perché quando cercava vo-
lontariamente di recuperare il ricordo di Edgar era come se l'immagine di
lui fosse nascosta da uno schermo. Cercai di riportarla a Cledwyn Heath, e
al fatto che quel giorno lei aveva visto Edgar annaspare nell'acqua. Io la
consideravo una prova definitiva del suo desiderio di perderlo, interrom-
pendo così il tormento della coazione. Le dissi che agognare la morte del-
l'amante è uno stadio tipico di tutte le relazioni di quel genere. Ora mi inte-
ressava appurare quanto oltre si fosse spinto questo meccanismo: in altre
parole, se la loro storia fosse davvero finita.
Parlammo di Edgar per circa un'ora. Fra mille esitazioni, Stella riuscì più
o meno a descrivermelo, ma subito dopo vennero le domande più difficili,
quelle sui sentimenti. E qui Stella ammise di non aver mai provato in tutta
la sua vita un'attrazione di una tale intensità fisica ed emotiva per qual-
cuno; era una cosa che conosceva solo di riflesso, per averla percepita ne-
gli uomini che la provavano per lei. La lasciavo parlare limitandomi ad
annuire, e di tanto in tanto, quando esitava, incoraggiandola. Alla fine riu-
scì a trovare le parole per descrivermi quella specie di uragano sentimenta-
le che erano state le poche settimane con lui. Mi raccontò tutto quello che
era successo, prima da noi, poi a Londra. Ero sorpreso di non sentirla mai
pronunciare un giudizio morale: non condannava Edgar né per essere fug-
gito senza dirle niente, né per averla picchiata.
«Come mai?» le chiesi.
Non lo sapeva, ma nella mia domanda, mi disse, c'era qualcosa che non
tornava. Per criticare Edgar avrebbe dovuto porre a lui, e ai suoi sentimenti
per lui, delle condizioni: ti amo a patto che tu non faccia questo. E la cosa
non si era mai presentata in questi termini.
«Insomma tutto quello che veniva da Edgar andava bene».
«Credo di sì».
«Anche le botte».
«Sapevo perché mi picchiava».
«Se ti dicessi che Edgar è qui, in ospedale, che reazione avresti?».
La osservavo con estrema attenzione. Vidi un lampo passarle negli oc-
chi; poi scrollò le spalle. Disse che non aveva immaginato potessero ripor-
tarlo qui, anche se a pensarci le pareva ovvio. In ogni caso, non aveva più
alcuna importanza. Sentendo questo la guardai con quello che lei chiamava
il terrificante distacco del mio occhio da entomologo.
«Non ha importanza?».
«È finita, Peter. È finita con la morte di Charlie».
Sollevò la testa, guardandomi dritto negli occhi. Mi sarebbe piaciuto
crederle, ma sapevo che lei sapeva cosa volevo sentirle dire. La misi di
nuovo alla prova.
«Era una domanda astratta, Stella. Edgar non è qui».
Di nuovo quell'impercettibile lampo di emozione.
«Meglio così» disse.

Per rimettere in sesto qualcuno che arriva da noi nello stato in cui era ar-
rivata Stella ci vuole qualche settimana. Dai rapporti che mi trovavo ogni
mattina sulla scrivania notavo un crescente interesse nei confronti del
mondo in cui viveva, per quanto angusto e circoscritto fosse. Non se la
sentiva ancora di affrontare la morte di Charlie, ma non intendevo metterle
fretta. Piuttosto c'era qualcosa che mi inquietava, e cioè i possibili effetti
negativi di quella mia domanda su Edgar: non volevo aver interrotto, inav-
vertitamente, il processo di traslazione, cioè lo spostamento dei sentimenti
superstiti per Edgar su di me, il suo medico. Era infatti essenziale che ora
Stella mi considerasse il suo unico sostegno.
Nei giorni successivi riacquistò decisamente lucidità. Mary Muir, che
l'aveva vista arrivare, disse che era fantastico assistere a un miglioramento
del genere. Stella parlava molto più di prima. Si interessava persino ai pet-
tegolezzi dell'ospedale, voleva sapere tutto della comunità cui ora apparte-
neva. Cominciò, altro buon segno, a passare più tempo possibile nella sala
comune. Abbandonò invece, gradualmente, la sua breve identificazione
con le altre donne, in particolare con Sarah Bentley. Sarah era una sovver-
siva, le piaceva prendere in giro le infermiere e sconvolgere la routine o-
spedaliera. Il fatto era che non riusciva a celare il disprezzo che provava
per la propria situazione, né la certezza di essere finita nel posto sbagliato.
Ho ucciso quel bastardo perché lo odiavo, aveva detto a Stella. Mi pic-
chiava. Questo non vuol dire che sono da manicomio. In galera, dovevano
mettermi. Almeno saprei quando esco.
Sarah poteva andare avanti così tutta la mattina, e Stella si rendeva conto
che l'amicizia con lei avrebbe potuto rivelarsi compromettente. Cercò di
spiegarle che bisogna essere diplomatici. Bisogna capire quello che gli al-
tri si aspettano da te. Sarah rifiutava di accettarlo. Secondo lei erano tutti
degli imbecilli, e comunque non aveva la minima intenzione di starsene
zitta. Secondo Stella era un errore. C'erano momenti, le disse, in cui biso-
gnava stare zitti. Ma, sia pure con tristezza, si rendeva conto che lei e Sa-
rah non potevano più essere amiche.
Così fece domanda per lavorare in lavanderia.
«Tu?» le chiesi in tono divertito, cercando di nasconderle i miei sospetti.
«Ma come ti può venire in mente?».
«Dai, Peter, non è che muoia dalla voglia, ma qui mi annoio a morte.
Non mi troveresti qualcosa da fare?».
«Te la stai cavando bene» le dissi asciutto. «Forse ti piacerebbe passare
al piano di sotto».
«In effetti,» mi disse con un sorriso aperto «non credo che questo sia il
posto giusto per me. E tu?».
Non mi sbilanciai. Stella sapeva che non potevo credere fino in fondo al
miglioramento che faceva l'impossibile per mostrarmi, così come sapeva
che, mentre la intrattenevo con quelle che lei definiva le mie soavi disqui-
sizioni, mi domandavo se non stessi in realtà assistendo a una falsa ripresa,
presagio di una depressione ancora più profonda della prima.
«Pensi mai a Charlie?».
«Sì».
«E...?».
Il tono adesso era tranquillo. «E incomincio ad accettarlo».
Era di nuovo il momento della ruga di concentrazione: polpastrelli uniti,
sguardo fisso su di lei. Silenzio. Era aprile, e attraverso le sbarre dello stu-
dio in fondo al padiglione si vedevano i rami del castagno coperti di boc-
cioli bianchi. Faceva già caldo. Dal corridoio arrivavano i soliti rumori, le
chiavi nelle serrature, i mormorii, il grido attutito «In stanza, signore!». Il
rumore dello spazzolone nel secchio. L'odore di candeggina. Nello studio
silenzioso osservavo la donna pallida seduta di fronte a me. Poi mi alzai
improvvisamente in piedi.
«Non ancora, Stella» le dissi. «Penso che tu non sia ancora pronta».
«Perché?». Sollevò lo sguardo verso di me. Era inquieta e delusa.
«Non lo so. Vorrei prima capire meglio come stai».
«Be', non mi metterò a discutere» disse tranquillamente.
Annuii. A dispetto - o forse in virtù - del fatto che io, per Stella, non ero
certo la figura neutra generalmente ritenuta adatta a condurre questo tipo di
psicoterapia dinamica, a ogni incontro mi convincevo un po' di più che la
sua traslazione stesse imboccando la direzione che volevo, e la sua dipen-
denza si stesse spostando su di me. Questo pensiero mi dava una comples-
sa, particolarissima soddisfazione, che purtroppo mancai di analizzare al
momento giusto.

Il suo comportamento subì un'evoluzione prevedibile. Innanzitutto Stella


cominciò a sviluppare un atteggiamento diverso nei confronti del tempo.
Costretta a pensare in termini di mesi, se non di anni, dovette abituarsi a
dominare la sua impazienza. Da quando le avevo diminuito i farmaci tolle-
rare la noia era diventato un problema, e Stella sapeva benissimo che uno
scoppio di frustrazione, uno solo, sarebbe bastato a vanificare settimane di
meticoloso autocontrollo. Inoltre, le infermiere non dovevano accorgersi
del suo sforzo. Stella sapeva che cosa volevano vedere: una persona calma,
equilibrata, vivace, ma non isterica, composta, ma non depressa. Una parte
piuttosto difficile da reggere, specie senza sapere per quanto, né se noi a-
vessimo notato i suoi progressi, e contemporaneamente cercando di abi-
tuarsi all'idea di rimanere a marcire lì dov'era per un'eternità. Ma la sua at-
tesa fu molto meno lunga di quanto avesse temuto. Qualche giorno dopo
Mary Muir le disse che avevo deciso di spostarla al piano di sotto.
Di sotto la vita era meno eccentrica, e Stella arrivò rapidamente a capire
perché. Di sopra nessuno si stupiva di niente, perché si dava per scontato
che le pazienti fossero tutte pazze. Una persona sempre infelice, e cattiva,
e sarcastica, come Sarah ad esempio, era pazza, ma lo era altrettanto chi
passava il tempo dando la caccia a un filo inesistente, o si agitava per un
appuntamento mancato o per faccende lasciate a metà ventisette anni pri-
ma. Finché non cominciavi a comportarti come se non fossi affatto rin-
chiuso in un manicomio senza sapere quando e se ti avrebbero messo fuo-
ri, per loro eri un pazzo. Quando invece dimostravi di considerare la tua si-
tuazione del tutto normale, allora pensavano che avessi fatto dei progressi
e ti spostavano di sotto. Questo, naturalmente, dal punto di vista del pa-
ziente. Dal nostro, l'autocontrollo necessario per fare questi calcoli e com-
portarsi di conseguenza era il necessario primo passo verso un effettivo
miglioramento.
Le donne al piano di sotto lo avevano fatto, questo primo passo, e nes-
suno lì dava in escandescenze, non davanti alle infermiere, almeno. Stare
di sotto significava più tempo per sé e una certa autonomia, e con quella la
possibilità di lasciarsi andare al riparo da sguardi indiscreti. Spesso, signi-
ficava semplicemente la libertà di piangere per una vita rovinata, una fa-
miglia distrutta, un marito perduto. Un figlio morto. Piangere era una cosa
che facevano i matti, un sintomo certo di depressione che in quanto tale
andava trattato coi farmaci, e i farmaci si portavano via la chiarezza e la
lucidità di cui loro, o almeno alcune di loro, avevano così bisogno.
Di sotto si potevano indossare i propri vestiti. Questo faceva una grande
differenza, per Stella. Me ne resi conto non appena la rividi. Si presentò in
gonna nera, con un'elegante camicetta color crema dal colletto alto su cui
aveva appuntato una graziosa spilla. Adesso i suoi gesti e le sue espressio-
ni erano più lenti e studiati, quasi ieratici, e davano ancor più risalto alla
sua bellezza, che aveva sempre avuto qualcosa di maestoso. Mi ringraziò
di cuore per il trasferimento; sapeva che quasi tutti i pazienti rimanevano
molto più a lungo al piano di sopra. Le risposi che non aveva nulla di cui
essermi grata.
«Non mi sembrava avesse più molto senso farti rimanere di sopra».
Mi scrutava. Ero andato a trovarla nel padiglione e mi ero fatto accom-
pagnare nella sua nuova stanza. Era più grande di quella di sopra, senza
sbarre alla finestra né spioncino alla porta. Vicino al letto c'erano un tappe-
to, un tavolo e una sedia, oltre a un armadio per i vestiti. L'alloggio di una
studentessa al college.
«Niente fotografie?» le chiesi. «Niente ninnoli, nulla di personale?».
«No» rispose tranquillamente. Io ero sul letto, e lei sulla sedia di fronte a
me. Aveva subito notato un atteggiamento più morbido, da parte mia. Il
tono secco, distaccato, inquisitorio che avevo sempre mantenuto fino a
quel momento era scomparso. Stella sentiva di poter contare su di me di
nuovo come amico, non solo come medico, ma non cercò di approfittarne.
Non ancora. Ormai non si concedeva più reazioni spontanee.
«Te la senti di parlare di Charlie?».
Questa era la cosa più difficile. Per un attimo mi guardò in silenzio. Sen-
tii cosa mi stava dicendo: lo so come è morto, so anche perché, ma non
riesco a parlarne.
«No, Peter,» disse alla fine. «Non ancora».
«Perché?».
«Sarebbe troppo doloroso».
Annuii. «Pensi molto a lui?».
Un risolino ironico. «Credi davvero che riesca a pensare a qualcos'al-
tro?».
Annuii di nuovo. «Ne parleremo presto. Voglio darti tutto il tempo di cui
hai bisogno».
«Lo so. Grazie».
Le ripetei che non c'era niente di cui ringraziarmi. Poi mi alzai in piedi.
«Devo andare» dissi. «Ho una stupidissima riunione con quelli del mini-
stero. Burocrati. Mi fanno diventare matto».
«Povero Peter».
Rimase sulla soglia a guardarmi mentre mi allontanavo lungo il corri-
doio, un uomo elegante, anziano, con un fascio di schede sotto braccio e
un'istituzione sulle spalle. Ero toccato dalla sua sollecitudine. Stella era
una mia paziente, ma anche una donna, e non lo scoprivo certo adesso.
Negli ultimi giorni non facevo che immaginarla in casa mia, dove una vol-
ta era stata tanto spesso, tra i mobili, i libri, gli oggetti preziosi. Sì, quello
era il posto per lei: tra le mie opere d'arte. Sarebbe stata certo molto meglio
che qui.

Tra i privilegi della sua attuale condizione c'era quello di poter passeg-
giare sulla terrazza del braccio femminile in certe ore del giorno, e Stella
lo sfruttava fino in fondo. Era arrivata la primavera, e a Stella piaceva star-
sene a guardare la campagna col cappotto sulle spalle, perché faceva anco-
ra fresco anche al sole, e spesso tirava vento. Non aveva nessuna fretta di
fare amicizia con le donne del nuovo padiglione; pensava fosse meglio che
succedesse a poco a poco, e ostentava una certa freddezza. Sapevano tutti
che era la moglie del dottor Raphael, il vicedirettore di prima, e che il dot-
tor Cleave era un suo vecchio amico. In realtà conoscevano tutta la storia;
una ragione in più per tentare di ammantarsi di un po' di mistero.

XII

Nelle settimane successive, via via che Stella si lasciava assorbire dalla
vita dell'ospedale, il suo mistero cominciò a sfumare; e del resto, pur con-
tinuando a tenersi un po' a distanza, neppure lei voleva isolarsi del tutto
dalle altre. Esprimeva molto equilibrio e molta dignità, questo sì, e portava
come un velo l'aria addolorata della protagonista di un dramma vittoriano.
La vidi anche perfezionare un certo sorriso triste, appena accennato, e no-
tai che pazienti e personale la trattavano con rispetto, quando non con de-
ferenza. Vestiva in cupe tonalità di blu, grigio e nero, e portava sempre con
sé un libro. Era un'assidua frequentatrice della nostra biblioteca.
Insomma, valutando tutti questi segni nel loro insieme la consideravo
sulla via della guarigione; pensavo che nei recessi più nascosti del suo es-
sere stesse affrontando, e accettando, i fatti di Cledwyn Heath. Avevamo
un paio di sedute alla settimana, e ogni volta che accennavo alla morte di
Charlie mi faceva credere che sì, non pensava praticamente ad altro, non
riusciva a staccarsi da quel pensiero terribile, e che la gravità della sua col-
pa la stava profondamente cambiando. A poco a poco, mentre lo spavento-
so rimorso per quel gesto atroce corrodeva come un acido il suo vecchio
sé, portando alla luce qualcosa di nuovo, Stella assunse le sembianze di
una santa, di una donna che sta dolorosamente arrivando a una catarsi. E
l'ospedale diventò quindi un monastero, un convento, e lei una dama soli-
taria afflitta da un'immensa pena che i monaci avevano accolto per consen-
tirle di compiere il suo viaggio intcriore in una quiete claustrale.
Sulla terrazza sceglieva sempre una certa panchina, dove andava a se-
dersi tutti i pomeriggi, con meticolosa puntualità, fra le tre e le quattro. A
volte una paziente o un'infermiera le facevano compagnia, ma spesso era
sola. Fra i pazienti al lavoro in giardino, o nelle terrazze inferiori, quella
figura col cappotto sulle spalle, seduta a fumare e a contemplare tran-
quillamente il paesaggio, non passava inosservata. Uno di loro, un ragazzo
con una zazzera di capelli neri, ogni volta che smetteva per un attimo di
zappare ne approfittava per voltarsi, non verso il panorama, ma verso l'al-
to, dove la donna vestita di scuro sedeva sola, assorta nei suoi pensieri, un
giorno dopo l'altro, fra le tre e le quattro del pomeriggio.
Quando me lo riferirono presi subito la cosa molto sul serio. Nessuno
doveva disturbare Stella durante il difficile periodo della convalescenza, e
meno di tutti questo giovane psicopatico coi capelli neri, un certo Rodney
Mariner. Uno dei miei. Lo feci immediatamente rimuovere dalla squadra
di lavoro, gli revocai la semilibertà e lo trasferii nel reparto agitati. Era una
misura puramente precauzionale.

A quanto pareva avremmo avuto un'altra estate calda. Le giornate erano


limpide e senza vento, e nelle lunghe sere tiepide si respirava la fragranza
della prima fioritura. Mi sorpresi a pensare che solo un anno prima Stella
passeggiava su quella stessa terrazza con Max e me dopo il ballo. Sembra-
va fosse trascorsa una vita. Mi chiedevo come Stella reagisse a immagini,
suoni, tutto ciò che non poteva non ricordarle l'estate scorsa, e la sorve-
gliavo di continuo, alla ricerca dei segni di un'irrequietezza insolita. Ma
diventava sempre più chiaro che ormai Edgar non era più al centro dei suoi
pensieri; ne ebbi conferma scoprendo la presenza di un nuovo intruso psi-
chico. Durante una seduta Stella mi disse infatti di soffrire, da qualche
tempo, di emicranie notturne, che immancabilmente facevano seguito a
sogni tanto nebulosi quanto terrificanti. Da quei sogni, spesso, si svegliava
di soprassalto. Al buio, seduta sul letto, continuava a rivedere quelle im-
magini, e per qualche attimo pensava con terrore di non avere scampo. Per
fortuna il sogno svaniva quasi subito, tornando nella zona oscura da cui era
emerso, e l'unica, fievole traccia del suo passaggio nella mente addormen-
tata di Stella era una forte pulsazione alle tempie. Ma prima, per pochi ma
interminabili secondi, nella testa di Stella risuonavano delle grida.
Non si trattava di uno sviluppo sorprendente, anzi, in un certo senso era
proprio quello che stavo aspettando. E tuttavia, notando la serietà con cui
ascoltavo il suo racconto, Stella cercò di minimizzare, dicendomi che era
solo uno stupido incubo, le bastavano due compresse di aspirina per il mal
di testa. Delle grida Stella non era in grado di dirmi nulla, ma essendo pra-
ticamente certo di trovarmi di fronte all'insorgere di quel senso di colpa
che finora lei aveva così efficacemente rimosso sapevo benissimo che co-
s'erano: erano le grida di un bambino che annegava.
Dunque la guarigione era davvero cominciata: Stella si stava liberando
di Edgar e cominciava ad affrontare la morte di Charlie. Adesso non rima-
neva che elaborare il senso di colpa. Confidavo che sarebbe stato un pro-
cesso doloroso ma diretto, e relativamente rapido, almeno nella fase inizia-
le e più acuta. Passata quella, non avrebbe più avuto senso tenerla qui, per-
ché non poteva più essere considerata un reale pericolo per la società. Era
quindi tempo che io pensassi al suo futuro, a cosa Stella avrebbe fatto di lì
a un mese, quando fosse stata abbastanza bene da lasciare l'ospedale. In
particolare, bisognava decidere chi si sarebbe occupato di lei.

Qualche giorno dopo andai nel Galles per discutere i miei progetti con
Max. Poveretto, non aveva nessuna voglia di vedermi, né che io vedessi
come si era ridotto. Lavorava ancora all'ospedale di Cledwyn, e viveva
sempre dai Williams, ma avevo la sensazione che fosse diventato una spe-
cie di recluso.
Arrivai a Plas Mold nel primo pomeriggio. La casa, il cortile, i campi e-
rano esattamente come me li aveva descritti Stella; il cane abbaiava, il tan-
fo di concime appestava l'aria. Avevo sperato di vedere, magari di sfuggi-
ta, Trevor Williams, ma di quel dongiovanni rusticano e di sua moglie non
c'era traccia. Max ciabattò fuori in camicia e bretelle, invitandomi a entra-
re. Era magro come un chiodo, l'ombra di se stesso. Attraversammo la cu-
cina immacolata e salimmo nel soggiorno, che adesso era diventato il suo
studio. Max mi propose uno sherry.
La stanza era a dir poco austera. Niente quadri, niente radio, niente tele-
visione, solo una poltrona, qualche scaffale di libri, e una scrivania con la
vista sulla vallata. Mentre Max riempiva i bicchieri mi avvicinai alla fine-
stra. Non era il panorama a interessarmi, ma le foto incorniciate che Max
teneva sulla scrivania. Erano quasi tutti ritratti di Charlie, in un paio dei
quali compariva anche lui. Ne sollevai uno alla luce. Max si materializzò
al mio fianco porgendomi il bicchiere, e guardammo insieme suo figlio.
Mormorai la cosa più ovvia, e cioè che non vedevo foto di Stella.
Con un sospiro, Max mi fece cenno di accomodarmi in poltrona. Poi gi-
rò la sedia della scrivania in modo che fossimo l'uno di fronte all'altro.
«No,» disse «niente foto di Stella».
Tanto valeva arrivare subito al dunque, e gli esposi il motivo della mia
visita. Fu sorpreso, ma non più di tanto. Purtroppo, ogni manicomio di
provincia ha il suo Max - un uomo dalla vita distrutta -, quindi conosco
bene il tipo, e in particolare so come reagiscono quasi tutti gli psichiatri al-
le tragedie personali: si lasciano affascinare dalla loro stessa sofferenza.
Sul lavoro rimangono gli stessi di prima, competenti e a volte persino e-
nergici, ma dentro sono come piegati dal peso apparentemente immane
dell'esperienza, sia loro sia dei pazienti. Perdono ogni traccia di naturalez-
za e di umorismo, e affrontano le patologie con una sensibilità troppo acu-
ta per conservare un minimo di distanza da ciò che vedono e sentono ogni
giorno in ospedale. Cancellando il confine tra salute e malattia, prendono
su di sé, come Cristo, le sofferenze dell'umanità. Si tengono alla larga dalla
vita, e spesso si dedicano a letture filosofiche, in genere misticheggianti.
Max era così. Immagino che Stella si trovi bene da voi, mi disse con voce
lugubre. Gli tracciai a grandi linee il quadro clinico.
Annuì ripetutamente, prima di sprofondare di nuovo in un silenzio cupo.
«Credo che dovresti essere molto prudente» disse alla fine.
Per i casi disperati come Max, la prudenza diventa spesso un valore as-
soluto. «Prudente?» dissi.
«Non sono nella posizione di darti dei consigli» disse con impercettibile,
plumbea ironia. «Dopotutto sei tu il medico curante. Io sono solo...» un
breve colpo di tosse «il marito».
Aspettai che aggiungesse qualcosa. Parlava a fatica. Probabilmente non
gli rimane molto da vivere, pensai. Mi chiesi se non avesse un cancro.
«Il punto è che lo ha fatto entrare in casa lei, capisci?».
Non dissi nulla. Pensavo solo che se fosse stato un mio paziente gli avrei
prescritto degli antidepressivi.
«Stella dovrebbe essere in prigione» continuò.
«Io credo che tu sia ancora molto in collera con lei, e del resto non po-
trebbe essere altrimenti».
«Non usare quel tono condiscendente con me, Peter. Guarda che so di
cosa sto parlando. Ma ognuno per sé, immagino». Un altro colpo di quella
brutta tosse secca.
«Esattamente».
«Hai la mia benedizione. Ma voglio metterti in guardia».
Un'altra pausa sofferta.
«Da cosa?».
«Dalla perfidia. Dalla menzogna».
Sembrava un gesuita. Ma avevo sentito quello che volevo sentire. Mor-
morai qualche banalità, poi mi alzai. Max si tolse gli occhiali e cominciò a
pulirseli col fazzoletto. «Comunque, tutto questo è secondario, vero?» dis-
se. «Tu vuoi arrivare a Stark».
«Li ho in cura entrambi».
Mi lanciò uno sguardo acuto, ma non aggiunse altro.
Poi mi accompagnò fuori. C'era molto vento. Max si infilò le mani in ta-
sca e rabbrividì. Quindi, guardando il cielo, mi disse: «Con la vergogna bi-
sogna lottare ogni giorno. Ma la cosa più difficile è assumersi le proprie
responsabilità».
Quando mi allontanai era ancora lì, con le mani in tasca, a guardare il
cielo. Cosa gli fosse successo era evidente; aveva rivolto le proprie ten-
denze punitive contro di sé, e si stava condannando a morte a poco a poco.
Non aveva più alcun interesse reale per Stella.

Al nostro incontro successivo dissi a Stella di essere talmente soddisfatto


dei suoi progressi che avrei chiesto l'autorizzazione per il suo rilascio; non
subito, naturalmente, ma in un futuro non lontano. La sua reazione fu cau-
ta: sollievo, sì, ma temperato dal dolore. Ormai parlavamo come due vec-
chi amici. Un giorno le annunciai che non c'era più bisogno di incontrarci
nel padiglione, e l'indomani la feci accompagnare nel mio ufficio in Dire-
zione. Non aveva più senso tenerla ancora all'oscuro delle mie intenzioni.
Quando arrivò le andai incontro e dissi all'infermiera di tornare un'ora
dopo. L'ufficio del direttore è il più bello dell'ospedale: è una stanza molto
ampia, col soffitto alto, tutta legno lucido e cuoio stagionato nei toni del
nero, del marrone e del sangue di bue. Più che l'ufficio di un ospedale,
sembra il salone di un club. Da un lato c'è il tavolo delle riunioni, dall'altro
una grande scrivania, dietro la quale la vista spazia sulle terrazze e la cam-
pagna a perdita d'occhio.
Stella fece un giro per la stanza, dicendo che ci si sentiva la mano di un
uomo. Sui pannelli di legno scuro c'erano dipinti e stampe. Alcuni appar-
tenevano all'ospedale, ma la maggior parte proveniva dalla mia collezione.
Notò diversi quadri che conosceva per averli visti in casa mia, e ci si mise
davanti come se stesse riabituandosi a dei vecchi amici.
«Questo te lo ricordi» le mormorai avvicinandomi per indicarle una pic-
cola natura morta italiana che le era sempre piaciuta.
«Oh, certo» rispose.
Curiosando nella libreria trovò, vicino ai soliti testi di psichiatria, diversi
scaffali di letteratura. Tirò fuori un volume di poesia, e lo stava sfogliando
quando udì un tintinnio familiare di cui aveva sentito molto la mancanza
nelle ultime settimane. Voltandosi mi vide appoggiare sulla scrivania una
bottiglia di gin e un paio di bicchieri.
«Vuoi bere qualcosa?».
Se ne stava lì con il libro in mano a rigirarsi la mia domanda nella testa
come un vino d'annata. Era una domanda da degustare senza fretta. Sorri-
se.
«Ti va un gin tonic?» le chiesi. «Io lo prendo sempre, a quest'ora».
«Sì, mi va, molto, Peter».
«Bene».
Sorvolammo entrambi sull'opportunità di offrire alcolici a un paziente.
Ci comportammo come fosse tutto normalissimo. Una bella coppia che
beve un aperitivo a metà pomeriggio.
«Siediti pure, Stella» le dissi indicando le comode poltroncine con l'im-
bottitura di cuoio rossiccio, sistemate a semicerchio intorno alla scrivania.
Stella ne scelse una, e io quella vicina. Poi ci mettemmo a guardare il cielo
immenso, ammantato di nubi candide. Un attimo dopo suonò il telefono, e
fui costretto ad accettare un appuntamento di lì a un'ora. Tornai a sedermi
piuttosto nervoso.
«Avrei dovuto rifiutare l'incarico» dissi. «Non fa per me».
«In effetti non so se ti ci vedo» rispose Stella.
«E non mi riesce granché bene».
«No, per questo sono sicura che te la cavi egregiamente, ma con tutte
queste grane burocratiche non ti rimane abbastanza tempo da dedicare al
tuo vero mestiere. Ed è un peccato, sai. Lì sei proprio brava».
«In ogni caso, ho in mente di andare in pensione».
«Peter!».
«Che c'è di strano? Non sono ancora così decrepito da non potermi met-
tere a scrivere, ad esempio. Oppure potrei occuparmi del mio giardino, che
sta diventando una vera steppa. Perché no?».
«Ma quando ti sei candidato per il posto lo avrai fatto a ragion veduta,
no?».
Stella cominciava a capire che tutto questo portava a qualcosa; proba-
bilmente, a un colpo di scena.
«Oh, era evidente che il mio sarebbe stato solo un interregno. Tutti pen-
savano che sarebbe stato Max a prendere il posto di Jack. Era la scelta più
ovvia».
Una pausa. Stella non disse nulla.
«Ma le cose sono andate altrimenti» mi affrettai ad aggiungere. «E così
mi hanno chiesto di restare finché non si trovava qualcuno per un incarico
a lungo termine. Adesso di tempo ne hanno avuto. Se rimango ancora que-
st'ansia diventerà cronica. Pensi mai a Max?».
Era dispostissima a parlarne. Mi disse che rimpiangeva che Max non si
fosse aperto con lei, dopo Edgar, che non le avesse detto cosa provava. Se
non avesse agito in malafede, forse avrebbero potuto rendere l'atmosfera
più respirabile, trovare il modo di convivere. E forse Charlie...
Una pausa. Abbassò la testa e si rinchiuse nel silenzio. Da parte mia, un
sospiro comprensivo. Era una bella giornata, c'era un tiepido sole primave-
rile, e dalla finestra aperta entrava un soffio di brezza. Un gruppo di pa-
zienti coi calzoni gialli, la giacca sulle spalle e gli scarponi da lavoro attra-
versò la terrazza. L'eco attutito delle loro voci arrivò fino a noi. L'orologio
a muro ticchettava. Rimasi passivo, in ascolto.
«Continua» mormorai dopo qualche tempo.
«Oh, adesso non so dirti cosa provo per lui. Vorrei non averlo mai cono-
sciuto. Hai parlato con Brenda?».
«Sì».
«E come sta?».
«Ancora molto scossa, come puoi immaginare. Il suo medico la tiene
sotto osservazione».
«Quanto deve odiarmi».
«Non credo. Soprawiverà, come sopravviverai tu. La tragedia è un aspet-
to della vita meno raro di quanto a volte si creda».
Fece un sorrisetto stentato. «Mi fa piacere che le prospettive non siano
poi così fosche».

Da quel sorrisetto capii che era arrivato il momento di parlare. Io ho su-


perato i sessanta e presto andrò in pensione. Se sono fortunato mi restano
una quindicina d'anni, e non intendo passarli da solo. Da qualche tempo mi
ero messo in testa che una volta uscita dall'ospedale Stella avrebbe potuto
venire a vivere con me. Dal mio punto di vista era una sistemazione molto
vantaggiosa. Stella era una donna colta e bellissima. Capiva il mio modo di
vivere, e lo avrebbe trovato congeniale. Arte, viaggi, giardinaggio e libri
erano interessi comuni. Stella avrebbe portato un soffio di luce e di grazia
nella mia casa tranquilla e nella mia vita austera. Era perfetta per quelle
stanze sontuose, che mi sentivo pronto a dividere con lei. Avremmo parla-
to, sarei arrivato a conoscerla. A capire la sua storia con Edgar.
E lei, in me, avrebbe trovato conforto. Sicurezza. Sarei stato il suo ange-
lo custode.
«... custode?».
Era stupefatta. Scattò in piedi, attraversò tutta la stanza, e si mise a guar-
darmi appoggiata alla parete più lontana. Io ero ancora seduto e le davo le
spalle, lo sguardo sul panorama. Nel caos in cui era precipitata, Stella si
aggrappò all'unico dato inoppugnabile.
«Ma io sono ancora sposata con Max!».
Adesso mi girai.
«Sono stato a trovarlo» dissi. «Non si opporrà».
«Veramente?».
Annuii.
All'improvviso, Stella sembrò trovare tutto esilarante. Una proposta di
matrimonio dal direttore dell'ospedale, col consenso di suo marito. Che
razza di pomeriggio. Si sentiva come una partita di femminilità danneggia-
ta, ma tutto sommato riutilizzabile, che passava dal vecchio proprietario al
nuovo dopo essere stata messa per qualche tempo in magazzino. Si coprì la
bocca con la mano e mi guardò, mentre una risata silenziosa le scuoteva le
spalle. Non smise finché non la riaccompagnai alla poltrona, dove mi si
aggrappò alla giacca affondandomi la faccia nella spalla. Dopo qualche at-
timo riprese il controllo. Lasciò andare la giacca e usò il fazzoletto che a-
vevo estratto dal taschino. Si riaggiustò i capelli, poi prese il bicchiere.
«Devo fare spavento. Per favore, non darmi sedativi».
«Non vuoi niente?».
«Non ne ho bisogno».
Tirò fuori portacipria e rossetto nel tentativo di riparare il danno.
«Devo dire» mormorò controllandosi nello specchietto «che hai un mo-
do insolito di comunicare le brutte notizie».
«Qual è la brutta notizia?».
«Max. Max che non si oppone».
Nelle sue parole c'era una pesante ironia.
«So che non mi ami,» le dissi «ma penso che tu abbia bisogno di me,
almeno in questo momento. E sono pronto a scommettere che col tempo le
cose cambieranno. Che non proverai più solo affetto».
Un altro silenzio.
Sentivo la sua compassione. Poveraccio, pensava. Accennò un sorriso.
Non mi stava prendendo del tutto sul serio, ma cercava di non darlo a ve-
dere. Rigirava il bicchiere fra le dita, guardandolo tra le palpebre socchiu-
se. Un raggio di sole batteva sul cristallo, rifrangendosi in minuscoli bar-
bagli. Stella inarcò le sopracciglia. Sapeva che la stavo osservando.
«Tu sei un uomo molto appassionato, Peter?» mormorò.
«Penso sia una cosa che potremo scoprire insieme, noi due» risposi a
bassa voce. Accentuai appena il «noi». Le stavo dicendo che sarebbe dipe-
so solo da lei. Questo la scosse dalla sua fantasticheria.
«Che cosa?».
«Riesci a immaginarlo, allora?» le chiesi.
Tornò alla libreria e fece scorrere un dito sui dorsi. Sono l'Addolorata,
diceva la sua schiena, sono un'acqua scura, sono dolore, la mia anima è la-
cera, sanguina, toccherai la mia ferita? Un attimo di silenzio. Non lo farà,
si disse, non mi dissezionerà proprio qui, proprio ora; e infatti non lo feci.
La lasciai tornare in silenzio alla poltrona. Alla fine parlò lei.
«Prendi sotto la tua ala un bel caso disperato».
«Oh, io sono un mago, sai».
«Se ti sposassi...».
Oh, e la mia faccia, mi disse, si riempì immediatamente di tenerezza.
Che cosa meravigliosa era quella tenerezza, e quanto bene le fece! Con un
sorriso cercò la mia mano, che era poggiata sulla scrivania; e i suoi occhi
cercarono il mio viso, assorbendo fino all'ultima stilla il sentimento che
aveva suscitato in me.
«E quando pensavi...?».
«A luglio».
«Non qui, vero?».
Scossi la testa.
«Una cosa tranquilla?».
«Sì, una cosa tranquilla».
Adesso mi guardava con un'espressione che diceva, magari fosse così
semplice. Le lessi nel pensiero.
«Sarà semplicissimo».
Mi strinse la mano.
«Caro Peter» disse, anche se in realtà credo continuasse a pensare pove-
ro Peter. Si lasciò ricadere in poltrona.
«Ora vorrei tornare in camera» disse.
«Certo».

L'Addolorata riprese la vita di sempre, senza rivelare a nessuno la stupe-


facente proposta del direttore. Era stata sul punto di dirlo alle sue compa-
gne, tanto per vedere come l'avrebbero presa, ma in fondo lo sapeva già. Ti
ha chiesto di sposarlo? Ma come no, tesoro. E io sono la sposa di Cristo.
Sulle prime la mia proposta l'aveva quasi divertita, ma sapevo che presto
avrebbe cominciato a fare i suoi conti, arrivando fatalmente alla conclusio-
ne che sposare me sarebbe stata la scelta migliore. La stavo sottoponendo a
un peso notevole, come non ne avesse già abbastanza di suo, ma ero con-
vinto che ormai fosse abbastanza forte da reggerlo. Riuscii anche, senza
troppo sforzo, a superare la sua reticenza riguardo ai sogni. Sapevo che so-
lo parlandomene sarebbe riuscita ad alleviare, almeno in parte, il suo lan-
cinante senso di colpa.
Naturalmente il bambino che gridava era Charlie. Sentiva, mi disse, del-
le forze dentro di lei che cercavano di difenderla da lui, ma Charlie era
troppo forte, e alla fine, nonostante tutto, riusciva a passare. Stella si alza-
va a sedere sul letto, la faccia tra le mani, e sentiva la mente che si sneb-
biava, ma non abbastanza in fretta da non mostrarle l'immagine di Charlie
che sfumava a poco a poco. Il peggiore di tutti era un sogno ricorrente in
cui lui la fissava, e con la vocina e la buffa espressione di quando voleva
parlare sul serio diceva: «Mami, non vedi che sto annegando?».
Ah, quelle parole! Risuonavano ancora al risveglio, quando Stella entra-
va nella routine della vita ospedaliera, e si lavava e si vestiva e andava in
mensa con le altre. Le prime ore del mattino, mi disse, erano il momento
più duro della giornata. Doveva mantenere un contegno, fingere serenità, e
intanto lottare per non soccombere a quell'atroce vocina che non faceva
che ripetere, Mami, non vedi che sto annegando? Mami, non vedi che sto
annegando? Certo tesoro, certo che lo vedo, sto venendo ad aiutarti, non
aver paura, amore, mamma ti aiuterà, mamma non ti lascerà annegare! ur-
lava Stella, ma a chi? chi mai poteva sentirla? Nessuno; la sua voce echeg-
giava sotto una volta piena di ombre, e non c'era nessuno a risponderle,
nessuna presenza amica usciva dal buio per prenderle la mano, e rassicu-
rarla, e dirle che andava tutto bene, era stato solo un sogno. E anche da
sveglia non cambiava niente, perché non era stato solo un sogno. Charlie
era morto, ma continuava a vivere in lei, e urlava, urlava dal terrore, per-
ché non capiva come mai la mamma non lo aiutava.
Raccontarmi questo l'aveva sconvolta, e cercai di tranquillizzarla. Non è
il primo caso che vedo, le dissi. Charlie è morto, e noi non possiamo ripor-
tarlo indietro, ma io ti posso aiutare. Posso alleviare il tuo dolore. Non sei
più sola. Stella mi confessò che ora andare a dormire le faceva paura, era
come scendere in una cantina dove sapeva che avrebbe trovato solo orrore.
Ecco cos'era diventata la notte, per lei: un viaggio nell'orrore. L'ombra si
allungava, svaniva sempre più tardi, impregnava le prime ore del giorno
col suo fetido retrogusto psichico...
Oh, il suo fu un gioco davvero astuto, niente da dire. Al mattino non la
vedevo mai, ero troppo preso dai miei infiniti impegni burocratici; comin-
ciavo le sedute coi pazienti, lei compresa, solo nel pomeriggio, e a quel
punto, mi diceva, la voce era svanita, e il suo equilibrio molto meno preca-
rio. Di fatto riuscivamo a parlare di Charlie con più calma, e Stella
sdrammatizzava, e mi lasciava abbondantemente vedere che stava sdram-
matizzando prima di passare ad argomenti più piacevoli, ad esempio il no-
stro matrimonio. Il nostro matrimonio: era chiaramente un'idea che conti-
nuava a divertirla, e tutte le volte che vi accennavo rideva come di una bat-
tuta particolarmente spiritosa. Le battute, almeno prima, avevano avuto un
ruolo importante nella nostra amicizia. E questa, anche se io sembravo non
considerarla tale, era la più divertente di tutte. Stella aveva sempre creduto
che io fossi omosessuale, lo sapevo bene. Be', doveva pensare adesso, ma-
gari lo è, magari più che un matrimonio nel vero senso della parola Peter
mi sta proponendo una sistemazione con risvolti terapeutici. Si immagina-
va la mia casa e il mio giardino, e credo che senza neppure accorgersene
cominciasse ad anelare di andarvi, perché significavano tutto ciò di cui, in
fondo, aveva bisogno: pace, eleganza, comodità. D'improvviso sentiva di
volere disperatamente la vita che le avevo offerto.
Adesso la mia unica preoccupazione era che cambiasse idea. Per la pri-
ma volta da anni mi sorpresi a provare un filo di insicurezza. Immaginavo
Stella pensare: tutti i giorni Peter. Peter a colazione, a pranzo e a cena. Io e
lui sotto lo stesso tetto, a condividere le stesse stanze, tutti i giorni che dio
manda in terra. Ma subito mi rassicuravo. Non poteva non rendersi conto,
pensavo, che la vita con me sarebbe stata sotto il segno del divertimento
colto e sofisticato. Sapeva di non dover temere la sinistra scoperta di laide
abitudini, piccole crudeltà, durezze impreviste. Sapeva che sono una per-
sona civile. Sì, poteva vivere con me. Ma sapeva un po' meno come sa-
rebbe stato venire a letto con me. Questo era un campo che riservava im-
mancabilmente sorprese, e di rado piacevoli...
Riuscì a farmi credere che avrebbe potuto essere all'altezza delle mie a-
spettative, riuscì a farmi credere che mi avrebbe fatto felice, conquistando
al tempo stesso, per sé, un minimo di serenità. Non sarebbe stato difficile,
visto il tipo di uomo che ero e anche, perché no, quello che possedevo. Il
benessere rende tutto meno degradante, mi disse. Avevamo visto entrambi
che cosa succedeva in un ambiente squallido: oh, l'amore ardeva, certo, ma
di un fuoco tremolante, sempre sul punto di spegnersi. Un amore come
quello che Stella aveva vissuto non avrebbe mai trovato posto nel tipo di
vita che contemplavamo, era un inferno in confronto al raffinato tepore che
noi due intendevamo tener vivo. Credevo pensassimo entrambi che quelle
emozioni violente tendono, per loro natura, a divampare senza freni per poi
estinguersi dopo aver divorato ciò che le aveva alimentate. In ogni caso
tutto questo, ormai, era finito. O comunque Stella riuscì a farmelo credere.
Quando mi chiese di aumentarle la dose di sonnifero le risposi che sa-
rebbe stata molto meglio senza sedativi, e che continuando a rimuovere i
sogni avrebbe bloccato un materiale inconscio di cui aveva invece assoluto
bisogno per elaborare la morte di Charlie. Stella si spaventò moltissimo,
tanto da arrivare sul punto di gridarmi: «Non c'è niente di rimosso!», ma
ricacciò il grido in gola. Disse invece che siccome di giorno i ricordi non
la abbandonavano neppure per un attimo, sperava le venisse concessa una
tregua almeno durante il sonno.
«Come vuoi» le risposi. Non insistetti su quel tasto, non la forzai. Pur-
troppo non detti neppure molto peso alla richiesta, e naturalmente avrei
dovuto. In tutto questo, infatti, un dato mi sfuggì, e cioè quanto le costasse
recitare, attanagliata com'era da un dolore implacabile, che non le dava tre-
gua, e di cui io, concentrato solo ed esclusivamente sul senso di colpa, non
colsi la vera natura. Decisi di non aumentarle i sonniferi. Le dissi che la
dose era già abbastanza alta.

Non la vidi per parecchi giorni. A luglio, le avevo detto; adesso eravamo
alla fine di maggio. Mancavano ancora cinque o sei settimane. Le giornate
di Stella erano sempre le stesse: ogni mattina si vestiva con estrema cura,
passava a prendere un libro in biblioteca, se lo portava nella sala comune e
si metteva a leggere vicino alla finestra, a meno che una delle altre non at-
taccasse discorso. Rimaneva distante, composta, gentile, triste.
Una paziente che sta per uscire viene trattata da tutti in un modo molto
particolare. Intorno a questo strano ibrido - non più una malata, non ancora
una donna libera -, finisce sempre per crearsi un'aura di pacata celebrazio-
ne, perché una paziente che esce è motivo di vanto per il personale e di
speranza per le sue compagne. Stella era in ospedale da poco, ma aveva
sempre cercato di conservare la sua dignità, guadagnandosi così il rispetto
generale. Le altre le facevano gli auguri, e quando le chiedevano dei suoi
progetti lei rispondeva che avrebbe vissuto a Londra con la famiglia di sua
sorella. E se anche qualcuno si era chiesto perché nessun membro di quella
famiglia fosse mai venuto a trovarla, aveva tenuto quel dubbio per sé. Stel-
la, dal canto suo, non mi domandò nulla sull'autorizzazione necessaria al
nostro matrimonio.
Ogni pomeriggio me la portavano in ufficio, e in quella stanza grande e
confortevole passavamo un'ora a discutere dei nostri progetti, passati nel
frattempo da un matrimonio in forma strettamente privata a un viaggio di
nozze in Italia, dove intendevo mostrarle Firenze, che conoscevo bene, e
Venezia, che conoscevo meno. Avevamo deciso di partire a fine settembre,
quando fa meno caldo e i turisti sono tornati a casa. Poi avremmo comin-
ciato la nostra convivenza, o meglio la nostra rarefatta comunione spiritua-
le. Un pomeriggio le dissi di non condividere l'opinione corrente secondo
cui il matrimonio risolve il problema del sesso: per me il matrimonio, o
almeno il matrimonio come lo intendevamo noi, risolve il problema della
conversazione.
Ma Stella come vedeva la prospettiva di un matrimonio fondato sull'a-
micizia? Sembrava anche a lei che avrebbe risolto il problema della con-
versazione? Io credevo di sì, credevo che a questo pensasse quando sedeva
sulla sua panchina, vestita di scuro, con quell'aria di malinconica rassegna-
zione, perduta nei calcoli del suo cuore.

Non trascuravo affatto l'ospedale. Al mattino partecipavo alle riunioni e


sbrigavo le pratiche, nel pomeriggio mi occupavo dei casi che seguivo di
persona. Visto che stavo per andare in pensione, volevo preparare i pazien-
ti alla mia partenza. Solo uno di loro mi dava qualche serio motivo di pre-
occupazione: Edgar (che ovviamente era da noi: dove altro avrebbe potuto
andare?). Era qui da subito dopo la sua cattura a Chester. Mi restava anco-
ra un punto da chiarire, e cioè se avesse seguito Stella per portarla via o
per ucciderla. Lo tenevo in una stanza all'ultimo piano, in isolamento, ma
non era, come potrebbe sembrare, una misura punitiva.
Non sappiamo ancora molto circa i suoi spostamenti dopo la fuga di
Stella da Horsey Street, ma spero che presto avremo qualche dettaglio in
più. Di sicuro Edgar aveva passato altri tre giorni nel sottotetto, lavorando
senza interruzioni alla testa. Il quarto giorno pareva che qualcuno, non è
ben chiaro chi, fosse venuto a dirgli che la polizia era sulle sue tracce. E-
dgar aveva cacciato in una sacca qualche vestito e un paio di libri ed era
scappato qualche minuto prima dell'arrivo dei poliziotti e, per colmo di i-
ronia, del ritorno di Stella. I poliziotti avevano posto sotto sequestro l'inte-
ro contenuto dello studio, e in seguito mi avevano convocato chiedendomi
di aiutarli a capire se in mezzo a tutta quella roba ci fosse qualche indizio
utile per rintracciare il mio paziente. Mi erano parsi interessanti soprattutto
i lavori che Edgar aveva fatto nei giorni della convivenza con Stella, cioè i
disegni e, naturalmente, la testa. Aveva lasciato tutto lì.
Dopo la fuga Edgar era letteralmente scomparso, risucchiato, riteniamo,
dal sottobosco di artisti e delinquenti che lo aveva nascosto e mantenuto
nelle settimane successive. Eravamo convinti che si spostasse in continua-
zione da uno studio all'altro, da un appartamento all'altro, e a me sembrava
quasi di vederlo, un omone barbuto col giubbotto, il bavero rialzato e il
berretto sugli occhi, che si presentava alla porta degli amici nel cuore della
notte chiedendo ospitalità; verosimilmente, con una certa apprensione da
parte delle loro mogli. Ci era giunta una segnalazione dalla Cornovaglia,
dove pareva vivesse in un cottage in riva al mare; ma secondo me non si
era mai allontanato da Londra, che conosceva come le sue tasche, almeno
fino a quando non aveva deciso di andare da Stella. Quanto a Nick, fu fer-
mato per un interrogatorio e rilasciato su cauzione. Era figlio di un giudice.
Edgar era stato riammesso in ospedale in aprile, e da allora si era sempre
rifiutato di parlarmi. Fosse stato per me non lo avrei certo tenuto a languire
in isolamento, ma non mi dava scelta. Francamente, era una bella seccatu-
ra. Prima di affidarlo a qualcun altro mi serviva un profilo psichiatrico
completo, in base al quale consigliare al mio successore una strategia te-
rapeutica. Sapevo che alla fine avrebbe ceduto, avevo avuto a che fare con
tipi anche più duri di lui; e in genere bastava aspettare. Ma adesso non a-
vevo tempo. Così provai a dirgli, senza particolari precauzioni, del mio fi-
danzamento con Stella. Fui brutale, e anche aggressivo. Volevo costringer-
lo a reagire.
Eravamo in una stanzetta del suo reparto, una cella nuda con le pareti
dipinte di verde, un'unica finestra con le sbarre, un tavolo massiccio tutto
ammaccato e un paio di seggiole di legno. Edgar era chino sul tavolo, dove
faceva rotolare pigramente una sigaretta avanti e indietro. Portava la divisa
grigia dell'ospedale, ma senza cintura e senza stringhe. Gli avevano taglia-
to i capelli e la barba. Era dimagrito di qualche chilo, e sembrava meno si-
curo, più giovane, e stranamente vulnerabile. Non era l'Edgar arrogante
che conoscevo: quello che avevo davanti era un uomo ombroso, debole e
infantile. Lo osservavo attentamente. Aspettavo che ricominciasse a par-
larmi, ma non solo: volevo saperne di più dei suoi attuali sentimenti per
Stella, e chiarire una volta per tutte per quale ragione l'avesse seguita fino
a Chester. Si mise lentamente a sedere, e vidi le emozioni - risentimento,
ironia, incredulità - passargli sul viso come una folata di vento sull'acqua.
«Sta scherzando?».
Erano le prime parole che mi rivolgeva dal suo ritorno.
«No» dissi. Ma non ero ancora riuscito ad agganciarlo.
«Che effetto le fa?» gli chiesi.
Alzò le spalle, scuotendo leggermente la testa. Lo vedevo lottare con se
stesso.
«Ho saputo quello che è successo nel Galles» disse.
Lasciai trascorrere qualche istante in silenzio. Poi ripresi: «Penso che
Stella si meriti un po' di felicità, dopo quello che ha passato» dissi. «Non
crede?».
Una smorfia sardonica.
«Rispondi alla domanda, Edgar».
A questo punto abboccò.
«No, rispondi tu alla domanda, Peter. E la domanda è: cosa ci trova Stel-
la in una vecchia checca come te?».
Tentai di celare la mia soddisfazione.
«Non lo sopporti, vero? Non sopporti l'idea che lei possa amare qualcun
altro».
«Stella vuole solo uscire da qui».
Tacqui un momento. Naturalmente ci avevo pensato anch'io.
«E così la ami ancora» ripresi.
«Stella è... è un animale».
Questo non me lo aspettavo.
«In che senso?» mormorai.
«Tu non la conosci affatto, vero?» disse.
«E tu?».
Non mi rispose. Tornò a chinarsi, evitando il mio sguardo e fissando la
sigaretta spenta che continuava a far rotolare sul tavolo.
«Devo ricordarti cosa fai alle donne quando credi di conoscerle?» gli
chiesi.
Ero seduto al tavolo, davanti a quell'assassino, e lo vidi irrigidirsi e la-
sciar perdere la sigaretta. Ad ogni buon conto, in caso di aggressione c'era
un infermiere dietro la porta.
Edgar aveva tagliato la testa di Ruth e l'aveva infilzata sul suo cavalietto.
Poi ci aveva lavorato sopra con gli strumenti come fosse un blocco di ar-
gilla umida. Per prima cosa le aveva cavato gli occhi. Un poliziotto mi a-
veva detto che era stato come entrare in una macelleria. Senza i denti, e
qualche ciocca di capelli fradici, non avrebbero nemmeno capito che cos'e-
ra.
Avrebbe potuto essere Stella. C'era mancato un soffio.
Quella sera, appena in ospedale fu tutto tranquillo, tornai in ufficio per
ripensare al nostro colloquio. Edgar si era mostrato cinico e sprezzante nei
confronti di Stella, ma non mi aveva convinto. Era un uomo complicato, e
ora più che mai attento a tenere nascosto il suo vero stato d'animo. Ritene-
vo possibilissimo che desse a Stella dell'animale, considerandola invece
una dea; dopotutto non aveva alcuna ragione per essere onesto con me, se
si considera che io non solo ero padrone del suo destino, ma stavo anche
per sposare la donna che un tempo aveva amato, e che forse, a suo modo,
amava ancora. Ma se l'amava ancora mi avrebbe detto che era un animale?
Se il suo intento era quello di distruggere l'immagine che avevo di lei,
sostituendola con una di sua invenzione, sì.

Il pomeriggio successivo tornai al reparto. Prima che lo portassero giù


scambiai due parole con l'infermiere, dal quale appresi, con un certo stupo-
re, che Edgar aveva trascorso una notte tranquilla. Mi sarei aspettato che
sfasciasse la stanza, o che saltasse addosso a qualcuno in corridoio, ma non
aveva fatto niente di particolare, tanto che per un attimo mi chiesi se dav-
vero non gli importasse più niente di Stella. Ma no, l'istinto mi diceva che
gliene importava, e molto. Che nell'economia psichica amore e odio coesi-
stano strettamente è a dir poco un luogo comune clinico. Quello che vole-
vo sapere era verso quale polo Edgar gravitasse, e fino a che punto i suoi
sentimenti fossero patologici.
Gli andai incontro all'uscita del reparto. Era sempre in divisa grigia, e
qualcuno gli aveva fatto la barba. Non un professionista, evidentemente,
visto che sulla sua guancia coriacea c'era un taglietto con un po' di sangue
raggrumato. Aveva lo stesso atteggiamento distaccato del giorno prima.
Quando rimanemmo soli gli offrii una sigaretta, che si infilò sopra l'orec-
chio. Andai dritto al sodo.
«Perché è un animale?».
«Cosa mi stai chiedendo, perché lo è, o come faccio io a sapere che lo
è?».
«Come fai tu a sapere che lo è».
Mi guardò dritto negli occhi. Dietro il suo sguardo vedevo ribollire un
tumulto di pensieri, malati e no. Ne affiorò uno malato.
«Dall'odore».
Questa non l'avevo mai sentita.
«Quale odore?».
«Quello degli animali in calore. Erano sempre in calore. E lei era così
anche con me, nell'orto. Sempre in calore».
«Erano chi?».
«Lei e Nick».
«Nick?».
Stella mi aveva detto tutto di Nick. Ci era andata a letto una volta sola,
in albergo. Adesso Edgar mi fissava con un'espressione di trionfante di-
sgusto. Che cosa stava succedendo nella sua testa? Rimodellava senza
neppure rendersene conto la sua esperienza per adattarla alle future produ-
zioni ossessive? Non aveva forse fatto la stessa identica cosa con il ricordo
di Ruth, non le aveva sovrapposto un comportamento promiscuo che in re-
altà lei non aveva mai tenuto? Ci scrutavamo a vicenda.
«Non era la stessa cosa che dicevi di Ruth?».
«No. Ruth era una puttana. Stella invece lo fa gratis, col primo che le
capita».
Non potei fare a meno di pensare, con una fitta di disagio, a Trevor Wil-
liams. Mi coprii la bocca con la mano e lo osservai per qualche secondo.
La odiava. La odiava e stava male, peggio di prima, e mi dispiaceva mol-
tissimo per lui, mi dispiaceva che tutti i suoi sentimenti per Stella fossero
contaminati da questa immonda falsità.
Uscendo dalla stanza lo sentii canticchiare tranquillamente fra sé. Poi,
appena chiusi la porta, gridò: «Cleave!».
Tornai indietro e rimasi ad aspettare, con la mano sulla porta.
«Sì?».
Si alzò in piedi, e pensai che stesse per aggredirmi. Ma la sua insolenza
e il suo rancore si erano dissolti. Nella preghiera che mi rivolse con voce
bassa e roca, e in tono assolutamente ragionevole, era rimasta solo una di-
sperata sincerità.
«Lasciamela vedere».
Ero stupefatto.
«Che male ci può essere? Solo cinque minuti».
Era quasi riuscito a farmi credere che la odiava, ma alla fine aveva dovu-
to cambiar tattica. Guardando il povero essere spezzato che avevo davanti
provai uno slancio di tenerezza: Edgar aveva bisogno di protezione e di
aiuto, perché qualunque cosa Stella gli avesse dato, lui era troppo fragile
per vivere senza.
«No».
Intorno a lei non si parlava che del ballo, e tutti le chiedevano se ci sa-
rebbe andata. La sola idea le dava i brividi. Da settimane cercava di co-
struirsi un'immagine accettabile, a dispetto dell'umiliante retrocessione da
moglie di medico a paziente, e non era stato facile; spesso sentiva il velato
disprezzo del personale e delle altre pazienti, che non le perdonavano il
trattamento di favore di cui godeva. Il fatto che nessuno l'avesse aperta-
mente insultata era dovuto solo, secondo lei, alla sua riuscita interpretazio-
ne dell'Addolorata; ma non le sembrava il caso di insistere su quella parte
anche al ballo. Peraltro non era affatto sicura di riuscire a mantenere un
comportamento dignitoso nel salone, dove la frattura della sua vita sarebbe
stata esposta troppo brutalmente, e dove tutti avrebbero tratto la stessa
conclusione, la stessa ovvia morale, e cioè che Stella era solo una donna
perduta come tante, una creatura, a ben vedere, patetica. E lei questo non
lo voleva.
Ma poi cominciò il solito dilemma; la solita voce ulteriore le impose di
considerare la delicatezza della sua posizione. Forse a me la sua assenza
dal ballo sarebbe dispiaciuta. Dopotutto ero ancora il suo psichiatra. Pote-
va arrischiare un atto di trasgressione? Poteva permettersi di non venire?
Non lo sapeva, e il solo pensiero la metteva in ansia. Oh, ma una donna
che progetta un viaggio di nozze in Italia non vacilla alla prospettiva di un
ballo d'ospedale. E pensò che questa era probabilmente l'ultima prova della
sua breve carriera di paziente. Va bene, allora, l'avrebbe affrontata, avreb-
be recitato per l'ultima volta l'Addolorata.
Cominciò a prepararsi per quel cimento, concentrandosi sull'abito, la
pettinatura, il trucco. Non avrebbe avuto l'aria della donna perduta, nem-
meno se gli occhi di tutto l'ospedale fossero stati puntati su di lei.

***

Secondo i miei calcoli fu quella notte, o tutt'al più la notte dopo, che
Stella saltò la prima dose di farmaci. Invece di inghiottire le pillole le ave-
va tenute in mano, infilandole poi nella cucitura di un reggiseno che pro-
babilmente aveva cacciato in fondo all'armadio. Dei pazienti in semilibertà
tendiamo a fidarci; non pensiamo che facciano scherzi del genere con le
medicine, ed è per questo che concediamo loro una certa privacy. Immagi-
no Stella in camicia da notte, che guarda fuori dalla finestra la prima luce
dell'alba scolpire la superficie dei mattoni. Doveva aver capito d'un tratto
che nulla sarebbe cambiato, che né la psichiatria né il trascorrere del tempo
avrebbero cancellato la scena di quel mattino a Cledwyn Heath, la testa a
pelo d'acqua, la mano che annaspava.
Ma la testa di chi? La mano di chi?
Le ombre in cortile si erano spostate. Stava sorgendo il sole.

Mi resi immediatamente conto che qualcosa non andava, e stavolta non


la presi alla leggera. Me l'avevano portata, come sempre, dal braccio fem-
minile, e appena la porta si chiuse alle sue spalle cominciai a osservarla
con estrema attenzione.
«Che è successo?» le chiesi accompagnandola a una sedia, e prendendo
posto vicino a lei.
Non voleva destare il minimo sospetto.
«Niente. Cosa può essere successo?».
Riuscì persino a metterci una punta di ironia, come se mi stesse dicendo,
lo sai anche tu che dove vivo io non succede mai niente. Ma non avevo
nessuna voglia di ridere. Ero di nuovo il suo medico.
«Hai un'aria che non mi piace. Brutti sogni?».
Qualche giorno prima mi aveva detto che ora i sogni erano meno nitidi,
e meno frequenti.
«Mi sveglio presto, e non riesco a riaddormentarmi».
«Non voglio aumentarti la dose. E penso che non lo voglia neanche tu,
no? Non credo che ti piacerebbe rimanere intontita tutto il giorno».
«La dose va benissimo, Peter, davvero. D'estate mi sveglio sempre pre-
sto. Nessuna novità per l'autorizzazione?».
Sfogliai le carte che avevo sul tavolo. Mi ero accorto che stava cercando
di cambiare discorso. «Forse si saprà qualcosa verso la fine della settima-
na». Sollevai lo sguardo. «Ci tengono sulla corda, vero cara?».
«Be', un po' sì».
«Comunque non preoccuparti. Se ci fosse qualche problema me lo a-
vrebbero detto. Hai voglia di cominciare la tua nuova vita?».
Mi posò la mano sul braccio. «Certo» disse.
Guardai quella donna triste e bellissima e pensai a Max, a Max che or-
mai era un uomo finito, e sentii l'eco delle sue solenni parole: «perfidia,
menzogna». Ma no, era assurdo, non ci volevo neppure pensare.

Non diede mai problemi al personale del turno di notte. Stava ben atten-
ta, perché al minimo incidente le infermiere si sarebbero accorte che non
prendeva i farmaci. Il suo corpo sdraiato non la tradì mai. Nessuna infer-
miera venne mai a svegliarla per una dose supplementare di sonniferi: do-
veva dare l'impressione di dormire della grossa. Di giorno l'Addolorata, di
notte la Dormiente; in quegli ultimi giorni, o come probabilmente anche lei
aveva cominciato a considerarli, nei giorni prima del ballo, recitava inin-
terrottamente; la sua fu una recita totale, senza neanche la possibilità di to-
gliersi la maschera o di slacciarsi il costume per un momento.
Le altre ormai non stavano più nella pelle. Per le pazienti del braccio
femminile il ballo era importantissimo. L'agitazione era al culmine. Stella
ci scherzava su. Io naturalmente avevo partecipato a più balli di quanti me
ne volessi ricordare, e sorridevo al pensiero della tempesta di isteria re-
pressa che spazzava il braccio femminile nei giorni precedenti il grande
evento.
«E c'è persino la luna piena» le dissi.
«Un bel guaio» rispose.
«Ma no, il guaio è il mattino dopo. Il calo di tensione è quasi drammati-
co. Di solito voi signore siete molto depresse, il mattino dopo il ballo».
«Allora dovrò stare in guardia».
«Oh, di te non mi preoccupo. Fra l'altro penso che non ci dovresti venire,
se non te la senti. Io ti capirei benissimo».
«Ma figurati se non vengo. Non se ne parla. Sarebbe molto, molto anti-
sociale da parte mia».
«Sarai sotto gli occhi di tutti, e tutti faranno commenti. Lo sai, vero?».
«Sì».
La riaccompagnarono al padiglione passando, come al solito, dalle ter-
razze, e forse fu in quel momento che Stella capì di essersi fatta tanti pro-
blemi per nulla. Ma da quando aveva accettato, per ragioni diplomatiche,
di partecipare al ballo, contava quasi le ore. Non era un cambiamento così
strano come poteva sembrare; secondo me aveva semplicemente deciso
che quanto sarebbe successo quella sera avrebbe segnato, una volta per tut-
te, il suo destino.

Le pazienti prendevano i loro posti nel salone prima che venissero fatti
entrare gli uomini. Nelle ultime ore l'atmosfera nel reparto diventava deci-
samente febbrile, e l'attesa cresceva fino a un parossismo destinato prima o
poi a trasformarsi in delusione. Donne esagitate in varie fasi di vestizione
si precipitavano in corridoio alla ricerca di forcine, profumi, trucchi, bian-
cheria intima. Una lite per una spilla da due soldi sarebbe degenerata in
rissa senza l'intervento di un'infermiera. Qualche paziente strillava, qual-
cun'altra piangeva, e le giovani facevano le stupide, chiacchierando fra lo-
ro di fidanzati e storie d'amore. Le donne più mature cercavano di man-
tenersi calme, ma era difficile non farsi contagiare dalla frenesia che mon-
tava sempre più con l'avvicinarsi delle sette.
Stella rimase nella sua stanza a prepararsi. Per l'occasione aveva scelto
un abito da sera nero che aveva portato con sé dal Galles. Ormai le stava
stretto; come costume da Addolorata era un po' troppo peccaminoso, ma
del resto un'Addolorata senza peccato non avrebbe avuto senso. Contò di
nuovo le sue pillole. Si sentiva più tranquilla. Ce n'erano abbastanza, pen-
sò.
Quando uscì dalla stanza per unirsi al gruppo lasciò tutte senza fiato. Le
altre si resero immediatamente conto che era di gran lunga la più bella. E-
rano fiere di lei, e pregustavano il momento in cui, al loro ingresso nel sa-
lone - o meglio, all'ingresso degli uomini - avrebbero brillato di luce rifles-
sa. Uscirono dal reparto abbastanza tranquille, considerata la cacofonia di
voci che aveva imperato fino a pochi istanti prima. Ognuna di loro comin-
ciava a sentirsi intimidita dalla solennità dell'evento.
Scortate dalle infermiere attraversarono il cortile fino alla terrazza. Era
una serata calda. L'aria era carica di profumi, e la luce appena velata. Le
donne si bisbigliavano le ultime raccomandazioni, e in ognuna, a poco a
poco, cresceva l'orgoglio di essere lì insieme a tutte le altre, a tutte le altre
e a quell'unico fiore di bellezza. E quell'unico fiore era Stella, che cammi-
nava maestosa in mezzo a loro nel suo abito nero, un ampio scialle nero a
proteggere dal fresco della sera le braccia e le spalle nude. L'Addolorata,
fra le sue ancelle, era pronta per la recita d'addio.
Il grande salone era come lo ricordava, con le sedie lungo le pareti, le fi-
nestre aperte sulla sera, e l'orchestra che accordava gli strumenti sul palco.
Un gruppetto di infermiere stava aspettando le donne, che entrarono dalla
terrazza contemporaneamente a me e al cappellano. Rivolsi subito a Stella
un inchino, e fu in quel momento che notai cosa indossava. Rimasi senza
parole, e non riuscii a toglierle gli occhi di dosso. Come il cappellano, del
resto. Poi capii che cosa aveva fatto, e quanto doveva esserle costato, e le
feci un cenno di approvazione. Sì, aveva lo stesso vestito, lo stesso vestito
di seta nera dalla scollatura vertiginosa che aveva messo quella sera di un
anno prima. E l'effetto, stavolta, era sensazionale. La straordinaria bellezza
di Stella faceva la sua parte, naturalmente, ma c'era di più: il fatto di aver
scelto per il ballo proprio quel vestito era il gesto di sfida di uno spirito che
non era stato scalfito dalla vergogna. Mi sentii davvero orgoglioso di lei.
Stella si sedette e guardò il trambusto che la circondava. Gli infermieri
andavano avanti e indietro parlottando fra loro, le giovani più irrequiete
erano già al tavolo dove si servivano le bibite; i dirigenti dell'ospedale
chiacchieravano e ridevano con un'ostentata disinvoltura, da aristocratici
quali in un certo senso erano. Che ipocriti! In realtà l'unica cosa a cui pen-
savano era che solo un anno prima Stella era stata una di loro, e le occhiate
in tralice al suo indirizzo non si contavano. Ma con che coraggio si è ri-
messa quel vestito, dicevano i loro sguardi. I miei no, erano espliciti, e-
sprimevano solo affetto e sollecitudine, e volevo che fosse ben chiaro a
tutti. Al mio occhio tranquillo e vigile non sfuggiva nulla, e di fatto Stella
venne lasciata in pace. Il decoro e l'ordine in cui si stava svolgendo la sera-
ta erano una conseguenza diretta della mia presenza, della mia pacata auto-
revolezza e del rispetto che tanto il personale quanto i pazienti mi tributa-
vano.
Col passare dei minuti, nell'impassibilità di Stella si insinuò una certa
tensione. Poi entrarono gli uomini, e lei sentì l'atmosfera diventare di colpo
più elettrica, e vagamente minacciosa. Ora gli aristocratici sembravano
meno estenuati, e gli infermieri più attenti. Quanto alle donne, fremevano.
E mentre l'orchestra attaccava il primo pezzo, gli uomini si diressero in fila
indiana ai loro posti. Non c'erano tutti. Mancava Edgar.
Già, mancava Edgar. Le sue condizioni non gli consentivano di parteci-
pare a un ballo.

Nel corso della serata Stella danzò molto, e benché gli occhi di tutta la
sala fossero puntati su di lei non ebbe un attimo di cedimento. Non bal-
lammo insieme; del resto io non ballai con nessuno, ma a ogni giro di pista
Stella cercava il mio sguardo, e io capivo che quel suo sorriso fisso e im-
perscrutabile era diretto a me, che era con me che stava ballando. Il cappel-
lano, tra noi del personale, fu l'unico a invitarla. Non se la cavava male, e
fra le sue braccia Stella riuscì a muoversi con leggerezza e con grazia. I
brevi sguardi che mi rivolse, gli istanti fuggevoli in cui i nostri occhi si in-
contrarono, tutto la rassicurò: si stava comportando benissimo, esattamente
come avevo sperato. Povero Peter, deve aver pensato.
Verso la fine della serata salii sul palco, presi il microfono e al solito
dissi qualche parola affabile e feci un paio di battute. Sono un direttore
molto benvoluto, e il mio discorsetto incoraggiante ricevette un'accoglien-
za calorosa. Stella mi guardava senza ascoltare quello che dicevo. Le ba-
stava sentire la mia presenza, la mia elegante disinvoltura, il mio bonario
umorismo. Penso odiasse sinceramente l'idea di farmi soffrire.
Durante l'ultimo ballo rimase seduta, e al momento di rientrare si accodò
alle altre. Si incamminarono nel chiaro di luna, attraversando la terrazza
per raggiungere il braccio femminile. Le poche ragazze ancora su di giri
chiacchieravano; tutte le altre se ne stavano in silenzio, soddisfatte ma e-
sauste. Era stato un bel ballo, forse il più bello da molti anni a questa parte.
Qualche sogno d'amore si era infranto, certo, ma in compenso ne erano na-
ti molti altri. Arrivate al padiglione si scambiarono un buona notte più af-
fettuoso del solito, e ognuna rientrò nella sua stanza.
Stella si mise a letto. Appena si spensero le luci piombò il silenzio. Allo-
ra Stella si alzò, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e la lasciò scorrere. Poi
prese qualcosa dall'armadio.

Ero seduto in ufficio, a scrivere. Fuori dalla finestra le terrazze, i giardini


e gli acquitrini erano bagnati dal chiaro di luna. Mi fermai e alzai lo sguar-
do. Qualcosa non mi tornava. Era da quando avevo visto Stella entrare nel
salone che ci pensavo. Per tutta la sera avevo combattuto contro una sen-
sazione di inquietudine, che fino a quel momento ero riuscito a tenere a
bada. Probabilmente era legata al vestito di Stella. Il vestito che aveva por-
tato la sera in cui Edgar l'aveva presa fra le braccia, la sera in cui le si era
strofinato addosso. L'idea di Stella ancora innamorata di lui era un'evidente
incongruenza. E allora perché continuavo a pensarci? E se mi fossi sba-
gliato? Ma certo, certo che mi ero sbagliato: la loro storia non era finita,
non era affatto finita. Lei lo amava ancora.
Ero molto spaventato. Rimisi il cappuccio alla penna e afferrai la cornet-
ta. Composi un numero interno e il telefono squillò in un ufficio del brac-
cio femminile. Oh, ero stato cieco! Non era per noi, quel vestito, non era
un gesto di orgoglio, di sfida, non era uno schiaffo alla comunità dell'ospe-
dale, era per lui, lo aveva messo per lui, era il suo abito nuziale, era il ve-
stito che indossava la sera in cui si era sposata con lui, e mentre aspettavo
che qualcuno rispondesse al telefono capii anche fino a che punto avessi
ingannato me stesso: avevo lasciato che i miei sentimenti personali interfe-
rissero con l'analisi, e facendolo avevo perduto l'obiettività clinica. Una
controtraslazione da manuale.
Dopo che le ebbi parlato brevemente, l'infermiera di turno uscì dall'uffi-
cio senza riagganciare e percorse tutto il corridoio fino alla stanza di Stella.
Aprì la porta quel tanto che bastava per vedere il letto e la sua occupante
immersa in un sonno profondo, quindi la richiuse e tornò a riferirmi. Dopo
averla ringraziata, riattaccai. Non mi rimisi a scrivere. Guardavo fuori dal-
la finestra senza trovar pace.
Passai velocemente in rassegna gli eventi delle ultime settimane. Ricor-
dai il lampo negli occhi di Stella quando le avevo fatto pensare che Edgar
era qui in ospedale. Immaginai come avesse potuto sconvolgerla quell'esile
filo di speranza, e mi resi conto che la mia successiva smentita - non è qui,
era solo una domanda astratta - non poteva essere bastata. Avevo ridestato
un sentimento violentissimo, ecco che cos'avevo fatto, e una semplice pa-
rola non lo avrebbe certo spento. Vidi Stella tornare nella sua stanza e sof-
fiare sulla fiammella di speranza che io stesso avevo acceso, per mantener-
la viva.
E l'aveva mantenuta viva fino a oggi. Oh, non ci aveva messo molto a
capire perché prima le avessi detto la verità, e cioè che Edgar era qui, e poi
avessi cercato di rimangiarmela, affermando il contrario, e aveva anche
capito che per me il segno della sua guarigione sarebbe stato proprio l'in-
differenza alla menzione di Edgar. In quel momento aveva capito di dover
fingere che non gliene importava più nulla. Tutto quello che era seguito -
la richiesta di un lavoro in lavanderia, quel sedersi da sola sulla panchina,
perfino il sogno del bambino che gridava - era stato una messinscena, un
diversivo per tenermi alla larga dalla verità. E la verità era che tutto il do-
lore delle ultime settimane non era affatto il rimorso per la morte di suo fi-
glio, la verità era che Stella era ancora ossessionata da Edgar Stark. Il resto
non contava.
Sì, anche il sogno del bambino che gridava era un'invenzione. Come il
fidanzamento con me, anche quello era una messinscena, l'estremo azzardo
di una donna ancora disperatamente innamorata di un altro, e pronta a tutto
pur di nasconderlo...
Mi ritrovai a passeggiare avanti e indietro, la mente abbacinata da questa
nuova verità, e dovetti fare uno sforzo per riprendere il controllo e sedermi
al tavolo. Ma se Stella era davvero convinta che Edgar fosse in ospedale,
pensavo, e si era messa quel vestito per lui, non vedendolo arrivare avrà...
E allora capii che cosa mi stava dicendo il mio intuito di psichiatra, e per-
ché mi sentivo così a disagio. Se non poteva avere Edgar, tanto valeva mo-
rire. La vita sarebbe stata intollerabile senza di lui. Meglio morire che sof-
frire così. È una reazione rara, ma a volte insorge. È l'ultimo stadio della
malattia.
Pochi minuti dopo attraversavo la terrazza diretto al braccio femminile.
Camminavo sempre più in fretta fra i chiostri ombrosi e i cortili inondati di
luna dell'ospedale addormentato.

Per tutte le lunghe ore di quella notte lottammo per salvarla, ma Stella
aveva vissuto fra gli psichiatri abbastanza a lungo da saper dosare con pre-
cisione una dose letale di sedativi. Morì poco prima dell'alba, senza ri-
prendere conoscenza. Quando si rilassò, abbandonando per sempre inganni
e rimozioni, la sua faccia cambiò, la sua bellezza divenne ancora più im-
pressionante. Era di nuovo pallida e meravigliosa come quando l'avevo
conosciuta. Eravamo tutti distrutti. Ricordai agli altri che chi desidera ve-
ramente morire trova sempre il modo, presto o tardi, ma non servì a conso-
lare quanti di noi si erano occupati di lei e avevano imparato, ciascuno a
suo modo, a volerle bene. La seppellimmo tre giorni dopo nel cimitero del-
l'ospedale, subito fuori dal Muro, e il cappellano celebrò il servizio. A par-
te noi interni non c'era quasi nessuno. Era una giornata calda, di sole, e su-
davamo negli abiti scuri.
Gli Straffen mandarono solo un telegramma, perché a quanto pare Jack
non stava bene, ma Max venne, e venne anche Brenda. Max era cambiato
in modo preoccupante nelle poche settimane trascorse dal nostro ultimo
incontro. Sembrava ancora più vecchio, più sottile, più curvo, e la sua pelle
era quasi trasparente. Si appoggiava a sua madre. Lei, naturalmente, era
forte; nella tragedia Brenda dà il meglio di sé. Dopo la cerimonia li invitai
a prendere uno sherry da me. Se a Max facesse effetto trovarsi quel giorno
nel mio ufficio, l'ufficio del direttore, non lo diede a vedere. Mi sorprese
Brenda, che sfornò una serie di viscide banalità. Speriamo che ora Stella
riposi in pace, mormorò. Io annuii e mi voltai dall'altra parte, lievemente
disgustato dalla sua volgarità. Era chiaro che Max non le aveva parlato dei
nostri progetti di matrimonio.

Non sono andato in pensione come avevo in mente. Mi rimane del lavo-
ro da fare. Edgar è ancora in isolamento; il suo atteggiamento non è mi-
gliorato. E ancora ostile e si rifiuta di collaborare, ma cambierà, già sento
che sta cedendo; immagino abbia capito che ormai gli resto soltanto io.
Non gli ho detto che Stella è morta, perché voglio prima sentire la sua ver-
sione dei fatti. Ci sono ancora troppe domande senza risposta. Max, per
dirne una, è tuttora convinto che i suoi vestiti non siano stati rubati d'im-
pulso, come raccontava Stella, ma che sia stata invece lei a darli a Edgar;
in altre parole, che già allora lei stesse complottando contro di noi, e fosse
a conoscenza della sua intenzione di fuggire.
A pensarci bene Edgar verrà a sapere comunque della sua morte, am-
messo che non lo sappia già. Questo è un istituto molto grande, e la gente
parla. Soffrirà molto, e noi dovremo fare molta attenzione. Come me, co-
me tutti noi era stato folgorato dalla sua bellezza, ma lui era andato più a
fondo di noi, l'aveva idealizzata e poi aveva dovuto lottare contro il caos
delle sue stesse passioni quando si era ritrovato nell'impossibilità di nutrire
l'immagine che aveva creato. Penso fosse quello che inconsciamente aveva
cercato di esprimere con la sua ultima opera, benché sostenesse di voler
soltanto scardinare certezze, capovolgere abitudini e convenzioni visive.
Non riesco a non sentirmi vicino a quelle due povere anime sconvolte, in-
trappolate qui nelle ultime settimane della loro vita, ciascuna a contorcersi
nel suo inferno privato, ciascuna a spasimare per l'altra. So come funzio-
nano le storie d'amore distruttive, e alla fine si arriva sempre a questo, o a
qualcosa di molto simile.
Ho ripreso l'abitudine di tornare in ufficio verso sera. La polizia è stata
molto comprensiva, e ora tutti i ritratti di Stella fatti nel sottotetto, e anche
gli schizzi dell'orto, sono in mano mia. Hanno un tratto curiosamente in-
certo, e all'occhio risulta qualcosa che ricorda quella che gli italiani chia-
mano «morbidezza». Ho anche la testa. L'ho fatta cuocere e colare in bron-
zo nero, e la tengo nel cassetto della scrivania. Edgar ci ha lavorato così
ossessivamente, negli ultimi giorni in Horsey Street, e sempre a togliere,
che adesso è affusolata e minuscola. È bellissima: sottile, minuscola, ango-
sciata... ma è lei. La tiro fuori spesso, durante il giorno, e resto a contem-
plarla. E così, vedete, dopotutto ho ancora la mia Stella qui con me.
E naturalmente ho lui.

FINE

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