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Una serie di premesse per evitare equivoci: ho fatto tre dosi di vaccino,

mai messo in discussione come argine principale alla diffusione del virus.
Sono stato tra i primi (credo) a criticare le prese di posizione di
Agamben (pur ritenendolo uno dei pensatori più importanti del nostro
tempo, https://www.sonarmagazine.it/2020/03/22/il-caso-agamben-che-
scambia-covid-19-per-una-banale-influenza-e-un-complotto/).
Dunque, quello che scriverò non può neanche lontanamente essere
ascritto alla galassia “no-vax”. È più che altro un tentativo a partire dalle
(come sempre) preziose riflessioni di Teresa Simeone di immaginare un
approccio non manicheo e, soprattutto, più “politico” alla vicenda epocale
che tutti stiamo vivendo.
La tesi esposta da Teresa è che, nella lotta al virus, molti mettono in
campo un’irrazionalità fuori controllo, frutto di ignoranza e presunzione,
ritenendo che democrazia significhi libertà di parola per tutti, arrivando ad
affermazioni che incrinano la compattezza con cui bisognerebbe
“combattere” questa “guerra” scatenata da un nemico invisibile, questo
“cigno nero” imprevisto e imprevedibile. Sono affermazioni (in buona
parte) condivisibili.
Quello che, invece, mi sento di non condividere è la visione decisamente
idealizzata della “scienza” che la Simeone esplicita (e che è presente in
tutti i suoi eccellenti contributi, oltre che sul «Vaglio» anche su testate
nazionali come «Micromega»): «È il metodo scientifico a guidare la
ricerca». Ma siamo davvero sicuri che le cose siano andate così in questi
anni? E, mi chiedo e le chiedo, il metodo scientifico è avulso da una
comunità di ricercatori che fanno parte di paesi, Stati o organizzazioni con
precisi interessi economici e geopolitici? In sintesi, è davvero possibile
coltivare ancor oggi l’idea di una scienza (dove è importante anche
enfatizzare l’articolo: non è preferibile declinare al plurale?) “neutrale”? Si
badi: il punto non è ricadere in un manicheismo inutile (essere per o contro
la scienza) ma riservarsi la possibilità di una critica (epistemologica ma
soprattutto politica) alla scienza o meglio alle scienze, situate sempre in
precisi contesti. Ad esempio, per restare alla vicenda che ci riguarda,
sarebbero stati identici i risultati di una scienza mossa dalla competizione
(perché condizionata da interessi economici) a quelli di una scienza
prodotta da un accordo tra Stati e potenze, finanziata pubblicamente nella
sua ricerca e i cui ritrovati fossero stati messi gratuitamente a disposizione
di tutti gli abitanti del pianeta? Questo chiedevano alcuni economisti nel
2020, tra cui il “beneventano” Emiliano Brancaccio
(https://www.sanitainformazione.it/politica/coronavirus-brancaccio-
universita-del-sannio-acquisire-e-rendere-subito-pubblici-i-brevetti-di-
ricerca-delle-aziende-farmaceutiche/).
Il problema, dunque, non è, a mio avviso, come scrive Teresa, un
metodo fallibile fondato (popperianamente) su “trials and errors” (cosa su
cui siamo tutti d’accordo, immagino). Insomma, è chiaro che posta in tali
termini non si possa che darle ragione. Ma io credo sia necessario avere e
veicolare una ricostruzione della scienza (delle scienze) più “complessa”,
in cui non ci si nascondono – e non vale appellarsi all’emergenza perché
questa è, appunto, una strategia di chi esercita il potere, e rischia di essere
una condizione “endemica” dell’umanità avvenire – le incrinature, le
crepe, le contraddizioni “umane, troppo umane”.
«La scienza non è ideologia». Potremmo discuterne (ma non ora e non
qui). Ma, in ogni caso, essa non è pregna di “ideologia”? Quelli nazisti o
fascisti che scrissero mostruosi manifesti non erano scienziati? E chi lo
negasse a quale “scienza” potrebbe appellarsi? Alla sua idea pura e
iperurania? Spero che tale “provocazione” non venga equivocata (sarebbe
ben triste). Sto solo dicendo, con un esempio evidente (e doloroso) che la
scienza è figlia del proprio tempo e dei luoghi, delle culture, delle società,
delle economie in cui nasce. Questo contesto all’amica e ottima collega
Teresa Simeone: una visione idealizzata, essa sì costruita in vitro, della
scienza. È chiaro che il “profano” non deve avventurarsi in terre a lui
sconosciute, ma questo non deve impedire la possibilità di una critica (lo
ripeto: politica) della scienza (delle scienze). È troppo facile crearsi un
oggetto polemico facile da abbattere. L’alternativa non è tra credere alla
magia o alla scienza, ma avere o non avere un atteggiamento critico
(illuministico, non positivistico) nei confronti di quest’ultima, fedeli al
monito kantiano dell’«osa sapere». E questo non significa credere che la
“casalinga di Voghera” sia, sul piano della conoscenza disciplinare, sullo
stesso piano del virologo o dell’epidemiologo che ha dedicato tutta la sua
vita alla studio. Lo ripeto, per evitare equivoci: i meriti della scienza
occidentale sono straordinari (ed essa andrebbe studiata nelle scuole: sì,
studiata storicamente, accanto anche a tutte le altre scienze prodotte nel
corso della civiltà umana, come scriveva Thomas Kuhn nel sempre
fondamentale La struttura delle rivoluzioni scientifiche, che immunizza da
una visione troppo idealizzata del sapere scientifico).
«La ragione ci chiede di non cedere a paure incontrollabili o ad
atteggiamenti fideistici». Quale ragione, chiedo a Teresa? Anche in questo
caso: esiste un’unica ragione (un unico modo di intendere la ragione)?. La
ragione dialettica si identifica con quella strumentale, ad esempio? La
ragione stessa non è stata sottoposta dal grande pensiero filosofico,
soprattutto novecentesco, ad una rigorosa opera di decostruzione che ha
smontato il feticcio “cartesiano”, moderno, sopravvissuto per tanti secoli?
E la filosofia (o gli altri saperi) che praticano tale lavoro “critico” sono
tacciabili di “irrazionalismo”? Io credo di no. Al contrario, ritengo che
proseguano, innovandolo, il lavoro kantiano di scoprire possibilità ma
anche limiti di uno strumento insostituibile ma che se assolutizzato rischia
di produrre (e lo fa continuamente!) una forma di idolatria e di fideismo
pericolosissima, soprattutto quando essa diventa indistinguibile dalla
tecnica, e anzi viene da essa guidata (e da questo punto di vista una sana
ripresa del pensiero francofortese pare auspicabile). Ad esempio, quello
che Evgenij Morozov ha definito «soluzionismo tecnologico», cioè
l’illusione (perniciosissima!) che la tecnica troverà soluzione a tutti i
problemi che essa stessa ha prodotto. E a scanso di critici anche in questo
caso diciamo: la tecnica occidentale.
È vero che Teresa scrive: «Non si nega che motivi per essere critici nei
confronti di alcune scelte governative ci siano e siano oggettivi, né che ci
sia chi ha addirittura lucrato sulla pandemia, come alcuni scandali legati ad
appalti hanno dimostrato». Però subito dopo afferma che le discussioni
spesso sguaiate (ma è possibile oggi davvero un “agire comunicativo” nel
senso habermasiano?) ingenerano sfiducia, e lascia intendere, dunque, che
sarebbe opportuno evitare polemiche.
Io credo, al contrario, stante le premesse fatte in apertura, che sia quanto
mai doveroso esercitare il diritto/dovere di critica, non temere le
manifestazioni di chi pensa diversamente, che da sempre sono il sale della
democrazia. Non possiamo credere che esistano ambiti che non possono
essere oggetto di pubblica discussione! Altrimenti la democrazia diventa
una rinnovata forma di “sofocrazia” di ispirazione platonica in cui, al posto
dei filosofici, ci sono tecno-scienziati che (per altro spesso in disaccordo
tra loro!) suggeriscono le misure “immunitarie” di volta in volta da
prendere.
E per questo suggerisco a tutti la lettura di un libriccino (La democrazia
in Pandemia, Carbonio editore, 2021) della filosofa francese Barbara
Stiegler, pur non condivisibile integralmente, accanto a quello di Richard
Horton (Covid-19. La catastrofe, Il pensiero scientifico, 2020). Ci
insegnano prima di tutto che le parole sono importanti, e che quella in atto
non è una pandemia ma una sindemia, i cui morti sono vittime di un
sistema sanitario smantellato per motivi economici e di un approccio alla
salute sbagliato (e qui bisogna recuperare l’insegnamento di Ivan Illich,
divenuto bandiera dei “no-vax”, e straordinario critico degli eccessi della
medicina moderna): «Molti esperti in questo caso hanno rivestito un ruolo
inquietante da garanti. Invece di incoraggiare un libero flusso di
conoscenze, hanno contribuito alla costruzione di un mondo binario
opponendo i “populisti”, accusati di negare il virus, ai “progressisti”,
preoccupati della vita e della salute “a qualunque costo”. In questo mondo
semplicistico dove si affrontano due campi, ogni forma di sfumatura e di
discussione critica sulle misure prese si è gradualmente estinta, e con essa
la pluralità delle voci nel mondo della conoscenza […] Ora, mentre il
Covid-19 non è certamente un’influenza, non ha in realtà nulla in comune
con la peste, le cui modalità di trasmissione sono servite da modello per i
calcoli degli epidemiologi, gettando nel panico i governanti. A differenza
di ciò che il termine “pandemia” suggerisce nel nostro immaginario, un
male che colpirebbe tutti e in qualsiasi momento (è il pan- dal greco
pándēmos che significa “l’intero popolo” e, in questo caso, “l’intera
popolazione mondiale”), nella stragrande maggioranza dei casi, questo
virus può avere gravi conseguenze solo su organismi già indeboliti,
dall’età avanzata oppure da fattori di comorbidità. Il carattere straordinario
di questa epidemia, dunque, è meno endogeno al virus come entità
biologica che alle circostanze sociali e politiche che esso rivela e che,
inoltre, il confinamento ha aggravato durevolmente, aumentando le
disuguaglianze, accelerando la decadenza del sistema sanitario e
abbandonando una gran parte dei pazienti a se stessi (fino a lasciarli morire
soli e senza cure - “restate a casa”, è stato detto loro - per non infettare gli
altri”» (Stiegler).
Le idee complottistiche sono folli. E vanno condannate senza se e senza
ma. Ciò nonostante, memori di quanto scritto da Noemi Klein (Shock
Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, 2007), dobbiamo sempre
ricordare che i decisori politici (a proposito: la globalizzazione non aveva
vanificato i poteri statuali? Come mai gli Stati si riscoprono capaci di
esercitare un bio-potere quasi assoluto sulle vite dei cittadini e non sono
stati in grado di tenere a freno i selvaggi spiriti del neo-liberismo
globalizzato?) utilizzano le catastrofi a proprio giovamento.
La sindemia che stiamo attraversando, come la “grande recessione”
scoppiata nel 2007, sarà solo una fase transitoria dopo la quale tutto
tornerà come (o peggio di) prima? Oppure (qui l’urgenza della critica,
anche feroce, dura, senza sconti) persuaderà a cambiare tutto perché
l’approccio non sia sempre emergenziale e perché non ci si debba affidare
(con fede!) alla comunità scientifica (spesso suo malgrado “ostaggio” di
potentati economici)? E, quindi, ben vengano le critiche! Lo ha scritto
molto bene lo psicoanalista Maurizio Montanari, rispondendo a Massimo
Recalcati, il quale aveva attaccato duramente Agamben e Cacciari
(https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/04/recalcati-attacca-agamben-e-
cacciari-ma-nessuno-gli-chiede-conto-di-telemaco/6444368/). Montanari,
oltre a ricordargli le sue responsabilità come intellettuale “organico” al
renzismo, scrive: «Dio salvi chi esercita il suo ruolo di intellettuale
consapevole di andare controcorrente, fregandosene dei luoghi comuni o
dell’audience. Dio salvi come il sale della democrazia chi utilizza la
propria scienza per mostrare che esiste un modo differente di vedere le
cose, prendendosi i rischi di essere contestato, attaccato, insultato. Dio
salvi chi sta dalla parte opposta al padrone. Dio salvi chi antepone la
parola ‘contraddittorio’ a ‘monologo’. Dio li salvi perché in questa guerra
al Covid sono miei avversari, ma pensano. E non fuggono. Dio li salvi
perché essi rappresentano tutto quello di cui in quest’intervista non c’è
traccia: il valore sacro della parola dissonante, non appiattita». D’altronde,
gli Illich o i Pasolini non hanno sempre fatto questo? Non sono stati
pensatori letteralmente “controcorrente”?
Il diritto di critica va esercitato soprattutto per evitare che chi detiene le
leve del potere economico, e dunque informativo, renda senso comune che
esistano “untori” cui accollare la responsabilità del fallimento nelle
politiche di contrasto al virus. Non che non lo siano, per carità! Ma di
fronte allo scempio della sanità pubblica e ai grossolani errori della
politica, che ha sempre privilegiato la dimensione economica e il PIL sul
“buen vivir” pare un peccato non veniale ma sicuramente più
comprensibile (vuoi per ignoranza, vuoi per presunzione). Per fare un
paragone: sarebbe come dire che la crisi del 2007 è stata colpa di chi
chiedeva i prestiti per le case, non avendo certezze sulla restituzione, e non
del sistema finanziario che rendeva possibile questa follia.
Io credo, e lo dico all’amica e collega Teresa, di cui ho una stima
assoluta, che oggi il compito degli intellettuali (anche di quelli “minori” o
“minimi” come me) sia quello di esercitare il sospetto (senza diventare
complottisti), di additare percorsi alternativi (senza diventare disfattisti), di
ricordare sempre e a tutti che la scienza non è “neutrale”, che vive dentro
dinamiche politiche ed economiche, come tutto ciò che è umano, che le
catastrofi quando vengono richiedono impegno di tutti e sforzo comune,
ma che il loro impatto può essere prevenuto o ridotto facendo scelte
diverse prima. Altrimenti davvero non avremo imparato nulla, e, al
prossimo shock (economico, medico, ecologico), dovremo affidarci
(fideisticamente!) ai decisori politici, sempre più “assoluti”, e alla tecnica
(economica, medica, energetica) per stabilire cosa vogliamo essere, non
essendo che uomini. Quel che dobbiamo evitare, come scrive la Stiegler, è
che, in un ambiente degradato, inquinato e ormai contaminato, dove le
crisi diventeranno croniche, il mondo della ricerca ci insegni non a lottare
contro le cause che producono la crisi, ma ad adattarci ad esse e, così
facendo, a ricondurle inalterate.
È evidente che, perché questo accada, è necessario (ed è questo che non
si vuole diventi senso comune, ed è questo che, invece, tutti noi dovremmo
reclamare, gridandolo nelle piazze reali e virtuali) un mutamento radicale
della nostra società e l’abbattimento di quella religione idolatrica (Walter
Benjamin) che è il capitalismo nella sua feroce, inumana, distruttiva
“variante” neoliberista e globalizzata (eh, sì, anche le organizzazione
economiche hanno le loro varianti più o meno contagiose, più o meno
mortali).

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