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Franco Serpa

Verdi e Richard Strauss

Con un educato tentativo di italiano graziosamente scolastico, operisti-


co, francesizzato, nel quale non tutto è chiaro, cosí scrisse il giovane
Richard Strauss trentunenne al vecchio Verdi, da Monaco, il 18 gennaio
1895, per accompagnare l’invio dello spartito di Guntram (la sua prima
opera, andata in scena a Weimar il 10 maggio 1894):

Illustrissimo Signore! Assaissimo conoscente da propria esperienza sico-


me molestano dedicazioni, oso pertanto la preghiera,V.S. il vero mae-
stro del dramma lirico italiano voglia benignamente accettare in segno
d’omaggio e ammirazione un esemplare di Guntram come mia prima
prova in questo genere. Non trovando parole per esprimere la grande
impressione che mi fece la straordinaria bellezza di Falstaff e non poten-
do altrimenti significarle la mia gratitudine per questa ricreazione nel-
l’intelletto, pregho la S.V. di voler almeno accettare lo spartito. Sarei feli-
ce se mi si presentasse una volta l’occasione di aver un colloquio con
V.S. sopra la divina arte, la musica, per trovare in questo l’incitamento
per nuova ispirazione e creazione – un giorno ch’il mio caro fautore e
amico Hans von Bülow per se stesso o [ha?], per disgrazia, non piú
veduto. Voglia gradire, illustrissimo maestro, l’attestato del mio parti-
colare rispetto col quale ho l’onore di dichiararmi suo devotissimo
Richard Strauss, Kgl. Kapellmeister.

Come di consueto,Verdi trascorreva l’inverno a Genova. In quei gior-


ni freddi del 1895 la salute non era buona (come vedremo da una let-
tera), l’animo era stanco e irritabile, forse non solo per i mali della vec-
chiaia. Proprio a Genova, al Carlo Felice, il Falstaff non era andato bene
(Verdi a Giulio Ricordi, 30 dicembre 1894: «[...] Ah! Il meglio mi scor-
davo! Falstaff fiasco! ma proprio un fiasco coi fiocchi! Nissuno va in tea-
tro [...]»; 11 gennaio 1895: «Ieri sera al Carlo Felice Falstaff diminuito
non di pancia, ma di prezzo!! Non oso dirlo! L. 1,50. Risultato? idem.
[...]», e la lettera continua con un amarissimo sarcasmo), sí che l’impre-
sario il 19 gennaio aveva rimpiazzato l’opera di Verdi con il Tannhäuser,
che, diretto da Toscanini, aveva invece ottenuto un successo trionfale.
Dunque, prima di ringraziare Strauss,Verdi, il 23 gennaio, aveva chiesto
a Giulio Ricordi informazioni sul musicista tedesco suo ammiratore e
a lui ignoto:
A sinistra Strauss gioca a Skat,
a destra A. Snergirnoya-Jurgenson, Čajkovskij gioca a carte
Non posso ancora dirvi quando verremo a Milano ma lo saprete qual-
che giorno prima. Sulla nostra salute (non siamo però ammalati da
stare a letto) non vi è da rallegrarsi molto!! [...] A me pure le gambe
mi reggono malamente: cosí sto molto in casa. L’ozio m’annoja, e non
reggo alla fatica dell’occupazione! Non so nulla del Teatro! Il Tannauser
[Verdi scrive cosí] ha fatto furore come saprete. Pare sia molto bene
eseguito. [...] Se avete qualche cosa a dirmi io resto qui almeno per
tutta la settimana. P.S.Vi sarei riconoscente se voi poteste darmi noti-
zie d’un maestro di Monaco che ha dato un’opera Guntram. Il maestro
si chiama Richard Strauss e ditemi, se lo sapete, se è lo stesso, l’autore
dei Valtzer.

Tre giorni dopo, il 26 gennaio, Ricordi chiarí a Verdi l’essenziale (che


Strauss non era quello dei valzer, inoltre incautamente commentando:
«In Germania ne fanno un gran caso! A me pare un pallone gonfiato»),
ma non gli disse che qualche mese prima il giovane Strauss aveva diret-
to proprio il Tannhäuser a Bayreuth (ammesso che Ricordi stesso lo
abbia saputo). Quale che fosse, insomma, il suo stato d’animo, Verdi,
ancora a Genova ma sul punto di trasferirsi a Milano, rispose al «Kgl.
Kapellmeister Monsieur Richard Strauss» (cosí è scritto sulla busta) il
27 gennaio.
In poche righe molto caute e gentili dice che i preparativi della par-
tenza lo hanno occupato e si scusa di non aver avuto il tempo di leg-
gere tutto il lavoro; quello che ha visto gli sembra degno di ammira-
zione, anche se l’ignoranza del tedesco, aggiunge, non gli permette di
fondare la sua ammirazione come vorrebbe. E conclude: «La ringrazio
di tanta Sua squisita cortesia e mi dico con stima G. Verdi».

Quella non fu l’unica volta che Verdi sentí parlare di Strauss. Nel 1897,
intervistato da Heinrich Ehrlich,Verdi, contrario già da tempo alla figu-
ra del direttore d’orchestra onnipotente, chiese se il nuovo stile (di in-
terpretazione, probabilmente) dava in Germania risultati degni di atten-
zione. Ehrlich gli risponde che Richard Strauss era «in ogni caso il piú
importante, [...] un uomo di grande ingegno e di robuste capacità» (ma
non è chiaro se egli ora stia parlando della direzione d’orchestra o della
creazione musicale; l’intervista di Ehrlich, uscita col titolo Beim 84jäh-
rigen Verdi nella «Deutsche Revue», XXII/2, 1897, pp. 325-28, è riporta-
ta da Marcello Conati nel suo Verdi. Interviste e incontri, Edt, Torino
2000, pp. 332-37: 335).

In una bacheca nella sala di musica a Garmisch Strauss conservava gli


attestati di alte onorificenze, i documenti cari, i regali preziosi, una let-
tera di Mozart, una di Beethoven, una pagina di abbozzi musicali del
Lohengrin. Era (e tale è tuttora nella villa intatta) un piccolo sacrario
personale, un altare ai modelli venerati e ai ricordi. Sotto quel vetro,
dove poi non trovò posto nessun manoscritto di altri musicisti con-
temporanei, Strauss pose la lettera di Verdi. Il gesto è un segno sicuro di
rispetto, anzi, si direbbe, di venerazione. Nella sua lettera egli ha defini-
to Verdi «il vero maestro del dramma lirico italiano», del melodramma,
insomma: è il riconoscimento convinto di una superiorità creativa in
un genere specifico, nel quale l’eccellenza non si dà prima di tutto,
almeno per un tedesco, nella severità del dramma e nel valore in sé della
musica, cioè nella perfetta coerenza dell’ideale artistico.
Lasciando da parte il Falstaff, per il quale Strauss ebbe sempre, dalla prima
conoscenza avuta nel 1894 alla fine della vita, un’assoluta ammirazione
(che forse si fece piú profonda e grata proprio negli ultimi anni) – a parte
il Falstaff, dicevo, l’attenzione di Strauss per le diverse opere di Verdi è
spesso circoscritta da riserve, anche se è schietta in lui, e dichiarata in
diverse occasioni, la simpatia per «il vero maestro» del melodramma. Già
le stesse scelte nella sua lunga e operosa attività di direttore d’orchestra
nei teatri suggeriscono che il suo vero interesse come artista e anche
come uomo di cultura sia stato altrove – lo sappiamo, in Mozart e in
Wagner, prima di tutti, e in Gluck, nel Fidelio, nel Freischütz, e, natural-
mente, nelle proprie opere. C’era nelle sue scelte anche il tratto tipico
dell’alto umanesimo tedesco dell’Ottocento, l’attenzione, dico, ai valori
fondamentali della cultura nazionale e all’educazione estetica, e, perciò,
la fermissima volontà di creare nei teatri tedeschi un repertorio solido e
formativo – un repertorio nel quale le opere italiane e francesi sembra-
vano avere una presenza quasi secondaria (non importa che da noi oggi,
un secolo dopo, il progetto possa esser giudicato un errore).
Nei quattro anni di lavoro alla Hofoper di Monaco dal 1894 al ’98
Strauss diresse solo quattro recite del Trovatore e una del Ballo in masche-
ra (ma trenta del Tannhäuser, ventinove del Don Giovanni, venticinque del
Tristan e cosí via; cfr. Helga Schmidt-Neusatz, Richard Strauss als
Kapellmeister der Münchner Hofoper, «Richard Strauss-Blätter», Heft 50,
Dezember 2003, p. 100). E nei molti anni di attività alla Hofoper di
Berlino, dal 1898 al 1939 con diverse interruzioni, le sole opere di Verdi
che egli guidò sono Aida, otto volte, e Falstaff quattro (ma ripeté il Figaro
cinquantadue volte e i Maestri Cantori settantatré! Cfr. le statistiche in
Kurt Wilhelm, Richard Strauss persönlich. Eine Bildbiographie, Kindler
Verlag, München 1984, p. 206). In ciò non era nessun segno di arrogan-
za culturale o di pregiudizio, ché anzi la sua curiosità e il personale pia-
cere dell’ascolto non si limitavano affatto alla grande musica tedesca – e
nel suo vivo interesse (evidente in tutti gli epistolari che egli tenne con
i suoi collaboratori) per le questioni di tecnica drammaturgica e di effi-
cacia delle forme teatrali accanto a Mozart, insuperabile modello per lui,
Verdi occupò un posto sempre piú importante col passare degli anni.
Sapeva bene che la forma drammatica di Wagner è solo sua, ‘wagneria-
na’ appunto, e ripeteva spesso, ridendo soddisfatto, che lui non aveva mai
tentato di affrontarla, ma almeno aveva saputo aggirarla! A questa consa-
pevolezza via via maggiore negli anni maturi di Strauss, nella quale, ripe-
to, operava l’esempio di Verdi piú di quel che non appaia dai suoi giu-
dizi e dalla sua attività di direttore, devono aver contribuito anche le opi-
nioni dei suoi amici e colleghi letterati austriaci, Hofmannsthal prima
degli altri, Zweig, Werfel, tutti ‘non-wagneriani’ e ben disposti verso il
melodramma italiano (come anche il carissimo Clemens Krauss, che
amava, e dirigeva assai bene, perfino Puccini) e il cosiddetto rinasci-
mento verdiano in Germania, che negli anni dell’espressionismo accese
l’interesse per tutte le opere di Verdi, specialmente per le minori, e che
certo non lasciò insensibile un artista attento e riflessivo come Strauss.
Cosí si spiega la naturalezza con cui egli, nell’indicare al suo poeta del
momento uno schema formale o una soluzione scenica, abbia spesso
sottomano un esempio tratto da Verdi, come il «Caro nome» di Gilda
(insieme ai brani di Sonnambula e Lucia e, naturalmente, ai rondò di
Mozart) per la grande aria di Zerbinetta nell’Arianna che Hofmannsthal
stava elaborando (lettera del 22 maggio 1911), o i finali d’atto, nei quali
l’effetto non deve mancare (lettera del 15 settembre 1926 con la rispo-
sta del poeta, il 24 settembre, a proposito dei finali sicuri di Verdi, richia-
mati dal finale del Cavaliere della rosa, eccezione da non ripetere, e dal
progettato finale dell’Elena egizia). E si spiegano anche le gustose cita-
zioni, esplicite o nascoste, di melodie verdiane come segni efficienti di
un vero ‘spirito’ operistico («La donna è mobile» nel banchetto del
Borghese gentiluomo e nel I atto della Donna silenziosa, la marcia dell’Aida
nella scena dello Skat in Intermezzo) e di una superiore capacità di sin-
tesi drammatica nella musica, tale da agire infallibilmente nell’ascolto.
Il tempo, come ho detto, le amicizie e il mutato clima culturale in
Germania avranno contribuito ad accrescere in Strauss l’attenzione per
lo stile drammatico di Verdi. Prova ne sono i pensieri insolitamente
benevoli e generosi che Strauss espresse a Roma in occasione del
Macbeth di Verdi, spettacolo inaugurale (26 dicembre 1932) della stagio-
ne 1932-33 al Teatro dell’Opera (cantavano la Scacciati, forse inadatta
alla parte tremenda, Franci, Vaghi, dirigeva Guarnieri). Quella sera
Strauss era in teatro e fu intervistato da Alberto Gasco, che ne riferí in
un lungo articolo sulla «Tribuna» del 28 dicembre.

Non tutto è egregio, ma ci sono momenti di vero splendore. La caba-


letta e il brindisi di Lady Macbeth ci lasciano indifferenti, ma quando
il dramma s’acuisce e le passioni divampano, Verdi si afferma, come
sempre, un genio dominatore. Nessuno è in grado di competere con lui
per irruenza drammatica. La sua unghia leonina imprime segni che non
si cancellano. Ciò spiega come oggi in Germania egli sia ammirato fre-
neticamente. Basta dire che nel bilancio teatrale tedesco dello scorso
anno si leggono queste cifre: Wagner 1300 rappresentazioni, Verdi
1400. Ricordiamoci, del resto, che un’opera verdiana di secondo ordi-
ne vale sempre piú della bella opera di un altro musicista.

Commenta infine il critico: «Riccardo Strauss ha pronunciato queste


frasi con fermezza, ben convinto che il giudizio su Verdi non avrebbe
potuto trovare oppositori. Ed il maestro illustre è rimasto ad ascoltare il
Macbeth fino all’ultima nota, scrupolosamente attento».
Sono pensieri favorevoli che sembrano in contrasto con ciò che poi
Strauss disse nel progetto di un repertorio (ma repertorio ‘tedesco’)
delineato in una lettera (propriamente un ‘testamento artistico’, un
Vermächtnis, tragico lascito e doloroso tentativo di salvare il teatro d’o-
pera in una Germania distrutta) a Karl Böhm del 27 aprile 1945 (in
Richard Strauss, Betrachtungen und Erinnerungen, nuova ed., Piper-
Schott, München-Mainz 1989, pp. 69-75, trad. ital. [da me leggermen-
te cambiata] di Laura Dallapiccola, Note di passaggio, a c. di Sergio
Sablich, Edt, Torino 1991, pp. 163-68). Nel repertorio ideale di un tea-
tro in Germania dovrebbero entrare, secondo Strauss, di Verdi, Aida,
Simon Boccanegra, Falstaff, e in una sala piú piccola Il trovatore, La travia-
ta, Rigoletto, Un ballo in maschera.

Inoltre (un’idea nuova!) considerando che in certe opere precedenti,


oggi per noi insopportabili se eseguite per intero, come Macbeth, Luisa
Miller, I vespri siciliani, alcuni pezzi geniali ci sono, consiglio una specie
di pot-pourri di singole scene, per esempio la scena della pazzia di Lady
Macbeth, il balletto rappresentato con scene e costumi, per dar vita a
una serata storica verdiana. Condanno in toto l’Otello, come tutti i testi
tolti da drammi classici e abbassati a libretti d’opera: per esempio il
Faust di Gounod, il Guglielmo Tell di Rossini, il Don Carlos di Verdi! Non
appartengono alla scena tedesca.

Il tono insolitamente deciso si comprende nell’urgenza dell’orribile


momento in cui la lettera fu scritta, e nell’intenzione sociale sempre
attiva in Strauss, come ho detto. Eppure in queste parole la distanza da
un’opera nel suo insieme quale è il Macbeth, ora «insopportabile se ese-
guito per intero», invece apprezzato per intero a Roma quella sera di
tredici anni prima, sembra innegabile. Ma credo che qui sia non una
vera contraddizione, bensí un mutamento di giudizio secondo i criteri
o della singola esperienza operistica (il Macbeth con le sue debolezze sa
essere un melodramma forte) o del valore culturale generale (il pubbli-
co tedesco ha bisogno solo della ‘buona musica’ nel Macbeth). E infatti
tutto si chiarisce, mi pare, con le parole che Strauss aveva scritto qual-
che anno prima, nel maggio 1939, al suo affaticato e inadeguato colla-
boratore Joseph Gregor per Capriccio:

Caro amico! Il Suo abbozzo è stato per me una delusione! [...] Non c’è
neppure l’idea di ciò che avevo in mente: una spiritosa parafrasi dram-
matica del tema: Prima le parole dopo la musica (Wagner) o prima la
musica poi le parole (Verdi) o solo le parole, niente musica (Goethe) o
solo la musica, niente parole (Mozart) – per buttar giú cosí qualche for-
mula. In mezzo ci sono naturalmente molte sfumature musicali e tipi
teatrali. [...] Nell’opera italiana la primadonna e il tenore considerano
superflua la parola, purché la melodia vocale sia eseguita bene e i suoni
stessi incantino l’orecchio! Se è vero che l’aria nell’opera è importan-
tissima ed è quasi l’essenziale.

Se anche noi oggi pensiamo altrimenti dell’arte drammatica e musica-


le di Verdi, già la sola ammirazione di Strauss, di là da qualche riserva
comprensibile in un rappresentante sommo del sinfonismo tedesco e
libera da snobismi e da polemiche, per l’invenzione melodica verdiana,
che sa creare il dramma con un’autonoma energia espressiva senza pre-
cedenti, è forse il maggior riconoscimento che quella cultura musicale
non melodrammatica abbia dato al genio del melodramma italiano.

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