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ECONOMIA- Textbook

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INDICE

PARTE PRIMA
La prima rivolu.zione industriale (1750-1850)

1. La rivoluzione industriale
1.1 . Premessa: la storia economica 3
1.2. Le grandi rivoluzioni nella storia dell 'umanità 6
1.3. Il sistema feudale 9
1.4. La società di ancien régime 1O
1.5. La rivoluzione industriale 11

2. Lo sviluppo economico
2.1 . Crescita, sviluppo e progresso 15
2.2. La misurazione de lla crescita 16
2. 3. I modelli di sviluppo 17
2.4. Crisi e cicli economici 20

3. Le premesse della rivoluzione industriale inglese: la popolazione


3 .1. Popolazione ed economia 23
3 .2. La dinamica della popolazione nel mondo preu1dustriale 25
3.3. La rivoluzione demografica 29
3.4. Le cause della rivo luzione demografica 30

4. Le premesse della rivoluzione industriale in2lese: l' a2ricoltura


4.1. L'agricoltura di ancien régime 33
4.2. La rivo luzione agraria: le tecniche 36
4.3 . La rivoluzione agraria: il regime della proprietà fondiaria 37
4.4. Rivoluzione agraria e rivoluzione industriale 39

5. Le premesse della rivoluzione industriale in2Iese: trasporti e commercio


5 .1. La rivoluzione dei trasporti: strade e ferrovie 41
5.2. La rivoluzione dei trasporti: le vie d' acqua 42
5.3. Commercio e mercantilismo 44
5.4. Il commercio internazionale 47
II Indice

6. Industrie traenti e innovazioni in Gran Bretagna


6.1. L'organizzazione della produzione industriale 49
6.2. Le forme giuridiche dell'impresa 51
6.3. Macchina a vapore e innovazioni 53
6.4. L'industria del cotone 54
6.5. L ' industria del ferro 56
6.6. La dimensione regionale dell ' industrializzazione 58

7. La rivoluzione industriale inglese: i problemi


7 .1 . I mezzi di pagamento e la funzione delle banche 61
7.2. I problemi del finanziamento e del credito 64
7.3. I problemi del lavoro 66
7.4. Le associazioni operaie e le Trade Unions 67
7.5. Il problema degli sbocchi e il trionfo del libero scambio 68
7.6. Libero scambio e sistema capitalistico 71

8. I secondi: Francia e Stati Uniti


8. 1. First corner e second comers 73
8.2. Fattori favorevoli e sfavorevoli allo sviluppo economico fi·ancese 75
8.3. Le attività produttive in Francia 77
8.4. La nascita di un paese libero e nuovo: gli Stati Uniti d 'America 79
8.5. La colonizzazione e il mito della frontiera 81
8.6. La prima industrializzazione degli Stati Uniti 83

PARTE SECONDA
La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

9. Le fasi della crescita (1850-1914)


9 .1. I dati della crescita 87
9.2. L 'espansione di metà secolo 88
9.3. La depressione 90
9.4. La Belle époque 92

10. Le condizioni della crescita: la popolazione


10.1. Le dinamiche della popolazione 93
10.2. L 'urbanesimo 95
10.3. I grandi flussi migratori 96
10.4 . Gli effetti dell.'emigrazione 97
Ennio De Simone
toria economica
Dalla rivoluzione industriale
alla rivoluzione informatica

Quinta edizione aggiornata

FrancoAngeli
Indice III

11. Le condizioni della crescita: trasporti, banche e moneta


11.1. Lo sviluppo dei trasporti: fen·ovie e automobili 99
11.2. Lo sviluppo dei trasporti: navi e aerei 102
11 .3. Le comunicazioni 103
11.4. I sistemi bancari 104
11. 5. I modelli bancari 106
11.6. Il gold standard 107

12. Le attività produttive


12.1. Le innovazioni in agricoltura 109
12.2. L'agricoltura mondiale e l'Europa 110
12.3. Lo sviluppo della tecnologia e della ricerca 112
12.4. Una nuova fonte di energia: il petrolio 113
12.5. Vecchie e nuove industrie 114
12.6. Chimica ed elettricità 116
12.7. Commercio e investimenti esteri 11 8

13. La grande impresa


13 .1. La formazione della grande impresa 121
13.2. Taylorismo e fordismo 123
13.3. Le piccole e medie imprese e la cooperazione 125

14. I paesi industrializzati: Gran Bretagna e Francia


14.1. I diversi ritmi dello sviluppo 127
14.2. Il declino relativo della Gran Bretagna 129
14.3. La cause del declino 130
14.4. La Francia dal Secondo Impero alla Belle époque 132

15. I paesi a forte crescita: Germania e Stati Uniti


15 .1. Lo sviluppo economico tedesco 135
15.2. I fattori dello sviluppo 137
15.3. Immigrazione e colonizzazione negli Stati Uniti 139
15.4. Grandi imprese e mercato 142
15.5. Un punto debole: il sistema bancario 143

16. Due casi particolari: Russia e Giappone


16.1. L' emancipazione dei servi in Russia 145
16.2. L'industrializzazione della Russia zarista 147
16.3. La società giapponese e l' apertura all' Occidente 149
16.4. Le riforme e la modernizzazione del Giappone 150
IV Indice

17. L'Unità d'Italia e l'economia nazionale


17 .1. Gli ostacoli allo sviluppo economico dell' Italia 153
17.2. L 'Unità e il divario Nord-Sud 154
17.3. Il divario nei settori produttivi 158
17.4. L 'unificazione delle strutture economiche 160

18. L'Italia unita


18.1. La scelta liberoscambista e i suoi effetti 163
18,2. Il ruolo dello Stato e le su e fonti di finanziamento 165
18.3. Crisi agraria, ritorno al protezionismo e crisi bancaria 167
18.4. Il decollo industriale 169

19. La Prima guerra mondiale e le sue conseguenze


19 .1. La Grande g uerra 173
19.2. L 'economia di guerra e il costo del conflitto 175
19.3. Le conseguenze dirette della guerra 176
19.4. Le conseguenze indirette: la crisi di riconversione 177
19.5. Le conseguenze indirette: inflazione e gold exchange
standard 178
19.6. Le conseguenze indirette: i debiti e le riparazioni 180
19. 7. I mutamenti strutturali dell'economia 18 1

20. L'Unione Sovietica


20. 1. La rivoluzione e il comunismo di guerra 183
20.2. La Nuova politica economica 185
20.3. La pianificazione 187

21. La Grande depressione


21.1. L 'espansione degli anni Venti negli Stati Uniti 189
21.2. La lenta crescita dell'Europa 190
21.3. In Italia: battaglia del grano, bonifiche e stabilizzazione
della lira 191
21.4 . La crisi del '29 193
21.5. La depressione negli Stati Uniti e in Europa 196

22. Le politiche contro la depressione


22. 1. Il deficit spending 199
22.2. Le svalutazioni competitive 201
22.3. L ' intervento statale negli Stati Uniti: il New Deal 202
Indice V

22.4. L' intervento statale nei paesi europei 203


22.5. La Seconda guerra mondiale 205

PARTE TERZA
L 'economia contemporanea (1950-2017)

23. Una nuova rivoluzione: i problemi demografici


23.1. I caratteri dell'economia contemporanea 209
23.2. L' esplosione demografica 21 1
23.3. Urbanesimo e grandi migrazioni 213

24. Una nuova rivoluzione: i settori produttivi


24.1. Agricoltura e mezzi di sussistenza 215
24.2. Industria e tecnologia 217
24.3. La rivoluzione informatica 220
24.4. Verso una nuova rivoluzione tecnologica 22 1
24. 5. La terziarizzazione dell'economia 223

25. La ricostruzione dell'economia mondiale


25.1. Gli accordi politici: Yalta e Onu 227
25.2. Gli accordi economici: Bretton Woods e Gatt 229
25.3. Il Piano Marshall 232
25.4. L'economia mista e il Welfare State 234

26. Dalla golden age alla crisi


26.1. La <<golden age>> 237
26.2. I fattori della crescita 240
26.3. La crisi: la fme del sistema dei cambi fissi 242
26.4. La crisi: gli shock petroliferi 243
26.5. Stagflazione e disoccupazione 245
26.6. Dal fordismo al postfordismo 246

27. Neoliberismo e globalizzazione


27. l . Le politiche neo liberiste 249
27.2. La globalizzazione 25 1
27. 3. La globalizzazione finanziaria 253
VI Indice

28. Sviluppo e sottosviluppo


28.1. Lo sviluppo ineguale 257
28.2. Il processo di deco lonizzazione 260
28.3. Le strategie economiche dei paesi in via di sviluppo 261

29. La Grande recessione


29 .1. La crisi del 2008-09 263
29.2. La crisi europea dei debiti sovrani (2012-1 3) 266
29.3. Gli effetti del la Grande recessione 270

30. Le economie sviluppate: Stati Uniti e Giappone


30. 1. L 'egemonia degli Stati Uniti 273
30.2. La reaganomics 275
30.3. La crisi e le lrasfurmaziuni della sucielà americana 277
28.4 . Il miracolo economico giapponese 278
30.5. Il decennio perduto del Giappone 281

31. Le economie sviluppate: l'Unione Europea


31.1. Il Mercato comune 283
3 1.2. L 'Unione Europea e l' euro 286
3 1.3. La lenta crescita della Gran Bretagna 288
3 1.4 . L'economia francese 290
3 1. 5. Le due Germanie 292
29.6. La riunificazione tedesca 294

32. L'economia italiana


32. 1. La ricostruzione 295
32.2. Il miracolo economico 298
32.3. L 'Italia nella crisi degli aruli Settanta 301
32.4. Imprese e distretti industriali 303
32.5. Le difficoltà dell'economia italiana 305

33. La fine dell'economia pianificata: il Blocco sovietico


3 3 .1. I limiti della pianificazione 307
33.2. I tentativi di riforma in Unione Sovietica 309
33.3. Il crollo dei regimi comunisti 310
33.4 . La crisi della transizione 313
33.5. La ripresa dell'economia russa 315
h&ce Vll

34. Il risveglio dell'Asia


34.1. La Cina comunista 317
34.2. Le riforme cinesi e l'economia socialista di mercato 320
34.3. L 'India iI1dipendente 323
34.4 . Riforme e liberalizzazioni in India 325
34.5. Le <<tigri asiatiche>> 326

35. America Latina e Africa


35.1. Stato e populismo in America Latina 329
35.2. Le liberalizzazioni 33 1
35.3. Il ritardo dell' Africa 333
35.4. I problemi del continente africano 336
35.5. Epilogo 338

Appendice. Grafici 341


Orientamenti bibliografici 357
Indice delle tabelle e delle figure 365
Indice dei nomi 367
PARTE PRIMA

LA PRIMA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE
(1750-1850)
1.
LA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE

1.1. Premessa: la storia economica

Negli ultimi secoli, lo sviluppo economico ha interessato alcune aree del


Pianeta, mentre altre sono rimaste indietro e stentano a trovare una loro via
per crescere e progredire. Questo libro cercherà di descrivere le cause, le
modalità e gli effetti di tale sviluppo, nel tentativo di raggiungere almeno
due obiettivi. Il primo, di carattere più generale, è di descrivere in modo
sintetico le profonde trasformazioni economiche realizzate a partire dalla
seconda metà del Settecento, con l' aspirazione di riuscire a determinare
maggiore consapevolezza delle problematiche economiche del mondo attua-
le. Il secondo obiettivo, di carattere squisitamente didattico, è di fornire uno
strumento agli studenti universitari, ai quali il libro è innanzitutto rivolto,
per aiutarli a comprendere concetti e problemi storici ed economici, alcuni
dei quali forse incontrano per la prima volta.
Prima d ' iniziare è necessario soffermarsi brevemente sull' oggetto della
storia economica. Si tratta di una disciplina relativamente giovane, che sol-
tanto verso la metà dell'Ottocento conquistò maturità, autonomia e dignità
accademica, ma il cui sviluppo avvenne solo più tardi, fra il 1930 e il 1970.
Prima di allora l'insegnamento storico nelle Scuole superiori di commer-
cio (progenitrici delle Facoltà di Economia) era stato la storia del com-
mercio. Col tempo, a lcune branche della storia economica diedero vita ad
altre discipline, come la storia dell'agricoltura, la storia della banca, la sto-
ria del lavoro, la storia dell' industria, la storia dell' impresa e la storia eco-
nomica del turismo.
La storia economica - afferma lo storico Carlo M. Cipolla (1922-2000) -
è la storia dei fatti e delle vicende economiche a livello individuale, azien-
dale o collettivo. Gli studiosi di tale discip lina devono possedere, perciò, una
solida preparazione economica per affrontare tematiche che sono proprie del-
4 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

le scienze economiche. E difatti la storia economica si occupa prevalente-


I 2
mente della produzione, della distribuzione e del consumo di beni e servizi .
La produzione si ottie11e combinando assieme i fattori della produzione,
ossia i /attori naturali (terra, acqua, minerali, ecc.), il lavoro e il capitale 3 ,
ai quali alcuni aggiungono la capacità imprenditoriale, ossia la capacità
dell' imprenditore di combinare e organizzare gli altri tTe fattori. Ovviamen-
te il valore della produzione ( output) deve essere superiore al valore dei fat-
tori impiegati (input), altrimenti non vi sarebbe convenienza a produrre.
La distribuzione consiste nella ripartizione, in modo più o meno equo,
del valore di beni e servizi fra coloro che hanno contribuito a produrli (im-
prenditori, lavoratori, fmanziatori, ecc.). Il problema della distribuzione è
uno dei più delicati e importanti delle scienze economiche, perché si tratta
di definire quanto spetta a ciascuno degli attori della produzione. Con il
tempo esso è diventato ancora più difficile da risolvere, perché il numero di
coloro che partecipano al processo produttivo è enormemente cresciuto. Si
pensi, per esempio, a quante persone concorrono direttamente o indiretta-
mente, alla produzione di un tavolo o di un' automobile.
Il consumo è l'utilizzazione che si fa dei beni e dei servizi prodotti. I beni
sono utilizzati per soddisfare i bisogni individuali o collettivi dell'uomo
oppure per produrre altri beni. I beni d.estinati al consumo finale sono im-
piegati una sola volta e, in questo caso, vengono distrutti fisicamente con
l'uso (cibo, carbone, petrolio, ecc.), oppure sono adoperati parecchie volte,
quando si tratta di beni durevoli o, come anche si dice, <<a fecondità ripetuta>>
(automobili, macchinari, elettrodomestici, ecc.). I beni destinati alla produ-
zione di altri beni, come macchinari e attrezzi, si dicono beni <<strumentali>>.
La produzione, la distribuzio11e e il consumo sono oggetto d' indagine di
almeno altre due discipline: l'economia politica e la politica economica. Ma

1
Un bene econo,nico è qualsiasi oggetto che abbia le due seguenti caratteristiche: a) deve
essere in grado di soddisfare un bisogno ttmano; b) deve avere un prezzo e quindi un mercato,
sul quale è acqui stato e venduto. Difatti, non sono beni economici, anche se soddisfano biso-
gni, quelli «liberi», cioè che non banno un prezzo (aria, luce del sole), perché sono disponibili
in natura in quantità tale da appagare completamente e in modo permanente i conispondenti
bisogni. Il mercato è il luogo (o anche l'insieme di operatori economici fra loro collegati) nel
quale avvengono le contrattazioni e gli scambi di beni e servizi e si formano i prezzi.
2
I servizi sono in sostanza dei beni inunateriali che servono anch'essi a soddisfare un bi-
sogno. Normalmente essi sono «consumati» nel momento stesso in cui vengono prodotti (per
esempio, un concerto, una visita 1nedica o una lezione).
3
Il capitale è una somma di denaro (capitale finanziario) o un insieme di beni necessari
per la produzione di altri beni o di servizi (capitale produttivo). In genere, quando si parla di
capitale si fa riferimento al capitale produttivo (terra, edifi ci, macchinari, materie p1ime, ecc.).
Chi impiega il capitale finanziario è un capitalista.finanziario e riceve un compenso detto inte-
resse; chi impiega il capitale produttivo è un capitalista ùnprenditore e ricava un profitto.
1. La rivoluzione industriale 5

il modo e le finalità con cui questi temi vengono affrontati sono molto di-
versi. L 'economia politica studia l'attività economica per comprenderne il
funzionamento ed eventualmente tentare di giungere alla formulazio11e di
leggi 4 • Le conoscenze in materia consentono a ll' economista di effettuare le
previsioni e preparare i piani che gli vengono continuamente richiesti da
pubblici amministratori, istituzioni e imprese. La politica economica si oc-
cupa del modo in cui i governi, con la loro azione e per raggiungere fini
prefissati, cercano di modificare la composizione, la distribuzione e il con-
sumo della ricchezza prodotta. La storia economica, da parte sua, studia le
modalità con le quali i problemi della produzione, della distribuzione e del
consumo di beni e servizi sono stati effettivamente risolti in certe epoche e
it1 determinati luoghi.
Per conseguenza, i compiti dell' economista e dello storico economico
sono differenti. Il primo - come sosteneva John Maynard Keynes, il celebre
economista inglese (1883-1946) - <<deve studiare il presente alla luce del
passato per fini che hanno a che fare con il futuro>>. L ' economista è quindi
rivolto verso il futuro, ma l'individuazione delle uniformità che portano alla
determinazione di <<leggi>> può avere luogo quasi soltanto in base alla cono-
scenza dei fatti già avvenuti. Lo storico, invece, è orientato decisamente
verso il passato e perciò non si preoccupa del futuro. Anzi - come afferma
Cipolla - deve evitare la pericolosa tentazione d'insistere su certe apparenti
regolarità con cui sembra si svolgano determinati eventi economici e anco-
ra di più giungere a ipotizzare <<leggi>> ritenute valide per ogni tempo. Meno
che mai deve partire da tes i preconcette e interpretare i fatti per dimostrare
le sue tesi. La ricerca storica richiede un'attenta analisi delle fonti (che tal-
volta possono essere fuorvianti e persino false), una loro corretta valutazio-
ne e infi ne una grande cautela nella loro interpretazione.
Non bisogna dimenticare, mfine, che anche se la storia economica si oc-
cupa delle vicende e dei fatti economici, dietro di essi vi è sempre l'uomo,
vero protagonista della Storia, con i suoi sentimenti, le sue convinzioni, i
suoi pregiudizi e le sue paure. Sono le azioni dell'uomo, razionali o irrazio-
nali che siano, a determinare, alla fin fine, gli eventi economici che influi-
scono sulle sue condizioni materiali di vita.

4
Le leggi econo,niche sono relazioni tra fenomeni economici confermate dal! ' esperienza,
nel senso che dovrebbero ripetersi sempre allo stesso modo, sicché quando si verifica tm certo
fenomeno ci si attende un determinato effetto (per esempio, se il prezzo di un tipo di automo-
bile duninuisce, se ne dovrebbero vendere di più). Siccome gli uomini si comportano in modo
vario e difficilmente prevedibile, spesso gli effetti attesi in base alle cosiddette «leggi econo-
miche» non sono se1npre tmiforrni, ma possono dare risultati anche molto di versi da quelli
previsti. Vi è anche chi ritiene che in econo1nia non vi siano «leggi».
6 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

1.2. Le grandi rivoluzioni nella storia dell'umanità

Da quando l' homo sapiens è apparso sulla Terra, circa duecentomila anni
or sono, vi sono state tre importanti rivoluzioni che hanno segnato il destino
dell'umanità: a) la rivoluzione cognitiva, circa settantamila anni fa; b) la ri-
voluzione agricola, circa dodicimila anni fa; c) la rivoluzione industriale, ini-
ziata circa duecentocinquanta anni fa, verso la metà del Settecento, che fu
preceduta e preparata dalla rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII. In
questo libro ci occuperemo della rivoluzione industriale, ma è opportuno fa-
re un breve cenno alle a ltre due grandi rivoluzioni e ai modelli economici e
sociali cui esse diedero luogo.
I . La rivoluzione cognitiva. L ' homo sapiens visse per millenni cibando-
si dei frutti selvatici e d.ei prod.otti della caccia e della pesca e imparando a
utilizzare il fuoco per cucinare e rendere maggiormente commestibili e di-
geribili gli alimenti. Inve11tò anche le imbarcazioni, le lampade a olio, gli
archi, le frecce e gli aghi, necessari per cucire le pelli che lo riparavano dal
freddo. Circa settantamila anni fa, egli partì dall'Africa orientale, sua terra
di elezione, e si diffuse a p oco a poco in tutto il mondo, soppiantando le al-
tre specie umane presenti (homo erectus, homo neanderthalensis, ecc.).
Da allora e per altri quarantamila anni, l' homo sapiens realizzò quella
che è stata chiamata rivoli,zione cognitiva, consistente, in sostanza, nella
comparsa del pensiero astratto e nell'uso di simboli per esprimerlo. Il lin-
guaggio elaborato consentì di parlare di intere categorie di cose che l'uomo
non aveva mai visto, toccato o odorato. Egli fu in grado non solo di creare
miti, dèi e religioni, ma soprattutto di condividerli con altri suoi simili. Ciò
consentì a gruppi sempre più grandi di esseri umani di restare uniti e colla-
borare, proprio perché accumunati dalle stesse credenze. Ne derivò un enor-
me vantaggio su tutti gli altri animali, che vivevano solitari o in piccoli
branchi di poche unità.
I giuppi di cacciatori-raccoglitori, composti in genere di qualche decina
di individui (al massimo un centinaio), si spostavano in continuazione alla
ricerca di territori più ricchi di frutti e di animali e impararono ad organiz-
zarsi e a cooperare per cacciare anche g li animali di grossa taglia. Per po-
tersi trasferire altrove essi dovevano possedere conoscenze approfondite sul
mondo che li circondava, poiché dovevano tener conto del mutamento delle
stagioni, d.e lle migrazioni annuali degli animali e dei cicli di crescita delle
piante. Questi gruppi, di solito, andavano avanti e indietro su uno stesso ter-
ritorio che copriva al massimo qualche centinaio di chilometri quadrati. So-
lo in alcuni casi, quando le fonti di sostentamento si rivelavano particolar-
mente ricche, come lungo le rive dei fiu mi e le coste marine, dove vi era di-
1. La rivoluzione industriale 7

sponibilità di pesci e uccelli acquatici, si crearono villaggi o accampamenti


stabili. Questi uomini seguiva110 una dieta abbastanza varia e disponevano
di parecchio tempo libero da dedicare ai rapporti interpersonali.
La loro vita, tuttavia, era dura e il loro numero stentava a crescere, anche
perché i continui spostamenti non inducevano a mettere al mondo molti figli,
che avrebbero costituito un fardello nei trasferimenti. A volte, essi arrivavano
ad abbandonare o anche a uccidere i più deboli, come i malati, gli storpi e gli
anziani, o a disfarsi dei figli in eccesso, così come praticavano sacrifici uma-
ni. Pare che, alla vigilia della rivoluzione agricola, vi fossero, in tutto il mon-
do, da cinque a otto milioni di uomini, che vivevano in gruppi quasi sempre
estranei gli uni agli altri, ognuno con le sue credenze e i suoi miti.
2. La rivoluzione agricola. La rivoluzione agricola, nota anche come rivo-
luzione neolitica, ebbe inizio intorno a dodicimila anni fa proprio per far
fronte alla crescita della popolazione e impiegò alcuni millenni per diffonder-
si su tutta la Terra. In diversi luoghi e autonomamente gruppi di cacciatori-
raccoglitori domesticarono piante e animali e decisero di fermarsi in un posto
per vivervi con l' agricoltura e l'allevamento. Vi fu sicuramente una maggiore
disponibilità di risorse alimentari e la popolazione mondiale poté crescere, sia
pure lentamente, fmo a 250 milioni nel primo secolo dell'era cristiana.
La rivoluzione agricola fu certamente un processo inevitabile proprio
per permettere di alimentare più persone, ma essa comportò un p eggiora-
mento delle condizioni di vita. La coltivazione della terra richiedeva una fa-
tica maggiore di quella necessaria per cacciare, pescare e raccogliere i frutti
spontanei. Ora l'uomo doveva lavorare duramente da mattina a sera per
coltivare piante particolarmente esigenti, come il frumento ( qualche studio-
so ha perfino scritto che, in effetti, non fu l'uomo a domesticare il frumen-
to, ma il frumento a domesticare l'uomo, ossia a condizionarne l'esistenza),
e la sua sopravvivenza divenne sempre più strettamente legata al raccolto.
Se non cadeva la pioggia, se arrivava uno sciame di cavallette, se un fungo
infettava le piante, i contadini morivano a migliaia e in seguito anche a mi-
lioni. E per giunta, la dieta diventò meno varia di prima, basata su poche
piante coltivate e su pochi animali domesticati. La convivenza con gli ani-
mali, inoltre, favorì la circolazione di germi e batteri e con essi la diffusione
delle malattie, sicché la vita media si abbassò, anche perché una sede stabi-
le e la maggiore disponibilità di cibo consentivano di mettere al mondo più
figli, con cons eguente aumento della mortalità infantile e dei decessi per
parto. In definitiva, la rivoluzione agricola fu in grado di mantenere più
persone, ma in condizioni peggiori.
Con la rivoluzione agricola si affermarono anche una nuova concezione
della vita e una diversa e più complessa organizzazione sociale. Le visioni
8 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

animistiche, che attribuivano qualità soprannaturali a oggetti, come un albe-


ro o una roccia, furono soppiantate da religioni strutturate, dapprima poli-
teiste e poi monoteiste. Esse erano in grado di imporre un ordine gerarchico
e comuni modelli di comportamento a gruppi sempre più vasti di persone,
le quali cominciarono a ritenere che le norme per il funzionamento della
società provenissero direttamente dalla divinità. Fu così che i gruppi diven-
tarono più grandi e sorsero i primi villaggi e poi le prime città. La dimora
stabile e l'attaccamento alla propria terra e alla propria casa favori anche la
diffusione del concetto di proprietà, che era alla base della nuova organiz-
zazione sociale e dell' attività economica.
L'agricoltore dovette anche cominciare a pensare al futuro e a preoccu-
parsi del modo con il quale affrontarlo. I cacciatori-raccoglitori vivevano alla
giornata e quando le fonti di sostentamento si riducevano o quand.o erano mi-
nacciati da gruppi più forti e numerosi, si spostavano in altre zone. L ' uomo
sedentario dedito all'agricoltura, viceversa, doveva essere previdente e ac-
cumulare le scorte necessarie per la semina e per sopravvivere fino al raccol-
to successivo, difendendole contro qua lsiasi nemico anche a costo della vita.
Nelle società agricole si sviluppò a poco a poco una certa divisione del lavo-
ro, che portò alla nascita di svariate attività artigianali e poi al commercio sia
all'interno di una stessa comunità sia fra comunità diverse.
Le società agricole, sorte e vissute separate p er lungo tempo, si andaro-
no uniformando grazie a tre importanti elementi unificatori: gli imperi, la
religione e il denaro. La funzione unificatrice di popoli diversi svolta dagli
imperi e dalla religione è facilmente intuibile: gli imperi, fm dai più antichi
sorti tremila a1mi prima di Cristo, governava110 un numero significativo di
popoli distinti, ciascuno d.ei quali con una propria identità culturale, e per-
ciò svolsero un ruolo rilevante nel conferire loro una comune identità (si
pensi, per esempio, all'Impero romano o a quello cinese); le religioni, con il
loro sistema di norme e di valori, fondati sulla fede in un ordine sovrumano,
riuscirono a dare una legittimazione alle fragi li strutture create dall 'uomo e
ad assicurare la cooperazione di grandi masse, con pari funzione unificatri-
ce. Ma anche il denaro è servito ad avvicinare i popoli proprio perché tutti,
amici e nemici, lo hanno subito accettato e gli hanno attribuito un valore,
per pura convenzione, sulla base della fiducia nel comune riconoscimento
della sua funzione. Ciò è avvenuto qualunque forma il denaro abbia assunto
nel corso dei secoli, da quella iniziale di moneta-merce delle prime società
agricole ( orzo, capi di bestiame, conchiglie, spiedini di ferro o altro) a quel-
la successiva di monete metalliche coniate ( dal settimo secolo a.C.), per
giungere all' attuale forma di biglietti di carta colorata o di moneta elettro-
nica, che esiste soltanto nei bit dei computer.
1. La rivoluzione industriale 9

Le società agricole, infine, furono caratterizzate, fin dall' inizio e in ogni


parte del mondo, da profonde diseguaglianze fra i suoi membri. Piccoli grup-
pi di ricchi privilegiati (governanti, sacerdoti, militari e grandi proprietari ter-
rieri) si contrapposero a l resto della popolazione, raggruppata in classi o caste
subalterne (contadini, pescatori, artigiani, servi e schiavi), così come vi fu
sempre, in quelle società, la completa sottomissione delle donne agli uomini.
Tale stratificazione sociale e di genere era ritenuta (o a lmeno così facevano
credere i ceti privilegiati) insita nell'ordine naturale delle cose e perciò si
credeva che fosse stata fissata dalla stessa divinità. In Europa, durante il Me-
dioevo, essa era stata codificata nella società feuda le ed era ancora evidente
alla vigilia della rivoluzione industriale.

1.3. Il sistema feudale

Nel Settecento il sistema feudale, così come si era venuto costituendo in


una vasta area del l'Europa centrale, era ormai in profonda e definitiva de-
cadenza. Conservava, però, alcuni elementi che erano oggetto di continue
lamentele e proteste da parte delle classi non privilegiate, sicché è opportu-
no ricordarne brevemente le caratteristiche salienti.
Il sistema feuda le si basava su rapporti personali e patrimoniali, inter-
correnti fra il sovrano e i suoi vassalli e tra costoro e i loro contadini. In
origine, i vassalli promettevano fedeltà al proprio sovrano o signore e si
obbligavano a fornirgli auxilium et consilium, ossia aiuto (militare e finan-
ziario) e consiglio (partecipazione a consultazioni periodiche). In cambio, il
signore garantiva al vassallo la sua protezione e g li assicurava il manteni-
mento mediante l'assegnazione di un feudo, in genere un'estensione di ter-
ra, che non era sua proprietà privata. Il sovrano poteva in qualsiasi momen-
to revocare la concessione, specialmente in caso di tradimento o infedeltà
del vassallo (fellonìa).
I feudi, con il tempo, divennero ereditari e, previo assenso del sovrano,
anche vendibili ad a ltri, oltre che frazionabili in suffeudi, che potevano essere
concessi ad a ltri vassalli (valvassori e valvassini, secondo la terminologia ita-
liana). Va ricordato che i vassalli, oltre ai feudi, possedevano anche terre di
proprietà privata, gli a/lodii, di cui potevano disporre a loro piacimento.
Le terre del feudo erano normalmente divise in più parti:
a) la riserva dominica, che il signore teneva per sé e faceva coltivare da i
suoi servi;
b) i mansi, che erano poderi dati in concessione ai contadini liberi per-
ché li lavorassero per potersi mantenere;
IO La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

c) le terre comuni, ossia le terre non coltivate, riservate allo sfruttamen-


to comunitario degli abitanti del luogo (pascolo, raccolta della legna e dei
frutti selvatici, semina temporanea, ecc.).
Il f eudatario, inoltre, garantiva la difesa contro i nemici con i suoi uo-
mini armati, amministrava la giustizia, in genere tramite un uomo di legge,
soccorreva i contadini in caso di bisogno, mediante anticipazioni di derrate
o in altro modo, e costruiva e teneva funzionanti mulini, forni, gualchiere,
frantoi e altre strutture, di cui gli abitanti del luogo si servivano a pagamen-
to (erano, questi, i cosiddetti «diritti bannali»).
In cambio, i contadini erano tenuti ad a lcune prestazioni verso il proprio
signore: a) pagavano un censo per l' uso della terra loro a ffidata, dapprima
in natura e poi anche in denaro; b) fornivano prestazioni d' opera gratuite
(corvées), per esempio a lcune giornate di lavoro per la coltivazione della ri-
serva o per la riparazione del castello; c) mettevano a disposizione, in caso
di necessità, uomini armati (in genere uno per ciascun manso), che segui-
vano il signore e i suoi cavalieri in guerra in qualità di fanti.
Dal punto di vista socia le, il mondo feudale era visto come un ' organiz-
zazione distinta in tre ordini: oratores, bellatores e laboratores, vale a di-
re coloro che pregavano (clero), coloro che combattevano (nobiltà) eco-
loro che lavoravano (contadini e artigiani). Questo schema era penetrato
nella coscienza collettiva e le tre categorie di cui si componeva erano ri-
tenute immutabili, in quanto fissate da Dio stesso per garantire l'assetto
della società. Cercare di modificarle, perciò, significava andare contro la
volontà di Dio.
Con il tempo, il sistema feuda le, che si era affermato con caratteristiche
molto diverse nelle varie zone d 'Europa, si era andato sfaldando e trasfor-
mando, a cominciare dall' Inghilterra, dove era arrivato tardi e non si era
ma i completamente radicato. In seguito, subì profonde trasformazioni an-
che nei paesi dell' Europa occidentale, mentre in quelli dell ' Europa orienta-
le e meridionale conservò parecchi suoi tratti originari. La formazione degli
Stati nazionali e il passaggio ai funziona ri regi di alcuni compiti, come la
difesa e l' amministrazione della giustizia, non giustificavano più molte pre-
stazioni di origine feuda le, che perc iò erano viste come dei soprusi.

1.4. La società di ancien régime

L'espressione ancien régime (antico regime) entrò in uso al tempo della


Rivoluzione francese del 1789 per indicare l'organizzazione politica, econo-
mica e sociale della Francia prerivoluzionaria. La locuzione è poi stata ap-
1. La rivoluzione industriale 11

plicata in generale alla società e alle istituzioni esistenti prima della Rivolu-
zione nei diversi paesi europei. Nel Settecento, la società europea era anco-
ra divisa in classi, anche se ormai con caratteristiche alquanto diverse da
quelle feudali. Al vertice vi erano la nobiltà e il clero, alla base la massa dei
lavoratori (contadini, artigiani, domestici, ecc.) e in mezzo il ceto borghese,
nato nelle città dalla progressiva dissoluzione del sistema feudale, costituito
da mercanti, banchieri, notai, medici, burocrati e altri.
La nobiltà godeva ancora di un enorme prestigio sociale ed esercitava
un importante ruolo politico. In molti luoghi, i nobili continuavano ad esse-
re esentati dal pagamento di parecchi tributi, amministravano la giustizia
nei confronti degli abitanti delle loro terre, riscuotevano alcuni canoni feu-
dali e spesso continuavano ad esigere prestazioni gratuite di lavoro.
La natura aristocratica della società settecentesca era rafforzata dall' au-
torità e dal prestigio della Chiesa. Infatti, anche se in genere il clero era di
origine contadina o proveniva dai ranghi dell'artigianato urbano, le alte ca-
ricl1e ecclesiastiche erano quasi sempre appa.nnaggio dei membri della no-
biltà. Inoltre, il clero continuava a godere di molti privilegi: era esentato dal
pagamento di numerosi tributi ordinari, riscuoteva le decime per il suo
mantenimento ( di norma rappresentate dal versamento di una quota del rac-
colto) e deteneva il monopolio pressoché completo dell'istruzione.
I contadini costituivano la stragrande maggioranza della popolazione,
ma le loro condizioni variavano da luogo a luogo. I contadini dell' Europa
occidentale (Inghilterra, Francia e Germania) erano ancora assoggettati a
numerosi obblighi feudali, ma la loro situazione era abbastanza buona. A
est del fiume Elba, invece, a mano a mano che ci si spostava verso oriente
(Prussia orientale, Boemia, Polonia, Russia), le loro condizioni tendevano a
peggiorare e i vincoli feudali si facevano sempre più frequenti e oppressivi.
La borghesia si stava consolidando ed assumeva caratteristiche partico-
lari a seconda dei paesi in cui si era sviluppata. Era soprattutto una borghe-
sia mercanti le nelle prospere nazioni commerciali dell'Europa occidentale,
come Olanda e Inghilterra; era composta prevalentemente di pubblici fun-
zionari nei paesi dell'Europa centrale e orientale, specie in P1ussia e 11ei
domini asburgici, ed era principalmente formata da appaltatori delle impo-
ste e da fmanzieri in Francia.

1.5. La rivoluzione industriale

A partire dalla metà del Settecento ebbe inizio quella profonda trasforma-
zione economica e sociale che prende il nome di rivoluzione industriale, un
12 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

lungo processo che sostanzialmente giunge fino ai nostri giorni. L'espres-


sione fu usata solo molto più tardi e fu presa a prestito dalle rivoluzioni po-
litiche, non per indicare cambiamenti altrettanto improvvisi e violenti, ma
per fare riferimento a profondi mutamenti strutturali dell'economia e della
società, concentrati in un periodo relativamente breve. La rivoluzione indu-
striale non ebbe inizio inaspettatamente, ma fu preparata nei secoli prece-
denti da alcune lente trasformazioni, che consentirono poi l' accelerazione
settecentesca. Tali trasformazioni riguardarono, fin dall'inizio, non solo
l' industria, ma la popolazione, l'agricoltura, il commercio, i trasporti e le
comunicazioni, per ricordare soltanto i settori maggiormente coinvolti. Per-
ciò, alcuni studiosi ritengono inadeguata l'espressione <<rivoluzione indu-
striale>>, che tuttavia contu1ua ad essere correntemente utilizzata.
La rivoluzione è stata successivamente divisa in tre fasi distinte e si è
parlato di tre rivo luzioni industriali, che coprono l' intero arco di tempo
compreso fra la metà del Settecento e i nostri giorni.
La prima rivoluzione industriale va all' incirca dalla metà del Settecento
alla metà dell' Ottocento e interessò innanzitutto l' Inghilterra, seguita da
Francia e Stati Uniti. Essa fu caratterizzata da un insieme di innovazioni
tecnologiche che riguardarono, in primo luogo, la caldaia a vapore, l' indu-
stria tessile e quella siderurgica.
La seconda rivolitzione industriale si sviluppò intensamente fra la secon-
da metà dell' Ottocento e la Prima guerra mondiale, per proseguire fmo alla
metà del secolo XX. Interessò principalmente paesi come Stati Uniti e Ger-
mania e, a cavallo fra i due secoli, anche Russia e Italia e vide la prima mo-
dernizzazione del Giappone, mentre la Gran Bretagna 5 si avviava a perdere il
suo primato. Le principali attività produttive riguardarono la chimica, l' elet-
tri cità, la meccanica, l'acciaio, il petrolio, il motore a scoppio e I.a ra.dio.
La terza rivoluzione industriale, infme, prese l'avvio dopo la Seconda
guerra mondiale e ha prodotto trasformazioni economiche e sociali molto
più profonde di quelle delle due precedenti rivoluzioni. Riguardò prevalen-
temente i paesi che già si erano industrializzati e si sviluppò in settori come
l' energia nucleare, la chimica avanzata (biochimica, materie plastiche, ecc.),
l'elettronica e l'informatica, che hanno cambiato radicalmente il modo di la-
vorare e di organizzare la vita di una parte consistente dell'umanità. Senza
contare la diffusione della robotica e della motorizzazione. A partire dalla
fme del secolo XX, lo sviluppo economico ha cominciato a toccare paesi
5
Com'è noto, la Gran Bretagna comprende Inghilterra, Galles e Scozia. La Scozia si unì
agli altri due paesi nel 1707 e da allora si cominciò a usare il termine Gran Bretagna. Dal 1801
la denominazione ufficiale fu Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e, dal 1923, Regno Uni-
to di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, in seguito alla secessione di quasi tutta l' Irlanda.
14 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

te da organismi rappresentativi, secondo il principio inglese <<no taxation


without representatiom>;
e) l'affermazione di una maggiore uguaglianza degli individui dinanzi
alla legge, definitivamente sancita dalla Rivoluzione francese, che garanti-
va, in particolare, i diritti di proprietà, senza i quali non vi poteva essere ini-
ziativa privata, che peraltro consentivano ai cittadini di godere della ric-
chezza accumulata;
f) la rivoluzione scientifica sviluppatasi fra Cinquecento e Seicento, che
permise lo sviluppo della tecnologia su cui si fondò la rivoluzione indu-
striale. L'uomo europeo prese coscienza della sua ignoranza del mondo cir-
costante (dall'universo al pianeta che abitava, dal corpo umano alle leggi
della natura) e non volle più accontentarsi delle spiegazioni fornite dalla re-
ligione o dal pensiero filosofico. Molti studiosi (Niccolò Copernico, Galileo
Galilei, Francesco Bacone, Isacco Newton e tanti altri), sottrassero la ricer-
ca all'influenza d.elle forze che vedevano nelle novità un attentato al potere
costituito o alle dottrine ufficiali e individuarono un nuovo metodo, fondato
sulla sperimentazione e sull'osservazione. Si andava diffondendo, così, l'idea
che il futuro sarebbe stato migliore del passato e chi poteva s'impegnava
nelle attività produttive.
2.
LO SVILUPPO
ECONOMICO

2.1. Crescita, sviluppo e progresso

Nel linguaggio comune, i termini crescita e sviluppo vengono spesso uti-


lizzati come sinonimi, ma essi presentano alcune importanti differenze. La
crescita economica si può definire come un aumento del valore complessi-
vo di beni e servizi prodotti da una determinata popolazione in un periodo
definito, che i11 genere è di un anno. Lo sviluppo economico è un concetto
più ampio, perché indica una crescita elevata e prolungata, accompagnata
da trasformazioni strutturali, sociali e culturali, come avviene, per esempio,
quando si passa da un'economia agricola a un' economia industriale.
La crescita è normalmente un processo reversibile, perché a un periodo
di crescita può seguire un periodo di decrescita. Anche lo sviluppo può es-
sere reversibile, ma è difficile (anche se non impossibile) che trasformazio-
ni profonde possano essere annullate per ritornare a forme economiche esi-
stenti prima del cambiamento. Se ciò accade, tali forme non sono mai iden-
tiche a quelle precedenti, come avvenne, per esempio, dopo il crollo del-
l' Impero romano, quando l'economia europea rito1nò ad essere basata quasi
soltanto sull'attività agricola, che però assunse forme e caratteristiche del
tutto nuove e particolari. Inoltre, crescita e sviluppo sono, per loro natura,
termini neittri, in quanto possono essere misurati e descritti prescindendo
da giudizi etici. Dal punto di vista economico, infatti, vi è crescita quando
aumenta la produzione di beni e servizi, indipendentemente dalla loro natu-
ra, e quindi anche quando si tratta di attività moralmente condannabili (pro-
duzione di armi o di sostanze stupefacenti o utilizzazione di processi pro-
duttivi inquinanti).
Diversa è la nozione di progresso, alla quale viene di solito associato un
significato positivo. Oggi siamo abituati a identificare crescita e sviluppo
con il progresso, ma non sempre è così. L'idea di progresso è legata alla
16 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

moderna concezione del mondo, affermatasi in Europa fra Sei e Settecento


ad opera di studiosi e scienziati che riponevano una grande fiducia nelle
capacità dell'uomo di comprendere <<oggettivamente>> il mondo e di poterlo
misurare e migliorare. In seguito, la storia fu vista come un passaggio gra-
duale della società da forme primitive di organizzazione a forme sempre
più ava11zate e perfezionate. Insomma, ed è questa un' opinione oggi larga-
mente diffusa fra la gente, ogni fase storica rappresenterebbe un progresso
rispetto a quella precedente, sicché la condizione personale, sociale ed eco-
nomica dell'uomo sarebbe andata sempre migliorando.
Quest' idea di progresso appartiene all 'uomo occid entale contemporaneo
ed è diversa da quella accettata in altre epoche o in altri luoghi. G li antichi
Greci, per esempio, pensavano che la storia dell'umanità si sviluppasse
dall'ordine verso il caos e perciò ogni generazione aveva il compito di con-
segnare alle generazioni st1ccessive u.n mondo non degradato o degradato il
meno possibile. La stessa concezione cristiana del mondo affermatas i nel
Medioevo era del parere che l' attività dell'uomo non potesse apportare alcun
significativo miglioramento alla sua condizione, perché egli era di passaggio
su questa te11·a e il suo compito essenziale era di attendere alla salvezza eter-
na. Perciò eviteremo di utilizzare la nozione di progresso e ci limiteremo a
parlare di crescita o di sviluppo, concetti più squisitamente economici.

2.2. La misurazione della crescita

La crescita viene normalmente misurata facendo ricorso ad alcuni aggre-


gati 1, come il Prodotto interno lordo (Pil), termine entrato ormai nell' uso an-
che del grande pubblico, e il Prodotto nazionale lordo (Pnl). Il Prodotto in-
terno lordo è il valore monetario dei beni e dei servizi finali prodotti in un
determinato periodo (in genere un anno) all' inte1no di un paese (e quindi su
tutto il territorio nazionale) da residenti e da stranieri, al lordo degli ammor-
tamenti, vale a dire compreso il valore dei beni che sono stati consumati nel
processo produttivo. Il Prodotto nazionale lordo è il valore monetario di beni
e servizi finali prodotti in un determinato periodo soltanto dai residenti,
all'interno di un paese e all'estero, sempre al lordo degli ammortamenti 2 • Il

1
L'aggregato è una grandezza economica complessa, generalmente espressa in valore,
che si ottiene so1TI1nando grandezze singole. Sono esempi di grandezze aggregate l' insi eme di
tutte le produzioni, dj tutti i constLIDi, di tutti gli investimenti o di tutti i reddjti di un paese.
2
Se dal Pii e dal Pn1 si detraggono gli ammorta1nenti si ottengono, rispetti vamente, il Pro-
dotto interno netto e il Prodotto nazionale netto. Il Reddito nazionale è 1.m altro aggregato che
talvolta viene usato come sinoni1n o del Pii, sebbene fra i due vi sia una leggera differenza.
2. Lo sviluppo economico 17

calcolo del Pii pone diversi problemi, fra cui quello relativo a lla misurazio-
ne del valore dei servizi, i quali vengono considerati sulla base del costo
sostenuto per produrli. Ciò significa che, per esempio, siccome il costo dei
servizi della pubblica amministrazione (istruzione, sanità, difesa, giustizia,
ecc.), è costituito principalmente dalle retribuzioni pagate ai dipendenti
pubblici, se si aumentano tali retribuzioni aumenta anche il Pil, il che desta
quanto meno delle perplessità.
La determinazione del Pil serve non solo per conoscere la sua variazione
fra un anno e l'altro, ma anche per stabilire confronti internazionali e com-
parare i livelli di crescita dei diversi paesi. A questo proposito, però, biso-
gna osservare che il Pil complessivo di un paese è poco significativo se non
lo si rapporta alla popolazione. Dividendo il Pil p er il numero degli abitanti,
si ottiene il Pii pro capite, che p ermette di conoscere il valore dei beni e dei
servizi che ciascun cittadino ha mediamente contribuito a produrre. Solo
così è possibile stabilire confronti fra diversi paesi e scoprire, per esempio,
che il piccolo Lussemburgo (circa seicentomila abitanti), con un Pil comples-
sivo infmitamente inferiore a quello degli Stati Uniti (325 milioni di abitanti),
ha un Pil pro capite che è di oltre tre quarti superiore a quello americano.
Un altro problema che si pone, quando si vogliano effettu.a re confronti
fra le economie di diversi paesi, è quello del valore delle monete nelle quali
è espresso il Pil di ciascuno di essi e del conseguente tasso di cambio da
applicare. Da qualche tempo, si fa sempre più ricorso al metodo della Pari-
tà di potere d 'acquisto (PPA), in inglese Purchasing power parity (PPP),
che consiste nell 'individuazione di una certa quantità (paniere) di beni e
servizi di uso più comune e nella determinazione del loro prezzo nella mo-
neta di ciascun paese. Se, per esempio, un tale paniere vale 1.000 euro in
Europa e 1.300 dollari negli Stati Uniti, vuol dire che 1 eu.r o è equiva lente a
1,30 dollari. Questo metodo, anche se si presta a critiche, è comunque pre-
feribile all' applicazione del tasso di cambio, dato dall' incontro fra doman-
da e offerta di moneta 3 .

2.3. I modelli di sviluppo

Gli storici e gli economisti hanno fatto sp esso ricorso a schemi o model-
li per spiegare lo sviluppo economico, nel tentativo d ' individuare meccani-
3
ll tasso di cambio indica il prezzo di una moneta espresso in un'altra moneta, detenni-
nato in base alla domanda e all'offerta della moneta stessa. Se, per ese1npio, nei paesi che
usano l'euro, il dollaro è molto richiesto, il suo valore in euro aumenta; se, viceversa, vi so-
no molti dollari offerti in vendita, il suo valore in euro diminuisce.
18 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

smi applicabili, in linea generale, aU 'evoluzione della società. Il ricorso a


tali modelli richiede grande cautela, perché s e essi sono utili come ipotesi
di lavoro e di studio, risulta110 pericolosi quando venga110 utilizzati per
spiegare i processi storici, che sono complessi e sfuggono a rigide classifi-
cazioni e a schematismi.
Tralasciando i modelli più antichi, che risalgono alla seconda metà del
secolo XIX, si può ricordare, a titolo esemplificativo, quello di Walt W.
Rostow del 1960, non perché esso sia esente da critiche, anzi è stato più
volte criticato, ma perché ha introdotto il concetto di take off o decollo,
ormai entrato nel linguaggio comune di storici ed economisti. Secondo
Rostow, la realizzazione dello sviluppo economico passa attraverso cinque
fasi o stadi, dalla società tradizionale a quella dei consumi di massa.
'
1. La società tradizionale. E lo stadio della società preindustriale, in cui
l' agricoltura è l'attività predominante e non riesce a fornire significative ri-
sorse aggiuntive da destinare ad attività extra agricole, la produttività 4 è
bassa in tutti i settori e la popolazione stenta a crescere.
2. La società di transizione. E' una fase di cambiamento, durante la quale
si avviano le condizioni che determinano lo sviluppo successivo. Essa è ca-
ratterizzata dall' incremento della produttività agricola, che finalme11te rie-
sce a mettere a disposizione degli altri settori le risorse necessarie alla loro
crescita, da un evidente processo di accumulazione 5, dall' incremento del-
l' istruzione, dalla formazione dì una classe imprenditoriale dinamica e da
un susseguirsi di innovazioni, oltre che dall ' intervento dello Stato, il quale

4
La produttività (da non confondere con la produzione) è il rapporto fra la quantità di
prodotto ottenuto da un'attività (output) e la quantità di uno o più fattori dell a produzione
impiegati (input). Perciò, si parla di produttività del lavoro (in genere, prodotto per addetto),
produttività del capitale (in genere, prodotto per unità di capitale impiegata) e produttività
della terra (in genere, quintali per ettaro). Vi è poi la produttività totale, relativa a tutti i fat-
tori della produzione impiegati .
5
L' accumulazione è il processo mediante il quale, in una società, si destina una parte di
ciò che si produce all'accrescimento della capacità produttiva futura. In genere, la produzio-
ne è utilizzata: a) per ripristinare ciò che si è consumato durante il processo produttivo (se-
menti , attrezzi, ecc.); b) per il consumo (alimentazione, vestiario, ecc.). Non vi è accumula-
zione se la produzione viene totalmente consumata per il ripristino e il consum o. Vi è accu-
mulazione se una parte della produzione viene destinata a produ1Te altri beni (in particolare,
mantenendo le persone che vi lavorano), necessari per accrescere la capacità futura di pro-
duzione (macchine, edifici, strade, ferrovie, ecc.). Ciò è possibi le solo se i beni prodotti su-
perano le es igenze vitali di una popolazione, altrimenti essi devono essere interamente uti-
lizzati per le esigenze di coloro che li hanno prodotti, com'è spesso avvenuto nel mondo pre-
industriale, quando la produzione agricola serviva a mantenere i contaduù e poche altre ca-
tegorie, come artigiani, mercanti, governanti, 1nilitari, clero e proprietari terrie1i.
2. Lo sviluppo economico 19

provvede alla creazione delle infrastrutture più costose 6 . Non mancano, pe-
rò, forti resistenze ai cambiamenti, messe in campo da chi vede in pericolo
la propria posizione e i propri privilegi.
3. La società del decollo o del take off. È lo stadio più importante, per-
ché segna il momento in cui una società, al pari di un aereo che si solleva
dal suolo per librarsi verso l'alto, conosce una forte ed irrevers ibile accele-
razione, riuscendo a superare tutte le resistenze che si frappongono al suo
sviluppo. Il s istema economico subisce profonde trasformazioni, che in
genere si conce11trano in pochi decenni. La produzione e la produttività
crescono sia in agricoltura che negli altri settori, i quali diventano partico-
larmente dinamici e contribuiscono al l'accumulazione di capitale. Le in-
novazioni si fanno più numerose, gli investimenti aumentano e le trasfor-
mazioni investono anche il quadro politico e istituzionale, che deve agevo-
lare lo sfruttamento del le nuove opportunità. Il deco llo r iguarda principal-
mente alcuni settori-guida (leading sectors) che tr ascinano lo sviluppo,
mentre altri non sono coinvolti, generando squilibri economici all' interno
di un paese.
4. La società matura. E' la società che ormai è decollata e vede conti-
nuamente aumentare produttività, innovazioni tecnologiche e investimen-
ti, in un processo di crescita regolare e continua. Le trasformazioni, che
prima avevano interessato principalmente alcuni settori leader, ora si al-
largano ad altri campi, come le industrie delle macchine utensili, dei pro-
dotti chimici e delle attrezzature elettriche. Lo sviluppo, cioè, comincia ad
autoalimentarsi.
5. La società dei consumi di massa. E' questa la società che Rostow os-
servava negli anni Cinquanta del Novecento negli Stati Uniti e che imma-
ginava si sarebbe estesa a mo lti a ltri paesi, come in effetti è avvenuto. In
questo stadio si ass iste a un forte aumento della domanda di beni di consu-
mo durevoli e di servizi, reso possibile dall' incremento del reddito pro ca-
pite. Ormai il processo di accumulazione, che era costato parecchi sacrifici
alle generazioni precedenti e aveva caratterizzato le fasi del decollo e della
maturità, è terminato ed è possibile destinare r isorse al miglioramento della
qualità della vita (istruzione, sanità, attività sportive, ecc.).
La teoria degli stadi di Rostow ha avuto molta fortuna, specie perché ha
ricl1iamato l' attenzione sul take offe ha stimolato parecchi studi sulla fase
del decollo d.e i singoli paesi. Ma ha raccolto anche diverse critiche. È stato

6
Le infrastrutture sono beni materiali non utili zzati direttamente nel processo produtti-
vo, 1n a messi a disposizione di una pluralità di utenti, come strade, linee ferrovia rie, acque-
dotti, fognature e, in seguito, linee elettriche, linee telefoniche e reti informatiche.
20 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

osservato, per esempio, che essa non spiega in modo es auriente il passaggio
da uno stadio ali' altro, non chiarisce come si realizza110 le condizioni del
decollo né come si formano gli imprenditori che lo stimolano, né infme
considera i rapporti fra i diversi paesi e cioè la dimensione internazionale
dello sviluppo.

2.4. Crisi e cicli economici

Una delle caratteristiche principali del mondo industrializzato fu la com-


parsa delle crisi economiche. Anche nell'età preindustriale vi erano state del-
le crisi, ma si era trattato di crisi di sottoprodi,zione. Il mondo industrializza-
to, invece, presentò una novità: le crisi di sovrapproduzione. Nelle società
agricole bastavano pochi anni di cattivi raccolti per provocare una crisi, che
immancabilmente si estendeva a tutti i settori produttivi. Un raccolto insuffi-
ciente, difatti, non solo rendeva difficile il rifornimento alimentare di intere
regioni, ma riduceva o annullava le entrate dei produttori agricoli (proprietari
e contadini), i quali erano costretti a diminuire l' acquisto dei manufatti del-
l' artigianato e dell' industria, mettendo in seria difficoltà anche quei settori.
Crisi del genere non finirono con l' indush·ializzazione. Quella del 1846-48,
per esempio, fu una grave crisi di sussistenza, dovuta ai cattivi raccolti che
interessarono il continente europeo e che colpì in particolare l'Irlanda.
Le crisi di sovrapproduzione sono apparse con il sistema capitalistico
industriale 7 • Esse si presentano quasi sempre con la stessa successione di
eventi. Hanno inizio con una fase di congiuntura favorevole 8, cioè di forte

7
Il capitalismo, nell'accezione marxiana, è il siste1na economico-sociale basato sulla pro-
prietà privata dei mezzi di produzione e sul lavoro salariato, considerato alla stregua di una
qualsiasi 1nerce disponibile sul mercato. L'obiettivo del sistema è la massimizzazione del pro-
fitto e il suo reimpiego per allargare la base produttiva. L'economia e la società capitalistiche
sono ritenute molto più dinamiche delle società precapitalistiche, che non riuscivano a realizza-
re un processo di accumulazione. A1cuni studiosi (Wemer Sombart e Max Weber) hanno indi-
cato come essenza del sistema lo «spirito capitalistico>>, basato sulla libera iniziativa e sul-
1'impresa privata, che persegue la ricerca sistematica del profitto e favorisce l'accumulazione.
8
In economia si distingue fra congiuntttra e stn1ttura. La congiuntura economica è data
dall ' insieme delle condizioni che caratterizzano l'attività economica di un paese o di un set-
tore in un dato periodo. Lo studio della congiuntura si riferisce sempre a periodi molto brevi.
Si prenda, per esempio, la produzione e la vendita di automobil i: si parlerà di congiuntura
favorevole quando produzione e vendite crescono e di congiuntura sfavorevole quando pro-
duzione e vendite di1ninuiscono. La struttura economica, viceversa, è data dall'insieme delle
attività che caratterizzano un sistema economico. L'espressione è anche riferita a singoli set-
tori economici, a singole ilnprese, ai consumi o al commercio internazionale di un paese, per
indicarne l'organizzazione, il modo di funzionamento, la composizione, ecc. Si parla di mu-
tamento strutturale, che richiede tempi lunghi, quando cambia la struttura economica di un
2. Lo sviluppo economico 21

aumento della domanda e di rialzo dei prezzi, che induce ad accrescere la


produzione, facendo ricorso all'uso di macchine sempre più p erfezionate e
alle banche, pronte a finanziare le imprese in espansione. Per conseguenza,
le vendite aumentano e si realizza il pieno impiego dei fattori della produ-
zione. Ma è difficile stabilire fino a quale punto spingere la produzione e si
corre il rischio - come spesso è avvenuto - di produrre più di quanto si rie-
sca a vendere, sicché si determina una sovrapproduzione: le merci restano
invendute, le imprese non possono rimborsare i prestiti alle banche e spesso
falliscono, gli operai perdono il lavoro e inizia la crisi. Le imprese sono co-
strette a riorganizzare la produzione per ridurre i costi, in attesa della ripre-
sa, ossia di un nuovo aumento della domanda e dei prezzi.
La spiegazione precedente è soltanto una di quelle avanzate per cercare
di comprendere le crisi economiche. Comunque, è evidente che l' evolu-
zione del capitalismo industriale si presenta come fortemente instabile, con
periodi di espansione della produzione seguiti da periodi di depressione e di
disoccupazione. Lo studio delle crisi, perciò, è stato inquadrato in quello
dei cicli economici, al quale si sono dedicati diversi economisti a partire
dalla seconda metà dell'Ottocento. Ricorderemo brevemente soltanto tre ci-
cli, vale a dire quelli che l'economista e storico austriaco Josepl1 Schumpe-
ter ( 1883-1950) ha chiamato ciclo <<breve>> o <<minore>> (studiato dall' ame-
ricano Kitchin), ciclo <<maggiore>> o semplicemente <<ciclo economico>>
(studiato dal francese Juglar) e ciclo <<lungo>> o movimento di <<lunga dura-
ta>> (studiato dal russo Kondratieff).
Clément Juglar fu. il primo (1860) a comprendere che le crisi s'inseri-
scono in meccanismi ad andamento ciclico. Egli identificò le crisi come il
punto d' inversione di tendenza fra espansione e depressione e individuò ci-
cli della durata di otto-dieci anni, durante i quali si susseguono, appunto,
una fase di espansione e una di depressione. P er molto tempo si pensò che
esistesse una sola categoria di movimenti ciclici, finché Joseph Kitchin,
studiando le statistiche dei tassi d'interesse e dei prezzi all'ingrosso in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti, mise in evidenza (1923) l'esistenza di un ciclo
<<minore>> della durata di tre o quattro anni. Poco dopo (1926), Nikolaj
Kondratieff (o più correttamente Kondrat'ev), individuò onde lunghe nel-
l'attività economica che durano intorno a cinquant'anni, basandosi dappri-
ma solo sull'andamento dei prezzi e in un secondo momento anche sulla
variazione della produzione. Le due fasi che compongono il ciclo lungo di

paese o di un settore. Per ese1npio, vi è 1nutamento strutturale quando si passa da t1na società
agricola a una società industriale o si passa dall'uso delle carrozze a quell o delle automobili
o ancora dall 'espo11azione di grano a quella di elettrodomestici.
22 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

Fig. 2.1 - Schen1a del ciclo Kondratiefl e trend secolare

·- N b

Trend secolare

tempo

Kondratieff vennero chiama te da François Simiand (1873- 1935), fase a


(espansione) e fase b (depressione).
I cicli sopra ricordati si sono svolti comunque in u.n lungo periodo carat-
terizzato da un trend secolare in crescita, sicch é anch e nelle fasi di depres-
sione l 'andamento generale dell'economia è stato in genere espansivo. Il
movimento dei cicli di lunga durata e il trend secolare sono riportati in for-
ma efficace, anche se eccessivamente semplificata, nella figura 2.1 . I cicli
indiv iduati dal Settecento al momento in cui Kondratieff scriveva sono
quattro: il primo, dal 1730 al 17 90, sarebbe durato 60 anni; il secondo, dal
1790 al 1848, 58 anni; il terzo, dal 1848 al 1897, 49 anni; il quarto, dal
1897 al 1933 , appena 36 anni. I cicli Kondratieff, Juglar e Kitchin si ap-
poggiano l 'uno su ll'altro, nel senso che all' interno di ciascun ciclo lungo di
Kondratieff vi sono più cicli Juglar e all'interno di ogni ciclo Juglar vi s ono
più cicli brevi di Kitchin.
Bisogna infine notare che i cicli di cui si è discorso non esauriscono la
gamma di tutte le fluttuazioni ad andamento ciclico. Si parla, per esempio,
anche di <<ipercicli>> de lla durata di 18-22 anni oppure di <<cicli dell'edilizia
residenziale>>, collegati all' attività edilizia.
3.
LE PREMESSE
DELLA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE INGLESE
LA POPOLAZIONE

3.1. Popolazione ed economia

La prima rivoluzione industriale non si sarebbe potuta verificare se non


fosse stata accompagnata da profonde trasformazioni anche in altri campi,
come quelli demografico, agricolo, commerciale e dei trasporti. Questi
cambiamenti costituiscono le <<premesse>> della rivoluzione industriale, con
la quale ebbero un rapporto di continua interazione, a volte precedendola e
condizionandola e altre volte seguendola ed essendo da essa profondamen-
te influenzati.
Lo studio della popolazione è particolarmente importante per compren-
dere i problemi economici di un determinato territorio e di una certa epoca.
Un aumento della popolazione, difatti, significa che vi sono più bocche da
sfamare, più persone da vestire e più famiglie che hanno bisogno di un'abi-
tazione. Ma significa anche che vi sono più braccia per lavorare o, se si vuo-
le, più persone d.a occupare. Ciò provoca, da un lato, un aumento della do-
manda di beni ' e, dall'altro, un aumento dell' offerta di prodotti 2 • Il contra-
rio, owiamente, awiene nel caso di una diminuzione della popolazione.

1
La domanda di un bene è la quantità di quel bene che i soggetti presenti sul mercato
desiderano acquistare in corrispondenza di un certo prezzo del bene stesso. Ciò significa che
al variare del prezzo varierà anche la quantità richiesta di quel bene. In genere, se il prezzo
di un bene aumenta, la do1nanda di quel bene diminuisce; se viceversa il prezzo diminuisce,
la domanda aumenta.
2
L'offerta di un bene è la quantità di quel bene che coloro che lo producono desiderano
vendere in corrispondenza di un certo prezzo del bene stesso. Il prezzo deve necessariamen-
te essere superiore al costo di produzione, ossia al valore di tutti i mezzi di produzione im-
piegati per produrlo. Quando si ha un aumento generalizzato dei prezzi si parla di inflazione,
fenomeno che può avere diverse cause. In genere, si distingue fra : a) inflazione monetaria,
provocata da un'eccessiva quantità di moneta messa in circolazione, che fa aumentare i
prezzi; b) inflazione da donianda , prodotta da un'eccedenza di domanda di beni e servizi
24 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

In Linea generale, la domanda complessiva è influenzata dalla struttura so-


ciale della popolazione, perché la domanda di beni e servizi di un determina-
to gruppo (per esempio, gli aristocratici) è diversa, per quantità e per compo-
sizione, da quella di un a ltro gruppo (per esempio, gli agricoltori). Ma è an-
che condizionata da fattori socio-cultural~ come abitudini alimentari, creden-
ze religiose o pregiudizi. Infme, la domanda è influenzata soprattutto dal red-
dito dei consumatori, e quindi dalla loro capacità di spesa 3 . Se costoro non
possono acquistare i beni (o i servizi) di cui hanno bisogno, questi restano in-
venduti: un bisogno insoddisfatto da solo non cr ea domanda di beni.
Nel mondo preindustriale, la gente consumava poco. Second.o la cosid-
detta legge di Engel, dovuta a Em st Engel, uno statistico tedesco del secolo
XIX, la percentuale d el reddito desti11ata ai consumi alimentari è tanto più
elevata quanto minore è il reddito. In altre parole, le persone più povere d e-
stinano ai consumi essenz iali, caratterizzati da una forte rigidità della do-
manda 4 , quasi tutto il loro reddito, mentre i ricchi hanno la possibilità di ri-
servarne una parte considerevole anche ad altri consumi. E difatti, nei secoli
che precedettero l'industrializzazione, la maggior parte delle persone dispo-
neva di un reddito modesto, che spend eva quasi completamente per l'alimen-
tazione e per qualche altra necessità primaria, come il vestiario, l' affitto
d.ella casa e il riscaldamento. Facevano eccezione le classi provviste di d e-
naro (aristocrazia e borghesia), che potevano permettersi consumi più raffi-
nati, come vesti di seta, palazzi, carrozze, precettori e medici.
L 'offerta, a sua volta, era condizionata dalla capacità produttiva, ossia
dalle terre e dal capitale disponibili, dalle tecniche di produzione utilizzate
e dalle fonti di energia, che allora si limitavano al carbone di legna, al vento
e all'acqua. Ma era anche determinata dal numero di abitanti di un paese e
dalla sua composizione per classi di età. Difatti, le persone in età lavorativa
producevano più di quanto consumassero, mentre gli anziani e i bambini

rispetto all 'offerta e quindi chi può è disposto a pagare prezzi più elevati pur di ottenere ciò
di cui ha bisogno; c) inflazione da costi, dovuta a un incremento dei costi di produzione di
beni e servizi, che fa aumentare i prezzi di vendita. L' inflazione può essere provocata da
più cause che agiscono contemporaneamente.
3
La capacità di spesa (o di acquisto) è la capacità di una popolazione (o di una persona) di
acquistare beni e servizi, in cambio di moneta che si è procurata con il proprio lavoro, ossia
producendo e cedendo ad altri beni e servizi.
4
Si dice che un bene (o un servizio) è a donianda rigida o anelastica se la sua domanda
varia di poco al variare, anche consistente, del prezzo. Ne sono un esempio i beni di pri1na
necessità, in quanto nessuno mangerà molto più pane se il suo prezzo diminu isce, né ridurrà
di molto il consumo se il prezzo aumenta. Sono a do,nanda elastica quei beni la cui doman-
da varia di molto anche se i prezzi variano di poco. Ne sono un ese1npio i beni voluttuari,
diciamo una marca di orologi, la cui domanda aumenterà molto se il prezzo diminuisce e
diminuirà molto se il prezzo aumenta.
3. Le premesse: la popolazione 25

consumavano senza produ1Te o producendo poco. Si tenga comunque pre-


sente che in una società contadina tutti contribuivano alla produzione: i
bambini venivano adibiti, appena ne erano capaci, a piccoli lavori, come
quelli di cortile, e gli anziani continuavano a lavorare fi no a quando le forze
lo consentivano.

3.2. La dinamica della popolazione nel mondo preindustriale

La conoscenza del numero degli abitanti di un paese presenta non poche


difficoltà, in particolare prima dei secoli XVIII e XIX, quando furono effet-
tu.a ti i primi censimenti moderni. Per i periodi precedenti sono disponibili
stime dovute a diversi studiosi, che si sono basati su elementi indiretti, co-
me l'allargamento delle cinte murarie delle città, le leve militari, le rileva-
zioni tributarie, quelle ecclesiastiche e le descrizioni dei contemporanei.
Secondo tali stime, talvolta anche molto diverse fra loro, la popolazione
mondiale, a metà Settecento, non raggiungeva gli 800 mi lioni. Il continente
maggiormente popolato era l'Asia con circa 500 milioni. L ' Europa arrivava
a 140 milioni e l' Africa a poco più di 100, mentre il Nord America ospitava
appena 2 milioni di persone. In Europa, lo Stato con la popolazione più
numerosa, se si esclude la Russia, era la Francia, che contava intorno a 25
milioni di abitanti, mentre la Gran Bretagna superava di poco i 7 milioni e
gli Stati della penisola italiana ne avevano circa 15,5 milioni .
La popolazione europea aveva conosciuto, nell'arco di oltre duemila anni,
a partire dal 400 a.e., momenti di crescita e di decrescita, come risulta dalla
tabella 3.1, che riporta le stime di Merrill Bennett. Essa aumentò fmo al 200
d.C., periodo di massima espansione dell' Impero romano, per poi scendere
fmo al 700, specie in seguito alla cosiddetta <<peste di Giustiniano>> del sesto
secolo, riprendersi fino al 1300 e crollare di nuovo nel corso del secolo XIV,
falcid.iata dalla peste nera (black death). Dopo di alJora, essa cominciò a cr e-
scere, nonostante la permanenza della peste allo stato endemico in Europa e
la sua recrudescenza nel corso del Seicento, per portarsi, alla metà del secolo
XVIII, a livelli mai raggiunti prima e continuare a crescere nei secoli succes-
sivi. Era il caratteristico andamento ad onde (vedi fig. 3.1), che mostra come
fosse difficile per la popolazione europea crescere stabilmente, tanto che nel
1500 era ancora ai livelli dell'età imperiale romana. Un andamento ad onde è
evidente anche per la popolazione mondiale (vedi fig. 3.2). Le crisi, però, so-
no meno prof011de e la tendenza alla crescita è più marcata.
Nell'Europa preindustriale permaneva, quasi dappertutto, l'antico regime
demografico, che possiamo chiamare primitivo o naturale. Esso era caratte-
26 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

Tab. 3.1. - Stinia della popolazione europea dal 400 a.C. al 1750, in milioni

Anno Popolazione Anno Popolazione


400 a.e. 23 1300 73
I d.C. 37 1400 45
200 67 1500 69
700 27 1600 89
1000 42 1650 100
l 100 48 1700 115
1200 61 1750 140
Fonte : B.H. Slicher van Bath, Storia agraria de/l'Europa occidentale (500-1850), Tori-
no, 1972, p. l 09.

rizzato da un equi lihrio demografico estremamente lahile e precario, dovu-


to a un'alta natalità, che oscillava ovunque attorno al 40 per mille e a una
mortalità anch'essa molto elevata, superiore al 30 per mille 5. La mortalità,
inoltre, era fortemente condizionata da un'altissima mortalità infantile:
sembra che un quarto dei bambini morisse entro il primo anno di vita e la
metà non superasse il quinto anno di età 6• Per conseguenza, la vita media
era molto breve e oscillava, di solito, fra i 20 e i 25 anni, per giungere, in
qualche caso, ai 30 anni 7 • Se circa la metà degli individui moriva nei primi
cinque anni di vita, si comprende come la vita media risultasse molto bas-
sa. Coloro che riuscivano a sopravvivere ai primi anni, però, avevano buo-
ne probabilità di vivere a lungo e superare i 70 anni, come si augurava
Da11te Alighieri nel primo verso del suo immortale poema (ma poi ne visse
solo 56).
Tutto ciò era dovuto a un'altra circostanza, che costituiva la caratteri-
stica principale del regime demografico naturale, vale a dire la completa
dipendenza della popolazione dalla disponibilità dei mezzi più elementari di

5
La natalità e la mortalità sono misurate con i rispettivi tassi o quozienti , riferiti a mille
abitanti. Il quoziente (o tasso) di natalità è dato dal rapporto fra il numero dei nati vivi in un
certo periodo, solitamente un anno, e l'ammontare medio della popolazione considerata. Il
quoziente (o tasso) di ,nortalità è dato dal rapporto fra il numero dei decessi in un certo pe-
riodo, solita1nente un anno, e l'ammontare medio della popolazione considerata.
6
Il quoziente di mortalità infantile è dato dal rapporto fra il numero dei morti nel primo
anno di vita e il numero dei nati vivi.
7
La vita media è data dal numero di a1mi che restano da vivere, in media, ad un indivi-
duo al momento della nascita. Perciò è più propriamente detta sp eranza di vita alla nascita.
Il calcolo si basa sull 'osservazione di una determinata popolazione per t1n certo periodo, che
porta alla co1npilazione di una tavola di mortalità, ossia di tma tabella che segue le modalità
di estinzione (numero di morti all' anno) della popolazione osservata.
3. Le premesse: la popolazione 27

Fig. 3. 1. - Popolazione europea dal 400 a. C. al 1750, in milioni


(andamento <<ad onde>>)
160 ~ - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - ~
140

80 + - - - - - - - - - - - - - ---n-- - - ----JL.._- - - - - -----1


67

23 27

400 a.e. 1 d.e. 200 700 1300 1400 1600 1700 1750

Fig. 3.2. - Popolazione mondiale dal 400 a.C. al 1500, in milioni


500 ~ - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - ~
440 460

375

300 + - - - - - - - - - - - - - --+--- - - - - - - - - - - - - - - - - - !

150
100 +---------------------------------1

O -+--- - - - - - ~ - - - - - - ~ - - - - - - ~ - - - - - - - - - - <
400 a.e. I d.C. 200 600 1200 1340 1400 1500
28 La prima rivolitzione industriale (1750-1850)

sussistenza, costituiti quasi esc lusivamente dai prodotti della terra. Il rap-
porto fra popolazione e n1ezzi di sussistenza era sempre difficile e troppo
spesso diventava drammatico. Quando la popolazione cresceva in modo ec-
cessivo rispetto alla capacità di un territorio di assicurare i mezzi di sussi-
stenza necessari, inevitabilmente gli abitanti del luogo dovevano affrontare
periodi anche lunghi di malnutrizione. L 'organismo umano s' indeboliva e
diventava facile preda delle epidemie, che si accompagnavano sovente alle
carestie. Molte volte, l'uomo, per sopravvivere, era costretto a spostarsi in
cerca di nuove terre da dissodare, perché con le tecniche agricole disponibi-
li non era possibile aumentare signif icativamente la produzione di de1Tate
nel territorio dove viveva. L'uomo, cioè, era costretto a inseguire il cibo. Le
epidemie costituivano il modo tragico e doloroso con il quale l'equilibrio
fra popolazione e mezzi di sussistenza era ripristinato. Come Sisifo, con-
dannato per l'eternità dagli dei, a causa delle sue colpe, a spingere un enor-
me masso su p er un pendio, che inevitabilmente, poco prima di giungere
sulla cima, rotolava di nuovo a valle, costringendolo a riprendere la fatica,
anche gli uomini sembravano condannati a compiere enormi sforzi per au-
mentare la loro consistenza numerica, per poi ritornare più o meno al punto
di parte112a.
La diffusione di malattie di ogni tipo, fra le quali particolare gravità as-
sumeva la peste, era favorita, oltre che dalla malnutrizione prolungata, anche
dalle cattive condizioni igieniche, dalle limitate conoscenze mediche e dalle
misere condizioni di vita, di lavoro e di abitazione, in cui versava la grande
maggioranza degli abitanti delle città e delle campagne. Le guerre non erano
una causa particolarmente grave di mortalità, perché non provocavano molte
vittime. Di più lo erano le devastazioni e i saccheggi provocati dal passaggio
delle truppe, che aggravavano le già misere condizioni dei ten·itori attraver-
sati e diffondevano numerose malattie.
Va rilevato, infine, che la popolazione europea del Settecento era so-
stanzialmente analfabeta. In molti casi sapeva leggere ma non riusciva a
scrivere se non il proprio nome. Il basso livello tecnologico, d'altronde, non
richiedeva ai lavoratori particolari conoscenze e le poche semplici macchi-
ne adoperate non necessitavano di uno specifico addestramento per essere
manovrate. Solo alcune persone, per svolgere la loro attività, dovevano sa-
per leggere, scrivere e far di conto. La cultura era appannaggio delle classi
superiori, le quali, per l' istruzione dei propri figli, ricorrevano a precettori.
Anche nel campo dell'istruzione, la situazione non era dappertutto uguale.
In Inghilterra, per esempio, intorno al 1750, la metà della popolazione sa-
peva leggere, mentre cento anni più tardi gli analfabeti in Italia erano anco-
ra più del 70 per cento.
3. Le premesse: la popolazione 29

3.3. La rivoluzione demografica

Il regime demografico naturale, con i suoi alti tassi di natalità e di mor-


talità, venne, a poco a poco, sostituito da un nuovo regime, che potremmo
definire moderno. La fase di transizione dall' antico al nuovo regime iniziò
dappertutto con la diminuzione del tasso di mortalità, in modo particolare
di quella infantile, alla quale solo più tardi fece seguito la diminuzione del
tasso di natalità. Alla fme del processo, il nuovo regime risultò caratterizza-
to da bassi tassi di natalità e bassi tassi di mortalità. Contemporaneamente,
nei paesi sviluppati, la vita media si allungò, dapprima lentamente e poi
sempre più rapidamente, dai 25 anni di metà Settecento ai 50 del primo
Novecento e agli 80 di oggi, con le donne che vivono in media da quattro a
sei anni in più degli uomini.

Fig. 3.3. - Transizione dal regime deniogrqfico antico a quello moderno


regime regime
transizione demografica demografico
demografico
%o antico 1 °fase 2°fase moderno
40
30

%o
.....___ _10-20
, - . _ - - - + - - - - 5-10

linea del tempo

Nel secolo compreso fra metà Settecento e metà Ottocento, di cui ci stia-
mo occupando, la popolazione m.ondiale aumentò da poco meno di 800 mi-
lioni a quasi 1,3 miliardi, con un incremento del 60 per cento. La p op ola-
zione europ ea, a sua volta, passò da 140 a 275 milio1ù, arriva11do quasi a
raddoppiarsi. Il paese che conobbe l' incremento più consistente fu la Gran
Bretagna, la cui popolazione cominciò a crescere già nella seconda metà del
secolo XVIII. Fra il 1750 e il 1800, essa passò da oltre 7 milioni a circa 11
milioni, per superare i 20 milioni a metà Ottocento. Nell'arco di un secolo si
era quasi triplicata.
30 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

Il legame fra aumento della popolazione e disponibilità alimentari, che


per secoli aveva frenato la crescita demografica, si stava finalmente spez-
zando. Ma l'incremento demografico destava non poche preoccupazioni,
come dimostra il Saggio si,lla popolazione, scritto dall'economista inglese
Thomas R. Malthus (1766-1834), apparso nell' edizione definitiva nel 1803.
Egli riteneva che la crescita della popolazione rispondesse a una <<legge natu-
rale>>, secondo la qual.e si sarebbe raddoppiata ogni venticinque anni, se non
fosse stata frenata dall'insufficiente disponibilità di generi alimentari, che era
impossibile far aumentare con lo stesso ritmo. La <<razza umana>>- sosteneva
Malthus - cresce secondo una progressione geometrica (1 , 2, 4, 8, 16, ...),
mentre i mezzi di sussistenza crescono secondo una progressione aritmetica
(1, 2, 3, 4, 5, ... ). Si noti che Malthus propone addirittura una progressione
geometrica con ragione 2 (in cui il quoziente fra un elemento e quello prece-
dente è sempre 2) e una progressione aritmetica con ragione 1 (in cui la diffe-
renza fra un elemento e quello precedente è sempre 1), quindi molto più lenta.
Per evitare che la popolazione restasse indigente, era necessario limitar-
ne l'incremento. Malthus, che era un pastore protestante, non suggeriva al-
cuna forma di controllo delle nascite mediante pratiche anticoncezionali, né
era favorevole all' introduzione di norme per ritardare l'età del matrimonio,
contrarie entrambe ai suoi principi. Faceva appello, invece, al cosiddetto
nioral restraint, ossia al ritardo volontario (o alla rinunzia) del matrimonio
e alla pratica della castità, in modo da ridurre le nascite. Chiedeva anche la
soppressione delle leggi sui poveri, di cui era fiero avversario, perché le
considerava responsabili del gran numero di figli messi al mondo dai pove-
ri. Costoro, difatti, potendo contare sull'assistenza pubblica delle parroc-
chie (in Inghilterra le <<parrocchie civili>> erano unità amministrative locali),
non avrebbero limitato le nascite.

3.4. Le cause della rivoluzione demografica

Le cause che determinarono la crescita della popolazione, prima britan-


nica e poi europea, sono molteplici, anche se gli studiosi non sempre con-
cordano sulla loro individuazione e sul loro diverso peso. Ne prenderemo
brevemente in esame alcune, distinguendo fra quelle che provocarono il ca-
lo del tasso di mortalità e quelle che influenzarono il tasso di natalità.
La riduzione del tasso di mortalità fu determinata da diversi fattori.
1. L' alinientazione. Essa diventò più regolare e in alcurli casi anche
più diversificata e abbondante. Ciò fu reso possibile dalla maggiore di-
sponibilità di generi alimentari e dati.a possibilità di trasportare a notevole
3. Le premesse: la popolazione 31

distanza le derrate, grazie alla costruzione di strade, canali e porti, che co-
minciavano a rompere l' isolamento delle campagne. Proprio per questo,
le carestie si fecero meno frequenti, anche se ci volle molto tempo perché
scomparissero del tutto.
2. Le condizioni igieniche. Sia quelle pubbliche che private comincia-
rono lentamente a migliorare. Nelle città si sistemarono e si ammoderna-
rono le fognature, si ampliarono e si resero più pulite le strade, furono co-
st1uite reti idriche e si edificarono case in muratura. Queste erano più fa-
cili da pulire e, perciò, i topi, le cui pulci trasmettevano alcune forme di
peste, riuscivano a insediarsi con maggiore difficoltà che nelle case di le-
gno. L'igiene personale migliorò. Si fece un uso più frequente del sapone
e si cominciarono ad adoperare indu1nenti di cotone, che si potevano lava-
re con maggiore frequenza, in quanto non si restringevano né s ' infeltri-
vano come quelli di lana. Il progresso in questo campo fu molto lento, an-
che per il permanere di pregiudizi diffusi sull'opportunità di lavarsi spes-
so e di cambiare frequentemente gli indumenti. Tuttavia, il miglioramento
dell'igiene, assieme a una più adeguata alimentazione, contribuì sicura-
mente a rafforzare le difese immunitarie dell'organismo umano.
3. I primi progressi della medicina. Va subito precisato che tali pro-
gressi, ancorché importanti, non furono così rilevanti come quelli realiz-
zati nei periodi successivi. Le scoperte furono poche, fra cui l'inocula-
zione del vaccino contro il vaiolo, malattia che colpiva principalmente i
bambini (anche di pochi mesi), praticata per la prima volta proprio su un
bambino da Edward Jenner (1796). Cominciò anche a diffondersi una
nuova sensibilità nei confronti dei problemi della vita, che i11dusse gover-
nanti, sapienti e medici a ingaggiare una lotta contro la morte, la malattia
e le epidemie. Vi fu una maggiore attenzione verso la medicina, che fu
meglio organizzata, per esempio con la costituzione delle prime accade-
mie mediche, e anche meglio insegnata, per esempio con l'introduzione,
verso la metà del secolo XVIII, delle prime cattedre di ostetricia nelle uni-
versità, che contribuirono a limitare le numerose morti per parto. La me-
dicina fu sostenuta in modo più adeguato dai pubblici poteri e venne me-
glio divulgata, con la pubblicazione di numerosi trattati di medicina popo-
lare. La peste, il temibile flagello che aveva accompagnato per secoli le
popolazioni europee, cominciò ad arretrare. Già all' inizio del Settecento
essa non era più presente nei paesi d.ell'Europa occidentale e settentriona-
le, mentre in quelli dell'Europa orientale e meridionale durò più a lungo,
per scomparire definitivamente solo nei primi decenni dell'Ottocento.
4. La riduzione della mortalità infantile. Questo fattore fu uno di quelli
che maggiormente contribuirono al calo del tasso di mortalità. Il crollo de-
32 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

finitivo del numero dei morti nel primo anno di vita avverrà molto più tardi,
nel ventesimo secolo, ma è certo che quel quoziente riuscì, iI1 alcuni paesi
europei, a dimezzarsi già fra metà Settecento e metà Ottocento, scendendo
dal 250 al 120-130 per mi Ile. La riduzione più consistente fu realizzata fra i
ceti abbienti, segno che il benessere, l'igiene, la migliore qualità dell'ali-
mentazione e la disponibilità di cure mediche, comprese le vaccinazioni,
erano elementi determinanti per abbattere la mortalità infantile.
I fattori precedentemente riportati hanno avuto un p eso diverso nei vari
periodi storici. Negli anni in esame, ossia in quelli della prima rivoluzione
industriale, il ruolo predominante nel determinare la riduzione del tasso di
mortalità lo ha avuto certamente un'alimentazione più ricca e varia, mentre
durante la seconda rivoluzione industriale questo compito è spettato al mi-
glioramento delle condizioni igieniche e al contributo del progresso med.i-
co; dalla metà del Novecento, infme, diventano essenziali il ruolo della
medicina e della chirurgia e l' abbattimento della mortalità infantile.
Il tasso di natalità, da parte sua, rimase elevato ancora per parecchio
tempo, ma anch ' esso cominciò a mostrare qualche segno di cedimento ver-
so la fme del periodo in esame. La riduzione di questo quoziente è influen-
zata dai comportamenti i11dividuali e di coppia, che sono particolarmente
difficili da individuare e studiare, anche se sono certamente legati alle con-
dizioni economiche e all'organizzazione del lavoro. Il mantenimento dei fi-
gli diventava difficile quando i raccolti erano scarsi, ma una delle ragioni
per le quali nelle società contadine le coppie continuavano a mettere al
mondo molti figli era la necessità di assicurarsi il mantenimento in vecchiaia,
fidando sulla sopravvivenza di un certo numero di discendenti maschi, che
si sarebbero dovuti occupare dei genitori.
La famiglia allargata, con la presenza di ascendenti, discendenti e colla-
terali, cominciò a cedere il posto alla famiglia composta dal solo nucleo
elementare genitori-figli. Questa evoluzione, lenta e incerta nelle campa-
gne, fu più evidente nelle città, che stavano crescendo non solo per I' incre-
mento naturale della popolazione, ma anche per l'arrivo di molte persone
dalle zone agricole circostanti. Si stava sviluppando, cioè, un nuovo urba-
nesimo, che costituisce l'ultima caratteristica demografica del secolo della
prima rivoluzione industriale. L ' Inghilterra e il Galles, sotto questo aspetto,
furono nettamente in anticipo sul resto dell' Europa, perché già intorno alla
metà dell' Ottocento circa il 50 per cento della popolazione viveva nelle cit-
tà ( considerando tali anche centri di poche migliaia di abitanti), mentre ne-
gli altri paesi 110n si raggiungeva il 20 per cento. Nei primi cinquant' anni
del secolo XIX, per esempio, una città come Londra passò da un milione a
2,4 milioni di abitanti.
4.
LE PREMESSE
DELLA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE INGLESE
L'AGRICOLTURA

4.1. L'agricoltura di ancien régime

Nonostante la rivoluzione agricola del Neolitico e nonostante l'incre-


mento demografico che pure si era registrato fino all'età contemporanea,
l'uomo continuò a vedere vanificati i suoi sforzi di far crescere in misura
significativa la popolazione, anche perché non riusciva a produrre una
quantità di beni sufficiente a conse11tire accumulazione di risorse da de-
stinare allo svolgimento di attività diverse da quella agricola. Verso la
metà del Settecento, le persone dedite all'agricoltura costituivano dapper-
tutto la maggioranza della popolazione, con percentuali che arrivavano
all '80 e finanche al 90 per cento e scendevano intorno al 50 per cento solo
in qualche paese, come l' Inghilterra. La prevalenza del settore primario 1
durò fino al secolo XIX in molti paesi e fino al secolo XX in tanti altri,
fra cui l' Italia. Ancora oggi, il settore primario, almeno per numero di ad-
detti, prevale in alcune zone dell' Africa e dell' Asia. Con il tempo, però,
esso ha ceduto il primo posto al settore secondario, che poi è stato supe-
rato da quello terziario, tanto che lo sviluppo eco11omico dell' età contem-
poranea potrebbe essere rappresentato proprio dall' evoluzione dei settori
dell'attività economica.

1
L'attività economica è distinta, di solito, in tre settori: 1) l'agricoltura o settore pri-
1nario, che comprende, oltre all'agricoltura propriamente detta, anche la zootecnia, le fore-
ste e la pesca; 2) l'industria o settore secondario, che comprende le attività industriali (ma-
nifatturiere, estrattive, delle costruzioni, ecc.); 3) servizi o settore terziario, che comprende
le attività che producono servizi (co1nmercio, trasporti, banche, assicurazioni, turi smo, li-
bere profession i, pubblica amministrazione, ecc.). Oggi si parla anche di terziario avanza-
to, per definire il settore che produce servizi relativi a nuovi comparti, come l' informatica e
le telecomunicazioni.
34 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

Tab. 4.1. - Distribuzione percentuale per settori economici della popolazione


attiva dei prin,cipali paesi, per alcuni anni dal 1801 al 2011

Settori e paesi 1801 1861 190 1 1961 2011

Settore primario
Regno Unito 36 19 9 4 1,3
Francia 51 41 20 2,5
Stati Uniti 59 38 8 1,6
Germania 37 14 1,6
Italia 70 62 29 3,7

Settore secondatio
Regno Unito 30 44 46 47 15,8
Francia 30 29 38 18,8
Stati Uniti 20 30 31 17,3
Germania 41 47 24,6
Italia 18 22 41 28,5

Settore terziario
Regno Unito 34 37 45 49 82,9
Francia 19 30 42 78,7
Stati Uniti 21 32 61 8 1, 1
Germania 22 39 73 ,8
Italia 12 16 30 67,8

Fonte: Dati tratti da: G. Felloni, Profilo di storia econornica dell 'Europa dal M edioevo
all 'età conternporanea, Torino, 1993, p. 50 (tab. 3); lstat, Somniario di statistiche storiche
del! 'Italia. 1861-1975, Roma, 1976, p. 14 (tav. 8).
Note: I dati della Francia riportati nella colonna del 1861 sono del 1866; quelli della Ger-
mania nella colonna del 1901 sono del 1907. La tabella è stata aggiornata con i dati del 20 11.

Quest 'affermazione risulta evidente se si esamina la tabella 4.1 , che ri-


porta la distribuzione per settori della popolazione attiva 2 • Essa mostra chia-
ramente la riduzione degli addetti al settore primario (a partire dalla Gran
Bretagna) e l'aumento dapprima degli addetti al settore secondario e, negli
u ltimi decenni, di quelli del settore terziario, che oggi nei principali paesi
sviluppati variano fra i due terzi e i quattro quinti delle forze di lavoro
complessive. Gli addetti al settore secondario, dopo aver raggiunto un pic-
co intorno agli anni Settanta del Novecento, cominciarono anch' essi a di-
minuire, mentre crescevano soltanto quelli del settore terziario, vale a dire
dei servizi. Ovviamente anche la partecipazione al Pil dei diversi settori si

2
La popolazione attiva è costituita dal compl esso di persone occupate, disoccupate ( che
hanno perduto il precedente lavoro), in cerca di prima occupazione o momentaneamente im-
pedite a svolgere un' attività lavorativa (militari di leva, detenuti, ecc.). Un' espressione equi-
valente a popolazione attiva è forze di lavoro.
4. Le premesse: l 'agricoltura 35

modificò al lo stesso modo. Questa trasformazione è stata chiamata legge


dei tre settori o legge di Clark, dall' economista inglese Colin Clark (1905-
89), che ha individuato la tendenza di lungo periodo, nelle economie in
crescita, alla riduzione percentuale degli addetti al l'agricoltura a vantaggio
di quelli dell' industria e dei servizi, fino a quando anche la percentuale
dell'industria diminuisce e cresce solo quella del settore terziario.
Prima dell' industrializzazione, l'agricoltura era l'attività economica pre-
dominante a causa della sua scarsa produttività. Nella seconda metà del
Settecento, il rapporto medio fra prodotto e semente (resa) di alcuni cereali
oscillava fra 5 e 1O, a seconda delle zone. Ciò significa che per ogni chilo-
grammo di semente si ottenevano da 5 a 1O chilogrammi di cereali, di cui
uno doveva essere messo da parte per la semina successiva, mentre oggi si
arriva, nelle condizioni migliori, fino a 40-50 chilogrammi. Risultati così
limitati erano dovuti a numerosi fattori, come la poca fertilità del terreno, i
metodi di coltivazione adoperati, le tecniche e gli attrezzi agricoli impiegati
e il regime della proprietà fondiaria.
In particolare, i pochi ed elementari attrezzi agricoli usati non cons enti-
vano un incremento della produzione e della produttività. Da secoli si ado-
perava l'aratro semplice (o <<aratro romano>>), che si limitava a scalfrre su-
perficialmente il terreno e si confaceva particolarmente al secco clima medi-
terraneo, perché evitava l'evaporazione dallo strato sottostante del suolo.
Nel Medioevo era stato introdotto il pesante aratro a ruote, più adatto ai
climi piovosi dell'Europa centrale e settentrionale, perché consentiva di in-
cidere in profondità i terreni e di rivoltare le zolle. Di grande utilità erano gli
animali da tiro, ma essi dovevano essere mantenuti e ciò comportava un co-
sto, che era diverso a seconda dell' animale impiegato. Per esempio, mante-
nere un bue costava meno di u.n cavallo, il quale, però, è più agile e veloce.
Due importanti caratteristiche dell'agricoltura di ancien régime erano la
pratica della policoltura e la scarsa commercializzazione dei prodotti agricoli:
a) la policoltura era quasi una necessità, dal momento che era difficile e
molto costoso trasportare a distanza i prodotti agricoli, tranne alcuni di alto
valore; perciò ogni regione, se non addirittura ogni famiglia contadina, si
sforzava di produrre tutto ciò che serviva per soddisfare le necessità essen-
ziali della popolazione, con la conseguenza che le rese si abbassavano, poi-
ché si era costretti a coltivare piante non se1npre adatte ai terreni e alle con-
dizioni climatiche del luogo;
b) la commercializzazione dei prodotti della terra era molto limitata e
solo i grandi proprietari, che disponevano di raccolti superiori alle loro ne-
cessità, potevano vendere parte della produzione sul mercato, che peraltro
si limitava alle zone circostanti; la massa dei coltivatori, invece, che riusci-
36 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

va a ricavare dalla terra soltanto il necessario per il mantenimento della


propria famiglia, non era in grado d'immettere alcunché sul mercato.

4.2. La rivoluzione agraria: le tecniche

La crescita della popolazione comportava, com'è facilmente comprensi-


bile, un aumento della domanda dei beni di prima necessità, con un conse-
guente rialzo dei prezzi. Vi era, cioè, l'esigenza di alimentare un maggior
numero di persone e quindi d' incrementare la prod.u zione agricola. Le pro-
fonde trasformaz ioni realizzate in Inghilterra hanno dato luogo alla rivolu-
zione agraria, locuzione con la quale si fa riferimento a un forte incremento
della produzione e della produttività in agricoltura, grazie all'intr oduzione
di nt1ove tecniche e al mutamento del regime della proprietà fondiaria.
L 'Europa settecentesca, al contrario delle Americhe, non aveva molte ter-
re ancora da conquistare all' agricoltura o al pascolo, sicché doveva far
fronte alle maggiori necessità derivanti dall' incremento demografico con le
ten·e disponibili, mediante un loro uso più produttivo. Il problema principa-
le dell'attività agricola era costituito dalla necessità di ripristinare la fertili-
tà del suolo dopo le coltivazioni. Ciò poteva avvenire lasciando la te1Ta pe-
riodicamente a riposo e ricorrendo alla concimazione:
a) il p eriodo di riposo, detto maggese, durante il quale bisognava comun-
que rivoltare il terreno e tenerlo libero dalle piante infestanti, entrava a far
parte dei numerosi metodi di avvicendamenti colturali allora utilizzati. I più
comuni erano la rotazione biennale, in cui si alternavano un anno di coltiva-
zione e uno di maggese, praticata in particolare nell' Em·opa meridionale e in
quella settentrionale, e la rotazione triennale, con due anni di coltivazione e
uno di maggese, diffusa dovunque, ma principalmente nella fascia centrale
dell'Europa. Questi metodi di coltivazione comportavano uno spreco di terre
(quelle lasciate a maggese), pari a alla metà o a un terzo della superficie col-
tivata. Ciò non era più sopportabile in un periodo in cui la popolazione stava
aumentando e aveva bisogno di un maggiore quantitativo di generi alimentari;
b) le concimazioni dovevano accompagnare il periodo di riposo, che da
solo non bastava a ridare fertilità alla terra. Le più semplici erano qu elle
che si eseguivano cospargendo il ten·eno di zolle tratte da brughiere, paludi
e terre grasse, oppure ricoprendolo di altre sostanze, come torba, cenere di
legna, alghe marine, foglie e rifiuti urbani o ancora bruciando i residui col-
turali lasciati sul terreno dopo il raccolto (pratica del debbio) . Il risultato
migliore, però, si otteneva con il letame, o stallatico, ottenuto dalla fermen-
tazione degli escrementi animali mescolati con la paglia, che si ricavava
4. Le premesse: l 'agricoltura 37

dalle stalle. M a le stalle erano poche, perché s i praticava l' allevamento bra-
do, il quale sottraeva ulteriori terre alla coltivazione.
La produzione dei cereali era già aumentata da tempo per la necessità di
rifornire le città, in particolare Londra, e aveva dato vita a un proficuo
commercio non solo interno ma, per qualche tempo, anche di esportazione.
Era, però, necessario accrescerla ancora. La rotazione più diffusa in Inghil-
terra era quella triennale, ma non mancavano, in alcune zone, rotazioni più
perfezionate, come qu.elle che preved.e vano il riposo ogni quattro, cinque o
sei anni. In ogni caso una parte de lla terra restava inutilizzata.
Eppure, la soluzione p er evitare questo spreco era già stata trovata in
Olanda e in qualche regione inglese, come la contea di Norfolk. La solu-
zione consisteva nell 'eliminazione del maggese e nel l' ins erimento nelle ro-
tazioni di leguminose e di piante da foraggio (rape, ravizzone, trifoglio, er-
ba medica, ecc.), che miglioravano la fer tilità del terreno e quindi facevano
aumentare la resa in grano dell'anno successivo. Si trattava, perciò, di ge-
neralizzare la pratica delle rotazioni continue (in gener e quadriennali) e
dell'eliminazione del maggese, pratica nota in Inghilterra appunto con il
nome di <<sistema di Norfolk>>, dove si era affermata anche grazie all'opera
di alcuni innovatori, come Lord Charles Townshend.
Una conseguenza importante dell' inserimento di piante foraggere nelle
rotazioni fu la possibilità di alimentare gli animali nelle stalle, in particolare
i bovini, prima tenuti al pascolo brado, recuperando a ltre terre alla coltiva-
zione. La costruzione di stalle e magazzini richiedeva investimenti di una
certa consistenza, che era comunque conveniente effettuare perché si aveva
la possibilità di disporre di stallatico con il qua le concimare il terreno. Si era
messo in moto un circolo virtuoso, che partiva dall'aumento delle ten·e colti-
vate (scomparsa del maggese e riduzione dell'allevamento brado), passava
per l' incremento dell' allevamento bovino (disponibilità di carne e latte) e as-
sicurava una maggiore concimazione delle terre (letame). Fu però necessario
del tempo affmché queste nuove pratiche si diffondessero. La tradizionale
diffidenza dei contadini li portava a convincersi della bontà di nuove colture
e di nuovi metodi solo quando vedevano i risultati nel campo del vicino.

4.3. La rivoluzione agraria: il regime della proprietà fondiaria

Le rotazioni continue, le nuove coltivazioni e l'allevamento del bestia-


me nelle stalle richiedevano la piena ed esc lusiva disponibilità delle terre da
parte di chi doveva utilizzarle. Invece, s ia in Inghilterra che in altri paes i
europei, la coltivazione di molte terre avveniva sostanzialmente in modo
38 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

coniitnitario e si basava sul cosiddetto sistema dei tre campi. Le terre non
recintate del villaggio, cioè, erano divise in tre parti, di cui due coltivate e
una tenuta a maggese. Ogni parte era a sua volta frazionata in numerose
strisce, che venivano assegnate periodicamente alle famiglie con il compito
di coltivarle (le famiglie ottenevano strisce in ognuno dei tre campi). Gli
abitanti del luogo avevano la facoltà di pascolare il bestiame e raccogliere
legna e frutti spontanei nelle terre incolte comuna li e anche sui campi colti-
vati, ma solo dopo il raccolto o nel periodo di maggese. Era necessario,
perciò, fissare di comune accordo il tipo di coltivazione e il tempo della
semina e del raccolto, in modo che tutti fossero a conoscenza dei periodi
durante i quali potevano esercitare i loro diritti sulle te1Te. In tali condizio-
ni, era difficile introdurre migliorie e sperimentare nuove coltivazioni.
In Inghilterra, le terre gravate da i diritti degli abitanti del luogo erano
numerose e si dividevano in:
a) open fields (terre aperte, non reciI1tate), coltivate con il s istema dei tre
campi, le cui strisce (spesso più di una, anche a una certa distanza fra di lo-
ro) erano assegnate agli abitanti de l villaggio;
b) common lands, ossia terre comuni (boschi, pascoli, paludi, ecc.), appar-
tenenti alla comunità, in genere non coltivate ma lasciate all'uso collettivo.
La possibilità di usufruire dei diritti sulle terre aperte e su quelle comuni
era, per molti contadini poveri, un modo d'integrare i loro magri redditi, p er
esempio allevando qualche mucca, e perciò essi erano interessati a conserva-
re la situazione esistente. P er apportare una qualsiasi innovazione, da una bo-
nifica a una nuova rotazione delle colture, era necessario ottenere il consenso
dei titolari di tali diritti, la maggior parte dei quali era soddisfatta delle prati-
che tradizionali e diffidava di ogni cambiamento. Perciò fu dato un nuovo
impulso al movimento delle enclosures (recinzioni), che doveva portare a
u na completa privatizzazione delle terre. Si trattava di giungere a una divi-
sione definitiva delle terre fra tutti coloro che vi vantavano dei diritti, in mo-
do che ognuno ottenesse in piena proprietà un appezzamento di tetra e lo col-
tivasse come meglio credeva. Le recinzioni non erano una novità. Esse erano
state praticate fin dal Medioevo, sicché a metà Settecento almeno la metà
della terra arabile dell'Inghilterra era già recintata, ma dopo di allora venne-
ro accelerate. A metà Ottocento non vi erano più campi ape11i e il nuovo pae-
saggio agrario aveva assunto l'aspetto, che ancora conserva, di una continua
successione di ten·eni delimitati da muretti, siepi o altre forme di chiusura.
La pratica della recinzione poteva avvenire in seguito a un accordo priva-
to o co11 un <<atto>> (legge) del Parlamento. Quando gli aventi diritto erano
pochi, potevano facilmente accordarsi e procedere alla divisione delle terre e
alla loro recinzione. Quando, viceversa, le persone erano molte e non riusci-
4. Le premesse: l 'agricoltura 39

vano a trovare un accordo, si seguiva l' altra procedura, in virtù della quale i
titolari di almeno 1' 80 per cento delle terre (talvolta poche persone) presenta-
vano una petizione al Parlamento, che nominava una commissione d' inchie-
sta. Se il st10 parere era favorevole, il Parlamento emanava u.n atto che auto-
rizzava la divisione, fra le proteste dei piccoli coltivatori (spesso molto nu-
merosi), che non volevano perdere i loro diritti comunitari. Le spese per
giungere alla recinzione erano elevate, perché i richiedenti dovevano pagare
l'elaborazione del progetto di divisione, i compensi a commissari, avvocati e
stimatori e sostenere gli oneri di recinzione (siepi, muretti a secco, ecc.). I ti-
tolari di piccole strisce o i contadini poveri che vantavano solo diritti di sfrut-
tamento non potevano permettersi tali spese e, sia pure protestando, preferi-
vano cedere i loro diritti in cambio di una liquidazione in denaro. Proprio per
ridurre questi costi fu emanato, nel 1801, il Generai Enclosures Act, ossia
una legge che disciplinava le recinzioni con una normativa generale, alla qua-
le fecero seguito, nei decenni successivi, altri provvedimenti in materia.
Coloro che ottennero un piccolo appezzamento di terra spesso lo vendet-
tero ai proprietari più grandi e si trasformarono in fittavoli o in braccianti
agricoli. In tal modo, le enclosures contribuirono al consolidamento della
grande proprietà, che a poco a poco si andò estendendo. I grossi proprietari
terrieri affidavano le loro tenute a capaci fittavoli, che vi investivano capita-
li e si servivano di braccianti salariati per i lavori agricoli. Fu anche merito di
questi fittavoli, veri e propri imprenditori agricoli, se l'agricoltura inglese po-
té progredire notevolmente nel secolo della prima rivoluzione industriale.
La divisione delle terre non provocò un immediato spopolamento delle
campagne sia perché la media e la piccola proprietà sopravvissero sia per-
ché, specialmente all' inizio, fu necessaria molta manodopera per procedere
alle recinzioni. Le divisioni, inoltre, consentirono anche di recuperare all'a-
gricoltura brughiere e terreni acquitrinosi, creando ulteriore occupazione.
I contadini poveri che avevano perso i diritti sui campi aperti poterono im-
piegarsi in tali attività oppure trovare lavoro presso la nascente industria.
I piccoli proprietari che non vendettero le quote ottenute riuscirono, a loro
volta, a profittare del periodo di alti prezzi, durato da metà Settecento fin
verso il 18 15, che consentì a molti di loro di far fronte a lle spese di recin-
zione e di conservare un posto nel nuovo sistema agricolo.

4.4. Rivoluzione agraria e rivoluzione industriale

Fra rivoluzione agraria e rivoluzione industriale vi è uno stretto rappor-


to, nel senso che i due fenomeni s ' influenzarono reciprocamente e l'una
40 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

non si sarebbe potuta realizzare senza il contributo e l'apporto dell'altra. La


rivoluzione agraria ha contribuito alla rivoluzione industriale inglese in al-
meno quattro modi:
a) sostenne una popolazione in aumento. Secondo a lcuni studiosi la ri-
voluzione industriale non si sarebbe verificata se non fosse stata preceduta
dalla rivoluzione agraria. L ' aumento non solo della produzione, ma princi-
palmente della produttività agricola, consentì di alimentare un numero cre-
scente di persone, che poterono dedicarsi ad attività extra agricole. Gli ad-
detti all' agricoltura in Inghilterra non fecero che diminuire, passando dal 50
per cento della popolazione attiva a metà del Settecento (valore già molto
basso se confrontato con il resto dei paesi europei) al 36 per cento nel 1801
e al 20 per cento intorno alla metà dell'Ottocento. Eppure fu possibile s o-
stentare una popolazione che, nel frattempo, si era quasi triplicata. Lo svi-
luppo dell'agricoltura, quindi, contribuì in modo determinante all'avvio
non effimero della rivoluzione industriale inglese;
b) creò il potere d'acquisto da destinare ai prodotti dell 'industria bri-
tannica. G li scambi fra prodotti agricoli e industriali s' intensificarono note-
volmente durante la prima rivoluzione industriale. I redditi agricoli consen-
tirono agli agricoltori di acquistare i manufatti dell' industria, sia quelli de-
stinati al consumo diretto sia, principalmente, quelli necessari a lle nuove
esigenze dell'agricoltura, come attrezzi di ferro e materiale da costruzione
per strade e case coloniche;
c) consentì lo spostamento di popolazione nelle zone industriali. Gli o-
perai della nascente industria provenivano, in genere, dalla campagna, dove
i lavori agricoli non riuscivano più ad assorbire una popolazione in crescita.
Molti contadini abbandonarono la terra, per necessità o per scelta, e trova-
rono occupazione negli opifici;
d) partecipò alla formazione del capitale necessario al finanzianiento
dell 'industrializzazione. Molti proprietari terrieri destinarono parte dei gua-
dagni realizzati al finanziamento delle prime industrie, ne l senso che inve-
stirono i loro profitti nell' industria e diventarono essi stessi industriali. Allo
stesso modo, 1nolti industriali investirono parte dei loro profitti nella pro-
prietà fondiaria, portandovi spesso lo spirito imprenditoriale con cui gesti-
vano le fabbriche.
5.
LE PREMESSE
DELLA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE INGLESE
TRASPORTI E COMMERCIO

5.1. J_,a rivoluzione dei trasporti: strade e ferrovie

L' altra <<rivoluzione>> che contribuì alla prima industrializzazione della


Gran Bretagna fu quella dei trasporti. In verità, essa risultò molto più de-
terminante nella seconda metà dell'Ottocento, all'epoca della seconda rivo-
luzio11e industriale, quando si diffusero le ferrovie e la navigazione a vapo-
re, ma anche prima di allora furono realizzati importanti miglioramenti nel-
le vie di comunicazione e nei mezzi di trasporto.
I trasporti terrestri erano quelli più consistenti, ma erano anche molto
più lenti e costosi. Con la decadenza e l'abbandono dell'imponente rete
stradale dell'Impero romano, l'Europa era rimasta priva di strade efficienti
per tutto il Medioevo. A metà Settecento, quasi ovunque esse erano in con-
dizioni disastrose. Per andare in carrozza da Londra a Edimburgo, per esem-
pio, erano necessari quindici gio1ni. Inoltre, non esisteva un valido serviz io
di manutenzione e la riparazione delle strade era affidata quasi dappertutto
agli abitanti delle località attraversate, che vi dovevano provvedere con un
certo numero di giornate di lavoro gratuito.
Le strade inglesi erano considerate le peggiori d' Europa. Per il modo in
cui erano costruite, esse si deterioravano facilmente, tanto che furono ema-
nati provvedimenti per limitare il peso dei carri, il numero dei cavalli che li
trainavano e l'eccessiva strettezza delle ruote, responsabili dell'usura del
manto stradale. La necessità di rifomire di generi alimentari e di carbone le
città in espansione, e in primo luogo Londra, indusse il governo a interveni-
re, favorendo il sistema delle strade a pedaggio (turnpike roads). A poco a
poco, la manutenzione di numerose strade venne sottratta alla responsabili-
tà delle parrocchie e affidata a società private che percepivano un pedaggio
dagli utenti, come avviene nelle moderne autostrade. Negli anni Trenta del-
42 La prima rivolitzione industriale (1750-1850)

l'Ottocento, ossia alla vigilia dell' introduzione delle ferrovie, vi erano or-
mai oltre 30 mila chilometri di strade a pedaggio.
Ma la vera rivoluz ione nel settore stradale si ebbe soltanto all'inizio del
secolo XIX, quando alcum ingegneri, come John Metcalf, Thomas Telford
e John McAdam, ripresero i sistemi di costruzione dei Romani e comincia-
rono a realizzare strade più solide e compatte. Su uno strato di pietre grosse
si disponevano diversi strati di pietre più piccole, ricoperti con una o più
gettate di pietrisco minuto, il tutto schiacciato in modo da formare una su-
perficie dura e liscia. La carreggiata doveva essere leggermente arrotondata
(a schiena d'asino) per assicurare il deflusso dell'acqua nelle cunette later a-
li. Solo così fu possibile consentire lo spostamento più veloce e più econo-
mico dei passeggeri, delle merci e delle notizie. Le diligenze si fecero sem-
pre più numerose, comode e frequenti. Sembra che nel 1820 ne partissero
da Londra, nell'arco di ventiquattro ore, ben 1.500, dirette in tutta la Gran
Bretagna. Fù10 all'avvento dell'automobile si ebbero pochi altri sviluppi nel-
la tecnica delle costruzioni stradali, se si esclude l' introduzione, intorno al
1860, del rullo a vapore per comprimere le pietre.
La grande innovazione nei trasporti terrestri fu costituita dalla comparsa
delle strade ferrate negli anni Trenta dell'Ottocento. I loro effetti, però, s i
manifestarono in pieno solo nella seconda metà del secolo. Le strade ferrate
nacquero dall' abbinamento delle rotaie con la locomotiva a vapore. I binari,
all'inizio di legno e poi di legno ricoperti di ghisa, non erano una novità, per-
ché venivano utilizzati da tempo per il movimento dei vagoncini, a spinta o
con cavalli, nelle cave e nelle miniere. La prima locomotiva a vapore fu co-
struita da Richard Trevithick nel 1801, ma non ebbe successo. Bisognò at-
tend.e re il 1825, quando George Stephenson, un tecnico minerario, costruì
una locomotiva impiegata sulla strada ferrata che collegava le miniere di
Stockton e di Darlington. Cinque anni più tardi (1830), fu inaugurata la li-
nea Liverpool-Manchester, che utilizzava la locomotiva <<Rocket>> (razzo)
di Stephenson e che è considerata la prima vera linea ferroviaria di traspor-
to al mondo. Inizia da allora la straordinaria avventura delle ferrovie, che si
diffusero in breve tempo in tutti i paesi. A metà secolo XIX, erano già stati
costruiti, in tutto il mondo, 35 mila chilometri di strade ferrate, di cui
14.500 negli Stati Uniti e 10.500 in Gran Bretagna.

5.2. La rivoluzione dei trasporti: le vie d'acqua

Nel Settecento, le strade non consentivano, a costi convenienti, il tra-


sporto di merci pesanti sulle lunghe distanze, per le quali erano più indicate
5. Le premesse: trasporti e commercio 43

le vie d'acqua interne. Ma se era agevole discendere i fiumi, sfruttando la


corrente, risultava difficile risalirli e per farlo bisognava trainare le imbarca-
zioni dalla riva, utilizzando lunghe funi tirate con fatica dagli uomini o dagli
animali. Altri inconvenienti erano costituiti dagli sbarramenti creati per ali-
mentare i numerosi mulini che erano sorti lungo molti fiumi, dai pedaggi da
pagare alle città o ai signori dei feudi attraversati, dai bassi fondali che co-
stringevano a servirsi di piccole imbarcazioni e, infine, dalla presenza, in
molti luoghi, delle corporazioni dei barcaioli, che imponevano l'uso delle
proprie barche alle tariffe, sovente molto elevate, da esse stesse stabilite.
In Inghilten·a si sviluppò, nella seconda metà del Settecento, una vera
febbre dei canali, tanto che fra il 1760 e il 1800 ne furono costruiti per una
lunghezza complessiva di un migliaio di chilometri, ad opera di società ap-
positamente costituite. Non era, in verità, una lunghezza particolarmente ri-
levante, eppure i canali ebbero un'importanza notevole perché quasi sem-
pre collegavano due fiumi navigabili e perciò, anche se molto brevi, contri-
buirono ad ampliare la rete di comunicazione formata dalle acque interne.
L'Inghilterra, difatti, priva di a lte montagne, possedeva un gran numero di
fiumi, che se non erano tutti navigabili potevano facilmente diventarlo con
poche opere di sistemazione. I canali erano sorti specialmente per rifornire
di carbone le città, dove esso era uti lizzato innanzitutto come combustibile
per il riscaldamento, ma consentirono poi il trasporto di molte altre merci
voluminose, pesanti e di largo consumo, come pietre, mattoni, leg11ame, be-
stiame, grano, fieno, paglia e concime.
Il trasporto marittimo era certamente la forma di trasporto più economi-
ca. Le navi, pur se di modesto tonnellaggio, consentivano di muovere una
maggiore quantità di merci, anche voluminose. Il viaggio per mare, però,
presentava parecchi pericoli, come le tempeste e la presenza di pirati, che
potevano portare alla perdita del carico o della nave e persino della vita dei
marinai. Sovente, ancora nel secolo XVIII, i marinai venivano catturati dai
pirati (per esempio, algeri ni o tunisini nel Mediterraneo occidenta le), che
chiedevano un riscatto per la loro liberazione, alla quale provvedevano ap-
positi enti caritativi. Perciò, i proprietari delle navi o i capitani, per garan-
tirsi da questi rischi, stipu lavano polizze con le numerose compagnie di as-
sicurazione che stavano sorgendo. In questo campo particolare rilievo as-
sunsero i Lloyd's di Londra, una grande associazio11e di assicuratori privati.
La Gran Bretagna è un' isola stretta in cui non vi è centro abitato che di-
sti più di 160 chilometri dal mare, sicché il trasporto di carbone, pietre, ar-
gilla e grano avveniva mediante una flotta di piccole imbarcazioni dedite al
cabotaggio, ossia alla navigazione lungo la costa, anche in questo caso in-
nanzitutto per il rifornimento di Londra. L'evoluzione del la capitale, infatti,
44 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

rappresentò un elemento importante nella trasformazione economica del-


l'Inghilterra. La navigazione costiera, però, 110n fece registrare novità di
particolare interesse.
Il nuovo secolo vide anche i primi esperimenti nel campo della naviga-
zione a vapore. L ' inventore americano Robert Fulton sperimentò il suo
primo battello a vapore sulla Senna ( 1803) e il secondo, il Clermont, sul
fiu me Hudson (1807), sul quale fu inaugurato un servizio regolare di colle-
gamento fra le città di New York e Albany. I nuovi battelli, con le caratteri-
stiche ruote a pale (a poppa o sulle fiancate), che si rivelarono particolar-
mente adatte alla navigazione sui fiumi ma non a quella marittima, si diffu-
sero sia in Europa che negli Stati Uniti. Sui mari, le navi a vapore subirono
la concorrenza dei velieri fino alla metà dell'Ottocento, sicché non potero-
no dare un contributo significativo alla prima rivoluzione industriale.

5.3. Commercio e mercantilismo

Secondo la massima di Adam Smith, il filosofo scozzese fondatore della


moderna scienza economica, <<il consumo è l'unico fine di tutta la produ-
zione>>. Ciò significa che sia i prodotti industriali sia quelli agricoli (se ec-
cedenti le necessità delle famiglie contadine) dovevano essere venduti, al-
trimenti non vi era convenienza a continu.a rne la produzione. Ma i mercati
dell'epoca erano troppo ristretti e ciò costituiva un ostacolo insuperabile a l-
la crescita dell'attività produttiva. I beni vendibili erano collocati quasi tutti
sul vicino mercato cittadino o in località distanti poche decine di chilometri
dal luogo di produzione, raggiungibili con i mezzi di trasporto di cui allora
si disponeva. Solo una piccola quota usciva da questo ristretto ambito loca-
le per raggiungere mercati più o meno lontani e una ancora più piccola con-
correva ad alimentare il commercio internazionale e transoceanico.
Gli ostacoli al commercio erano di diversa natura e contribuivano a de-
terminare la ristrettezza dei mercati interni. Vi erano barriere naturali e bar-
riere artificiali. Le barriere naturali, difficili da rimuovere, erano costituite
dalle eccessive distanze, aggravate dalla presenza di alte montagne, foreste,
fiumi e mari, dal cattivo stato delle strade e dalla deperibilità di molte der-
rate, che limitavano fortemente la possibilità di trasferimento a distanza delle
merci. Le barriere artificiali, introdotte dagli uomini e perciò più semplici
da eliminare, erano costituite principalmente dai numerosi dazi che biso-
gnava pagare sulle merci importate e spesso anche su quelle inviate da un
luogo all' altro dello stesso Stato, oltre che da numerose norme che ostaco-
lavano la loro libera circolazione.
5. Le premesse: trasporti e commercio 45

Ma altri fattori impedivano l'espansione dei mercati, come i bassi reddi-


ti della popolazione, che limitavano le possibilità di acquisto di molti beni,
l' insicurezza dei viaggi sia terrestri che marittimi e, i1rline, l' insufficienza
del la moneta in circolazione e le difficoltà di accesso al credito, che non
consentivano di disporre dei capitali necessari. Per qu esto motivo, si poteva
frequentemente verificare, per esempio, che in un luogo vi fosse abbondan-
za di prodotti agricoli ( con prezzi bassi) e in un altro luogo non molto di-
stante ve ne fosse penuria (con prezzi alti).
Il commercio internazionale era stato il ramo più dinamico dell' econo-
mia nei secoli successivi alle grandi scoperte geografiche fra Quattro e
Cinquecento. Ormai anche alcune merci pesanti, voluminose e di minor
pregio, come cer eali, metalli, legname, carbone e tessuti, partecipavano a
tali traffici, grazie ai miglioramenti realizzati nella progettazione e nella co-
struzione delle imbarcazioni, che rendevano relativamente conveniente il lo-
ro trasporto a distanza. A ciò aveva contribuito la politica mercantilistica,
che ancora nella prima metà del Settecento improntava l'azione di quasi
tutti i governi europei.
Il mercantilismo (o <<s istema mercantile>>, come lo chiamò Adam Smith)
era sia una dottrina economica che una politica economica. Come dottriI1a,
il mercantilismo riteneva che la ricchezza di una nazione fosse assicurata
dalla quantità di metalli preziosi (oro e argento) da essa posseduti. La con-
seguenza di una tale teoria era il perseguimento di una politica che consen-
tisse di accrescere la ricchezza nazionale con ogni mezzo, anche illecito,
come il contrabbando e la guerra di corsa 1• Ma il modo indubbiamente più
sicuro e onorevole era costituito dal potenziamento delle esportazioni (e
quindi della produzione), che sarebbero state pagate con monete d' oro o
d'argento, assicurando un costante flusso in entrata di tali metalli. Questa
visione trovava concordi sia i mercanti che i governanti. I primi, da cui il
mercantilismo traeva il nome, vedevano nell' incremento del commercio ot-
time occasioni di guadagno, mentre i governanti vi scorgevano la possibili-
tà di accrescere le entrate statali, mediante le imposte e i dazi che potevano
colpire la produzione e i traffici. La preoccupazione costante e sempre più
pressante dei governanti, difatti, era diventata quella di procurarsi le somme
necessarie per far fronte alle spese statali, soprattutto per mantenere gli

1
La guerra di corsa, in verità, era ritenuta una fonna legittima e regolare di guerra. I go-
verni rilasciavano ai corsari, ossia a privati cittadini che annavano a proprie spese una o più
navi, una particolare patente (lettera di corsa) che li autorizz.ava ad assalire e depredare va-
scelli commerciali appartenenti a nazioni nemiche. In genere, t1na parte del bottino andava al
sovrano che aveva concesso l' autorizzazione. I pirati, viceversa, erano ladri di mare che cat-
turavano navi di qualsiasi nazionalità a loro esclusivo profi tto.
46 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

eserciti e le flotte e per sostenere il crescente costo delle guerre, in modo da


aumentare la potenza dello Stato.
La politica mercantilistica fu un insieme spesso eterogeneo di prowedi-
menti adottati dai vari Stati, ognuno dei quali perseguiva un proprio disegno
di potenza. Tutti, però, miravano a costituire abbondanti riserve d'oro e d'ar-
gento. I paesi europei, che in genere non possedevano grandi giacimenti di
metalli preziosi sul loro territorio, dovevano procurarselo in altro modo: me-
diante la conquista di colonie prowiste di tali metalli (proprio questo era sta-
to l'obiettivo principale delle esplorazioni geografiche) oppure con il com-
mercio (termine con il quale s ' intendeva anche l' attività produttiva rivolta al
mercato), che doveva essere incoraggiato, in particolare quello estero. Perciò
bisognava esportare (in valore monetario) più di quanto si importasse, cioè
avere una bilancia commerciale attiva. Ma se tutti gli Stati si ponevano come
obiettivo l'esportazione delle proprie merci e la limitazione delle importazio-
ni (per evitare di doverle pagare con monete d'oro o d'argento), non si com-
prende chi avrebbe dovuto acquistare le merci che tutti volevano esportare.
La conseguenza era che il commercio internazionale veniva ostacolato e non
riusciva a svilupparsi ulteriormente.
Gli Stati attuarono la politica mercantilistica in vario modo, ma princi-
palmente mediante una politica economica protezionistica e nazionalistica,
tesa a proteggere e a far sviluppare le industrie nazionali. Ciò poteva avve-
nire con la protezione doganale e con forme di sostegno diretto alle mani-
fatture. La protezione doganale garantiva le industrie nazionali dalla con-
correnza estera, colpendo con dazi molto elevati le importazioni di beni che
si potevano produrre in patria o, in casi estremi, addirittura vietandole. As-
sicurava, inoltre, l'approvvigionamento di materie prime necessarie alle ma-
nifatture nazionali, vietando o limitando la loro esportazione oppure agevo-
landone l' importazione se bisognava farle venire dall'estero. Il sostegno di-
retto alle manifatture a weniva tramite premi alla produzione o ali' esporta-
zione e, se questi non risultavano sufficienti, con la concessione di privile-
gi, come esenzioni fiscali, diritto di assumere liberamente la manodopera in
deroga agli statuti delle corporazioni, e finanche con il monopolio della
produzione e della vendita di determinati beni. Nel caso di attività ritenute
strategiche o molto costose, infine, lo Stato poteva intervenire direttamente,
impiantando proprie manifatture.
Le flotte mercantili dovevano essere incoraggiate e sostenute perché fa-
vorivano le esportazioni e, in caso di noleggio di navi agli stranieri, consen-
tivano anche entrate di denaro. Perciò, quasi tutti gli Stati avevano introdot-
to leggi sulla navigazione, che si proponevano di riservare il commercio
estero alle navi nazionali e di favorire la marina mercantile. Per esempio, i
5. Le premesse: trasporti e comniercio 47

Navigation Acts, una serie di provvedimenti approvati dal Parlamento in-


glese a partire dal 1651, imponevano che le merci importate in ù1ghilterra
dovessero essere trasportate su navi inglesi o sulle navi del paese di prove-
nienza. Solo la piccola Olanda, governata da un ceto di ricchi mercanti e
che viveva in buona parte di commercio e di trasporti marittimi, seguì poli-
tiche meno restrittive, accettando nei suoi porti e nei suoi mercati commer-
cianti di tutte le nazioni.
I governi attribuivano grande importanza al possesso delle colonie, con-
siderate fattori di ricchezza. Anche se non vi erano giacimenti di oro o di
argento, le colonie potevano ugualmente essere utili alla madrepatria per
fornirle i beni di cui non disponeva e per accogliere la popolazione ecce-
dente o indesiderata. E, inoltre, acquistavano dalla madrepatria parecchi
manufatti che non erano in grado di produrre direttamente. Proprio per fa-
vorire il commercio internazionale e coloniale vennero fondate numerose
conipagnie commerciali nei principali paesi, come la Compagnia inglese
delle Indie orientali (1600) e la Compagnia olandese delle Indie orientali
(1602). Queste compagnie vennero favorite dai governi, che accordarono
loro privilegi, privative e monopoli. In tal modo, esse riuscirono ad accu-
mulare grandi ricchezze e a concentrare nelle loro ma11Ì un consistente po-
tere, non solo economico ma anche politico.

5.4. Il commercio internazionale

In Inghilterra, il miglioramento delle vie di comunicazione e dei mezzi


di trasporto consentì un ulteriore e irreversibile ampliamento del mercato,
sia nazionale che internazionale. Il mercato interno fu spinto dall' incre-
mento dei consumi, alimentato dall'aumento del reddito pro capite che, 11el
corso del Settecento, an·ivò quasi a triplicarsi. Il livello di vita era il più ele-
vato d'Europa e le fami glie inglesi godevano mediamente di un' alimenta-
zione più varia e ricca (pane bianco, carne, zucchero, latte e derivati, birra),
vestivano in modo adeguato e le loro case erano ben ammobiliate.
Più che il mercato interno, però, fu l'evoluzione del mercato internazio-
nale ad accelerare la rivoluzione industriale. Nella seconda metà del secolo
XVIII, il commercio estero della Gran Bretagna crebbe di due volte o forse
di due volte e mezzo. L' Inghilterra era riuscita, già da tempo, a creare una
corrente di esportazione di manufatti di lana di buona qualità, che ancora
verso il 1750 costituivano circa la metà delle sue esportazioni. A questo
commercio si aggiunse un crescente commercio di riesportazione, ossia di
acquisto di merci straniere, in genere provenienti dai paesi tropicali, che
48 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

venivano poi rivendute in Europa. L 'Inghilterra importava zucchero, tabac-


co, cotone e piante tintorie dalle Indie occidentali (Antille), che pagava con
schiavi acquistati sulle coste orientali dell' Africa in cambio di armi, ferra-
menta, alcolici e p ezze di cotone indiane. Il commercio Europa-Africa-
Antille era un classico tipo di commercio <<triangolare>>, che consentiva alle
navi di non viaggiare mai vuote, ma sempre cariche di merci o di schiavi.
Londra, con il suo porto, i suoi magazziru, i su.o i banchieri e i suoi assicura-
tori, era al centro di questa intricata rete di rapporti internazionali. Essa
rappresentava anche il mer cato finanziario 2 più importante del mondo, dove
era possibile trovare credito a condizioni ragionevoli o investire il proprio
capitale a un tasso conveniente.
Le esportazioni dei prodotti nazionali britanruci verso l'Europa si ridus-
sero notevolmente nella seconda metà del Settecento (dal 77 al 30 per cen-
to), per essere sostituite da quelle dirette verso il Nord America e le Antille,
che da sole giunsero ad assorbire oltre il 55 per cento del totale. M a ancor
più significativa fu la variazione della composizione delle esportazioni di
prodotti nazionali, come risulta dai seguenti du e esempi: l'esportazione di
grano, che ancora nel 17 50 costituiva il 20 per cento delle esportazioni in-
glesi, mezzo secolo più tardi era cessata del tutto e il grano doveva essere
importato; l' esportazione di tessuti di lana, scesa, nello stesso periodo, sotto
il 30 per cento, fu sostituita dall' esportazione di tessuti di cotone, in seguito
alla straordinaria espans ione di questa nuova industria.
L 'ampliamento del mercato , sia interno che internazionale, contribuì in-
dubbiamente ad accelerare la prima rivoluzione industriale. Mediante il
commercio estero la Gran Bretagna fu in grado di esportare i manufatti in
cambio sia di materie prime sia di quei beru che non era possibile produrre in
patria. Consentì anche di realizzare buoni profitti con il commercio di rie-
sportazione o d'intermediazione, che aumentò in misura maggiore del com-
mercio dei prodotti nazionali. E, infme, i guadagni ottenuti con il commercio
estero poterono essere impiegati sia nell'industria sia nel settore agricolo, fa-
vorendone la crescita.

2
Il mercato finanziario (o niercato dei capitali) è quello sul quale si trattano finanziamenti
a lungo termine, mentre il niercato monetario è quello che riguarda la negoziazione di prestiti a
breve termine. Si usa anche l'espressione niercato mobiliare per indicare quello sul quale si
trattano i valori niobiliari (titoli azionari e obbligazionari), così detti perché si possono facil-
mente «mobilizzare», vale a dire vendere per ottenere denaro contante.
6.
INDUSTRIE TRAENTI
E INNOVAZIONI
IN GRAN BRETAGNA

6.1. L'organizzazione della produzione industriale

Fino al Settecento l'attività industriale, ossia quella dedicata alla tra-


sformazione di materie prime mediante il lavoro dell'uomo e delle macchi-
ne, allo scopo di produrre oggetti da destinare agli usi più svariati, rivestiva
un' importanza limitata e, comunque, molto inferiore all'attività agricola.
Essa era orientata principalmente alla produzione di beni di consumo, come
tessuti, vestiario, vasellame, mobili e utensili elementari, ed era svolta in
diverse forme, che si possono ricondurre sostanzialmente a tre: l'artigia-
nato, l' industria a domicilio e l' industria capitalistica.
1. Artigianato. Fin dal Medioevo, il maestro artigiano, che lavorava nel-
la sua bottega con l'aiuto di operai qualificati e apprendisti, assicurava la
produzione di una grande varietà di beni. In genere, egli faceva parte di una
corporazione, termine usato solo dal secolo XVIII per indicare un'associa-
zione di persone che esercitavano lo stesso mestiere o la stessa professione
(pannaioli, orefici, sarti, calzolai, medici, cambiatori e così via). Le corpo-
razioni, sorte nelle città medievali, avevano in ge11ere nomi diversi (gilde,
arti, università) e raggruppavano sia i maestri artigiani sia, più raramente,
gli apprendisti e i lavoranti. Gli apprendisti, o garzoni, potevano diventare
maestri solo dopo un certo periodo di apprendistato e non prima di aver su-
perato una difficile prova, consistente nella preparazione di un <<capolavo-
ro>>, attraverso la quale dovevano dimostrare di aver appreso il mestiere e di
essere in grado di esercitarlo in modo autonomo.
Lo scopo principale delle corporazioni era l' organizzazione dell'attività
produttiva per limitare e regolare la concorrenza, in modo da assicurare ai
loro associati la continuità e la stabilità del lavoro. Esse fissavano le tecni-
che di lavorazione per garantire la qualità del prodotto, decidevano la quan-
tità da produrre, fissavano i prezzi minimi di vendita, i salari massimi dei
50 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

dipendenti e il numero dei soci da ammettere ed amministravano la giustizia


nelle controversie che coinvolgevano gli iscritti. Le corporazioni svolgevano
anche una funzione di mutuo soccorso: per esempio, accordavano aiuti fi-
nanziari agli associati, concedevano sussidi alle loro vedove e agli orfani e
costituivano la dote alle figlie, all'epoca indispensabile p er trovare marito.
Nel Settecento, le corporazioni conservavano ancora un potere abba-
stanza consistente, anche se molto ridotto rispetto al passato. Esse, però,
cominciarono a chiudersi all' ingresso di estranei e sempre più spesso ri-
stretti gruppi di maestri artigiani assunsero il controllo dell'arte e ammisero
al grado di maestro solo i propri familiari o i propri amici, tenendone siste-
maticamente fuori apprendisti e lavoranti anziani. Bisogna anche ricordare
che non tutti gli artigiani facevano parte di una corporazio11e. Molti di essi
erano liberi artigiani, autorizzati dalle pubbliche autorità a esercitare la loro
attività in piena autonomia, al di fuori dell'ordinamento corporativo.
2. Industria a doniicilio (domestic system). Era una fo1ma di produzione
che si stava sviluppando specialmente nelle campagne e sfuggiva al con-
trollo delle corporazioni, anzi talvolta era sorta proprio per sottrarsi al loro
dominio. Il domestic system, noto anche come pittting-out system, ossia si-
stema del lavoro dato fuori, era imperniato sulla figura di un mercante im-
prenditore provvisto di capitali, che forniva ai lavoranti le materie prime da
trasformare e in molti casi anche gli strumenti di lavoro. Periodicamente ri-
tirava il prodotto finito da immettere sul mercato o il semilavorato da affi-
dare ad altri per la fase successiva della lavorazione. Quasi sempre gli <<ope-
rai>>erano contadini che lavoravano p er il mercante nei tempi morti dell' at-
tività agricola e il comp enso percepito costituiva una forma d'integrazione
dei loro magri redditi. Il sistema dell' industria a domicilio consentì la diffu-
sione delle industrie fuori delle città, che diedero vita a una forma di orga-
nizzazione produttiva alla quale è stato dato il nome di protoindustria, per
indicare che questa forma di produzione è stata la progenitrice della moder-
na industria.
3. Industria capitalistica (factory system o sistema di fabbrica). Era la
forma più moderna di produzione, caratterizzata dalla presenza di un im-
prenditore, che organizzava i fattori della produzione e investiva il capitale
necessario, e dalla concentrazione dell'attività in un unico luogo (fabbrica,
manifattura, opificio, stabilimento). Il factory system nacque, oltre che per
iniziativa dello Stato, che impiantò proprie <<manifatture reali>>, principal-
mente ad opera di imprenditori privati, fra i quali vi erano molti mercanti
imprenditori che si erano arricchiti e avevano deciso di ampliare la loro at-
tività. Sembra che costoro fossero indotti a passare dal domestic system al si-
stema di fabbrica per esercitare un più puntuale controllo sull 'attività degli
6. Industrie traenti e innovazioni in Gran Bretagna 51

operai, i quali, nel lavoro a domicilio, erano talvolta poco accurati e - cosa
più grave - si appropriavano sp esso di parte delle materie prime fornite dal
mercante. Sono queste le vere prime imprese <<capitalistiche>>, perché con-
centravano gli operai in grandi stabilimenti attrezzati con numerose macchi-
ne, richiedevano l'impiego di un capitale, spesso raccolto fra più soci, e cer-
cavano di vendere i prodotti sul mercato per realizzare il massimo profitto.
E' opportuno precisare che le tre forme di organizzazione della produ-
zione precedentemente ricordate non ebbero una successione temporale, nel
senso che il domestic system non soppiantò l' artigianato e non fu a sua vol-
ta rimpiazzato da l factory system. Le diverse forme continuarono ad esist e-
re l'una accanto all'altra, ma il loro peso relativo si modificò con il tempo.
Alla fine il sistema di fabbrica prevalse sul lavoro a domicilio e sull' artigia-
nato, che comunque continu.a rono ad. avere un loro posto nel l' attività pro-
duttiva, sostanzialmente fino ai nostri giorni.
Bisogna infine ricordare la produzione domestica (da non confondere con
l' industria a domicilio), alla quale attendevano i membri della famiglia, spe-
cie di quella contadina, per soddisfare i propri bisogni. Le donne si occupa-
vano della filatura e della tessitura di lino, canapa o lana, preparavano il pane
e salavano la carne. Gli uomini, invece, erano addetti ai lavori più pesanti,
come la lavorazione del legno, la riparazione degli attrezzi o la fabbricazione
della birra o del vino. Ovviamente, i beni di consumo prodotti nell'ambito
della famiglia non entravano nel circuito commerciale, ma venivano diretta-
mente consumati per soddisfare le esigenze e i bisogni familiari.

6.2. Le forme giuridiche dell'impresa

Le imprese assumevano diverse forme g iuridiche, dalla ditta individua-


le, in cui una sola persona svolgeva la sua attività con il capitale proprio, al-
la società, che prevedeva l'apporto di un capitale da parte di più persone, le
quali partecipavano ai rischi dell'impresa e ripartivano fra di loro l' even-
tuale utile conseguito.
1. La società in nome collettivo. Nota, in genere, con il nome del fon-
datore, della famiglia o di uno dei soci (per esempio, Caio & C.), è carat-
terizzata dal fatto che i soci sono responsabili solidalmente e illimitata-
mente delle obbligazioni sociali e di norma sono anche tutti amministrato-
ri della società. Ciò significa che ciascun socio risponde dei debiti con-
tratti anche dagli a ltri soci in nome della società (responsabilità solidale)
con tutto il suo patrimonio e non soltanto con la quota di capitale sotto-
scritto (responsabilità illimitata).
52 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

2. La società in accomandita. Questo tipo di società, molto comune


prima della diffusione della società anonima, preved.e du e categorie di so-
ci: gli acco,nandatari, che rispondono solidalmente e illimitatamente del-
le obbligazioni sociali e amministrano la società, e gli accomandanti, i
quali non partecipano alla gestione e rischiano solo i fondi che vi hanno
investito. Alla s ocietà in accomandita ricors ero quegli imprenditori che,
volendo sviluppare la loro attività e non desiderando accogliere nuovi s o-
ci a pieno titolo nella loro azienda, preferivano associarsi con persone
provviste di capitali, che assumevano la qualità di soci accomandanti,
senza entrare direttamente nella gestione.
3. La società anonima (o società p er azioni). E' detta anonima perché
non contiene nella sua denominazione il nome dei soci ( quasi sempre nu-
meros i), i quali, perciò, non sono noti ai terzi che con essa intrattengono
rapporti di affari. Essa raccoglie un certo numero di soci, che sottoscrivono
frazioni di capitale, dette azioni, hanno diritto a una quota di utile (se rea-
lizzato), detta dividendo, e partecipano all' assemblea che elegge gli ammi-
nistratori della società stessa. La responsabilità dei soci è limitata alle azio-
ni possedute, che possono vendere o trasferire ad altri, per cui essi rischiano
di perdere soltanto la quota di capitale versata. Le società anonime possono
anche contrarre prestiti mediante l' emissione di proprie obbligazioni 1•
Nel Settecento, solo poche imprese avevano la forma di società anonime.
Sotto qu esta veste erano costituite, per lo più, imprese che si occupavano del
commercio marittimo, compagnie di assicurazione, banche, società per la co-
struzione e la gestione di strade a pedaggio e a ltre imprese che richiedevano
ingenti capitali. La possibilità di comprare e vendere le azioni aveva dato
luogo, all' inizio del secolo, ad alcune speculazioni ( <<bubbles>> o <<bolle>>) e
perciò la costituzione di queste società era stata sottoposta a restrizioni, che
riguardavano sia il trasferimento delle azioni sia l'autorizzazione alla loro co-
stituzione, che da allora diventò una procedura lunga, costosa e di esito incer-
to. Queste norme, che talvolta prevedevano anche la responsabilità illimitata
dei soci, furono abrogate solo nei primi decenni dell'Ottocento negli Stati
Uniti, circostanza che diede a quel Paese un vantaggio competitivo per qual-
che tempo, ossia fin quand.o esse non vennero abrogate, fra il 185 5 e il 1870,
anche nei principali paesi europei (Gran Bretagna, Francia e Germania).

1
L'obbligazione è un titolo di credito (documento trasferibile, che contiene un diritto
«incorporato»), che rappresenta la quota di un prestito e1nesso da una società privata o da t ln
ente pubblico. Il possessore dell 'obbligazione ha diritto alla riscossione dell ' interesse, in
genere ogni sei mesi, e al rimborso del capitale secondo le modalità stabilite (alla scadenza,
mediante sorteggio o in altro modo).
6. Industrie traenti e innovazioni in Gran Bretagna 53

6.3. Macchina a vapore e innovazioni

Le attività che più delle altre sperimentarono le moderne tecnologie e la


nuova organizzazione produttiva furono l'industria del cotone e quella del
ferro. Sono le cosiddette industrie traenti (o industrie guida), ossia quelle
capaci d' imprimere un impulso particolare allo sviluppo e di coinvolgere
anche altri settori produttivi. Le innovazioni tecniche concernenti queste
industrie e l'introduzione della forza del vapore costituiscono il nocciolo
della prima rivoluzione industriale inglese. Anzi, la rivoluzione industriale
fu assicurata prevalentemente dalla macchina a vapore.
La forza del vapore era già nota ai Greci, ma la prima applicazione mo-
derna fu dovuta al fisico francese D enis Papin nel 1690. Qualche anno dopo
(1698) Thomas Savery, un tecnico minerario d.e lla Cornovaglia, brevettò
una pompa a vapore per estrarre l'acqua dalle miniere. Essa, però, presentava
ancora parecchi difetti, fra i quali la pericolosa tendenza a esplodere. Thomas
Newcomen, fabbro e mercante di ferramenta, riuscì a costruire (1712) una
pompa più perfezionata, sempre per prosciugare le miniere, che però era in-
gombrante e consumava troppo combustibile.
Fu solo James Watt, un tecnico che aveva aperto un laboratorio presso
l'Università di Glasgow, il quale, nel riparare un modello della macchina di
Newcomen utilizzato per scopi dimostrativi in un corso universitario, vi
apportò alcune modifiche, brevettate nel 1769. Watt ebbe la fortuna d' in-
contrare Matthew Boulton, un facoltoso fabbricante di articoli di ferramen-
ta dei dintorni di Birmingham, che gli mise a disposizione il capitale neces-
sario per proseguire le ricerche. Watt apportò parecchi miglioramenti alla
sua macchina e riuscì a trasformare il movimento linear e del pistone ( avanti
e indietro) in movimento rotatorio, che consentì molte altre applicazioni,
dai mulini alle macchine per filare e p er tessere, dal movimento dei magli
ai battelli a vapore, per finire alle locomotive. La società di Watt e Boulton
costruì moltissime macchine, che riuscì anche ad esportare. Nel 181 O, vi
erano 5.000 macchine a vapore in Gran Bretagna, appena 200 in Francia e
nessuna in Germania, a testimonianza della superiorità britannica, che negli
anni successivi andò ulteriormente crescendo. Il caso di James Watt è parti-
colare, in quanto, pur non essendo un uomo di scienza, mise a punto la sua
macchina partendo da un ragionamento scientifico, che poté sviluppare
grazie al fatto che ebbe mod.o di seguire alcuni corsi universitari e discutere
con i professori dell'Università di Glasgow. Fuori da quell'ambiente forse
James Watt non sarebbe riuscito ad esercitare in pieno la sua genialità.
Come lui, gli inventori inglesi del secolo XVIII cercarono di dare una
risposta a problemi concreti. Si trattava in genere di operai o artigiani ad-
54 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

detti al fu nzionamento delle macchine, la maggior parte dei quali seguì me-
todi empirici, mentre altri operarono in modo più scientifico. Tutti, però,
furono costretti a procedere per tentativi e approssimazioni successive. Le
numerose invenzioni inglesi furono stimolate anche dal sistema dei brevetti
di quel Paese, che risaliva agli inizi del Seicento e garantiva all'inventore
l' utilizzazione esclus iva, sia pure per un periodo limitato, del frutto del suo
ingegno. Perciò i brevetti rilasciati in Inghilterra passarono da meno di 300
nel periodo 1700-1750 a oltre 10 mila fra il 1800 eil 1850.
Il ruolo della tecnologia fu essenziale durante la prima rivoluzione indu-
striale. Non tanto per le invenzioni, quanto per le innovazioni, che cambiaro-
no il processo produttivo e l'organizzazione della produzione e premiarono
gli imprenditori che vi investivano capitali. La distinzione fra invenzione e
innovazione è dovuta a Joseph Schumpeter. L ' invenzione è qualsiasi novità
brevettabile, ossia un qua lunque miglioramento di metodi e processi di lavo-
razione. L'innovazione si ha quando l'invenzione viene effettivamente appli-
cata al processo produttivo. Un' invenzione può 110n diventare mai u11 'inno-
vazione, ma può anche dare luogo a una serie di altre innovazioni.

6.4. L'industria del cotone

L ' industria tessile, con le sue fasi della filatura, della tessitura e della
tintura, si era sviluppata nelle campagne, specialmente mediante il lavoro a
domicilio, e rigu.a rdava innanzitutto le tradizionali lavorazioni della lana,
del lino e della canapa, nonché quella della seta. La nuova industria del
cotone, viceversa, era modesta e arretrata. Introdotta nel Lancashire nel
secolo XVII, subì la concorrenza delle stoffe colorate indiane e in partico-
lare del calicò (nome derivato dalla città di Calicut, nell' India meridionale,
da non confondere con Calcutta), un tessuto poco costoso, leggero e dai
vivaci colori stampati, fino a quando la sua importazione non fu vietata da
una legge del Parlamento, il Calico Act (1701). Il cotone greggio arrivava
dall'Oriente, dalle colonie inglesi dell'America settentrionale e dalle Indie
occidentali. I metodi di lavorazione, però, davano prodotti finiti di bassa
qualità, ruvidi e difficili da cucire e da lavare. Inoltre, i tessuti non erano
nemmeno di puro cotone, perché normalmente solo la trama era di quella
fibra, mentre l' ordito era di lino 2•

2
Nella tessitura artigianale, l'ordito è costituito da una serie di fi li paralleli tesi su un te-
laio, attraverso i quali si inserisce ad angolo retto un filo continuo, detto trama, in modo che
le due serie di fi li si sostengano reciprocamente, costituendo il tessuto.
6. Industrie traenti e innovazioni in Gran Bretagna 55

La filatura del cotone richiedeva l'impiego di molta manodopera e non


riusciva a stare dietro alla domanda dei tessitori, sicché s'imponeva un per-
fezionamento dei filatoi. Invece, la prima invenzione riguardò proprio la
tessitura, come si può vedere dall'elenco seguente, in cui sono sinteticamente
riportate le più rilevanti innovazioni riguardanti l' industria tessile:
a) la navetta volante (jlying shuttle), inventata nel 1733 da un meccanico
tessile del Lancashire, John Kay, per velocizzare la tessitura, era un mecca-
nismo molto semplice, formato da una spoletta ( contenente il filo della tra-
ma) munita di rotelli11e, che scorreva lungo una guida ed era tirata con una
cordicella dall' operaio; un solo tessitore poteva, così, lavorare più veloce-
mente e ottenere tessuti di larghezza maggiore di quella tradizionale, che si
doveva li1nitare all'apertura delle sue braccia; con la navetta, lo squilibrio
fra filatura e tessitura si accrebbe, ragion per cui essa tardò ad affermarsi, e
diventò ancora più urgente migliorare i filatoi;
b) la spinning j enny ( o giannetta) era un filatoio messo a punto solo dopo
una trentina d' anni, nel 1764, da un tessitore, James Hargreaves; esso consi-
steva in una ruota che muoveva una batteria di fusi (invece di uno solo) ed era
azionata da una sola persona; la giannetta si diffuse rapidamente perché costa-
va poco, non era ingombrante e si prestava in modo particolare a essere utiliz-
zata nell' industria a domicilio;
c) la water frame era un filatoio idraulico, brevettato nel 1769 da Ri-
chard Arkwright, un barbiere che divenne un imprenditore di successo;
questa macchina era capace di produrre un filato molto resistente, utilizza-
bile anche come ordito, che mise fine ai tessuti di misto lino;
d) la mi,le j enny ( o spinning mule) era u11 filatoio derivato, nel 1779,
dalla fusione fra la giannetta e la water frame ad opera di Samuel Crom-
pton, un operaio addetto a lla filatura; la mule jenny era in grado di aziona-
re un gran numero di fusi e produrre un filo più liscio e sottile, consentendo
di ottenere tessuti di qualità superiore a quelli indiani;
e) il telaio meccanico a vapore, brevettato nel 1785 da un ecclesiastico,
Edmund Cartwright, risolse il problema della nuova strozzatura che si era
venuta a creare fra filatura e tessitura in seguito alle invenzio11i ricordate
(spinning j enny, water frame e mule jenny), che avevano consentito di di-
spon·e di ottimi filati, abbondanti e a buon prezzo, per cui era diventato in-
dispensabile innovare nel campo della tessitura al fine di accelerare la pro-
duzione; il nuovo telaio, però, si affermò solo dopo il 1820, anche per l'op-
posizione dei tessitori che temevano di perdere il lavoro.
Nell'industria cotoniera va ricordata anche l' invenzione (1793) dell' ame-
ricano Eli Whitney della moderna sgranatrice meccanica (cotton gin), una
macchina che consentiva di separare agevolmente la fibra di cotone dai semi
56 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

e che fece diminuire notevolmente il prezzo e aumentare la produzione e


l' esportazione di cotone dagli Stati Uniti verso l'Inghilterra.
Questo grappolo di invenzioni si concentrò nel breve periodo di pochi
decenni e apportò benefici a tutta l' industria tessile, perché le nuove mac-
chine potevano essere facilmente adattate alla lavorazione di qualsiasi fibra .
L 'industria cotoniera, però, fu quella che riuscì ad avvantaggiarsene mag-
giormente e divenne la più importante dell 'Inghilterra. Nel 1830, la metà
delle esportazioni britanniche era costituita da tessuti di cotone, che aveva-
no preso il posto che nel secolo precedente era spettato ai tessuti di lana.
I motivi del!'espansione d.ell' ind.u stria cotoniera furono parecchi:
a) era un'industria nitova, attorno alla quale non si erano ancora costi-
tuiti interessi particolari da difendere (come avveniva per l' industria lanie-
ra) e non era soggetta a controlli corporativi, sicché un gruppo di dinamici
imprenditori poté investire in questo settor e senza problemi;
b) le macchine adoperate, in particolare la spiruung j enny, si adattavano
perfettamente al lavoro a domicilio;
c) era un ' industria labour intensive (ad a lta intensità di lavoro), cioè che
richiedeva una quantità relativamente alta del fattore lavoro rispetto agli al-
tri fattori della produzione e che poté utilizzare manodopera a basso costo,
con una notevole presenza di donne e bambini;
d) aveva già un mercato, perché gli Inglesi si erano abituati al consumo
di calicò e mussole indiane, tessuti più leggeri e igienici della lana;
e) fu subito orientata all'esportazione e, quindi, riuscì ad evitare la satu-
razione del mercato interno;
t) fu caratterizzata dalla concentrazione geografica nel Lancashire, dove
il grande porto di Liverpool facilitava l' importazione della materia prima e
l' esportazione del prodotto finito.

6.5. L'industria del ferro

Dalla fusione dei minerai ferrosi (magnetite, limonite, ematite, ecc.) con
il carbone in un forno a tino, detto altoforno, si ottiene la ghisa, la quale,
con successivi processi di decarburazione, fornisce ferro e acciaio 3.
Nel Settecento, per la fus ione si usava quas i s olo carbone di legna,
sicché gli altiforni erano costruiti in genere nelle vicinanze dei boschi e
3
La ghisa è una lega di ferro e carbonio, che contiene una quantità di carboni o vari a-
bile fra il 2 e il 4 per cento e perciò è fragile. Riducendo il carbonio (decarburazione) si
ottiene una lega più resistente, fino a giungere all 'acciaio, quando il carbonio è inferiore
ali ' 1,8 per cento.
6. Industrie traenti e innovazioni in Gran Bretagna 57

venivano s mantellati quando il combustibile si esauriva p er essere rico-


struiti altrove. L ' Inghilterra, p eraltro, era un paese poco boscoso (forse il
meno boscoso d'Europa) e il legno disponibile serviva principalmente per
costruire case, navi, mobili e p er il riscaldamento domestico . I boschi,
perciò, vennero protetti con divers e leggi, come quella degli inizi del Set-
tecento, che dispose la chiusura di alcuni altiforni per riservare il legname
alle costruzioni navali.
La scarsa disponibilità di carbone di legna costrinse gli Inglesi a utili z-
zare il carbon fossile. Questo minerale era abbondante ma non veniva a-
doperato nella fus ione perché dava una ghisa molto fragile. Agli inizi del
secolo XVIII, Abraham Darby, proprietario di una ferriera a Coalbroo-
kdale, riuscì ad estrarre il coke dal carbon fossile (litantrace), con un pro-
cedimento simile a quello usato per la produzione di carbone di legna: il
minerale veniva riscaldato in un ambiente chiuso per eliminare le impuri-
tà sotto forma di gas e ottenere come residuo il coke. La scoperta, utiliz-
zata fin dal 1709 nella ferriera di Darby, fu tenuta nascosta, ma anche
quando fu nota, alcuni decenni più tardi, tardò ad affermars i perché non
dava una buona qualità di ferro. Fu necessario attendere l' altra importante
i1movazione di Peter Onions e Henry Cort, che separatamente brevettar o-
no (1783 e 1784) il pitddellaggio (dall 'inglese <<to puddle>>, rimescolare),
un processo di decarburazione (utilizzato fmo agli inizi del Novecento),
mediante il quale la ghisa veniva fusa in un forno a riverbero (ad alte
temperature) e agitata continuamente con lunghe as te per liberarla dal
carbonio in eccedenza e ottenere ferro e acciaio.
In seguito a queste invenz ioni, l' industria s iderurgica conobbe una no-
tevole espansione, potendo sfruttare anche la circostanza che in Inghilter-
ra le miniere di ferro e quelle di carbone si trovavano in zone vicine. La
produzione di ghisa, rimasta stabile per oltre un secolo attorno a 25 mila
tonnellate, giuns e a poco più di 100 mila tonnellate verso il 1800 e a 2,2
milioni una cinquantina d 'anni più tardi. In un secolo, cioè, era cresciuta
di novanta volte. La Gran Bretagna arrivò a fornire più della metà della
produzione mondiale di ghisa, tanto da alimentare una considerevole cor-
rente di esportazione.
Un personaggio importante dell' industria del fen·o fu certamente John
Wilkinson, <<the iron master>> come si autodefinì in alcune monete con la
sua effige da lui stesso fatte coniare. Wilkinson possedeva a ltiforni, miniere
di ferro e di carbone, una fonderia di tubi, una di cannoni e un cementificio
e aveva anche effettuato grossi investimenti nel campo agricolo. A lui si
devono la costruzione del primo ponte in ghisa sul fiume Severo (1776) e il
varo del la prim.a nave in lamiera bullonata (1787).
58 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

Le caratteristiche dell' industria del ferro erano profondamente diverse


da quelle dell' industria cotoniera.
L'industria siderurgica, difatti:
a) era capitai intensive (ad alta intensità di capitale), perché richiedeva
consistenti investimenti;
b) era organizzata, da più di un secolo, in f orme capitalistiche, con molti
operai occupati nelle officine alle dipendenze di un datore di lavoro e pro-
duceva per il mercato;
c) utilizzava materie prime inglesi (carbone e minerali di ferro), che
quindi non bisognava importare dall' estero;
d) non produceva beni di consumo ma beni intermedi o strumentali,
adoperati per produrre altri beni.
Oltre all' industria del cotone e a qu.ella del ferro vi erano altre attività
industriali che, pur non avendo una funzione traente, rivestirono una note-
vole importanza nello sviluppo economico britannico. Un certo rilievo ave-
va la manifattura delle stoviglie di porcellana, che fu stimolata dalla moda
della porcellana fine importata dalla Cina e dalla diffusione di bevande co-
me tè e caffè. L'indi,stria chimica si sviluppò grazie agli esperimenti empi-
rici dei produttori di sapone, carta, vetro, vernici e tinture. Prodotti come
acido solforico, cloro, soda caustica e potassa diventarono di uso comune in
parecchi processi produttivi, questa volta per merito degli studi di uomini di
scienza, che diedero un notevole contributo alla tecnica industriale. L' indu-
stria d.el carbone, inoltre, forniva alcuni sottoprodotti molto utili, come il
catrame minerale, che sostituì la pece per calafatare gli scafi delle navi di
legno, e il gas illi,minante, impiegato per illuminare le città e le fabbriche.
La prima città le cui strad.e furono rischiarate dall' illuminazione a gas non
poteva che essere Londra (1812). Vanno anche ricordate, infine, l' impor-
tantissima industria dei cantieri navali, l' industria della stampa e della fab-
bricazione della carta, quella della birra e di alcuni liquori di largo consumo
(brandy e gin) e le industrie della raffinazione dello zucchero di canna e
della lavorazione del tabacco.

6.6. La dimensione regionale dell'industrializzazione

Lo studio dello sviluppo economico e industriale dei singoli paesi non


deve far pensare a una crescita omogenea di tutte le aree geografiche che ne
fanno parte. In genere, in ogni paese vi sono zo11e che si sviluppano più ra-
pidamente e altre che rimangono indietro, sicché quasi dappertutto s ' incon-
tra un <<Nord>>e un <<Sud>> (o un <<Ovest>>e un <<Est>>), cioè regioni maggior-
6. Industrie traenti e innovazioni in Gran Bretagna 59

Fig. 6. 1. - Le principali industrie in Inghilten·a e nel Galles nel 1800

se oz 1A Colone

Lana e arllcoll
di lana

- Ferro e acciaio

H ull
Ma r d ' Irlanda
Mare del Nord

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Boston
11 ,ngham
Shrew1bury
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Fonte: R. Cameron, Storia economica del mondo, Bologna, 1998, p. 287.

mente sviluppate e regioni più arretrate (dualismo). Questa circostanza è


stata ben evidenziata da Sidney Pollard, il quale ha studiato (1981) la di-
mensione regionale dello sviluppo, rilevando come esso non assumesse ca-
rattere nazionale, ma regionale, perché riguardò determinate <<regioni>>, vale
a dire zone più o meno ampie, non necessariamente coincidenti con le unità
amministrative. Nella prima fase di sviluppo le differenze regionali all' in-
terno di un paese tendono generalmente ad aumentare, specialmente se esso
è molto esteso territorialmente. Il decollo, cioè, genera sqitilibri economici
60 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

e amplia quelli già esistenti, perché le regioni che hanno qualche vantaggio
(disponibilità di materie prime, infrastrutture più adeguate, posizione geogra-
fica, ecc.) riescono a svilupparsi maggiormente. Successivamente, ma non
sempre, le industrie s'impiantano anche nelle regioni più arretrate, dove i
salari sono più bassi.
L ' Inghilterra fu sicuramente favorita, rispetto alle altre nazioni, dal fatto
che il processo d ' industrializzazione riguardò parecchie regioni contempo-
raneamente. Anch'essa, però, fece registrare delle diversità fra un'area e
l' altra del Paese. I bacini carboniferi, i distretti cotonieri e lanieri e l' indu-
stria siderurgica interessarono contemporaneamente molte aree della zona
centro-occidentale del Paese (vedi fig. 6. 1) . Alcune regioni, poi, furono ca-
ratterizzate dalla prevalenza di determinate attività: il Lancashire era il più
importante distretto cotoniero, lo Yorkshire ved.e va la concentrazione del-
l'industria laniera, i Midlands e il Tyneside possedevano miniere di carbone
e industrie siderurgiche, lo Staffordshire aveva quasi il monopolio della
fabbricazione di stoviglie e la Cornovaglia produceva stagno e rame. Il Sud
conservò la caratteristica di zona agricola, ma non per questo fu area arre-
trata e povera, perché vi si trovavano terre molto fertili, sulle quali erano state
applicate le rotazioni e le tecniche della nuova agricoltura. L 'estremo Nord,
invece, legato in gran parte alla pastorizia, non conobbe una crescita parago-
nabile a quella delle altre regioni e restò indietro.
Pure nel Galles vi erano differenze fra la zona attorno all' importante baci-
no carbonifero di Cardiff, dove si era sviluppata l' industria siderurgica, e la
maggior parte delle terre dell'interno, montagnose e poco fertili, in cui si pra-
ticava la pastorizia, che rimasero molto povere e arretrate.
7.
LA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE INGLESE
I PROBLEMI

7.1. I mezzi di pagamento e la funzione delle banche

La rivoluzione industriale presentò non pochi problemi che bisognò ri-


solvere e il cui superamento costituì esso stesso un ulteriore stimolo allo
sviluppo economico. Ne ricorderemo i più importanti, come il problema dei
mezzi di pagamento e del finanziamento dell' industrializzazione, il pro-
blema de llo sfruttamento dei lavoratori e il problema degli sbocchi per la
produzione manifatturiera britannica.
A metà Settecento, le monete in circolazione erano quasi esclusivamente
metalliche. Erano d'oro o d 'argento per i pagamenti più consistenti, oppure
di a ltri metalli, in genere rame o biglione (rame con una modesta quantità
d ' argento), per i pagamenti minuti. La pasta dalla quale si ricavavano le mo-
nete pregiate era costituita, oltre che dal metallo prezioso (fino) , anche da una
certa quantità di metallo vile, necessario per aumentare la durezza dell'oro o
dell'argento. Il valore delle monete era defmito dal contenuto di metallo pre-
zioso. Per conseguenza, il valore di una moneta rispetto a un' altra si otteneva
confrontando il fino delle due monete. Per fare un esempio, se la moneta di
un paese conteneva dieci grammi d'argento fmo e quella di un altro paese ne
conteneva cinque, allora la moneta di dieci grammi valeva il doppio di quella
di cinque grammi. Lo Stato provvedeva alla coniazione, servendosi delle zec-
che, gestite direttamente o date in appalto a privati.
I sistemi monetari erano tre: il monometallismo argenteo (silver stan-
dard), quando a base del sistema vi era l' argento, il monometallismo aureo
(gold standard), quando vi era l'oro, e il bimetallismo, quando vi erano sia
l' oro che l' argento. Il metallo prezioso assunto a base del sistema si chia-
mava anche tallone. Dire che un paese aveva l'argento come tallone mone-
tario non significa che tutte le monete in circolazione fossero d'argento. Si-
62 La prima rivolitzione industriale (1750-1850)

gnifica che l'argento godeva di libero conio e aveva potere liberatorio illi-
mitato, mentre qu este caratteristiche non erano riconosciute alle monete fab-
bricate con altri metalli. Il libero conio era la possibilità concessa ai privati di
consegnare alla zecca il metallo prezioso in loro possesso e ottenere in cam-
bio l'equivalente in monete, dedotte le spese di fabbricazione ed eventuali
diritti. Il potere liberatorio illimitato era ( ed è) la possibilità concessa dalla
legge alla moneta assunta a base del sistema di essere utilizzata in qualsiasi
pagamento e per qualsiasi importo, senza che nessuno potesse rifiutarla.
Verso la metà del Settecento, i sistemi monetari più diffusi i11 Europa
erano il monometallismo argenteo e il bimetallismo. Solo l'Inghilterra, an-
che s e ufficialmente adottava il sistema bimetallico, si era di fatto avvicina-
ta al monometallismo aureo, perché la circolazione di monete d 'argento si
era ridotta notevolmente, essendo state utilizzate per pagare le merci impor-
tate dall 'Asia, dove prevaleva il monometallismo argenteo.
Con il tempo, le monete d'oro e d'argento cominciarono a rivelarsi in-
sufficienti per le necessità dei traffici, che erano in aumento. Fu necessario
ricorrere a una nuova forma monetaria, la moneta cartacea, introdotta da
alcune banche 1, che perciò si dissero bariche di emissiorze. Esse, cioè, non
disponendo di una quantità sufficiente di monete metalliche da prestar e, in
particolare allo Stato, pensarono di consegnare, a chi chiedeva somme in
prestito, propri biglietti, con la promessa di cambiarli in monete metalliche
ad ogni richiesta dei loro possessori. Per assicurare il cambio, le banche
emittenti d.ovevano tenere una riserva di monete, che ovviamente non era
pari a l valore dei biglietti, altrimenti non vi sarebbe stata alcuna convenien-
za ad emetterli. L' esperienza mostrò che una riserva into1no al 40 per cento
dei biglietti risultava sufficiente a garantire il cambio di quelli che normal-
mente venivano presentati agli sportelli della banca emittente. Ne consegt1e
che nessuna banca sarebbe stata in grado di cambiare tutti i biglietti in cir-
colazione se essi fossero stati presentati più o me110 s imultaneamente; una
circostanza del genere l' avrebbe s icuramente portata al fallimento.

1
Nella sua forma più tradizionale, la banca è un' impresa che raccoglie fondi, soprattutto
sotto forma di depositi, sui quali paga interessi passivi, e li eroga, soprattutto sotto forma di
prestiti, riscuotendo interessi attivi, che devono essere più elevati di quelli passivi, in modo da
coprire le spese di gestione della banca e consentire un profitto. Parte dei depositi deve essere
tenuta come riserva per assicurare il rimborso «a vista» (cioè su richiesta del depositante) delle
somJne depositate. I depositi possono essere utilizzati come mezzo di pagamento, 1nediante
l'uso di assegni (ordine dato alla banca di pagare una somJUa ad altri, prelevandola dal proprio
conto) o mediante giroconto (pagamento mediante il trasferimento di una somJUa dal conto di
u11 cliente a quello di tin altro). Le banche concedevano prestiti anche scontando cambiali (tito-
li che rappresentano un credito riscuotibile a una certa data), cioè anticipando la somma al pos-
sessore della ca1nbiale prima della scadenza, in cambio di un interesse detto sconto.
7. La rivoluzione industriale inglese: i problemi 63

A metà Settecento, banche di emissione esistevano soltanto in Inghilter-


ra, Scozia e Svezia. La Bank of England, una società privata fondata nel
1694, era indubbiamente la più importante e fu principalmente merito suo
se i biglietti di banca (banknotes) si diffusero dappertutto. Le banconote e-
rano, in sostanza, una promessa di pagamento, ossia l'impegno di cambiarle
in moneta metallica, come dice chiaramente la formula <<I promise to pa y>>
impressa su ogni biglietto della Banca, seguita dalla frrma del governatore.
In generale, le banconote circolavano a corso fiduciario, ma poi ebbero
anche corso legale e, in certi momenti, si dovette ricorrere al corso forzoso.
All' inizio erano soltanto a corso fiduciario, vale a dire che nessuno era ob-
bligato ad accettare le banconote e se la gente le prendeva era solo perché
nutriva <<fidu cia>> nella promessa della banca emittente di cambiarle in mo-
neta metallica in qualsiasi momento. In seguito, a mano a mano che le ban-
conote si diffondevano, ottennero per legge anche il corso legale, ossia il
potere di estinguere qualsiasi debito, sicché nessuno poté più rifiutarle. In-
fine, quando le ba.oche di emissione non disponevano di sufficienti riserve
per garantire il cambio dei biglietti emessi, una legge poteva imporre, per
un periodo limitato, il corso forzoso, ossia l'inconvertibilità delle bancono-
te, che perciò dovevano essere accettate in pagamento senza poterle più
cambiare in moneta metallica.
Nel Settecento, un vero sistema bancario, ossia un insieme di banche
che coprisse tutte le esigenze degli operatori economici e dello Stato, non
esisteva in alcun paese, se si eccettuano, forse, l' Inghilterra e la Scozia. In
Inghilterra, accanto alla Banca d' Inghilterra, strettamente legata al governo,
al quale concedeva frequenti anticipazioni, esistevano, intorno al 1750, una
tre11tina di banche a Londra (city banks) e una dozzina di banche di provin-
cia nel resto del Paese e nel Galles (country banks).
In diverse città europee erano attive alcune banche pubbliche, che accet-
tavano depositi, senza corrispondere su di essi alcun interesse, e rilasciava-
no ai depositanti una ricevuta, che poteva essere girata 2 ad altri per effettua-
re un pagamento. Queste banche investivano in vario modo i fondi disponi-
bili, ma in genere li impiegavano nel debito pubblico 3 • Anche numeros i

2
La girata è una dichiarazione contenuta in un titolo di credito (cambiale, assegno, ob-
bli gazione), mediante la quale il possessore trasferisce ad altri il titolo e il relativo credito.
La girata è in genere scritta sul retro del titolo e deve essere firmata dal girante.
3
Il debito pubblico è costituito dall ' insieme dei prestiti che lo Stato e gli altri enti del setto-
re pubblico contraggono per le proprie necessità. Esso è rappresentato da titoli pubblici (buoni
del Tesoro, rendite, certificati di credito, ecc.). Nell 'ancien régime, i prestiti erano garantiti da
singole imposte, la cui riscossione (se regolare) consentiva il pagamento degli interessi e la re-
stituzione del prestito. In seguito, con le riforme napoleoniche, il debito pubblico venne garan-
tito dall'insieme delle entrate dello Stato e fu iscritto nel «Gran libro del debito pubbli co».
64 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

banchieri privati erano interessati ai titoli pubblici, oltre che al credito mer-
cantile. In alcuni paesi, come Italia, Spagna e Francia, operavano i Monti di
pietà, sorti a partire dal Quattrocento per opera dei Francescani con lo sco-
po di combattere l'usura, concedendo piccoli prestiti su pegno alle persone
bisognose, in cambio di un modico interesse. I Monti frunientari, partico-
larmente numerosi nelle zone rurali, esercitavano anch' essi il prestito su
pegno, ma invece di denaro prestavano grano per la semina.

7.2. I problemi del finanziamento e del credito

La prima rivoluzione industriale risultò poco costosa, nel senso che non
erano necessari molti capitali per avviare un' attività produttiva, essendo re-
lativamente modesto il costo delle macchine e basso quello della manodope-
ra. L'impianto di una manifattura tessile o di un' industria siderurgica oppure
l' acquisto di una macchina a vapore non richiedevano forti somme di dena-
ro. I primi industriali erano spesso artigiani, piccoli proprietari terrieri e fi-
nanche braccianti o operai che iniziarono l'attività con pochi fondi. In gene-
re, gli imprenditori dell' epoca consideravano il capitale impiegato nella loro
impresa alla stregua di un investimento finanziario e si accontentavano di un
rendimento oscillante intorno al 5 per cento, lasciando nell'azienda qualsiasi
guadagno ulteriore.
L 'autofinanziamento, perciò, ossia il reinvestimento nell'azienda di una
parte degli utili, fu il modo principale con il quale gli imprenditori si procu-
ravano i fondi necessari all'ampliamento della loro attività. Altre volte si ri-
volgevano a parenti e a1nici desiderosi d' impiegare con loro i propri capitali,
con i quali costituivano spesso una società in accomandita. E infine, specie a
partire dagli anni Trenta dell'Ottocento, le imprese costituite sotto forma di
società anonima cominciarono a rivolgersi al mercato, sul quale collocavano
le obbligazioni che erano in grado di emettere. Proprio per queste ragioni, le
banche inglesi difficilmente intervennero per concedere alle imprese finan-
ziamenti cospicui e di lunga durata.
Se i primi imprenditori non avevano bisogno di un elevato capitale fis-
so 4, necessitavano però di denaro per l'acquisto di materie prime e per p a-
gare i salari agli operai. Le banche di Londra e quelle di provincia li finan-
ziavano con continuità, in genere mediante lo sconto di cambiali a tre mesi,
4
Fra le diverse classificazioni del capitale, vi è quella fra capitale fisso e capitale circo-
lante. l i capitale fisso è costituito dai beni utilizzabili per più cicli produttivi, ossia per un certo
periodo di tempo (immobili, impianti, macchinari, ecc.). Il capitale circolante è dato dai beni
utilizzabili per un solo ciclo produttivo, ossia per una sola volta (materie prime e semilavorati).
7. La rivoluzione industriale inglese: i problemi 65

che era ritenuto un periodo sufficiente perché le imprese potessero acqui-


stare le materie prime, trasformarle e vender e il prodotto fmito. Questi pre-
stiti, però, venivano spesso rinnovati e quindi si trasformavano di fatto in
finanziamenti di durata più lunga.
Dopo le guerre napoleoniche, nel 1816, il valore della sterlina (fissato nel
171 7 da Isacco Newton, quando era direttore della Zecca) fu confermato a
7,32 grammi d'oro fino (la moneta di una sterlina pesava complessivamente
circa 8 grammi), e a quel rapporto fu ristabilita, nel 1821, la convertibilità
dei biglietti della Banca d'lnghilten·a, che era stata sospesa durante il periodo
bellico (corso forzoso). Da allora solo le monete d' oro ebbero potere libera-
torio illimitato e soltanto l'oro godette di libero conio: la Gran Bretagna ave-
va formalmente adottato il gold standard. Nel 1833, infine, una legge di-
chiarò le banconote della Banca d' Inghilterra moneta a corso legale (legai
tender) e da allora poterono essere adoperate per tutti i pagamenti.
A questo punto si poneva il problema della quantità di biglietti da emet-
tere. Essi potevano essere stampati in quantità praticamente illimitata, al
contrario delle monete meta lliche, la cui coniazione dipendeva dalla dispo-
nibilità di metallo. Bisognava perciò stabilire fino a quale ammontare fosse
possibile emettere banconote o, se si preferisce, bisognava fissare il livello
della riserva da tenere a garanzia delle banconote emesse.
A ciò provvide la legge bancaria del 1844 (Banlc Charter Act), che sta-
bilì i limiti dell' emissione e l' ammo11tare delle riserve. La Banca d'Inghil-
terra fu autorizzata a emettere big lietti fino a 14 milioni di sterline senza
copertitra metallica, da investire in titoli, in maggioranza titoli di Stato. Ol-
tre tale importo la riserva (monete e lingotti d' oro) doveva esser e pari al
100 per cento del valore dei biglietti messi in circolazione. La legge vietava
la costituzione di nuove banche di emissione e stabiliva che se quelle esi-
stenti avessero rinunciato al diritto di stampare banconote lo avrebbero per-
duto per sempre a favore della Banca d' Inghilterra, cosa che avvenne con
molta gradualità nei decenni successivi. La Banca d'Inghi lterra si avviò a
diventare, così, l'unico istituto di emissione in Inghilterra e nel Galles. I suoi
biglietti erano sicurissimi, nel senso che il loro cambio in moneta metallica
o in oro era garantito dalle riserve imposte dal la legge.
La decisione di limitare l'emissione di biglietti senza copertura ad appe-
na 14 milioni fu anche determinata dal fatto che la sterlina stava diventando
la moneta dei pagamenti internazionali e quindi doveva essere molto soli-
da, vale a dire che i possessori stranieri di sterline dovevano essere sicuri
che sarebbero state sempre cambiate in moneta metallica o in oro. L 'Inghil-
terra, però, continuò a soffrire di un'insufficiente circolazione di mezzi di
pagamento, fino a quando non si diffuse l'uso degli assegni bancari.
66 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

7.3. I problemi del lavoro

Nella società preindustriale, in cui il lavoro e la produzione erano rego-


lati dagli statuti del le corporazioni, prevaleva l'idea di una società protetta.
Si riteneva, cioè, che i salari dovessero restare stabili, i profitti dovessero
essere mantenuti a u11 livello ragionevole e i consumatori dovessero essere
tutelati sia riguardo a lla qualità che al prezzo dei prodotti. Anche se i rego-
lamenti e le disposizioni in materia erano ormai osservati in modo superfi-
ciale, fu solo co11 l'avvio della prima rivoluzione industriale che si comin-
ciò a manifestare con tutta evidenza l'idea di una società caratterizzata dalla
libera iniziativa e dalla ricerca del profitto, con poche o nessuna protezione
per i lavoratori.
Nelle fabbriche si affermò un modo profondamente diverso di lavorare
rispetto a quello agricolo e artigianale, in cui il ritmo era molto più lento e
non vi era alcun obbligo di orario. I lavoratori salariati furono reclutati fra i
lavoranti a domicilio, gli artigiani e i lavoratori dei campi. I lavoratori a
domicilio opposero una certa resistenza a trasformarsi in operai perché non
volevano rinunziare alla relativa indipendenza di cui godevano e assogget-
tarsi alla rigida disciplina della fabbrica, con i suoi estenuanti turni di lavo-
ro. Anche gli artigiani, specie quelli rovinati dall' industria, evitavano di di-
ventare operai e, quando potevano, si trasformarono in piccoli imprenditori,
spesso in società con un capitalista, oppure diventarono commercianti dei
manufatti che prima producevano direttamente e che ora acquistavano pres-
so le fabbriche. I contadini, invece, costituirono il grosso della classe ope-
raia, poiché il lavoro dei campi non riusciva più ad assorbire l' incremento
demografico ed essi avevano perso gli usi comunitari sulla terra.
Gli operai, nei primi tempi, reagirono al duro lavoro in fabbrica assen-
tandosi frequentemente, specialmente coloro che conservarono la duplice
veste di contadini e operai e dovevano partecipare ai lavori agricoli. Inoltre,
lasciavano spesso un datore di lavoro per un altro, creando non pochi pro-
blemi alla continuità dell'attività produttiva. Il passaggio dalla vita di cam-
pagna a quella di città comportò quasi sempre un peggioramento delle con-
dizioni di vita materiale (case malsane, assenza di fognature, aria inquinata
dalle ciminiere, ecc.), un doloroso sradicamento dalla comunità del villag-
gio e la distruzione delle basi tradizionali della vita familiare.
Lo Statuto inglese dei mestieri del 1563 prevedeva un apprendistato di
sette anni per tutte le arti e i mestieri, compresi quelli agricoli. Ma queste
disposizioni erano poco applicate e, con l'affermazione del lavoro a domi-
cilio e del lavoro in fabbrica, il sistema dell' apprendistato era di fatto cadu-
to in desuetudine. Ormai non appariva nem.m eno più necessario, perché il
7. La rivoluzione industriale inglese: i problemi 67

funzionamento delle nuove macchine non richiedeva particolari competen-


ze e si apprendeva in poco tempo.
Le prime fabbriche, in particolare quelle tessili, fecero largo uso del la-
voro di donne e bambini. In Inghilterra, i bambini abbandonati erano assistiti
dalle amministrazioni locali (parrocchie) e la legislazione in vigore permet-
teva la loro utilizzazione come apprendisti. Quando sorsero i primi opifici,
le autorità si affrettarono a collocare i bambini presso gli imprenditori, che
s'impegnavano a fornire vitto e vestiario e a istruirli nel mestiere. I cotonifi-
ci impiegarono una gran quantità di bambini con il pretesto di addestrarli,
ma li utilizzarono nel lavoro di fabbrica, trattandoli quasi come schiavi. An-
che le donne furono occupate negli opifici, specialmente in quelli tessili, do-
ve costituivano più della metà della manodopera complessiva.
L ' orario di lavoro era massacrante (poteva giungere fino a 16 ore gior-
naliere) e le condizioni igieniche pessime. Lo Stato intervenne con diverse
leggi, cl1e fino a metà Ottocento riguardarono solo le industrie tessili. Nel
1833 la giornata lavorativa dei bambini sotto i 13 anni fu ridotta a nove ore
e fu affidato a ispettori ministeriali il compito di vigilare sull'applicazione
della legge. Verso la metà del secolo (1847), la durata della giornata lavora-
tiva in fabbrica fu fissata a 1O ore sia per le donne che p er i ragazzi di età
compresa fra 13 e 18 anni.

7.4. Le associazioni operaie e le Trade Unions

I lavoratori salariati non tardarono ad associarsi. Nel secolo XVIII nac-


quero molte unioni di mestiere (trade clubs) fra gli operai specializzati, non
tanto per difendere i loro interessi nei confronti degli imprenditori, quanto
per proteggere i privilegi di cui godevano e ostacolare l'ingresso di altri la-
voratori nella categoria. Spesso queste unioni chiedevano proprio l'osser-
vanza delle norme sull 'apprendistato. Agli inizi del Settecento il Parlamen-
to accolse le loro richieste di far rispettare tali norme, ma in seguito il suo
atteggiamento mutò, sull' onda delle nuove dottrine della libera co11correnza
e della libertà contrattuale, e aderì alle istanze degli imprenditori che, in so-
stanza, volevano essere liberi di assumere e licenziare gli operai secondo le
necessità della produzione. Le u11ioni di mestiere praticavano a11che il mu-
tuo soccorso, vale a dire che offrivano agli iscritti un sostegno in caso di
malattia, disoccupazione, vecchiaia, infortuni e altre avversità.
I lavoratori generici, al contrario di quelli sp ecializzati, non avevano
costituito proprie associazioni, ma spesso si univano per difendere i loro in-
teressi. La protesta sfociava talvolta in tumt1lti, con la distruzione di mac-
68 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

chinari o di altri beni del datore di lavoro. Celebre fu il movimento luddista


( 1811-16), che si opponeva all'introduzione delle macchine nelle fabbriche,
considerate responsabili della disoccupazione e dei bassi salari. Il movi-
mento prendeva nome da un leggendario operaio, Ned Ludd, che nel 1779
avrebbe distrutto, per protesta, un telaio per la produzione di calze.
Il luddismo si sviluppò in anni in cui erano in vigore i Combination
Acts, approvati dal Parlamento inglese nel 1799 e nel 1800. Queste leggi
vietavano qualsiasi associazione sia di lavoratori che di datori di lavoro, e
perciò il movimento luddista fu considerato illegale e represso nel sangue.
Esse, tuttavia, non riuscirono a impedire agli imprenditori di accordarsi,
perché, essendo poco numerosi, bastava anche un incontro occasionale per
prendere decisioni di comune interesse, senza bisogno di disporre di una lo-
ro associazione. Gli operai, invece, subirono un duro colpo, perché, essendo
numerosissimi, risultava difficile difendere i propri interessi senza potersi
associare e tenere delle assemblee.
Negli anni successivi, altre disposizioni dovevano aprire la strada al
moderno sindacalismo. Vennero definitivamente abolite (1814) le leggi sul-
l'apprendistato e per conseguenza anche il sistema corporativo. In seguito a
un ampio dibattito pubblico, furono approvate le leggi del 1824 e del 1825,
che revocarono i Combination Acts e legalizzarono le organizzazioni dei
lavoratori. Nacquero, così, le Trade Unions, i moderni sindacati britannici,
che conservarono il carattere di unioni di lavoratori specializzati fino alla
seconda metà del secolo XIX. La legge del 1825 limitò i loro scopi alle sole
rivendicazioni relative al salario e ali' orario di lavoro e perciò esse rimase-
ro sostanzialmente legate a questi compiti, al contrario di quanto avvenne
in altri paesi europei, dove, proprio perché ostacolato, il movimento operaio
assunse connotazioni politiche e di contestazione della società. Il sindacali-
smo britannico, invece, aveva implicitamente accettato il nuovo ordine ca-
pitalistico scaturito dalla rivoluzione industriale.

7.5. Il problema degli sbocchi e il trionfo del libero scambio

A partire dal 1793, la Gran Bretagna entrò in un lungo periodo di giter-


ra contro la Fra11cia rivoluzionaria e napoleonica, durato ventidue anni. Il
conflitto ostacolò il commercio estero ma favorì le altre attività. La produ-
zione agricola aumentò del 50 per cento, quella dei tessuti di cotone si se-
stuplicò e quella metallurgica arrivò a quintuplicarsi. Le esigenze belliche
erano un potente stimolo all'attività produttiva: bisognava fabbricare navi,
cannoni, armi e vestiario per soldati e marinai, che dovevano anche essere
7. La rivoluzione industriale inglese: i problemi 69

adeguatamente nutriti. Lo Stato era l'acquirente, non sempre molto esigen-


te, di quanto serviva per proseguire il conflitto, sicché gli affari prosp era-
vano. Gli anni di guerra, peraltro, coincisero con la fase più intensa della
rivoluzione industriale inglese e con un 'accelerazione della crescita demo-
grafica del Paese.
Con la fine del lungo conflitto (1815), si esaurì anche la fase positiva del
ciclo Kondratieff. Fino a metà secolo XIX, si assistette in tutta Europa a un
periodo caratterizzato da una riduzione dei prezzi e dei profitti (fase b ). La
Gran Bretagna risentì, più di altri paesi, del crollo dei prezzi agricoli e della
fine d.elle commesse militari, con grave danno per i produttori. Parecchie
fabbriche siderurgiche, che si erano sviluppate durante la guerra, dovettero
chiudere e la disoccupazione aumentò, accresciuta dalla smobilitazione dei
soldati. Lo stesso mercato interno si mostrò fiacco per il basso potere
d'acquisto dei salari, che furono in diminuzione almeno fin verso il 1830 5•
Tuttavia l'economia britannica continuò a crescere e a svilupparsi, spe-
cialmente grazie al commercio estero, che riuscì ad alimentare un consi-
stente flusso di esportazioni, consentendo di smaltire una produzione in
continuo aumento. Un altro impulso venne sicuramente dalle prime costru-
zioni ferroviarie, che favorirono l'espansione dell' industria siderurgica e di
quella mineraria. Si trattò, però, di anni non facili, in cui la Gran Bretagna
dovette porsi il problema di assicurare uno sbocco alla sua produzione e fu
costretta ad effettuare scelte difficili e irreversibili. Dovette innanzitutto de-
cidere se imboccare definitivamente la via dell'industrializzazione o difen-
dere l'attività agricola, conservando alcuni privilegi ai proprietari terrieri.
In quasi tutti gli Stati, afflitti frequentemente da crisi alimentari, vigeva-
no da tempo disposizioni restrittive del commercio del grano. In Inghilterra
erano in vigore, fin dalla seconda metà del Seicento, le Com Laws (leggi sul
grano), che regolamentavano sia le importazioni che le esportazioni, con lo
scopo di garantire l'approvvigionamento di grano e i redditi dei produttori
agricoli. L 'Inghilterra, a partire dal 1765, era diventata un paese importatore
netto di grano (negli anni Quaranta dell'Ottocento il 10-15 per cento del
grano consumato era importato), per cui si rese necessario regolamentare
meglio le importazioni.
In seguito al crollo dei prezzi agricoli, dopo la fme della guerra, si deci-
se dapprima (1815) d' introdurre il divieto d' importazione del grano se il
prezzo della farina fosse sceso sotto un certo livello, e successivamente
5
Il potere d'acquisto è dato dalla quantità di beni e servizi che si possono acquistare con
un'unità monetaria. Di norma, se il livello generale dei prezzi aumenta, il potere d'acquisto
di una moneta di1ninuisce, 1nentre se il li vello generale dei prezzi diminuisce, il potere
d'acquisto aumenta.
70 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

(1828) di adottare la cosiddetta scala mobile, ossia un sistema di dazi variabi-


li a seconda dell'andamento dei prezzi. Quando i prezzi it1terni del grano
scendevano sotto un certo livello a causa d.egli abbondanti raccolti, i dazi ve-
nivano aumentati per ostacolarne l' importazione e sostenere i prezzi; quando
i prezzi interni aumentavano per i cattivi raccolti, i dazi venivano ridotti per
favorire l' importazione di grano e far scendere i prezzi. In tal modo, si cer-
cava di mantenere il prezzo interno a un livello costante, tale da assicurare
un margine di guadagno ai produttori. Il risultato non fu completamente
raggiunto, perché i prezzi continuarono a tenersi bassi, ma sicuramente ri-
masero più elevati di quanto sarebbero stati senza la protezione accordata.
Le Corn Laws erano difese dai proprietari terrieri, che disponevano
della maggioranza nel Parlamento, mentre erano awersate dagli industriali
e dagli operai. Gli industriali le ritenevano responsabili di almeno due ef-
fetti per loro dannosi:
a) gli alti salari della manodopera, che non potevano ridurre perché il
prezzo del grano, e quindi del pane, era tenuto artificialmente elevato;
b) la difficoltà di esportare i manufatti verso il continente europeo, poi-
ché la protezione sui cereali non consentiva ai paesi che volevano importare
manufatti inglesi di pagarli con l'esportazione dei loro prodotti cerealicoli,
il cui ingresso in Inghilterra era ostacolato.
Gli operai, da parte loro, protestavano perché imputavano alla protezione
granaria e quindi all'alto prezzo del pane il basso potere d' acquisto dei salari.
Sul finire degli anni Trenta, una serie di cattivi raccolti fece montare la
protesta. Industriali e operai si trovarono alleati contro i proprietari terrieri
nel contestare le leggi sui cereali. A Manchester venne fondata (1838) una
Lega contro le leggi sul grano (Anti-Corn Laws League), promossa e gui-
data da un industriale tessile, Richard Cobden, che in seguito si guadagnò
l'appellativo di <<apostolo del libero scambio>>. Sostenuta finanziariame11te
proprio dagli industriali tessili, i più interessati a eliminare ogni ostacolo
all ' esportazione dei loro manufatti, la Lega svolse un'intensa campagna di
propaganda contro il protezionismo granario, riuscendo a conquistare alla
sua causa molti parlamentari sia del partito Whig che del partito Tory.
La carestia e la conseguente miseria del 1845-46, dovute agli scarsi rac-
colti in tutta Europa, convinsero gli uomini di governo, in particolare il
primo ministro Robert Peel, ad abolire, nel 1846, le Corn Laws, lasciando
libertà d'importazione dei cereali. Qualche anno più tardi (1849 e 1859),
vennero revocati anche gli Atti di navigazione, in vigore da due secoli, sic-
ché il trionfo del libero scambio si poté dire completo. Con questa scelta,
l' Inghilterra aveva decisamente puntato sull'industria e sul libero scambio,
convinta dai ragionamenti di Adam Smith e di David Ricardo, che vedeva-
7. La rivoluzione industriale inglese: i problemi 71

no nella divisione internazionale del lavoro e nel commercio estero le uni-


che possibilità di benessere p er tutti i paesi.

7 .6. Libero scambio e sistema capitalistico

Adam Smith (1723-90), nella sua famosa opera La ricchezza delle na-
zioni, pubblicata nel 1776, aveva esaltato il libero mercato, che riteneva
guidato da una <<mano invisibile>>, capace di consentirne l' autoregolamenta-
zione senza bisogno di interventi da parte dello Stato. Smith era convinto
che la ricerca del profitto individuale contribuisse a realizzare anche un
maggiore benessere collettivo e sosteneva che la ricchezza di una nazione
fosse determinata principalmente dal lavoro dei suoi abitanti. Bisognava,
quindi, accrescere la produttività dei lavoratori mediante la divisione del la-
voro a tutti i livelli: nelle fabbriche ( è famoso il suo esempio della fabbrica
di spilli, in cui la lavorazione di uno spillo era stata divisa in diciotto distin-
te operazioni), a livello nazionale fra le diverse fa bbriche e, soprattutto, a
livello internazionale, per consentir e a ogni paese di potersi dedicare a una
specifica attività e scambiare i suoi prodotti con quelli di altri paesi.
David Ricardo (1 772-1823), a sua volta, elaborò il teorema dei <<costi
comparati>> per mostrare la convenienza della divisione internazionale del
lavoro e del commercio internazionale. Per illustrarla brevemente, facciamo
l' esempio di due paesi, che chiameremo paese A e paese B, ognuno dei
quali produce gli stessi due beni. Ricardo sosteneva che, anche se il paese
A fosse riuscito a produrre entra,nbi i beni a costi inferiori di quelli del paese
B, gli sarebbe comunque convenuto sp ecializzarsi nella produzione di un
solo bene (quello in cui era relativamente più bravo) e scambiarlo con l' al-
tro bene, che quindi sarebbe stato prodotto dal paese B. Entrambi i paesi
avrebbero avuto convenienza nella specializzazione, perché il vantaggio
che ne sarebbe derivato sarebbe stato sicuramente maggiore di quello otte-
nuto se ogni paese avesse dovuto produrre entrambi i beni.
D ' altra parte, un economista francese, Jean-Baptiste Say (1767-1832)
aveva proprio allora elaborato una sua teoria, nota con il nome di legge de-
g li sbocchi, che dominò l'economia classica per tutto il secolo XIX e fu poi
smantellata da Keynes. Secondo tale legge è l' offerta che cr ea la domanda,
non solo a livello individuale ma principalmente nel commercio internazio-
nale. Chi vende una merce, difatti, utilizzerà il ricavato per acquistare altra
merce, sicché vi sarà sempre uno sbocco alla produzione. La conclusione di
Say era che in regime di libero scambio non vi potessero essere crisi di
sovrapproduzione.
72 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

Fu fatto notare, allora e in seguito, che la borghesia inglese, la quale


trasse i maggiori vantaggi dall' industrializzazione, adottò una politica libe-
roscambista soltanto quando i benefici del protezionismo si erano esauriti e
la Gran Bretagna non aveva più rivali nella produzione di manufatti. La
crescita del Paese era stata garantita proprio dal mercantilismo, caratteriz-
zato dall' intervento dello Stato in economia e principalmente dal protezio-
nismo. Diventata la prima nazione industriali zzata del mondo e dovendo
esportare i prodotti delle sue manifatture, la Gran Bretagna si poté p erm et-
tere di abbandonare le vecchie politiche e magnificare i vantaggi dell' ini-
ziativa privata e del libero scambio.
Com'è noto, il sistema capitalistico, sorto in Inghilten·a e teorizzato dagli
economisti classici prima ricordati, fu violentemente contestato da Karl
Marx ( 1818-83), autore, assieme a Friedrich Engels ( 1820-95), del <<Manife-
sto del Partito Comunista>> (1848). Marx, pur giudicando il capitalismo più.
progredito del preced ente sistema feudale, lo riteneva destinato a una rapida
fme a causa delle sue stesse contraddizioni interne, come il progressivo im-
poverimento della classe operaia, la caduta tendenziale del saggio di profitto
e le crisi di sovrapproduzione. Secondo Marx, difatti, la classe operaia sa-
rebbe stata sempre più sfruttata e il salario si sarebbe mantenuto intorno al
minimo vitale, corrispondente a quanto serviva a l lavoratore per vivere e ri-
prodursi, ossia per mantenere la propria famiglia. La sostituzione degli ope-
rai con le macchine avrebbe creato una gran massa di disoccupati ( che M arx
chiamava <<esercito industriale di riserva>>), i quali, perciò, si sarebbero ac-
contentati di una retribuzione minima, tenendo bassi i salari. Inoltre, sicco-
me il profitto derivava dallo sfruttamento dei lavoratori (pagati meno del va-
lore del lavoro effettivamente prestato), la loro sostituzione con le macchine
avrebbe comportato una diminuzione tendenziale anche del saggio di profit-
to. Le crisi di sovrapproduzione, infine, avrebbero aggravato la situazione,
portando la classe operaia a ribellarsi e, con la rivoluzione, a instaurare un
regime socialista-collettivistico, in cui i mezzi di produzione non sarebbero
più appartenuti ai privati ma alla collettività attraverso lo Stato.
8.
I SECONDI
FRANCIA E STATI UN ITI

8.1. First corner e second comers

Secondo una convinzione comune, diffusasi nel corso d.e ll'Ottocento e


condivisa anche da Karl Marx, i paesi industrializzati mostravano a quelli
rimasti indietro l'immagn1e del loro futuro. L 'Inghilterra, che aveva ormai
raggiunto la maturità, era il paese da imitare. Qui gli addetti all'industria e
all 'artigianato superavano di gran lunga i contadini, mentre il commercio,
specie quello interno, dava lavoro a moltissime persone, come negozianti,
commessi, venditori ambulanti e agenti di assicurazione. Un vero esercito
erano i domestici al servizio delle famiglie nobili e borghes i, il cui numero
era forse superiore a quello degli operai impiegati nelle fabbriche.
Lo sviluppo inglese era stato spontaneo, lento e graduale. Alla sua rea-
lizzazione avevano contribuito molti attori, in primo luogo gli imprenditori
innovativi. Le banche, come si è visto, ebbero un ruolo importante ma non
propulsivo e lo Stato intervenne relativamente poco, anche se non fu assen-
te, come dimostrano i numerosi provvedimenti economici varati (legge ban-
caria, Libero scambio, legislazione del lavoro e sindacale, ecc.). La graduali-
tà e la sostanziale lentezza del decollo (alcune invenzioni impiegarono anche
trenta o quarant'anni per affermarsi) consentirono un progressivo assorbi-
mento, da parte dei lavoratori e della popolazione, delle innovazioni che co-
minciavano a trasformare il modo di lavorare e di vivere. La Gran Bretagna
non aveva bisogno di accelerare il suo sviluppo perché stava distanziando i
principali paesi europei suoi diretti concorrenti, come risulta dalla tabella 8.1 ,
che riporta le stime di Angus Maddison sul Pil pro capite dei diversi paesi.
La Gran Bretagna era ilfirst corner, ossia il paese decollato per primo e
perciò poté godere di determinati vantaggi, il maggiore d.ei quali fu la sostan-
ziale assenza di concorrenza ai suoi manufatti, che riusciva a produrre a costi
74 La prima rivoluzione inditstriale (1750-1850)

Tab. 8.1. - Livello del Pii pro capite dei principali paesi raffrontato con quello
della Gran Bretagna negli anni 1700, 1820 e 1870

Paesi 1700 1820 1870

Gran Bretagna 100 100 100


Francia 70 58 54
Germania 64 50 52
Stati Uniti 38 59 70
Italia 78 53 43
Paesi Bassi 150 86 79
Belgio 81 62 77

Fonte: Dati tratti da A. Maddison, L 'econo,nia ,nondiale. Una prospettiva millenaria,


Milano, 2005, pp. 389-390 (tab. B.13), 420-421 (tab. B. 2 1) (nostri calcoli).
Nota: I dati di Maddison (utilizzati per questa e per le tabelle successive) sono espressi
in dollari internazionali a prezzi del 1990, ossia in valori costanti (vedi nota p. 342). In que-
sla tabella, il Pil della Gran Bretagna riguarda l' Inghilterra, il Galles e la Scozia.

sempre più bassi. Lo svantaggio era costituito da l fatto che, essendo il pri-
mo paese a percorrere la nuova strada dell'industrializzazione, commise er-
rori, conobbe insuccessi e dovette affrontare problemi sconosciuti, cl1e fu
costretta a risolvere solo per approssimazioni successive.
I paesi ritardatari, che decollarono più tardi (followers, o anche second
comers e fast comers), viceversa, poterono godere di quelli che lo storico sta-
tunitense Alexander Gerschenkron ( 1904-78) ha chiamato i vantaggi del! 'ar-
retratezza, costituiti innanzitutto dalla possibilità di utilizzare le innovazioni
e i processi tecnologici sperimentati dalla Gran Bretagna. Il principale svan-
taggio dei ritardatari, invece, era dato dalla necessità di compiere un grande
sforzo per <<agganciare>> il paese leader, in particolare rea lizzando una rapida
accumulazione con il sacrificio di lavoratori e consumatori. Per indicare que-
sto sforzo, gli economisti ha1mo adoperato il termine catching up.
Secondo Gerschenkron, se in Gran Bretagna esistevano alcuni prerequi-
siti dello sviluppo, i paesi che ne erano privi dovettero ricorrere ai cosiddet-
ti fattori sostitutivi, capaci di svolgere la stessa funzio11e dei prerequisiti. I
principali fattori sostitutivi sarebbero stati le banche e lo Stato, che sosten-
nero e talvolta promossero l'iniziativa privata. Essi consentirono a parecchi
paesi ritardatari di accelerare il ritmo del loro sviluppo.
Agli inizi del Settecento, però, la Gran Bretagna non era il paese più svi-
luppato dell'Europa. I Paesi Bassi facevano registrare, u.n Pii pro capite su-
periore del 50 per cento a quello britannico (vedi tab. 8.1 ). Nel Seicento,
essi erano diventati la nazione più ricca d' Europa, all 'avanguardia in molti
settori. Gli O landesi avevano trasformato in fertile poderi (polders) molte
8. Francia e Stati Uniti 75

terre sottratte al mare mediante la costruzione di imponenti dighe; pratica-


vano l'allevamento del bestiame nelle stalle; avevano una lunga tradizione
nel ramo tessile e in quello delle costruzioni navali, nonché nella raffina-
zione dello zucchero di canna; disponevano di un vasto impero coloniale e
si erano sp ecializzati nel trasporto per conto terzi, tanto che gli Atti di navi-
gaz ione inglesi avevano proprio lo scopo di contrastare la loro potenza; e,
infine, erano ali ' avanguardia nelle operazioni finanziarie, grazie a lla B orsa
1
, alle banche e alle compagnie di assicurazione. N el Settecento, però, la

piccola Olanda, che nel 1820 contava meno di 2,4 milioni di abitanti, non
fu in grado di r esister e all'ascesa d.e i suoi grandi vicini, soprattutto Inghil-
terra e Francia. Alcune delle sue attività, come l' agricoltura, la fmanza e
qualche ramo industriale furono in grado di resistere, mentre altri, come le
industrie tessili, le costruzioni navali, il trasporto per conto terzi e il com-
mercio estero decaddero, schiacciati da lla concorrenza inglese.
Con la decadenza dell'Olanda, la Gran Bretagna non ebbe più rivali e il
suo modello di sviluppo fu imitato dagli altri paesi europei. Fra costoro
spicca il piccolo Belgio (circa 3,5 milioni di abitanti nel 1820), che fu il
primo Stato dell 'Europa continentale ad adottare pienamente il modello in-
dustriale britannico e verso la metà dell' Ottocento era la nazione più indu-
strializzata d.e l continente.

8.2. Fattori favorevoli e sfavorevoli allo sviluppo economico francese

L ' industrializzazione francese fu molto meno evidente di quella inglese.


Si è anche parlato di un modello francese d' industrializzazione, caratterizzato
da un ritmo di crescita più lento, da lla permanenza dell 'agricoltura, dalla pre-
valenza di medie e piccole imprese e da una maggiore presenza dello Stato.
Lo sviluppo francese avrebbe avuto una sua <<tipicità>> e avrebbe prodotto, sul
lungo periodo, risultati non meno positivi di quelli britannici.
Verso la metà secolo XVIII, la Francia aveva una popolazione più che
tripla rispetto a quella britannica, un grande mercato interno, un' agricoltura
generalmente fiorente e una buona tradizione di manifatture. Secondo alcu-
ni studiosi, essa possedeva i prerequisiti per potersi sviluppare almeno con-
temporaneame11te alla Gran Bretagna. E infatti nella seconda metà del Set-
tecento realizzò buoni progressi. Ma il secolo terminò con la Gran Bretagna
1
La Borsa è il luogo (o mercato) in cu i si trattano merci (Borsa merci) o titoli (Borsa
valori). I titoli trattati nelle Borse valori sono azi oni di società oppure titoli pubblici (emessi
dallo Stato o da altri enti pubblici) o titoli privati (obbligazi oni emesse dalle società per ot-
tenere prestiti).
76 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

impegnata nella rivoluzione industriale e con la. Francia sconvolta dalla ri-
voluzione politica e sociale, e ciò, probabilmente, influenzò in modo de-
terminante il destino dei due paesi.
Le ragioni per le quali la Francia rimase indietro sono numerose e si
possono compendiare in una serie di/attori sfavorevoli allo sviluppo:
a) un lungo periodo di guerra. La Francia rivoluzionaria e napoleonica
dovette combattere le potenze europee coalizzate contro di essa per quasi
un quarto di secolo (1792- 1815); la guerra fu combattuta sul continente eu-
ropeo e sui mari e impose alla Francia un costo umano e materiale assai su-
periore a quello sopportato dagli Inglesi, distogliendo peraltro molti più uo-
mini dal lavoro della terra e dalle officine. Né va dimenticato che la Francia
subì, dopo la fine delle gue1Te napoleoniche, diverse insurrezio1ù politiche,
sicuramente più numerose di quelle della maggior parte dei paesi europei,
fra cui le rivoluzioni del 1830 e del 1848;
b) una modesta crescita demog,-afica. La popolazione francese aumentò,
fra metà Settecento e metà Ottocento, da 20 a 36 milioni, con un incremen-
to del l'80 per cento, mentre quel la britannica si triplicava; la popolazione
non solo cresceva poco ma diventava anche più vecchia, tanto che a metà
Ottocento, la percentuale di sessantenni era più elevata in Francia ( l 0,2 per
cento) rispetto all'Inghilterra e alla Germania ( entrambe al 7,5 per cento).
La popolazione, infine, fu trattenuta nelle campagne, anche per la prevalen-
za della piccola proprietà contadina, e non si registrarono, come altrove,
consistenti flussi di emigrazione; anzi, fm da allora la Francia cominciò ad
accogliere immigrati dai paesi vicini. Insomma, l'assenza di pressione de-
mografica ebbe un effetto negativo sullo sviluppo economico, perché ral-
lentò sia la domanda globale sia l' offerta di manodopera;
c) l'insufficienza di risorse naturali, in particolare di carbone e minerali
di ferro. Fra le naz ioni della prima industrializzazione la Francia era sicu-
ramente quella meno ricca di carbone e perciò fu costretta ad affidarsi prin-
cipalmente a ll 'energia idraulica e a importare almeno un terzo del carbone
di cui aveva bisogno; anche i minerali di ferro erano scarsi e, per giunta,
vennero scoperti molto tardi.
Lo svi luppo economico francese, però, poté contare su alcuni fattori fa-
vorevoli, che furono principalmente istituzionali, scientifici e tecnici:
a) la Rivoluzione francese. Se per un verso la Rivoluzione ritardò lo svi-
luppo, per altri versi lo favorì, perché spazzò via in breve tempo l' ancien ré-
gime, soprattutto mediante la liquidazione della feudalità, la fme del sistema
delle corporazioni di mestiere e l'affermazione della piena proprietà indivi-
duale della terra; si soppressero i dazi interni e si consentì a merci, uomini e
capitali di spostarsi liberamente su tutto il ten·itorio nazionale, mentre il nuo-
8. Francia e Stati Uniti 77

vo sistema metrico decimale contribuì a faci litare gli scambi. Quasi certa-
mente, questi risultati si sarebbero conseguiti anche senza la Rivoluzione e
senza i sacrifici che essa impose alla popolazione, poiché molte riforme era-
no già state awiate in precedenza. D 'altra parte, la macchina a vapore, le fer-
rovie e i piroscafi avrebbero fmito per eliminare gli ostacoli che si opponeva-
no allo sviluppo, ma la Rivoluzione ebbe il merito di chiudere definitivamen-
te con il passato e di farlo in un tempo relativamente breve e, inoltre, esportò
le sue idee, le sue riforme e le sue istituzioni in molti paesi europei;
b) l'insegnamento e la ricerca. La Rivoluzione e l' Impero ebbero anche
il merito di riformare l'insegnamento e la ricerca, puntando sullo studio
della matematica e della fisica; la Francia era stato il primo paese a fondare
una scuola d' ingegneria (1747), quella dei Ponti e delle strade, alla quale,
durante la Rivoluzione, si aggiunsero il Politecnico, la Scuola Normale Su-
periore e altre istituzioni simili, che attirarono studenti stranieri per appren-
dervi le nuove tecniche e furono imitate da altri paesi; per molto tempo, gli
ingegneri francesi furono richiesti per realizzare grandi opere all' estero;
c) l'opera dei sansimoniani. Considerati gli apostoli delJ' <<industriali-
smo>>, termine da essi stessi coniato, i sansimoniani, seguaci di Claude Henry
de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), assegnavano una funzione
trainante a scienziati e industriali e inneggiavano al progresso scientifico, ri-
tenuto capace di assicurare la felicità all'umanità. Essi costituirono un gruppo
molto influente nella società francese e si dedicarono a numerose attività. A
loro, difatti, si devono la costruzione del canale di Suez, la creazione di nu-
merose banche e la costruzione delle prime linee fen·oviarie.

8.3. Le attività produttive in Francia

La Francia rimase, durante la prima rivoluzione industriale, un paese


fortemente legato a ll'agricoltura, con il 64 per cento della popolazione atti-
va ancora impiegata nel settore primario a metà Ottocento, quando in In-
ghilterra si era ridotta al 20 per cento. Non bisogna dimenticare che la
Francia era la patria della fisiocrazia, ossia di quella scuola di pensiero che
faceva capo al medico François Quesnay (1694-1774) e che, in opposizione
al mercantilismo, predicava le virtù dell' agricoltura. I fisiocratici, che furono
i primi studiosi ad essere chiamati <<economisti>>, ritenevano che la ricchez-
za di una nazione si fondasse sull'agricoltura. Solo essa era in grado di for-
nire il <<prodotto netto>>, ossia un sovrappiù, mentre le altre attività erano ri-
tenute <<sterili>>, in quanto si limitavano alla trasformazione dei beni (indu-
stria e artigianato) o al loro trasporto da un luogo all'altro (commercio).
78 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

La Rivoluzione francese contribuì notevolmente al consolidamento della


piccola proprietà contadina, che già caratterizzava l'economia agraria di
quel Paese. I contadini, difatti, furono liberati dai pesi di origine feudale che
ancora li opprimevano (piccoli censi in denaro o in natura, corvées, diritti
bannali, ecc.) e diventarono proprietari delle terre che coltivavano. Inoltre,
durante la Rivoluzione, furono messi in vendita i beni confiscati alla Chiesa e
ai nobili fuggiti all'estero, che andarono ad incrementare il numero dei picco-
li proprietari, mentre l'abolizione delle decime liberò i contadini dall'obbligo
di versare una parte del raccolto al clero.
La prevalenza della piccola proprietà, però, costituiva un ostacolo a un ul-
teriore sviluppo agricolo. Il contadino francese era attaccato ai vecchi metodi
di coltivazione ed era ritenuto conservatore, ostinato, individualista, pru-
dente nello spendere e poco dedito al lusso e allo spreco. Pure chi avrebbe
voluto praticare un'agricoltura più razionale, a volte doveva rinunziarvi
per mancanza di capitali e, se ne disponeva, spesso preferiva impiegarli nel-
l' acquisto di altre terre e non nei miglioramenti agricoli.
L'industria fu caratterizzata anch'essa dalla prevalen.z a di piccole impre-
se, specialmente quella siderurgica che, assieme all'industria tessile, costitui-
va una delle due industrie traenti anche in Francia. Queste industrie erano si-
curamente più arretrate di quelle inglesi e, perciò, si servirono in larghissima
misura delle tecniche importate dalla Gran Bretagna. Inoltre furono sostenute
dallo Stato, che incentivò inventori e industriali inglesi a trasferirsi in Fran-
cia. Ma i Francesi seppero dare un loro originale contributo al perfeziona-
mento delle macchine, inventando, per esempio, il famoso meccanismo Jac-
quard (1806), così detto dal nome del suo ingegnoso inventore Joseph-Marie
Jacquard, che ebbe una rapida diffusione. Si trattava di un dispositivo appli-
cato al telaio o al le macchine da maglieria, che consentiva di realizzare dise-
gni sulla stoffa o sulla maglia mediante l'uso di cartoni perforati. La Francia,
inoltre, vantava un'antica tradizione nelle industrie del lusso, rivolte a soddi-
sfare i bisogni dei ceti più ricchi e raffinati, come quelle della seta, dei panni
e delle tele fini, del mobilio, della moda, dell'a1redamento e delle porcellane.
Le riforme attuate durante il periodo rivoluzionario e l' impero napoleo-
nico favorirono l'attività industriale. La Rivoluzione abolì le corporazioni
(1791) e concesse piena libertà al mercato del lavoro. Fu approvata (1791)
la legge Le Chapelier (dal nome del deputato che l' aveva proposta), che
vietava qualsiasi associazione di lavoratori e di imprenditori, come faranno
poco dopo i Combination Acts in Gran Bretagna. In Francia, però, il divieto
rimase in vigore fin oltre la metà dell'Ottocento, s icché il movimento ope-
raio, non potendosi sviluppare in senso sindacale, assunse un carattere deci-
samente politico e rivoluzionario e si legò al movimento socialista.
8. Francia e Stati Uniti 79

I Codici napoleonici, ossia il Codice civile (1804) e il Codice di com-


mercio (1807), fondati sui principi dell'uguaglianza di tutti i cittadini, della
libertà, della proprietà individuale e della libera iniziativa, regolarono con
chiarezza i rapporti fra gli individui e quel li relativi a ll'attività economica.
Ma non sancirono l'uguaglianza fra i datori di lavoro e i loro dip endenti,
perché, in caso di controversia sui salari e sulla loro corresponsione, la di-
chiarazione giurata dell'imprenditore prevaleva sulla parola del lavoratore,
norma che rimase in vigore fino al 1868.
U11' importanza rilevante per l'industrializzazione e per lo sviluppo eco-
nomico, lo ebbe, in Francia, il sistema dei trasporti, basato principalmente,
fino all'avvento delle ferrovie, sulla rete stradale. Nel Settecento, la costru-
zione e la riparazione delle strade erano affidate agli abitanti delle zone at-
traversate, che dovevano provvedervi con prestazioni di lavoro gratuito. In
seguito fu adottato, come in Inghilten·a, il sistema delle strade a pedaggio e,
a metà secolo XIX, la Francia arrivò a possedere il migliore sistema sh·ada-
le d'Europa. I mezzi di trasporto, però, erano lenti e inadeguati e le vie flu-
via li non erano molto sviluppate, perché solo la Senna e qualche altro fiume
erano navigabili e i canali non raggiunsero il livello di efficienza di quelli
inglesi. Le ferrovie si diffusero con lentezza. La prima linea, che congiunse
Lione con Saint-Etienne è del 1832 e, a metà secolo, la Francia non rag-
giungeva i 3. 000 chilometri di strade ferrate, ossia la metà della rete tedesca
e meno di un terzo di quella britaruùca.
La fondazione della Banca di Francia, nel 1800, fu un altro elemento
che contribuì allo sviluppo economico. Napoleone, pur non amando i ban-
chieri, favorì la costituzione della Ba11ca di Francia, una società privata, au-
torizzata, fra l' altro, ad emettere <<moneta ausiliare>>, cioè banconote. Napo-
leone la sottopose al controllo dello Stato, riservandosi la nomina del go-
vernatore e dei due sottogovernatori. Essa contribuì a diffondere l'uso delle
banconote, verso le quali i Fra11cesi rimasero a lungo diffidenti, attaccati
com 'erano al la vecchia, buona moneta sonante, e dal 1848 divenne l 'u.nico
istituto di emissione. Anche se sottoposta al controllo del governo, la Banca
era comunque una società privata, dominata da un paio di centinaia di azio-
nisti, in prevalenza banchieri, appartenenti a quella schiera di solide case
bancarie che furono note con il nome di <<alta banca>> (haute banque).

8.4. La nascita di un paese libero e nuovo: gli Stati Uniti d'America

Lo sviluppo economico degli Stati Uniti fu diverso sia da quello inglese


sia da quello francese. Fu rapido e spettacolare e si svolse secondo un model-
80 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

lo ni,ovo e originale, caratterizzato dall'esistenza di u.n ten·itorio immenso,


ricco di risorse e praticamente spopolato, da un uso delle macchine molto più
ampio che in Europa, da un' elevata produttività e da un mercato interno in
continua espansione. Il decol lo degli Stati Uniti è stato collocato fra il 1840 e
il 1860, anno in cui essi erano ormai il secondo paese più industrializzato del
mondo, preceduti soltanto dalla Gran Bretagna, che si apprestavano a supera-
re entro la fme del secolo (vedi tabb. 8. 1 e 14.2).
Al momento della loro costituzione, gli Stati Uniti si presentavano come
un paese libero e nuovo. Erano un paese libero, per diversi motivi: non co-
nobbero né il feudalesimo né le corporazioni, i primi emigranti avevano scel-
to la libertà contro l'oppressione religiosa o politica subita in patria e non vi
erano classi privilegiate o interessi precostituiti che - come in Europa - si
opponessero ai cambiamenti, ma prevaleva una classe media (middle class),
convinta che non vi dovesse essere alcun ostacolo alla crescita sociale ed e-
conomica di ogni individuo. La libera iniziativa era garantita, poiché l ' assen-
za delle corporazioni consentiva a chiunque di intraprendere una qualsiasi at-
tività lavorativa. La stessa Guerra d'indipendenza (1775-83) era scaturita da
un moto di libertà, perché le tredici colonie inglesi si erano ribellate alla poli-
tica mercantilistica della madrepatria, che imponeva una serie di vincoli alla
libera espansione della loro attività economica (limitazione delle produzioni
che potessero fare concorrenza alla madrepatria, trasporto delle merci solo su
navi inglesi, ecc.). Gli Stati Uniti, perciò, nacquero all'insegna della libertà,
sancita dalla dichiarazione d' indipendenza e dalla costituzione.
Gli Stati Uniti erano anche un paese nuovo, cioè sconosciuto e dotato di
grandi risorse, che bisognava popolare, colonizzare e industrializzare. Il po-
polamento fu molto rapido. I quattro milioni di abitanti del 1790 erano diven-
tati più di 31 milioni nel 1860. La popolazione si era raddoppiata ogni venti-
tré anni, all' incirca come aveva ipotizzato Malthus, grazie principalmente
all'eccedenza delle nascite sulle morti e, solo in parte, per i nuovi arrivi
dall'Europa. L' immigrazione, difatti, fmo alla Guerra di secessione, non ebbe
l'importanza che invece rivestì in seguito, anche se almeno cinque milioni di
persone giunsero in America fra il 1820 e il 1860.
La popolazione americana era anche molto giovane: nel 1850, solo meno
del 4 per cento degli abitanti aveva più di sessant'anni, p ercentuale molto più
bassa di quelle francese, i11glese e tedesca. Essa era anche più istruita, poiché
la necessità di leggere la Bibbia induceva i protestanti a prestare particolare
attenzione all' istruzione. Fin dall' epoca coloniale furono aperte scuole in
ogni città e il principio dell' insegnamento gratuito e obbligatorio per la popo-
lazione bianca si affermò prima che nei paesi europei, tanto che, intorno al
1860, più del 90 per cento dei bianchi era in grado di leggere e scrivere.
8. Francia e Stati Uniti 81

8.5. La colonizzazione e il mito della frontiera

Al momento dell' indipendenza, gli Stati Uniti avevano la grande op-


portunità di estendersi verso occidente, dove vi erano immensi territori da
colonizzare. La colonizzazione dell'Ovest e il <<mito della frontiera>> hanno
avuto un' importanza notevole nella storia politica ed economica di quel
Paese. Anzi, si può affermare che la frontiera fu un potente fattore di svi-
luppo degli Stati Unititi per l' intero secolo XIX. Nell' Ovest vi era terra in
abbondanza da coltivare o da destinare al pascolo, vi erano giacimenti di
carbone ( e poi anche di petrolio), vi erano foreste, r isorse idriche, bisonti,
animali da pelliccia, laghi, fiumi e un oceano ricco di pesce e vi erano an-
che l' oro e l' argento.
La frontiera, ossia quello spazio che delimitava le zone colonizzate da
quelle ancora da colonizzare, era in continuo movimento verso occidente, a
mano a mano che gli Stati Uniti s' ingrandivano. Nel 1803 il territorio rad-
doppiò, in seguito all' acquisto della Louisiana, territorio francese ceduto da
Napoleone. Seguirono l'annessione della F lorida, acquistata da lla Spagna
(1819), e poi quelle del Texas, del Nuovo Messico e della California, sot-
tratti al Messico (1845-48) (vedi fig. 8. 1).
Dapprima la frontiera interessò il Midwest o Middle West (Medio Ovest),
ossia le regioni del Nordovest fra i Grandi Laghi e le Montagne Rocciose, e
successivamente il Far West (Lontano Ovest), vale a dire le grandi pianure
a occidente del Mississippi fino all'Oceano Pacifico. L'avanzata dell'uomo
bianco distrusse la povera economia dei pellerossa, basata essenzialmente
sulla caccia al bisonte, da cui traevano cibo e pelli. Gli indiani furono con-
tinuamente scacciati dai loro territori e costretti a vivere in aree d.e limitate
(riserve). Nel 1860 il loro numero - in origine forse non più di un milione -
si era ridotto a circa 300 mila individui e diminuì ancora per le spietate
guerre (1864-90) condotte contro di loro dal governo americano. Le terre
dei nuovi territori fu rono messe in vendita a prezzi relativamente bassi ma a
grandi lotti, che con il tempo vennero continuamente ridotti, per consentir-
ne l' acquisto anche a chi disponeva di mezzi limitati.
Secondo Frederick J. Turner (1861-1 932), lo storico della frontiera ameri-
cana, la colonizzazione dell'Ovest si svolse in quattro tappe, che si possono
' .
cosi riassumere:
a) prima tappa: nelle terre di frontiera giungono i primi pionieri, che sono
cacciatori, mercanti o missionari e contribuiscono (specialmente i caccia-
tori di castoro) all' esplorazione dei territori del Midwest;
b) seconda tappa: a1Tivano gli allevatori di bovini e ovini, che praticano
l'allevamento brado su vaste estensioni di terra;
82 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

Fig. 8.1. - L 'espansione territoriale degli Stati Uniti

CANADA
EGON
ceduto Ila
I Gran Bre nll
nel 1846

ceduta da
Bonapane
CALIFORNIA nèl 1803 Territorio
ceduta dal acquisito con ;
Messico Ti
nel 1848

TEXA
annesso nel ~ ' - -...
1845
territorio
ceduto dal
Messico
nel 1853 ceduta diii/a
Spagna
ne/ 1811
MESSICO

Fonte: Atlante Storico Zanichelli, Bologna, 2007, p. 221.

c) terza tappa: giungono gli agricoltori, che dissodano le te1Te fra non
poche difficoltà, dal momento che, fra l'altro, ignorano la composizione del
terreno e le condizioni climatiche della zona;
d) quarta tappa: s'insedia la vita urbana e sorgono città con grandi edifici
di mattoni, scuole, tribunali e chiese, giungono uomini provvisti di capitali e
di spirito imprenditoriale e tutta la regione conosce un rapido sviluppo.
La successione ricordata (cacciatore-allevatore-agricoltore-vita urbana)
non era sempre così rigorosa e molto spesso la prima tappa fu quella
dell' agricoltore.
Turner, che scriveva verso la fine dell'Ottocento, riteneva che lo spirito
della frontiera avesse contribuito a modellare il carattere americano. Le
condizioni di vita resero gli uomini della frontiera egualitari, individualisti e
intraprendenti, non privi di una certa rozzezza e tolleranti verso la violenza.
I coloni, comunque, dovevano disporre di una certa somma per affrontare il
lungo viaggio verso l'Ovest, acquistare la terra e vivere fino al primo raccol-
to di grano o di granturco, che in genere non era abbondante. Solo dopo due
o tre anni riuscivano ad avere eccedenze da vendere sul mercato. Potevano
contare, però, sull'aiuto di numerose banche, sorte dappertutto nei territori
di nuova colonizzazione, grazie a una legislazione molto permissiva. Di so-
lito esse avevano una sola sede e concedevano prestiti anche con propri bi-
8. Francia e Stati Uniti 83

glietti, assumendo il carattere di banche di emissione. Ne nacquero moltis-


sime, che fmanziarono i coloni, alle cui fortune sp esso legarono le loro sorti:
se i coloni rimborsavano i prestiti ottenuti, anche le banche prosperavano,
altrimenti potevano fallire e i loro biglietti perdevano ogni valore. Alla vigi-
lia della Guerra di secessione (1861-65) vi erano in circolazione circa 7 .000
diversi tipi di biglietti, emessi da 1.600 banche. I pionieri spesso vendevano
le loro fattorie ( o erano costretti a venderle, qu.ando non potevano rimborsa-
re i debiti alle banche) e ripartivano per mettere a coltura nuove terre più a
occidente. Alcuni pionieri fecero questo viaggio per cinque o sei volte nella
loro vita, diventando dei veri esperti della colonizzazione.
Turner elaborò anche la teoria della valvola di sicurezza, secondo la
quale la possibilità di spostarsi verso l' Ovest avrebbe allentato le tensioni
sul mercato del lavoro nell'Est ind.ustrializzato. Difatti, coloro che partiva-
no verso l' Ovest lasciavano posti di lavoro disponibili, facendo diminuire la
possibilità di uno sfruttamento eccessivo della manodopera.

8.6. La prima industrializzazione degli Stati Uniti

L'industrializzazione degli Stati Uniti fu caratterizzata dall'esistenza di un


mercato in continua espansione, dall' introduzione di nuove macchine e dalla
produzione di massa.
1. La formazione del mercato interno. La costituzione di un vasto merca-
to, anche per poter sfruttare in pieno le enormi ricchezze americane (terre e
risorse naturali), richiedeva di risolvere innanzitutto il problema dei trasporti.
Le strade, che pure furono costruite, specialmente nel Nordest, non riusciva-
no a garantire, per le grandi distanze, un efficiente collegamento fra la costa
atlantica e l' interno del Paese. Molto più adeguate allo scopo si rivelarono,
anche in America, le vie d 'acqua interne, specialmente dopo l' introduzione
(1811) dei battelli a vapore sul Mississippi e la costruzione della rete di cana-
li che collegavano fiumi e laghi, come il canale Eire (1825), di quasi 600 chi-
lometri, che congiungeva New York alla regione dei Grandi Laghi. Le ferro-
vie si rivelarono subito determinanti per la creazione di un grande mercato.
Nel 1850 erano già stati costruiti 14.500 chilometri di strade ferrate, ma nel
decennio successivo la rete si triplicò, giungendo a quasi 50 mila chilome-
tri. Molte linee avevano un andamento est-ovest (ferrovie di penetrazione) e
collegavano la costa atlantica con il bacino del Mississippi. La loro costru-
zione richiese parecchi capitali, che per la maggior parte vennero dall' e-
stero, in particolare dall'Inghilterra. Il governo federale e i governi d.e i sin-
goli Stati favorivano le compagnie ferroviarie in ogni modo, per esempio
1. La rivoluzione industriale 13

che erano rimasti indietro, mentre le economie delle diverse aree mondiali
diventavano sempre più interdipendenti per via della globalizzazione.
La rivoluzione industriale fu una rivoluzione europea. Gli storici si sono
inten·ogati sulle ragioni per le quali essa non si realizzò in altre parti del
mondo, dove pure esistevano antiche civiltà, che avevano dato un contribu-
to alle co11oscenze scientifiche e tecnologiche. In Cina, per esempio, erano
state inventate la carta, la stampa, la polvere da sparo, la carriola, la bussola
e la porcellana; nei paesi islamici si erano affermate, nel M edioevo, una
scienza e una tecnologia più avanzate di quelle europee e in India si era dif-
fusa, nel Seicento, un'industria tessile a domicilio capace di esportare i suoi
prodotti in altri paesi asiatici e persino in Europa.
Evidentemente, però, fu in Europa che si verificarono le condizioni più
favorevoli per lo sviluppo della scienza, della tecnica e d.ell' iniziativa eco-
nomica. Esse possono essere così schematicamente riassunte:
a) la visione del niondo degli Europei, che fu certamente lo stimolo più
potente allo sviluppo; essi avevano maturato una crescente fiducia nelle ca-
pacità dell'uomo di dominare la natura e di servirsene a suo vantaggio e a
ciò aveva contribuito anche la posizione del cristianesimo sul lavoro e sul
rapporto fra l' uomo e la natura: non aveva forse Dio - come si legge nella
Bibbia - ingiunto all'uomo di guadagnare il pane con il sudore della sua
fronte e non gli aveva dato il dominio su tutte le altre creature, sulle piante e
sulla terra, che egli era autorizzato ad assoggettare per il suo sostentamento?
b) la frammentazione politica europea, con tanti Stati grandi e piccoli,
che in qualche modo favorì la competizione fra di loro, dapprima nelle sco-
perte geografiche e nella conquista del Nuovo Mondo, e poi nel campo eco-
nomico, stimolando lo sviluppo;
c) la Riforma protestante, che fornì una giustificazione ali'arricchimen-
to, considerando il successo e la ricchezza raggiunti dall'uomo probo e la-
borioso un segno della benevolenza divina, poiché egli aveva seguito la
<<vocazione>> a cui era stato chiamato da Dio; com'è noto, l'etica protestan-
te sarebbe stata, secondo M ax Weber, il famoso economista e sociologo te-
desco (1864-1 920), la ragione per la quale i paesi che avevano aderito alla
Riforma, in particolare al calvinismo, riuscirono a svilupparsi più rapida-
mente dei paesi legati al cattolicesimo, sempre sospettoso verso l' accumu-
lazione individuale della ricchezza;
d) la partecipazione democratica dei cittadini al governo del paese, che
si stava diffondendo in Europa, a partire dalla Gran Bretagna, e che consen-
tiva quanto meno ai ceti borghesi di difendere e sostenere i propri interessi
economici e di lottare contro i privilegi e gli abusi delle classi privilegiate;
le imposte, per esempio, non erano più arbitrarie, ma dovevano essere fissa-
84 La prima rivoluzione industriale (1750-1850)

cedendo loro a basso prezzo vaste strisce di terra (spesso larghe fino a 35
chilometri) ai lati delle strade ferrate, che poi esse rivendevano con ottimi
profitti quando i territor i attraversati erano colonizzati.
2. Il macchinismo. Come in Europa, le prime manifatture si giovarono
della tecnologia inglese, ma vi furono anche numerosi apporti originali da
parte degli Americani, come il telegrafo, inventato da Samuel Morse ( 1840),
e la macchina per cucire, dovuta a Elias Howe (1846). Diversi imprenditori
seppero sfruttare queste innovazioni e fondarono le prime grandi imprese,
favoriti dalla legislazio11e americana, che non prevedeva apprendistato o li-
cenze per iniziare una qualsiasi attività produttiva. La ragione per la quale
gli Stati Uniti fecero un notevole uso di macchine è che in quel grande Pae-
se la manodopera risultava insufficiente per assicurare lo sfruttamento delle
immense risorse disponibili. I salari erano mediamente superiori a quelli
europei e, perciò, risultò conveniente rimpiazzare il lavoro degli uomini
con le macchine, mentre in Europa esse erano ostacolate dagli operai che
temevano di perdere il lavoro.
3. Il sistema americano di produzione. Le innovazioni americane più im-
portanti furono la standardizzazione dei prodotti e la catena di montaggio,
tese a ridurre il costo dei manufatti, soprattutto risparmiando manodopera. Eli
Whitney, inoltre, introdusse (1800) il sistema dei pezzi intercambiabili, gra-
zie al quale cominciò a costruire armi con p ezzi standardizzati e intercambia-
bili. La catena di montaggio consentiva di ottenere oggetti composti di singo-
li pezzi, in modo tale che, se si rompeva un pezzo, poteva essere sostituito
senza dover buttare via l'intero oggetto danneggiato, come avveniva in pre-
cedenza. Questo modo di produ1Te, detto sistema americano, si diffuse suc-
cessivamente in tutto il mondo e venne applicato a molti processi produttivi
(biciclette, macchine per scrivere, automobili, ecc.). La produzione di massa
diventava possibile e la società americana, giovane e con una struttura sociale
flessibile, si mostrò particolarmente adatta ad accogliere prodotti standardiz-
zati, al contrario di quella europea, che preferiva prodotti artigianali di qualità.
A poco a poco si determinò, negli Stati Uniti, una divisione del lavoro
su base geografica, con la formazione di tre aree disti11te: l'Est industriale,
l' Ovest agricolo e il Sud produttore di cotone, coltivato in grandi pianta-
gioni con schiavi negri. L'Ovest inviava i suoi prodotti agricoli al Sud at-
traverso il Mississippi, il Sud spediva il cotone dai suoi porti verso il Nord
e verso l'Europa e l'Est vendeva i suoi manufatti all' Ovest.
PARTE SECONDA

LA SECONDA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE
(1850-1950)
9.
LE FASI
DELLA CRESCITA
(1850-1914)

9.1. I dati della crescita

La seconda rivoluzione industriale si concentrò sostanzialmente nel pe-


riodo compreso fra metà Ottocento e Prima guerra mondiale (o Grande
guerra, come fu chiamata a ll' epoca), ma proseguì anche successivamente
sino alla fine del secondo conflitto mondiale. In questo e nei capitoli suc-
cessivi saranno trattati prevalentemente gli anni compresi fra il 1850 e il
1914, mentre il periodo successivo sarà esaminato nei capitoli 19-22.
L' economia dei vari paesi del mondo era, verso la metà del secolo XIX,
complessivamente ancora caratterizzata dalla prevalenza del settore prima-
rio, con un'agricoltura che molto spesso riusciva semplicemente a mantene-
re chi coltivava la ten·a. Le aree a1Tetrate prevalevano di gran lunga su quel-
le sviluppate. Ma, dalla metà dell' Ottocento alla Grande guerra si registrò
uno sviluppo economico senza precedenti, che interessò i paesi più progre-
diti ed ebbe effetti in molte zone del Pianeta. In seguito, la crescita rallentò
sia per le due guerre mondiali sia per la Grande depressione degli anni
Trenta del Novecento.
La crescita economica a livello mondiale fino al 1914 risulta evidente
se si osservano gli indicatori riportati nella tabella 9 .1. La produzione di
generi alimentari, come il grano e le patate, e l' allevamento bovino (e quin-
di carne e latte), crebbero in misura molto superiore a ll'incremento della
popolaz ione. Anche la disponibilità di fonti di energia, come il carbon f os-
sile e il petrolio, aumentò in misura eccezionale (14 e 800 volte), special-
mente il petrolio che a metà Ottocento era quasi sconosciuto. Da notare, in-
fine, l' estensione delle reti ferroviarie, che coprirono soprattutto l'Europa e
gli Stati Uniti, crescendo di ben 31 volte.
L ' economia europea e quella americana si trasformarono in profondità.
L'industria divenne il settore più importante e la. borghesia assunse il ruolo
88 La seconda rivoluzione industriale (185 0-195 O)

Tab. 9.1. - Alcuni principali indicatori dell'economia mondiale nel 1850 e


11el 1914

Indicatori 1850 19 14 Crescita di n volte

Popolazione mondiale (miliardi) 1,3 1,8 1,4


Grano (milioni di quintali) 450 1.124 2,5
Patate (milioni di quintali) 58 1.095 19
Cotone (milioni di quintali) 5 55 l1
Bovini (milioni di capi) 200 482 2,4
Ra1ne, nlinerale (migliaia di tonnellate) 57 1.000 17,5
Carbon fossile (milioni di tonnellate) 100 1.400 14
Petrolio (1nigliaia di tonnellate) 67 53.539 800
Strade ferrate ( chilometri) 35. 000 1.081.000 31

di classe dominante, impadronendosi del potere politico o esercitandolo as-


sieme alle vecchie élites aristocratiche. La crescita non fu uniforme e si al-
ternarono, oltre a numerose crisi cicliche (Juglar), lunghe fasi di espansione
e di recessione. Fino al 1914, le fasi di espansione furono due, mentre quel-
la recessiva fu una soltanto, sicché l' intero periodo fu complessivamente
caratterizzato dallo sviluppo dell'economia.

9.2. L'espansione di metà secolo

U11a prima fase di espansione (fase a del ciclo Kondratieff) va dal 1848
al 1873 e fu contraddistinta dall' incremento dei prezzi, dei salari e dei pro-
fitti. In generale, se un eccessivo aumento dei prezzi, ossia una forte infla-
zione, crea problemi all'economia, un loro incremento moderato e regolare
consente alle imprese di realizzare buoni profitti e quindi di aumentare i sa-
lari e di effettuare maggiori investimenti. L'aumento dei salari permette ai
lavoratori d' incrementare i consumi, con vantaggio p er la produzione e per
la vendita di molti beni, mentre la possibilità di effettuare maggiori inve-
stimenti fa sviluppare l' attività produttiva e, per conseguenza, anche l' occu-
pazione. Le imprese, inoltre, conseguono utili più elevati e perciò, potendo
contare su maggiori disponibilità, corrono minori rischi di fallimento nei
momenti di crisi.
Nel periodo in esame vi fu un rapido sviluppo di tutti i settori, alimentato
dal libero scambio, dallo sviluppo dei trasporti e dalla disponibilità di oro.
1. L 'affermazione del libero scambio. Esso fu adottato da quasi tutti i pae-
si europei, che seguirono l'esempio della Gran Bretagna, se non nelle moda-
9. Le/asi della crescita (1850-1914) 89

lità di attuazione, sicuramente nei principi ispiratori. La Gran Bretagna, di-


fatti, aveva applicato tariffe doganali che colpivano solo una cinquantina
di prodotti (per lo più di carattere voluttuario), lasciando libertà d ' impor-
tazione per tutti gli altri. I governi europei, a cominciare da quello france-
se, preferirono ricorrere ai trattati commerciali, che fissavano i dazi che i
paesi contraenti avrebbero reciprocamente applicato alle merci che si
scambiavano. I trattati contenevano, in genere, la clausola della nazione
più favorita, un modo molto efficace per ampliare il commercio interna-
zionale e diffondere il libero scambio. La clausola imponeva ai paesi con-
traenti una reciproca estensione a loro favore delle condizioni più vantag-
giose che ciascuno di essi avesse eventualmente stabilito con un altro pae-
se. Si faccia l' esempio di un trattato tra Fra11cia e Inghilterra che preveda il
pagamento di un dazio di 1O centesimi sulle stoffe importate dall' Inghilter-
ra. Se il trattato contiene la clausola della nazione più favorita e se, in se-
guito, la Francia stipula un trattato con la Prussia, secondo il quale le stof-
fe prussiane pagano un dazio di soli 6 centesimi, immediatamente, in virtù
della clausola, anche l'Inghilterra pagherà 6 centesimi, perché la Francia si
è impegnata a trattarla alla stregua della <<nazione più favorita>>, che ora è
la Prussia. Lo stesso avviene se l' Inghilterra stipula condizioni più favore-
voli con un altro paese.
2. Lo svilitppo dei niezzi di trasporto. La rete ferroviaria mondiale, fra
il 1850 e il 1880, aumentò di dieci volte, passa11do da 35 a oltre 350 mila
chilometri. Contemporaneamente si sviluppò anche la navigazione marit-
tima, svolta ancora in prevalenza con navi a vela molto perfezionate, che
consentivano una consistente riduzione dei costi di trasporto. La conse-
guenza fu un forte incremento della produzione industriale e del commer-
cio internazionale.
3. La maggiore disponibilità di oro. Verso la metà dell'Ottocento furono
scoperti ricchi giacimenti in California ( 1848) e in Australia ( 1851 ), oltre
che in Canada (1850) e in Nuova Zelanda (1853). La produzione di oro, nei
venti anni successivi, fu superiore a quella dei 350 anni precedenti, vale a
dire dalla scoperta dell' America in poi. A metà secolo XIX più dell' 80 per
cento dell'oro prodotto veniva impiegato per la coniazione di monete me-
talliche, ma esso era anche utilizzato come riserva per garantire l' emissione
di moneta cartacea, che proprio allora si cominciava a diffondere presso il
pubblico. La maggiore disponibilità di metallo giallo significò, quindi, una
più consistente disponibilità di mezzi di pagamento. E se l' eccezionale af-
flusso di oro di quegli anni non provocò una forte inflazione, com' era av-
venuto altre volte, fu perché ora la produzione e i traffici in continua cresci-
ta necessitavano di una maggiore qt1antità di mezzi monetari.
90 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

9.3. La depressione

Nel 1873, in coincidenza con una crisi finanziaria che investì i mercati
di Berlino, Vienna e New York, iniziò un lungo periodo di depressione, per
il quale si usò la locuzione <<Grande depressione>>, durato fino al 1896 (fase
b del ciclo Kondratieff). I prezzi agricoli e industriali diminuirono, i salari
frenarono e vi fu la tendenza alla riduzione del tasso di profitto. Il malcon-
tento delle masse dei lavoratori portò all'affermazione dei partiti socialisti e
allo sviluppo del movimento sindacale.
La diminuzione dei prezzi e dei profitti ebbe diverse cause, fra cui una
maggiore offerta di beni, la riduzione dei costi di trasporto e la diminuzione
della produzione aurifera.
1. L'aumento dell 'offerta sia dei prodotti agricoli che di quelli indu-
striali. L'industria mise a disposizione dei consumatori t1na gran qt1antità
di beni a prezzi sempre più contenuti, che non si riuscivano sempre a col-
locare sul mercato per deficienza di domanda. Anche la produzione agri-
cola aumentò notevolmente, specialmente grazie alla messa a coltura di
nuovi territori.
2. La ,-iduzione dei costi di trasporto e la conseguente crisi agraria eu-
ropea. Le nuove tecnologie resero più veloci e sicuri i mezzi di trasporto e
consentirono alle merci di raggiungere anche mercati molto lontani. Una ta-
le situazione, in genere, doveva costituire un vantaggio e paesi come gli
Stati Uniti, in effetti, ne trassero grosso g iovamento in termini di produzio-
ne e di profitti, mentre l'Europa si vide invasa dal grano americano e da
quello russo e dovette affrontare una crisi agraria abbastanza lunga, co11 una
riduzione dei red.diti degli agricoltori. Anche i prezzi di altri prodotti agri-
coli ne risentirono e calarono dappertutto, rovinando parecchi contadini,
molti dei quali furono costretti ad abbandonare le campagne per trasferirsi
in città alla ricerca di un lavoro o emigrare all' estero.
3. La diminuzione della produzione di oro. Il progressivo esaurimento, a
partire dagli anni Settanta, delle miniere della California e dell'Australia,
provocò u11a diminuzione della produzione aurifera. Essa, tuttavia, si man-
tenne a buoni livel li, diminuendo, nel periodo 187 1- 1900, solo del 15 per
cento rispetto al ventennio precedente, ma la quantità di moneta in circola-
zione non risultò più sufficiente alle necessità di un accresciuto volume dei
traffici e della produzione e perciò contribuì alla diminuzione dei prezz i.
Tuttavia non bisogna dimenticare che, anche se si era in pres enza di una
depressione, essa s' inseriva su un trend positivo dell'economia. Proprio in
quegli anni, difatti, paesi come gli Stati Uniti e la Germania stavano cre-
scendo a ritmi sostenuti.
9. Le/asi della crescita (1850-1914) 91

I paesi colpiti dalla depressione tentarono di fronteggiarla in vario modo.


Come sempre awiene nei momenti di difficoltà, per affrontare una fase di
bassi prezzi le imprese si sforzarono di ridurre i costi di produzione, sfrut-
tando le innovazioni e accrescendo le loro dimensioni, in modo da realizzare
consistenti economie di scala I e affrontare meglio la crisi. Inoltre, per difen-
dere la produzione nazio11ale, i governi decisero di ritornare al protezioni-
smo. Il libero scambio, in verità, aveva sempre avuto degli oppositori, spe-
cialmente fra gli industriali, interessati alla protezione delle loro nascenti in-
dustrie per difendersi dalla concorrenza estera, soprattutto da quella dei ma-
nufatti inglesi. Quando anche i proprietari terrieri, in seguito alla crisi agra-
ria, cominciarono a chiedere di essere protetti dall' importazione di grano,
quasi tutti i principali governi europei, tranne quello britannico che non ri-
nunziò al libero scambio, ritornarono a un moderato protezionismo. Ciò no-
nostante, il protezionismo non ostacolò gli scambi fra i vari paesi, che conti-
nuarono a crescere, ma servì soprattutto a compensare i produttori dei danni
che derivavano dalla discesa dei prezzi.
Siccome in seguito, fra le due guerre mondiali, il protezionismo fu ina-
sprito e si diffuse in tutti i paesi, compresa la Gran Bretagna, si può affermare
che almeno fmo al secondo dopoguerra (e, per certi aspetti, anche in seguito)
il protezionismo è stato la regola e il libero scambio l'eccezione. Ciò signifi-
ca che la crescita dell'economia non si è realizzata in regime di libertà com-
pleta degli scambi, ma all'ombra del protezionismo, che a volte è stato più ri-
gido e altre volte più blando.
Negli anni della depressione vi fu anche una ripresa del colonialismo da
parte dell'Europa. Fra la fine secolo XVIII e l' inizio di quello successivo, la
presenza europea nel resto del mondo si era ridotta. Gli Inglesi avevano per-
duto le tredici colonie americane e, negli anni Venti dell'Ottocento, Spagnoli
e Portoghesi avevano dovuto concedere l'indipendenza all'America Latina.
Dopo il 1870, però, vi fu una forte ripresa dell' espansione coloniale e in me-
no di vent'anni le principali potenze (Gran Bretagna, Francia, Germania e
Belgio) assoggettarono molti territori in Africa, Asia e Oceania. La politica
colonialistica dei paesi europei aveva molte motivazioni, comprese quelle di
carattere politico, religioso e ideologico, ma sicuramente si proponeva anche
di ottenere materie prime dalle colonie, che sarebbero state anche un mercato

1
Si parla di econoniie di scala quando il costo 1nedio di produzione di un bene diminui -
sce con l'aumentare delle di1nensioni dell'impianto produtti vo, che deve essere sfruttato al
massimo del le sue capacità. Ciò significa che, in genere, quando I ' impresa cresce d iminu i-
scono i costi medi di produzione (per esempio, il costo di produzione di un'automobile).
Raggiunte certe dimensioni, i costi possono smettere di diminuire e cominciano ad awnen-
tare: si parla allora di disecono,nie di scala.
92 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

di sbocco per i propri manufatti e di investimento per i propri capitali. Esse


servirono meno per accogliere la popolazione esuberante della madrepatria,
che preferiva emigrare in America.

9.4. La Belle époque

Dal 1896 iniziò un nuovo periodo di espansione, durato fm dopo la Prima


guerra mondiale (fase a del ciclo Kondratieff), in cui prezzi, profitti, salari e
investimenti ripresero a crescere. La produzione industriale si sviluppò anco-
ra, in particolare nel settore dei metalli e della chimica, si affermò una nuova
fonte di energia (il petrolio), si diffuse l'impiego dell'elettricità, si sviluppa-
rono i moderni mezzi di trasporto e il commercio internazionale raddoppiò in
meno di quindici anni. Si venne costituendo una prima forma di economia
mondiale ( oggi si direbbe globale), che assicurò una sostanziale libertà di
movimento a uomini, merci e capitali. Fu un periodo intenso di crescita, noto
come Belle époque, vissuto dai contemporanei con grande fiducia nel futuro
e nel progresso e confidando nelle conquiste della scienza e della tecnica.
La nuova fase di espansione fu avvertita in tutte le parti del mondo. Le
misure prese per fronteggiare la depressione precedente, come la concentra-
zione delle imprese e il ritorno al protezionismo, avevano dato i loro frutti.
La ristrutturazione del sistema produttivo conse11tì di affrontare, su nuove e
più solide basi, il period.o di ripresa e di espansione. Sicuramente la crescita
fu sostenuta ancora una volta dalla scope11a e dallo sfruttamento di nuovi
giacimenti di o,·o 11el Klondike (Canada) e in Alaska, dove, a fme secolo
XIX, si svolse una nuova <<corsa a ll'oro>>, simile a quella di cinquant' anni
prima in California. Anche le miniere aurifere del Transvaal (Sudafrica)
vennero sfruttate meglio e in modo più razionale. In una ventina d'anni
(1891- 19 10), si estrasse più oro che nei novant'anni precedenti e fu così
possibile disporre dei mezzi di pagamento necessari per sostenere lo svi-
luppo in atto. Questa volta si trattò principalmente di biglietti di banca ga-
rantiti dalle riserve auree. Nemmeno in questa occasione l'enorme produ-
zione di oro ebbe effetti inflazionistici per la stessa ragione di qualche de-
cennio prima: l'offerta di beni strumentali e di consumo aumentò anch'essa
i11 1nodo consistente.
10.
LE CONDIZIONI
DELLA CRESCITA
LA POPOLAZIONE

10.1. Le dinamiche della popolazione

Una delle condizioni della crescita economica fu l' incremento demografi-


co. La popolazione mondiale aumentò di circa il 40 per cento fra il 1850 e il
1914 ( da 1,3 a 1,8 miliardi), mentre quella europea si sviluppò in misura an-
cora più consistente (67 per cento, da 275 a 460 milioni). Il peso demografico
dell 'Europa fu in crescita per tutto il secolo XIX e raggiunse il suo pu11to
massimo alla vigilia della Grande guerra, quando la popolazione europea
(Russia inclusa) rappresentava il 27 per cento di quella mondiale (nel 1800
era del 20 per cento), nonostante la forte emigrazione subita. Nei decenni
successivi, invece, la popolazione europea aumentò meno di quella mondiale
e il suo peso demografico scese al 23 per cento nel 1950.
La riduzione del tasso di mortalità fu determinato, come durante la pri-
ma rivoluzione industriale, da diversi fattori. Certamente la maggiore di-
sponibilità di generi alimentari fece scomparire da ll 'Europa, tranne che in
Russia, le carestie, dopo l'ultima registrata in Irlanda nel 1846-48. Ma que-
sta volta gli elementi più rilevanti furono: a) il deciso miglioramento delle
condizioni igieniche, dovuto innanzitutto a lla costruzione di acquedotti e
fognature, sicché fu possibile avere l'acqua corre11te nelle abitazioni e mi-
gliorare l' igiene personale; b) il progresso della medicina, indissolubilmen-
te legato a lle grandi conquiste della scienza. Grazie a Louis Pasteur, si
comprese che le malattie contagiose si diffondevano nell'organismo attra-
verso germi microbici che era possibile isolare, identificare, combattere e
soprattutto distruggere. Vennero così individuati numerosi bacilli e si pr e-
pararono vaccini e sieri per malattie come difterite, tifo e tetano. I farmaci
si moltiplicarono e l' industria farmaceutica avviò la produzione di massa
dei medicinali. Le cure mediche si diffusero grazie all' intervento dello Sta-
to, che organizzò l'assistenza e i servizi sanitari, per esempio rendendo ob-
94 La seconda rivoluzi.one industriale (185 0-195 O)

bligatorie alcune vaccinazioni, specialmente nella prima metà del Novecen-


to. Ma per molto tempo non tutti furono in grado di ricorrere ai servigi del
medico, che non si potevano permettere di pagare. Nelle campagne spesso
ci si preoccupava più della salute degli animali, indispensabili ai lavori agri-
coli, che della salute dei bambini, i quali potevano essere facilmente rim-
piazzati. L 'azione dei fattori ricordati fece diminuire il tasso di mortalità,
soprattutto quello infantile, dapprima lentamente e poi, dal 1890, in modo
molto più rapido.
Il tasso di natalità cominciò pure esso a diminuire. Il controllo delle na-
scite, mediante pratiche primitive, si diffuse in molti paesi, mentre i nuovi sti-
li di vita indussero le coppie a limitare il numero di figli: allevare un bambi-
no, specialmente per operai e impiegati, divenne sempre più costoso, a causa
delle spese mediche e dell' istruzione che si voleva assicurare ai figli per con-
sentire loro di profittare del generale movimento di crescita economica e mi-
gliorare la propria condizione. Anche la riduzione della mortalità infantile in-
dusse a fare meno figli, perché le coppie, potendo contare sulla sopravviven-
za di quasi tutti i figli procreati, non erano indotte a metterne altri al mondo,
come facevano in precedenza. E poi le nuove forme di previdenza sociale
(assicurazione contro le malattie, pensioni di vecchiaia e assegni familiari),
introdotte specialmente fra le due guerre mondiali, mettevano relativamente
al sicuro le persone anziane, che non dovevano più essere mantenute dai figli.
La vita media si allungò nei paesi occidentali fino a 50 anni alla vigilia
della Prima guerra mondiale, per superare, verso la metà del Novecento, i
60 anni per gli uomini e i 65 per le donne. Contemporaneamente la popola-
zione invecchiava e il numero delle persone con più di sessant'anni cresce-
va dappertutto, ma specialmente negli Stati Uniti e in Francia.
L'incremento demografico provocò una sovrappopolazione delle cam-
pagne europee, anche p erché l'agricoltura richiedeva meno manodopera e
la scomparsa degli usi civici (diritti di utilizzazione delle terre comuni) non
consentiva più ai contadini poveri di sopravvivere, mentre l'artigianato ru-
rale e l'industria a domicilio erano messi in crisi dalla concorrenza delle
grandi fabbriche. Perciò, una parte della popolaz ione rurale dovette lasciare
la campagna e cercare lavoro a ltrove. Nei paesi industrializzati lo trovò nel-
le città, dove vi erano possibilità d' impiego nella nascente industria e nel
settore terziario, mentre nei paesi meno industrializzati, che non offrivano
tali opportunità, dovette prendere la via dell'emigrazione.
La popolazione divenne più istruita e il numero degli analfabeti conti-
nuò gradualmente a diminuire, grazie all'azione dello Stato che si fece cari-
co di assicurare l' istruzione primaria, diventata essenziale per vivere nel
mondo moderno. Ormai vi era una maggiore attenzione alla formazione del
1 O. Le condizioni della crescita: La popolazione 95

cosiddetto capitale umano , costituito dalle capacità professionali dei lavo-


ratori a tutti i livelli, che diventava sempre più indispensabile accrescere
per consentire di elevare la qualità e la produttività del lavoro.

10.2. L'urbanesimo

L'esodo dalle campagne comportò anche l'accentuazione del fenomeno


dell' urbanesimo. Fino alla m età del secolo XIX solo due città europee su-
peravano il milione di abitanti, Londra e Parigi, ma nel 19 11 erano diventa-
te sette (Londra, Parigi, B erlino, Vienna, San Pietroburgo, Mosca e Istan-
bul). L 'Inghilterra (con il Galles) e la Germania erano i paesi maggiormen-
te urbanizzati. F ra le due guerre mondiali il fenomeno interessò anche alcu-
ne città dei paesi meno sviluppati, come San Paolo del Brasile, Buenos Ai-
res, Città del Messico e Bombay.
Nel corso del secolo XIX, struttura e funzioni delle città si modificarono.
Il centro del l'attività si spostò nel quartiere degli affari, in genere situato fra
la città vecchia e la nuova stazione ferroviaria, che sp esso assumeva un aspet-
to così imponente da farla sembrare una sorta di <<cattedrale dell' epoca indu-
striale>>. Variò anche l'insediamento abitativo dei vari ceti sociali. La vecchia
città vedeva la coabitazione in un m edesimo edificio di varie categorie di
persone: normalmente i commercianti e gli artigiani occupavano il pianterre-
no, i borghesi agiati abitavano i primi piani, mentre agli ultimi vivevano pic-
coli impiegati, lavoranti a domicilio, studenti e povera gente. La nuova città,
viceversa, contrapponeva i quartieri borghesi, pieni di verde, con case con-
fortevoli e provviste di gas per l 'illuminazione e il riscaldamento, complete
di mansarde per i domestici, ai quartieri operai, sp esso sordidi, dall 'igiene
deplorevole e anneriti dal fumo delle fabbriche, in cui l 'alcolismo e la crimi-
nalità erano in aumento. Quasi sempre, i quartieri borghesi si trovavano al
centro della città e quelli operai in periferia, ma non mancavano casi in cui
questi ultimi sorgevano al centro di città costruite attorno alle fabbriche o alle
miniere e i quartieri borghesi erano situati in belle e accoglienti periferie.
L'urbanizzazione pose diversi problemi. Fu necessario provvedere al-
l'illuminazione delle strade e delle abitazioni, dapprima con il gas e poi, ver-
so la fine del secolo, con la luce elettrica, e si dovettero costruire acquedotti
e fognature. Bisognò pure pensare alla mobilità della popolazione, all'inizio
con i tram a cavalli e su.c cessivamente con quelli a trazione elettrica. A fme
Ottocento furono costruite le prime metropolitane, com e quelle di Londra
( 1890), Chicago ( 1892) e Parigi ( 1900), che utilizzavano l'elettricità come
forza motrice e che richiesero un grosso sforzo finanziario.
96 La seconda rivoluzione industriale (185 0-195 O)

10.3. I grandi flussi migratori

L ' emigrazione fu l'altra conseguenza dell' esodo dalle campagne. In ge-


nere agirono sull'emigrante motivi di <<espulsione>>, che lo inducevano a la-
sciare il proprio paese, e motivi di <<attrazione>> verso il paese dove si vole-
va recare. Fra i motivi di espulsione vi erano sicuramente le cattive condi-
zioni economiche, che non gli consentivano di vivere e mantenere la pro-
pria famiglia. Ma si emigrava pure per migliorare la propria condizione,
anche quando non era particolarmente infelice, oppure per sfuggire a perse-
cuzioni politiche o religiose. Il costo del viaggio continuava a diminuire e
perciò incoraggiava a emigrare, ma non era comunque accessibile ai più
poveri, sicché, a volte, erano i governi a sostenere l' emigrazione per popo-
lare le colonie o per liberarsi di persone indesiderate. I motivi di attrazione
erano dati dalla possibilità di trovare un lavoro e di migliorare il proprio sta-
to nel paese di destinazione. La presenza di familiari o di compaesani nelle
località di arrivo, inoltre, costituiva un forte stimolo ad emigrare, perché si
poteva contare sul loro appoggio per affrontare il primo impatto con una re-
altà sconosciuta e spesso molto diversa da quella del paese di provenienza.
Fra il 182 1 e il 19 14, lasciarono l'Europa fra 46 e 5 1 milioni di persone,
che si diffusero in tutto il mondo. Le principali destinazioni furono le due
Americhe, in primo luogo gli Stati Uniti (che ne accolsero circa 30 milio-
ni), ma anche l'Argentina, il Brasile e il Canada. Una corrente di emigra-
zione (costituita quasi esclusivamente di cittadini britannici) si diresse ver-
so l'Australia e la Nuova Zelanda e un'altra, molto ridotta, verso alcuni paesi
africani. Le partenze furono in costante crescita. Se negli anni della depres-
sione, esse raggiunsero le 800 mila unità annue, con il nuovo secolo, pro-
prio durante la fase di espansione, che continuava a espellere braccia dalle
campagne, si superò il milione di partenze all'anno, per raggiungere l'enor-
me cifra di 1,4 milioni nel 1909-1 0.
I paesi di provenienza non furono sempre gli stessi. Fino agli anni Ot-
tanta, gli emigranti europei venivano principalmente dall'Europa setten-
trionale (Gran Bretagna e Irlanda in primo luogo, ma anche da Germania e
paesi scandinavi). Da l 1890, anche se le partenze dalle isole britanniche fu-
rono sempre consistenti, il maggiore contributo fu dato dall 'Europa meri-
dionale (Italia soprattutto, seguita da Spagna, Portogallo e Grecia) e dal-
l' Europa orientale (Impero austro-ungarico e Russia).
In quegli anni era in atto anche una migrazione interna ei,ropea. Una
corrente da est verso ovest riguardò Polacchi e Cechi che si diressero verso
la Germania ( e la Francia), mentre un flusso da sud verso nord interessò i
popoli balcanici (Sloveni, Serbi e Greci), che si m.ossero verso le zone più
1O. L e condizio11.i della crescita: la popolazione 97

ricche de ll' Impero austro-ungarico. La Francia diede un contributo mode-


stissimo all' emigrazione, perché era già da tempo un paese d'immigrazio-
ne. Nel 19 11 , difatti, vivevano nel Paese d ' oltralpe quasi 1,2 milioni di
stranieri, la maggior parte dei qt1ali proveniva dall 'Italia (36 per cento) e
dal Belgio (24 per cento), oltre che dalla Spagna e dalla Germania.
A partire dalla Grande guerra, il fenomeno delle migrazioni si ridusse a
causa del conflitto, della Grande depressione deg li anni Trenta e delle poli-
tiche restrittive dei goverm . Nel primo dopoguen·a i maggiori paesi d'immi-
grazione, come Stati Uniti, Canada e America Latina, regolamentarono l' af-
flusso degli stranieri. Gli Stati Uniti, che avevano accolto, nel decennio pre-
cedente la guerra, circa un milione di persone all'anno, ne ricevettero meno
della metà nel corso degli anm Venti e appena 50 mila nel decennio succes-
sivo. Il governo americano aveva introdotto, nel dopoguerra, il sistema del-
le qi,ote, in virtù del quale l'immigrazione delle persone provenienti da un
determinato paese non doveva superare un ammontare prestabilito ( <<quo-
ta>>) rapportato al numero di loro connazionali presenti negli Stati Uniti a
una certa data. Nel 1924 la quota fu fissata a l 2 per cento dei presenti al
censimento del 1890. Ciò significava che, per esempio, poteva giungere
ogni am10 negli Stati U11iti un numero di Italiani pari al 2 per cento di quelli
che vi vivevano nel 1890. In tal modo si favoriva l' immigrazione di perso-
ne provenienti dall'Europa settentrionale e si p enalizzava quella dell'Euro-
pa meridionale e orientale, che s i era sviluppata solo dopo il 1890.
Una novità, durante e dopo le guerre, fu l' apparizione di un altro tipo di
migrazione: quella dei profughi, costretti ad abbandonare le loro terre per
sfuggire agli eventi bellici o alle persecuzioni. Dopo la Prima guerra mon-
diale un consistente flusso di profughi russi, per lo più nobili, che lasciarono
il loro paese, dove si era instaurato il regime comunista, si riversò in diversi
paesi europ ei. Dopo la Seconda guerra mondiale fu la vo lta dei Tedeschi e
di altri profughi provenienti dai paesi dell' Est europeo che si trasferirono
nella Germania Federale e nell 'Europa occidentale, mentre gli Ebrei soprav-
vissuti all' Olocausto trovarono asilo soprattutto nel nuovo Stato di Israele.

10.4. Gli effetti dell'emigrazione

Questi grandi spostamenti di popolazione produssero effetti positivi ed


effetti negativi sia nei paesi di provenienza sia in quelli di destinazione.
Nei paesi di partenza, il principale svantaggio era costituito dal fatto che
essi avevano sostenuto il costo per mantenere, far crescere e talvolta istruire
persone che ora andavano a lavorare altrove. Si trattava di una perdita sec-
98 La seconda rivoluzi.one industriale (185 0-195 O)

ca, anche perché in genere gli emigrati erano giovani e lasciavano un vuoto
demografico che richiedeva tempo per essere colmato. I vantaggi, però, erano
notevoli. Innanzitutto, la partenza di molte persone comportava la riduzione
del!' offerta di braccia sul mercato del lavoro e i salari di coloro che rima-
nevano tendevano ad aumentare, consentendo un miglioramento delle con-
dizio11i di vita dei lavoratori. Un altro effetto positivo era costituito dalle
cospicue rimesse degli emigrati, che facevano affluire in patria preziosa va-
luta estera'. Le rimesse non solo andavano a beneficio delle famiglie degli
emigrati, ma risultavano vantaggiose per l' intera collettività. Esse, difatti,
depositate presso le banche o le casse di risparmio postali, potevano essere
investite in attività produttive private e in opere pubbliche. La valuta estera,
inoltre, cambiata in moneta nazionale dai parenti degli emigrati, metteva a
disposizione del Paese risorse finanziare che potevano essere utilizzate per
pagare le importazioni di beni e servizi.
Il principale effetto positivo per i paesi di destinazione fu che gli immi-
grati costituivano u11' apprezzabile risorsa per la nazione che li accoglieva, in
quanto si trattava di persone adu lte, che spesso conoscevano un mestiere e
cominciavano subito a lavorare, senza che fosse stato sostenuto alcun costo
per mantenerli fmo a quel momento. Essi possedevano anche spirito d' intra-
prendenza e capacità di adattamento, dato che avevano avuto abbastanza co-
raggio da lasciare la loro terra per recarsi in un paese lontano e sconosciuto,
dove avrebbero incontrato certamente notevoli difficoltà. Inoltre, trattandosi
principalmente di giovani, contribuivano a far aumentare il tasso di natalità e
quindi a far crescere la popolazione. Con il loro lavoro, infine, concorrevano
a creare ricchezza e benessere nel paese in cui si insediavano.
Il principale problema era costituito dalla difficoltà d' integrazione. Spesso
i nuovi arrivati, oltre a non conoscere la lingua, che i più giovani imparavano
abbastanza rapidamente, avevano anche religione, usanze e costumi diversi
rispetto a coloro che già vivevano nel paese. Né mancarono contrapposi-
zioni, talvolta anche violente, con altri gruppi di immigrati. Le incompren-
sioni furono parecchie e molto spesso i nuovi a11·ivati dovettero subire vessa-
zioni, soprusi e angherie di ogni specie prima di potersi integrare.

1
La valuta estera è costituita dalle monete metalliche e dai biglietti di banca (o di Stato)
emessi da un paese straniero. La divisa è data dai titoli di credito con i quali si possono p a-
gare i debiti all'estero (assegni, cambiali, ordini di pagamento, ecc.).
11.
LE CONDIZIONI
DELLA CRESCITA
TRASPORTI , BANCHE E MONETA

11.1. Lo sviluppo dei trasporti: ferrovie e automobili

La rivoluzione dei trasporti s' intensificò nel secolo della seconda rivo-
luzione industriale, trasformando completamente il modo di muoversi degli
uomini e di trasportare le merci. Ne conseguì un ulteriore forte impulso alla
produzione e al commercio. La crescita degli scambi e la necessità di una
maggior e mobilità delle persone diedero, a loro volta, una forte spinta al
miglioramento dei mezzi di trasporto a allo sviluppo del sistema delle co-
. . .
mun1caz1on1.
La rete stradale non fece molti progressi. Le strade, però, furono sicu-
ramente migliorate e ne vennero costruite di nuove, in particolare nei paesi
che a metà Ottocento erano rimasti indietro, come la Germania, l' Italia e la
Russia. Dopo il 1870 il traffico stradale s i ridusse in seguito a lla costruzio-
ne delle ferrovie, ad eccezione di qt1ello svolto su lle strade che collegavano
la stazione ferroviaria ai paesi viciI1i. Fu solo co11 lo sviluppo degli autovei-
coli, nella prima metà del secolo XX, che le strade ripresero grande impor-
tanza per il trasporto di merci e persone.
Fra la metà dell' Ottocento e la Prima guerra mondiale, i risultati più rile-
vanti furono raggiunti dalle ferrovie e dalla navigazione a vapore. La rete fer-
roviaria m.ondiale passò, fì·a il 1850 e il 19 14, da 35 mila chilometri a quasi
1,1 milioni. In una settantina d'anni si era sostanzialmente costruita la rete
ferroviaria ancora oggi in funzione (1,4 milioni di chilometri). Nel 19 14, po-
co meno del 40 per cento delle ferrovie si trovava negli Stati Uniti e quasi il
28 per cento in Europa (esclusa la Russia). Ormai la strada ferrata, percorsa
da lunghi convogli trainati da sbuffa11ti <<Vaporiere>> ( come si chiamarono le
locomotive fino agli anni Settanta dell' Ottocento) era entrata a far parte del
paesaggio del vecchio e del nuovo contmente.
100 La seconda rivoluzione i11.dustriale (1850-1950)

Fig. 11.1. - La costruzione della rete ferroviaria europea


t
Ferrovie In Eu(op~ o
1840

'

,,,

1860

1880

Fonte: Atlante Storico Zanichelli, Bologna, 2007, p. 195.


11. Le condizio11.i della crescita: trasporti, ba11.che e ,noneta 101

Per la costruzione delle ferrovie si dovettero affrontare e risolvere nu-


meros i problemi tecnici ed economici. I problemi tecnici più rilevanti si
presentavano quando bisognava traforare le montagne e costruire tunnel
spesso lunghi parecchi chilometri (quello del Sempione, p er esempio, ul-
timato nel 1906, è di 19,8 chilometri), oppure quando si dovevano costru ire
ponti per attraversare i fiumi o ancora per aumentare potenza e velocità del-
le locomotive.
Ben più complessi furono i problemi economici. La costruzione delle
ferrovie necessitava di ingenti capitali, che peraltro avrebbero cominciato a
fruttare solo dopo molto tempo, a costruzione ultimata. Spesso i risultati at-
tesi si dimostrarono inferiori alle aspettative, anche perché era difficile pre-
vedere il traffico di merci e di persone che si sarebbe sviluppato su una
nuova linea ferroviaria. All ' inizio, quando le prime linee non erano molto
lunghe, i capitali furono fomiti dai grandi banchieri privati, ma in seguito
bisognò costituire società per azioni e raccogliere il capitale iniziale fra un
gran numero di azionisti. Le azioni delle compagnie ferroviarie vennero
trattate in Borsa e furono sp esso oggetto di sfrenate speculazioni, come in
genere è sempre avvenuto per i nuovi settori dell'economia che lasciano
prevedere buoni utili.
L 'automobile, intanto, annunziava un' epoca nuova. Se già nella prima
metà dell' Ottocento si erano costruite alcune vettur e a vapore sperimentate
sulle strade (<<velociferi>>e <<treni stradali>>), fu solo con l'avvento del motore
a combustione interna (motore <<a scoppio>>) che l'automobile riuscì ad af-
fermarsi, grazie all' ingegno di numerosi pionieri, fra i quali Gottlieb Daimler
e Carl Be112. Le corse e le manifestazio11i sportive fecero conoscere il nuovo
mezzo di locomozione, la cui velocità aumentava di anno in anno: 18,5 chi-
lomeh·i orari alla Parigi-Rouen (1894), a lla quale parteciparono ancora diver-
se vetture a vapore, 73 chilometri alla Parigi-Berlino (1901) e 105 chilometri
alla Parigi-Madrid (1903). Nel 1909 alcune vetture riuscirono a raggiungere e
a superare i 200 chilometri orari.
La produzione in serie dell'automobile era già iniziata prima della Gran-
de guerra, ma la sua diffusione era rallentata dall'alto prezzo di vendita.
Dopo il conflitto, durante il quale furono impiegati parecchi autoveicoli da
trasporto, la produzione di autovetture aumentò, innescando un processo a
catena che coinvolse parecchie altre industrie (siderurgica, della gomma,
petrolifera, d.e l vetro, ecc.) e died.e impulso alla costruzione di nuove strade.
Le automobili richiedevano can·eggiate più compatte e possibilmente asfal-
tate, come si cominciò a fare tra le due gue1Te mondiali, quando vennero
costruite anche le prime autostrade, destinate esclusivamente alla circola-
zione di autoveicoli.
102 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

11.2. Lo sviluppo dei trasporti: navi e aerei

Lo sviluppo della navigazione a vapore produsse un abbattimento in-


credibile dei costi di trasporto e contribuì, più delle ferrovie, a dare una
dimensione mondiale al mercato dei beni. Ma fin verso il 1880, le navi a
vela riuscirono a prevalere sui nuovi battelli a vapore: erano più economi-
che (la forza motrice era data dal vento) e spesso anche più veloci, ma po-
tevano trasportare un minor quantitativo di merci e di passeggeri. I pirosca-
fi, che all' inizio erano spesso muniti di vele ausiliarie, utilizzavano ancora
la ruota a pale, poco adatta alla navigazione marittima. Solo quando, dopo
il 1850, la ruota fu sostituita dall' elica a tre pale, che fece aumentare la ve-
locità e rese più sicure e maneggevoli le navi, quelle a vapore presero gra-
dualmente il sopravvento sulle navi a vela. Un'altra importante novità fu la
costruzione di navi di ferro, di maggiore stazza I di quelle di legno, che po-
terono alloggiare pesanti motori e disporre di ampie stive per il trasporto
delle merci e del carbone necessario ad alimentare le caldaie. Le navi a va-
pore erano più veloci e navigavano con regolarità, senza il rischio di ritardi
per mancanza o insufficienza di vento. In tal modo, a poco a poco, i piro-
scafi sostituirono definitivamente i velieri. Il costo delle navi, però, aumen-
tò e fu necessario, come per le ferrovie, creare grandi società di navigazio-
ne, che sostituirono, anche se non soppiantarono del tutto, gli armatori pri-
vati. Molti porti dovettero essere ristrutturati, perché le nuove navi di ferro,
più gra.ndi e con maggiore pescaggio, necessitavano di approdi più ampi e
profondi. L' apertura dei canali di Suez (1869) e di Panama (1914) modificò
notevolmente le condizioni della navigazione marittima, facendo ridurre in
misura consistente i tempi di percorrenza, rispettivamente del 40 e del 60
per cento. Intanto comparvero le navi specializzate nel trasporto di merci
particolari, come le petrolier e e le navi frigorifero, con le quali si potevano
trasportare, anche sulle lunghe distanze, il petrolio oppure carne macellata e
derrate deperibili.
Fra le flotte dei diversi paesi primeggiò, per tutto il secolo XIX, quella
britannica, che da sola rappresentava più della metà del tonnellaggio mondia-
le, seguita (1913) da quelle americana, tedesca, norvegese, francese e italia-
na. L'Inghilte1Ta aveva organizzato alla perfezione il sistema dei <<tramps>>,
navi senza itinerario fisso, che viaggiavano a disposizione dei noleggiatori di
tutto il mondo e andavano di porto in porto, trasportando le merci che trova-
1
La stazza di una nave è data dal volume complessivo degli spazi chiusi e si misura in
tonnellate di stazza ( 1 tonnellata di stazza = 2,832 m 3) . Si distingue fra la stazza lorda, che
comprende tutti gli spazi chiusi (stive, alloggi, sale macchine, ecc.), e stazza netta, che inve-
ce riguarda solo il volwne dei locali adibiti al trasporto di merci e passeggeri .
11. Le condizioni della crescita: trasporti, banche e ,noneta 103

vano da imbarcare durante il loro percorso. Questo sistema era così esteso
che i <<tramps>> assorbivano, nel 1914, quasi la metà del traffico mondiale.
Nei primi anni del secolo XX, l'aviazione era ancora ai primordi e aveva
una scarsa importanza economica. Nel 1903, i fratelli Wright erano riusciti a
far volare il loro primo aeroplano per appena 15 secondi su una spiaggia del
North Carolina, negli Stati Uniti. Il progresso in questo campo fu rapidiss i-
mo e già pochi anni dopo (1909) Louis Blériot attraversava la Manica a bor-
do di un velivolo. La costruzione di aerei, però, era ancora molto limitata
(fino al 191 2 erano di legno e tela) e il loro rilievo come mezzi di trasporto
quasi del tutto inesistente. L 'aeroplano conobbe una certa popolarità durante
la Prima gue1Ta mondiale, quando fu utilizzato dapprima per la ricognizione
aerea, poi come caccia e infine per i bombardamenti. Dopo il conflitto, gli
aerei, che usarono la propulsione a elica fino al secondo d.o poguerra, venne-
ro impiegati nel trasporto della posta e di passeggeri paganti. L'aviazione
commerciale iniziò a svilupparsi negli anni Venti e Trenta. In seguito alla
traversata dell' Atlantico da parte dell 'americano Charles Lindbergh (1927),
furono organizzati i primi voli di linea fra Stati Uniti ed Europa.
Gli effetti della rivoluzione dei trasporti sullo sviluppo economico furo-
no rilevanti e riguardarono tutti i settori:
a) il commercio, che ovviamente risentì dei vantaggi più immediati e
tangibili; le merci di ogni tipo poterono raggiungere mercati lontani a costi
molto più bassi di prima, anche perché potevano utilizzare, uno dopo
l' altro, diversi mezzi di trasporto (carri, treni, automezzi, navi, ecc.);
b) l'agricoltura, che fu in grado di attuare una specializzazione delle
colture, poiché ogni regione poté dedicarsi alle coltivazioni più adatte alla
natura del suolo e alle condizioni climatiche;
c) le industrie, che produssero numerosi beni necessari al sistema dei
trasporti, come quelle siderurg iche, metallurgiche e meccaniche (rotaie, lo-
comotive, carrozze, ponti di ferro, navi, automobili, ecc.), ma anche le in-
dustrie estrattive (carbone) e dei laterizi (stazioni ferroviarie, porti);
d) le banche, che furono chiamate a finanziare sia le compagnie fen·o-
viarie che quelle marittime e realizzarono buoni profitti.

11.3. Le comunicazioni

Alla vigilia della Prima gue1Ta mondiale, anche le notizie ormai viag-
giavano con grande rapidità, grazie al telegrafo e al telefono. Il telegrafo
elettrico di Samuel Morse, brevettato nel 1840, si diffuse in breve tempo e
nel 1870 u.n a rete telegrafica ricopriva l'Europa e gli Stati Uniti, peraltro da
104 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

poco congiunti telegraficamente con un cavo sottomarino (1866). Entro il


1902 i cavi collegarono tutti i continenti e le notizie potevano raggiungere
ogni punto del Pianeta, purché munito di un ufficio telegrafico. La diffusio-
ne del telegrafo costituì una vera svolta nella tecnologia dell' informazione,
con notevoli vantaggi per le attività economiche. Fino alla metà del secolo
XIX, difatti, le notizie viaggiavano all'incirca con la stessa velocità delle
merci o a una velocità appena superiore. G li operatori economici non erano
in grado di conoscere con sufficiente anticipo le notizie riguardanti i prezzi
delle merci, l' andamento dei raccolti, le quotazioni di Borsa o le rotte delle
navi, per poter effettuare le loro scelte e i loro investimenti. Il telegrafo rese
possibile tutto ciò. Anzi, consentì pure lo sviluppo di una stampa commer-
ciale specializzata in grado di fornire notizie riguardanti i mercati di tutto il
mondo. Il telegrafo, perciò, ebbe un ruolo molto importante nella formazio-
ne di un mercato mondiale delle merci e dei capitali.
Il telefono, messo a punto da Antonio M eucci (1871), un immigrato ita-
liano che viveva vicino a New York, venne sfruttato commercialmente da
Alexander B eli. Esso cominciò a diffondersi alla fine degli anni Settanta,
specialmente negli Stati Uniti, dove nel 1900 già serviva il 6 per cento delle
famiglie. Il suo impiego effettivo, però, rimase sostanzialmente confinato al
mondo degli affari e alle comunicazioni fen·oviarie fi no al la Prima guerra
mondiale e solo successivamente divenne di uso comune.
Infine, i primi esperimenti di Guglielmo M arconi ( 1896) portarono al-
l' invenzione della radio, destinata ad aprire la strada alla creazione di un s i-
stema di comunicazioni di massa. Essa conobbe una vasta diffusione, entrò in
molte case e fu utilizzata, oltre che per l' intrattenimento, anche per la pubbli-
cità commerciale. Le trasmissioni regolari iniziarono nel primo dopoguerra e
alla fine degli anni Trenta vi erano circa trenta milioni di apparecchi radio
negli Stati Uniti, otto in G ermania e in Gran Bretagna, tre in Francia e quasi
un milione in Italia. Durante il secondo conflitto mondiale, la radio svolse un
ruolo importante come strumento di propaganda e di comunicazione, perché
poteva giungere dovunque. In quegli anni comparve un nuovo strumento, il
radar, che sfruttava la riflessione delle radioonde e permise, specialmente
agli Anglo-americani, di localizzare e colpire navi e aerei nemici.

11.4. I sistemi bancari

Fino alla metà dell' Ottocento, il credito era stato sostanzialmente eserci-
tato da grandi banchieri privati e dalle banche di emissione, oltre che da
antiche istituzioni creditizie, poco adeguate ai nuovi tempi. Nella seconda
11. Le condizioni della crescita: trasporti, banche e moneta 105

metà del secolo furono introdotte altre forme di credito e si istituirono nuo-
ve categorie di banche, che diedero vita a veri e propri sistemi bancari in
grado di soddisfare le esigenze di una più vasta gamma di clienti.
1. Casse di risparmio. Sorte già nella prima metà dell ' Ottocento in Euro-
pa e in America (e in qualche paese europeo ancora prima), per iniziativa
pubblica o di privati cittadini, le casse di risparmio raccoglievano piccoli ri-
sparmi dalle persone di modesta condizione, come contadini, artigiani, operai
o domestici, ai quali con·ispondevano un interesse. Il loro scopo era di con-
sentire anche ai meno abbienti di accumulare un discreto capitale da utilizza-
re in caso di necessità, educandoli al risparmio. Le somme raccolte erano de-
stinate a impieghi sicuri, in genere tito li di Stato, ma non mancarono anche
prestiti ipotecari. Nella seconda metà del secolo, alle casse di risparmio ordi-
narie si affiancarono, in moltissimi paesi, le Casse di risparmio postali, inca-
ricate di raccogliere il risparmio presso gli uffici postali, presenti anche nei
centri più piccoli, dove quasi sempre mancava uno sportello bancario.
2. Istituti di credito fondiario. Il loro scopo era di concedere mutui di lun-
ga durata (fmo a 50 anni), rimborsabili a rate, secondo un piano di ammorta-
mento2, garantiti da ipoteca su immobili (terreni e fabbricati). Si approvvi-
gionavano di fondi mediante l'emissione di proprie obbligazioni, dette <<car-
telle fondiarie>>, e si diffusero in molti paesi, tranne che in Gran Bretagna e
negli Stati Uniti. Sorti per sovvenire i proprietari fondiari, riuscirono, invece,
più utili alla proprietà urbana e fmanziarono spesso le speculazioni edilizie.
3. Banche cooperative. Queste banche, fondate sotto forma di società
cooperative (vedi p. 125), si dividevano in banche popolari, nei centri più.
importanti, e casse rurali, nelle zone agricole, con il compito di accettare
depositi e concedere prestiti ai soci che, in genere, erano negozianti, arti-
giani, impiegati, contadini e altre persone di media condizione.
4. Banche commerciali o di deposito. Costituite, per lo più, sotto forma
di società anonime (jo int stock banks), disponevano di una rete di sportelli,
raccoglievano depositi dal grande pubblico, che remuneravano con un inte-
resse, e investivano i fondi disponibili prestandoli in varie forme a operatori
economici grandi e piccoli.
La varietà di aziende di credito consentiva a tutti di accedere ai servizi
bancari, dallo Stato al grande capitalista, dal proprietario terriero all'impren-
ditore, dal commerciante all'industriale, dall'artigiano al contadino.

2
L' am.mortarnento di un prestito è una procedura conta bi le con la quale si rimborsa gra-
dualmente il prestito ottenuto. La modalità più diffusa è quella a rate costanti, in cui le rate
(che possono essere 1nensili, trimestrali, semestrali, ecc.) comprendono una quota di capitale
(crescente) e una quota di interessi (decrescente, perché ca lcolata sul debito residuo dopo il
pagamento di ciascuna rata).
106 La seconda rivoluzione i11.dustriale (1850-1950)

Al vertice dei sistemi bancari vi erano gli istituti di emissione, che co-
minciavano ad agire come <<prestatori di ultima istanza>> o <<banche delle
banche>>. Ciò s ignifica che le altre banche quando avevano bisogno di presti-
ti si rivolgevano agli istituti di emissione ( che erano in grado di prestare de-
naro anche stampando banconote), ai quali pagavano un interesse in base al
tasso ufficiale di sconto. Questo tasso era fissato dagli stessi istituti di emis-
sione ed era detto così perché i prestiti consistevano, per la maggior parte,
nello sconto (o meglio, risconto) delle cambiali detenute dalle banche, che a
loro volta le avevano scontate ai propri clienti. Per conseguenza, gli interessi
attivi e passivi delle banche si dovevano adeguare al tasso ufficiale di scon-
to: se questo saliva gli interessi aumentavano e se scendeva gli interessi di-
minuivano. Con il tempo, gli istituti di emissione, che di norma operavano
anche per conto dello Stato, ottennero la funzione di controllare il sistema
bancario di un paese e perciò si dissero banche centrali.
I biglietti degli istituti di emissione, intanto, venivano riconosciuti dapper-
tutto come moneta a corso legale, a cominciare dall'Inghilterra (1833), segui-
ta alcuni decenni più tardi da Stati Uniti, Francia e Italia (1864-74), per finire
solo agli inizi del nuovo secolo con la Germania (1909). La conseguenza del
riconoscimento del corso legale alle banconote fu una generale riduzione del-
le monete metalliche in circolazione. Già nel 1885, difatti, le monete d' oro e
d'argento rappresentavano soltanto il 38 per cento dei mezzi di pagamento
disponibili al mondo, percentuale che si ridusse al 17 per cento alla vigilia
della Prima guerra mondiale. Ormai i principali mezzi di pagamento erano
rappresentati dalla moneta bancaria, espressione sotto la quale si comprende-
vano non solo i biglietti di banca (25 per cento) ma anche i depositi a vista
presso le banche, utilizzabili mediante assegni (58 per cento).

11.5. I modelli bancari

Durante la seconda rivoluzione industriale, l' industrializzazione diventò


più costosa. L ' impianto di una fabbrica richiedeva ingenti capitali, che
vennero fomiti dalle banche impegnate nel finanziamento industriale e da l-
la Borsa, che procurò finanziamenti tramite la collocazione sul mercato di
azioni e obbligazioni. Perciò, i sistemi bancari furono chiamati a sostenere la
crescita industriale e si dovettero adeguare al livello di sviluppo e alle esigen-
ze del paese in cui operavano. In Europa si formarono due <<modelli>>: qu ello
anglosassone e quello continentale di tipo tedesco.
Il modello anglosassone si fondò sulla specializzazione bancaria e sulla
banca pura. In Inghilterra il lento sviluppo della prima rivoluzione indu-
11. L e condizio11i della crescita: trasporti, banche e ,noneta 107

striale non aveva richiesto grossi investimenti e perciò si affermò un tipo di


banca (la banca pura) che raccoglieva depositi a vista e concedeva prestiti a
breve termine alle imprese. Le operazioni finanziarie di durata più lunga
erano svolte dalle merchant banks, specializzate sia nel collocamento sul
mercato inglese di titoli obbligazionari di società o di governi stranieri sia
nel sostegno al commercio internazionale, di cui facilitavano i pagamenti.
Il modello continentale o tedesco, viceversa, consisteva nella prevalenza
della banca mista, ossia di un tipo di banca che raccoglieva depositi a vista e
li impiegava a breve, a medio e a lungo termine, soddisfacendo ogni richiesta
delle imprese, comprese quelle di più lunga durata. Questo modo di operare
era molto rischioso, perché si impiegavano con scadenza medio-lunga fondi
raccolti a vista, con grave pericolo per l'equilibrio finanziario della banca.
Difatti, se le banche si <<immobilizzavano>>molto, ossia se concedevano molti
prestiti a lunga scadenza, non sarebbero state in grado di far fronte a un'even-
tuale consistente richiesta di rimborso da parte dei depositanti (per esempio,
in un momento di crisi economica). Se all'epoca le banche miste non si tro-
varono in difficoltà, come avvenne in seguito, fu perché operavano in un pe-
riodo di crescita economica e riuscirono a realizzare buoni profitti. Le banche
miste fmanziavano le imprese acquistandone le obbligazioni oppure sotto-
scrivendo parte del loro capitale sociale, cioè acquistando le loro azioni. Per-
ciò, tali banche stabilivano stretti rapporti con le imprese, anche perché, in
quanto azioniste, partecipavano alle assemblee dei soci e collocavano loro
uomini di fiducia nei consigli di amministrazione delle imprese fmanziate.
Il modello tedesco si mostrò particolarmente adatto a quei paesi, come la
Germania, che giunsero con ritardo all'industrializzazione e perciò avevano
bisogno di un forte sostegno da parte delle banche per recuperare il ritardo
nei confronti dei first comers. Gerschenkron, come si è visto, le considerò
uno dei fattori sostitutivi dei prerequisiti dello sviluppo. Dalla Germania le
banche miste si diffusero agli altri paesi che si stavano industrializzando,
come l' Italia, la Russia, l'Austria e il Giappone. La Francia, invece, adottò,
intorno agli anni Ottanta, un sistema simi le a quello britannico, distinguendo
chiaramente fra <<banche di deposito>>, che si occupavano di operazioni a bre-
ve termine, e <<banche d'affari>>, rivolte agli investimenti industriali.

11.6. Il gold standard

U11 altro elemento molto importante, che favorì la crescita economica del
periodo in esame, fu l'adesione di quasi tutti i paesi al gold standard. Come
si ricorderà, solo la Gran Bretagna aveva formalmente adottato il sistema
108 La seconda rivoluzione iridustriale (J 850-1950)

aureo, mentre gli altri paesi europei avevano conservato un sistema bimetal-
lico oro-argento, tranne qualcuno rimasto fedele al monometallismo argen-
teo. La contemporanea esistenza in un paese di monete d ' oro e d'argento ri-
chiedeva che il rapporto di valore fra i due metalli restasse pressoché inva-
riato nel tempo. Invece, tale rapporto mutò, in particolare dopo il 1870,
quando l' enorme produzione di argento delle miniere scoperte nel Nevada
(Stati Uniti), fece diminuire il valore dell' argento rispetto all'oro. Per conse-
guenza, siccome in un sistema bimetallico si potevano utilizzare per i paga-
menti sia le monete d'argento sia quelle d'oro, si adoperarono a questo sco-
po solo le monete d ' argento, mentre quelle d'oro venivano tesaurizzate o
erano usate per effettuare pagamenti all'estero, dove erano accettate al valo-
re del metallo fino contenuto. In tal modo, la moneta cattiva (d'argento)
scacciava la moneta buona (d ' oro) dalla circolazione, come afferma la <<leg-
ge di Gresham>>, formulata da Thomas Gresham nel Cinquecento. Perciò, a
poco a poco, fra il 1873 e il 1900, i paesi industrializzati preferirono aderire
al gold standard (Germania, 1873; Francia, Italia e Belgio, 1878; Austria-
Ungheria, 1892; Russia, 1897-99; Giappone, 1897; Stati Uniti, 1900).
Con l'adesione al gold standard si realizzava un sistema di cambi fissi
fra le monete, tutte legate all'oro. Il cambio dipendeva dal contenuto di oro
fino di ciascuna moneta, anche quando si utilizzavano le banconote, poiché
queste ultime erano convertibili in oro. Un regime di cambi fissi elimina il
rischio di cambio e perciò il commercio estero è favorito dal fatto che im-
portatori ed esportatori possono fare i loro calcoli di convenienza sulla base
di cambi stabili delle monete. Anche gli investimenti all'estero risultano più
sicuri. P er comprender11e il motivo, si consideri il segue11te esempio: un
francese investe 1,9 milioni di franchi in Germania, pari a un milione di
marchi (al cambio dell'epoca); l' investimento va bene ed egli guadagna
100 mila marchi, sicché il suo capitale diventa di 1, 1 milioni di marchi. Se,
però, nel momento in cui riconverte il suo capitale in franchi, il valore del
marco è diminuito, l'investitore francese potrebbe ottenere, per esempio,
1,8 milioni di franchi, cioè meno di quando ha investito, semplicemente
perché 11el frattempo il cambio tra franco e marco è variato.
Nel sistema dei pagamenti internazionali, comunque, va ricordato il ruo-
lo della sterlina, accettata in ogni parte del mondo e quindi diventata una
sorta di moneta internazionale, sia perché era più solida delle altre, sia
principalmente per i servizi finanziari che la piazza di Londra era in grado
di garantire (banche, assicurazioni, borsa, investimenti esteri, ecc.).
12.
.
LE ATTIVITA
PRODUTTIVE

12.1. Le innovazioni in agricoltura

Nonostante la popolazione europea aumentasse notevolmente fmo al


1914, le carestie scomparvero dall ' Europa occidentale. Ciò significava che
i generi alimentari disponibili erano sufficienti a soddisfare l'accresciuta
domanda, anche se esistevano larghe sacche di miseria negli stessi paesi più
Ì11dustrializzati. Tali risultati poterono essere ottenuti grazie all ' incremento
della produttività dell'agricoltura europea e alla messa a coltura di enormi
estensioni di terra in altri continenti, che inviavano nella vecchia Europa
buona parte della loro produzione.
L ' aumento della produttività in agricoltura fu determinato soprattutto
dall'utilizzazione delle macchine e dal maggiore impiego di fertilizzanti.
Le prime macchine agricole, apparse all'inizio dell' Ottocento, erano trai-
nate dagli animali o mosse dalla forza del vapore. Un sistema che si diffu-
se rapidamente Ì11 Europa, già a partire dalla metà del secolo XIX, fu quel-
lo dell' inglese John Fowler, che consisteva in due locomobili opposte, le
quali, ai bordi del campo, tiravano alternativamente l' aratro. Verso la fine
dell'Ottocento i motori a scoppio furono applicati ai trattori e iniziò l'epo-
ca della motorizzazione agricola. Le nuove macchine si diffusero soprattut-
to 11egli Stati Uniti, dove nel 1939 erano in esercizio più di 1,6 milioni di
trattori, mentre in Europa ve ne erano appena 270 mila (tre quarti dei quali
mGermania) e in Unione Sovietica meno di 500 mila. Il tal modo, la pro-
duttività del lavoro i11 agricoltura crebbe enormemente e molti operai agri-
coli si trovarono senza occupazione. Per fare un solo esempio, prima del-
l'introduzione delle macchine, un bracciante con la sua falce riusciva a
mietere, in un' ora, 100 metri quadrati di terreno; nel 1900 riusciva già a
mietere, sempre in un' ora, 3.000 metri quadrati con una falciatrice trainata
da cavalli; venti anni dopo, adoperando una falciatrice agganciata a un trat-
110 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

tore mieteva 9.000 metri quadrati e, nel 1945, con una mietitrebbiatrice ar-
rivava a mietere 10.000 metri quadrati (un ettaro) all' ora, co11 il vantaggio
di aver compiuto anche il lavoro della trebbiatura.
Le macchine agricole si diffondevano specialmente quando ricorrevano
almeno due condizioni essenziali: la presenza della grande proprietà e la
pratica della monocoltura granaria, con vaste estensioni di terra pianeg-
giante. Solo i grandi proprietari si potevano permettere di effettuare i ne-
cessari investimenti. I piccoli proprietari, invece, non erano in grado di do-
tarsi delle macchine più costose, a meno che, come avveniva in Germania,
non si associassero per costituire cooperative per il loro acquisto e per l'uso
a turno da parte dei soci. Né era possibile adoperare le macchine nei poderi
che praticavano la policoltura, mentre risultavano particolarmente efficaci
nelle zone cerealicole, dove sostituivano i lavoratori giornalieri. In molti
paesi europei, perciò, la loro introduzione si scontrò spesso con l'opposi-
zione dei braccianti, che diedero vita a violente proteste durante le quali di-
struggevano le nuove falciatrici e mietitrici.
La diffusione dell'uso dei concimi fu l'altro elemento che favorì l'aumento
della produttività in agricoltura. La meccanizzazione aveva consentito sol-
tanto di accrescere la produttività del lavoro, ma fu merito dei fertilizzanti
se aumentarono anche i rendimenti e la produzione. Fino al 1840 si erano
adoperati quasi solo i concimi naturali, come il letame. Dopo la metà del
secolo, i paesi europei cominciarono a importare il guano ( escrementi di
uccelli marini depositati lungo le coste, ricchi di fosfati e di nitrati) dal Cile
e dal Perù e il nitrato di sodio dal Cile e dalla Bolivia. Poi si utilizzarono le
scorie fosforiche che residuavano dal processo Thomas per la produzione di
acciaio e, infme, gli studi di Justus von Liebig consentirono di mettere a
punto i concimi chimici, che la nascente industria chimica dei principali pae-
si industrializzati riuscì a produrre in gran quantità. Divennero allora di uso
comune la potassa, i fosfati e i nitrati, che servivano a ridare fertilità al ter-
reno, e gli antiparassitari, utilizzati per difendere le piante dalle malattie.

12.2. L'agricoltura mondiale e l'Europa

Lo sviluppo dell'agricoltura, oltre che dalle macchine e dai concimi, fu


favorito anche d.all' estensione dello spazio agricolo. Le terre ancora dispo-
nibili in Europa erano ormai limitate, ma le opere di bonifica intraprese e
l' abbattimento di molti boschi permisero a diversi paesi di aumentare la su-
perficie coltivata. Il miglioramento dell' agricoltura nel vecchio continente
non avvenne in contrapposizione all'industria. Non vi fu, cioè, un'Europa
12. Le attività produttive 111

<<Verde>>, agricola, e un'Europa <<nera>>, industriale. Vi fu, al contrario, un'Eu-


ropa industriale con forte produttività agricola e un'Europa non industria-
lizzata a debole produttività. L'agricoltura, cioè, si sviluppò là dove l' indu-
stria si affermava: la sua crescita fu ad un tempo condizione e conseguenza
dello sviluppo industriale.
Ma forse l'Europa, nonostante i risultati raggiu11ti, non sarebbe riuscita a
crescere nella stessa misura e con la stessa intensità se non avesse potuto
importare derrate alimentari dal resto del mondo. Sembrava che all'inizio
del ventesimo secolo il mondo lavorasse per mantenere l'Europa industria-
lizzata, che pagava le importazioni agricole con l' esportazione di manufatti
e di servizi. I generi alimentari giungevano in Europa da diverse parti del
Pianeta, anche da quelle più lontane, che si erano sp ecializzate n elle produ-
zioni maggiormente favorite dal loro clima.
Le zone temperate, ossia paesi come Stati Uniti, Canada, Argentina e
Australia, svilupparono u11' agricoltura estensiva, vale a dire un'agricoltura
che, al contrario di quella intensiva, si basava sulla coltivazione di un' enor-
me quantità di terra, con un limitato impiego di capitali e con un basso ren-
dimento per ettaro. L'utilizzazione di vaste estensioni di terra (talvolta fmo
allo spreco) rendeva possibile una produzione molto elevata, in particolare
di grano, bestiame e lana. Fino alla metà del secolo XIX, la produzione
agricola delle zone temperate fu assai modesta, ma nel giro di qualche de-
cennio essa aumentò in modo esponenziale e fu possibile esportarne una
parte consistente.
Nelle zone tropicali, come le Antille, il Brasile, l 'Indonesia e qualche
area dell'Africa, erano diffuse le piantagioni, coltivate per conto di grandi
proprietari o di società con manodopera indigena a basso costo. La produ-
zione era destinata in larghissima misura all'esportazione in Europa e negli
Stati Uniti, dove soddisfaceva consumi superflui, se non di lusso, ai quali
però Europei ed Americani si erano abituati o si stavano abitua11do. Si trat-
tava di cacao, caffè, tè o banane, piante che non attecchiscono nei climi
temperati e quindi non potevano essere in concorrenza con i prodotti agri-
coli locali. Molto importante fu l' esportazione di gomma (caucciù) dal Bra-
sile, dove essa era estratta dall 'hevea brasiliensis, un albero selvatico della
giungla tropicale, mediante incisioni praticate sul tronco da raccoglitori in-
digeni (seringueiros), che lavoravano p er conto di mercanti. Verso la fine
dell'Ottocento, in mezzo alla foresta amazzonica si sviluppò la città di Ma-
naus, nota come capitale della gomma, che si abbellì di numerosi monu-
menti (chiese, teatri, ecc.). Ma intanto il seme d ell' hevea era stato esportato
clandestinamente dagli Inglesi (1876) e trapiantato in Indonesia e in Indoci-
na, dove l'albero della gomm.a fu coltivato in grandi piantagioni per soddisfa-
112 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

re l'accresciuta richiesta del mercato mondiale. Già prima della Grande guer-
ra, queste piantagioni, organizzate con criteri capitalistici, misero in crisi la
raccolta di gomma brasiliana, riuscendo a fornire un prod.o tto a costi più bassi
e con maggiore regolarità, e provocarono il declino della città di Manaus.

12.3. Lo sviluppo della tecnologia e della ricerca

Se verso la metà dell' Ottocento nelle principali nazioni europee l' agri-
coltura era ancora l' attività economica prevalente, alla vigilia d ella Prima
guerra mondiale erano ormai l' industria e il settore terziario (per la maggior
parte indotto dallo sviluppo industriale) a dominare la scena. L ' attività in-
dustriale fu caratterizzata, da un lato, dal progresso d.ei sistemi di produzio-
ne e, dall' altro, da una crescente concentrazione, che portò alla creazione di
grandi imprese.
Nella seconda metà dell'Ottocento si concentrò un numero rilevante di
invenzioni. Ebbe luogo allora una vera rivoluzione tecnologica, grazie al le-
game più stretto che si venne a creare fra scienza, tecnica e industria. Il tem-
po necessario per passare da una scoperta scientifica alla sua pratica attua-
zione si ridusse notevolmente: se occorse più di un secolo per mettere a pun-
to la macchina a vapore e adattarla alle locomotive, bastò mezzo secolo per
passare dall'individuazione dei principi alla costruzione dei motori elettrici e
meno di trent' anni per applicare il motore a scoppio alle prime automobili
prodotte in forma industriale. La necessità di affrontar e e risolvere nuovi
problemi posti dai processi produttivi, sempre più complessi, obbligò ad una
collaborazione fra ricerca <<pura>> e applicazioni tecniche. I ricercatori, inol-
tre, ormai dialogavano fra di loro e spesso giungevano separatamente alle
medesime conclusioni, che permettevano di realizzare un'invenzione appli-
cabile all' industria. L ' invenzione si spersonalizzava e diventava sempre più
frutto di un lavoro comune fra diversi individui.
La ricerca scientifica si organizzò, oltre che nelle università, com'era
ovvio, anche presso le aziende, in particolare quelle chimiche, che furono le
più interessate a nuove scoperte. La ricerca venne considerata una delle fun-
zioni della grande impresa, che era l'unica a poter fmanziare gli studi dai
quali si attendeva un vantaggio. In questo campo, la Germania fu all'avan-
guardia : la Bayer, per esempio, assunse, a partire dal 1875, chimici laureati
per condurre ricerche sulle materie coloranti, conseguendo buoni risultati.
I laboratori di ricerca delle industrie più importanti cominciarono a stringe-
re rapporti con i laboratori universitari, dando iniz io ad una proficua colla-
borazione fra università e impres e.
12. Le attività produttive 113

12.4. Una nuova fonte di energia: il petrolio

Le fonti di energia si ampliarono e il petrolio si affiancò al carbone.


L'estrazione di carbone aumentò e la Gran Bretagna, che per tutto il secolo
XIX era stata il principale produttore mondiale, fu superata dagli Stati Uni-
ti. Alla fine della Seconda guerra mondiale, sembrava che lo sviluppo indu-
striale di una grande nazione si dovesse ancora basare sul carbone, che rap-
presentava il 50 per cento delle fonti di energia totali, mentre il petrolio e il
gas naturale erano giunti al 30 per cento.
L ' estrazione del petrolio era cominciata negli Stati Uniti, a Titusville
(Pennsylvania) nel 1859. All'inizio esso fu utilizzato specialmente per l'illu-
minazione domestica e per la lubrificazione delle macchine. Le sue possibili-
tà di applicazione aumentarono notevolmente dopo l' introduzione del motore
a scoppio e il petrolio cominciò anche a rivaleggiare con il carbone e con i
corsi d'acqua nella produzione di elettricità e con il carbone nel riscaldamen-
to degli edifici. La sua produzione crebbe enormemente, grazie, in particola-
re, al contributo degli Stati Uniti, che nel 1913 detenevano il 60 per cento
della produzione mondiale. L'estrazione, la lavorazione, il trasporto e la di-
stribuzione del petrolio e dei suoi derivati fecero sorgere numerose attività
connesse, che ebbero uno sviluppo imponente nel corso dell' intero ventesimo
secolo. P er esempio, si sviluppò un nuovo ramo della chimica, il petrolchimi-
co, che consentì di produrre fibre tessili e resine sintetiche, detersivi, gomma
sintetica, insetticidi, ecc.
L'Europa, purtroppo, se era ricca di carbone, era poco fornita di <<oro
nero>>, come fu detto il petrolio, al contrario di Stati Uniti e Unione Sovieti-
ca che disponevano di abbondanti riserve. Nel 1950, gli Stati Uniti conti-
nuavano a detenere oltre il 50 per cento de lla produzione mondiale ma, nel
frattempo, numerosi altri produttori si erano affacciati sul mercato, come il
Venezuela e i paesi del Medio Oriente (Iran, Iraq, Bahrein e Arabia saudita
e, subito dopo la Seconda gue1Ta mondiale, Kuwait e Qatar).
L'interesse per la disponibilità di petrolio portò alla formazione di un
cartello internazionale (accordo) fra le principali società produttrici, poi
note con il nome di <<sette sorelle>>, come le chiamerà il presidente dell 'Eni,
Enrico Mattei. Il primo accordo fu firmato nel 1928 fra tre grandi società :
una statunitense (Sta11dard Oil ofNew Jersey), sorta nel 1911 dallo smem-
bramento della Standard Oil in applicazione delle leggi antitrust, una olan-
dese (Royal Dutch Shell) e una inglese (Anglo-Iranian, poi British Petro-
leum). In seguito si aggiunsero altre quattro società, tutte americane, due
delle quali sorte anch'esse dalla scissione della Standard Oil (la Standard Oil
of California e la Standard Oil of New York). Il cartello si divise il mercato
114 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

mondiale, con l'esclusione degli Stati Uniti, controllò la produzione e la


raffinazione e vendette il petrolio in tutto il mondo, con1presi i paesi pro-
duttori, a un prezzo pari a quello americano, che era molto elevato.

12.5. Vecchie e nuove industrie

Mentre le industrie della prima rivoluzione industriale ampliavano la lo-


ro attività e si consolidavano, altre più imponenti ne sorgevano e caratteriz-
zavano l' intera seconda rivoluzione industriale. Ma anche le industrie tradi-
zionali raggiungevano nuovi traguardi, potendosi giovare degli enormi ri-
sultati dello sviluppo tecnologico.
Fra le industrie più antiche, notevole importanza conservarono quelle
tessili. Nella seconda metà dell'Ottocento si passò ovunque dalla lavora-
zione a mano a quella meccanica e si realizzarono incrementi di produtti-
vità. Ma, a partire da fine secolo, l' importanza dell' industria tessile euro-
pea cominciò ad essere ridimensionata, anche perché essa finì con il di-
pendere completamente dagli alh·i continenti per l'approvvigionamento
della materia prima. Oltre al cotone e alla juta, che si erano sempre dovuti
importare, ora anche la lana arrivava dall' Australia e dall 'Argentina e la
seta dai paesi dell'Estremo Oriente, che riuscivano a produrle a costi più
bassi. D ' altra parte, molti paesi extra-europei (Stati Uniti, Giappone e al-
cune località della Cina e dell' India), divennero a loro volta produttori e
non acquistarono più i tessuti europei, riuscendo anche a esportare i loro
prodotti e a sottrarre mercati all' industria tessile europea.
A metà Ottocento, l' industria siderurgica doveva risolvere un proble-
ma: come riuscire a produrre acciaio a buon mercato. L'acciaio si ottene-
va dalla decarburazione della ghisa con il costoso sistema del puddellag-
gio, sicché se ne produceva una quantità limitata rispetto alle esigenze.
Nel 1856, l'inglese Henry Bessemer brevettò un nuovo sistema per ottenere
l' acciaio direttamente dalla ghisa fusa (con insufflazione di aria), saltando
la fase del puddellaggio, mediante l' utilizzazione di un apposito apparec-
chio, noto come convertitore Bessemer. Purtroppo, il nuovo procedimento
aveva un grosso limite: non permetteva di utilizzare nella fusione i mine-
rali ferrosi contenenti fosforo, che invece erano quelli più diffusi.
Solo una ventina d ' anni più tardi (1878), due cugini inglesi, Sidney
Thomas e Percy Gilchrist, brevettarono un metodo che eliminava il difetto
del convertitore Bessemer e consentiva di ridun·e i tempi di produzione
dell' acciaio da parecchie ore ad alcune decine di minuti. Fu così possibile
utilizzare i ricchi giacimenti di minerali contenenti fosforo e anche ottenere
12. Le attività produttive 115

scorie fosforiche, che vennero largamente adoperate come fertilizzanti ,


in
agricoltura. Intanto, negli anni Sessanta, l'ingegnere francese Pierre-Emile
Martin e i fratelli tedeschi Friedrich e Wilhelm Siemens avevano messo a
punto un forno, noto poi come forno Martin-Siemens, che consentiva di
produrre acciaio di qualità superiore a costi più bassi. Era iniziata l 'era del
ferro e dell 'acciaio, celebrata dalla costruzione della Tour Eiffel a Parigi
(1889). La produzione mondiale di acciaio passò da meno di mezzo milione
nel 1865 a oltre cinquanta milioni alla vigilia della Grande guerra.
Fra le industrie che caratterizzarono la seconda rivoluzione industriale si
possono ricordare l 'industria metallurgica, che si arricchì di altri metalli,
l'industria automobilistica, quelle che producevano nuove macchine (per
scrivere, per cucire, tipografiche, fotografiche, ecc.), nonché le importantis-
sime industrie chimiche ed elettriche.
L'industria metallurgica iniziò la lavorazione su vasta scala di numerosi
metalli, che si rivelarono molto importanti per lo sviluppo industriale. A metà
Ottocento l' alluminio, scoperto e isolato agli inizi del secolo, era considerato
un metallo <<prezioso>> e il suo prezzo era proibitivo. Quando, negli anni Cin-
quanta, cominciò a essere prodotto industrialmente in Francia, il prezzo di-
minuì fino a 80 franchi al chilogrammo. Ma fu solo con la messa a punto del
processo elettrolitico (1886) da parte del francese Paul Héroult e dell'a-
mericano Charles Hall, basato sull'utilizzazione della corrente elettrica per
estrarre il metallo dalla bauxite, che il prezzo crollò a 1,70 franchi ( 1909).
L'alluminio trovò applicaz ione in molti settori (industrie chimiche, elettriche,
alimentari, utensileria, ecc.) e divenne quasi il metallo per eccellenza della
seconda rivoluzione industriale.
Altri metalli importanti furono il rame e il nichel. Il rame era già ampia-
mente utilizzato per fabbricare utensili di cucina o per ottenere il bronzo (le-
ga di rame e stagno). Ma a fine Ottocento le sue applicazioni aumentarono: il
solfato di rame fu utilizzato come anticrittogamico in agricoltura, mentre la
qualità di ottimo conduttore elettrico di questo metallo ne permise l' uso per
la fabbricazione di cavi elettrici . La sua produzione, fra il 1850 e la Grande
guerra, passò da 57 mila a un milione di tonnellate. Anche la produzione di
nichel, metallo individuato a metà Settecento, aumentò notevolmente. Utiliz-
zato soprattutto nelle leghe (per esempio nella produzione di acciaio inossi-
dabile), servì quasi esclusivamente per la produzione di materiale bellico.
Fra le nuove industrie, quella automobilistica si sviluppò rapidamente,
specie negli Stati Uniti. Agli inizi le automobili erano prodotte in una miri-
ade di piccole officine che le costruivano in modo artigianale. Ma ben pre-
sto sorsero vere fabbriche con molti operai, fra le quali si possono ricordare
quella dei fratelli Renault in Francia e la Fiat di Giovanni Agnelli a Torino,
11 6 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

entrambe sorte nel 1899. Negli Stati Uniti, lo stabilimento di Henry Ford
(1903) occupava ben 14.000 operai nel 19 14, quando in America già circo-
lavano 1, 7 milioni di automobili, contro le 108 mila della Francia.
Altre invenzioni diedero luogo a nuove attività produttive e svilupparono
industrie di tutto rilievo, specialmente dopo la Prima guerra mondiale. La
macchina per scrivere fu costruita su scala industriale negli Stati Uniti, a par-
tire dal 1873, nella fabbrica di armi di Philo Remington, ma si affermò solo
verso la fme del secolo. In Italia la produzione ebbe inizio con il primo bre-
vetto di Camillo Olivetti, nella sua fabbrica di Ivrea (1908). Le 1nacchine ti-
pografiche furono perfezionate, in particolare la rotativa per la stampa dei
giornali (già apparsa nel 1847), e altre ne furono inventate, come la linotype
per la composizione (1884), durata oltre un secolo fino all' introduzione dei
computer. Infine, bisogna ricordare la macchina fotografica prodotta dalla
Kodak, che semplificò il procedimento per ottenere bt1one riproduzioni e ri-
dusse i costi, mettendo la fotografia alla portata di tutti.

12.6. Chimica ed elettricità

Le industrie chimiche ed elettriche, che pera ltro richiedevano grossi in-


vestimenti iniziali, furono quelle che maggiormente caratterizzarono la se-
conda rivoluzione i11dustriale.
Le industrie chimiche riguardavano una grande varietà di prodotti, da
quelli farmaceutici ai fertilizzanti, dalla conservazione dei prodotti alimen-
tari ai tessuti, dagli esplosivi alle materie plastiche. I coloranti artificiali,
dopo la produzione di una tintura all'anilina ( composto azotato liquido) da
parte dell' inglese William Perkin (1856), sostituirono i coloranti naturali,
che prima si estraevano dalle piante tintorie (robbia per il rosso, guado per
il nero e blu , e così via). Lo svedese Alfred Nobel riuscì a rendere utilizza-
bile la nitroglicerina (1863) e a fabbricare la dinamite (1875), mentre il bel-
ga Emest Solvay ideò un procedimento semplice p er la fabbricazione della
soda (1865). Furono inve11tate le prime materie plastiche sintetiche, come la
celluloide (1867), e le prime fi bre tessili artificiali (1884). Tutto questo av-
venne nell'arco di appena una trentina d'anni.
Una particolare importanza rivestirono le fibre tessili sia artificiali che
sintetiche. Le fibre artificiali, come il raion alla nitrocellulosa e il raion-
viscosa, derivano da sostanze vegetali, animali o minerali. Esse s'imposero
fra le due guerre e fecero concorrenza alle fibre tessili tradizionali. Quelle
sintetiche, come il nailon, ottenute da composti chimici di sintesi, si comin-
ciarono a diffondere solo alla vigilia della Seconda guerra mondia le.
12. Le attività produttive 117

Un nuovo comparto fu quello dell'industria della gomma. La lavorazio-


ne della gomma iniziò negli Stati Uniti dopo l' introduzione del processo di
vulcanizzazione da parte di Charles Goodyear (1839), che consentì di con-
ferire maggiore durezza al prodotto finale. Cinquant'anni più tardi (1888)
uno scozzese, John Dunlop, brevettò il primo pneumatico, applicato alle bi-
ciclette e alle carrozze trainate da cavalli, prima di passare alle automobili.
Alla vigilia della Grande guerra, il primo posto nel consumo della gomma
spettava agli Stati Uniti, dove tre società, Goodyear, Goodrich e Firestone,
si spartivano il mercato.
L 'industria elettrica tardò a svilupparsi perché, nonostante l' elettricità
fosse già nota, non si riusciva a produrne in quantità industriali a basso
prezzo. La scoperta fondamentale che ne consentì lo sfruttamento fu dovuta
al fisico belga Zénobe Gramme, il quale costruì ( 1869) una macchina che
trasformava in elettricità l'energia sviluppata dalla macchina a vapore. Po-
chi anni dopo (1873), in Francia si riuscì a generare elettricità con la forza
dell' acqua (cascate), che perciò si disse <<carbone bianco>>. In tal modo, si
poté produrre energia elettrica anche nei paesi che non disponevano di car-
bone per alimentare i generatori di corrente. Verso il 1880 era ormai possi-
bile produrre elettricità in abbondanza, anche perché proprio allora era stato
risolto il problema del suo trasporto a distanza.
L'energia elettrica, che è una forma di energia e non una fonte di energia
(come il carbone o il petrolio), trovò un numero crescente di applicazioni
nella vita domestica, nei trasporti e nell' industria. Grazie all' invenzione
(1878) della lampada a incandescenza da parte dell'americano Thomas Edi-
son, l' illuminazione elettrica delle città, degli uffici, delle fabbriche e delle
abitazioni private, sostituì a poco a poco le candele, le lampade a petrolio e
il gas. I mezzi di trasporto, come i tram e le metropolitane, furono subito
elettrificati e l'elettricità si rivelò indisp ensabile ai sistemi di comunicazio-
ne a distanza, quali il telegrafo, il telefono e la radio. Ma anche la metallur-
gia e le industrie chimiche vi fecero ricorso, per i processi elettrolitici e per
i forni e i motori elettrici adoperati. P erciò, la produzione e il consumo
mondiale di elettricità balzarono da 50 miliardi di clulowattora nel 1918 a
460 miliardi nel 1938. L' elettricità, inoltre, diede origine a una fiorente in-
dustria di materiali elettrici (dinamo, lampade e attrezzature telefoniche).
Va ricordato che all' elettricità si deve anche la nascita dell' industria ci-
nematografica. A partire dal 1895, quando i fratelli Auguste e Louis Lu-
mière, che peraltro non credevano nell 'avvenire della loro invenzione, pre-
sentarono la prima pellicola cinematografica, il nuovo strumento si diffuse
rapidamente sia in Europa che in America. La Francia d.etenne il primato
nella produzione di film almeno fino alla Prima guerra mondiale, grazie
11 8 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

principalmente all' intraprendenza e all'abilità di Georges Méliès, il quale,


al contrario dei Lumière, seppe comprendere le enormi possibilità di svi-
luppo del cinematografo e produsse circa cinquecento pellicole.
L'elettrificazione fu probabilmente l'innovazione più importante del pe-
riodo fra le due guerre mondiali, tanto che lo stesso Lenin affermò che la
rivoluzione 1ussa era costituita dai Soviet più l' elettrificazione. L ' elettricità
presentava il vantaggio di essere silenziosa, pulita, facile da trasportare e in
genere disponibile a un prezzo relativamente basso.

12. 7. Commercio e investimenti esteri

L ' incremento della produzione e l'evoluzione dei sistemi di trasporto


stimolarono fortemente gli scambi, sia all'interno dei singoli Stati sia a li-
vello mondiale. Il commercio interno conobbe profonde trasformazioni. Fi-
no alla seconda metà del secolo XIX, esso si era svolto nelle fiere, punto
d'incontro periodico di venditori di merci di ogni tipo, o tramite mercanti
ambulanti, presenti in ogni parte d'Europa, che si spostavano da un paese
all'altro per vendere piccoli oggetti di varia natura, come biancheria, coltel-
li, ombrelli, immagini religiose e almanacchi. Fiere e venditori ambulanti,
tuttavia, non scomparvero del tutto neanche successivamente. Con l'avven-
to dei nuovi mezzi di trasporto e della produzione in fabbrica apparve la
nuova figura del commesso viaggiatore, il quale, sulla base di un campiona-
rio, collocava merci per conto di case rinomate presso i negozianti, ai quali
venivano inviate successivame11te tramite la fe1Tovia.
Nel frattempo si cominciava a sviluppare il commercio fisso, con l' ap-
parizione di numerosi negozi che vendevano i nuovi prodotti dell' industria
moderna. A partire dal 1820 si erano affermati dapprima i bazar, dove si
trovava di tutto, e poi i negozi sp ecializzati. Nella seconda metà del secolo,
i negozi si diffusero specia lmente nelle città, dove potevano contare su una
clientela in costante crescita, perché le merci offerte in vendita erano alla
portata anche di un pubblico con modeste dispo11ibilità fi11anziarie. Verso la
metà dell' Ottocento apparvero i grandi magazzini nelle principali città
d'Europa, a cominciare da Parigi, dove nel 1852 fu aperto il <<Bon Marché>>
per la vendita a prezzo fisso. Negli Stati Uniti si svilupparono anche le pri-
me forme moderne di pubblicità commerciale e furono introdotti il sistema
dei saldi, la vendita per corrispondenza, molto comune fra le popolazioni
dell'Ovest che facevano arrivare le merci più costose dall'Est ordinandole
dai cataloghi, e la vendita a rate, abbastanza frequente prima del 1914 fra i
negozi di mobili e casalinghi.
12. Le attività produttive 119

Un'importanza molto maggiore ebbe il conimercio internazionale, di cui


si conoscono meglio la dinamica e i volumi. Il commercio mondiale au-
mentò di sei volte fra gli anni Trenta e gli anni Settanta dell' Ottocento e si
triplicò ancora fino alla Grande guerra. La crescita riguardò, ovviamente, i
paesi sviluppati dell' Europa e del Nord America. Alla vigilia della Grande
guerra, gli scambi si svolgevano per il 40 per cento fra i paesi europei e per
quasi il 36 per cento fra l'Europa e gli altri continenti, con un attivo della
bilancia commerciale europea, sicché la sola Europa partecipava ai tre
quarti del commercio mo11diale. Essa, oltre ai prodotti tropicali ai quali gli
Europei si erano ormai abituati, acquistava grano e carne da Stati Uniti,
Canada, Argentina, Australia e Nuova Zelanda e importava molte materie
prime, come metalli non fen·osi, petrolio, fertilizzanti, gomma e fibre per le
industrie tessili. In cambio inviava negli altri continenti i suoi manufatti,
soprattutto articoli di abbigliamento, tessuti, materiale fen·oviario e loco-
motive, oltre all' unica materia prima di cui era ricca: il carbone.
Questo schema degli scambi fra materie prime contro manufatti non
esauriva il commercio estero dell'Europa. Esso era affiancato da un a ltro
circuito: lo scanibio di maniifatti tra i paesi industrializzati, fra i quali s i
stabilirono strette relazioni commerciali, tanto che, per esempio, il princi-
pale cliente della Germania era la Gran Bretagna e il miglior cliente della
Gran Bretagna era la Germania.
Un necessario complemento allo sviluppo degli scambi internazionali
furono gli investimenti esteri ( o esportazioni di capitali), da parte dei prin-
cipali paesi europei. La Gran Bretagna e successivamente la Francia e la
Germania effettuarono cospicui investimenti all'estero, dato che avevano
risorse da impiegare e i tassi di profitto e d' interesse in Europa non erano
più remunerativi come prima. In generale, gli investimenti britannici anda-
rono a società private, mentre quelli francesi si rivolsero al debito pubblico.
I finanziamenti erano concessi dai risparmiatori che - tramite le banche o
direttamente in Borsa - acquistavano le azioni e le obbligazioni emesse da
società oppure sottoscrivevano titoli pubblici.
I paesi che ottennero i maggiori prestiti furono 11umerosi:
a) gli Stati Uniti, che accolsero capitali, specialmente inglesi, per finan-
ziare le costruzioni ferroviarie, le imprese minerarie e i <<ranches>> dell' O-
vest; essi, anche se agli inizi del secolo XX cominciarono a investire capita-
li all'estero, rimasero complessivamente debitori netti;
b) la Russia, che si servì dei capitali, in maggioranza francesi, per finan-
ziare le ferrovie, la flotta e l'esercito;
c) molti paesi dell'America Latina, che costruirono ferrovie e altre infra-
strutture e crearono banche e società di assicw·azione grazie ai capitali inglesi;
120 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

d) il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda, i quali ottennero finan-


ziamenti inglesi per la costruzione di infrastiutture;
e) diversi paesi europei in fase di sviluppo, che furono finanziati dalle
nazioni europee più ricche.
I fondi da destinare agli investimenti esteri erano costituiti, in genere, da
oro, valute o divise, che un paese si procurava quando riusciva a esportare
più di quanto importasse, vale a dire quando realizzava un avanzo della bi-
lancia comnierciale. Ma anche quando tale bilancia risultava in disavanzo,
fu possibile effettuare investimenti all'estero con le entrate deriva11ti dall' e-
sportazione di servizi, dalle rimesse d.egli emigrati e dai profitti e dagli inte-
ressi di precedenti investimenti ali' estero, insomma con l'avanzo della bi-
lancia dei pagamenti '. E, infatti, la Gran Bretagna ebbe, per quasi tutto il
secolo XIX, una bilancia commerciale in disavanzo ma una bilancia dei pa-
gamenti in attivo.

1
La bilancia dei pagamenti è costituita dall a djfferenza fra tutti i pagamenti e tutte le ri-
scossioni di un paese verso il resto del mondo. I paga,nenti (uscite) di un paese sono dovuti
a: importazjoni di merci, acquisto di servizi all 'estero (noli, assicurazioni, servizi bancari ,
ecc.), spese dei turisti nazionali all 'estero, rimesse di denaro degli immigrati nei loro paesi
di origine, interessi pagati a stranieri sui loro investimenti e investimenti nazionali all 'estero.
Le riscossioni (entrate) dj un paese si ottengono da: esportazioni di merci, vendita di servizj a
stranjeri (noli, assicurazioni , servizi bancari, ecc.), spese dei turisti stranieri , rimesse di denaro
da parte dei propri emigrati, riscossione dj interessi sui capitali investiti all'estero e investi-
menti provenienti dall 'estero. Se le riscossioni superano i pagamenti si ha un avanzo, che bi-
sognerà riscuotere in danaro (o in oro) ; se i pagamenti superano le riscossioni si ha un disa-
vanzo, che bisognerà pagare in danaro (o in oro). La sola differenza fra il valore delle impor-
tazioni e delle esportazioni ili merci, come si è visto, costituisce la bilancia commerciale, che
è solo una parte, sia pure molto importante, della bilancia dei pagamenti.
13.
LA GRANDE
IMPRESA

13.1. La formazione della grande impresa

La dimensione delle imprese rimase ancora modesta fmo all'ultimo


quarto del secolo XIX. Solo nei settori che producevano beni intermedi o
strumentali si erano costituite grandi industrie, capaci di sfruttare economie
di scala nella produzione, nella commercializzazione e nella ricerca tecnica.
Negli ultimi decenni del secolo, i vantaggi delle imprese di grandi dimen-
sioni divennero più numerosi ed evidenti ed esse si allargarono a tutta una
serie di beni di consumo ( calzature, abbigliamento, sigarette, beni di con-
sumo durevoli, ecc.), il cui mercato si stava ampliando, grazie allo sviluppo
della rete di trasporti e alla promozione pubblicitaria.
La grande impresa, che gli Americani chiamano corporation, non era
tale solo perché disponeva di un capitale elevato e concentrava in fabbrica
un gran numero di lavoratori, ma anche perché costituiva un centro di ac-
cumulazione di conoscenze scientifiche e tecniche, un luogo di concentra-
zione del potere economico e un sistema di organizzazione. La grande im-
presa si diffuse anche per far fronte ai periodi di depressione, come quelli
che caratterizzarono l'ultimo quarto del secolo XIX e gli anni Trenta del
Novecento. La forma giuridica da essa assunta era quella della società ano-
nima o p er azioni, tanto più che le norme r estrittive per la costituzione di ta-
li società erano state progressivamente eliminate in tutti i paesi.
La grande impresa si formò in seguito a un p rocesso di concentrazione,
sia orizzontale che verticale, realizzato mediante fusioni di più imprese o
mediante incorporazioni di imprese più piccole da parte di quelle più grandi:
a) la concentrazione orizzontale ha lo scopo di riunire sotto un'unica di-
rezione strategica imprese che opera110 nello stesso stadio della produz ione
o nello stesso comparto, per esempio più imprese siderurgiche o più impre-
se elettriche;
122 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J8 50-195O)

b) la concentrazione verticale unisce imprese che partecipano al processo


di fabbricazione di uno stesso prodotto; un esempio è costituito da un' impre-
sa siderurgica che acquista miniere di carbone e di minerali ferrosi (a monte)
e imprese di trasformazione del ferro, di trasporto e di vendita (a valle).
L'affermazione di una sorta di economia mondiale fra la fine dell'Otto-
cento e la Grande guen·a indusse alcune imprese a costituire all' estero pro-
prie filiali o a fondarvi società da esse controllate. Nacquero, così, le impre-
se multinazionali, che operavano in diversi paesi con società formalmente
autonome, costituite secondo la legislazione del paese ospite, ma di fatto
sottoposte a un'unica direzione che restava nel paese di origine. La prima
multinazionale sembra sia stata, negli anni Sessanta dell'Ottocento, l'ame-
ricana Singer, produttrice di macchine p er cucire.
Qu.a ndo non si voleva o non si poteva costituire un'unica grande impre-
sa era possibile, per realizzare obiettivi comt1ni, git1ngere ad accordi fra
imprese, sotto forma di cartelli e trust. I cartelli si diffusero principalmente
in Germania, ma i11teressarono anche altri paesi. Essi, stipulati fra imprese
che trattavano lo stesso prodotto, avevano lo scopo di fissare i prezzi di
vendita, la quota di produzione o le quote di mercato spettanti a ciascuna
impresa aderente, oppure tutte queste cose assieme. In tal modo, un settore,
per esempio quel lo siderurgico, poteva essere in tutto o in gran parte domi-
nato dal cartello e le imprese che non ne facevano parte si potevano trovare
in grosse difficoltà.
Il trust fu la forma prevalente di concentrazione industriale attuata negli
Stati Uniti, ma si diffuse anche in molti altri paesi. In questo caso, una s o-
cietà capogruppo (holding ) acquistava azioni di altr e società fino ad averne
il controllo e porre tutte le imprese del gruppo sotto un'unica direzione
strategica. I trust giunsero a controllare importanti rami economici e nelle
loro mani si concentrò un grande potere. In diversi paesi (in particolare
negli Stati Uniti) furono contrastati con leggi, dette appunto <<antitrust>>, le
quali, però, non riuscirono a conseguire risultati di rilievo e le concentra-
zioni continuarono.
Le imprese, grandi e piccole, nacquero quasi tutte come imprese fami-
liari, ossia appartenenti a un solo individuo o a pochi individui della stessa
famiglia. A mano a mano che la dimensione dell'impresa tendeva a cresce-
re, la gestione diretta da parte del proprietario o dei proprietari diventava
più difficile e le risorse finanziarie personali si rivelavano insufficienti per
sostenerne l' espansione. Si giunse, in tal modo, alla sep arazione fra pro-
prietà e mariagement. I proprietari dell' impresa, cioè, preferirono affida1ne
la guida a persone esperte e capaci, i manager, e limitarsi ad esercitare il
controllo tramite il consiglio di amministrazione, nella loro qualità di deten-
13. La grande impresa 123

tori dell'intero pacchetto azionario o, quanto meno, del pacchetto di con-


trollo 1• Per la preparazione dei manager, così com'era awenuto per gli in-
gegneri, si svilupparono apposite scuole: all'inizio le scuole superiori di
commercio e poi le business schools, la prima delle quali fu costituita nel
1908 negli Stati Uniti, presso la prestigiosa Harvard University (Cambridge,
nell'area metropolitana di Boston, Massachusetts), fondata tre secoli prima
(1636) dal filantropo John Harvard.
Difficilmente le aziende rimanevano nelle mani della stessa famiglia
per più di un paio di generazioni. Sembrava un destino comune alle impre-
se di ogni paese che la prima generazione di imprenditori fosse quella del
fondatore, che creava quasi dal nulla una nuova attività, la seconda gene-
razione portasse l' impresa ad elevati livelli di organizzazione e di produ-
zione, mentre la terza ( o la quarta), cresciuta negli agi, non mostrasse più
interesse per I'aziend.a di famiglia e si dedicasse ad altre attività. Era quel-
la che è stata defmita la <<sindrome dei Buddenbrook>>, dalla famiglia di
imprenditori di Lubecca, le cui vicende, dal successo alla decadenza, furo-
no descritte nel famoso romanzo di Thomas Mann, intitolato appunto <<I
Buddenbrook>> e uscito nel 1901 .

13.2. Taylorismo e fordismo

All' interno della grande impresa, specialmente quella americana, il la-


voro fu organizzato <<scientificamente>>. Per aumentare il rendimento del-
1' operaio, difatti, furono condotti numerosi studi, i più importanti dei quali
risultarono quelli dell' ingegnere americano Frederick Taylor, da cui deriva
il termine taylorismo, pubblicati nel 1911. Egli si rese conto che I' orga-
nizzazione del lavoro nelle fabbriche era del tutto casuale e che i risultati
non corrispondevano agli sforzi posti in essere per realizzarli. Perciò, divi-
se il processo di lavorazione in operazioni semplici e ne misurò il tempo
di esecuzione. In tal modo, poté fissare i tempi standard di ogni operazio-
ne ai quali si dovevano adeguare gli operai, che dovevano essere opportu-
namente istruiti sui movimenti da compiere e incentivati con compensi in
denaro per ciascun pezzo prodotto (cottimo).

1
Il pacchetto di controllo è la quantità di azioni che consente il controllo di una società.
Non è necessario che esso sia costituito da più del 50 per cento delle azioni, perché, se la mag-
gior parte delle azioni è distribuita fra un gran numero di azionisti, basta anche una quota infe-
ri ore per controllare la società. Quando le azioni di una società sono in mano a un grandissuno
ntunero di azionisti, il controllo è sostanziahnente nelle mani dei n1anager. Si parla allora, nella
terminologia anglosassone, di public con1pany, ossia di società ad azionariato diffuso.
124 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

Gli studi sull' organizzazione scientifica del lavoro furono app licati, per
la produzione in serie, alla catena di montaggio, costituita da un nastro sul
quale scorrevano i pezzi su cui ogni lavoratore doveva compiere, nel tempo
previsto, l'operazione di sua competenza. Siccome le mansioni alla catena
di montaggio erano molto semplici e si potevano facilmente apprender e in
poco tempo, gli operai specializzati, che avevano costituito i primi sindaca-
ti, persero prestigio e potere contrattuale all'interno della fabbrica a favore
degli operai generici. I ritmi di lavoro subirono una forte accelerazione e la
spersonalizzazione dell'attività lavorativa divenne la caratteristica specifica
del sistema di fabbrica.
La catena di montaggio fu particolarmente utilizzata, nei primi decenni
del secolo XX, dall'industria automobilistica. La costruzione delle autovet-
ture si prestava in modo particolare a sfruttare le possibilità offerte dal-
l' assemblaggio di pezzi standardi zzati . Il merito di averla applicata su larga
scala spetta a Henry Ford, che ebbe anche l'intuizione di fare dell'auto-
mobile, nata come bene di lusso, un oggetto alla portata delle masse. Perciò
praticò una politica di alti salari, in modo da consentire agli operai e ai la-
voratori in genere di poter acquistare, eventualmente a rate, le autovetture
standardizzate che era in grado di produn·e a costi contenuti. Era nato il co-
siddetto modello fordista di sviluppo (o fordismo).
La fabbrica fordista risultò conveniente anche per la produzione di altri
beni standardizzati, da collocare su un mercato che si andava ampliando a
mano a mano che i salari reali 2 crescevano e i consumi di massa si diffon-
devano. Dagli Stati Uniti, dov'era nato e dove si affermò fra le due guerr e
mondiali, il modello fordista si estese, sp ecialmente nel secondo dopoguer-
ra, agli altri paesi industrializzati, a cominciare da quelli europei. La fab-
brica standardi zzata secondo il modello taylorista presentava, però, qual-
che punto debole. La catena di montaggio doveva funzionare senza alcuna
interruzione, dato che il lavoro di un operaio era strettamene collegato a
quello degli altri. Perciò, per esempio, bastava uno sciopero a scacchiera di
pochi lavoratori nei vari reparti p er paralizzare l'intera produzione.
Il taylorismo e la catena di montaggio furono fortemente criticati, in
particolare dalle associazioni sindacali, per la monotonia delle operazioni
da compiere e per i disturbi psichici che potevano arrecare ai lavoratori,
oltre che p er la liquidazione della professio11alità operaia.

2
Il salario reale è dato dalla quantità di beni e servizi che si possono acquistare con il
salario nominale, ossia quello percepito dal lavoratore dipendente. Perciò, vi può essere un
aumento del sala1io nominale, ma non del salario reale, se nel frattempo i prezzi sono au-
mentati in misura maggiore dell'incremento salariale.
13. La grande impresa 125

13.3. Le piccole e medie imprese e la cooperazione

Nonostante l'affermazione della grande impresa, le piccole e medie im-


prese, quasi sempre a carattere fa miliare, conservarono un ruolo molto im-
portante. Anche se il numero di addetti nelle fabbriche con più di mille di-
pendenti era in aumento, la loro percentuale sul totale rimase bassa.
La maggioranza dei lavoratori era impiegata nelle imprese medie e pic-
cole e molti osservatori contemporanei ritennero che l'evoluzione econo-
mica favorisse, in fondo, la conservazione delle piccole imprese, che pera l-
tro si mostravano più <illmane>> nei confronti dei dipendenti. Sembra, però,
che gli interessi della classe operaia fossero meglio salvaguardati e difesi
nella grande fabbrica piuttosto che in quelle più piccole, dove la tutela sin-
dacale dei lavoratori risultava più difficile. Le imprese di modeste dimen-
sioni resistevano in attività tradizionali come l'abbigliamento, l'alimentare
e la lavorazione del legno, ma anche in alcune nuove attività, quali la pro-
duzione e la riparazione di macchine elettriche, la produzione di biciclette
e, a ll' inizio, anche delle au tomobili.
E' opportuno riservare qualche breve cenno anche ad altre forme di im-
prese che allora si svilupparono: le imprese cooperative. Esse erano costi-
tuite da persone che si associavano per gestire un'attività economica, fon-
dandos i sui va lori della responsabilità, dell'aiuto reciproco, della solidarietà
e dell'uguaglianza. Le società cooperative, anche se realizzavano profitti,
non avevano ( e non hanno) scopo di lucro, ma rispondevano a finalità eti-
che e sociali. Esse nacquero con l' industrializzazione e si differenziarono in
cooperative di consumo, di produzione e di credito, arrivando a coinvolge-
re, in Europa e in America, già alla vigilia della Grande guerra, alcuni m i-
lioni di individui, che erano diventati soci di una cooperativa.
Le cooperative di consumo sorsero in Inghilterra e si diffusero in tutta
l'Europa occide11ta le con lo scopo di acquistare beni di consumo all' in-
grosso (per lo più generi alimentari) per poi rivenderli a l minuto ai soci a
prezzi convenienti. Il movimento cooperativo nacque proprio con la coope-
razione di consumo, quando in un sobborgo di Manchester ve1me fondata la
<<Società dei probi pionieri di Rochdale>> (1 844) da parte di una trentina di
operai tessili, i quali si associarono p er creare un loro spaccio di generi di
. . '
prima necessita.
Le cooperative di produzione riuniscono un gruppo di lavoratori per
svolgere un'attività produttiva e assicurare parità di salario e uguale distri-
buzione degli utili. Nacquero in Francia e operarono in diversi campi ( edi-
lizia, agricoltura, metallm·gia, trasporti, ecc.). Fra esse si distinsero le coo-
perative agricole, maggiormente diffuse nei paesi scandinavi e neg li Stati
126 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

Uniti. Nel grande Paese d'oltreoceano, le cooperative agricole si sviluppa-


rono principalmente in alcune aree del Midwest, dove si erano insediati
numerosi immigrati di origine scandinava e finlandese, che vi impiantarono
le prime organizzazioni cooperative sulla base dell 'esperienza maturata nel
paese di origine. Ma non mancarono, negli Stati Uniti, iniziative spontanee
di cooperazione fin dagli anni Quaranta dell' Ottoce11to nel settore lattiero-
caseario e poi nella movimentazione dei cereali.
Le cooperative di credito, infine, vennero fondate in Germania per rac-
cogliere risparmi ed esercitare il credito a favore dei soci. Esse assunsero la
forma, già ricordata, di casse rurali, dovute all'opera di diffusione di Frie-
drich Raiffeisen, e di banche popolari, propagandate da Hermann Schulze-
Delitzsch. Si diffusero anche in altre parti d'Europa, come la Francia e
l' Italia, dove continuano ad avere un' importanza rilevante.
Va notato, infine, che alcune imprese cooperative, sia di consumo che di
produzione o di credito, riuscirono a svilupparsi e diventarono grandi im-
prese, che seppero assumere un posto di rilievo nel settore in cui si trova-
vano ad operare.
14.
I PAESI INDUSTRIALIZZATI
GRAN BRETAGNA E FRANCIA

14.1. I diversi ritmi dello sviluppo

L ' andamento dello sviluppo economico fu talvolta molto diverso da pa-


ese a paese, come si ricava dai tassi percentuali annui di crescita del Pil pro
capite fra il 1820 e il 1950 (vedi tab. 14.1). La Gran Bretagna mostra, fra il
1870 e il 191 3, un rallentamento della sua crescita, segno delle difficoltà
incontrate. Gli Stati Uniti, che già avevano fatto registrare il più alto tasso
di crescita prima del 1870, continuarono a svilupparsi con intensità. I paesi
che avevano avuto una performance meno brillante, come Germania e
Francia, accelerarono la loro rincorsa nei confronti della Gran Bretagna e
quelli rimasti indietro (Italia e Russia) mostrarono una certa vitalità, mentre
il Giappone fu una vera rivelazione. Nel successivo p eriodo 1913-50,
l' incremento del Pil dei paes i più sviluppati fu, con l' eccezione della Russia
( o più precisamente dell'Unione Sovietica), inferiore sia a quello rea lizzato
negli anni 18 70-1913 sia a quello successivo. I tassi di crescita furono bas-
sissimi, tenendosi in media attorno all'uno per cento all'anno.
Per esaminare la diversa posizione dei principali paesi e la loro marcia
di avvicinamento alla Gran Bretagna, si può considerare l'evoluzione del
livello del Pil pro capite, riportata nella tabella 14 .2, pur con le difficoltà
che raffronti di questo tipo presentano. Nel 1820, i paesi meno lontani dalla
Gran Bretagna erano gli Stati Uniti e la Francia. Germania e Italia si trova-
vano un poco più indietro, mentre Russia e Giappone erano molto distan-
ziati, con un Pil pro capite poco sopra il 30 per cento di quello britannico.
Come si può faci lmente notare, il vantaggio della Gran Bretagna rispetto
agli altri paesi era evidente e talvolta risultava addirittura eccezionale.
Mezzo secolo più tardi, nel 1870, solo gli Stati Uniti e la Germania s i
erano avvicinati alla Gran Br etagna, mentre tutti gli altri avevano visto
crescere il loro svantaggio, non perché fossero rimasti immobili, ma perché,
128 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J8 5 0-195 O)

Tab. 14.1. - Tassi p ercentuali m edi annui di crescita del Pii p ro capite nei
p ri11.cip ali p aesi, per p eriodi, dal 1820 al 201O

Paesi 1820-1870 1870-1913 1913-1950 1950-1973 1973-1995 1995-2007 2007-2010


Gran Bretagna 1,3 1,0 0,9 2,4 l,7 3,0 - 17
Francia I,O 1,5 I, I 4,0 1,6 1,6 - 1' I
'
Gennania 1, 1 1,6 0,2 5,0 1, 7 1,4 0,2
Stati Uniti 1,3 1,8 1,6 2,5 1,8 2, 1 - 13
Russia (Urss) 0,6 1, 1 1,8 3,4 - 18 5,3 l 1
'
' '
Giappone 0,2 1,5 0,9 8, 1 2,6 1,0 - 07
'
Italia 0,6 1,3 0,9 5,0 2,2 1,2 - 22
'
Fonte: Dati tratti da A Maddison, L 'econornia mondiale dall'anno 1 al 2030. Un profilo
quantitativo e niacroeconomico, Milano, 2008, p. 436 (tab. A.8) e da quelli pubblicati (aggior-
nati al 2010) sul sito web del Groningen Growth and Development Centre, University of Gro-
ningen, all' indirizzo "www.ggdc.net/Maddison" (nostri calcoli).
Nota: Fino al 19 13, i dati della Germania sono riferiti ai confi ni del 1913 (senza Alsazia
e Lorena) e, dal 1950, ai confini del 199 1 (Germania riunificata). I dati della Ru ssia sono ri-
feriti ai territori dell 'ex Unione Sovietica (Urss), coincidenti all' incirca con quelli dell ' Im-
pero zarista. I dati della Gran Bretagna sono quelli del Regno Unito e, perciò, comprendono
anche i dati dell ' Irlanda fmo al 1920.

Tab. 14.2. - Livello del Pii pro capite dei p rincipali paesi raffrontato con quel-
lo della Gran Bretag na, p er alcuni anni dal 1820 al 201 O

Paesi 1820 1870 1913 1950 1973 2010


Gran Bretagna 100 100 100 100 100 100
Francia 58 54 68 75 107 90
Gennania 50 52 71 56 100 87
Stati Uniti 59 70 103 138 139 128
Russia (Urss) 32 27 29 41 50 33
Giappone 32 21 27 28 95 92
Italia 53 43 50 46 87 78
Fonte: Dati tratti da A. Maddison, L'economia niondiale. Una prospettiva niil/enaria, cit.,
pp. 389-390 (tab. B.13), 420-42 1 (tab. B.21) e dal sito web citato nella tab. 14.1 (nostri calcoli).
Nota: Per la Germania e la Russia, vedi nota tab. 14. 1. Per la Gran Bretagna sono stati con-
siderati, fino al 1913, perché disponibili, solo i dati di Inghilterra, Gall es e Scozia (senza
l'Irlanda); dal 1950 i dati sono quelli del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.

proprio in quell' arco di tempo, la Gran Bretagna aveva accelerato il suo


sviluppo. Dopo il 1870, viceversa, fu la Gran Bretagna a rallentare, men-
tre gli altri paesi crescevano più rapidamente. Perciò, alla vigilia della
Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano ormai raggiunto e superato
il paese leader, menh·e altri, come Francia e Germania vi si erano avvici-
14. Gran Bretagna e Francia 129

nati. Italia, Russia e Giappone, anche se avevano accorciato le distanze, ri-


sultavano, nel 1913, addirittura più indietro di qua11to no11 lo fossero nel
1820: i loro sforzi non erano serviti a recuperare il distacco accumulato fra
il 1820 e il 1870.
Entro il 1950, nessu11 altro paese, oltre agli Stati Uniti, riuscì a raggiun-
gere la Gran Bretagna. Anzi qualcuno, come la Germania, addirittura perse
terreno, mentre l'Italia e il Giappone r imasero sosta.n zialmente stazionari;
solo la Francia guadagnò alcuni punti percentuali. Tutti, però, furono di-
stanziati dagli Stati Uniti, che stavano diventando il paese a cui fare riferi-
mento. A metà secolo XX, ormai, il suo Pil pro capite superava del 38 per
cento quello britannico.

14.2. Il declino relativo della Gran Bretagna

Nella seconda metà dell' Ottocento, la Gran Bretagna visse uno dei pe-
riodi più prosperi de lla sua storia, che sostanzialmente coincise con il lungo
regno della regina V ittoria (1837-1901). L'età vittoriana, però, si chiuse
con un rallentamento della crescita, che ha fa tto parlare di declino <<relati-
vo>> della Gran Bretagna, la quale rimaneva comunque la principale potenza
economica europea. In effetti, non vi fu una decadenza assoluta, ma una
sorta di offuscamento del suo primato, dovuto al fa tto che i paes i inseguito-
ri erano riusciti a sviluppare un maggiore dinamismo e avevano accorciato
le distanze da essa o l'avevano addirittura superata (Stati Uniti). Prima del-
la Grande guerra, pure la Germania l'aveva sorpassata in alcuni rami pro-
duttivi, anche se il suo Pil pro capite era ancora il 7 1 per cento di quello bri-
tannico. L'economia del Paese d'o ltremanica mostrava evidenti sintomi di
debolezza, ma tuttavia le sue basi restavano solide.
Un elemento di forza era costituito dalla popolazione, che continuò a cre-
scere nonostante l' emigrazione, passando, fa il 1850 e il 1914, da una ventina
a più di 40 milioni, di cui oltre i tre quarti vivevano in città. L ' inditstria con-
servava un posto di primissimo pia.no, tanto che, intorno al 1870 la Gran Bre-
tagna era ancora la prima nazione manifatturiera del mondo, con quasi il 32
per cento della produzione mondiale di manufatti. Alla vigilia della Prima
guerra mondiale, però, la sua quota si era ridotta al 14 per cento ed essa era
stata superata da Stati Uniti (36 per cento) e Germania (16 per cento). L 'im-
piego del vapore, ancora limitato a metà secolo XIX, si diffuse rapidamente e
la produzione di carbone registr ò un fortissimo incremento, tanto che un ter-
zo del prodotto poteva essere esportato. Le industrie traenti della pr ima rivo-
luzione industria le (tessile e siderurgica), viceversa, anche se applicarono, ma
130 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

con lentezza e non completamente, le innovazioni e i nuovi processi produt-


tivi, persero te1Teno rispetto ai concon·enti.
Se la posizione di prima nazione industriale della Gran Bretagna era insi-
diata da altri paesi, essa conservava il primato nel commercio estero. Il Paese
doveva importare la maggior parte dei generi alimentari e molte materie pri-
me, che pagava con l' esportazione dei propri manufatti. Il disavanzo della bi-
lancia commerciale veniva colmato con i proventi derivanti dai sevizi resi
agli stranieri dalle banche, dalle compagnie di assicurazione e dalla marina
mercantile, oltre che con i rendimenti degli investimenti esteri e con le rimes-
se d.e gli emigrati. Per conseguenza, la bilancia dei pagamenti britannica pre-
sentava un avanzo.
L 'agricoltura, viceversa, sacrificata dalla scelta liberoscambista, conob-
be un periodo di crisi, sp ecialmente quando i prezzi dei prodotti agricoli
crollarono in seguito a ll 'arrivo di prodotti a buon mercato da paesi lontani.
Non vedendo speranze di migliorare la loro condizio11e, molti agricoltori
abbandonarono le fattorie per cercare occupazione in altri settori. Le cam-
pagne si spopo larono, anche perché la meccanizzazione stava sostitu endo il
lavoro dei braccianti e molte te1Te prima coltivate a grano furono convertite
al pascolo. Si vennero formando, così, fa ttorie ben organizzate che s i sp e-
cializzarono nella produzione di carne e latticini.

14.3. La cause del declino

Il declino dell'economia britannica ebbe molte cause, che non sempre è


facile individuare e la cui ricerca ha occupato parecchi studiosi. Tuttavia è
possibile indicarne le principali, che sicuramente non le esauriscono tutte.
1. Lo svantaggio del first corner. L' Inghilterra era stato il primo paese a
industrializzarsi e, verso la fine del secolo XIX, possedeva ormai un appara-
to industriale in parte obsoleto, non più al passo con la nuova realtà 1• Molti
manufatti inglesi, perciò, rimasero a basso contenuto tecnologico e furono
superati da quelli dei paes i di nuova industrializzazione. Essi, tuttavia, con-
tinuarono a trovare facile sbocco nelle colonie, dove si vendevano bene per-
ché soddisfacevano i modesti bisogni degli abitanti, assicurando discreti
profitti agli esportatori, anche grazie al rapporto preferenziale stabilito con
la madrepatria. Sembra che la possibilità di esportare prodotti tradizionali
1
I macchinari o gli impianti si considerano obsoleti quando sono ormai sorpassati da
modelli o apparati più efficienti, che consentono minori costi di produzione, sicché si rende
necessario sostituirli, anche se sono ancora perfettamente funzionanti. La loro vita eco-
nomica, cioè, può risultare più breve della vita fisica.
14. Gran Bretagna e Francia 131

nelle colonie abbia contribuito a ritardare l'ammodernamento industriale


del Paese, che non sentiva l'esigenza di effettuare investimenti p er lanciarsi
nei nuovi rami d ' industria. Qualche studioso ha anche notato una sorta di
inerzia degli imprenditori del tardo periodo vittoriano, i quali non apparve-
ro così dinamici come i loro predecessori e non rinnovarono le loro impre-
se. Essi non si mostravano particola1mente inter essati alle nuove industrie,
come quel le chimiche ed elettriche, alle quali si dedicarono più tardi e senza
molta convinzione. Né, d ' altra parte, si preoccuparono d' introdurre le nuo-
ve forme di organizzazione manageriale delle imprese, che in genere conti-
nuarono ad essere condotte con la collaborazione di semplici capireparto.
2. La dipendenza dall'estero. Lo stato di dipendenza dall'estero non era
affatto 11uovo, v isto che da alcuni decenni gli Inglesi erano costretti a im-
portare parecchie derrate alimentari, ma ora si fece più forte. L ' incremento
della produzione industriale richiedeva l' importazione di molte altre mate-
rie prime del tutto assenti in Gran Bretagna (petrolio, gomma, ecc.). Inoltre,
la crescita della popolazione e il miglioramento del suo tenore di vita la co-
stringevano ad importare fino al 75 per cento dei generi alimentari di cui
aveva bisogno.
3. Il sistema d 'istruzione. In Gran Bretagna il s istema scolastico si rivelò
inadeguato di fronte alle nuove esigenze dello sviluppo industriale. L 'istru-
zione elementare pubblica per tutti fu introdotta con ritardo rispetto ad altri
paesi e le università inglesi (110n quelle scozzesi) riservarono scarsa attenzio-
ne alla preparazione scientifica degli studenti, continuando a privilegiare
un' educazione classica da impartire ai figli delle classi agiate. In tal modo
contribuirono a perpetuare una visione aristocratica della società, che mostra-
va scarsa considerazione per l'attività produttiva. Gli stessi imprenditori, con
una simile formazione, erano molto più interessati alla finanza e al commercio
internazionale che non agli aspetti più propriamente tecnici della produzione.
4. Il ruolo dello Stato. In Gran Bretagna, lo Stato, anche se dovette assu-
mere molte importanti decisioni in materia economica, ebbe comunque una
funzione meno propulsiva per lo sviluppo di quella svolta in altri paesi. Esso,
in un certo senso, rinunziò ad assumersi responsabilità dirette verso l' econo-
mia e rimase fedele al principio liberale d.el laissez-faire 2• Ma impegnò pa-
recchie risorse nell'espansione coloniale, alla quale si dedicò con convinzio-
ne, e nello svolgimento della funzione di <<gendarme del mondo>> che si era
attribuita, intervenendo in molti conflitti scoppiati in alcune zone del Pianeta.

2
L'espressione laissez:faire è usata per indicare il principio della dottrina economica I i-
berista contraria all' intervento dello Stato in econo1nia. Essa de1i va dalla frase laissez-faire,
laissez-passer (lasciate fare, lasciate passare), utilizzata nel Settecento dai fisiocratici per ri-
chiedere libe1tà di produzione e di scambio.
132 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

Il declino relativo dell' economia britannica, iniziato dopo il 1870, con-


tinuò anche successivamente alla Prima guerra mondiale. La Gran Bretagna
non fu più in grado di riconquistare la prima posizione nell' economia mon-
dia le e, dopo la Seconda guerra mondiale, fu sorpassata, per livello di Pil
pro capite, anche da altri paesi (vedi tabb. 14.2 e 26. 1).

14.4. La Francia dal Secondo Impero alla Belle époque

Fra metà Ottocento e la Grande guerra l'economia francese continuò la


sua lenta, ma costante crescita (vedi tabb. 14.1 e 14.2). Essa, però, seguita-
va a soffrire di un debole incremento demografico e di un eccessivo p eso
d.el settore agricolo.
L 'industria conobbe una lenta evoluzione. I centri industriali di qualche
consistenza erano p ochi, come quello di Parigi, che era anche un grande
mercato di consumo, e quello costituitosi attorno a Lione, dove si era svi-
luppata una fiorente industria per la lavorazione della seta. Nel resto del
Paese vi era una miriade di microimprese, condotte con il lavoro del titolare
e dei suoi familiari, e moltissime piccole e medie imprese, concentrate nelle
tradizionali attività artigianali. Esse, se non riuscivano ad assicurare eco-
nomie di scala, presentavano l'indubbio vantaggio di costituire una st,-uttit-
ra produttiva flessibile, capace di fronteggiare le crisi economiche meglio
di quanto potesse farlo una struttura fondata su grandi complessi industriali.
Queste imprese, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta cam-
pagna, svolgevano attività molto diversificate, sicché un' eventuale crisi ne
avrebbe colpite solo alcune, senza creare grossi problemi all' economia lo-
cale e a quella nazionale. Al contrario, il crollo di un'impresa di grandi di-
mensioni avrebbe avuto effetti disastrosi su un gran numero di individui,
dai soci ai lavoratori, dalle banche finanziatrici ai fornitori e ad altri ancora.
I Francesi, che mediamente non si trovavano in condizioni economiche
particolarmente floride, erano tuttavia dei gran risparniiatori. Non tanto gli
operai, che vivevano del loro salario e non erano in grado di risparmiare
molto, quanto i borghesi e i contadini, che s' impegnavano con tenacia ad
incrementare i loro risparmi e ad indirizzarli verso impieghi sicuri, come
l' acquisto di terre, di titoli di Stato e di obbligazioni a reddito fisso, rifug-
gendo dai p iù rischiosi investimenti azionari. Questo comportamento era
anche una conseguenza dello scarso dinamismo demografico e dell'invec-
chiamento della popolazione, che contribuivano a diffondere fra i Francesi
la mentalità del rentier, ossia di chi amava vivere di rendita. Le persone an-
ziane e con pochi figli non si preoccupavano molto da ll 'avvenire, per cui
14. Gran Bretagna e Francia 133

erano portate a risparmiare piuttosto che a investire e, quando impiegavano


i loro risparmi, preferivano redditi bassi ma sicuri e costanti, invece di ri-
schiarli per realizzare guadagni più elevati.
Durante il Secondo Impero (1852-70), lo sviluppo economico conobbe
un'accelerazione. Napoleone III, diventato imperatore dei Francesi, dopo
essere stato presidente della Seconda Repubblica (1848-52), rivolse la sua
attenzione ali' economia, cercando di favorire gli strati borghesi che l' ave-
vano appoggiato nella conquista del potere. In quel periodo, la Francia co-
struì la sua rete ferroviaria, portandola da appena 3.000 a 22.000 chilome-
tri, con il sistema delle concessioni a imprese private. Fu avviato anche un
vasto programma di lavori pubblici, che riguardò la costruzione o l'ammo-
dernamento di alcuni porti (Le Havre, Marsiglia, ecc.) e, principalmente, il
rinnovamento edilizio di Parigi, dove, sotto la guida del prefetto della Sen-
na Georges-Eugène Haussmann, furono demo liti i vecchi quartieri operai e
vennero edificati monumentali palazzi e gra11di viali rettilinei (boulevards).
Per sostenere lo sviluppo industriale sorsero alcune banche costituite
sotto forma di società anonime, fra cui il Cr édit Mobilier (1852), il Crédit
Lyonnais (1863) e la Société G énérale (1864). Questi istituti, costituiti in
genere per impulso di grandi banchieri privati, finanziarono le imprese in-
dustriali di qualsiasi ramo, dalle costruzioni ferroviarie all 'edilizia, dalla s i-
derurgia alla chimica, e talvolta promossero anche la costituzione di altre
banche. Un' importanza particolare lo ebbe il Crédit Mobilier, fondato dai
fratelli di origine portoghese Emile e Isaac Pereire, sansimoniani convinti,
che fece conoscere il credito mobiliare anche ad altri paes i europei, dove
furono impiantati istituti analoghi. Era un nuovo tipo di banca, che racco-
glieva fondi con l'emissione di proprie obbligazioni e concedeva finanzia-
menti a lungo termine alle imprese, anche mediante l'acquisizione di loro
azioni e obbligazioni. Trovatosi in difficoltà per arrischiate speculazioni edi-
lizie, l' istituto fu costretto al fallimento (1871).
Sotto il Secondo Impero, la Francia, seguendo l' esempio ing lese, ab-
bandonò il protezionismo per avvicinar si al libero scanibio. Questa politica,
però, che trovava nell' imperatore un fervente sostenitore, aveva molti op-
positori. Siccome una nuova tariffa generale con dazi più bassi avrebbe in-
contrato l' ostilità del Parlamento, Napoleone III decise di rico1Tere alla sti-
pulazione di trattati commerciali, il primo dei quali fu proprio con la Gran
Bretagna (1860). Esso è noto come trattato Cobden-Chevalier, dal nome d.e i
due promotori, il francese Michel Chevalier e l'inglese Richard Cobden, il
fautore del libero scambio. Negli anni successivi, furono stipulati nuovi
trattati con il Belgio ( 1861), la Prussia ( 1862), i 'Italia ( 1863) e altri paesi
europei, tutti contenenti la clausola della nazione più favorita.
134 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

In seguito al la gue1Ta franco-prussiana ( 1870-71 ), la Fra.n cia subì una


cocente sconfitta e il Secondo Impero crollò. Napoleo11e III perse il trono,
in Francia fu instaurata la Terza Repubblica e il Paese dovette cedere l' Al-
sazia e la Lorena alla Germania e versarle una grossa indennità di guerra di
5 miliardi di franchi. I Francesi, che disponevano di grossi risparmi, riusci-
rono a pagarla rapidamente in oro. U11a parte dell' indennità fu utilizzata dai
Ted.e schi per acquistare prodotti francesi, specialmente di lusso, con bene-
ficio dell' economia del Paese sconfitto. La quota rimasta in Germania favo-
rì attività speculative e portò quel Paese, che aveva appena realizzato la sua
unificazione politica, verso la crisi finanziaria del 1873, la quale, scoppiata
a Berlino, si estese anche a Vienna e a New York. Il cancelliere tedesco Bis-
marck si pentì di aver chiesto il pagamento dell' ind.e nnità e pare abbia detto
che se avesse vinto un' altra guerra sarebbe stato lui a pagare il paese scon-
fitto. La Francia si riprese rapidamente dalla disfatta e conobbe un nuovo
periodo di espansione durato fino al 1881.
In seguito anche la Francia risentì della crisi agraria europea, aggravata
dalle malattie delle piante che provocarono danni gravissimi all' industria
del vino e a quella della seta. Le forze contrarie alla p olitica di libero scam-
bio ripresero vigore. Fin dal 1881, per iniziativa del deputato Jules M éline,
erano stati aumentati i dazi doganali e successivamente ( 1892), il Parlamen-
to approvò una nuova tariffa doganale (detta appunto tariffa Méline), che
sostituì i dazi <<ad valorem>> con quelli specifici 3 e introdusse dazi molto ele-
vati. La Francia era ritornata al protezionismo. Questa politica provocò con-
trasti e rotture commerciali (le cosiddette <<guerre dei dazi>>) con paesi come
la Svizzera e l'Italia e il commercio estero francese rimase stazionario p er
molto tempo.
Una forte ripresa si ebbe verso la fine del secolo con la Belle époque,
espressione coniata proprio nel Paese d'oltralpe per indicare un periodo di
prosperità materiale e di fioritura culturale. L ' industria conseguì impor-
tanti risultati sia nei settori tradizionali sia nelle industrie nuove e il
commercio estero riprese a crescere. Il turismo si sviluppò notevolmente e
la Francia divenne il paese più visitato, primato che ha conservato fino ai
nostri giorni.

3
I dazi specifici colpiscono le merci in 1nisura fissa per categoria merceologica (per esem-
pio, 50 centesimi per ogni cappello importato), a prescindere dal loro prezzo, e perciò sono fa-
cilmente applicabili. I dazi ad valorem, viceversa, sono fissati in percentuale del prezzo del bene
(per esempio, il l Oper cento del prezzo dei cappelli), la cui esatta determinazione non sempre è
agevole, per la tendenza dell'iinportatore a dichiarare un valore inferi ore a quello effettivo.
15.
I PAESI A FORTE CRESCITA
GERMANIA E STATI UN ITI

15.1. Lo sviluppo economico tedesco

Prima delle guerre 11apoleoniche, la Germania era un paese molto fra-


zionato, diviso in 360 Stati. Il Congresso di Vienna (1815) diede vita alla
Confederazione germanica, riducendo il numero degli Stati a 39, due dei
quali (Prussia e Austria) più grandi degli altri. L'economia tedesca risultava
ancora poco sviluppata, tanto che nel 1820 il Pil pro capite era la metà di
quello britannico e per giunta la sua posizione era peggiorata nel corso del
secolo precedente (vedi tab. 8.1 ).
L'agricoltura costituiva l' attività prevalente, ma le condizioni dei con-
tadini erano molto diverse fra la parte occidentale del Paese (a ovest d.el
fiume E lba), dove erano più liberi, e quella orientale (a est dell'Elba), do-
ve vivevano in condizioni servili alle dipendenze degli Junker, i signori
feudali discendenti dai conquistatori tedeschi, che, nel Medioevo, aveva-
no colonizzato quelle terre e avevano sottomesso le locali popolazioni di
origine slava. L 'industria era quasi asse11te e il sistema di fabbrica si af-
fermò solo con molto ritardo, utilizzando macchine importate dall ' Inghil-
terra, che si diffusero con molta lentezza: basti pensare che la prima mac-
china a vapore fu introdotta in una fabbrica prussiana nel 1788, ma la se-
conda soltanto nel 1822. Le corporazioni erano molto forti, almeno fino al
1810, quando in Prussia il lavoro fu reso libero e ognuno poté esercitare
un mestiere o trovare un'occupazione senza doversi iscrivere alle corpo-
razioni, le quali, però, rimasero in vita in alcuni Stati fino a metà secolo e
anche oltre.
Nella prima metà dell'Ottocento furono realizzate alcune importanti ri-
forme. La prima fu l'emancipazione dei servi, decisa i11 Prussia con due
editti del 1807 e del 18 11 , subito imitata dagli altri Stati tedeschi, che por-
tò alla fine della servitù e alla ripartizione delle terre fra signori e contadini.
136 La seconda rivoluzione iridustriale (J 850-1950)

In tal modo, la proprietà terriera fu affrancata da vincoli e si formò un mer-


cato delle terre liberamente commerciabili.
L ' altra grande novità fu la creazione di una sorta di <<mercato comune>>
fra gli Stati tedeschi. Il commercio era intralciato dalla presenza di un ele-
vato numero di barriere doganali, non solo fra i 39 Stati, ma anche all' in-
terno di ciascuno di essi (nella sola Prussia, per esempio, se ne contavano
ben 67). Per realizzare l'unione doganale furono necessarie lunghe lotte po-
litiche ed economiche, nelle quali si distinse Friedrich List, sostenitore del-
1' economia <<nazionale>>. Nel 1828 si costituirono tre leghe: al Nord quella
p1ussiana, al Sud una Lega fra la Baviera e il Wiirttemberg e al Centro una
Lega favorita dall'Austria, che mal vedeva il progetto prussiano di costitui-
re un ampio spazio commerciale sotto il suo controllo. A poco a poco, però,
la Lega centrale si disgregò e molti Stati aderirono a quella prussiana per
dare vita ali' Unione doganale (Zollverein), costituita nel 1833 ed entrata in
vigore l'anno successivo.
Il miglioramento dei mezzi di trasporto amplificò gli effetti dello Zoll-
verein. Furono mig liorate le strade e si costruirono le prime ferrovie, a par-
tire dalla linea, molto breve, fra Norimberga e Fiirth in Baviera (1835). A
metà secolo, la Germania, con circa 6.000 chilometri di strade ferrate, ave-
va la rete più estesa dell'Europa continenta le. La diffico ltà dei pagamenti,
derivante dall'esistenza di numerose monete, fu parzialmente risolta con
accordi fra i singoli Stati: quelli del Sud adottarono una moneta comune, il
fiorino ( 1837), mentre quelli d.el Nord si diedero come moneta unica il ta l-
lero (1838). I biglietti di banca erano quasi sconosciuti: a metà Ottocento
costituivano appena il 3 per cento della moneta circolante in G ermania.
In seguito alla vittoriosa guerra contro la Francia, la Prussia riuscì, gra-
zie a ll'azione del cancelliere Otto von Bismarck, a realizzare l'unificazione
tedesca, proclamata nel 1871 nella reggia di Versailles, nella Francia anco-
ra occupata. Si era costituito l'Impero (Reich), ossia una confederazione di
25 Stati, che aveva una notevole forza economica, a capo della quale fu po-
sto il re di Prussia Guglielmo I, con il titolo d ' imperatore (Kaiser). Dopo
l'u1lificazione, la Germania conobbe una fase di grande sviluppo, no11ostan-
te il periodo di depressione che stava caratterizzando l'economia europea,
tanto che alcuni studiosi collocano in quegli anni il decollo della sua eco-
nomia e parlano di <<miracolo tedesco>>. Tra la fme del secolo X IX e la Pri-
ma guerra mondiale, lo sviluppo si fece travolgente e la Germania diventò
la principale potenza economica continentale.
Nel settore industriale si formarono imponenti complessi e vennero co-
stituite migliaia di società per azioni. La siderurgia si giovò di un forte in-
cremento della produzione di carbone, specia lmente nella Ruhr, ai confini
15. Gerniania e Stati Uniti 137

con l'Olanda, dove si trovava il più grande bacino carbonifero e industriale


tedesco. Aumentò anche la produzione dei minerali ferrosi, in seguito al-
l' annessione della Lorena, che peraltro erano abbastanza vicini ai giacimen-
ti di carbone. In questo ramo va ricordata la famosa casa Krupp, che nel
1913 aveva ben 70 mila dipendenti e si era specializzata nella produzione
di cannoni nelle sue acciaierie di Essen (Ruhr) e di navi corazzate nei di-
versi cantieri di cui era proprietaria.
Le industrie chimiche, quasi inesistenti fino al 1860, utilizzarono la tec-
nologia più moderna, sfruttando il vantaggio del <<last corner>>. Sorsero fab-
briche di fertilizzanti, di coloranti e di prodotti farmaceutici. Nel campo dei
concimi chimici la Germania fu all'avanguardia per gli studi di Justus von
Liebig, professore universitario e fondatore dell' omonima azienda per la
produzione di estratti di carne. La crescita dell'industria elettrica fu ancora
più rapida e attinse anch'essa personale e ricerche dal mondo universitario.
Nacquero grandi complessi produttivi, come la AEG (Allgemeine E lektrizi-
tats-Gesellschaft) con i suoi 60 mila dipendenti e la Siemens con 81 mila.

15.2. I fattori dello sviluppo

Questo straordinario sviluppo fu agevolato da numerosi fattori, fra i


quali si possono ricordare, oltre alla raggiunta unificazione e all' annessione
dell'Alsazia e della Lorena, il ruolo svolto dal sistema bancario, dai traspor-
ti, dai cartelli, dal dumping e dallo Stato.
1. Il sistema bancario. Le banche ebbero un ruolo di primo piano (forse
anche troppo enfatizzato) nel sostenere la crescita economica, svolgendo in
pieno, assieme allo Stato, quella funzione di fattore sostitutivo dei prerequi-
siti dello sviluppo di cui parla Gerschenkro11. Siccome la Germania non
possedeva i capitali necessari per finanziare il suo sviluppo, la funzione
delle banche, che raccoglievano i risparmi dei cittadini e li indirizzavano
verso il fmanziamento industriale, fu estremamente importante. Al vertice
del sistema bancario fu posta la Reichsbank (Banca dell' Impero), costituita
nel 1875, con il compito di regolare l'emissione cartacea della nuova mone-
ta, il marco. Introdotto dopo !'unificazione, il marco fu definito in oro, gra-
zie alla riscossione dell' indennità di guerra imposta alla Francia, e consentì
alla Germania di adottare il gold standard. Le numerose banche sorte in
quegli anni ebbero tutte la caratteristica di banche miste. Esse, perciò, favo-
rirono la costituzione di società industriali, con le quali stabilirono rapporti
molto stretti, acquistando parte dei loro pacchetti azionari e facendo entrare
propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle nuove società.
138 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

Le quattro più importanti, che dalle iniziali si dissero banche D (Deutsche


Bank, Dresdner, Darmstadter e Disconto Gesellschaft), costituirono potenti
gruppi ba11cari. Ad esse s i affiancarono numerose banche provinciali, sem-
pre con funz ioni di banche miste, moltissimi banchieri privati, spesso legati
alle principali aziende di credito, e le banche coop erative, sorte proprio in
Germania, dove ebbero un grande successo.
2. Il ruolo dei trasporti. I trasporti contribuirono alla formazione di un
grande mercato nazionale e permisero la partecipazione della G ermania al
commercio internazionale. Le ferrovie e la navigazione interna furono po-
tenziate, ma il vero miracolo fu la creazione di una potente flotta mercanti-
le, seconda in Europa solo a quella britannica e pressoché pari a quella ame-
ricana. La Germania, nonostante avesse un limitato sbocco al mare, fu la
prima a costruire transatlantici giganteschi, che attraversavano l' Atlantico
in cinque o sei giorni, gareggiando con quelli inglesi, francesi e americani
per la conquista dell'ambito <<nastro azzurro>>, simbolico trofeo assegnato
alla nave che riusciva a compiere la traversata nel più breve tempo.
3. I cartelli. Si diffusero specialmente durante la Grande depressione,
con lo scopo di regolare la concorrenza e, secondo alcuni, anche per evitare
la sovrapproduzione. Essi, inoltre, presentavano il vantaggio di potersi co-
stituire per breve tempo e sciog liersi quando non si ritenevano più utili, ri-
dando piena libertà alle imprese associate. Se ne crearono moltissimi: nel
1875 ve n'erano appena quattro, nel 1890 erano già un centinaio e nel 1914
se ne contavano quasi mille. In un primo momento, lo Stato cercò di con-
trastarli, perché portavano a forme di oligopolio 1, ma successivamente li
regolamentò con una legge (1897), rendendoli del tutto legali.
4. Il dumping. Con questo termine s'intende una politica di vendita che
prevede due listini di prezzi: uno più alto per il mercato interno e l'altro più
basso per i mercati esteri. Lo scopo è di far conoscere il proprio prodotto
all'estero, offrendolo anche sottocosto se necessario, per poi aumentare il
prezzo appena esso si è affermato. Il dumping, com 'è faci lmente immagina-
bile, provocò, in Germania, le proteste dei consumatori, che erano costretti a
pagare prezzi relativamente più alti, e anche di alcuni industriali, che si pote-
vano trovare di fronte a una sorta di dumping alla rovescia, quando le impre-
se straniere riuscivano a fare concorrenza ai prodotti tedeschi utilizzando ma-
terie prime o semilavorati importati dalla Germania a prezzo di dumping. La

1
Il termine oligopolio (dal greco oligos, poco, e polein, vendere) indjca una forma di mer-
cato in cui poche imprese controllano la produzione e la vendita ili un dato bene o servizio.
L'oligopoli o, affennatosi con il processo di concentrazione industriale iniziato alla fine del se-
colo XIX, è più frequente del monopolio, che prevede la presenz.a su] mercato di un solo pro-
duttore e venditore, condizione djfficile da realizzarsi, se non in determinati e limitati casi.
15. Gerniania e Stati Uniti 139

pratica del dumping, tuttavia, si generalizzò, perché i vantaggi per l'industria


e per le esportazioni tedesche erano superiori agli inconvenienti, che pure
erano stati messi in luce da un' inchiesta governativa (1903).
5. Il ruolo dello Stato (governo imperiale e governi dei singoli Stati del
Reich), che sostenne lo sviluppo economico in diversi modi. A parte la cir-
costanza, comune a tutte le nazioni, che lo Stato era diventato un grande
consumatore ( esercito, amministrazione, servizi pubblici, ecc.) e quindi con
la sua domanda sosteneva la produzione, furono i suoi numerosi interventi
nell'economia a farne un protagonista dello sviluppo. Favorì i cartelli e il
dumping, adottò un' efficace politica protezionistica, che riguardò sia l ' in-
dustria che l'agricoltura (il <<protezionismo solidale>> di Bismarck), gestì la
rete ferroviaria, fissando le tariffe, e indirizzò gli investimenti esteri verso
paesi amici con i quali vi erano rapporti commerciali e finanziari. Ma, prin-
cipalmente, si sforzò di sostenere le esportazioni. Le ambasciate e i conso-
lati tedeschi all'estero, difatti, avevano appositi funzionari addetti allo stu-
dio dei mercati ed erano impegnati a favorire in tutti i modi il collocamento
delle merci tedesche. Lo Stato, inoltre, riservò pa11icolare cura a lla diffu-
sione dell'istruzione tecnica e scientifica, che svolse un'importante funz io-
ne nello sviluppo economico e sociale della Germania. In quel Paese vi era
una grande considerazione per la scienza, principalmente per quella applica-
ta e i professori e gli ingegneri godevano di un indiscusso prestigio. Furono
istituite numerose scuole tecniche e professionali, nella convinzione che la
scuola fosse in grado di fornire la preparazione necessaria e sufficiente per
lo svolgimento di ogni attività pratica. Va infine ricordato che Bismarck, ri-
masto al potere per quasi trent'a1mi (1862-90), dotò la Germania, negli anni
Ottanta, dell 'assicurazione obbligatoria dei lavoratori contro le malattie, gli
infortuni, l' invalidità e la vecchiaia (pensioni), facendone il primo paese a
disporre di una forma di previdenza sociale. Anche in questo modo, lo Stato,
fornendo maggiore capacità di spesa ai lavoratori, sostenne l'economia e per
giunta assicurò un vasto consenso popolare a un regime autoritario.

15.3. Immigrazione e colonizzazione negli Stati Uniti

Intorno al 1860 gli Stati Uniti, con una popolazione di circa 31 milioni
di abitanti, avevano una quota della produzione industriale mondiale uguale
a quella francese ed erano superati solo dalla Gran Bretagna. Essi avevano
già realizzato il loro take off. Mezzo secolo più tardi, poco prima della
Grande guerra europea, la popolazione, con 92 milioni di abitanti, s i era
quasi triplicata e gli Stati Uniti detenevano più di un terzo della produzione
140 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

industriale mondiale, superiore cioè a quelle britannica e tedesca assieme.


Nel frattempo il Pil pro capite era cresciuto più velocemente che in qualsia-
si altro paese, passando dal 70 per cento di quello britannico nel 1870 al
103 per cento nel 191 3 (vedi tab. 14.2).
I fattori principali che determinarono questo imponente sviluppo eco-
nomico furono un forte aumento della popolazione, il compimento della co-
lonizzazione, l'affermazione della grande impresa (corporation) e la forma-
zione di un vasto mercato interno, anche grazie alla creazione di un effi-
ciente sistema di trasporti.
La popolazione aumentò sia per incremento naturale sia per il contributo
dell'immigrazione. Fra il 1861 e il 1914, gli Stati Uniti accolsero quasi 27
milioni di immigrati, la metà dei quali dopo il 1900, vale a dire durante la
fase di espansione industriale. Per tutto il secolo XIX continuò a prevalere
l'immigrazione dai paesi dell'Europa centro-settentrionale (Germania, isole
britanniche, paesi scandinavi, ecc.), mentre con il nuovo secolo prevalsero
gli immigrati dall'Europa meridionale e orientale (Italia, Spagna, Grecia,
Polonia, Russia, ecc.). L'inserimento degli immigrati non fu affatto faci le,
per via della diversità di cultura, di valori, di religione e, in certi casi, del
colore della pelle. I nuovi arrivati avevano tre possibilità: a) rinunziare per
quanto possibile alla loro cultura di origine e accettare quella americana;
b) impegnarsi in uno sforzo per far coesistere la loro cultura e i loro valori
con quelli del paese di arrivo, nel tentativo di far emergere una nuova cultu-
ra comune; c) conservare i propri valori e le proprie tradizioni, adattandoli
solo in minima parte a quelli americani per potersi far accettare, ma costitu-
endo in sostanza gruppi separati.
I Wasp (White, Anglo Saxon, Protestant), ossia i protestanti anglosas-
soni bianchi, che costituivano il gruppo dominante, preferivano il primo
atteggiamento e discriminarono chi non accettava i loro valori e il loro
modo di vivere. Gli immigrati giunti dall'Europa centro-settentrionale, con
l'eccezione degli Irlandesi, che erano cattolici, s' integrarono senza grossi
problemi. Anzi, sembrò che si stesse affermando l'idea del melting pot
(crogiuolo), secondo la quale era possibile far sorgere una nuova società
dalla fusione di diverse culture (il caso b prima riportato). Ma quando
giunsero i nuovi immigrati, mediterranei e slavi, che erano solo bianchi,
ma non a11glosassoni e protestanti, la situazione si complicò e la teoria del
melting pot mostrò i suoi limiti. I nuovi arrivati, peraltro, si ammassarono
negli Stati della costa atlantica, dove sovraccaricavano il mercato del lavo-
ro, e siccome si accontentavano di bassi salari provocarono le proteste dei
sindacati, che cominciarono a chiedere l'approvazione di leggi restrittive
dell'immigrazione.
15. Gerniania e Stati Uniti 141

La colonizzazione fu portata a compimento entro la fme del secolo, quan-


do ormai la frontiera non esisteva più e tutti i territori dell' Ovest erano stati
popolati e messi a coltura o destinati all'allevamento. La coltivazione delle
nuove terre, effettuata con l' impiego di grandi macchine agricole, determinò
un forte incremento della produzione, destinata alle grandi città dell'Est e
all'esportazione in Europa. Finita la disponibilità di nuovi territori, il prezzo
della terra, rimasto bassissimo per tutto l'Ottocento, cominciò a crescere.
Un'importanza notevole ebbe la coltivazione del cotone, praticata nelle
grandi piantagioni del Sud co11 centi11aia di schiavi neri, ma anche da mol-
tissimi piccoli proprietari con pochi schiavi. La Guerra di secessione (1861-
65) fra gli Stati del Nord e quelli del Sud fu causata, com'è noto, proprio
dalla questione della schiavitù. Ma non fu l' unico motivo, perché le due
parti del Paese erano profondamene diverse e avevano interessi contrastan-
ti, per esempio a proposito del libero scambio, richiesto dal Sud che dove-
va esportare il cotone e avversato da l Nord che si stava industrializzando.
Alla fine della guen·a il Sud sconfitto divenne la parte più povera del-
l'Unione e tale rimase per quasi un secolo. Dopo l'abolizione della schiavi-
tù, i proprietari di piantagioni non furono in grado di pagare la manodopera
e perciò chiesero agli ex schiavi ( circa quattro milioni) di seguitare a lavo-
rare nelle loro piantagioni in cambio di un terzo del raccolto, dando vita ad
un rapporto che richiama quello di mezzadria . In altri casi, divisero le pian-
tagio11i in piccoli appezzamenti, che vendettero all'asta o diedero in affitto.
Se il raccolto non era sufficiente, i piccoli proprietari, i fittavoli e i nuovi
mezzadri, bianchi o neri che fossero, erano costretti a indebitarsi, cedendo
il raccolto futuro in garanzia ai proprietari e ai mercanti che li fina11ziava110,
e cad.e ndo spesso nella spirale dell' indebitamento cronico. Parecchi ex
schiavi si accorsero che la libertà non aveva migliorato di molto la loro
condizione e che la nuova società non garantiva loro nemmeno i fondamen-
tali diritti civili, per ottenere i quali dovettero attendere più di un secolo, fi-
no alla seconda metà del Novecento.
Un cenno merita anche l'allevamento del bestiame, che ebbe una note-
vole importanza nell'economia americana. Nel Texas durante la Guerra di
secessione si moltiplicarono le mandrie di bovini <<longhorns>> allevati al-
lo stato brado, che fornivano ottima carne. Siccome un capo di bestiame
si vendeva al Nord ad un prezzo dieci volte superiore di quello del Texas,
i proprietari degli allevamenti texani organizzarono trasferimenti di bestia-
me per 1.500 chilometri, lungo le piste che collegavano le zone di produ-
zione ai nodi ferroviari più importanti (Abilene, Dodge City, ecc.), da do-
ve gli animali proseguivano in treno per i luoghi di destinazione. In un
primo momento, furono inviati bovini per i mattatoi, ma in seguito parti-
142 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

rono mucche destinate alle fattorie degli agricoltori del Nordovest. Quan-
do questi ultimi non ebbero più bisogno di alh·o b estiame e il prezzo di-
minuì, gli spostamenti di mandrie guidate da cow-boys cessarono quasi
improvvisamente dopo il 1885.

15.4. Grandi imprese e mercato

Lo sviluppo industriale degli Stati Uniti fu eccezionale, non solo per la


gran quantità di manufatti prodotti, ma anche per l' organizzazione dell' at-
tività produttiva e delle imprese. Le industrie americane si organizzarono
sotto for ma di grandi società p er azioni (corporations) che occupavano, nel
1914, quasi sei milioni di persone. Si formarono potentissimi gruppi riuniti
attorno a poche famiglie, che costituirono vere e proprie dinastie, molto ric-
che, potenti e conosciute in tutto il mondo. I fondatori dei principali gruppi
erano Andrew Carnegie (acciaio), Com elius Vanderbilt (ferrovie), John
Pierpont Morgan (banche, ferrovie e acciaio), John D. Rockefeller (petro-
lio, fondatore della Standard Oil) ed H enry Ford (automobili). Numerosi
furono i trust e i cartelli (qui denominati pools ), che riuscirono a controllare
il mercato di diversi prodotti.
L'opinione pubblica protestò contro queste grandi concentrazioni di po-
tere economico e il governo federale varò, a partire dallo Sherman Act del
1890, una serie di provvedimenti antitrust, volti a combattere i monopoli.
L'avversione p er i trust era una delle convinzioni più profonde degli Ame-
ricani, che volevano uguali opportunità di successo per tutti e, p erciò, erano
ostili alla formazione di grandi concentrazioni indus triali e bancarie che po-
tessero impedire la concorrenza e l'ingresso su l mercato di nuovi soggetti.
Nel campo bancario vi riuscirono, mentre nel settore industriale i risultati
furono alquanto deludenti.
Gli Stati Uniti erano anche la patria del fordismo. Nel 1913, Henry Ford
era riuscito a dimezzare il costo di produzione del famoso <<modello T>>,
utilizzando la catena di montaggio, e poté vender e questa vettur a agli
stessi operai che la fabbricavano. Il fordismo fu il nuovo grande fattore di
sviluppo degli Stati Uniti e, in qua lche modo, ebbe per gran parte del se-
colo XX la funzione trainante che era stata propria della frontiera nel se-
colo precedente.
Lo sviluppo americano si basò anche sulla formazione di un vastissimo
mercato nazionale di oltre 90 milioni di consumatori, sparsi su un territorio
che superava i nove milioni di chilometri quadrati. Per renderlo possibile
era necessario un efficiente sistema dei trasporti. Furono costruite le grandi
15. Gerniania e Stati Uniti 143

ferrovie transcontinentali, che collegarono la costa atlantica con quella del


Pacifico, attraversando l' immenso territorio degli Stati Uniti. N el 1910, la
rete ferroviaria era sostanzialmente ultimata ed aveva raggiunto una lun-
ghezza di quasi 400 mila chi lometri. Accanto alle ferrovie, un ruolo impor-
tante lo continuarono a svolger e i canali e i grandi fiumi solcati da numero-
sissime imbarcazioni, nonché la navigazione di cabotaggio lungo le coste
del l'Atlantico e del Pacifico, specialmente dopo l'apertura del canale di Pa-
nama nel 1914. Così, per molto tempo, la marina mercantile americana, su-
perata per tonnellaggio solo da quella britannica, rimase quasi sconosciuta
sui mari. Essa era impegnata principalmente nella navigazione costiera e
nella navigazione interna lungo i fiumi maggiori e sui Grandi laghi.
Il commercio estero, pur essendosi quasi sestuplicato in valore fra il
1860 e il 1913, rappresentava una quota limitata dell' intero movimento
commerciale degli Stati Uniti, ma il suo peso sul commercio mondiale fu
in co11tinua crescita. Questa relativame11te scarsa partecipazione agli scam-
bi internazionali spiega anche la ragione per la quale gli Stati Uniti rimase-
ro sostanzialmente legati ad una politica protezionistica. L 'avanzo della bi-
lancia commerciale, diventata definitivamente favorevole nell'ultimo de-
cennio del secolo XIX, serviva in buona parte a pagare gli interessi e a
rimborsare i capitali che i paesi europei, soprattutto la Gran Bretagna, in-
vestivano negli Stati Uniti.

15.5. Un punto debole: il sistema bancario

Il sistema bancario americano non risultava adeguato al grande sviluppo


che il Paese stava conoscendo, neanche dopo la rif orma (1863-64) adottata
in piena Guerra di secessione p er regolare l'emissione dei biglietti, che ave-
va diviso le banche fra banche nazionali e banche statali. Le principali carat-
teristiche del sistema bancario americano risu ltarono sostanzialmente due:
a) il dual system, consistente appunto nella presenza di banche nazio-
nali, sottoposte alla legge federale, che ebbero il compito di emettere bi-
glietti secondo rigidi criteri, e le banche statali, costituite secondo le leggi
più permissive dei singoli Stati, che vennero scoraggiate dall'emettere pro-
pri biglietti;
b) l' unit banking system, secondo il quale tutte le banche, grandi e pic-
cole, avevano in genere un' unica sede; all'inizio esse potevano aprire filiali
soltanto nell' area in cui erano sorte, ma successivamente (1909 e 1927) fu
loro consentito di operare nell' intero Stato di appartenenza ma non negli al-
tri Stati dell'Unione. Lo scopo di tal e limitazione era d'im.p edire che sor-
144 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

gessero banche di notevoli dimensioni, in grado di diffondersi su tutto il


territorio nazionale e di condizionare le grandi imprese. Non si voleva, cioè,
la contrapposizione fra due poteri economici forti come le banche e le im-
prese. Un tale ordinamento portò a lla proliferazione delle aziende di credi-
to, che, nel 1913, erano oltre 24 mila, cli cui quasi 7.500 banche nazionali.
Il principale difetto di questo sistema era l' assenza di un istituto centrale
di emissione che, in caso di necessità, potesse fungere da prestatore di ulti-
ma istanza. Questo limite risultò evidente durante la crisi finanziaria del
1907. Alcune importanti banche di New York, trovatesi in difficoltà, pote-
rono essere salvate solo grazie all'autorevole intervento di J. P. Morgan, il
quale riuscì a mobilitare in loro soccorso alcuni grandi banchieri privati. La
situazione non era più sostenibile: la maggiore potenza economica del
mondo non aveva un istituto di emissione capace di svolgere la funzione di
regolatore del sistema bancario.
Perciò, nel 1913, una legge introdusse il Sistema della Riserva Fede,·a-
le (Federai Reserve System), entrato in funzione l' anno successivo e an-
cora in vigore. Non si trattava di un istituto di emissione unico, come
quelli europei, ma di un <<sistema>>, guidato da un Consiglio con sede a
Washington. Il sistema era composto di dodici banche federali, ognuna
del le quali operava in un proprio distr etto di competenza, dove emetteva
biglietti a corso legale (le attuali banconote), fissava il tasso ufficiale di
sconto e riscontava gli effetti alle altre banche.
Qualche anno prima, nel 1900, gli Stati Uniti avevano formalmente
aderito al gold standard ed erano entrati con la loro moneta nel sistema
dei cambi fissi, che ormai comprendeva quasi tutti i paesi industrializzati.
16.
DUE CASI PARTICOLARI
RUSSIA E GIAPPONE

16.1. L'emancipazione dei servi in Russia

La Russia e il Giappone costituiscono due casi particolari. A metà Otto-


cento erano ancora paesi con strutture feudali e accusavano un gravissimo
ritardo nei confronti delle altre nazioni (vedi tab. 14.2). Essi presero co-
scienza della condizione economica e sociale in cui versavano dopo due
eventi per loro traumatici: la sconfitta della Russia nella guerra di Crimea
(1853-56) da parte di un corpo di sp edizione franco-britannico (con la parte-
cipazione di truppe piemontesi) e l'apertura forzata del Giappone al com-
mercio con l'Occidente (1854), in seguito all' a11·ivo di una squadra navale
americana. Questi fatti resero evidente che i due paesi necessitavano di pro-
fonde trasformazioni se volevano allinearsi alle prit1cipali potenze economi-
che. In entrambi i casi, come vedremo, il ruolo dello Stato fu determinante.
Pur nell' incertezza dei dati che la riguardano, si può affermare che la
popolazione russa conobbe l' incremento più consistente fra i paesi europei
per tutto il secolo XIX. Da una quarantina di milioni nel 1800, essa passò a
o ltre 160 milioni al la vigi lia della Prima guerra mondiale, ma questo incre-
dibile aumento non costituì un elemento di forza, come lo era stato per altri
paesi. Il principale problema della Russia era la permanenza della servitù
della gleba. I due terzi della popolazione erano servi, che si dividevano in
diverse categorie: i servi che appartenevano ai pomesciki, cioè ai grandi
proprietari terrieri (2 1 milioni), quelli che dipendevano dallo Stato o dalla
famiglia imperiale (20 milioni), quelli che servivano come d.o mestici ( 1,5
milioni) e i servi che lavoravano nelle miniere e nelle fabbriche (5 milioni).
I servi dei pomeséiki erano considerati <<proprietà battezzata>> dei loro si-
gnori, che potevano venderli o affittarli, darli in garanzia alla Banca dei nobi-
li per i prestiti ottenuti, cederli ai padroni delle fabbriche e del le miniere e
146 La seconda rivoluzione i11.dustriale (1850-1950)

consegnare quel li più riottosi all' esercito per una lunga ferma sotto le armi.
Le te1Te dei pomesciki erano affidate alle comunità di villaggio, che le distri-
buivano alle famiglie contadine ii1 base alle unità di lavoro di ciascuna di es-
se. In cambio, i servi dovevano pagare un canone o fornire gratuitamente la
loro opera owero erano tenuti a entrambe le prestazioni, ma non potevano
sposarsi senza l'autorizzazione del signore, per non mutare la composizione
della forza di lavoro familiare. I servi dello Stato si trovavano in una condi-
zione migliore di quelli dei pomesciki, con un minor caiico di obblighi, men-
tre i servi della famiglia imperiale erano in una condizione intermedia.
I contadini spesso si ribellavano e uccidevano i loro padroni, com ' era av-
venuto al tempo della zarina Caterina, quando il Paese fu scosso per un paio
d' anni (1773-75) dalla rivolta capeggiata da Emeljan Pugacev. Ma più che le
continue ribellioni, furono un movimento di idee contrario alla permanenza
della servitù e la sconfitta nella guerra di Crimea a portare all'emancipazione
dei contadini e alla riforma agraria. Durante la guerra di Crimea era em ersa
in tutta evidenza l'arretratezza del Paese: le navi da guerra russe non riusci-
rono a tenere testa alle forze navali inglesi e francesi, i fucili adoperati erano
antiquati e risultò difficile rifornire la città di Sebastopoli assediata per l' in-
sufficienza dei trasporti. Si comprese allora che una guerra moderna non po-
teva essere condotta da un esercito di soldati a11uolati per 25 anni, ma richie-
deva il ricorso alla mobilitazione generale di uomini liberi.
Perciò, nel 1861 lo zar Alessandro II decretò l'emancipazione dei servi
dei nobili e qualche anno dopo ( 1863 e 1866) anche quella dei servi della
famig lia imperiale e dello Stato. I servi conquistarono la Libertà personale e
i signori non ebbero più alcuna autorità su di loro. Ottennero anche in <<Uso
permanente>> la casa dove abitavano e un appezzamento di terra, in cambio
di un canone annuo a l pomescik. Non ebbero la proprietà della terra, come
volevano, ma potevano riscattare gli appezzamenti ottenuti e diventarne
pieni proprietari (dal 1881 il riscatto divenne obbligatorio), pagando al si-
gnore una somma pari alla capitalizzazione del canone al 6 per cento 1• Sic-
come i contadini non avrebbero mai potuto pagare il riscatto, lo Stato anti-
cipò 1'80 per cento di quanto dovuto ai signori, consegnando loro obbliga-
zioni statali che rendevano un interesse annuo. I contadini dovevano pagare
(anche a rate) il restante 20 per cento ai signori e rimborsare, in 49 annuali-
tà, 1'80 per cento anticipato dallo Stato.

1
La capitalizzazione è un procedimento mediante il quale si determina il valore di un
bene o di un titolo sulla base della rendita (nel nostro caso del canone) applicando un de-
terminato tasso di conversione (nel nostro caso il 6 per cento). Se, per esempio, il canone an -
nuo a carico di un contadino era di 12 rubli, mediante la p roporzione 100: 6 = x : 12 si ot-
tiene che x, ossia il valore della terra da riscattare, era pari a 200 n1bli.
16. Russia e Giappo,ie 147

Le terre furono assegnate alla comunità di villaggio (mir), che sarebbe


stata responsabile della riscossione delle annualità e dell' imposta persona-
le dei contadini. Il mir distribuiva periodicamente le terre fra gli aventi di-
ritto, perpetuando la tradizionale coltivazione comunitaria del suolo, e i
contadini non potevano abbandonare il villaggio senza permesso. Come si
può notare, gli ex servi si trovarono strettamente legati al mir, come prima
erano stati legati ai pomesciki. Il forte incremento della popolazione rese
necessarie frequenti ridistribuzioni delle terre da parte delle comunità, con
una conseguente riduzione delle quote assegnate a ciascuna famiglia, men-
tre lo sviluppo dell'indus tria, soprattutto quella tessile, sottrasse ai contadi-
ni il lavoro a domicilio svolto durante i lunghi inverni russi. Le condizioni
della classe rurale si fecero sempre più difficili e il malcontento aumentò.
La rivoluzione del 1905, scoppiata durante la guerra contro il Giappone,
da cui la Russia uscì sconfitta, indusse il primo ministro Petr Stolypin a va-
rare una riforma agraria con lo scopo di formare una classe di piccoli pro-
prietari, che avrebbe costituito - come egli stesso riteneva - la <<cellu la fon-
damentale del lo Stato>> e una naturale <<nemica di ogni teoria eversiva>>. La
riforma prevedeva la possibilità per i contadini di uscire dai mir, che quindi
si sarebbero sciolti, e di ottenere un appezzamento di terra e una casa in
piena proprietà individuale. Essa, però, non eb be successo, perché la mag-
gior parte dei contadini preferì restare nella comunità di villaggio e non
mettersi in proprio. Fino alla Grande gu erra solo il 22 per cento delle fa-
miglie era uscita d.a i mir. Spesso, coloro che ebbero le quote individuali le
vendettero ai contadini più agiati e rimasero senza terra, con le uniche
prospettive di diventare salariati agricoli o emigrare in Siberia. Si formò
anche una categoria di contadini ricchi, proprietari di terre: i kulaki. Co-
storo prendevano a ltre ten·e in affitto oppure le acquistavano dai contadini
usciti dal mir o dai numerosi nobili indebitati e, in molti casi, riuscirono
ad accrescere le loro ricchezze prestando denaro con interesse.

16.2. L'industrializzazione della Russia zarista

L'industrializzazione russa, o almeno un suo consistente avvio, ebbe


luogo nel quarto di secolo precedente lo scoppio della Prima guerra mon-
diale. Per procurarsi i capitali necessari si puntò sull'esportazione del gra-
no, reso possibile anche dal fatto che i contadini russi si alimentavano prin-
cipalmente di segala e i signori potevano inviare all'estero buona parte del
grano prodotto. Attorno a San Pietroburgo s'impiantarono cantieri navali,
fabbriche di utensileria e di costruzione di macchine a vapore, che stimola-
148 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

rono una fiorente industria metallurgica. Nei dintorni di Mosca si sviluppò


l' industria cotoniera, la cui materia prima giu11geva dal Turkestan e dal
Caucaso, d.o ve i Russi avevano avviato la coltivazione del cotone. Altre at-
tività industriali riguardarono il comparto alimentare, la produzione della
carta e quella del cuoio.
Lo sviluppo industriale fu realizzato dal 1890 al 1900 con un tasso di
crescita della produzione industriale dell '8 per cento all'anno, livello mai
raggiunto dai paesi occidentali. Queste percentuali, però, che spesso si regi-
. . .' . . . . .
strano nei paesi p1u arretrati, possono trarre m mganno se non s1 tiene pre-
sente che quando si parte da livelli molto bassi anche una crescita di mode-
ste dimensioni in valore assoluto provoca forti incrementi percentuali. Do-
po un rallentamento fra il 1900 e il 1905, l' espansione industriale continuò
fino a lla Grande guerra al ritmo del 6 per cento annuo. Nell'u ltimo decen-
nio dell'Ottocento la Rt1ssia riuscì a creare u.n apparato industriale di una
certa consistenza, potendo anche co11tare sui ricchi giacimenti di carbone
del bacino del Donetz e di minerali ferrosi nei dintorni di Krivoj Rog, oltre
che del l'estrazione di petrolio, che fece di quel Paese il primo produttore
mondiale fino al 1900, quando fu superato dagli Stati Uniti. Il pur consi-
stente sviluppo industriale della Russia non le consentì di avvicinarsi ai
paesi più progrediti, sia perché le industrie che si svilupparono erano poche
(per esempio quelle chimiche ed elettriche, proprie della seconda rivoluzio-
ne industriale, rimasero molto indietro) sia perché gli altri settori, soprattut-
to l'agricoltura, non avevano conosciuto una crescita altrettanto evidente.
Lo sviluppo industriale, che comunque si ebbe, fu opera sostanzialmente
dell'azione dello Stato e della sua capacità di attirare capitali esteri. Il ruolo
dello Stato si rivelò essenziale, tanto da far sostenere ad. alcuni studiosi che,
in sostanza, fu il governo russo a fare la rivoluzione industriale. Fu lo Stato a
favorire la costruzione delle ferrovie, portando la rete ferroviaria da me110 di
12 mila chilometri nel 1870 a più di 60 mila chilometri alla vigilia della Pri-
ma guerra mondiale. Le ferrovie erano particolarmente importanti in un Pae-
se dalle grandi distanze, perché consentivano di collegare le zone di produ-
zione con quelle di consumo o diverse zone di produzione di materie prime
complementari, come il carbone e i minera li di ferro.
Lo Stato e le banche contribuirono anche ad attirare gli investimenti esteri,
indispensabili in t1n paese con scarsi capitali. Gli investimenti giunsero dalla
Francia ( circa un terzo, in particolare in titoli di Stato), dalla Gran Bretagna
(23 per cento) e poi da Germania, Belgio e Stati Uniti. Il sistema bancario,
da parte sua, più che convogliare capitali ( che non c'erano) verso i finan-
ziamenti industriali, ebbe il compito di garantire la stabilità della moneta
per favorire gli investimenti di capitali provenienti dall'estero. La Banca di
16. Russia e Giappo,ie 149

Stato, fondata nel 1860, ma che solo nel 1897, quando la Russia aderì al
gold standard, divenne defmitivamente istituto di emissione, fu costretta a
tenere elevate riserve auree a garanzia dei propri biglietti, in modo da rassi-
curare gli investitori stranieri e convincerli a investire nel Paese. Questi ul-
timi arrivarono, ma preferirono affidare i fondi da investire alle banche rus-
se, che operavano come banche miste, piuttosto che direttamente alle socie-
tà private; così si sentivano pit) garantiti, perché confidavano nel fatto che
lo Stato sarebbe venuto in aiuto delle banche se si fossero trovate in diffi-
coltà, come aveva già fatto in più di un' occasione.

16.3. La società giapponese e l'apertura all'Occidente

Il Giappone era anch'esso un paese feudale e per giunta chiuso ai rap-


porti con l'estero. Come in Russia, l' intervento dello Stato fu indispensabi-
le per abbattere il regime feudale, aprire il Paese al mondo esterno e proce-
dere ad una rapida trasformazione delle st1utture sociali e produttive. Ma, a
differenza del Paese degli zar, il Giappone seppe far emergere una classe
imprenditoriale e, pur giovandosi dell'apporto dell'Occidente, da cui prese
le tecniche e alcune istituzioni, non consentì all ' iniziativa straniera di sosti-
tuirsi a quella nazionale. Va tuttavia osservato che gli sforzi compiuti, in-
dubbiame11te notevoli, non riuscirono, f1110 alla Prima guerra mondiale, ad
accorciare significativamente le distanze nei confronti dei paesi più indu-
strializzati, ma permisero di non arretrare ulteriormente, come forse sarebbe
awenuto se11za la modernizzazione del Paese (vedi tabb. 14.1 e 14.2).
A metà Ottocento, la struttura sociale era la seguente: al vertice vi era
l'imperatore ( o tenno) , il quale da circa sette secoli non aveva alcun reale
potere, esercitato da una sorta di dittatore militare, lo shogun, che dal 1603
era sempre stato un membro della famiglia Tokugawa; seguivano circa 250
daimyo (signori feudali), 500 mila samurai (uomini d'arme al le dipendenze
dei signori) e, sotto di loro, il popolo, costituito da contadini, pescatori, ar-
tigiani e mercanti. Un quarto del territorio nazionale apparteneva alla fami-
glia Tokugawa e il resto ai daimyo, che avevano potere assoluto nelle loro
province, compreso il diritto di vita e di morte sugli abitanti. Era proibito
cambiare condizione o mestiere, sicché i figli di samurai erano samurai, i
figli di contadini dovevano essere contadini e così via.
Il Giappone, inoltre, era chiuso alle influenze esterne ed era fatto divieto
di commerciar e con gli occidentali, tranne che con gli Olandesi, ai quali era
consentito d'inviare una sola nave all' anno. Il Giappone, però, non era un
paese arretrato. Da tempo si erano sviluppati u.n a florida industria a domi-
150 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195O)

cilio e un solido ceto mercantile ed era fiorita una vigorosa cultura urbana
nelle grandi città in cui risied.evano i daimyo, come Edo (poi ribattezzata To-
kyo, con un milione di abitanti), Kyoto e Osaka. L 'istruzione era abbastanza
diffusa, con tassi di scolarizzazione superiori a quelli di diversi paesi euro-
pei. Infme, in Giappone non esistevano gli antagonismi sociali o le con-
n·apposizioni ideologiche che caratterizzavano i rapporti fra le classi nella
società europea. Le re lazioni fra le diverse categorie erano contraddistinte
da un forte senso di obbedienza e di disciplina nei confronti del capo, pecu-
liarità che risultò molto utile nell' organizzazione del lavoro in fabbrica.
Gli Americani, giunti sul Pacifico con la costituzione d.e llo Stato della
California (1850), desideravano allacciare rapporti commerciali con il Giap-
pone. Nel 1853, il commodoro americano Matthew P eny, al comando di una
squadra navale, entrò nella baia di Edo per consegnare allo shogun una lette-
ra del presidente degli Stati Uniti. Ritornato l'anno successivo, costrinse il
governo nipponico ad aprire i suoi porti al commercio con i paesi occiden-
tali. Gli Stati Uniti ( e poi altre nazioni europee) stipularono trattati commer-
ciali con il Giappone, imponendogli dazi doganali molto bassi sulle merci
importate e la loro presenza nel Paese. Perciò si parlò di <<trattati ineguali>>.

16.4. Le riforme e la modernizzazione del Giappone

In occasione dell'ascesa al trono del giovane imperatore Mutsuhito, di


appena quattordici anni, alcuni grandi daimyo si ribellarono alla famiglia
Tokugawa e restaurarono l' autorità imperiale, ponendo fine allo shogunato
(1868). Iniziò allora il lungo regno di Mutsuhito ( durato fino al 1912), che
egli chiamò Meiji (<<governo illuminato>>). La nuova classe al potere, in co l-
laborazione con gli occidentali, tenuti sempre a rispettosa distanza per evi-
tare che s ' ingerissero negli affari interni del Paese, awiò la modernizzazio-
ne - o forse sarebbe meglio dire l'occidentalizzazione - del Giappone.
Le riforme adottate (1869-73) stabilirono:
a) l' eliminazione delle distinzioni di classe, per cui ognuno poté svolge-
re il lavoro che desiderava;
b) il ritorno delle terre f eudali dei daimyo all'imperatore e la loro distri-
buzione a chi le coltivava; esse però furono assegnate per lo più ai grandi
proprietari o vendute a chi disponeva dei mezzi per acquistarle, mentre i
contadini ne ottennero poche;
c) l' indennizzo di daimy6 e samurai con una sorta di pensione per la
perdita dei loro diritti feudali; successivamente queste pensioni furono tra-
sformate in titoli del debito pubblico.
16. Russia e Giappone 151

La popolazione giapponese aumentò notevolmente, passando dai 32 mi-


lioni del 1850 ai 52 milioni del 1913 per le migliorate condizio1ù igieniche
e sanitarie, grazie all' intervento dello Stato, e per la scomparsa della pratica
dell'infanticidio, soprattutto quello femminile, alla quale ricorrevano le fa-
miglie più povere che non riuscivano a mante11ere molti figli. Gli addetti al
settore primario diminuirono, fra il 1880 e il 1910, dall' 82 al 60 per cento.
Fra i popoli dell'Asia, quello giapponese mostrò maggiore entusiasmo
per la civiltà occidentale e per le sue realizzazioni, oltre a una forte propen-
sione ad acquisire nuove cognizioni. L ' occidentalizzazione fu certamente
favorita dalla cultura giapponese, fondata sui valori collettivi del dovere,
della lealtà e della rettitudine (il tutto condito con un certo nazionalismo),
che non erano in contrasto con i valori e i principi occidentali. Anzi, sem-
bravano avere punti in comune con l' etica calvinista, basata sul lavoro, sul-
la sobrietà e sul risparmio. Appena si aprì all'influenza occidentale, il go-
verno nipponico inviò esp erti e studenti all'estero perché conoscessero le
altre culture e apprendessero le nuove tecnologie. Ma soprattutto accolse
consiglieri occidentali (circa tremila prima del 1890) che lo aiutassero nel
compito di modernizzare il Paese.
L 'inditstrializzazione fu il principale obiettivo del governo che, in tal
modo, voleva acquistare forza economica e potenza militare. Nei primi
venti anni dell 'era Meiji, fu proprio il governo a prendere l'iniziativa eco-
nomica e a finanziare la costituzione di imprese, dando vita a un vero e
proprio capitalismo di Stato. Siccome mancava una classe di imprenditori
lo Stato ebbe, in qualche modo, una funzione sostitutiva. A poco a poco,
però, si formarono capaci imprenditori provenienti sia dal ceto mercantile
sia dalla classe dei samurai rimasti senza lavoro. Nei confronti dei samurai,
peraltro, gli operai conservarono il rispetto e la soggezione che preceden-
temente avevano avuto verso la loro figura di capi militari, sicché la disci-
plina e l' organizzazione del lavoro in fabbrica furono assicurati. Dagli anni
Ottanta, il governo cominciò a cedere parte delle imprese che aveva costitu-
ito ai nuovi imprenditori, vendendole a prezzi relativamente bassi. Si venne
formando così un' oligarchia di uomini d' affari che diede vita a grandi con-
centrazioni industriali: gli zaibatsu. Costituiti da un gruppo di imprese (mi-
nerarie, industriali, finanziarie, ecc.), fra le quali vi era quasi sempre una
banca, gli zaibatsu erano di proprietà di importanti famiglie, come i Mitsui,
i Mitsubishi e i Sumitomo. Gli zaibatsu assunsero questa forma poiché la
carenza iniziale di capacità manageriali indusse i pochi capitani d'industria
a occuparsi di più settori e a costituire vaste e complesse organizzazioni. Le
industrie giapponesi prosperarono grazie al protezionismo, reintrodotto alla
scadenza dei <<trattati ineguali>> (1898), e alle commesse statali per la con-
152 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

duzione delle guerre contro la Cina (1894-95) e la Russia (1904-05). Le du e


vittorie dei Giapponesi, peraltro, fecero prendere coscienza al mondo stupi-
to dell' esistenza di una nuova potenza militare e imperialistica in Asia.
Il Giappone si dotò anche di un sistema bancario di tipo occidentale.
Furono fondate banche commerciali di tipo misto e nel 1882 fu costituita la
Banca del Giappone, alla quale fu affidato il monopolio dell'emissione, con
il compito di stabilizzare la moneta nazionale, lo yen. L ' indennità ottenuta
dalla Cina sconfitta permise al Giappone di aderire al gold standard ( 1897).
La Prima guerra mondiale fu un'ulteriore occasione di crescita per il Giap-
pone, il quale, pur avendo dichiarato guerra alla Germania, prese parte solo
marginalmente ai combattimenti, ma riuscì a sostituire gli Europei nei mer-
cati orientali e ad estendere il suo do1ninio su quella parte del mondo.
In definitiva, numerosi fattori avevano contribuito a llo sviluppo del
Giappone, che si possono così riassumere:
a) la disponibilità di manodopera, che fu sempre abbondante, a buon
mercato e per giunta disciplinata e sobria;
b) la disponibilità di capitali, che si concentrarono nelle mani del lo Sta-
to e in quelle dei grandi proprietari e dei samurai, che erano stati indenniz-
zati con titoli pubblici;
c) la disponibilità sul mercato mondiale di una moderna tecnologia, di
cui i Giapponesi s' impadronirono rapidamente;
d) il livello d 'istruzione, abbastanza elevato, al quale p eraltro lo Stato ri-
servò parecchie cure, mediante l' istituzione di scuole professionali e di
scuole itineranti nelle province;
e) l'esistenza di sbocchi esteri per le proprie materie prime ed anche per
alcuni manufatti, che non potevano contare sulla domanda interna; il Giap-
pone praticò anche il dumping sui propri prodotti, favorito dal basso valore
della sua moneta fmo all'adozione del gold standard;
f) il ruolo dello Stato, che abbiamo visto presente, più che altrove, in
ogni aspetto della vita economica e sociale e il cui intervento servì a guida-
re lo sviluppo dell' Impero del Sol levante.
17.
'
L'UNITA D'ITALIA
E L'ECONOMIA NAZIONALE

17.1. Gli ostacoli allo sviluppo economico dell'Italia

L'Italia, dopo essere stata, almeno fino al Rit1ascimento, fra le zone più
sviluppate d'Europa, aveva conosciuto un periodo di declino, dal quale si era
cominciata a risollevare solo durante il Settecento. La sua antica ricchezza è
testimoniata dal fatto che il Pil pro capite era ancora, nel 1700, pari a quasi
l' 80 per cento di quello britannico, ma nel 1820 si era ridotto al 53 per cento
(vedi tab. 8. 1). L'Italia rimase ai margini dell'economia europea fino a dopo
l'unificazione. Mancavano le condizioni per realizzare il decollo, che perciò
si verificò solo all'inizio del secolo XX.
Gli ostacoli che frenavano lo sviluppo economico italiano erano numerosi:
a) la lenta crescita della popolazione, che non consentì di dare un im-
pulso alle attività produttive; la popolazione, difatti, aumentò del 60 p er
cento fra il 1750 e il 1850 (da 15,5 a meno di 25 milioni), ossia molto meno
di quella inglese, che nel frattempo si era trip licata;
b) la natura del suolo, arabile solo p er metà della sua estensione e con po-
che zone pianeggianti (Pianura padana, Tavoliere di Puglia e qualche pianu-
ra lungo le coste), sicché la produzione di generi alimentari non era sufficien-
te a soddisfare i bisogni di una popolazione che comunque stava crescendo;
c) la scarsità di risorse 1ninerarie, con una modesta quantità di carbone
(Sardegna) e pochi giacimenti di minerale ferroso (isola d'Elba e Valle
d'Aosta); solo la Sicilia possedeva importanti miniere di zolfo, che alimen-
tavano un consistente flusso di esportazione;
d) l'inadeguatezza del sistema dei trasporti, con strade insufficienti, an-
che per la presenza delle catene montuose, e senza una rete di vie d'acqua
it1teme, perché mancavano fiumi navigabili, se si escludono il Po e qualche
suo affluente; solo la navigazione di cabotaggio lungo le coste consentiva il
col legamento fra le diverse parti della Penisola, ma teneva fuori le zone in-
154 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

teme e, inoltre, le distanze erano spesso molto grandi (si pensi, per esem-
pio, al viaggio via mare da Venezia a Genova);
e) la scarsa disponibilità di capitali, che non si erano riusciti ad accu-
mulare precedentemente; inoltre, quelli disponibili si rivo lgevano, di nor-
ma, verso impieghi sicuri, come l'acquisto di terre o di titoli di Stato;
f) l'assenza di un mercato nazionale e la permanenza di ristretti mercati
locali, limite di cui molti erano consapevoli, tanto che una delle aspirazioni
più sentite dagli uomini che si posero alla guida del movimento nazionale
unitario fu proprio la formazione di un mercato nazionale.
Nella seconda metà del Settecento, comunque, erano state awiate alcune
importanti riforme dai governanti più illuminati, completate durante l'occu-
pazione francese, che avevano di fatto portato alla fine delle corporazioni,
delle dogane interne e del regime feudale. Il Congresso di Vienna aveva divi-
so sostanzialmente l' Italia in sette Stati, di cui uno molto esteso (Regno delle
Due Sicilie), tre di dimensioni medie (Regno di Sardegna, Granducato di To-
scana e Stato Pontificio), due molto piccoli (ducati di Modena e di Parma) e
l'u ltimo sotto la dominazione austriaca (Lombardo-Veneto) 1•

17.2. L'Unità e il divario Nord-Sud

Il grande entusiasmo e le speranze che avevano animato gli artefici del-


l'unificazione nazionale scemarono a mano a mano che essi presero co-
scienza delle condizioni economiche in cui versava il Paese. Fu subito chia-
ro che l' Italia scontava un ritardo rispetto alle nazioni più progredite del-
l'Europa e per giunta aveva gravi problemi al suo interno, dove esistevano
squilibri economici e sociali fra le varie regioni.
L'unificazione era awenuta mentre l'awio della seconda rivoluzione in-
dustriale mostrava già il cammino successivo da percon·ere, fondato su gran-
di imprese impegnate in nuove e più costose attività produttive. L 'Italia si
presentava a questo appuntamento con un'agricoltura complessivamente ar-
retrata, con un' industria quasi inesistente, una rete ferroviaria molto limitata,
una marina mercantile costituita prevalentemente di velieri e un sistema ban-
cario del tutto inadeguato. Al momento dell'Unità, essa era un paese ancora
fortemente agricolo, in cui la maggior parte della popolazione attiva, circa il
70 per cento, era impiegata nel settore primario. Il P ii pro capite italiano,

1
Altre due entità statali di modesta estensione, il Ducato di Massa Carrara e il Ducato di
Lucca, rimasero autonome fino al 1829 e al 1847, quando passarono rispettivamente al Du-
cato di Modena e al Granducato di Toscana.
17. L 'Unità d'Italia e l 'economia nazionale 155

inoltre, si era ulteriormente ridotto rispetto a quello della Gran Bretagna, por-
tandosi a poco più del 40 per cento; solo in seguito esso comincerà a recupe-
rare il ritardo per ritornare, nel 1913, al 50 per cento (vedi tab. 14.2).
Oltre a questo stato di arretratezza nei confronti dei paesi più progrediti,
l' Italia unita si rese progressivamente conto che esisteva anche un divario
eco11omico e sociale fra le sue regioni, che con il tempo cominciò a preci-
sarsi e ad approfondirsi. Il problema dell'arretratezza del Mezzogiorno
continua a tenere occupati gli studiosi. Secondo la maggior parte di essi, il
divario al mome11to dell'Unità fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno (Sud e
Isole), in termini di Pil pro capite, non sarebbe particolarmente elevato e
oscillerebbe fra il 1O e il 20 per cento. Dati recenti, per esempio, mostrano
come il divario fra il Sud e le altre parti del Paese (Nordovest e Nordest-
Centro) oscillasse, nel 1871, fra 13 e 19 punti percentuali (vedi tab. 17.1).

Tab. 17. 1. - Percentuale del Pil pro capite delle regiorii del Mezzogiorno
d'Italia (Sud e Isole) rispetto a quelle del Nordovest e del Nordest-Ce11.tro, a prezzi
costanti, per alcuni anni, dal 1871 al 2009

Percentuale Percentuale Percentuale Percentuale


Anni Sud/Nord- Sud/Nordest- Anni Sud/Nord- Sud/Nordest-
ovest Centro ovest Centro

1871 81 87 1961 46 59
1891 77 88 1971 57 70
1911 69 84 1981 58 64
1931 60 76 1991 59 63
1938 50 72 2001 55 60
1951 40 59 2009 58 60

Fonte: Nostra elaborazione da E. Felice - G. Vecchi , Ita!J1's Modern Economie Growth,


1861-2011 , in "Quaderni del Dipartimento di Economia politica e Statistica. Università di
Siena", 2012, n. 633, p. 42.

Secondo altri studiosi, viceversa, il divario fra Sud e Nord sarebbe ad-
dirittura inesistente. Anzi, sembra che vi fossero maggiori differ enze fra
Est e Ovest che non fra Nord e Sud, nel senso che le regioni orientali, che
si affacciano sull' Adriatico, risultavano, sempre per Pil pro capite, più ar-
retrate di quelle occidentali, che danno sul Tirreno. E inoltre le due macro-
aree Nord e Sud non erano nemmeno omogenee al loro interno, poiché si
registravano profonde differenze, per esempio, fra Liguria e Veneto al Nord
o fra Campania e Calabria al Sud, o anche fra zone costiere e zone interne
di una medesima regione.
156 La seconda rivoluzione industriale (J 8 5 0-195 O)

Tab. 17.2. - Distribuzione percentuale della popolazione attiva italiana, per


settore di attività econoniica, e partecipazione dei settori alla formazione del Pii,
alle date dei ce11simenti e al 20 i O

Popolazione attiva Partecipazione al Pii


Anni
Pri1nario Secondario Terziario Primario Secondario Terziario

1861 69,7 18, l 12,2 54,6 18,4 27,0


1871 67,5 19,2 13,3 53 ,6 17, l 29,3
1881 65,4 20,2 14,4 50,5 17,9 3 1,6
1901 61,7 22,3 16,0 44,6 19,3 36,1
1911 58,4 23,7 17,9 38,1 23,9 38,0
1921 55 ,7 24,8 19,5 34,4 2 1,7 43 ,9
1931 51 ,7 26,3 22,0 30,8 27,3 41 9
'
1936 49,4 27,3 23,3 24,9 28, 1 47,0
1951 42,2 32, l 25,7 23 ,8 35,5 40,7
1961 29,0 40,4 30,6 15,4 38,3 46,3
1971 17,2 44,4 38,4 9,0 39,2 5 1,8
1981 11, 1 39,5 49,4 6,7 40,0 53 ,3
1991 7,6 35,7 56,7 3,7 31,2 65,1
2001 5,5 33,5 61,0 2,8 28, 1 69, 1
2010 3,9 28,5 67,6 2,3 22,3 75,4

Fonte: Per la popolazione attiva: Istat, Serie storiche, tab. 10.4, reperibile sul sito web
dell' lstat; per la partecipazione al Pil: V. Daniele - P. Malanima, Il divario Nord-Sud in lta-
lia. 1861-2011 , Saveria Mannelli, 2011 , pp. 196-203 (appendice 1.1).

Tuttavia, se gli studiosi hanno posizioni differenti sul divario iniziale, vi


è concordanza sul fatto che esso si andò successivamente allargando. I dati
proposti da Vittorio Daniele e Paolo Malanima (vedi tab. 17.3) evidenzia-
no, fra l'Unità e i nostri giorni, almeno cinque fasi nell'evoluzione del diva-
rio fra il Centro-Nord e il Sud-Isole, che di seguito si riportano:
a) il periodo della stabilità ( 1861-90), ossia il primo trentennio dopo
l'Unità, durante il qu.ale il divario aumentò di poco, sicché sembra che da
questo punto di vista l' unificazione non abbia avuto effetti immediati sulle
condizioni delle diverse aree del nuovo regno;
b) il periodo della formazione del divario (1890-1920), vale a dire il
trentennio successivo, quando l'Italia conobbe il suo decollo industriale,
che si concentrò in alcune regioni del Nord, favorite, oltre che dalla vici-
nanza ai principali mercati europei, anche dalle commesse belliche durante
la Grande guerra; il Mezzogiorno, invece, restò indietro e il divario del Pil
pro capite passò da 6 a 25 punti percentuali;
c) il periodo della divergenza ( 1920-50), un ulteriore trentennio che ab-
braccia il ventennio fascista e la Seconda guerra mondiale, durante il quale
17. L 'Unità d 'Italia e l 'economia rzazionale 157

Tab. 17.3. - Percentuale del Pii pro capite delle regioni del Mezzogiorno
d'Italia (Sud e Isole) rispetto a qi,elle del Centro-Nord, a prezzi costanti 1911, per
quinqi,enrzi, dal 1861 al 2010

Percentuale Percentuale Percentuale


Anni Anni Anni
Sud/Nord Sud/Nord Sud/Nord
1861 100 1915 77 1970 64
1865 100 1920 75 1975 62
1870 99 1925 70 1980 61
1875 99 1930 65 1985 63
1880 99 1935 61 1990 60
1885 97 1940 57 1995 56
1890 94 1945 55 2000 56
1895 92 1950 53 2005 57
1900 89 1955 55 2010 58
1905 86 1960 55
1910 83 1965 58
Fonte: V. Daniele - P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia. 1861-2011 , cit., pp. 204-
210 (appendice 1.2).

il divario aumentò notevolmente, portandosi a 4 7 punti percentuali nel 1950


(il massimo registrato); nel Mezzogiorno, inoltre, mentre il Pii pro capite del-
la Campania arrivava al 59 per cento di quello del Nord, il Pii di Calabria e
Basilicata si fermava a un misero 44 per cento;
d) il periodo della convergenza (1950-75), realizzata nel venticinquen-
nio che coincide con il <<miracolo economico>> italiano, in cui per la prima
volta il Mezzogiorno crebbe più del Nord e il divario si ridusse a 38 punti
percentuali; nel 1972 il Sud realizzò il maggiore ravvicinamento con un Pii
pro capite pari al 65 per cento di quello del Nord;
e) il periodo della stagnazione, dal 1975 a oggi, nel quale il divario ha
ripreso a crescere, portandosi a oltre 40 punti percentuali, con il Sud che ha
fatto registrare, nel 2010, un Pil pro capite che si è fermato al 58 per cento
di quello del Centro-Nord.
Se in base a l Pil pro capite il divario fra le due parti del Paese risulta
contenuto al momento dell'Unità, il ritardo del Mezzogiorno è del tutto evi-
dente quando si prendano in considerazione altri elementi, come la dotazio-
ne di infrastrutture (in particolare strade e ferrovie), sicuramente molto più
modesta a Sud, dove il governo borbonico investiva poco per mancanza di
fondi, oppure l' organizzazione creditizia, il livello d' istruzione o la stessa
vita media. In tutti questi campi le differenze fra Nord e Sud, al contrario di
ciò che è avvenuto per il Pii pro capite, si sono andate gradualmente affievo-
158 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

lendo, per giungere in molti casi quasi a scomparire ai nostri giorni. Oltre
che nelle infrastrutture e nel sistema creditizio, ciò appare chiaramente quan-
do si prendano in considerazione l'istruzione e la durata media della vita.
Fra il 1871 e il 2011 , infatti, gli analfabeti sono crollati, in Italia, dal 70
all'l ,5 p er cento della popolazione con più di sei anni di età. Nel frattempo
quelli del Mezzogiorno sono passati dall' 84 al 3 per cento. Ancora più de-
ciso è stato l' annullamento del divario per ciò che riguarda la vita media:
nel 1891 essa era di 36 anni nel Mezzogiorno contro i 42 del Centro-Nord,
ma già nel 1961 la differenza si era ridotta a poco (68,8 anni contro 70,2)
per annullarsi quasi nel 2007 (8 1 contro 81,6).
Il Mezzogiorno, in sostanza, ha beneficiato del diffuso processo di mo-
dernizzazione dell' intero Paese, particolarmente intenso dopo la Seconda
guerra mondiale. Ma, al contrario di quanto è avvenuto al Nord, si è trattato
di una sorta di modernizzazione passiva, ossia di un processo trascinato dal
generale miglioramento economico e sociale del Paese, che però non è riu-
scito a stimolare un autonomo percorso di crescita delle regioni meridionali
e insulari. Le istituzioni politiche ed economiche del Mezzogiorno, troppo
spesso legate agli interessi di ristrette élites, non sono state in grado di
promuovere lo sviluppo, che, peraltro, è stato ostacolato o rallentato anche
da negative condizioni sociali locali, fra le quali una particolare funzione
frenante ha avuto la diffusa presenza della malavita organizzata.

17.3. Il divario nei settori produttivi

Sembra che il ritardo del Mezzogiorno al momento del'Unità fosse più


evidente nel settore agricolo che non in quello industriale. L'agricoltura
delle regioni settentrionali aveva un punto di forza nelle grandi aziende agra-
rie della bassa Pianura padana, dove si produceva, fra l' altro, una conside-
revole quantità di seta tratta, in buona parte destinata all 'esportazione. Qui,
già da tempo, le aziende agrarie praticavano la cerealicoltura integrata da
colture foraggere, e possedevano un consistente patrimonio zootecnico.
Anche nell' Italia centrale (in particolare Toscana, Umbria e Marche), dove
prevalevano i poderi condotti a mezzadria 2 , nei quali era diffusa la pratica
della policoltura, l'agricoltura era abbastanza fiorente. Nel Mezzogiorno,

2
La mezzad,ia era un patto agrario in virtù del quale il proprietario di un podere, in genere
dotato dj una casa colonica e degli attrezzi da lavoro, lo affidava ad un mezzadro, in proprio e
come capo della famiglia colonica, perché lo coltivasse e djvidesse con lui il raccolto e le spese
a metà. Se la ili visione non era in parti uguali, il contratto si chiamava colonia pa,z iaria. In Ita-
lia tali contratti sono stati aboliti a partire dal 1974.
17. L 'Unità d'Italia e l 'economia nazionale 159

viceversa, vi era una scarsa presenza di vere aziende agrarie capitalistiche e


dominavano la cerealicoltura estensiva e la pastorizia transumante, con po-
che ristrette aree destinate all'agricoltura intensiva (vite, olivo, agrumi).
Nel settore industriale, invece, anche le manifatture delle regioni setten-
trionali erano in larga misura ancora basate sull'artigianato e sul lavoro a
domicilio, con pochi nuclei industriali moderni. Questi nuclei erano presen-
ti pure a l Sud, attorno a Napoli (metalmeccanica), nei pressi di Salerno (co-
tonifici) e nella valle del Liri, attorno a Sora, nell'attuale provincia di Fro-
sinone (lanifici e cartiere). Il nucleo napoletano si reggeva principalmente
sulle commesse statali (cantieri navali di Castellammare di Stabia, stabili-
mento per la costruzione di carrozze fen·oviarie di Pietrarsa, ecc.) e quello
salernitano era in mano a imprenditori svizzeri, insediatisi nella zona agli
inizi dell'Ottocento. Le ind.ustrie meridionali, peraltro, erano favorite dal
protezionismo accordato dal governo borbonico, data la ristrettezza del
mercato locale. Ciò rendeva la struttura industriale meridionale esposta
maggiormente alla concorrenza appena si fosse adottata una politica di libe-
ro scambio, scelta che fu effettuata dopo l'Unità. Se a ciò si aggiungono le
difficoltà in cui si dibatteva l'agricoltura del Mezzogiorno, con l'esistenza
di latifondi mal coltivati, di piccoli fondi insufficienti alle esigenze delle
famiglie e con la lontananza dai mercati europei, si comprende come il di-
vario fra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali fosse in qual-
che modo destinato ad accrescersi.
Le regioni del Nord e del Sud, inoltre, non erano complementari dal
punto di vista economico, poiché la loro agricoltura dava più o meno gli
stessi prodotti. Prima dell'Unità, difatti, nemme110 il 20 per cento del com-
mercio degli Stati italiani avveniva fra di loro e anche successivamente i
rapporti non migliorarono, proprio per la mancanza di beni che potessero
essere convenientemente scambiati fra una pa11e e l'altra del Paese.
Le costruzioni ferroviarie si mantennero entro i confini di ciascuno Stato
per diffidenze politiche e gelosie e per la loro possibile utilizzazione a scopi
militari. Nel 1861 si contavano quasi 2.800 chilometri di strade ferrate, co-
struite in buona parte nel decennio precedente, di cui circa la metà in Pie-
monte e quasi un altro terzo in Lombardia. Nel Regno delle Due Sicilie, do-
ve pure era stata costruita la prima linea ferroviaria italiana nel 1839 (Napo-
li-Portici), erano stati realizzati appena un centinaio di chilometri attorno al-
la capitale. A sud di Salerno la ferrovia era del tutto sconosciuta.
La popolazione dell' Italia (ai confini attuali) risultò, al primo censimen-
to del 1861, di quasi 26 milioni di abitanti, diventati 36 milioni nel 1911 ,
con un incremento di circa il 40 per cento. Essa era così distribuita: 63 per
cento nelle regioni del Centro-Nord e 37 per cento nelle regioni del Mezzo-
160 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

giorno e tale percentuale è sostanzialmente rimasta immutata fino ad oggi


(al censimento del 2011 le rispettive percentuali erano 65 e 35). L 'aumento
della popolazione fu realizzato nonostante la forte emigrazione di quegli
anni : fino al 1914 partirono quasi 15 milioni di persone, molte delle quali,
però, fecero ritorno in patria.
Un merito dello Stato unitario fu il potenziamento dell 'istruzione, ma
quella obbligatoria era limitata ai primi due anni (poi portati a tre) delle
scuole elementari, il cui mantenimento (compresa la retribuzione degli in-
seg11anti fino al 1911) era a carico degli enti locali. Il numero di analfabeti
comunque diminuì abbastanza rapidamente. Nell' istruzione superiore si re-
gistrava, nella parte settentrionale della Penisola, una maggiore propensio-
ne per gli studi scientifici, tec11ici ed economici, come dimostra la presenza
d.el Politecnico di Milano ( 1863), di quello di Torino (1906) e di alcune
Scuole superiori di commercio.
Nel M ezzogiorno, viceversa, i figli delle classi agiate venivano indiriz-
zati, per antica tradizione, principalmente agli studi classici e poi all' avvo-
catura o alla medicina, tradizione che si è conservata sostanzialmente fino
ai nostri giorni. Ancora nel 2007 i laureati nelle discipline scientifiche risul-
tavano al Sud appena il 51 per cento di quelli del Centro-Nord. Al momen-
to dell'Unità, inoltre, le province continentali del Mezzogiorno disponeva-
no di una sola università, quella di Napoli, sulle ventuno (fra pubbliche e
private) esistenti in tutto il Paese e la situazione rimase immutata fino
all'apertura dell' Università di Bari nel 1924.
Il ritardo iniziale del Mezzogio1no, che pare si fosse sostanzialmente
prodotto nel reg110 borbonico fra la fine del Settecento e l' Unità, costituì,
com' è facile immaginare, un grosso ostacolo allo sviluppo successivo delle
regioni meridionali e insulari.

17.4. L'unificazione delle strutture economiche

R ealizzata l'unificazione politica in modo ancora i11completo ( dal


nuovo Stato restavano fuori Roma e quasi tutto il Lazio, il Veneto e il
Trentino), fu necessario unificare le strutture economiche. In tutti i casi in
cui fu possibile, si procedette rapidamente mediante l' estensione al nuovo
regno degli ordinamenti piemontesi. Tralasciando l'unificazione ammini-
strativa e quella legislativa, realizzate nel 1865, dopo qualche anno di in-
tenso dibattito, è opportuno ricordare qui l'unificazione monetaria e ba n-
caria, quella del debito pubblico e l'unificazione doganale, attuate con
maggiore celerità.
17. L 'Unità d'Italia e l 'economia nazionale 161

Innanzitutto si dovette dotare il nuovo regno di una moneta propria. La


lira piemontese divenne la moneta ufficiale con il nome di lira italiana, in-
trodotta ufficialmente nel 1862, ma che impiegò parecchio tempo a sostitu-
ire defmitivamente le precedenti monete, specialmente nel Mezzogiorno.
L'Italia adottò, così, il sistema bimetallico, che era quello prevalente negli
Stati preunitari, con le importanti eccezioni delle Due Sicilie e della To-
scana, dove vigeva il monometallismo argenteo. La moneta cartacea era
poco diffusa (appena il 17,5 per cento della circolazione monetaria com-
plessiva) e il compito di metterla in circolazione spettava a tre banche di
emissione: la Banca Nazionale Sarda, la Banca Nazionale Toscana e la
piccola Banca Toscana di Credito. La più importante era la Banca Nazio-
nale Sarda, sorta a Torino nel 1849 dalla fusione di due banche fondate
pochi anni prima a Genova e a Torino, che aveva avuto un ruolo importan-
te nel sostenere le iniziative economiche avviate in Piemonte durante il
<<decennio cavouriano>> e che, dal, 1866, fu denominata Banca Nazionale
nel Regno d' Italia.
Ad esse si aggiunsero successivamente altri due istituti, il Banco di Na-
poli e il Banco di Sicilia e, dopo l' annessione di Roma (1870), anche la
Banca Romana, portando a sei le banche di emissione. Il Banco di Napoli
era il nuovo nome assunto dal Banco delle Due Sicilie (dal quale era deri-
vato anche il Banco di Sicilia), un istituto legato allo Stato, che esercitava
il monopolio dell'attività bancaria e rilasciava ai depositanti proprie rice-
vute, dette fedi di credito, le quali potevano essere trasferite ad altri me-
diante girata e perciò venivano ampiamente utilizzate come mezzo di pa-
gamento. Per tale ragione, prima dell'Unità sia l' Italia meridionale che la
Sicilia non conobbero le moderne banconote. Il tentativo di giungere ad un
unico grande istituto di emissione, su ll'esempio della Banca di Francia,
che pure fu esperito più di una volta dopo l'Unità, non riuscì p er la resi-
stenza degli interessi economici locali, cosicché fu mantenuta una pluralità
di istituti di emissione.
Un altro provvedimento molto importante fu l'unificazione del debito
pubblico. Il nuovo Stato assunse su di sé, iscrivendoli nel <<Gran libro del
debito pubblico>>, tutti i debiti degli Stati precedenti. Il più consistente, pari
al 55 per cento dell'intero debito pubblico nazionale, risultò quello del Re-
gno di Sardegna, accumulato p er effettuare lavori pubblici (ferrovie, strade,
canali, rete telegrafica, ecc.), per le spese militari (guerre d ' indipendenza) e
per pagare gli interessi sullo stesso debito pubblico, sicché il loro costo pas-
sò a carico dell' intera comunità nazionale. Seguivano le Due Sicilie con il
27 per cento e la Toscana con il 9 per cento del totale. Il riordinamento del
debito pubblico era particolarmente necessario sia per dare maggiore fiducia
162 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

ai risparmiatori nazionali sia, soprattutto, per darla agli investitori stranieri,


che furono indotti così ad effettuare cospicui investimenti nel nuovo regno.
Ben più rilevante per il successivo sviluppo economico italiano fu l'uni-
ficazione doganale, attuata rapidamente perché rispondeva all'esigenza di da-
re vita a un vasto mercato nazionale, com' era nelle aspirazioni di molti uo-
mini del Risorgimento, convinti che ciò avrebbe consentito lo sviluppo eco-
nomico del Paese. Anche in questo caso si adottò la tariffa piemontese che,
tranne quella toscana, era la più bassa fra le tariffe in vigore negli Stati preu-
nitari, e che fu ulteriormente ridotta su alcuni prodotti.
18.
L'ITALIA UNITA

18.1. La scelta liberoscambista e i suoi effetti

La storia economica dell'Italia fino alla Grande guerra può essere so-
stanzialmente divisa in tre p eriodi: il primo riguarda il ventennio successi-
vo all'Unità (1861-80), durante il quale il Paese gettò le basi della sua cre-
scita e puntò sull'espansione dell'agricoltura; il secondo (1881-96), caratte-
rizzato dalla crisi agraria e dalla scelta a favore dell'industrializzazione; il
terzo (1897-1914), in cui si realizzò il primo consistente sviluppo economi-
co. Considerando il Pil pro capite si nota come esso aumentò (in valori co-
stanti 1) del 36 per cento fra il 1861 e il 1896 e di un altro 36 per cento fmo al
1913. La sua crescita, quindi, fu molto più rapida negli ultimi anni.
Il primo ventennio fu caratterizzato dalla scelta del libero scambio, che
segnò il tipo di sviluppo successivo, e dall' intervento dello Stato per dota-
re il Paese delle infrastrutture necessarie.
La decisione a favore del libero scambio fu preceduta da un ampio di-
battito fra coloro che volevano conservare la protezione alle industrie na-
zionali e coloro che viceversa si battevano p er il libero commercio. Preval-
sero questi ultimi, che rappresentavano principalmente i proprietari terrieri,
interessati all' esportazione dei loro prodotti, sostenuti dagli studiosi imbe-
vuti delle dottrine liberistiche allora imperanti in Europa. I sostenitori della
protezione doganale, fra i quali erano il meridionale A11tonio Polsinelli, in-

1
I valori di i1na serie storica si possono esprimere sia in valori correnti (o «a prezzi corren-
ti») sia in valori costanti (o «a prezzi costanti»). I valori co,renti sono quelli dell'anno preso in
considerazione. Se si vogliono comparare i valori di una serie storica, tenendo conto della va-
riazione del potere d'acquisto della moneta (in aumento o in diminuzione), bisogna ricalcolare
i valori a prezzi costanti, assumendo come base il prezzo di un anno e applicarlo a quelli
dell' intera serie, secondo coefficienti che tengono conto della variazione del potere d'acquisto.
Le percentuali sopra riportate, per esempio, sono state calcolate sui valori del Pii pro capite del
1861, 1896 e 1913, espressi in prezzi 1911 (o lire 19 11), cioè 336, 458 e 621.
164 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

dustriale laniero di Sora, e il settentrionale Quintino Sella, appartenente a


una famiglia di industriali lanieri di Biella, fecero osservare che l 'Inghil-
terra aveva realizzato la sua industrializzazione grazie ad una politica pro-
tezionistica e si era convertita al libero scambio solo qu.a ndo le sue indu-
strie non avevano più temuto la concorrenza estera, ma queste argomenta-
zioni non riuscirono a vincere le posizioni dei liberoscambisti.
La questione era più importante di quanto potesse apparire. Bisognava
decidere se l' Italia dovesse puntare sull'industrializzazione o proseguire
lungo la strada già tracciata prima dell'Unità, vale a dire entrare nel mercato
internazionale come paese produttore ed. esportatore di prodotti agricoli e di
importatore di manufatti e materie prime. Prevalse l'idea che l' Italia non po-
tesse essere una nazione manifatturiera, perché non poteva competere con le
nazioni industrializzate, non d.isponendo di materie prime, di capitali e di
maestranze preparate. Perciò, le tariffe doganali del giovane Stato furono u l-
teriormente ridotte quando, 11el 1863, fu stipulato il trattato commerciale con
la Francia, paese con il quale s i registrava il maggiore volume di scambi.
Questa scelta sembrò dare i suoi frutti abbastanza rapidamente. Fra il 1861 e
il 1880, il valore delle esportazioni (vino, agrumi, olio d'oliva, seta tratta,
formaggi, canapa, zolfo e marmo) raddoppiò, mentre quello delle importa-
zioni (frumento, carbone, ferro e acciaio lavorati, ghisa, rottami di fen·o, co-
tone e macchinari) aumentò solo del 50 per cento. Per conseguenza, il disa-
vanzo della bilancia commerciale si ridusse notevolmente.
Con la scelta liberoscambista, l'agricoltura fu stimolata a proseguire
nella specializzazione e le coltivazioni furono ampliate in funzione della
possibilità di esportarne i prodotti. La Puglia, la Sicilia e la Calabria in-
crementarono la loro produzione di vino, olio, ortaggi, frutta e agrumi,
mentre il Piemonte, la Lombardia e il Veneto estesero la bachicoltura e il
setificio. Anche le colture cerealicole e l ' allevame11to del bestiame regi-
strarono un significativo incremento produttivo, stimolati dal rialzo dei
prezzi, dalla crescente domanda del la popolazione e, in qualche caso, dal-
la possibilità di esportazione (prodotti dell'allevamento). L ' incremento
produttivo fu ottenuto più con la crescente app licazione di forza lavoro al-
la terra e con l'allargamento de lle zone coltivate che non con investimenti
di capitali. Chi possedeva capitali preferiva impiegarli nel debito pubbli-
co, in investimenti speculativi e, specialmente al Sud, nell'acquisto delle
terre ecclesiastiche e demaniali messe in vendita.
Intorno al 1880, l'industria continuava ad avere un peso inferiore non so-
lo rispetto all'agricoltura, ma anche nei confronti del settore terziario, che si
stava sviluppando proprio grazie all'inserimento dell'Italia nel mercato inter-
nazionale. L'intensificazione degli scambi con l' estero, difatti, stimolò il
18. L 'Italia itnita 165

commercio, i trasporti, il credito, le assicurazioni ed altre attività connesse.


L'industria si andava concentrando in alcune r egioni del Nord, dove esiste-
vano alcU11e piccole fabbriche tessili, siderurgiche e delle costruzioni navali.
Tuttavia, esse non riuscivano a prevalere sull'agricoltura, che restava il setto-
re predominante anche in quelle regioni. Il fatto più rilevante nel ventennio in
esame fu la scomparsa di molte attività lavorative a domicilio, specialmente
nel comparto tessile, e di impianti tecnologicamente non in grado di compe-
tere con la concorrenza estera, come quelli siderurgici. A farne le spese fu
soprattutto la fragile industria meridionale, vissuta all' ombra del protezioni-
smo borbonico, che non fu in grado di reggere l'urto della concorrenza.

18.2. Il ruolo dello Stato e le sue fonti di finanziamento

Lo Stato fece grandi sforzi nel tentativo di modernizzare il Paese. I go-


verni dell'epoca misero in atto diverse manovre per drenare risorse da de-
stinare al mantenimento del nuovo apparato statale, che risultò più costoso
di quelli precedenti, alle spese militari e alla creazione di infrastrutture, che
erano del tutto inadeguate e, in alcune zone, completamente assenti. Lo Sta-
to svolse, anche in Italia, un ruolo sostitutivo dei prerequisiti dello svilup-
po, cercando di stimolare o quanto meno di sostenere le attività economiche
mediante grossi investimenti in opere pubbliche. Fu necessario aprire stra-
de, scavare e proteggere con nuove opere i porti, estendere e fortificare le
difese contro i fiumi, provvedere alla costiuzione della rete ferroviaria, creare
una marina a vapore nazionale ed infme ampliare il servizio telegrafico e
quello postale. Le ferrovie, che contavano appena 2.800 chilometri 11el
1861, vent'anni dopo erano giunte a 9.500 chilometri e nel 1914 a 19 mila
chilometri. L e prime linee furono costruite da società private o direttamente
dallo Stato, ma successivamente, nel 1905, tutta la rete fu nazionalizzata,
tranne poche linee che rimasero a società private.
Per sostenere le proprie spese, lo Stato fece ricorso a diverse fonti di fi-
nanziamento, come l'inasprimento dell' imposizione fiscale, l' indebitamento
pubblico e la vendita dei beni demaniali, oltre ai prestiti da parte degli istituti
di emissione. Le entrate tributarie 2 crebbero notevolmente perché il governo

2
I tributi si distinguono generalmente in imposte e tasse. L'ilnposta è la contribuzione
obbligatoria pagata allo Stato o ad altri enti pubblici territoriali (comuni, province e, oggi,
anche regioni) in rapporto al reddjto o al patrimonio del contribuente, per fronteggiare le
spese necessarie a garantire servizi pubblici generali e indjvisibili (giustizia, sicurezza, dife-
sa, istruzione, sarutà, ecc.). La tassa è la quota (inferiore al costo) pagata allo Stato o a un
ente pubblico da un privato, in cambio dj un servizio prestatogli dietro sua richiesta (per esem-
166 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J8 50-195O)

si rifece, anche in questo campo, al sistema tributario piemontese, che era il


più gravoso fra quelli preunitari. Si pagavano i dazi di consumo (dovute ai
comuni per l' immissione nel loro territorio di determinate merci), le imposte
sui terreni e su.i fabbricati e l' imposta di <<ricchezza mobile>>, sui redditi di-
versi da quelli di terreni e fabbricati. Dal 1869 al 1884, poi, fu applicata
l' imposta sul macinato, che colpiva la macinazione dei cereali ed era riscossa
con l'applicazione di un contatore alla macine dei mulini. Essa risultò parti-
colarmente odiosa e diede luogo a tumulti in diverse zone della Penisola.
Siccome le entrate non risultarono sufficienti a coprire le spese, lo Sta-
to dovette ricorrere all' indebitamento pubblico, già elevato a l momento
dell'Unità. Il governo emise titoli sotto la pari 3, per facilitarne la vendita,
una buona parte dei quali (circa un terzo) trovò collocazione sui mercati
internazionali, soprattutto su quello parigino. In seguito a queste emissio-
ni, il debito pubblico si triplicò in vent'anni, portando la sua incidenza sul
Pil dal 45 all' 87 per cento.
U11' altra fonte di finanziamento fu la vendita dei beni demaniali, costi-
tuiti da terreni e fabbricati appartenenti allo Stato e da quelli dell' <<asse ec-
clesiastico>>, confiscati agli enti religiosi soppressi (1866-67). Si trattò di
una colossale operazione, che fruttò diverse centinaia di milioni di lire
all' erario e che mise sul mercato ben tre milioni di ettari di terra, per la
stragrande maggioranza (più dell '80 per cento) situati nelle regioni meri-
dionali. Le vendite si svolsero in modo affrettato e poco corretto, sicché le
ten·e che dovevano andare a piccoli coltivatori ( era stata prevista la vendita
a rate) finirono con l' ingrossare le grandi proprietà già esistenti.
Infine, lo Stato potette farsi prestare i fondi di cui aveva bisogno dalle
banche di emissione, poiché queste erano state sollevate dall' obbligo di
convertire i loro biglietti in moneta metallica. In occasione della crisi finan-
ziaria del 1866 e della guerra contro l' Austria dello stesso anno (che portò

pio, le tasse universitari e). Le imposte si distinguono in dirette e indirette. Le imposte dirette
colpiscono il reddito o il patrimonio del contribuente in proporzione al valore e quindi ten-
gono conto della sua capacità contributiva; perciò esse sono progressive. Le i,nposte indiret-
te colpiscono in genere i consumi (per esempio, l'Iva) e perciò sono regressive, in quanto
sono uguali per tutti, indipendentemente dal reddito e dalla capacità contributiva del consu-
matore. Ne consegue che esse saranno più gravose per le persone con redditi più bassi.
3
Si ha l'emissione sotto la pari di un'obbligazione quando essa è collocata sul mercato
ad un prezzo di vendita inferiore al valore no1ninale (la pari), con grande vantaggio per l'ac-
quirente. Se un titolo di Stato del valore nominale di 100 euro al 5 per cento è vendu to a 80
euro, chi l'acquista riscuoterà l' interesse su 100 euro (5 euro all 'anno) e alla scadenza otter-
rà 100 euro (valore nominale), cioè 20 euro in più di quanto ha pagato, sicché l' interesse ef-
fettivo sul suo investimento di 80 euro è più del 5 per cento. Si ha un'emissione sopra la pa-
ri quando il titolo è venduto ad un prezzo superiore al valore nominale. In tal caso il rendi-
mento è più basso dell ' interesse nominale sta bi Iito.
18. L 'Italia itnita 167

all' annessione del Veneto), difatti, siccome le riserve degli istituti di emis-
sione si erano fortemente ridotte, il governo aveva deciso di introdurre il
corso forzoso, ossia l'inconvertibilità dei biglietti. Tale prowedimento, che
doveva durare poco tempo, durò invece diciassette anni, proprio perché lo
Stato, per far fronte alle sue esigenze finanziarie, trovò conveniente ricorrere
continuamente ai prestiti a basso tasso d'interesse delle banche di emissione.
In seguito (1874), il governo chiese addirittura che i biglietti gli fossero
somministrati senza dover pagare alcun interesse, visto che le banche di
emissione realizza vano buoni profitti con i biglietti che stampavano e pre-
stavano ai privati. Solo quando il governo fu in grado di rimborsare le anti-
cipazioni e i prestiti ottenuti (anche grazie ad un prestito estero) fu possibile
ritornare alla convertibilità delle banconote (1883). Pochi anni dopo, però,
prima di fatto e poi con un decreto, fu di nuovo introdotto il corso forzoso
(1894), che non venne mai più abolito. Per i cittadini italiani fu giocoforza
adattarsi alla circolazione cartacea ed essi dovettero prendere confidenza con
il nuovo mezzo di pagamento, le banconote, alle quali erano poco abituati.
Il reperimento dei capitali necessari a lla creazione di infrastrutture e alle
altre spese statali fu realizzato a scapito della classe agricola, costretta a
contener e i consumi sia per l'alta tassazione sia per i bassi salari agricoli.
Come in molti altri paesi, le basi per il successivo sviluppo furono poste dal
sacrificio, certo non volontario, soprattutto delle masse rurali, peraltro non
ancora costrette a una massiccia emigrazione. E quando, con il nuovo seco-
lo, l'emigrazione divenne un vero esodo, furono ancora una volta i ceti ru-
rali e i lavoratori ad essere sacrificati per consentire lo sviluppo del Paese.

18.3. Crisi agraria, ritorno al protezionismo e crisi bancaria

Il modello di sviluppo incentrato sulle esportazioni agricole funzionò fi-


no a quando l'Europa non fu colpita dalla crisi agraria. L'arrivo del grano
americano e russo e di altri prodotti dell'agricoltura da diversi paesi provo-
cò una riduzione di quasi tutti i prezzi agricoli. L 'Italia awertì con ritardo
la crisi sia perché meno inserita nei circuiti internazionali sia perché il cor-
so forzoso, avendo provocato una svalutazione della lira (moneta inconver-
tibile) rispetto alle altre monete, agì come una sorta di protezione, perché le
merci straniere costavano di più 4 • La rid.u zione dei prezzi agricoli comportò
4
La svalutazione, ossia la perdjta dj valore di una moneta rispetto a quelle ili altri paes i,
favorisce le esportazioni e scoraggia le i1nportazioni. Se, per esempio, il valore dell'euro pas-
sa da 1,30 a l dollaro, vuol dire che gli Americani avranno convenienza ad acqwstare merci
europee, poiché, per avere merci del valore di l euro spenderanno solo 1 dollaro, invece dj
168 La seco,ida rivoluzione industriale (1850-1950)

una diminuzione della produzione e una riduzione della superficie coltivata,


che rig11ardarono in particolare i cereali, ma non gli agrumi e la vite.
L 'attività industriale, viceversa, conobbe, nella prima metà degli anni Ot-
tanta, un notevole impulso sia per la protezione accordata ad alcuni suoi rami
(in particolare all'industria cotoniera) dalla nuova tariffa doganale del 1878,
sia per la maggiore disponibilità di capitali in seguito all' abolizione del corso
forzoso, che attirò anche investimenti esteri.
La crisi agraria e la crescita industriale dei primi anni Ottanta portarono
gli industriali e i proprietari terrieri (specialmente quelli del Nord, che era-
no stati maggiormente danneggiati) a coalizzarsi per chiedere il r itorno al
protezionismo, come peraltro stavano facendo diversi paesi europei. La ta-
riffa del 1887, fortemente protezionistica nei confronti dei prodotti agricoli
e di quelli industriali, significò per l'Italia l' abbandono del modello di sv i-
luppo precedente e una chiara scelta a favore dell 'industrializzazione, con
l' aiuto dello Stato. A questa determinazione si era giunti perché l'Italia, at-
traverso il libero scambio, non era riuscita a sottrarsi alla sostanziale dipen-
denza dai paesi industrializzati e, senza un proprio apparato industriale, non
poteva aspirare a diventare una grande potenza e neanche a partecipare alle
conquiste coloniali. La crescente popolazione e il malessere delle masse
contadine inducevano a puntare sull' industria, tanto più che lo stesso svi-
luppo agricolo richiedeva investimenti di capitali e una riduzione della ma-
nodopera agricola, alla quale bisognava trovare uno sbocco occupazionale.
Ma gli inizi non furono facili. L ' adozione della nuova tariffa protezioni-
stica portò alla rottura commerciale con la Francia (1888-91). Il trattato fra
i due paesi non fu rinnovato alla scadenza, perché non si trovò un accordo e
l' Italia applicò alla Francia la tariffa del 1887. La Francia rispose con dazi
di rappresaglia e, per qualche anno, gli scambi fra i due paesi risultarono
compromessi, con gravi conseguenze soprattutto per l'Italia. Gli Italiani era-
no convinti che i Francesi non potessero fare a meno di importare dall' Italia
soprattutto vini da taglio e seta grezza. Invece i Francesi sostituirono i pro-
dotti italiani con quelli provenienti da altri paesi (i vini dall'Algeria, che era
u11a loro colonia, e la seta dal Giappo11e), e l' esportazione italiana di vino si
ridusse in media del 37 per cento. Particolarmente d.a nneggiate risu ltarono
la Puglia e le altre regioni meridionali, dove la coltivazione della vite si era
molto estesa negli anni degli alti prezzi.

1,30 dollari ; viceversa gli Europei saranno scoraggiati ad acquistare 1nerci americane, poiché
con l euro avranno merci per 1 dollaro, 1n entre prima ne avevano per l ,30 dollari. Insomma,
per dirla in modo approssimativo ma efficace, è come se la svalutazione dell'et1ro comportas-
se una generale riduzione dei prezzi espressi in euro nei confronti degli acquirenti che pagano
in doll ari. Ovviamente, l' inverso avviene nel caso della rivalutazione di ttna moneta.
18. L 'Italia unita 169

Purtroppo, fra il 1888 e il 1894, il Paese fu scosso anche da una pro-


fonda crisi economica e bancaria. Una buo11a parte dei capitali affluiti dal-
1' estero con il ritorno alla convertibilità della moneta si era indirizzata alle
speculazioni edilizie, favorite dalla costruzione di abitazioni private e di
edifici pubblici in molte città. Le speculazioni interessarono soprattutto
Roma, diventata capitale, che doveva ospitare una crescente burocrazia
ministeriale, e Napoli, dove si stava procedendo al risanamento edilizio do-
po il colera del 1884. In entrambi i casi lo Stato era intervenuto con cospi-
cui finanziamenti e su di essi si era appuntato l' interesse di numerose so-
cietà sorte per l'occasione, desiderose di partecipare al grande affare edili-
zio. Queste imprese furono sostenute dalle banche, comprese quelle di e-
missione, ma quand.o il boom delle costruzioni cessò, parecchie società edi-
lizie si trovarono in difficoltà e trascinarono con loro le banche che le a ve-
vano finanziate.
Fra le banche coinvolte vi erano anche quelle di credito mobiliare, ossia
il Credito Mobiliare e la Banca Generale (sorte nel 1863 e nel 1871 ), che
furono travolte e dovettero chiudere (1893-94), e alcune banche di emissio-
ne, che attraversarono brutti momenti. La Banca Romana, in particolare,
aveva ecceduto nelle emissioni di banconote ed aveva finanziato alcuni
uomini politici. Ne scaturì un grosso scandalo che, ali' epoca, fece molto
scalpore. Lo Stato fu costretto a intervenire e, con una legge del 1893, ri-
dusse a tre gli istituti di emissione: la Banca d' Italia, il Banco di Napoli e il
Banco di Sicilia. La Banca d 'Italia nacque dalla fusione fra la Banca Na-
zionale nel Regno d'Italia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana
di Credito, mentre la Banca Romana venne messa in liquidazione.
Il vuoto lasciato dal fallimento dei d.u e istituti mobiliari fu colmato con
la costituzione della Banca commerciale italiana (1894), grazie all'inter-
vento di capitali tedeschi, chiamati in Italia dallo stesso governo (ma ritira-
tisi dopo qualche anno), e del Credito italiano (1895). Queste banche assun-
sero il carattere di banche miste ed ebbero un ruolo importante nel decollo
dell'età giolittiana, per i finanziamenti che riuscirono ad assicurare alle
principali industrie nazionali.

18.4. Il decollo industriale

Dopo il 1896, l' economia italiana riprese a crescere rapidamente, alme-


no fino alla crisi ciclica del 1907. Furono gli anni di maggiore sviluppo e
l' industria fece registrare un tasso di crescita sicuramente superiore al 5 per
cento all'anno. Dopo la crisi del 1907, la crescita proseguì ad un ritmo più
170 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

lento: 1,5-2 per cento all'anno. E' il periodo della Belle époque che coincide
con l'età giolittiana, contrassegnata dalla figura politica di Giovanni Giolit-
ti, e risente degli effetti positivi della fase a del ciclo di Kondratieff a livel-
lo internazionale. L'economia parte sotto i migliori auspici: la rete ferrovia-
ria è sostanzialmente completata, il sistema bancario è stato risanato e di-
spone di grandi banche miste, la moneta è stabile, le finanze statali sono in
ordine e il bilancio dello Stato presenta fmanche degli avanzi, gli scambi
con la Francia sono ripresi e i prezzi mostrano una tendenza all'aumento.
L 'agricoltura si giovò del periodo di prezzi elevati, aumentati di circa il
50 per cento su molti prodotti. Si fece un consistente ricorso ai concimi chi-
mici, che l'industria nazionale era in grado di mettere a disposizione delle
campagne, e si utilizzarono le prime macchine agricole da parte delle aziende
cerealicole più grandi. I lavori di bonifica avviati dallo Stato, specialmente
nel Ferrarese, dove si resero coltivabili circa 400 mila ettari di terra, contri-
buiro110 all' incremento della produzione e della produttività in agricoltura.
Ma l'età giolittiana fu caratterizzata principalmente dallo sviluppo indu-
striale, che riguardò tutti i rami, da quelli tradizionali ai più moderni. L ' in-
dustria si concentrò in tre regioni - Piemonte, Liguria e Lombardia - i cui
capoluoghi (Torino, Genova e Milano) costituirono i vertici del cosiddetto
triangolo industriale. I progressi dell 'industria tessile riguardarono soprat-
tutto l'industria cotoniera, diventata la maggiore industria italiana, e l' indu-
stria laniera, che conobbe una crescita più lenta e non riuscì a soddisfare
per intero la domand.a nazionale. L'industria della seta, concentrata soprat-
tutto in Lombardia, continuò ad alimentare l'esportazione di seta tratta e
conservò una quota rilevante ( circa un terzo) del mer cato mondiale di que-
sto prod.otto. Il suo ruolo nell' economia nazionale risultò molto importante
per diverse ragioni : mantenne l' Italia sui mercati internazionali con l'espor-
tazione della seta tratta anche nei momenti più difficili, consentì l'i11tegra-
zione dei redditi delle famiglie contadine che allevavano i bozzoli, assicu-
rando a donne e ragazzi un lavoro nelle fi lande, permise l'accumulazione di
capitali con gli utili realizzati e assicurò l'addestramento della manodopera,
che poté essere utilizzata in altr e industrie tessili.
I comparti più rilevanti del periodo in esame, però, furono quelli dell'in-
dustria p esante: la siderurgia, la meccanica, la chimica e l' industria elettri-
ca. L ' industria siderurgica, appoggiata dallo Stato e sostenuta finanziaria-
mente dalla Banca commerciale e dal Credito italiano, conobbe una notevo-
le espansione. Lo Stato promosse la nascita del grande impianto siderurgico
di Terni (1884), e diverse società siderurgiche diedero vita all' Ilva (1905),
sorta per la gestione dello stabilimento a ciclo integrale (cioè che non usava
rottami di ferro) di Bagnoli, vicino a Napoli. La produzione di acciaio giun-
18. L 'Italia unita 171

se a quasi un milione di tonnellate alla vigilia della Grande guerra, ma si


trattava ancora di una produzione modesta se confrontata con i 17 milioni
della Germania.
L 'indi,stria meccanica crebbe poco, anche perché godeva di una minore
protez ione doganale e molte macchine venivano importate dall'estero, so-
prattutto dalla Germania. Tuttavia, si svilupparono la produzione di loco-
motive e di ca1Tozze ferroviarie (specialmente dopo la nazionalizzazione
delle ferrovie), quella di navi a vapore di ferro, la fabbricazione di motori
elettrici, di biciclette e di motociclette, nonché la produzione di automobili.
Nella meccanica acquistò particolare importanza l' Ansaldo, una società
sorta a Genova nel 1853, che si era già affermata nella produzione di loco-
motive, ma che poi si dedicò anche alle costruzioni navali. Le automobili
erano fabbricate da un gran numero di piccoli produttori (se ne contavano
una sessantina), fra i quali spiccano nomi famosi, come quelli di Isotta Fra-
schini, Lancia, Alfa e Bianchi. La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili - To-
rino), sorta nel 1899 per iniziativa di un gruppo di esponenti della nobiltà e
della più ricca borghesia torinese, a poco a poco soppiantò le altre fabbri-
che. Nel 1914 essa deteneva la metà della produzione nazionale, che però
era di appena 9.200 automobili all'anno, quando gli Stati Uniti già ne fab-
bricavano mezzo milione.
L 'inditstria chiniica fece registrare una crescita modesta, limitandosi so-
stanzialmente alla produzione di concimi chimici, mentre un certo rilievo
raggiunse l' industria della gomma, grazie alla Pirelli (fondata nel 1872),
che anzi assunse le caratteristiche di un complesso multinazionale. L'indu-
stria elettrica puntò quasi soltanto sull'utilizzazione delle risorse idriche
poiché l' Italia disponeva di pochissimo carbone. L ' iniziatore di questo ra-
mo di attività fu Giuseppe Colombo, fondatore della Società Edison (1884)
e professor e al Politecnico di Milano, del quale fu anche rettore per quasi
un quarto di secolo, nonché uomo politico con importanti incarichi istitu-
zionali (più volte ministro e presidente della Camera dei deputati) .
Nonostante l' affermazione dei grandi complessi industriali, le piccole
imprese, che conservavano un carattere artigia11ale e sovente si servivano di
lavoranti a domicilio, continuarono ad avere ( come in molti altri paesi in-
dustrializzati) un peso di rilievo, tanto che alla vigilia della Grande guerra
assicuravano circa i due terzi del valore della produzione industriale.
Il commercio estero aumentò in misura considerevole, giungendo a rad-
doppiarsi, in valore, nei primi tredici anni del nuovo secolo. La bilancia
commerciale rimase sempre passiva, ma il disavanzo venne colmato con le
rimesse degli emigrati e con le spese dei turisti stranieri, i quali comincia-
vano ad essere più numerosi.
172 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

Lo sviluppo economico dell'Italia fu sicuramente influenzato da diversi


fattori: il ruolo dello Stato, tanto che si è parlato di una sorta di <<capitali-
smo di Stato>> per sottolineare la sua presenza nella vita economica, la fun-
zione del le banche, in particolare delle banche miste, che finanziarono di-
versi rami industriali, il regime protezionistico, l'apporto di capitali stranie-
ri e soprattutto i bassi salari reali.
L'economia italiana, tuttavia, presentava du e punti oscuri: l' esistenza di
quella che si cominciò a chiamare <<questione meridionale>> e l' emigrazio-
ne. Nel momento in cui una parte del Paese cominciò a crescere con una
certa vivacità, l' altra rimase indietro, provocando la formazione o l'amplia-
mento del divario fra Nord e Sud di cui si è già detto. L'emigrazione, poi, si
fece consistente proprio con il nuovo secolo, quando, fino allo scoppio del-
la Grande guerra, lasciarono l'Italia ben 8,6 milioni di persone, per lo più
provenienti dalle regioni dell'Italia meridionale e dalla Sicilia e dirette
priI1cipalme11te verso Stati Uniti, Argentina e Brasile. Lo sviluppo faceva le
sue vittime, in particolare non riuscendo ad assicurare il mantenimento del-
la popolazione rurale, costretta ad abbandonare le campagne sia per la crisi
agraria sia per le innovazioni che comportavano una continua riduzione
della manodopera impiegata in agricoltura. A tutte queste persone non re-
stava che prendere la dolorosa via dell'emigrazione, talvolta temporanea,
ma molto più spesso definitiva.
19.
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
E LE SUE CONSEGUENZE

19.1. La Grande guerra

I trentuno anni che co1Tono fra lo scoppio della Prima guerra mondiale e
la fine della Seconda ( 19 14-45) furono caratterizzati da due gue1Te cruenti e
devastatrici come il mondo non aveva mai visto prima e da una nuova
<<Gra11de depressione>>, ben più grave di quella della seconda metà dell' Ot-
tocento. In Europa, vi furono dieci anni di guerra, alcuni altri di difficile
dopoguerra e tre o quattro di depressione (1930-33). Secondo i dati di An-
gus Maddison, prendendo in esame il Pil complessivo dei principali dodici
paesi dell' Europa occidentale, si nota come la variazione del tasso annuo
fosse negativa in ben quattordici anni, vale a dire che in quegli anni si pro-
dusse meno dell'anno precedente. I risultati peggiori furono registrati nel
1914 (- 5,9 per cento), nel 1919 (- 7,5), nel 193 1 (- 5,2) e nel 1945 (- 13,6) e
quelli migliori nel 1922 (+ 8,9 per cento), nel 1924 (+ 8,2), nel 1925 (+ 5,5),
nel 1937 (+ 5,1) e nel 1939 (+ 6,0). Il periodo in esame, quindi, fu il peg-
giore vissuto dai paesi più sviluppati dall'epoca della prima rivoluzione in-
dustriale, tanto da far temere che il s istema capitalistico stesse per giungere
alla fine. Ciò nonostante, proprio in quei pochi decenni furono compiuti u 1-
teriori passi avanti nello sviluppo tecnologico e industriale, anche grazie
all' impulso che le necessità belliche impressero all' innovazione e alla con-
centrazione delle imprese. Era la seconda rivoluzione industriale che si
. .
compiva e ne preannunziava una nuova.
Nell' estate del 1914, senza che nessuno se l' aspettasse veramente, scop-
piò la Prima guerra mondiale, che vide contrapposti d.a un lato l' Intesa (Gran
Bretagna, Francia e Russia) e dall' altra gli Imperi centrali (Germania e Au-
stria-Ungheria). Successivamente entrarono in guerra altri paesi, come l'Im-
pero turco ( 19 14), che si schierò con gli Imperi centrali, mentre il Giappone
(1914), l'Italia (1915) e gli Stati Uniti (1917) si allearono con l' Intesa.
174 La seconda rivoluzione iridustriale (1850-1950)

Complessivamente presero parte al conflitto ventotto paesi e furono im-


pegnati sessantacinque milioni di combattenti. All' inizio tutti erano convin-
ti che si sarebbe trattato di una guerra breve (Blitzkrieg, guerra lampo). Si
riteneva che un conflitto moderno fosse troppo costoso per poter durare a
lungo. Invece, dopo appena un paio di mesi di guerra di movimento, duran-
te i quali la Germania invase il Belgio e penetrò con le sue divisioni in te1Ti-
torio francese, la guerra si trasformò, sul fronte occidentale, in una guerra
di posizione e gli uomini rimasero bloccati nelle trincee, da dove uscivano
per affrontarsi in cruente battaglie corpo a corpo, senza mai giungere a
quella decisiva. Sul fronte orientale, anche se le truppe degli Imperi centrali
avanzarono in territorio russo e occuparono la Polonia, furono poi costrette
a una serie di offensive e di controffensive non risolutive.
I paesi europei furono quelli maggiormente impegnati nel conflitto, sca-
tenato per le loro rivalità politiche, militari ed economiche. La crescita eco-
nomica tedesca aveva preoccupato Francia e Gran Bretagna e rivalità eco-
nomiche esistevano anche fra Russia e Germania. Bisogna ricordare, inoltre,
che molti ritenevano ancora la guen·a u.n o strumento adatto a perseguire una
politica di potenza e ad acquisire nuovi territori. Proprio in quanto inaspet-
tata, la guerra trovò impreparati i paesi belligeranti, non tanto dal punto di
vista militare, dato che negli anni precedenti vi era stata u.na generale corsa
agli armamenti, quanto dal punto di vista economico.
Era la prima guerra del mondo industrializzato, le cui sorti sarebbero
state decise dalla quantità e dalla qualità di armamenti, rifornimenti e vet-
tovagliamenti che ognuno sarebbe stato in grado di mettere in campo, più
che dal numero dei combattenti e dal loro coraggio individuale. Gli sforzi,
perciò, dovevano essere rivolti alla produzione di tutto ciò che serviva per
vincere la guerra: il materiale bellico (armi, munizioni, esplosivi, gas asfis-
sianti, navi, sommergibili, automezzi, carri armati, aerei, ecc.), di cui si do-
vevano fare carico principalmente le industrie metallurgiche, meccaniche e
chimiche; il vestiario dei soldati (industrie tessili e del le confezioni); i ge-
neri alimentari (agricoltura e industrie di trasformazione); i medicinali (in-
dustrie farmaceutiche); i carburanti (industria petrolifera) e tutti gli altri be-
ni necessari a equipaggiare eserciti di enormi proporzioni. La guerra fu
combattuta anche sui mari, mentre la guerra aerea, nonostante alla fine fos-
sero impegnati diverse migliaia di piccoli velivoli, ebbe una ridotta effica-
cia militare. Gli Alleati imposero il blocco agli Imperi centrali, vietando il
commercio con essi anche ai paesi neutrali, e i Tedeschi risposero con la
guerra sottomarina, condotta dai loro sommergibili (i famosi U-Boot), con i
quali attaccavano sia le navi da guerra sia quelle addette al trasporto di
merci e di passeggeri.
19. La Prima guerra mondiale 175

19.2. L'economia di guerra e il costo del conflitto

Appena scoppiata la guerra, i governi, compresi quelli neutrali, dichiara-


rono l' inconvertibilità dei biglietti di banca, onde evitare la corsa del pub-
blico agli sportelli per cambiare le loro banconote in monete metalliche. Si
era al corso forzoso, adottato ufficialmente o di fatto, che sanciva la fine del
g old standard. Vennero anche chiuse le Borse, per evitare speculazioni sui
titoli, ma in alcuni paesi furono successivamente riape1ie e in altri si svi-
luppò, negli anni di guerra, un mercato parallelo semiufficiale.
Fu subito chiaro che bisognava programmare un'economia di guerra.
Lo Stato dovette organizzare sia la produzione dei beni necessari alle for-
ze armate e alle esigenze vitali dei cittadini, sia la loro distribuzione, spe-
cialmente dei generi alimentari, per evitare accaparramenti da parte degli
speculatori . Fu anche introdotto il calmiere I sui generi alimentari, con la
conseguenza che si diffusero le contrattazioni illegali (mercato nero o bor-
sa nera), mentre i contadini evitavano di vendere i loro prodotti sul mer-
cato legale. Si giunse, perciò, a l razionamento del pane e degli altri generi
di prima necessità e si tentò in tutti i modi di far aumentare la produzione
agricola: i soldati furono richiamati dal fronte ali' epoca della mietitura, si
cercarono di utilizzare di più le macchine agricole e fu abbattuto il bestiame
per evitare di doverlo alimentare. I Tedeschi, maggiormente colpiti dal bloc-
co, fecero ricorso agli Ersatz, vale a dire a prodotti succedanei di quelli che
non riuscivano a importare, come la gomma sintetica o il caffè di fagioli. In
breve, tutte le attività economiche finirono sotto il controllo dello Stato, che
era diventato il principale acquirente di molti beni e spesso era un cliente
poco esigente, che pagava s enza badare troppo al prezzo e alla qualità, an-
che per le connivenze fra industriali, uomini politici e gerarchie militari.
Per questa ragione fu favorita dappertutto la concentrazione delle imprese,
poiché lo Stato preferiva trattare, per le forniture militari, con poche grandi
aziende piuttosto che con numerose imprese di modeste dimensioni.
L'altro problema che i governi dovettero affrontare fu il finanzianiento
della guerra. E' difficile calcolare il costo complessivo di un conflitto così
lungo e distruttivo e le cifre fomite a tal proposito (fra 270 e 340 miliardi di
dollari dell'epoca) vanno prese con molta cautela. Si trattò comunque di
somme enormi, coperte sostanzialmente in tre modi: con l' aumento delle im-
poste, con l' indebitamento pubblico e con l'emissione di moneta cartacea.
1
Il calmiere è un provvedimento amministrativo che, specialmente in tempo di gue1Ta,
stabilisce il prezzo massimo di vendita delJ e merci. Esso riguarda i prodotti di prima nece s-
sità, in particolare le derrate alimentari, e ha come obiettivi la difesa del potere d'acqui sto
delle classi più deboli e il contrasto di manovre speculative.
176 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

Le imposte, com'è ovvio, furono lo strumento più immediato: vennero


aumentate qu elle esistenti e altre ne furono appositamente i11trodotte. I pae-
si più ricchi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, che potevano ancora tassare
redditi e proprietà, si servirono principalmente dell' imposizione fiscale, con
la quale coprirono buona parte delle spese. Gli altri, come Germania, Fran-
cia e Italia, si rivolsero s oprattutto al debito pubblico e offrirono titoli in
sottoscrizione a banche e cittadini, appellandosi al loro spirito patriottico.
Ma nemmeno l'indebitamento pubblico si dimostrò sufficiente e tutti i go-
verni dovettero chiedere anticipazioni alle banche di emissione, che perciò
stamparono biglietti, facendo crescere a dismisura la circolazione moneta-
ria. Infme, un'ulteriore fonte di finanziamento dei paesi belligeranti furono i
prestiti interalleati, soprattutto quelli degli Stati Uniti agli alleati europ ei.
In tal modo, furono drenate risorse dai cittadini per convogliarle verso la
produzione di tutto quanto era necessario al conflitto. Ciò significò che per
diversi anni le popolazioni dovettero fare sacrifici e rinu112iare al consumo
di molti beni per consentire la produzione di materiale bellico, che veniva
quasi subito distrutto durante le battaglie successive. Si alimentava così una
continua attività produttiva, che non assicurava alcun beneficio diretto ai
cittadini. A trarre profitto, come vedremo, furono i paesi non coinvolti o so-
lo marginalmente coinvolti nella guerra, i quali approfittarono della situa-
zione per allargare la loro produzione e conquistare nuovi mercati.

19.3. Le conseguenze dirette della guerra

Dopo la Grande guerra, il mondo non fu più come prima. Il conflitto co-
stituì una cesura con il passato e diede inizio a una nuova fase d' intenso
travaglio che durò fmo alla Seconda guerra mondiale, la quale segnò un'ulte-
riore frattura rispetto al periodo precedente. Per comodità espositiva, le
principali conseguenze della Prima guerra mond.iale si possono raggruppare
in tre categorie: dirette, indirette e strutturali.
Le conseguenze dirette furono quelle più immediatamente riconducibili
al conflitto. Innanzitutto le vittime, che furono numerose, anche se il loro
numero esatto non è noto. Si lamentarono circa nove milioni di morti e di-
versi altri milioni di decessi in seguito alle carestie e alle epidemie provoca-
te dal conflitto, la più famosa delle quali fu l' epidemia influenza le detta
<<spagnola>>. Il deficit demografico fu presto colmato ed ebbe scarsa inci-
denza sulla crescita della popolazione, che riprese rapidamente. I danni ma-
teriali riguardarono i territori dove s i era combattuto, vale a dire la Francia
settentrionale, che subì i danni maggiori, il Belgio, il Veneto e la Polonia.
19. La Prima guerra mondiale 177

Un'altra conseguenza diretta fu la maggiore presenza delle donne nel


mondo del lavoro, non solo in agricoltura, dove esse avevano sempre lavo-
rato, ma anche nelle fabbriche e negli uffici. Perciò, dopo il conflitto riprese-
ro vigore i movimenti femministi, come quello delle suffragette inglesi, che
conquistarono in molti paesi il voto alle donne nelle elezioni politiche.
La guerra determinò anche una forte riduzione del commercio interna-
zionale, che era diventato molto più difficile e costoso per via dei continui
affondamenti delle navi mercantili. E infine favorì facili arricchimenti da
parte di coloro che producevano e distribuivano tutto ciò che serviva agli
eserciti o si diedero al contrabbando e al mercato nero.

19.4. Le conseguenze indirette: la crisi di riconversione

Le conseguenze indirette furono più durature e incisero per parecchio


tempo sulla società e sull' economia. Dopo il conflitto si riteneva che si po-
tesse ritornare al la <<normalità>>, ma ormai erano intervenuti tali e tanti mu-
tamenti che non fu più possibile ripristinare la situazione d' anteguerra. Fra
gli effetti indiretti della Grande gue1Ta sono da ricordare la crisi del 1920-
21, l'inflazione e i problemi monetari, la questione del le riparazioni e dei
debiti di guerra e la questione sociale.
La crisi di riconversione del 1920-21 fu molto pesante. I paesi che aveva-
no preso parte al conflitto dovettero prowedere alla ricostruzione delle zone
devastate dalla guerra e contemporaneamente procedere alla riconversione
dell'economia di guerra in economia di pace. Soprattutto le industrie che si
erano dedicate alla prod.uzione di materiale bellico s i trovarono in difficol-
tà. Molte di esse furono costrette a chiudere o a ristrutturarsi profondamen-,
te, talvolta trascinando con loro le banche che le aveva110 finanziate. E que-
sto il caso, per esempio, dell'Ansaldo, una società che si era ingrandita a
dismisura durante il conflitto (cannoni, munizioni, navi, aerei, ecc.) ed era
stata fmanziata da una grande banca mista, la Banca Italiana di Sconto, sor-
ta proprio nel 1914 per effettuare investimenti industriali. Nel dopoguerra,
l' Ansa ldo fu salvata grazie al l' intervento statale e dovette essere ristruttura-
ta, mentre la Banca Italiana di Sconto fu messa in liquidazione (1921).
Durante il conflitto molti consumi erano stati rinviati sia per mancanza di
beni che potessero adeguatamente soddisfarli sia per lo stato di preoccupa-
zione delle famiglie che avevano propri uomini al fronte. I risparmi si accu-
mularo110 e, appena finita la guerra, esplose la domanda di beni, specialmente
di quelli delle industrie tessili e meccaniche, che fece aumentare i prezzi e
stimolò l' attività produttiva. G li scambi internazionali ripresero e con essi
178 La seconda rivoluzione i11.dustriale (1850-1950)

anche le costruzioni navali. Esaurito questo tipo di dom.a nda proprio mentre
la capacità produttiva cresceva, si determinò una crisi di sovrapproduzione,
che provocò una consistente riduzione dei prezzi, l' accumulo di merci inven-
dute e la chiusura di nu.m erose fabbriche, con conseguente disoccupazione.
La crisi colpì in modo particolare Canada e Stati Uniti, che erano in grado
d' immettere sul mercato u11a grande quantità di prodotti.

19.5. Le conseguenze indirette: inflazione e gold exchange standard

Una delle conseguenze che maggiormente incise sulla vita delle pers o-
ne fu l'inflazione, sviluppatasi in tutti i paesi negli ultimi anni di guerra e
nell'immediato dopoguerra. Essa fu causata dall' innalzamento dei costi di
produzione, d.a lla diminuzione dell ' offerta di beni e soprattutto dal forte
incremento delle banconote messe in circolazione. L'aumento dei costi di
produzione fu provocato dalla crescita dei salari, dovuta alla scarsità di
manodopera per il richiamo a lle armi degli uomini più validi, e dalla lie-
vitazione del prezzo delle materie prime, causata dalle difficoltà di ap-
provvigionamento e dagli elevati costi di noli e premi di assicurazione in
tempo di guerra. D 'altra parte, diminuì l'offerta dei manufatti, perché le
industrie erano impegnate nella produzione di materiale bellico. Anche la
disponibilità dei generi alimentari si ridusse a causa di alcuni anni di cat-
tivi raccolti e del le difficoltà nella distribuzione. Infine, i prezzi aumenta-
rono per la grande quantità di biglietti di banca e di Stato 2 emessi da tutti
i paesi per pagare le spese militari. Tutto ciò portò i prezzi americani a
raddoppiars i entro il 19 17 e quelli europei a triplicarsi o quadruplicarsi
entro la fine del la guerra.
Ma si trattava di aumenti ancora contenuti se confrontati con quelli del
dopoguerra, qua11do, specialmente nei paesi sconfitti, i prezzi si moltiplica-
rono per migliaia di volte (Austria e U ngheria), per miliardi di volte (Polo-
nia e Russia) e per migliaia di miliardi di volte (Germania), provocando una
completa perdita di valore della cartamoneta. Le popolazioni dovettero
abituarsi ai biglietti di banca e dimenticare le monete d'oro, che erano quasi
scomparse dalla circolazione e in seguito non furono più coniate. Un tale
disastro fu dovuto principalmente a un' emissione sfrenata di moneta carta-
cea, iniziata durante la guerra e proseguita successivamente p er le necessità
2
I biglietti di Stato sono moneta a corso legale, in genere di piccolo taglio, messi in cir-
colazione, come le monete metal liche, direttamente dal lo Stato e non dalle banche di emis-
sione. I biglietti di Stato circolarono in Italia fino al 1985, quando furono ritirate le 500 lire
di carta, ormai sostituite da una moneta metallica di pari valore.
19. La Prima guerra mondiale 179

dei governi e per finanziare le industrie impegnate nella riconversione pro-


d.uttiva. Il marco tedesco, in particolare, perse completamente valore, come
si può ricavare dal suo cambio con il dollaro: all' inizio del 1920 per acqui-
stare un dollaro erano necessari 47 marchi, nel dicembre del 1922 ce nevo-
levano 7.500 e nel novembre del 1923, nel momento del defmitivo crollo
della moneta tedesca, un dollaro costava ben 4.200 miliardi di marchi!
L ' inflazione si era trasformata in iperinflazione, dalla quale si poteva
uscire solo ritirando la moneta in circolazione e sostituendola con una nuova.
In Germania, il vecchio marco fu temporaneamente sostituito con il Renten-
mark (al cambio di un Rentenmark per mille miliardi di vecchi marchi), una
moneta genericamente garantita dal patrimonio nazionale, che ebbe solo cir-
colazione interna, vale a dire che non veniva cambiato con le monete stranie-
re. Appena la Germania, effettuato il risanamento finanziario, fu pronta ari-
tornare alla convertibilità della sua moneta, fu introdotto il Reichsmark
(1924), moneta convertibile in oro allo stesso valore dell'anteguerra.
L ' inflazione provocò una violenta ridistribuzione della ricchezza a van-
taggio delle categorie sociali più forti e a danno di quelle più deboli. Essa,
infatti, colpì i p ercettori di reddito fisso, come operai, impiegati e proprieta-
ri di terre e di case date in affitto (fmo a quando salari e canoni non si ade-
guarono a ll'inflazione), nonché i risparmiatori, che videro sfumare i loro ri-
sparmi, e chiunque vantasse un credito. Avvantaggiò, invece, coloro che si
erano indebitati o che vendevano beni, come gli industriali e i commercian-
ti, che poterono profittare del rialzo dei prezzi, e favorì pure lo Stato, che si
liberò del debito pubblico con moneta deprezzata.
Era necessario non solo risanare le monete, ripristinando la loro converti-
bilità in oro, ma anche ricostituire un sistema di cambi fissi come nell' an-
teguerra. La Conferenza monetaria internazionale di Genova (1922) propose
l'adozione di una sorta di gold standard depotenziato, che si disse gold
exchange standard. Siccome le riserve auree non erano più sufficienti ad as-
sicurare la convertibilità dei biglietti di banca in circolazione, si decise di
porre a garanzia dei biglietti, il cui volume doveva comunque essere ridotto,
non solo l' oro ma anche le banconote convertibili in oro, che perciò si dissero
<<Valute chiave>>. I paesi che volevano aderire al sistema, cioè, dovevano ri-
pristinare la convertibilità dei loro biglietti in oro, in modo da farli diventare
valute chiave, utilizzabili come riserva dagli altri paesi per le loro emissioni.
La principale differenza con il gold standard consisteva, quindi, nel fatto che
le riserve potevano essere costituite anche da banconote straniere convertibili
in oro. E inoltre - altra importante novità - i biglietti non si potevano più
cambiare in monete d' oro presso qualsiasi sportello della banca di emissione,
ma soltanto in lingotti di 400 once (circa 12,5 chilogrammi) e solo presso la
180 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

sede centrale della banca che li aveva emessi. Era, cioè, una convertibilità li-
mitata e in sostanza riservata alle grandi transazioni, per lo più internazionali.
A poco a poco i principali paesi ripristinarono la convertibilità delle loro
monete, definendone il rapporto con l'oro (tranne gli Stati Uniti che avevano
sempre conservato la convertibilità del dollaro), e aderirono al gold exchange
standard. Il marco fu risanato e reso convertibile nel 1924, la sterlina nel
1925, il franco francese nel 1926 e la lira italiana nel 1927, quando si era so-
stanzialmente ritornati a un sistema di cambi fissi.

19.6. Le conseguenze indirette: i debiti e le riparazioni

Un problema molto delicato, che diede luogo ad aspri contrasti fra le


nazioni - durati più di un decennio - fu quello delle riparazioni, al quale era
connesso l'altro dei debiti di guerra. I debiti interalleati, ossia quelli stipu-
lati fra i paesi alleati durante la guerra, videro alla fine del conflitto gli Stati
Uniti e la Gran Bretagna creditori e gli altri paesi debitori. L'economista
Keynes, che faceva parte della delegazione britannica alla conferenza di
pace di Versailles, propose di annullare tutti i debiti generati dal comune
sforzo di vincere la gue1Ta, perché riteneva che non si sarebbero mai potuti
pagare. Gli Americani, invece, pretesero che fossero saldati, in quanto sca-
turiti dalla forni tura di beni e servizi e quindi da normali rapporti di affari.
Gli Europei alla fine accettarono di pagarli, poiché contavano di poterlo fa-
re grazie alle riparazioni di guerra dovute dalla Germania.
A gue1Ta finita, difatti, gli Alleati imposero il pagame11to di un' indennità
alla Germania, considerata responsabile del conflitto e perciò tenuta al paga-
mento di <<riparazioni>> ai vincitori. Nel conto fu inserito non solo il valore
dei beni civili e militari distrutti durante la guerra, ma anche le pensioni ai
familiari dei caduti e altre spese indirette. Il totale fu di 33 miliardi di dollari,
una somma enorme, pari al triplo del Pil tedesco dell'epoca, che la Ge1mania
s 'impegnò a versare a rate annuali, con l'interesse del 6 per cento. Keynes ri-
tem1e esorbitante l' ammontare delle riparazioni e previde che non sarebbero
state pagate. Ma in particolare i Francesi furono molto duri nel pretenderle,
ricordando che essi avevano versato, senza obiezioni e in breve tempo, l' in-
dennità di guerra alla Germania dopo la sconfitta subita nella guen·a franco-
prussiana di cinquant'anni prima.
Il pagamento dell'indennità accelerò l'inflazione tedesca. Siccome ben
presto la Germania rallentò i pagamenti, la Francia e il B elgio occuparono
temporaneamente la Ruhr (1923). Con due accordi successivi, il piano
Dawes (1924) e il piano Yoi,ng (1929), furono ridotti dapprima l' importo
19. La Prima guerra mondiale 181

delle rate e poi anche il debito complessivo. In seguito alla crisi del 1929,
però, il pres idente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, dichiarò (1931) la mo-
ratoria dei debiti tedeschi, cioè la temporanea sospensione dei pagamenti,
che in sostanza mise fme al ver samento delle riparazioni e al rimborso dei
debiti interalleati. Come si vedrà, la lezione servì a evitare gli stessi errori
dopo la Seconda guerra mondiale, quando i vincitori rinunziarono ad im-
pon·e indennità agli sconfitti e anzi li aiutarono nell'opera di ricostruzione.
Un'ultima conseguenza indiretta della Prima gue1Ta mondiale fu l'aggra-
varsi della questione sociale. Alla fine del conflitto la società europea era
percorsa da un profondo malessere. L'inflazione aveva falcidiato i salari e gli
stipendi e la crisi del dopoguerra non aveva consentito di reinserire nel mon-
do del lavoro parecchi ex combattenti, dopo anni di sacrifici durante i quali
molti di loro erano stati ufficiali o sottufficiali e avevano avuto la responsabi-
lità della vita dei loro uomini. Oltre agli operai e al ceto medio, anche i con-
tadini erano scontenti, poiché le promesse di riforme agrarie a guerra finita,
fatte durante il conflitto, non furono rispettate. E poi vi era l' esempio della
rivoluzione russa che infiammava gli animi e provocò tumulti operai e conta-
dini in molti paesi, come la Germania, l'Ungheria, l'Italia, l'Austria, la Fran-
cia e la stessa Inghilterra. Questi movimenti ebbero esiti diversi. Nei paesi
con una maggiore tradizione democratica (Gran Bretagna e Francia) furono
riassorbiti, mentre altrove ebbero uno sbocco reazionario, con l'instaurazione
di regimi autoritari: il fascismo in Italia e il nazismo in Germania.

19.7. I mutamenti strutturali dell'economia

Ben più gravi e duraturi furono i mutamenti strutturali. Un primo muta-


mento derivò dall'intervento dello Stato nell'economia. Il liberismo, basato
sulla fede nell'individualismo, sulla illimitata libe1ià economica e su unari-
dotta presenza dello Stato, sembrava aver fatto il suo tempo. Durante il con-
flitto lo Stato aveva dovuto assicurare l'approvvigionamento e la distribuzio-
ne delle materie prime e dei generi alimentari. A guerra terminata, si riteneva
che si dovessero ripristinare al più presto le regole del mercato e ritornare alla
libera iniziativa. Ma la cosa non fu così semplice come si era creduto. Dap-
prima il turbolento dopoguerra, poi la lunga depressione degli anni Trenta e
infine la Seconda guerra mondiale, non consentirono la riduzione dell' inge-
renza statale, ma anzi la fecero crescere.
Un' altra conseguenza strutturale della guerra fu la perdita dell 'egemo-
nia politica ed economica dell 'Europa. Anche questo processo fu irreversi-
bile e i paesi europei non riuscirono più a riacquistare il ruolo che avevano
182 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

rivestito precedentemente. Altri paesi, come gli Stati Uniti e il Giappone,


profittarono del conflitto e seppero conquistare una posiz ione di rilievo sul-
lo scenario economico e politico mondiale. Gli Stati Uniti, in particolare,
erano stati in grado di esportare beni e capitali durante la guerra e da debi-
tori verso l' estero erano diventati creditori, me11tre il dollaro contendeva il
primato alla sterlina come moneta dei pagamenti internazionali. L 'Europa,
invece, non riuscì a riconquistare le posizioni perdute e arretrò ancora nella
quota di produzione mondiale di manufatti e nella partecipazione al com-
mercio internazionale.
Il vecchio continente era in difficoltà e certo non gli giovò il suo accre-
sciuto frazionan1.ento economico. I trattati di pace, difatti, smembrarono i
vecchi imperi e crearono Stati indipendenti con ben ottomila chilometri di
nuove frontiere. I mercati si frammentarono: quello tedesco si restrinse per
le perdite territoriali subite e quello austro-ungarico si frantumò. Dall' ex
impero degli Asburgo scaturiro110 tre diverse entità statali, l' Austria, l'Un-
gheria e la Cecoslovacchia, con economie squilibrate. La Cecoslovacchia,
per esempio, possedeva a lcune industrie, ma non una popolazione numero-
sa in grado di acquistarne i manufatti, mentre l' Austria si ridusse a un pic-
colo Stato di circa 6,5 milioni di abitanti, con una grande capitale di oltre
due milioni di persone da mantenere. La Russia, per quanto precedente-
mente partecipasse in misura non rilevante al commercio internazionale, si
chiuse in se stessa, dopo la rivoluzione bolscevica del 191 7, e i rapporti con
il resto dell'Europa si ridussero a poca cosa.
I mercati non erano sufficientemente grandi per assorbire i prodotti
standardizzati delle industrie moderne. Il nazionalismo politico ed econo-
mico che pervase l'Europa fra le due guerre, d'altra parte, indusse ogni Sta-
to a impiantare proprie industrie e a favorirne l'espansione con l'inaspri-
mento delle tariffe doganali, in modo da assicurare ai loro prodotti almeno
il mercato interno. Per tentare di limitare gli effetti negativi di questa politi-
ca, si diffuse il meccanismo dei rapporti bilaterali, ossia di accordi diretti
fra due paesi, che fissavano i quantitativi di merci da scambiare. I rapporti
di credito e debito che ne scaturivano si compensavano reciprocamente e
solo le eccedenze dovevano essere saldate secondo le modalità previste.
20.
L'UNIONE
SOVIETICA

20.1. La rivoluzione e il comunismo di guerra

Una delle consegue112e più importanti della Grande guerra fu l' instaura-
zione del regime collettivistico in Russia. La rivoluzione socialista si pro-
poneva di realizzare una maggiore eguaglianza fra gli uomini, eliminando
la propr ietà privata dei mezzi di produzione e affidando allo Stato il compi-
to di r egolare tutta l'attività economica. Essa, al contrario di quanto aveva
previsto Kart Marx, si verificò in un paese non ancora industrializzato e con
un'economia prevalentemente agricola.
La partecipazione della Russia alla Prima guerra mondiale, sotto la gui-
da di una c lasse dirigente incapace e corrotta, fece crescere il malcontento
delle masse popolari. Nel febbraio del 19 17 scoppiò la rivoluzione, che co-
strinse lo zar Nicola II ad abdicare e portò al potere dapprima il principe
Georgij L 'vov e poi Aleksandr Kerenskij. Il nuovo governo, di orientamen-
to liberale, era debole e decise di continuare la guerra, mentre si andavano
organizzando i primi Soviet (consigli) dei rappresentanti dei soldati, degli
operai e dei contadini. Intanto si rafforzava il Partito bo lscevico, che poi as-
sunse la denominazione di Partito comunista, sotto la guida di Nikolaj Le-
nin (pseudonimo di Vladimir Il'ic Ul'j anov). Il programma sintetico dei
bolscevichi prevedeva la fine della guerra senza annessioni o indennità e il
diritto di autodeterminazione dei popoli, nonché la distribuzione delle terr e
ai contadini e il controllo degli operai sulle fabbriche, riassunti nello slo-
gan : <<La terra ai contadini e le fab briche agli operai>>.
I comunisti conquistarono il potere con la rivoluzione di ottobre (o di
novembre per i Russi, che adottarono il calendario occidentale solo nel
1918). Poco dopo stipu larono una pace separata con la Germania (pace di
Brest-Litovsk) e si ritirano da l conflitto. Seguì una lunga guerra civile, alla
fine della qua le fu proclamata, nel 1922, l'Unione delle Repubbliche So-
20. L 'Unione Sovietica 185

Le industrie furono dapprima sottoposte al controllo degli operai ( <<le fab-


briche agli operai>>) e poi nazionalizzate, a partire dalle grandi imprese per fi-
nire alle più piccole. Durante la guerra civile, con il sistema ferroviario fuori
gioco in un paese dalle grandi distanze e con le imprese mal gestite, era diffi-
cilissimo continuare la produzione industriale, che infatti quasi si fermò, por-
tandosi ad appena il 20 per cento di quella del 1913. Forse il fatto che l' appa-
rato industriale russo fosse completamente distrutto ebbe anche un risvolto
positivo, in quanto fu possibile ricostruirlo successivamente su basi più mo-
derne, utilizzando le nuove tecnologie importate dall'estero.
Anche le banche e il commercio furono nazionalizzati. Il commercio este-
ro divenne monopolio di Stato e fu vietato il commercio privato. Le banche
furono espropriate senza indennizzo e vennero assorbite dalla Banca di Sta-
to, tranne le cooperative di credito che furono conservate. La Rivoluzione
russa, come quelle americana e francese del secolo XVIII, fu finanziata con
una massiccia emissione di moneta cartacea, la cui it1evitabile conseguenza
fu il crollo del rublo. La completa perdita di valore della moneta e il sostan-
ziale ritorno a fo1me di scambio in natura provocarono la dissoluzione del
sistema bancario, che in seguito bisognò ricostituire su nuove basi. Il caos
era completo e la Russia soffriva la fame.

20.2. La Nuova politica economica

Nel 1921, di fronte al fallimento del comunismo di guerra e alla situa-


zione catastrofica del Paese, Lenin decise una Nuova politica economica
(Nep, 1921-28), che consistette - come egli stesso disse - nel compiere <<Un
passo indietro per andare avanti>>. Si rinunziava provvisoriamente alla rea-
lizzazione del socialismo per consentire la ripresa economica. Furono lib e-
ralizzati l'agricoltura, la piccola industria e il commercio, mentre lo Stato
conservò il control lo delle grandi industrie, delle banche e del commercio
estero. Si diede vita, cioè, a una società in cui convivevano elementi di so-
cialismo e di capitalismo.
Nel settore agricolo si ritornò a forme più libere di organizzazione della
produzione. L 'obbligo di cedere le eccedenze agricole all' ammasso fu so-
stituito con un'imposta in natura, successivamente trasformata in denaro,
che sostanzialmente rappresentava la metà dei prelevamenti effettuati in
precedenza con le requisizioni. I contadini furono autorizzati a vendere i lo-
ro prodotti sul mercato libero e la produzione agricola si riportò, nel 1927,
ai livelli prebellici. La frantumazione dei possessi (circa 27 milioni di pode-
ri nel 1927, rispetto ai 15 milioni del 191 3) non consentiva, però, la mecca-
184 La seconda rivoluzione iridustriale (J 850-1950)

cialiste Sovietiche (Urss), composta di diverse repubbliche e moltissime


nazionalità. La realizzazione del socialismo I in Russia passò attraverso tre
fasi distinte: il comunismo di guerra, la Nuova politica economica (N ep) e
la pianificazione.
Il comunismo di guerra (1917-21) fu il regime economico instaurato
mentre era in corso la guerra civile fra l' Armata Rossa e le armate <<bian-
che>> controrivoluzionarie, sostenute (anche con intervento di truppe) da al-
cune potenze straniere (Stati Uniti, Inghilte1Ta, Francia e Giappone), a ciò
spinte anche dal fatto che il nuovo governo aveva nazionalizzato le aziende
appartenenti agli stranieri e non aveva riconosciuto i debiti esteri del regime
zarista. Fra i primi provvedimenti vi fu l'abolizione della proprietà privata
delle terre e la confisca di quelle dei 11obili, della Chiesa e della Coro11a,
senza il pagamento di alcuna indennità. Le terre, divenute statali, passarono
<<in usufrutto>> al popolo lavoratore e vennero assegnate ai Soviet dei conta-
dini dei distretti. Chiunque ne avesse fatto richiesta avrebbe avuto diritto a
un appezzamento, che però non poteva vendere, affittare o coltivare con la-
voratori salariati.
I contadini non furono affatto contenti della riforma, perché, come sem-
pre, aspiravano alla proprietà individuale della terra. Comunque molte per-
sone trasferitesi in città, dove risultava sempre più difficile sopravvivere in
tempo di guerra, ritornarono ai loro villaggi per partecipare alla distribuzio-
ne delle terre. Il risultato fu che in molte zone gli appezzamenti assegnati si
rivelarono troppo piccoli, mentre in altre regioni parecchie terre rimasero
incolte. Un' equa distribuzione avrebbe richiesto lo spostamento di milioni
di persone da una parte all'altra del Paese e ciò non era possibile. Gli scam-
bi fra città e campagna s' interruppero. La produzione di manufatti era crol-
lata e i contadini non volevano vendere i loro prodotti agli abitanti delle cit-
tà in cambio di rubli di carta privi di valore. Per rifornire le città, i contadini
furono obbligati a versare all'ammasso i raccolti e <<commandos>> di operai
e soldati giunsero nelle campagne per procedere alla requisizione forzata
dei generi alimentari. La demotivazione dei contadini, la guen·a civile e i
cattivi raccolti del 1920 fecero crollare la produzione agricola alla metà di
quella media dell'anteguerra. Una nuova carestia ( 1920-2 1) causò, secondo
le stime ufficiali, ben cinque milioni di morti, anche perché era impossibile
rifornire le zone più colpite per i gravi danni subiti dalla rete ferroviaria.

1
I tennini socialisnio e coniunismo (o socialista e comunista) vengono usati , qui e in se-
guito, come sinonimi, nell 'accezione co1nune dj sistema sociale basato sull 'elimi11azione to-
tale o parziale della proprietà pri vata dei mezzi di produzione e sul controllo collettivo della
loro utilizzazione.
186 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

nizzazione e perpetuava forme di avvicendamento superate, come la rota-


zione triennale.
La possibilità di dare in affitto la terra e di assumere salariati portò alla
formazione di diversi gruppi: a) un proletariato rurale di braccianti; b) i
contadini poveri, spesso costretti a dare in affitto il loro piccolo pezzo di
terra e a lavorare come salariati; c) un ceto di contadini medi, che possede-
vano appezzamenti abbastanza grandi ed erano dotati di attrezzi agricoli;
d) i kulaki, ricchi contadini che prendevano terre in affitto, le coltivavano
con l' ausilio di braccianti e vendevano i prodotti sul mercato libero, i quali
riuscirono anche a conquistare un certo peso politico all' interno dei Soviet.
La produzione agricola, nonostante fosse cresciuta, non fu sufficiente ad ali-
mentare la popolazione sia nelle campagne che nelle città, anche per il sus-
seguirsi di una serie incredibile di cattivi raccolti. Fra il 1918 e il 1928 vi
furono due annate disastrose, cinque cattive e appena tre annate buone.
Il settore industriale fu sostanzialmente diviso in due: quello privato e
quello pubblico. Le imprese con meno di 20 dipendenti, che però fornivano
appena il 5 per cento della produzione, furono restituite ai precedenti pro-
prietari, mentre le grandi imprese rimasero nelle mani dello Stato. Le fab-
briche nazionalizzate avevano una gestione decentralizzata: le più grandi
erano gestite direttamente dall'Unione (Urss), le medie dalle repubbliche
federate e le più piccole dalle autorità locali. Fin da allora l'Unione Sovieti-
ca puntò sull'industria pesante, che ebbe una funzione trainante anche di
altri rami produttivi, e trascurò la produzione di beni di consumo, che inve-
ce era molto sviluppata nei paesi capitalistici. La produzione industriale
raggiuns e quella prebellica nel 1927, ma il Paese restava sostanzialmente
agricolo, con una popolazione che per più dell' 80 per cento viveva in pic-
coli villaggi.
Il commercio interno fu liberalizzato e si creò una rete vastissima di punti
di vendita al dettaglio, il 90 per cento dei quali fu lasciato in mano ai privati.
Il commercio con l 'estero, viceversa, rimase di competenza dello Stato.
Il sistema bancario dovette essere ricostituito sostanzialmente dal nulla.
Fu fondata una nuova Banca di Stato, la Gosbank, incaricata di emettere il
nuovo rublo, in sostituzione di quello precedente, che aveva perso comple-
tamente valore. Il rublo non venne definito in oro e l'Unione Sovietica non
entrò nel gold exchange standard. Accanto alla Gosbank, si costituirono al-
cune banche specializzate in particolari forme di credito (alle industrie,
all' elettrificazione e al commercio con l'estero), una rete di casse di ri-
sparmio e u11a di cooperative di credito. La Gosbar1k assunse ben presto un
ruolo di guida dell' intero sistema e tutte le altre banche ruotarono attorno
ad essa, dando vita a quello che è stato definito sistema monobanca.
20. L 'Unione Sovietica 187

20.3. La pianificazione

Alla morte di Lenin (1924), si scatenò la lotta per la successione. Fra i


vari dirigenti prevalse Josif Stalin, che puntava alla realizzazione de l <<so-
cialismo in un solo paese>>, contro Lev Trotzkij , che invece riteneva ne-
cessario esportare la rivoluzione in tutto il mondo. Nel 1928 Stalin, con-
siderando superata la Nep, riprese la strada verso il socialismo e promosse
l'economia pianificata, che si contrapponeva ali' economia di mercato, così
com e il regime a partito unico dell' Unione Sovietica si contrapponeva alle
d.e mocrazie occidentali.
In agricoltura fu avviata una rapida collettivizzazione delle terre con lo
scopo di giungere ad aziende di vaste dimensioni p er favorire l' introduzione
delle macchine e l' incremento della produttività. Stalin u sò tutti i mezzi per
vincere le resistenze dei contadini, che aspiravano alla proprietà della terra, e
scatenò una dura lotta contro i kulaki e i <<11epmen>> ( commercianti arricchitisi
con il commercio libero), molti dei quali furono deportati in Siberia e talvol-
ta eliminati fisicamente. La proprietà privata della terra era ammessa, ma i
contadini erano spinti a creare dei kolchoz, ossia aziende agricole collettive
(formalmente cooperative volontarie), conferendo la loro terra. Nonostante
qualche difficoltà, il processo di collettivizzazione fu sostanzialmente porta-
to a compimento, tanto che nel 1936, ormai il 90 p er cento dei contadini era
entrato a far parte dei kolchoz. Accanto alle fattorie collettive si f armarono
aziende agricole di proprietà statale, i sovchoz (aziende sovietiche). I lavora-
tori dei sovchoz erano dipendenti pubblici e i prodotti erano distribuiti in
massima parte attraverso le aziende statali di commercio all 'ingrosso. Nono-
stante le difficoltà, l' agricoltura sovietica riuscì comunque ad assicurare il
rifornimento delle città e a favorire l' industrializzazione del Paese.
Con la fine della Nep si eliminò gradualmente il settore privato nel
commercio e nell ' industria e si passò alla pianificazione. Fino al 1928 si era-
no predisposti piani settoriali, come quello p er l' elettrificazione del Paese.
In seguito, l 'attiv ità economica fu completamente pia nificata e il compito di
provvedervi fu affidato al Gosplan (Comitato per la pianificazione di Sta-
to). Il Gosplan doveva preparare i piani quinquennali e controllare che fos-
sero attuati, stabilendo g li obiettivi da realizzare. Vi erano inoltre piani per
ciascun settore e per ciascuna fabbrica, che prevedevano la quantità di ma-
terie prime occorrenti al processo produttivo, nonché la quantità e la qualità
dei beni da produrre. La tecnologia fu quasi tutta importata dagli Stati Uniti
i11 quanto era quella che si adattava meglio alle grandi dimensioni assu11te
dalle aziende sovietiche. Modesto fu l'apporto nazionale allo sviluppo tec-
nologico, anche perché in un'economia pianificata, dove mancava un sistema
188 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

di brevetti, vi erano scarsi stimoli all'invenzione e all' innovazione. I prezzi


dei prodotti intermedi e finali erano anch' essi stabiliti dal Gosplan, sulla
base del costo di produzione.
Fino al 1941 vi furono tre piani quinquennali, ma i I terzo non fu portato a
termine per lo scoppio della guerra. I primi due, sia pure tra molte difficoltà,
riuscirono a consentire una rapida industrializzazione del Paese, la cui pro-
duzione industriale aumentò di oltre otto volte in una quindicina d'anni
(1926-40) e superò, in valori assoluti, quella della Francia, della Gran Breta-
gna e della Germania. Tale sviluppo poté essere realizzato anche perché
l'Unione Sovietica non fu toccata dalla Grande depressione degli anni Tren-
ta, che invece colpì l'Europa e gli Stati Uniti. Nell'arco di pochi anni, dal
1928 al 1940, il volto della vecchia Russia cambiò e la partecipazione del
settore industriale alla formazione del Pil passò dal 28 al 45 per cento, men-
tre la quota dell' agricoltura si ridusse dal 49 al 29 per cento. I piani quin-
quennali, che riguardarono sia la produzione industriale che quella agricola,
puntarono con decisione all' industrializzazione forzata del Paese.
L'Unione Sovietica si sentiva accerchiata e minacciata dalle potenze ca-
pitalistiche, in particolare dalla Germania nazista. Perciò doveva lottare
contro il tempo per costruire un adeguato apparato produttivo e per assicu-
rare la difesa nazionale. Fu privilegiata l'industria pesante e la produzione
di beni strumentali, soprattutto di macchine industriali e agricole, a scapito
della produzione di beni di consumo. I sacrifici a cui fu sottoposta la popo-
lazione furono più o meno equamente distribuiti. Tutti dovettero rinunziare
ai consumi di massa per consentire la riuscita dei piani industriali, ma i ceti
rurali furono chiamati alle rinunzie maggiori e dovettero sostenere, più di
altri, il processo d 'industrializzazione del Paese.
Tuttavia, il Pil pro capite aumentò, fra il 1913 e il 1950, al tasso medio
dell'l,8 per cento all'a1100, vale a dire a un ritmo più elevato di qualsiasi al-
tro paese, portandosi dal 29 al 41 per cento di quello della Gran Bretagna
(vedi tabb. 14.1 e 14.2). Non si trattava di un risultato di poco conto, consi-
derando che fu realizzato in un periodo contrassegnato da due guerre e da
una lunga e cruenta rivoluzione e anche in Occidente sembrò a molti che
l' economia pianificata fosse un sistema economico capace di sottrarsi al ri-
schio delle crisi economiche.
21.
LA GRANDE
DEPRESSIONE

21.1. L'espansione degli anni Venti negli Stati Uniti

Il periodo compreso fra il 1922 e il 1929, i <<felici anni Venti>>, fu caratte-


rizzato dall' espansione dell' economia mondiale. Il sistema monetario inter-
nazionale fu ricostruito, i traffici ripresero, sia pure non più con l'intensità di
prima della guerra, e la produzione industriale cominciò di nuovo a crescere.
Lo sviluppo, però, non fu uguale dappertutto: negli Stati Uniti fu particolar-
mente intenso, mentre nell'Europa occid.e ntale fu più debole.
Gli Stati Uniti conobbero un periodo di prosperità, che si basò princi-
palmente sul mercato interno, stimolato dalla politica degli alti salari, dalle
vendite a rate e dalla diffusione della pubblicità commerciale. Un ramo
d'industria dove, più che in altri, risultò evidente l'espansione dell' econo-
mia americana, fu quello automobilistico. La produzione crebbe di oltre il
30 per cento all'anno, portando le autovetture prodotte a 5,3 milioni nel
1929 e quelle circolanti a 24 milioni (una ogni cinque abitanti), situazione
che in Europa si verificherà soltanto trenta o quarant'anni più tardi. La fab-
bricazione e la circolazione di un gran numero di autovetture stimolarono la
produzione e il consumo di petrolio, acciaio, gomma e vetro e fu necessario
costruire nuove strade. Una grande espansione fecero segnare anche le in-
dustrie chimiche ed elettriche, la cui produzione raddoppiò. I disoccupati si
ridussero e in qualche anno (1926) scesero sotto il 2 per cento, tenendosi co-
munque a livelli inferiori a quelli europei. Il problema era semmai che il
mercato i11terno non era in grado di assorbire la produzione e perciò diven-
tava necessario esportare. Ma la politica isolazionistica degli Stati Uniti e il
timore della concorrenza europea li avevano indotti a elevare i dazi doganali,
rendendo più difficili gli scambi con le altre nazioni.
Volendo esprimere sinteticamente questa crescita con alcuni indicato-
ri economici, si può ricordare che fra il 1913 e il 1929 il Pil pro capite degli
190 La seconda rivoluzione i11.dustriale (18 5 0-195 O)

Tab. 21.1. - Andamento del Pii pro capite dei principali paesi, per alcuni anni
fra il 1913 e il 1946 (1913 = 100)

Paesi 1913 1922 1929 1932 1937 1943 1946


Gran Bretagna 100 94 11 2 105 126 157 137
Francia 100 104 135 114 129 82 111
Germania 100 91 lll 92 128 161 61
Stati Uniti 100 105 130 93 121 217 173
Russia (Urss) 100 43 98 102 152 135
Giappone 100 132 146 141 167 203 104
Italia 100 97 121 113 121 97 94
Fonte: Dati di A. Maddison, aggiornati al 2010, tratti dal sito web del Groningen Growth
and Develop1nent Centre, ali ' indirizzo "www.ggdc.net/Maddison" (nostri calcoli).

Stati Uniti era aumentato del 30 per cento (vedi tab. 2 1.1 ), la produzione in-
dustriale nel suo complesso era quasi raddoppiata(+ 93 per cento) e le espor-
tazioni erano cresciute del 68 per cento.

21.2. La lenta crescita dell'Europa

In Europa la ripresa fu piuttosto fiacca, specialmente in Gran Bretagna e


in Germania, vale a dire nei due paesi che erano stati al la guida dell'eco-
nomia europea prima della guerra, mentre Francia e Italia riuscirono a rea-
lizzare delle performance migliori.
La Gran Bretagna conobbe una crescita lenta, con un incremento della
produzione industriale di appena il 28 p er cento fra il 1913 e il 1929, una
sostanziale stabilità delle esportazioni e un aumento di appena il 12 per
cento del Pil pro capite (vedi tab. 21.1). Le difficoltà dell'economia britan-
nica, in particolare la presenza di industrie tecnologicamente poco avanza-
te, già emerse prima della guerra, si aggravaro110 in seguito alla decis ione
di ripristinare, nel 1925, la convertibilità della sterlina al valore d' anteguer-
ra, perché gli Inglesi volevano restituire alla piazza di Londra e alla sterlina
il 1uolo che esse avevano prima del conflitto. Ma la sterli11a ormai faceva
fatica a <<guardare in faccia>> il dollaro, come invece avrebbero voluto i go-
vernanti britannici e, siccome il suo contenuto aureo non fu diminuito, al
contrario di quanto fecero gli altri paesi, la moneta inglese risultò sopravva-
lutata, con un cambio troppo alto rispetto al dollaro. Ciò s ignificò un ulte-
riore disincentivo all'esportazione. La conseguenza della lenta ripresa bri-
21. La Grande depressione 191

tannica fu un tasso di disoccupazione abbastanza elevato, che rimase intor-


no al 7-8 per cento delle forze di lavoro.
In Germania, il problema del pagamento delle riparazioni costituì un
grave ostacolo alla ripresa. Una parte della produzione veniva espo1iata e
con il ricavato si pagavano le rate delle riparazioni, il che equivale a dire
che in sostanza i Tedeschi cedevano gratuitamente ai paesi vincitori una
quota della loro produzione. D'altra parte, la produzione industriale risenti-
va della perdita, prevista dagli accordi di pace, del 13 per cento del prece-
dente territorio tedesco, ricco di miniere di zinco, minerali di ferro e carbo-
ne. Dopo la stabilizzazione del marco, i capitali stranieri affluirono in Ger-
mania perché i tassi d'interesse furono tenuti elevati proprio per rendere
conveniente il loro impiego e per evitare un'eccessiva emissione di moneta.
L'alto costo del denaro, difatti, scoraggiava le banche a ricorrere alle anti-
cipazioni dell' istituto di emissione, che perciò non era costretto a stampare
altre banconote. La produzione industriale raggiunse e superò i livelli pre-
bellici, in particolare nella siderurgia e nella chimica, dove la Germania ri-
conquistò il primato mondiale. Tuttavia, i risultati non furono brillanti e nel
1929 la produzione industriale era aumentata del 20 per cento rispetto al
1913, mentre le esportazioni erano addirittura diminuite. Il Pil pro capite
era cresciuto dell' 11 per cento.
Molto meglio fece la Francia, che riuscì a incrementare la produzione
i11dustriale e le esportazioni di oltre il 40 per cento e il Pil pro capite del 35
per cento. Le ragioni d.el successo d.ella Francia, che pure aveva subito i
danni maggiori durante il conflitto e visse nel dopoguerra una lunga fase di
it1stabilità politica, con continui mutamenti di governo, furono il recupero
dell' Alsazia e della Lorena e la stabilizzazione del franco, nel 1926, a un
valore realistico, che tenne conto della sua perdita di valore. Il merito di
questa scelta fu del presidente del Consiglio Raymond Poincaré, che diede
il nome alla nuova moneta (franco Poincaré). La produzione industriale
aumentò notevolmente, anche grazie ai lavoratori stranieri che sopperirono
alla deficienza di manodopera nazionale. Nel primo dopoguerra essi erano
ben 2,8 milioni, mentre nel 19 13 erano 1, 1 milio11Ì. Le esportazioni creb-
bero e, per la prima volta, la bilancia commerciale francese divenne attiva.

21.3. In Italia: battaglia del grano, bonifiche e stabilizzazione della lira

At1che l'Italia profittò della congiuntura positiva degli anni Venti. Nel
1929 la sua produzione industriale era aumentata del 58 per cento rispetto
al 1913 e le esportazioni del 23 per cento, facendo registrare una crescita
192 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

del Pil pro capite del 21 per cento e ponendosi, in Europa, subito dopo la
Francia per risultati otte11uti (vedi tab. 21.1 ). Dopo il <<biennio rosso>> del
1919-20, durante il quale vi fu l' occupazione delle terre e delle fabbriche da
parte di contadini e operai, colpiti dall' inflazione e dalla disoccupazione, il
potere fu preso dai fascisti con la cosiddetta <<marcia su Roma>> ( ottobre
1922). In seguito all' assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti
(1924), quando sembrò che il governo stesse per cadere, fu instaurata la dit-
tatura e vennero sciolti i sindacati e i partiti politici.
Aiutato dalla congiuntura positiva, il nuovo governo poté realizzare il pa-
reggio del bilancio statale e diede spazio alla libera iniziativa, awantaggian-
do gli industriali e i proprietari te11·ieri, i quali, assieme al ceto medio, costi-
tuivano la base di consenso del regime fascista. La produzione industriale
aumentò notevolmente e anche le esportazioni crebbero. Ma l' Italia era pove-
ra di materie prime, che doveva necessariamente importare. Le importazioni
superavano le esportazioni e la bilancia commerciale rimase passiva. Né era
più possibile pareggiarla con le rimesse degli emigrati, perché i paesi di de-
stinazione (soprattutto gli Stati Uniti), avevano sostanzialmente chiuso le
frontiere all'immigrazione con leggi restrittive. Il turismo, d'altra parte, an-
che se si stava sviluppando, non era ancora tale da assicurare un considerevo-
le flusso di entrate di valuta estera, come invece aweniva in Francia.
Si tentò di ridun·e la dipendenza dalle importazioni, cercando di produrre
in patria almeno quei beni che essa poteva dare, in particolare i prodotti della
terra. Fu perciò avviata, nel 1925, la cosiddetta battaglia del grano, tendente
a incrementare la produzione di frumento. Favorita anche dagli alti dazi
d'importazione, la produzione di frumento crebbe di quasi il 45 per cento (da
52 a 75 milioni di quintali fra il 192 1-25 e il 1936-40) e l' importazione si ri-
dusse, alle stesse date, del 70 per cento (da 25 a 7,6 milioni di quintali).
La bonifica integrale, iniziata nel 1928, contribuì anch'essa all'incre-
mento della produzione agricola. La bonifica integrale consisteva nella
normale bonifica idraulica (prosciugamento di terre paludose) più la crea-
zione delle infrast1utture necessarie alle terre recuperate, come case coloni-
che, acquedotti, strade e linee elettriche, fino alla creazione di interi centri
abitati. Fu bonificato, per esempio, l' Agro Pontino, dove vennero fondate
nuove città come Littoria ( oggi Latina) e Sabaudia, popolate con coloni
provenienti dal Nord Italia.
Intanto, l'aumento delle importazioni e la conseguente domanda di valu-
te estere per poterle pagare avevano determinato il peggioramento del cam-
bio della lira rispetto alle altre monete (la sterlina era giunta a 133 lire e il
dollaro a 27 lire). Perciò, il governo, ottenuto un prestito dal mercato ame-
ricano, decise, nel 1927, la stabilizzazione della lira, ossia la ripresa della
21. La Grande depressione 193

sua convertibilità al valore di 0,07919 grammi d'oro fino, e quindi la sua


entrata nel gold exchange standard. Il capo del governo, Benito Mussolini,
aveva annunziato, nel famoso <<discorso di Pesaro>> (1926) l' intenzione di
voler fissare il valore in oro della lira in modo che il cambio con la sterlina
(che equivaleva a 7,322 grammi d'oro fino) fosse di 90 lire - la famosa
<<quota novanta>>- obiettivo quasi centrato perché il cambio risultò alla fine
di 92,46 lire. L'aver comunque assegnato un valore troppo elevato alla lira
significò che i prezzi italiani risultarono più alti e quindi le esportazioni fu-
rono scoraggiate, mentre le importazioni si poterono fare a prezzi più con-
venienti, con vantaggio per l'acquisto all'estero delle materie prime.
Il risanamento d ella lira fu preceduto, nel 1926, da un provvedimento
che riservava solo alla Banca d' Italia il diritto di emettere biglietti, revo-
candolo al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. Anche l' Italia ebbe così
un unico istituto di emission,e, che fu incaricato di assicurare la stabilità
monetaria e al quale fu pure attribuito il compito di vigilanza sull' intero si-
stema bancario nazionale.

21.4. La crisi del '29

L 'economia mondiale, nonostante la fase espansiva deg li anni Venti,


presentava alcuni squilibri fondamentali, che è necessario ricordare e che
servono, in qualche modo, a spiegare la crisi successiva. La produzione in-
dustriale era molto cresciuta non solo per i progressi tecnologici, ma anche
per le opportunità offerte dalla guerra, specie ai paesi neutrali o a quelli che
erano stati poco coinvolti nel conflitto. La stessa produzione agricola era
aumentata più della capacità di assorbimento del mercato, sicché i prezzi
agricoli scesero continuamente dal 1920 al 1929. Si venne a determinare,
così, una sorta di sovrapproduzione cronica, che caratterizzò tutto il perio-
do. Per conseguenza, la disoccupazione si mantenne complessivamente ele-
vata, interessando almeno dieci milioni di p ersone nel mondo industrializ-
zato, e il commercio estero riuscì ad aumentare solo del 27 per cento in 15
anni (1914-29), mentre nei 35 anni precedenti si era triplicato. A ciò si ag-
giunga che gli Stati Uniti, la principale potenza economica mondiale, si
chiusero it1 un forte isolazionismo e, continuando la tradizione ottocentesca,
si mostrarono riluttanti ad assumere il ruolo di leader dell' economia mon-
dia le. Essi, difatti, non entrarono nella Società delle nazioni, pure sostenuta
dal loro presidente Thomas Woodrow Wilson, limitarono notevolmente l' im-
migrazione e adottarono una politica protezionistica, con grave danno per le
loro relazioni commerciali con l'estero.
194 La seconda rivoluzione iridustriale (J850-1950)

Nel 1929 si manifestò, proprio negli Stati Uniti, una grave crisi borsisti-
ca, alla quale fece seguito una depressione durata alcuni anni. Anche se
spesso si parla genericamente di <<crisi del '29>>, si trattò di due eventi con-
catenati, ma non necessariamente consequen.z iali. La crisi del ' 29 fu diversa
da quelle precedenti, poiché si trattò di una crisi universale, nel senso che
essa : a) colpì quasi tutti i paesi capitalistici, per i legami economici che s i
erano stabiliti fra di loro; b) coinvolse tutti i settor i dell'economia (agrico l-
tura, industria, commercio, banche, ecc.); c) ebbe effetti su tutte le catego-
rie sociali (imprenditori, operai, impiegati, agricoltori, ecc.).
La crisi esplose alla Borsa di New York, in Wall Street, alla fme d.e l m e-
se di ottobre del 1929. Durante l'euforia degli anni Venti, oltre ai tradizio-
nali investitori (banche, assicurazioni, società finanziarie, ecc.) avevano
cominciato a investire in azioni molti risparmiatori, che poi furono presi
dalla frenesia speculativa. A ciò erano stati incoraggiati anche dagli agenti
di cambio 1, sostenuti dalle banche, i quali, per consentire l' acquisto di azioni,
chiedevano agli acquirenti di versare solo una piccola qu ota (bastava il 1O
per cento) della somma da investire e di saldare il resto a rate, ma trattene-
vano i titoli acqu istati, che cedevano in garanzia alle banche p er ottenere
nuovi prestiti e continuare la loro attività. Da parte loro, le holding, che
possedevano azioni, spins ero in tutti i modi il loro valore verso l' alto, anche
ricorrendo a pratiche scorrette, come l'aggiotaggio 2 •
Normalmente, un investitore acquista azioni in Borsa per ottenere il
<<dividendo>>, ossia la quota di utile che g li spetta ogni anno in remunera-
zione del capitale investito. T alvo lta, se il valore delle azioni sale, egli può
profittare dell' occasione e vendere quelle in suo possesso, realizzando un
<<capitai gain>>, ossia un guadagno sul capita le investito, dato dalla differ en-
za fra il prezzo di vendita (più a lto) e il prezzo di acquisto (più basso).
Quando il prezzo delle azioni continua a crescere per un periodo abbastanza
lungo, molti investitori sono indotti ad acquistarle nella speranza di vedere
la loro quotazione crescere ancora e rivenderle con profitto. Se il prezzo
delle azioni continua ad aumentare, il guadagno è assicurato e la sp ecula-
zione si scatena. Ma tutti sa1mo che il valore delle azioni, siccome dipende
dal dividendo che sono in grado di assicurare, non può crescere all' infinito.

1
L'agente di cambio (broker) è un operatore economico autorizzato a operare nelle Bor-
se valori per acquistare o vendere titoli per conto dei clienti, Oggi tale compito è riservato,
in Italia, alle società di intermediazione 1nobiliare (Sim) o alle banche.
2
L'aggiotaggio è la pratica di chi diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per provo-
care il rialzo o la diminuzione del prezzo dei titoli quotati in Borsa (o anche del prezzo delle
merci). L'aggiotaggio è un reato pt1nito dalla legge.
21. La Grande depressione 195

E allora perché continuano ad acquistarle? P erché immaginano di ven-


derle prima che il loro valore cominci a diminuire. Su questa speranza, in
tutti i tempi, si sono distrutte grandi fortune, ma si sono realizzati anche
grossi arricchimenti da parte di coloro che, quasi esclusivamente grazie a lla
loro fortuna, sono riusciti a u scire dal <<gioco>> prima del crollo. Quando il
prezzo delle azioni, giunto a livelli elevatissimi, comincia a scendere per
mancanza di acquirenti, a ll' <<euforia>> succede il <<panico>> e tutti si precipi-
tano a vendere i titoli azionari in loro possesso per ridurre il danno prima
che il prezzo cali ulteriormente. Ma la loro decisione di vendere fa diminui-
re ancora più velocemente la quotazione d elle azioni. Il crollo si arresta so-
lo quando il prezzo si stabilizza attorno al valore reale delle azioni che, co-
me si è detto, è rapportato al div idendo che sono in grado di assicurare.
Ebbene, il meccanismo appena descritto è quello della specu lazione di
Wa ll Street del 1929, che presentò più o m eno le stesse caratteristiche di
tutte le speculazioni che l 'avevano preceduta ( fin da quella nota come
<<mania dei tulipani>> alla Borsa di Amsterdam del 1636-37) e che si ritro-
verà in tutte quelle che la seguiranno. A New York l' indice di Borsa Dow
Jones era cresciuto da un valore di 100 nel 1924 a 191 all' inizio del 1928
e a 3 8 1 n el mese di settembre 1929. Il rialzo, come si vede, non fu ecces-
sivo fmo al 1928, perché seguì l'andamento dei profitti, m a dopo schizzò
verso l 'alto e attirò circa un milione e m ezzo di investitori.
Qualche sintomo di crisi si avvertì già nel mese di maggio, quando la
diminuzione dei prezzi del ram e e dell' acciaio lasciò prevedere un calo del
valore dei titoli ch e riguardavano questi rami dell' industria, e ancora di più
nell' estate quando si seppe che gli utili del comparto automobilistico erano
in diminuzione. Ma economisti, banchieri e uomini d 'affari facevano a gara
a infondere ottimismo e a sostenere che la Borsa sarebbe salita ancora. In-
vece, la mattina del 24 ottobre 1929, un giovedì (<<g iovedì nero>>), furono
messe in vendita quasi 13 milioni di azioni e la loro quotazione scese di
colpo. Dopo una pausa, il venerdì, dal lunedì successivo il prezzo dei titoli
continuò a precipitare, facendo segnare, martedì 29, un altro giorno nero
(<<martedì nero>>), quando furono offerti in vendita ben 33 milioni di titoli.
Era il panico e tutti si precipitarono a vendere, sicché a metà novembre
l'indice delle azioni era caduto a 198 . In poco tempo aveva perso il 48 per
cento e continu ò a diminuire fino al minimo di 41 nel lug lio del 1932 (ri-
tornerà al livello del 1929 solo 25 anni più tardi, nel 1954). Chi aveva inve-
stito i suoi risparmi ( o, peggio ancora, aveva preso denaro a prestito per
<<giocare in Borsa>>) fu rovinato, così come lo furono parecchie banche e isti-
tuzioni finanziarie che avevano concesso prestiti agli speculatori o avevano
esse stesse investito grosse somme in Borsa. Il pubblico dei piccoli investi-
196 La seconda rivoluzione industriale (J 8 50-195 O)

tori, che non comprendeva i meccanismi della speculazione sui titoli e che
credeva di aver trovato un modo semplice per arricchirsi, si sentì vittima di
una colossale truffa e perse fiducia negli economisti e nei banchieri.

21.5. La depressione negli Stati Uniti e in Europa

La crisi di Borsa, tuttavia, non spiega del tutto la depressione successi-


va. Una crisi borsistica rovina sicuramente molti risparmiatori poco previ-
denti e parecchie banche che rischiano il denaro dei depositanti ( con danno
anche per questi ultimi), ma se l'economia è sana, la crisi viene presto rias-
sorbita, com 'è sempre avvenuto prima e dopo il 1929. Viceversa, l'eco-
nomia americana e quella mondiale soffrivano degli squilibri prima ricorda-
ti, che si acuirono quando la sovrapproduzione latente divenne palese in
tutti i settori e molti prodotti non riuscirono più ad essere collocati sul mer-
cato. La crisi di sovrapproduzione (o di sottoconsumo) fu aggravata dalla
speculazione borsistica solo in modo indiretto: a) fallirono numerose ban-
che e molti risparmiatori p ersero i loro depositi; b) le banche ridussero il
credito alle imprese, mettendole in difficoltà o causandone il fallimento,
con conseguenti licenziamenti; c) si contrasse la domanda di beni e servi-
zi, tenutasi elevata durante la fase speculativa anche per gli accresciuti
consumi di chi aveva guadagnato in Borsa.
La depressione fu molto grave e durò abbastanza a lungo. In pochi anni,
la produzione industriale americana si ridusse notevolmente e gli investi-
menti crollaro110. La produzione automobilistica che, come si è visto, aveva
un ruolo trainante nell' economia d'oltreoceano, diminuì del 75 per cento in
appena tre mesi. Alla Ford si lavorava solo tre giorni alla settimana per evi-
tare di produrre automobili che non si riuscivano più a vendere. Molte fab-
briche chiusero e la disoccupazione dilagò: da 4,6 milioni nel 1929 i disoc-
cupati divennero 13 milioni nel 1933. La loro diminuita capacità di spesa,
ovviamente, contribuì ad aggravare la situazione. Ma nemmeno chi era riu-
scito a conservare il posto di lavoro fu it1 grado di acquistare beni di con-
sumo come prima, perché le imprese, nel tentativo di ridurre i costi di pro-
duzione, avevano ridotto i salari del 10-30 per cento.
Le banche non riuscirono a recuperare i prestiti concessi alle imprese e
ne fallirono a migliaia: il loro numero si ridusse da 24.500 a 15.000. Il go-
verno dovette intervenire per salvare quelle più solide, acquisendone an-
che i pacchetti azionari (successivamente rivenduti sul mercato) e sotto-
pose la Borsa al controllo di un apposito ente, la SEC (Security Exchange
Commission). Nemmeno l'agricoltitra, che già soffriva di bassi prezzi, fu
21. La Grande depressione 197

risparmiata, anche se la produzione di generi alimentari si contrasse di


meno giacché bisognava pur continuare ad alimentarsi. I prezzi, p erò,
crollarono del 57 per cento e provocarono la rovina di molti agricoltori,
soprattutto di quelli indebitati con le piccole banche locali. L'introduzione
delle macchine agricole, inoltre, espelleva manodopera: basti pensare, p er
esempio, che il numero dei trattori passò, fra il 1920 e il 193 9, da 250 mi-
la a ben 1,6 milioni, moltiplicandosi per più di sei vo lte in appena un ven-
tennio. Per utilizzare due indicatori sintetici, si può osservare che la pro-
duzione industriale degli Stati Uniti scese, fra il 1929 e il 1932, del 38 per
cento e il Pil pro capite del 29 per cento.
Dagli Stati Uniti la depressione si diffuse in altri paesi tramite gli scam-
bi internazionali e per il ruolo predominante che quel Paese aveva nell'eco-
nomia mondiale. Nel 1929, gli Stati Uniti detenevano il 45 per cento della
produzione industriale mondiale e il 12,5 per cento delle importazioni. E
inoltre molti capitali americani erano stati investiti in Europa, soprattutto in
Germania. La depressione provocò dappertutto più o meno gli stessi guasti,
sia pure con diversa intensità. Quasi ovunque si registrarono riduzioni dei
prezzi agricoli e industriali, fallimenti di imprese e di banche, peggioramen-
to del commercio interno ed estero, diminuzione del valore dei titoli in Bor-
sa, calo degli investimenti e aumento della disoccupazione.
In Europa il paese maggiormente colpito fu la Germania. Il Pil pro capi-
te si ridusse, fra il 1929 e il 1932, del 17 per cento, mentre la produz ione
industriale calò del 39 per cento. Anche la Francia risentì della crisi in mo-
do abbastanza grave, come dimostrano i dati che la riguardano: il Pil pro
capite diminuì del 16 per cento e la produzione industriale del 26 per cento.
Molto meno coinvolti furono la Gran Bretagna, l'Italia e il Giappone, che
subirono solo una leggera flessione del Pil pro capite (rispettivamente del 6,
del 7 e del 3 per cento), e una diminuzione contenuta della produzione in-
dustriale. L ' Unione Sovietica non fu toccata dalla crisi perché si era chiusa
in se stessa per realizzare l'economia pianificata (vedi tab. 21.1 ). Vicever-
sa, molti paesi che esportavano materie prime e derrate alimentari, come
quelli dell' America Latina, furono particolarme11te colpiti dalla caduta dei
prezzi internazionali di quei beni.
In Germania, la crisi assunse principalmente le caratteristiche di una gra-
ve crisi bancaria. La Repubblica di W eimar, così detta dal nome della citta-
dina tedesca dove era stata approvata la costituzione del nuovo Stato federa-
le repubblicano, presentava diversi punti deboli. Dal punto di vista politico,
essa si dimostrò fragile e instabile, con una lunga serie di governi che si suc-
cedettero in pochi anni. Dal punto di vista economico, si era venuto a creare
un legame molto stretto fra banche e imprese, sicché le sorti de lle prime di-
198 La seconda rivoluzione i11.dustriale (J 8 50-195 O)

pendevano dall'andamento delle seconde. Inoltre tutta l' attività economica


del Paese era condizionata dal pagame11to delle riparazioni dovute ai paesi
vincitori. Molti banchieri e capitalisti americani, che avevano investito gros-
se somme in Germania, cominciarono a ritirarle fin dal 1928 per investirle in
Borsa nel loro paese. Il richiamo in patria dei capitali continuò anche dopo il
crollo di Wall Street e si fece molto più consistente nel 1931, qua11do il fal-
limento di una grande banca austriaca, la Creditanstalt di Vienna, fece teme-
re che la crisi si potesse estendere alla vicina Germania.
I Tedeschi ebbero difficoltà a pagare le rate delle riparazioni agli Alleati
e siccome costoro contavano sulla riscossione di tali rate per pagare i debiti
interalleati dovette intervenire la già ricordata <<moratoria Hoover>>, che s o-
spese tutti i pagamenti. In Germania, la crisi non si poté evitare. La produ-
zione industriale diminuì e molte imprese, comprese alcune compagnie di
assicurazione e una catena di grandi magazzini, si trovarono in difficoltà,
trascinando con loro alcune grandi banche. Gli investimenti diminuirono e i
disoccupati raggiunsero la cifra di circa sei milioni nel 1932. Lo Stato in-
tervenne per salvare banche e imprese. Acquistò i pacchetti azionari delle
imprese in difficoltà, che provvide a risanare e successivamente a rivendere
ai privati. Questa forma di salvataggio era stata attuata con successo anche
dagli Stati Uniti, mentre in Italia, come vedremo, non riuscì in pieno.
22.
LE POLITICHE
CONTRO LA DEPRESSIONE

22.1. Il deficit spending

Per uscire da lla depressione, i paesi che erano stati colpiti adottarono
quas i tutti le stesse politiche, ispirate ai principi keynesiani ( esp oste, però,
solo nel 1936 da Keynes nella sua opera principale <<T eoria generale del-
l' occupazione, dell'interesse e cl.ella moneta>>) e quindi a un maggiore in-
tervento dello Stato in economia. Ma non subito. I governanti tardarono a
intervenire con decisione in tal senso perché legati alle concezioni econo-
miche liberali, secondo le qua li un ' ingerenza dello Stato in economia era
ritenuta dannosa e avr ebbe finito per aggravare la crisi. Gli economisti che
seguivano l' ortodossia liberale erano convinti che il mercato sarebbe riusci-
to da solo a riassorbire la crisi e a ristabilire l' equilibrio economico. Lo Sta-
to si sarebbe dovuto limitare ad assicurare una moneta sana e un bilancio
statale in pareggio.
Tuttavia, per contrastare la diminuzione dei prezzi si cercò di ostacolare
le importazioni, in particolare quelle dei prodotti alimentari, ricorrendo a un
inaspr imento della politica protezionistica. Negli Stati Uniti la legge Ha-
wley-Smoot (1930) aumentò i dazi d' importazione su 20 mila prodotti, no-
nostante l' opposizione di molti economisti e d.e llo stesso Henry Ford, pro-
vocando la reazione di altri paesi che risposero con dazi di rappresaglia. La
Gran Bretagna aumentò le tariffe doganali (1931 ), ma firmò con i paesi del
Commonwealth I gli accordi di Ottawa ( 1932), che introdussero la cosiddetta

1
Il British Con1rnon,-vealth of Nations (Co1nunità britannica delle nazioni) nacque dopo la
Prima guerra mondiale e fu sancito uffi cialmente nel 193 1. Esso comprendeva il Regno Unito,
le sue colonie, i suoi protettorati e u.n gruppo di Stati indipendenti (dominions), un tempo colo-
nie inglesi, come il Canada, l' Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafiica. Gli Stati che facevano
parte del Commonwealth britannico erano legati soltanto da un comune gitiramento di fedeltà
alla Corona inglese e dalla loro libera volontà di associazione. Oggi essi sono una cinquantina.
200 La seconda rivoluzione iridustriale (1850-1950)

<<preferenza imperiale>>, ossia dazi ridotti sugli scambi reciproci. In sostanza,


si venne a creare uno spazio commerciale comune in cui le merci potevano
circolare più facilmente e la Gran Bretagna si legò maggiormente alle sue co-
lonie o ex colonie, verso le quali era diretta la metà delle sue esportazioni e
dalle quali riceveva il 40 per cento delle importazioni, mentre si riduceva la
quota degli scambi commerciali con l'Europa. Anche la Francia e il Giappo-
ne aumentarono gli scambi con i loro possedimenti. I principali paesi, quindi,
cercarono di far fronte alla crisi stringendo rapporti commerciali più intensi
all'interno delle aree che co11trollavano. In generale, si può affermare che o-
gni paese cercò di uscire dalla crisi da solo, senza che si giungesse ad alcuna
forma di cooperazione inte1nazionale, anzi ognuno tentò, quando possibile, di
risolvere i propri problemi a discapito di altri paesi ( cosiddetta politica del
<<beggar thy neighbour>>, ossia <<riduci in miseria il tuo vicino>>).
I risultati delle politiche liberiste non furono soddisfacenti, soprattutto
per l' occupazione, e negli Stati Uniti costarono la presidenza al repubblica-
no Herbert Hoover, che perse le elezioni a vantaggio del democratico Fran-
klin Delano Roosevelt (1933). Le imprese, da parte loro, come fanno nor-
malmente nei momenti di crisi, cercarono di ridurre i costi di produzione,
anche con una diminuzione dei salari. Quando nemmeno così riuscirono a
vendere le loro merci con profitto, furono costrette a ridurre la produzione,
licenziando operai o riducendo l' orario di lavoro.
I governi si convinsero con ritardo che una crisi di sovrapproduzione e
la forte disoccupazione che ne scaturiva non si potevano contrastare con
politiche restrittive. Era necessario sostenere la domanda globale dei pro-
dotti, sia i11ter11a che internazionale. Solo così le merci invendute potevano
trovare un acquirente e la produzione sarebbe stata in grado di ripartire. La
domanda interna fu sostenuta dai governi in vario modo, in particolare con
la politica del deficit spending (spesa in disavanzo), che si r ifaceva alle teo-
rie di Keynes. Lo Stato, cioè, era invitato ad abbandonare l' idea dell ' econo-
mia classica che imponeva 11n bilancio in pareggio, ma veniva stimolato a
spendere comunque, anche se non vi erano entrate sufficienti, ricorrendo
all' indebitamento, in modo da sostituire l' insufficiente domanda privata
con la domanda pubblica. Furono avviati dappertutto grandi lavori pubblici
(bonifiche, costruzione di strade e di autostrade, elettrificazione, ecc.), che
producevano cose utili ma non vendibili sul mercato e che assicuravano un
salario ai lavoratori. Così chi lavorava e percepiva una retribuzione poteva
disporre di denaro da spendere per sostenere i consumi. P er la stessa ragio-
ne, i governi di vari paesi introdussero gli assegni familiari, da con·isponde-
re ai lavoratori dipendenti per i familiari a carico, i sussidi di disoccupazio-
ne e altre provvidenze.
22. Le politiche contro la depressione 201

22.2. Le svalutazioni competitive

Il sostegno alla domanda globale interna poteva non bastare, special-


mente per certi prodotti. Perciò era necessario cercare uno sbocco fuori del
proprio paese, stimolando la domanda estera. Essa, p erò, in un momento in
cui tutti i paes i avevano adottato il protezionis mo, poteva essere sostenuta
in un solo modo, vale a dire con le svalutazioni competitive. Un paese, cioè,
p er vendere i suoi prodotti fuori dei propri confini doveva ribassare i prezzi
espressi in valuta estera, il che significava svalutare la propria moneta. La
prima nazione industrializzata costretta a svalutare fu la Gran Bretagna.
Siccome alcuni paesi, come Francia, Belgio, Olanda e Sv izzera, avevano
decis o di cambiare in oro le riserve che detenevano in sterline di carta, la
Banca d ' Inghilterra vide diminuire le proprie riserve auree e non fu più in
grado di garantire i biglietti in circolazione. Nel 1931, il governo britannico
decise di dichiarare l 'inconvertibilità della sterlina. Da quel momento la
Banca d 'Inghilterra non cambiò più la sterlina alla parità con l 'oro fissata
nel 1925 e lasciò che il suo valore fosse liberamente determinato dal mercato
sulla base della domanda e dell'offerta di sterline. La domanda di sterline
(inco11vertibili) diminuì e la moneta inglese p ers e il 30 per cento del valore
in tre mesi, con grave danno per i paesi che detenevano riserve in sterline.
Con questo provvedimento la sterlina u sciva dal gold exchange standard.
Diversi paesi, cioè quasi tutti quelli appartenenti al Commonwealth e al-
cuni altri, come Argentina, Giappone ed Egitto, agganciarono la propria mo-
neta alla sterlina, depositarono le loro riserve auree presso la Banca d'Inghil -
terra e crearono un' <<area della sterlina>>, nella quale il cambio delle monete
fu tenuto fisso e i capitali si potevano muovere senza alcuna restrizione. La
svalutazione del la sterlina, decisa per i motivi prima ricordati e non per re-
cuperare competitività, assicurò comunque un vantaggio alle merci britanni-
che ( e a quelle dell' area della sterlii1a), che in sostanza si vendevano all ' este-
ro con una riduzione del 30 per cento.
Il dollaro, invece, fu svalutato del 41 p er cento, n el 1934, proprio sotto
la spinta dei ceti agricoli che non riuscivano a esportare i loro prodotti e la
nuova parità con l' oro fu fissata a 35 dol lari l'oncia (grammi 3 1,10). Così
anc he le merci americane ebbero la loro riduzione di prezzo sui mercati in-
ternazionali, p er giunta maggiore di quella inglese. La conseguenza fu una
ripresa delle esportazioni e un avanzo della bilancia dei pagamenti già nel
1934, anche perché la nuova a mministrazione Roosevelt stava cominciando
ad attenuare il protezionismo mediante la stipulazione di accordi bilaterali.
Di fronte alla decisione di Gran Bretagna e Stati Uniti, anche altri g o-
v erni dovettero decidere la svalutazione ( o <<allineamento>>, come si disse in
202 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

Italia) per recuperare la competitività perduta dalle merci nazionali. Fra il


1935 e il 1936 svalutarono la loro moneta la Francia, l'Italia, il Belgio, la
Svizzera e altri paesi. Solo la Germania, che aveva da poco risanato il mar-
co e che ancora non si era ripresa dal crollo della sua moneta, non svalutò,
anche perché le era vietato dagli accordi di pace. Quando tutte le monete
furono svalutate si era sostanzialmente ritornati alla situazione di partenza e
nessuno godeva più di vantaggi competitivi.
Le svalutazioni, tuttavia, non furono in grado di dare un consistente im-
pulso agli scambi internazionali che rimasero depressi per tutti gli anni
Trenta. Decretarono, invece, la fine del gold exchange standard, durato ap-
pena una decina d'anni, senza essere nemmeno riuscito a funzionare in mo-
do soddisfacente. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale non esisteva-
no più monete convertibili in oro. Ormai i biglietti di banca avevano sosti-
tuito definitivamente la moneta metallica, che circolava solo come moneta
divisionaria o sussidiaria, ossia di piccolo valore per i pagamenti minuti.

22.3. L'intervento statale negli Stati Uniti: il New Deal

Le misure ricordate avevano sancito una forte ripresa dell'intervento


dello Stato nell'economia. Ma altre ne furono adottate, sempre con lo scopo
di sostenere la domanda globale. Negli Stati Uniti l' interve11to fu attuato
con il New Deal (Nuovo corso) d.el presidente Roosevelt, un insieme di mi-
sure in diversi campi (bancario, monetario, industriale, agricolo, sindacale,
previdenziale, ecc.), che rafforzarono l' intervento dello Stato federale in
materia economica e sociale.
Nel settore industriale fu approvata una legge, il Nira (National Indu-
stria! Recovery Act, 1933), per rilanciare l'attività produttiva ed evitare la
sovrapproduzione, obbligando le imprese ad accettare alcune <<regole del
gioco>>. Si favorì la concentrazione delle imprese, in modo da consentire la
riduzione dei costi di produzione dei manufatti, e si fissarono, per ogni ra-
mo d ' industria, dei codici predisposti da commissioni costituite da rappre-
sentanti delle imprese, del governo e dei lavoratori. Furono messi a punto
più di 600 codici, che fissavano i prezzi, i salari e l'orario di lavoro. Il
provvedime11to fu dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema due anni
più tardi, ma ormai esso aveva prodotto i suoi effetti.
Nel settore agricolo, un'altra legge, l' AAA (Ag:ricultural Adjustment
Act, 1933), consentì al governo americano di ritirare le eccedenze dal mer-
cato e concedere sussidi a chi riduceva le terre coltivate. Quando anche que-
sto provvedimento fu dichiarato incostituzionale, venne accordata un'inden-
22. Le politiche contro la depressione 203

nità a chi lasciava i propri campi a maggese o vi coltivava leguminose per


migliorarne la fertilità. In pochi anni, fra il 1932 e il 1939, la superficie col-
tivata a grano, mais, cotone e tabacco si ridusse del 20 per cento, mentre la
produttività per addetto aumentò del 20 per cento, anche perché dopo l'anno
di maggese i raccolti furono più abbondanti. I bassi prezzi agricoli causaro-
no la rovina di molti mezzadri e piccoli proprietari, che persero le loro terre,
a tutto vantaggio delle grandi aziende agrarie capita listiche.
In campo bancario, dopo il fallimento di migliaia di aziende di credito,
una legge del 1933 (il Glass-Steagall Act) pose fine alle ba11che miste e sta-
bilì una netta distinzione fra banche commerciali, che dovevano occuparsi
del credito a breve termine, e banche d'investimento, incaricate del credito
mobiliare alle imprese, in particolare mediante l'acquisto e il collocamento
d.ei titoli emessi dalle società. Essa introdusse anche l' assicurazione dei de-
positi bancari, fmo a un certo ammontare, a favore dei depositanti.
Faceva parte del New Deal pure il piano di sviluppo della valle del Ten-
nessee, regione molto povera, spopolata e priva di infrastrutture. L ' inter-
vento statale, mediante uno snello ente federale, la Tennessee Valley Autho-
rity (Tva), permise di costruire dighe e laghi artificiali, sfruttati anche a
scopo turistico, di bonificare e irrigare terreni, di portare la corrente elettri-
ca nelle fattorie, di attuare un razionale rimboschimento e di creare indu-
strie di trasformazione. Il bacino flu viale del Tennessee fu rivitalizzato,
l' agricoltura diede buoni rendimenti, l'allevame11to si diffuse e gli agricol-
tori poterono contare su redditi più elevati.
Fu anche realizzato un piano di lavori pubblici davvero imponente: ven-
nero costruiti 122 mila edifici, oltre un milione di chilometri di strade, 77
mila ponti, 285 aeroporti e si realizzarono numerose altre opere che permi-
sero il riassorbimento di 3,8 milioni di disoccu.p ati.
Infine, con una legge d.e l 1933 furono introdotte le assicurazioni sociali
a favore dei lavoratori (pensioni, assicurazioni contro le malattie e gli infor-
tuni sul lavoro, sussidi di disoccupazione, ecc.), le quali, siccome sostene-
vano il reddito delle famiglie, contribuirono a far riprendere la domanda di
beni e servizi.

22.4. L'intervento statale nei paesi europei

Anche nei paesi europei l' intervento dello Stato nell'economia si fece
più consistente. La Gran Bretagna incoraggiò le fusioni di imprese e la ra-
zionalizzazione dei settori in crisi, come quelli d.el carbone e della siderur-
gia. Per combattere la disoccupazione, il governo concesse sussidi per apri-
204 La seconda rivoluzione industriale (1850-1950)

re fabbriche nelle zone depresse, mentre l'agricoltura fu sostenuta con un


sistema di prezzi garantiti e sovvenzionati dallo Stato. In Francia il gover-
no del Fronte popolare (partiti di sinistra) presieduto da Léon Blum pro-
mosse la stipulazione di accordi fra imprenditori e lavoratori, che prevede-
vano un aumento dei salari, la riduzione della settimana lavorativa da 48 a
40 ore e 15 giorni di ferie pagate all'anno. Tali provvedimenti, assieme a
una politica di grandi opere pubbliche, avevano lo scopo di ridurre la disoc-
cupazione e fornire potere d'acquisto ai lavoratori. La disoccupazione di-
mi11uì, ma la produz ione industriale non aumentò e nel 1937 risultava anco-
ra inferiore a quella del 1929.
In Germania il nuovo governo nazista di Adolf Hitler, giunto al potere
nel 193 3 propr io sull' onda del malcontento provocato dagli effetti della cri-
si, introdusse i piani quadriennali. Il primo piano si propose di ridurre la
disoccupazione mediante l'avvio di lavori pubblici, che in effetti fecero di-
minuire i disoccupati dal 14,8 al 4,8 per cento delle forze di lavoro. Il se-
condo piano puntò alla realizzazione dell'autarchia, vale a dire dell'auto-
s11fficienza economica, stimolando la ricerca e la produzione di nuovi sur-
rogati nazionali, come la lana sintetica, la gomma e la benzina sintetiche
(ottenute dal carbone), il raion e le materie plastiche, in nodo da ridu1Te le
importazioni . Ma il reale obiettivo del secondo piano era il riarmo della
Gern1.ania, che fece ripartire la produzione dei beni strumentali, mentre
quella dei beni di consumo fu contenuta. I risultati della politica d' inter-
vento dello Stato furono notevoli: basti pensare che la produzione industria-
le giunse quasi a raddoppiarsi in cinque anni e la disoccupazione calò
all' l ,3 per cento delle forze di lavoro, sicché si era sostanzialmente realiz-
zato il pieno impiego.
Anche in Italia l' intervento dello Stato fu particolarmente deciso e fi nì
anch' esso con l'orientarsi verso l'autarchia. In agricoltura furono portate
avanti la battaglia del grano e la bonifica integrale, mentre nel settore indu-
striale si favorirono la concentrazione e varie forme di consorzi e di intese
per ridurre la concorrenza e i costi di produzione. Furono inoltre realizzate
molte opere pubbliche ( edifici, strade, acquedotti, ecc.), si concessero gli
assegni familiari ai lavoratori e si estesero le assicurazioni sociali (assicura-
zione contro la tubercolosi, le malattie professionali, ecc.). Le principali
banche miste (Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Ro-
ma), si trovarono in gravi difficoltà e il governo dovette intervenire per sal-
varle. Nel 1933 fu costituito un ente pubblico, l' Iri (Istituto p er la ricostru-
zione industriale), che entrò in possesso delle azioni delle banche salvate e
di quelle delle imprese industriali possedute da tali banche. Il suo compito
era di risanarle e di rivenderle successivamente a privati, come avevano fatto
22. Le politiche contro la depressione 205

Stati Uniti e Germania. Ma in Italia questo piano non riuscì, perché le azien-
de non furono completamente risanate e non si trovarono acquirenti nazio-
nali disposti a rilevarle. Perciò, l 'Iri dovette conservare i pacchetti azionari
di mo lte industrie italiane e di importanti banche. Per la gestione delle indu-
strie, l'Iri costituì diverse holding: la Finmare per le imprese di navigazione
marittima, la Finsider per quelle siderurgiche, la Fincantieri p er i cantieri
navali e, nel dopoguerra, la Finmeccanica per le imprese meccaniche.
Una legge bancaria del 1936 pose fine all'esperienza delle banche miste
e disti11se fra banche di credito ordinario (credito a breve termine) e istituti
di credito speciale (credito a medio-lungo termine). Essa r iorganizzò anche
la Banca d' Italia, il cui capitale (300 milioni di lire) fu rimborsato ai prece-
denti azionisti privati e rilevato da casse di risparmio, grandi banche e istitu-
ti di previdenza e assicurazione, mentre il governatore e i vertici dell'istituto
diventavano sostanzialmente di nomina governativa.
In conclusione, si può affermare che la depressione fu arginata ma non
dappertutto sconfitta. Tuttavia, il Pil pro capite riprese a crescere e nel 1937
superò i livelli del 1932 del 7 per cento in Ita lia, del 13-20 per cento in Gran
Bretagna, Francia e Giappone, del 30 negli Stati Uniti, del 39 in Germania e
di circa il 50 per cento nell' Unione Sovietica, dove si awertivano gli effetti
della pianificazione (vedi tab. 2 1.1). Ma solo il riarmo e lo scoppio della Se-
conda guerra mondiale posero defmitivamente fine alla lunga depressione
degli anni Trenta e riuscirono a riassorbire completamente la disoccupazione.

22.5. La Seconda guerra mondiale

I germi della Seconda gue1Ta mondiale erano sostanzialmente contenuti


nei trattati di pace della Grande guerra, che non seppero dare un assetto stabi-
le all'Europa e lasciarono in giro insoddisfazione e spirito di rivincita. Molto
più della prima, questa fu una guen·a effettivamente <<mondiale>>perché coin-
volse il 90 per cento dei popoli della Terra e, con l'applicazione dei metodi
della <<guerra totale>>, provocò danni enormi, specialmente a causa dei bom-
bardamenti aerei, che devastarono città, impianti industriali, porti e reti ferro-
viarie. Ma questa volta la guen·a fu preparata e, inoltre, i paesi europei aveva-
no, chi più e chi meno, awiato un programma di riarmo 11egli anni preceden-
ti, anche come rimedio a lla depressione e per combattere la disoccupazione.
La gue1Ta, scoppiata nel 1939, durò fino al 1945. Dopo l' invasione della
Polonia da parte delle truppe tedesche, la Francia e la Gran Bretagna di-
chiararono guerra alla Germania. In seguito (1940-41) furono coinvolti nel
conflitto moltissimi paesi, ma soprattutto Rt1ssia e Stati Uniti che si schiera-
206 La seconda rivoluzione i11.dustriale (1850-1950)

rono contro la Germania, e Italia e Giappone che invece si allearono ad es-


sa. Questa volta la guerra fu di movimento, con gli eserciti che si affronta-
rono in Europa, in Africa e in Asia, e con la lotta portata non solo sui mari
ma anche nei cieli. Carri armati, aeroplani, portaerei e sommergibi li ebbero
un' importanza notevolissima nel decidere le sorti del conflitto. La capacità
produttiva dei belligeranti fu determinante e la produzione industriale creb-
be enormemente, assorbendo completamente la disoccupazione.
L'organizzazione dell' ecorzomia di guerra fu accuratamente preparata,
specialmente dai Tedeschi. Ancora una volta gli Alleati attuarono il blocco
navale contro la Germania, che rispose con una guen·a sottomarina ben più
dura di quella del precedente conflitto. Si dovette di nuovo fare ricorso al
razionamento dei generi alimentari e di altri prodotti, come la benzina. Le
città soffrirono la fame, mentre nelle campagne la prod.u zione agricola riu-
sciva a soddisfare le esigenze minime degli abitanti. Com'è ovvio, il merca-
to nero fu particolarmente fiorente. La produzione agricola dimi11uì dapper-
tutto per la mancanza dei pezzi di ricambio delle macchine agricole e per
l' insufficienza dei concimi chimici.
Gli Stati Uniti, non subendo la guen·a sul proprio territorio, poterono
sfruttare al massimo la loro capacità produttiva. Il sistema della produzione
in serie si rivelò particolarmente adatto per fabbricare grandi quantità di armi,
carri armati, aerei e persino navi. L'evoluzione tecnica subì una forte accele-
razione in molti campi ma soprattutto nella chimica (benzina e gomma sinte-
tiche, nailon, materie plastiche, ecc.). Fu inventato il radar e si portarono
avanti le sperimentazioni sui razzi e su ll'utilizzazione dell' energia atomica.
Il costo della guerra, difficile da determinare, fu almeno cinque volte su-
periore a quello della Prima guerra mondiale (intorno a 1.500 miliardi di
do llari), e fu. finanziato allo stesso modo di allora, vale a dire con l'imposi-
zione fiscale, il debito pubblico, i prestiti fra gli Alleati e, ovviamente, una
massiccia emissione di biglietti di banca. In più vi fu, da parte della Germa-
nia e del Giappone, il sistematico sfruttamento dei paesi occupati. Ancora
una volta la guerra arricchì i paesi lontani dai campi di battaglia, che potero-
no continuare indisturbati la loro attività produttiva per rifornire gli eserciti.
L'Europa e il Giappone, viceversa, uscirono dal conflitto stremati, per le di-
struzioni subite e per i debiti contratti, ma, come vedremo, furono in grado
di riprendersi rapidamente e proprio i paesi sconfitti (Germania, Giappone e
Italia) conobbero, nel dopoguerra, lo sviluppo economico più spettacolare.
PARTE TERZA

L'ECONOMIA
CONTEMPORANEA
(1950-2017)
23.
UNA NUOVA RIVOLUZIONE
I PROBLEMI DEMOGRAFICI

23.1. I caratteri dell'economia contemporanea

Dopo la Seconda guerra mondiale iniziò un lungo periodo di nuove tra-


sformazioni, che va sotto il nome di terza rivoluzione industriale. Forse, in
questo caso, l' espressione riesce ancora meno a esprimere pienamente la
profondità delle trasformazioni della struttura economica e sociale che han-
no inciso direttamente o indirettamente sulla vita di tutti i popoli della Ter-
ra, anche perché l'elemento più caratteristico del periodo è la terziarizza-
zione dell' economia. Sono trasformazioni molto più profonde di quelle del-
le altre due rivoluzioni, acceleratesi con l'avvento dell' informatica, che si è
estesa alle comunicazioni, facendo del mondo un <<Villaggio globale>>, or-
mai collegato i11 rete mediante Internet.
Gli anni che vanno dalla fine della guerra ai nostri giorni hanno visto
una crescita senza precedenti dell'economia mondiale, come dimostrano
gli indicatori riportati nella tabella 23. 1. Di fronte a un incremento della
popolazione mondiale, che è cresciuta, fra il 1955 e il 20 14, di 2,6 volte, si
registra un incremento molto più consistente delle principa li produzioni ali-
mentari, come frumento, riso, granturco, zucchero e pesce, che sono au-
mentate fra 4 e 7 volte. Anche la produzione di molte materie prime (cauc-
ciù, carbone, minerali di ferro, rame e petrolio) è cresciuta più della popo-
lazione, mentre particolarmente consistente è stato l' incremento produttivo
dell' energia elettrica e dei fertilizzanti azotati. E' evidente che le risorse a
disposizione dell'umanità sono notevolmente aumentate, al contrario di
quanto aveva ipotizzato Malthus a proposito del rapporto fra mezzi di sus-
sistenza e popolazione. Purtroppo, esse non sono equamente distribuite fra i
popoli della Terra, sicché vi sono molte nazioni che soffrono la fame e altre
che sprecano le derrate e i beni di cui possono disporre.
210 L 'economia contemporanea (1950-2017)

Tab. 23.1. - Alcuni principali indicatori dell 'econo,nia ,nondiale nel 1955 e
nel 2014

Indicatori 1955 2014 Crescita di n volte

Popolazione mondiale (miliardi) 2,8 7,3 2,6


Frumento (milioni di quintali) 1.575 7.290 4,6
Riso (mili oni di quintali) 1.99 l 7.415 3,7
Granttrrco (milioni di quintali) 1.578 10.378 6,6
Patate (milioni di quintali) 1.537 3.817 2,5
Pesca (milioni di quintali) 277 1.958 7, l
Zucchero (milioni di quintali) 394 1.769 4,5
Bovini (milioni di capi) 856 1.669 1,9
Ovini (milioni di capi) 887 1.196 1,3
Caucciù (milioni di quintali) 19 132 6,9
Carbon fossile (milioni di tonnellate) 1.385 8. 147 5,9
Ferro, minerale (mili oni di tonnellate) 133 3.220 24,2
Ra1ne, minerale (migli aia di tonnellate) 2.700 18.700 6,9
Petrolio (milioni di tonnellate) 708 3.882 5,5
Energia elettrica (miliardi di chilowattora) 1.369 22.686 16,6
Fertilizzanti azotati (milioni di quintali) 68 1.13 3 16,7
Fonte: Calendario Atlante De Agostini, Novara, anni 1958, 2016, 2017e201 8.
Nota: Alcuni dati relativi al 1955 sono sottostimati , perché non si conoscono le pro-
duzioni dell ' Unione Sovietica e, talvolta, della Cina (prodotti agricoli, fertilizzanti, ferro,
rame ed energia elettrica). Per il 2014, si segnala che il dato della produzione del carbone
è del 2013.

La crescita, nel p eriodo in esame, si può sostanzialmente dividere in due


fasi: una di vigorosa espansione e una successiva di rallentamento, anche se
non generalizzato. Dopo la guerra fu innanzitutto necessario procedere alla
ricostruzione economica dei paesi coinvolti nel conflitto, molti dei quali
avevano subito parecchie distruzioni sul loro territorio, e riconvertire la
produzione bellica in produzione per il tempo di pace. Questa volta non fu-
rono richieste riparazioni, ma i paesi usciti vincitori dalla guerra, in partico-
lare gli Stati Uniti, aiutarono alleati ed ex nemici nello sforzo della rico-
struzione, realizzata in poco tempo. Intanto, venivano gettate le basi per
una più solida convivenza fra le nazioni, fondata anche sull' incremento de-
gli scambi internazionali.
Effettuata rapidamente la ricostruzione, l'economia di quasi tutti i paesi
del mondo, specialmente di quelli industr ializzati, conobbe una lunga fase
di sviluppo come non si era mai registrata prima di allora, che durò almeno
un quarto di secolo. Si trattò di un periodo di elevata crescita economica e
di grandi conquiste tecnologiche, che consentirono di mantenere una popo-
23. Una nuova rivoluzione: i problemi demografici 211

!azione in continuo e forte aumento. A partire dagli anni Settanta la crescita


dell'economia mondiale rallentò, se112a però esaurirsi. Anzi, parecchi paesi,
specialmente asiatici, fra i quali spiccano la Cina e l' India, fecero registrare
una crescita accelerata e un miglioramento delle condizioni materiali di vita
delle loro popolazioni.
Un' altra caratteristica del periodo in esame, almeno fino a tutti gli anni
Ottanta, fu la contrapposizione fra due modelli economici: l'economia di
mercato da un lato e l' economia pianificata dall'altro. I paesi che si riface-
vano all' economia libera di mercato erano gli Stati Uniti d' America, l'Eu-
ropa occidentale e il Giappone, nonché altri paesi ad essi collegati, come
quelli del Commonwealth, quasi tutta l'America Latina e molte ex colonie
europee. L 'economia pianificata, già realizzata in Unione Sovietica, si dif-
fuse nell'Europa orientale, in Cina e in qualche altro paese asiatico e latino-
americano. Si trattò di una vera sfida fra sistemi economici e politici diver-
si, condotta sotto la guida delle due <<superpotenze>> dell'epoca, gli Stati
Uniti e l'Unione Sovietica, che difendevano e cercavano d ' imporre il loro
modello. Questo scontro è terminato con il crollo dell'economia pianificata
e con il predominio dell'economia di mercato, che si è affermata dappertut-
to, ma che continua a ricevere non poche critiche da parte di studiosi di di-
verse discipline.

23.2. L'esplosione demografica

La popolazione mondiale non è mai cresciuta come negli ultimi settanta


anni. Essa, fra il 1950 e il 2017, si è triplicata, passando da 2,5 a 7,6 miliar-
di, mentre negli ultimi cento anni si è più che quadruplicata. Forse non si
riflette mai abbastanza su tale fenomeno e sul fatto che la popolazione è de-
stinata a crescere ancora, con i problemi che ciò comporterà per la pacifica
convivenza fra i popoli e per assicurare un'equa ripartiz ione delle risorse
del Pianeta e un tenore di vita dignitoso a tutti gli esseri umani. La crescita
demografica più consistente fu realizzata dall' Africa e quella più modesta
dall 'Europa. Il peso de lla popolazione europea è continuato a diminuire,
portandosi, dal 1950 ai nostri giorni, dal 22 a meno del 1O per cento di
quella mondiale.
I tassi di natalità e di mortalità sono diminuiti dappertutto. Nei paesi
sviluppati gli indici di natalità si sono attestati attorno al 1O per mille, men-
tre quelli di mortalità sono scesi anche sotto il 6-7 p er mille. Altrove, questi
tassi si tengono a livelli più elevati. La mortalità infantile è crollata, nei paesi
ad elevato reddito, a valori irrisori, attorno al 5 per mille, ma rimane abba-
212 L 'economia contemporanea (1950-2017)

stanza alta (50-90 per mille) nei paesi più poveri, dove, in qualche raro ca-
so, supera ancora il 100 per mille, valore comunque più basso di quello che
si registrava in Europa all' inizio della rivoluzione industriale.
Il regime demografico <<moderno>>, con bassi tassi di natalità e bassi tas-
si di mortalità, si è ormai affermato nella maggior parte delle nazioni del
mondo. La vita media, che nei paes i sviluppati oscillava, a metà secolo XX,
fra i 65 e i 70 anni, si è portata intorno agli 80 anni, con qualche paese, co-
me Giappone e Italia, in cui an·iva fino a 84-85 anni. Solo alcuni paesi afri-
cani fanno registrare una speranza di vita alla nascita compresa fra 50 e 60
anni. Tutto ciò ha avuto conseguenze importanti sulla divisione in classi di
età della popolazione e sulla composizione delle famiglie. Nelle nazioni a-
vanzate sono diminuiti i bambini e aumentati gli anziani, mentr e nei paesi
in via di sviluppo il numero dei bambini continua ad essere molto superiore
a quello degli ultrasessantenni. Ciò vuol dire che sia i paesi con un elevato
numero di anziani sia quelli con una popolazione molto giovane devono
mantenere classi di età non produttive o poco produttive, assicurando loro
pensioni, assistenza medica, istruzione e altre forme di sostegno, oltre a un
posto di lavoro per i giovani. La composizione del nucleo familiare ha subi-
to profonde modificazioni e la famiglia dell' inizio del secolo XXI è me-
diamente composta da meno di tre u.n ità in quasi tutti i paesi ad alto reddito,
mentre sale sopra le sei unità in alcuni paesi africani e asiatici.
Le cause del forte incr emento demografico, oltre a quelle più volte ri-
cordate (alimentazione, igiene, ecc.), che hanno continuato ad avere un ruo-
lo importantissimo, vanno ricercate principalmente nei progressi della me-
dicina e della chirurgia e nelle campagne di prevenzione conh·o le malattie,
condotte dai governi nazionali e dalle organizzazioni internazionali.
L'uomo è diventato sempre pitì sensibile a lla cura del proprio corpo e alla
conservazione della salute. Le principali novità in campo medico hanno ri-
guardato la diffusione di nuovi medicinali, come gli antibiotici (a comincia-
re dalla penicillina, scoperta dal batteriologo inglese Alexander Fleming nel
1929, ma utilizzata solo dall'inizio degli anni Quaranta) e i chemioterapici.
L 'uso su vasta scala di vaccini vecchi e nuovi, come quello contro la po-
liomelite, hanno conh·ibuito a ridurre la mortalità, specialmente quella in-
fantile. Ma importanza forse maggiore hanno avuto il progresso della chi-
rurgia e i trapianti di organi (rene, 1954; cuore, 1967). Le epidemie sono
scomparse, ma di tanto in tanto riappaiono nuovi focolai di infezioni, come
quello dell' Aids (malattia causata da un virus che riduce le difese immuni-
tarie), che ha colpito i paesi più poveri dell'Africa, ma che le organizzazio-
ni sanitarie nazionali e internazionali sono comunque in grado di is olare e
di combattere.
23. Una nuova rivoluzione: i problemi de,nografici 213

Nei paesi industrializzati si è registrato dapprima un calo della mortalità


e solo successivamente una diminuzione del tasso di natalità, a mano a ma-
no che miglioravano le condizioni di vita e di lavoro delle famiglie. Nei paesi
meno sviluppati, viceversa, si è verificata una diminuzione del tasso di
mortalità, per effetto della diffusione dei farmaci e delle cure mediche, sen-
za che vi fosse un deciso miglioramento delle condizioni di vita e senza un
consistente calo del tasso di natalità.

23.3. Urbanesimo e grandi migrazioni

Una delle conseguenze dell' incremento demografico è stato l'ulteriore


espans ione dell 'urbanesimo. Negli ultimi tempi si sono venute formand.o
enormi agglomerazioni urbane. L 'area metropolitana di Parigi ha più abi-
tanti dell' Austria o della Svizzera, mentre San Paolo del Brasile, Città del
Messico e New York sono agglomerati con o ltre 20 milioni di abitanti e
Tokyo ha superato i 13 mi lioni. La popolazione urbana ormai supera il 75
per cento di quella complessiva nelle nazioni più progredite e anche in
quelle più povere si mantiene in genere sopra il 30-40 per cento, alimentata
da continui afflussi dalle campagne. I nuovi arrivati si sistemano negli slum
(anche noti con i nomi di bidonville, favela o township), ossia in squallide
baraccopoli di periferia. O ggi quasi un miliardo di persone in Africa, Asia e
America Latina, vive in tali quartieri degradati, caratterizzati d.a sovraffolla-
mento, insufficiente accesso all'acqua, mancanza o carenza di servizi igieni-
ci, strutture abitative deteriorate e incerto titolo di proprietà. E sembra che
tale numero sia destinato ad aumentare in futuro.
Le migrazioni hanno assunto nuove caratteristiche. Con l'entrata in fun-
zione della Comunità economica europea (1958) e con accordi fra diversi
Stati del vecchio continente, vi fu una forte corrente migratoria dai paes i
del Mediterraneo verso quelli dell'Europa centrale e settentrionale, che du-
rò fino agli anni Settanta. Un gran numero di emigranti italiani, turchi, greci
e spagnoli si diresse verso la Germania, il Belg io, la Francia e la Svizzera,
con non pochi problemi per trovare una decente sistemazione abitativa e
un'accettabile forma di convivenza con la popolazione locale. Anche all'in-
terno dei s ingoli Stati vi furono spostamenti di popolazione dalle zone più
povere verso quelle più industrializzate. Così come continuò, specialmente
nell' immediato dopoguerra, l'emigrazione degli Europei verso le Americhe
e l'Australia.
A partire dagli ultimi decenni del secolo XX, nei paesi dell'Europa oc-
cidentale è risultato sempre più difficile reperire manodopera per lo svol-
214 L 'economia co11.temporanea (1 950-2017)

gimento di servizi domestici o per l'assistenza agli anziani o per effettuare


lavori pesanti e rip etitivi. E' stato necessario, perciò, accogliere immigrati,
che cominciarono ad arrivare specialmente dai paesi più poveri dell' Africa
e dell'Asia, e successivamente anche dall' Europa orientale. Si è trattato di
una vera invasione di persone in cerca di un lavoro qualsiasi e disposte a
raggiungere i paesi europei con ogni mezzo e a rimanervi anche clandesti-
namente. I paesi dell'Europa occidentale, che nel periodo 1870-1949 ave-
vano fatto registrare quasi 18 milioni di emigrati, a partire dalla metà del
secolo XX divennero terra d'immigrazione. In meno di mezzo secolo ac-
colsero circa 20 milioni di immigrati. La stessa Italia, che fino al 1973 ave-
va visto emigrare oltre due milioni di persone, ospita oggi circa 5 milioni di
stranieri, di cui quasi il 1Oper cento irregolari (clandesti11i).
Anche gli Stati Uniti sono stati interessati da un'ondata migratoria che
sta cambiando le caratteristiche demografiche di quel Paese. Nel 1965 fu
approvata una nuova legge sull 'imniigrazione, che eliminò il sistema delle
quote introdotto all'inizio degli anni Venti e rese molto più facile l' ingresso
degli emigranti, legandolo soltanto alle capacità e alle competenze lavorati-
ve degli individui e favorendo l'immigrazione di chi aveva relazioni di pa-
rentela con cittadini americani o con persone legalmente residenti negli Sta-
ti Uniti. L 'applicazione della nuova legge provocò un massiccio arrivo di
persone dall'Europa mediterranea, dall'America Latina (in genere attraver-
so la lunga frontiera che divide gli Stati Uniti dal Messico) e dall' Asia, aree
che prima, con il sistema delle quote, erano svantaggiate. Nella seconda
metà del secolo XX l'immigrazione netta fu di circa 25 milioni di persone
(di cui quasi 17 giunti dopo il 1973), vale a dire più di qua11te ne fossero ar-
rivate stabilmente nel lungo periodo compreso fra il 1870 e il 1949 (22 mi-
lioni). E il flusso è continuato ininten·ottamente fino ai nostri giorni, tanto che
nel primo decennio di questo secolo gli immigrati regolari sono stati, in me-
dia, oltre un milione all'anno, vale a dire più che in qualsiasi altro decennio
della storia americana. Negli ultimi tempi è diventato rilevante il flusso di
immigrati provenienti dall'Asia (Cina, Filippine, India, Vietnam, ecc.), che
nel 201 Oba eguagliato quello proveniente dall'America Latu1a.
Il fenomeno delle migrazioni di massa è diventato uno dei principali
problemi del mondo attuale, con una continua crescita dei flussi migratori,
che riguardano sostanzialmente quasi tutte le nazioni. O ggi si contano, in
tutti i paesi del mondo, quasi 250 milioni di emigrati (persone nate in un
paese diverso da quello in cui vivono), di cui circa la metà in Europa e ne-
gli Stati Uniti.
24.
UNA NUOVA RIVOLUZIONE
I SETTORI PRODUTTIVI

24.1. Agricolt11ra e mezzi di s11ssistenza

Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale si svilupparono


tutti i settori produttivi, grazie all' incessante progresso tecnologico. La
produzione agricola aumentò considerevolmente in seguito all 'utilizzazio-
ne di nuove macchine (adoperate anche per la raccolta di verdure, pomo-
dori, cotone o mais), all 'uso sempre più esteso di insetticidi e di ferti liz-
zanti, all'introduzione di nuovi metodi di allevamento e di nuove varietà di
grano, mais e riso, nonché mediante la diffusione dell' irrigazione. Per ri-
cordare solo i trattori, si può osservare che il loro numero aumentò, spe-
cialmente negli anni Sessanta e Settanta, tanto che nel primo decennio del
secolo XXI ve ne erano, in tutto il mondo, oltre 28 milioni, la metà dei
quali nell' Unione Europea e negli Stati Uniti. Negli ultimi tempi, nel cam-
po delle coltivazioni e dell'allevamento un contributo è cominciato a veni-
re dalle biotecnologie, che consentono anche di modificare il patrimonio
genetico di piante e animali.
Un elemento che caratterizzò la seconda metà del Novecento fu il forte
declino della popolazione agricola, sia nei paesi industrializzati sia in quel-
li più arretrati. Prima della guerra, in molte nazioni europee (Unione Sovie-
tica, Francia, Italia, Spagna, ecc.) gli addetti al settore primario erano anco-
ra più numerosi degli addetti agli altri due settori, situazione che non era
più vera negli anni Ottanta. A livello mondiale, tuttavia, l'agricoltura conti-
nuò ad occupare il maggior numero di persone per quasi tutto il secolo XX.
Negli anni Novanta, difatti, la metà delle forze di lavoro mondiali era anco-
ra impiegata nel settore primario. Solo negli ultimi quindici o venti anni gli
addetti a tale settore sono crollati a circa un terzo del totale, grazie special-
mente alle profonde trasformazioni avvenute nei paesi emergenti.
216 L 'economia contemporanea (1950-2017)

La produzione agricola crebbe, a partire dal dopogu.erra, al ritmo del 2,5


per cento all'anno a livello mondiale. L 'incremento interessò soprattutto i
paesi asiatici (+ 4 per cento), mentre in altri paesi meno sviluppati, in parti-
colare in quelli a basso reddito dell'Africa, fu di poco superiore all' 1 per
cento annuo. Nei paesi ricchi, che potevano anche importare le derrate di
cui avevano bisogno, la quantità media di calorie disponibili per persona ri-
sultò superiore a quella necessaria e si diffuse l'obesità (diventata una pato-
logia del benessere), mentre nei paesi più poveri non riuscì a soddisfare le
necessità della popolazione e rimase sotto il minimo vitale.
Gli effetti furono diversi nelle varie aree del mond.o. Nei paesi industria-
lizzati a economia di mercato, la produzione agricola divenne eccedente e i
prezzi mostrarono la tendenza a diminuire. I governi furono costretti a in-
tervenire per proteggere i redditi degli agricoltori e sostenere i prezzi. La
Comu.nità europea, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e altre nazioni a-
dottarono misure in tal senso, sicché mentre il protezionismo industriale
declinava dappertutto, quello agricolo venne conservato. Si applicarono
non solo dazi doganali a ll 'importazione, ma si fece soprattutto ricorso alle
cosiddette barriere non tariffarie. Queste ultime servivano a scoraggiare le
importazioni in diversi modi: le merci da importare erano contingentate, si
chiedevano certificazioni complesse o elevati standard qualitativi oppure si
effettuavano controlli doganali molto minuziosi. La protezione degli agri-
coltori fu attuata anche con politiche di sostegno dei redditi agricoli, quali
la concessione di sussidi diretti, l'elargizione di compensi integrativi dei
guadagni o l'erogazione di finanziamenti agevolati, che consentivano di te-
nere bassi i prezzi al consumo. Si giunse persino, per esempio nella Comu-
nità economica europea, al ritiro dei prodotti agricoli in eccedenza e alla lo-
ro distruzione.
I paesi più poveri, invece, soprattutto quelli africani, in cui la produzio-
ne agricola era del tutto insufficiente, andarono incontro a crisi alimentari e
a periodi più o meno lunghi di malnutrizione. La fame in questa parte del
mondo era una triste realtà in pieno ventesimo secolo e continua a esserlo
nel nuovo secolo. Eppure, la produzione mondiale dei generi alimentari ri-
sultava sufficiente per soddisfare le necessità di una popolazione in conti-
nuo aumento. Fra il 1961 e il 1998, la quantità di cibo mondiale pro capite a
disposizione dell'uomo aumentò del 24 per cento, sicché non troverebbero
giustificazione le frequenti carenze di cibo che colpirono (e colpiscono an-
cora) i paesi più poveri. Purtroppo, molti di essi non sono in grado di espor-
tare materie prime o manufatti, o perché non ne possiedono a sufficienza o
perché è peggiorata la ragione di scambio dei loro prodotti con i generi ali-
mentari. In altre parole, i paesi poveri offrono beni che sono considerati di
24. Una nuova rivoluzione: i settori produttivi 217

scar so valore dagli acquirenti e perciò non bastano ad ottenere le derrate ali-
mentari di cui essi hanno bisogno.
L 'allevamento del bestiame, da parte sua, ha fatto registrare una crescita
inferiore all'incremento dell.a popolazione mondiale, pur essendo aumenta-
to, fra il 1955 e il 2014, sia il numero dei bovini(+ 95 per cento) che quello
degli ovini (+ 35 per cento) (vedi tab. 23.1 ). Il fatto è che gli uomini sono
in concorrenza con gli animali per ciò che concerne l'alimentazione, poiché
le ten·e destinate al pascolo sono sottratte alla coltivazione. Per alimentare i
bovini oggi esistenti ( quasi 1,7 miliardi) viene utilizzato circa un quarto
delle terre disponibili. Inoltre, per produrre 450 grammi di carne occon·ono
4 kg di alimenti, sicché un ettaro di terra destinato all' allevamento fornisce
all'uomo un quantitativo di proteine dieci volte inferiore a quello che si ot-
terrebbe se fosse coltivato a verdure. Senza considerare l'effetto inquinante
dell'allevamento, per l'anidride carbonica, l'ossido di azoto e il metano ri-
lasciato nell'atmosfera dagli animali.

24.2. Industria e tecnologia

Lo sviluppo industriale fu fortemente condizionato dal progresso della


scienza e della tecnica, ormai indissolubilmente legate. La tecnica influì
sia sull'espansione di industrie tradizionali sia sulla creazione di nuove
attività. La metallurgia si rinnovò profondamente e si diffuse la produ-
zione di leghe leggere, ossia leghe di alluminio con rame, zinco, manga-
nese, silicio o magnesio, utilizzate nei campi nucleare, aeronautico, spa-
ziale ed elettronico. Nel 1948, un ingegnere svizzero, Robert Durrer, per-
fezionò il procedimento Bessemer e consentì, fra l'altro, di ridurre note-
volmente la manodopera necessaria all'industria siderurgica.
Le industrie chimiche fecero ulteriori progressi. Furono create centinaia
di fibre artificiali e sintetiche, che consentirono la produzione di una grande
quantità di tessuti, in sostituzione di quelli realizzati con le fibre naturali,
non più sufficienti a soddisfare le esigenze di una popolazione in continuo
aumento. Un enorme sviluppo si ebbe nel ramo del le materie plastiche. La
loro capacità di rammollirsi con il riscaldamento e quindi di essere lavorate
e assumere le forme volute dagli stampi, riacquistando durezza con il raf-
freddamento, permise l'utilizzazione d.ella plastica in molti settori (automobi-
li, aeroplani, astronavi, elettrodomestici, edilizia, imballaggi, articoli sportivi,
oggetti casalinghi, ecc.), dove sostituì progressivame11te parecchi metalli,
come questi avevano precedentemente rimpiazzato il legno. La plastica s i
ottiene soprattutto dai derivati del petrolio (ma anche del gas naturale, del
218 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

carbone e di alcuni sali minerali) e ciò spiega i grandi investimenti delle in-
dustrie petrolifere nella ricerca di nuove materie plastiche. La p etrolchimi-
ca, perciò, si sviluppò notevolmente, costituendo un ramo industriale di
primaria importanza.
L 'indust,·ia elettrica è diventata indisp ensabile per tutte le attività pro-
duttive e per le esigenze d ella vita moderna. La produz ione di energia elet-
trica è aumentata in misura incredibile, passando da qualche mig liaio di mi-
liardi a oltre 22 mila miliardi di chilowattora (2014). Questa forma di ener-
gia è ottenuta per due terzi da centrali termiche, alimentate da carbone, pe-
trolio o gas naturale, e per il resto da centrali idroelettriche ( 17 per cento) e
nucleari (1 1 per cento), oltre a una quota (6 per cento) da altre fonti rinno-
vabili, che è in continuo aumento. Il petrolio seguitò ad alimentare numero-
si metodi di trazione (automobili, aeroplani, trattori, navi, ecc.) e diverse
macchine che lo utilizzano per la combustione. La sua produzione è cre-
sciuta da 700 milioni di tonnellate (1955) a quasi 4,4 miliardi (2015) ed è
stato necessario costruire lunghissimi oleodotti per il trasporto del greggio
dai luoghi di produzione a quelli di utilizzazione oppure ai porti d'imbarco
per essere caricato su enormi p etroliere. Anche l'estrazione del gas natura-
le, altra importantissima fonte energetica, è aumentata notevolmente fino a
quasi 3.600 miliardi di metri cubi (2015), così come è cresciuta - special-
mente in Cina e negli Stati Uniti - l'estrazione del carbone (7,5 miliardi di
tonnellate nel 20 16), combustibile che continua a essere molto utilizzato
per la produzione di energia elettrica.
L'indi,stria automobilistica è diventata quasi l' industria simbolo del p e-
riodo in esa1ne. La produz ione è stata in continua crescita, passando da 25
milioni di autoveicoli (20 di autovetture e 5 di veicoli commerciali) a metà
degli anni Sessanta a 95 milioni nel 201 3 (72 di autovetture e 23 di veicoli
commerciali), un terzo dei quali è costruito in Cina (nel 1999 la quota cine-
se era di appena il 3 per cento). Oggi circolano nel mondo circa 1,2 miliardi
di autoveicoli, che comportano un enorme consumo di combustibile e p e-
raltro hanno una rilevante capacità d' inquinamento. L ' utilizzazione delle
autovetture per il trasporto delle pers one e di autocarri e autotreni per quel-
lo delle merci richiede l'esistenza di un 'efficiente rete stradale e ciò ha dato
un enorme impulso alla costruzione di grandi autostrade, con intricate reti
di svi11colo attorno agli agglomerati urbani, regolate da complessi meccani-
smi di s egnaletica.
L'indi,stria aeronautica ha prodotto una grande quantità di aeroplani.
L 'introduzione dei turboreattori e delle leghe leggere consentì la costruzio-
ne di aerei in grado di trasportare alcune centinaia di persone e di percorre-
re lunghe distanze in tempi brevi e senza scalo. Per conseguenza, fu neces-
24. Una nuova rivoluzione: i settori p roduttivi 2 19

sario costruire giganteschi aeroporti in tutto il mondo, da ognuno dei quali


transitano diverse decine di milioni di passeggeri all' anno. Il ricorso sempre
più frequente al mezzo aereo portò alla fme dei viaggi per mare sulle lun-
ghe distanze e al tramonto, negli anni Settanta, dei grandi transatlantici, di-
ventati troppo costosi. Alcuni di essi furono trasformati in navi da crociera
e qualche altro in ristorante o hotel galleggia.nte. Di recente, il trasporto ae-
reo sta subendo, per le distanze più brevi, la concorrenza dei treni ad alta ve-
locità, di quelli, cioè, che raggiungono una velocità media superiore ai 200
km orari (con punte fino a 500 km). Essi sono stati Ìl1trodotti in molti paesi,
per lo più europei (Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Svizzera,
Russia), ma anche in Cina, Giappone, Corea del Sud e Turchia, mentre negli
Stati Uniti e in Canada è stata costruita finora solo qualche linea isolata.
Le industrie nuove che si svilupparono a partire dal dopoguerra riguar-
darono diversi campi, come la produzione di energia atomica, l'industria
aerospaziale e soprattutto l'elettronica e l' informatica. La costruzione di
centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, awiata negli anni
Sessanta, proseguì fra non poche difficoltà nei decennj successivi. La rea-
zione a catena scaturita dalla fissione (scissione del nucleo) dell'atomo di
uranio 235 consentì all'inizio la fabbricazione di bombe atomiche, ma ven-
ne utilizzata successivamente per scopi pacifici. Il <<ciclo>> s i avvia con
l'estrazione dell'uranio, prosegue con il suo <<arricchimento>> (per trasfor-
marlo in uranio 235, capace di subire la fissione nucleare) e termina, dopo
l' utilizzazione dell' energia liberata, con il seppellimento delle scorie radio-
attive in appositi <<cimiteri>>. Quest'ultima fase è risultata particolarmente
delicata, perché i residui radioattivi conservano la loro pericolosità per la
salute umana per diverse centinaia di anni ( e qualche tipo fino a un milione
di anni). Alcuni paesi decisero di non dotarsi di centrali nu.c leari o di limi-
tarne la diffusione, anche in seguito a gravissimi incidenti in alcune centrali,
come quelli di Three Mile Island (Usa, 1979), di Chernobyl (Ucraina, 1986)
e di Fukus hima (Giappone, 2011 ). L'Italia, per esempio, ricorse a u.n apposi-
to referendum popolare (1987) per bandire dal territorio nazionale le centrali
nucleari, decisione confermata da un nuovo referendum nel 2011 .
La conquista dello spazio contrappose per qualche decennio gli Stati Uniti
all'Unione Sovietica. I Sovietici riuscirono a mettere in orbita (1957) il primo
satellite artificiale (lo Sputnik) e a la11ciare il primo uomo nello spazio, Yuri
Gagarin, che, nel 1958, a bordo della sua navicella spaziale, compì un' intera
orbita terrestre. Gli Americani awiarono allora il costoso programma spazia-
le <<Apollo>>, che nel 1969 portò due uomini sulla luna (Neil Armstrong ed
Edwin Aldrin). Questa <<gara>>, oltre che a una fiorente industria aerospaziale,
diede un notevole impulso a ricerche in diversi settori per risolvere i proble-
220 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

mi posti dalla navigazione nello spazio, per esempio nei campi delle leghe
leggere, della plastica e delle telecomunicazioni.

24.3. La rivoluzione informatica

Le innovazioni più rivo luzionarie si sono avute nel campo dell'elettro-


nica. La tecnologia che la riguarda prese le mosse da alcune fondamentali
scoperte dell'inizio del secolo XX ( diodo, triodo, ecc.), alle quali si aggiun-
sero quelle del transistor (1948) e del circuito integrato (microchip, 1958).
Tale tecnologia, nata negli Stati Uniti, si sviluppò nel corso degli anni Ses-
santa e Settanta, quando si manifestò anche la tendenza alla miniaturizza-
zione e all'integrazione dei componenti elettronici elementari, che consentì,
grazie al microprocessore (messo a punto nel 1971 dalla californiana Intel),
un'eccezionale riduzione dei costi unitari di produzione e uno straordinario
accrescimento delle prestazioni. La produzione di componenti e apparati
elettronici, progressivamente utilizzati in quasi ogni ramo produttivo, diede
vita a un'attività industriale che raggiunse livelli di primo piano. L ' elettJ•o-
nica di consumo, sviluppatasi soprattutto negli Stati Uniti e in Giappo11e,
riguardò diversi prodotti, come g li apparecchi radio a transistor e i televiso-
ri, che si diffusero rapidamente nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta.
Successivamente apparvero i videoregistratori, le fotocamere e le videoca-
mere digitali, i lettori audio e video, i persona! computer, i telefoni cellulari
e molti altri prodotti, fino ai più recenti smartphone e tablet.
Lo sviluppo dell'elettronica è normalmente associato a quello del calco-
latore e quindi dell' informatica. Il primo calcolatore apparve negli anni
Quaranta e fino agli anni Settanta l'informatica coincise, di fatto, con il
grande elaboratore (o <<mainframe>>), il cui impiego si estese dal calcolo
scientifico alle applicazioni gestionali delle imprese e delle pubbliche am-
ministrazioni. Negli anni Settanta apparvero i minielaboratori e ne l decen-
nio successivo i microelaboratori (meglio noti come p ersona/ computer),
che trasformarono immediatamente e radicalmente l' informatica, sia per
quanto riguarda la creazione di un nuovo mercato di questi prodotti s ia per
le applicazioni che se ne sono fatte e che si potranno ancora fare. Si può
parlare di una rivolitzione informatica, figlia della rivoluzione elettronica,
che è ancora agli inizi ma che sta già dando risultati anch' essi rivoluzionari,
soprattutto con le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazio-
ne (Ict), sicché s i parla di società delle Jet. Lo storico dell' impresa Alfi·ed
Chandler ritiene che il secolo XXI sarà il <<secolo elettronico>>, in contrap-
posizione a quello precedente, che è stato il <<secolo industriale>>.
222 L 'economia contemporanea (1950-2017)

tà di anidride carbonica (nota anche come biossido di carbonio o C0 2) , che


sono state rilasciate nell'atmosfera e hanno contribuito al si,rriscaldamento
del Pianeta 1•
Per queste ragioni si sta diffondendo la consapevolezza che è necessario
e conveniente ricorrere a fonti energetiche rinnovabili, come quelle solare,
eolica, idroelettrica, geotermica (sfruttamento del calore interno della Ter-
ra), marina (sfruttamento della forza delle onde, delle correnti e delle maree)
e da biomasse (utilizzazione di prodotti agricoli e forestali e di rifiuti urbani
biodegradabili), il cui costo di produzione tende costantemente a diminuire
per via dell'evoluzione tecnologica. Queste nuove fonti di energia sono alla
base di quella che si chiama economia verde o green economy, fondata an-
che sul risparmio di energia e su una maggiore efficienza energetica.
Si prevede, in particolare, che la diffusione delle cellule fotovoltaiche,
capaci di convertire l'energia solare in energia elettrica, possa fare di ogni
edificio (abitazione, edificio pubblico, fabbricato industriale, ecc.) un po-
tenziale mini-impianto di produzione. Nel campo dei trasporti, inoltre, è alle
porte la diffusione su larga scala di veicoli elettrici. Insomma, è in atto una
nuova rivolitzione tecnologica che dovrebbe gradualmente portare all' im-
piego di fonti di energia rinnovabili.
La nuova rivoluzione che si annunzia presenta alcune caratteristiche del
tutto origirzali. I combustibili fossili si trovano solo in determinati luoghi
del Pianeta e ciò l1a provocato numerosi conflitti per il loro controllo. Inol-
tre è stato necessario creare grandi e complesse imprese per il loro sfrutta-
mento, in grado di realizzare consistenti economie di scala. Viceversa, il so-
le, il vento e le altre fonti di energia rinnovabili sono presenti quasi ovunque,
sono per la maggior parte gratuite e il loro sfruttamento potrà essere affida-
to a imprese più piccol.e, evitando così un'eccessiva concentrazione di pote-
re in poche mani. Inoltre, l' energia elettrica prodotta con le cellu le fotovol-
taiche degli edifici potrà essere condivisa con gli altri consumatori attraver-
so una rete intelligente, basata sulle tecnologie informatiche. In tal modo, le

1
L'aumento di biossido di carbonio ha influito sull'effetto serra, ossia su quel comp lesso
di fenomeni che provoca il riscaldamento della Terra. Le radiazioni solari che colpiscono il
Pianeta, difatti, vengono riflesse nell 'atmosfera: una parte (il 35 per cento) ri esce a sfu ggire
e viene irradiata nello spazio, mentre quella più grande (il 65 per cento) è trattenuta e contri-
bui sce a riscaldare il Pianeta. Il vapore acqueo, il biossido di carbonio e il metano (detti gas
serra) hanno la caratteristica di trattenere il calore, sicché un loro aumento nell 'atmosfera fa
alzare la temperatura media terrestre. Ciò sta avvenendo, in particolare, per l' aumento del
biossido di carbonio, prodotto dall'attività industriale e dai mezzi di traspor to. Le conse-
guenze prevedibili sono lo scioglimento dei ghiacciai, l' innalzamento del livello del mare, la
sommersione delle zone costiere, l' incremento di precipitazioni e di inondazioni, peri odi di
siccità prolungata e così via.
24. Una nuova rivoluzio11e: i settori p roduttivi 223

tecnologie dell' informazione e della comunicazione e le fonti di energia


rinnovabili sono forse in grado di dare inizio a una nuova rivoluzione: ap-
punto quella che Rifkin chiama "terza rivoluzione industriale" .
Va tuttavia osservato che il passaggio alle fonti energetiche rinnovabili
richiederà ancora del tempo, durante il quale esse saranno utilizzate assieme
ai combustibili fossili, anche perché la produzione, la trasformazione e la di-
stribuzione di tali combustibili danno lavoro a un enorme numero di persone
e attorno ed essi si concentrano interessi giganteschi. Negli ultimi anni, d'al-
tra parte, si sono diffuse nuove tecniche di estrazione di gas naturale e petro-
lio, per ora limitate quasi esclusivamente agli Stati Uniti, che hanno fatto
diminuire il costo di estrazione, in particolare del gas naturale, che peraltro è
meno inquinante di carbone e petrolio. Si tratta dello shale gas (gas di argil-
le; ma anche di petrolio, shale oil), estratto dalle rocce argillose in cui si tro-
va imprigionato, con un metodo a lquanto invasivo: la frantu.m azione del le
rocce con getti ad alta pressione di acqua, sabbia e altre sostanze chimiche.
Vi è di più. Rifkin pronostica anche un mutamento del modello di prodit-
zione, dovuto a lla possibilità che offrono le nuove tecnologie di ottenere be-
ni e servizi a costi sempre più bassi, con una conseguente riduzione dei
prezzi. Si pensi, per esempio, al costo di un e-book, al costo dei beni mate-
riali prodotti in proprio grazie a una stampante 3D 2 o al costo dell' energia
ottenuta da fonti rinnovabili. Molti di questi beni sono prodotti da prosu-
mers, ossia da produttori-consumatori, che stanno diventando sempre più
numerosi. Una tale trasformazione mette in discussione lo stesso modello
capitalistico, così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, e spingerebbe le
imprese verso forme monopolistiche o oligopolistiche per bloccare la ridu-
zione dei prezzi e dei profitti. Ma ciò appartiene al futuro ed esula dal nostro
compito, che è quello di studiare il passato.

24.5. La terziarizzazione dell'economia

L'elemento che maggiormente ha caratterizzato la seconda metà del


ventes imo secolo è stato lo sviluppo del settore terziario, diventato, come si
è già ricordato, il settore predominante dell' economia. Il Pil dei principali
paesi sviluppati è ormai fornito per cir ca i tre quarti dal settore dei servizi,

2
Una stanipante 3D è una macchina co1nputerizzata capace di produrre oggetti, strato
dopo strato, partendo da un modello e utilizzando solo il materiale necessario. Essa può du-
plicare qualsiasi cosa, dai cioccolatini alle armi, dai tessuti ai medicinali, fino ad oggetti
molto più grandi, come una casa.
224 L 'economia contemporanea (1950-2017)

sicché si parla di terziarizzazione dell'economia, di deindi,strializzazione o


anche di società postindustriale.
In diversi paesi si passò, nel giro di alcuni decenni, da un' economia
agricola a un'economia postindustriale, compiendo un salto incredibile, che
provocò problemi di adattamento delle persone a cambiamenti così rapidi.
Il settore terziario si ampliò notevol1nente e aumentarono molti servizi
pubblici e privati a disposizione della collettività, dall'istruzione alla sanità,
dalla distribuzione commerciale ai trasporti, dall'informatica alle teleco-
municazioni, dal turismo alla ricerca scientifica, dai traffici internazionali ai
servizi bancari e assicurativi.
Una delle conseguenze dello sviluppo economico e in particolare della
terziarizzazione dell' economia è stata la maggiore presenza delle donne nel
mondo del lavoro, non solo nei paesi avanzati, ma anche in quelli in via di
sviluppo. In molti casi, la presenza delle donne ( comprese quelle sposate,
che è una novità) è aumentata tanto da far parlare di femminilizzazione di
alcuni rami (insegnamento, servizi sanitari e assistenziali, pubblica ammi-
nistrazione, ecc.). Anche in campi tradizionalmente ritenuti appannaggio
degli uomini, quali la politica, la magistratura e le forze armate, le donne
sono diventate sempre più numerose. Va notato, però, che quasi dappertut-
to, ma principalmente nei paesi meno sviluppati, esse continuano ad avere
un trattamento economico inferiore a quello degli uomini e che in alcune
professioni il numero di donne che riesce a raggiungere posizioni di rilievo
è ancora basso.
Il settore terziario ha messo a disposizione delle persone, delle imprese e
delle istituzioni una vasta gamma di servizi che si sono aggiunti a quelli pre-
cedenti e sono andati sempre più aumentando. Ne ricorderemo i principali.
Il commercio interno ha cambiato aspetto dalla metà del secolo XX. Fi-
no ad allora (ma anche successivamente) nei principali paesi sviluppati
conti11uarono a prevalere modesti negozi al dettaglio, presenti in ogni pic-
colo paese e nei rioni delle grandi città, nonostante si stessero diffondendo i
grandi magazzini, i negozi con molte succursali e numerose cooperative di
vendita. La necess ità di adattare il commercio alla produzione di massa e
alle accresciute dimens ioni delle città portò alla rapida diffusione dei su-
permercati, che riuscivano a praticare prezzi contenuti e puntavano su un
grande volume di vendite. All' inizio essi trattarono solamente prodotti ali-
mentari frazionati e confezionati, ma in seguito allargarono la gamma dei
prodotti messi in vendita, estendendola a un gran numero di beni di consu-
mo. I centri commerciali, enormi fabbricati sorti al centro o nelle periferie di
città grandi e piccole, che offrono qualsiasi tipo di merce di largo consumo, si
diffusero dapprima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Nei paesi avan-
24. Una nuova rivoluzione: i settori p roduttivi 225

zati oggi non vi è località, per quanto remota, che non abbia nelle sue vici-
nanze u11 centro commerciale, che sta diventando anche punto d'incontro e
di svago per tantissime persone. I discount, nati negli Stati Uniti durante la
difficile congiuntura degli anni Trenta, si difft1sero ovunque nella seconda
metà del Novecento. Com' è noto, si tratta di grandi magazzini che puntano
a contenere al massimo i prezzi, abbattendo i costi di gestione, mediante
l'utilizzazione di locali modesti, la presentazione essenziale delle merci e il
ricorso a pochi addetti. Bisogna, infme, ricordare il commercio elettronico,
che consente di fare acquisti tramite Internet e che si va sempre più diffon-
dendo, anche per la nascita di apposite grandi società specializzate, come
l'americana Amazon e la cinese Alibaba.
Il commercio estero, dopo le difficoltà degli anni Trenta, conobbe, nel
dopoguerra, una crescita continua, agevolata dalla decisione dei principali
paesi del mondo capitalistico di adottare una politica di libero scambio, di
ripristinare un sistema di cambi fissi, durato fino al 1973, e di costituire or-
ganizzazioni internazionali per promuovere gli scambi fra i paesi aderenti.
Anzi, si può dire che la crescita del dopoguerra fu in qualche modo trasci-
nata dal commercio internazionale, che non s' interruppe nemmeno in se-
guito alla crisi degli anni Settanta.
Fra le attività del settore terziario, un pa1iicolare sviluppo hanno cono-
sciuto le attività finanziarie e il turismo. I sistenii bancari subirono profon-
de trasformazioni. Le banche estesero la loro attività, offrendo una vasta
gamma di servizi alla clientela, e si rivolsero a nuovi soggetti, come le fa-
miglie, che prima di allora non si erano quasi mai indirizzate alle aziende di
credito per le loro esigenze di gestione domestica (accreditamento dello sti-
pendio, pagamento delle utenze familiari, credito al consumo, ecc.). 11 pro-
cesso di concentrazione, che proseguiva fin dal secolo XIX, portò alla for-
mazione di grandi gruppi bancari in tutti i paesi e fu accelerato dalla globa-
lizzazione dei mercati. La concorrenza si fece mondiale e, per seguire le
imprese multinazionali loro clienti, le banche aprirono filiali all'estero e di-
vennero esse stesse multinazionali.
Un' altra importante novità nel campo bancario fu la despecializzazione.
La netta distinzione fra banche commerciali o di deposito e banche d'affari
o d'investimento, introdotta durante la depressione degli anni Trenta, fu su-
perata a partire dagli anni Sessanta e Settanta, qu.a ndo dappertutto cominciò
ad affermarsi la banca universale. Si tratta di un tipo di azienda di credito in
grado di fornire qualsiasi servizio ai clienti, dal più modesto al più sofistica-
to e per qualsiasi durata, compresi i servizi di consulenza. I computer si sono
rivelati particolarmente adatti alla gestione dei servizi bancari (per esempio,
consentendo la recente dif fusione della <<banca online>>) e hanno contribuito
226 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

a trasformare il lavoro bancario. Così come, negli ultimi decenni, si è raffor-


zata la collaborazione fra banche e compagnie di assicurazione, anch ' esse in
grande espansione (specialmente nel ramo vita e in quello automobilistico),
sicché si è parlato di bancassicurazione. Le banche, inoltre, ampliarono i
mezzi di pagamento mediante la diffusione, fm dagli anni Cinquanta, delle
carte di credito. Da quando furono dotate di ba11da magnetica con una me-
moria (1979) e più di recente di microchip (1993), queste carte sono diven-
tate una sorta di nioneta elettronica, che in molti paesi oggi costituisce il
mezzo più comune per pagare merci o servizi e che è destinata a sostituire in
larga parte la moneta cartacea, come questa aveva sostituito quella metallica.
Un comparto che, dopo la guerra, assunse notevole importanza fu il turi-
smo o, per la precisione, il turismo di massa. Fino al secolo XIX, il turismo
era stato essenzialmente un fenomeno di élite, che coinvolgeva poche per-
sone benestanti. Costoro compivano lunghi viaggi di piacere e d'istruzione
( che durava110 molti mesi e talvolta qualche anno) in diversi paes i europ ei,
a cavallo o in carrozza (grand tour). In seguito aumentò il reddito familiare
e vi fu maggiore disponibilità di tempo libero, grazie all 'introduzione delle
ferie p agate ai lavoratori dipendenti, sicché un numero sempre crescente di
persone poté accedere al piacere di viaggiare, essendo ormai possibile uti-
lizzare comodi mezzi di trasporto, dalle ferrovie alle grandi navi a vapore.
Ma fu solo nel secondo dopoguerra, quando p er gli spostamenti si utiliz-
zarono in misura crescente l' aeroplano e l' automobile, che il turismo divenne
un fenomeno di massa e acquistò un notevole rilievo economico, esercitando
effetti positivi su molte altre attività (trasporti, alberghi, ristoranti, attrezzatu-
re balneari, montane o termali, artigianato, musei e così via) e sull 'occupa-
zione. I mov imenti di valuta determinati dai flussi turistici influenzarono, ov-
viamente, le bilance dei pagamenti dei singoli Stati, sia di quelli che acco-
glievano turisti sia di quelli da cui essi partivano. La gestione dei flussi turi-
stici richiese l' intervento di tour operator, società capaci di organizzare viag-
gi e soggiorni in ogni parte del Pianeta. L 'occupazione diretta o indotta creb-
be notevolmente, così come la partecipazione di questo settore alla formazio-
ne del Pil. Nel 1950, in tutto il mondo si contarono 25 milioni di turisti, di-
ventati 285 nel 1980 e oltre 1,2 miliardi nel 2017. Ormai più di un sesto della
popolazione mondiale partecipa al fenomeno turistico. L'Europa continua ad
essere il continente che attira il maggior numero di v isitatori (più della metà
del totale), seguita dagli Stati Uniti e da altre aree in diverse pa.r ti del mond.o.
Grande rilievo economico ha assunto anche il turisnio interno, che coinvolge,
in ogni paese, milioni di persone e dà origine a un vasto giro di affari, sia
quello di durata più o meno lunga, che si svolge nei periodi di vacanza dal
lavoro ( estivi o invernali), sia quello breve di fme settimana.
25.
LA RICOSTRUZIONE
DELL'ECONOMIA MONDIALE

25.1. Gli accordi politici: Yalta e Onu

I danni della guerra all'apparato industriale dei paesi che avevano subito
bombardamenti o sul cui territorio si era combattuto si mostrarono subito in-
feriori a quanto fosse potuto sembrare. Le distruzioni maggiori erano state in-
ferte alle infrastrutture e alle abitazioni, che furono presto riparate, consen-
tendo a molte industrie di riprendere a lavorare a pieno ritmo. Ancora prima
della fine del conflitto, che ormai volgeva a loro favore, gli Alleati comincia-
rono a progettare l'economia mondiale del dopoguerra. Il loro obiettivo era di
sviluppare la cooperazione internazionale, che era mancata durante il periodo
preced.ente e aveva reso difficile la fuoriuscita dalla depressione d.egli anni
Trenta, portando a un nuovo terribile conflitto. Nel campo economico, il pro-
blema era di evitare la sovrapproduzione e la disoccupazione. Bisognava,
perciò, equilibrare la produzione e regolare gli scambi internazionali. La que-
stione principale non era di produrre e vendere, ma di trovare il modo di farsi
pagare, vale a dire di fornire capacità di acquisto ai paesi importatori, facen-
doli partecipare al commercio internazionale.
Furono tenuti diversi incontri e si stipularono alcuni trattati che gettaro-
no le basi del nuovo ordine politico ed economico mondiale: nel luglio del
1944 furono frrmati gli accordi di Bretton Woods, nel feb braio del 1945 si
svolse la conferenza di Yalta, nel mese di giugno dello stesso anno fu costi-
tuita, a San Francisco, in California, l' Organizzazione delle Nazioni Unite
(Onu) e nell' ottobre del 1947 furono stipulati gli accordi per il commercio
internazionale (Gatt).
Le intese più squisitamente politiche furono quelle di Y alta e di San Fran-
cisco. Alla conferenza di Yalta, in Crimea, s'incontrarono il presidente degli
Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, il primo ministro britannico Winston
Churchi ll e Josif Stalin per l'Unione Sovietica. La conferenza, anche senza
228 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

Fig. 25. 1. - L 'Europa dopo la Seconda guerra mondiale

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Gibilterra TURCHIA
(eut)---.1'"'

Fonte: G. Duby, Atlante storico niondiale, Rizzoli Larousse, ed. speciale per il Corriere
della Sera, Milano, 2004, p. 484.
Nota: La linea continua indica la «cortina di ferro». La parte scura a est indica i territori
incorporati nell'Unione Sovietica. RFT: Repubblica Federale Tedesca ( I 949-90); RDT: Re-
pubblica De1nocratica Tedesca (1949-90).

dichiararlo apertamente, portò alla divisione del mondo in due zone d ' in-
fluenza: americana e sovietica. Sotto influenza sovietica caddero i paesi
dell'Europa orientale occupati d.a ll' Armata Rossa e quelli asiatici successi-
vamente guadagnati all'ideologia comunista (Mongolia, Cina, Corea del
Nord e Vietnam del Nord). L'Europa occidentale e il Giappo11e rientrarono
nella sfera d' influenza americana. Nel dopoguerra, essendosi evidenziato il
contrasto fra gli Alleati occidentali e l'Unione Sovietica, la Germania fu
25. La ricostruzione dell 'economia mondiale 229

divisa in due Stati: a ovest la Repubblica Federale Tedesca e a est la Re-


pubblica Democratica Tedesca. Regimi socialisti sotto il controllo sovietico
si affermarono, oltre che nella Germania orientale, anche in Polonia, Un-
gheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania e Albania, mentre la Jugoslavia,
pur rientrando nell'orbita sovietica, si sottrasse alla sua influenza diretta,
perché era riuscita a liberarsi da sola dall' occupazione nazista, senza l' in-
tervento dell'Armata Rossa.
Si era stesa sull'Europa quella che Churchill definì la cortina di f erro, va-
le a dire una linea ideale che divideva in due il vecchio continente, ed era ini-
ziata la cosiddetta Guerra fredda (contrapposizione senza conflitto armato)
fra Stati Uniti e paesi occidentali da una pa11e e Unione Sovietica e il suo
blocco dall' altra. Berlino, che si trovava nella Germania orientale, fu divisa
in quattro zone, una controllata dai Sovietici e le altre tre da Americani,
Francesi e Inglesi. Nel 1961, siccome molti Tedeschi dell'Est continuavano a
fuggire in Occidente attraverso Berlino, le autorità della Germania orientale
fecero erigere un lungo muro che divise in due la città e che rimase in piedi
per quasi trent'anni.
A San Francisco nacquero le Nazioni Unite, con lo scopo di mantenere
la pace e la sicurezza, realizzare la cooperazio11e internazionale in campo
economico, sociale, culturale e umanitario e promuovere il rispetto delle li-
bertà fondamentali e dei diritti dell'uomo. I paesi aderenti all 'Onu, che al-
1' inizio erano cinquanta, aumentarono progressivamente fino a comprende-
re tutti gli Stati indipendenti della Terra. Le Nazioni Unite, che hanno sede
a New Yor~ non sono sempre riuscite a svolgere in pieno la loro missione,
per i contrasti fra i cinque paesi vincitori della Seconda guerra mondiale,
vale a dire Stati Uniti, Unione Sovietica ( sostituita nel 1992 dalla F ederazio-
ne russa), Gran Bretagna, Francia e Cina (quella nazionalista fmo al 1971 e
quella comunista in seguito). Questi paesi s i riservarono il <<diritto di veto>>
nel Consiglio di sicurezza, sicché ogni risoluzione deve essere presa con il
loro voto unanime: basta che uno soltanto non sia d'accordo per impedire
di assumere qualsiasi decisione.

25.2. Gli accordi economici: Bretton Woods e Gatt

Ben più importanti per il successivo svilu.p po dell'economia mondiale


furono gli accordi di Bretton Woods e quelli che portarono alla nascita del
Gatt. A Bretton Woods, località di villeggiatura del New Hampshire (Usa),
i rappresentanti di quarantaquattro paesi ripristinarono, nel 1944, un siste-
ma monetario internazionale basato sui cambi fissi. Si diede vita a un nuo-
230 L 'ecoriomia contemporanea (1950-2017)

vo gold exchange stand.ard con una sola moneta convertibile in oro, il dolla-
ro statunitense, secondo il rapporto di 35 dollari per un'oncia d' oro fino. Il
dollaro, però, come stabilito nel 1936, poteva essere cambiato in oro soltan-
to alle banche centrali degli altri paesi e non ai cittadini o a lle altre banche.
Ogni paese doveva defmire in oro la propria moneta, dichiarandone la
parità, ossia il quantitativo (teorico) di oro co1Tispondente all 'unità moneta-
ria, in modo da poter determinare il cambio fra tutte le monete in base al
rapporto con l' oro. La parità poteva oscillare entro una banda dell'uno p er
cento in più o in meno ed era compito delle ba11che centrali di ogni paese
d'intervenire sul mercato dei cambi per assicurare che quei limiti non fosse-
ro superati. Ciò voleva dire che, se in un determinato paese vi era abbon-
danza di una moneta straniera e il suo prezzo (cambio) scendeva, la banca
centrale doveva acquistarla (con moneta nazionale, che poteva stampare)
per bloccarne la discesa; viceversa, se una moneta straniera era molto ri-
chiesta e perciò il suo valore tendeva a salire, la banca centrale doveva
vendere quella in suo possesso per frenarne il rialzo. Quando la banca cen-
trale non possedeva una sufficiente quantità di tale moneta straniera, poteva
ricorrere al Fondo monetario internazionale (Fmi), istituito proprio per as-
sicurare la stabilità dei cambi. Esso, difatti, disponeva di un fondo di valute
nazionali versate dai paesi che ne facevano parte, dal quale poteva preleva-
re quelle necessarie per concedere anticipazioni ai paesi che ne avessero
avuto bisogno per sostenere il tasso di cambio della loro moneta. Per attua-
re completamente il nuovo sistema monetario internazionale fu necessario
procedere alla ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra e soprattutto al
risanamento delle monete screditate dall' inflazione. Solo quando le monete
furono stabilizzate, verso la fine degli anni Quaranta, e i paesi furono in
grado di difendere la parità prefissata, il nuovo sistema monetario interna-
zionale cominciò a funzionare in pieno.
Un alh·o organismo sorto a Bretton Woods fu la Banca internazionale
per la ricostruzione e lo sviluppo (Birs ), meglio nota come Banca mon-
diale, che era stata istituita per fmanziare la ricosh·uzione dei paesi dan-
neggiati dalla guerra. Siccome, però, come vedremo, molti di essi furono
sostenuti dagli aiuti del Piano Marshall, la Banca si dedicò al finanziamen-
to dei paesi sottosviluppati.
A Ginevra, nel 194 7, ventitré paesi frrmarono il Generai Agreement on
Tariffa and Trade (Gatt, Accord.o generale sulle tariffe e sul commercio).
In verità, si voleva creare un' Organizzazione internazionale del commer-
cio (International Trade Organization, Ito), da affiancare al Fondo mone-
tario e alla Banca mondiale. In attesa di realizzare quest ' obiettivo, si die-
de vita a un accordo provvisorio, denominato Gatt, che invece durò quasi
25. La ricostruzione dell 'economia mondiale 231

mezzo secolo, poiché il Congresso degli Stati Uniti non approvò mai il
trattato istitutivo dell'Ito. Il Gatt rimase un semplice trattato multilaterale,
privo di una propria struttura organizzativa, che richiedeva estenuanti ne-
goziati per giungere ad accordi che vincolassero i paesi che li avevano sot-
toscritti. Il Gatt si proponeva, difatti, la fine degli accordi bilaterali, che
avevano regolato gli scambi fra le due guerre, e l' affermazione della multi-
lateralità nei rapporti commerciali internazionali, mediante l'applicazione
della clausola della nazione più favorita e la progressiva riduzione delle
barriere doganali.
Nel corso d.e lla sua esistenza, durante la quale il numero dei paesi ade-
renti aumentò fino a un centinaio, si tennero diversi round, ossia lunghi
negoziati, a volte durati diversi anni, alla fine dei quali si giungeva alla ri-
duzione dei dazi su una serie di prodotti. Con il tempo, il Gatt si occupò
anche di rimuovere gli ostacoli di tipo regolamentare che limitavano gli
scambi internazionali (controlli doganali, d.u mping, ecc.) ed estese la sua
attività al settore dei servizi. Il primo accordo ( 1947) stabilì la riduzione
dei dazi su 45 mila voci, che costituivano la metà circa del commercio in-
ternazionale. Vi furono complessivamente otto cicli di trattative, i più im-
portanti dei quali furono gli ultimi tre, ossia il Kennedy Round ( 1964-67),
il Tokyo Round (1973-79) e l'Uruguay Round (1986-94). Non sempre il
Gatt riuscì ad assicurare un rapido cammino verso il libero scambio e le
trattative furono talvolta molto aspre, a11che per le forti divergenze fra i
paesi partecipanti, in particolare per gli interessi spesso contrastanti fra i
paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. In campo agricolo, inoltre, fu
conservata una certa protezione, dapprima per impulso degli Stati Uniti e
success ivamente per volontà dei paesi europei e del Giappone. Il protezio-
nismo agricolo danneggiava i produttori dei paes i in via di sviluppo, per-
ché ostacolava le loro esportazioni di derrate alimentari nei paesi sviluppa-
ti e quindi la loro possibilità di pagare le importazioni da quei paesi.
Terminato l'Uruguay Round, i rappresentanti di centoventicinque paesi
firmarono a Marrakesh, in Marocco, l'accordo istitutivo della World Trade
Organization (Wto o Ome, Organizzazione mondiale del commercio), en-
trata in funzione all'inizio del 1995. Il nuovo organismo, al quale hanno
aderito oltre centosessanta paes i, ha sede a Ginevra e prosegue l' attività
del Gatt, con lo scopo principale di favorire il commercio internazionale
attraverso la liberalizzazione dei traffici. Pur avendo una sua struttura or-
ganizzativa, funziona anch'esso sulla base della regola del consenso di
tutti, sicché nel 2001 è iniziato un nuovo estenuante ciclo di trattative, il
Doha Round (nel Qatar), che si è arenato per le contrastanti pos izioni dei
paesi partecipanti.
232 L 'economia co,itemporanea (1950-2017)

25.3. Il Piano Marshall

Gli ultimi anni di guerra e i primi anni del dopoguerra furono molto dif-
ficili. Il Pii pro capite (in valori costanti) era continuato a crescere quasi
ovunque almeno fino agli anni 1943-44, spinto in alto dalla produzione bel-
lica, ma successivamente crollò. I paesi sconfitti (Italia, Germania e Giappo-
ne) persero intorno alla metà del Pil pro capite, ma anche i vincitori (Stati
Uniti e Gran Bretagna) dovettero accusare il calo di qualche decina di punti.
La Francia vide dimezzato il suo Pil pro capite fra il 1939 e il 1944, in se-
guito all' occupazione tedesca e perciò riprese a crescere con anticipo ri-
spetto agli altri paesi già dal 1945.
L ' immediato dopoguerra fu particolarmente duro per le popolazioni eu-
ropee, che vennero soccorse dagli aiuti dell 'Unrra (United Nations Relief
and Rehabilitation Administration), un organismo istituito nel 1943 dagli
Alleati, che già si cominciavano a chiamare Nazioni Unite, con lo scopo di
fornire aiuti gratuiti e assistenza ai paesi devastati dalla guerra (non solo eu-
ropei). Sostenuto fmanziariamente in primo luogo dagli Stati Uniti, l'UmTa
erogò quasi 3, 7 miliardi di dollari, inviando soprattutto viveri, specie in se-
guito al disastroso raccolto granario del 1945 in tutta l'Europa, oltre che
medicinali, vestiario, sementi, concimi, macchinari, materie prime e com-
bustibili, che servirono ad alleviare le difficili condizioni della popolazione.
L 'Unrra, inoltre si occupò di assistere i profughi e i perseguitati per ragioni
politiche e razziali.
Durante la guerra gli Stati Uniti avevano anche rifornito i loro alleati di
materiale bellico e di altri beni di prima necessità, venduti con lunghe dila-
zioni nei pagamenti. Alla fine d.el conflitto erano creditori netti di oltre 40
miliardi di dollari e il loro credito aumentò ancora per le u lteriori vendite di
be1ù indispensabili alla ricostruzione. Nelle condizioni drammatiche in cui si
trovavano i paesi europei, con una forte inflazione e con la necessità di beni
di qualsiasi natura, non era assolutamente pensabile che potessero pagare i
loro debiti entro breve tempo. Intanto molti paesi, in primo luogo gli Stati
Uniti, ma anche quelli del Commonwealth e dell' America Latina, avevano
bisogno di esportare la loro eccedente produzione. I paesi europei, però,
non disponevano dei dollari necessari per acquistare i beni di cui pure ave-
vano bisogno, perché non erano in grado di esportare quasi niente. L 'Euro-
pa soffriva di una peni,ria di dollari (dollar shortage).
L'idea d'impon·e il pagamento di riparazioni alla Germania sconfitta, di
cui pure si parlò, fu subito accantonata perché ancora una volta la Germania
non avrebbe potuto pagare. Gli Americani maturarono allora la convinzione
che fosse nel loro interesse favorire la ricostruzione di tutti i paesi, alleati e
25. La ricostruzio11.e dell 'economia mondiale 233

sconfitti, destinati a diventare i loro partner commerciali e i loro alleati po-


litici, e nel co11tempo avviare la cooperazione internazionale prevista dagli
accordi di Bretton W oods e dal Gatt.
Nel mese di giugno del 1947, in un discorso al la Harvard University, il
generale George Marshall, segretario di Stato americano (ministro degli Este-
ri), propose un piano di aiuti ai paesi europei che ne avessero fatto richiesta.
L'anno successivo fu approvato dal Congresso l'Erp (European Recove1y
Program), meglio noto come Piano Marshall, la cui gestione fu affidata al-
l'Eca (Economie Cooperation Administration), un organismo del governo
americano con sede a Washington. I paesi europei, con l'esclusione dell'U-
nione Sovietica e dei paesi socialisti dell'Europa orientale che non vo llero
aderire all'Erp, si associarono nell' Oece (Organizzazione europea per la
cooperazione economica), con sede a Parigi. I governi dei paesi che aveva-
no bisogno di aiuti formu lavano un piano di interventi con le loro richieste
e lo inviavano all ' Oece, che lo esaminava e lo trasferiva all 'Eca in Ameri-
ca. Il governo americano acquistava sul proprio mercato i beni richiesti,
contribuendo così ad assicurare uno sbocco alla propria produzione, e li in-
viava in Europa. I governi europei li vendevano a imprese e famiglie e con
il ricavato provvedeva110 alla ricostruzione del proprio Paese. In questo
modo, fra aiuti gratuiti (<<grants>>, la maggior parte) e prestiti (<<loans>>), gli
Stati Uniti misero a disposizione dei paes i europei circa 13 miliardi di dol-
lari entro il 1952, quando il Piano Marshall ebbe termine, dopo aver ottenu-
to risultati superiori alle aspettative. G li aiuti americani furono erogati per il
90 per cento in natura (fornitura di beni) e soltanto per il 10 per cento in
contanti. All'inizio, i paes i europ ei importarono generi alimentari, mangimi
per gli animali e fertilizzanti e, in seguito, macchinari di ogni specie, mate-
rie prime e combustibili.
Il Piano Marshall riuscì ad aiutare l'Europa 11ella sua ricostruzione, per-
mettendole di raggiungere e superare il livello di produzione prebellico, che
comunque non era molto elevato, dato che alla vigilia del conflitto l'ap-
parato industriale non girava a pieno ritmo a causa della depressione degli
anni Trenta. Riuscì anche a far diminuire la disoccupazione in quasi tutti i
paesi europei, ma non fu capace - come pure era negli intendimenti dei
suoi ideatori - di favorire una rapida integrazione europea, per i persistenti
dissidi fra i paesi del vecchio continente.
L'Oece, terminato il suo compito, continuò a promuovere la coopera-
zione fra i diciotto paesi che ne facevano parte. Questi stessi paes i costitui-
rono anche, nel 1950, l' Unione europea dei pagamenti (Uep). L 'Uep fu
uno strumento molto efficace per consentire lo sviluppo del commercio in-
ternazionale, perché permise di superare il meccanismo degli scambi bilate-
24. Una nuova rivoluzione: i settori p roduttivi 221

Sono nate così grandi società nel campo dell'elettronica di consumo, in


quello del software e nel mondo dei social network, fra le quali si possono
ricordare, a solo titolo di esempio, la Ibm, la Philips, la Sony, la Samsung,
la Appie, la Microsoft, la Intel e, più di recente, Google e Facebook.
Le trasformazioni indotte dalla tecnologia elettronica nei processi produt-
tivi, con la possibilità di disporre di macchine sempre più perfezionate e pro-
grammate per svolgere determinati lavori, hanno provocato la riduzione rela-
tiva dell'impiego di forza di lavoro, così com' era avvenuto nel settore agrico-
lo, dove i miglioramenti tecnici avevano creato eccedenza di manodopera. Si
è assistito (e si assiste) a quella che Keynes chiamò, già negli anni Trenta del
secolo scorso, disoccupazione tecnologica, dovuta all'introduzione di nuove
tecnologie <<labour saving>>. Se ciò ha comportato un forte aumento della
produttività per lavoratore ha anche determinato il ridimensionamento occu-
pazionale negli uffici e in molte fa bbriche, che ormai possono fare affida-
mento su procedure informatizzate per la loro attività.

24.4. Verso una nuova rivoluzione tecnologica

La rivoluzione industriale, come si è sviluppata dalla metà del Settecen-


to, si è basata dapprima sul carbone e poi sul petrolio e sul gas naturale.
L 'economista americano Jeremy Rifkin, riferendosi proprio alle diverse fonti
di energia utilizzate e a lle tecnologie da esse consentite, ha di recente pro-
posto di distinguere fra: a) una prima rivoluzione industriale, durata fino a
tutto il secolo XIX, che si sarebbe fondata sul carbone e sulla macchina a
vapore; b) una seconda rivoluzione industriale, sviluppatasi nel secolo XX,
basata sul petrolio e su.I motore a scoppio; c) una terza rivo luzione indu-
striale, che sta muovendo i primi passi, la quale non si fonderà più sui com-
bustibili fossili, ma sulle fonti di energia rinnovabili, dalle quali si potrà ri-
cavare l'energia elettrica necessaria alle attività produttive.
I combustibili fossili hanno impiegato alcuni milioni di anni per formarsi
e la loro quantità è limitata, sicché un sistema economico imperniato su di
loro non può durare ancora per molto tempo. Oggi, però, quasi tutte le atti-
vità economiche sono ancora dipendenti dai combustibili fossili. La produ-
zione di alime11ti è strettamente legata a concimi e pesticidi derivati dal pe-
trolio; i trasporti, il riscaldamento, l' energia elettrica e l'illuminazione di-
pendono quasi totalmente da carbone, petrolio e gas naturale e lo stesso si
dica della plastica, di molti medicinali e della maggior parte degli indumen-
ti, ottenuti con fibre sintetiche derivate dal petrolio. D ' altra parte, due seco-
li di carbone, petrolio e gas naturale bruciati hanno prodotto ingenti quanti-
234 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

rali in vigore dall'anteguerra. Gli scambi fra i paesi aderenti all'Uep non ve-
nivano pagati in contanti, ma davano luogo a regish·azioni contabili, com-
pensate mensilmente. In tal modo, se per esempio l'Italia aveva un debito di
100 verso la Francia e crediti di 70 verso l' Inghilterra e 30 verso il B elgio,
vedeva azzerati i suoi rapporti di debito e credito. Sarebbero stati Inghilterra
e Belgio a pagare per suo conto la Francia, sempre che anch' essi non aves-
sero potuto compensare il loro debito con crediti verso a ltri paesi. Soltanto
quando un paese risultava sempre debitore era tenuto a pagare quanto dovu-
to in oro o in dollari, così come un paese che risultava sempre creditore po-
teva riscuotere parte del suo credito in oro o in dollari.
L'Uep fu sciolta nel 1958, mentre l' Oece si trasformò, nel 1961, in Ocse
(Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), con la par-
tecipazione anche di Stati Uniti e Canada, ai quali si aggiunsero in seguito
Giappone, Australia e altri paesi, con lo scopo di favorire l' espansione
economica degli Stati membri e lo sviluppo del commercio estero su base
multilaterale.

25.4. L'economia mista e il Welfare State

Alla fme della Seconda guerra mondiale, la contrapposizione fra il model-


lo capitalista e quello socialista e la necessità di evitare movimenti rivoluzio-
nari, com'era awenuto dopo il primo conflitto, indussero i governi dell'Eu-
ropa occidentale, anche sotto la spinta dell'opinione pubblica, a introdurre ri-
forme politiche, sociali ed economiche, che consentirono di allargare le basi
dell'economia mista, un tipo di economia, cioè, in cui convivono imprese
pubbliche e imprese private in concorrenza fi·a di loro. Furono naziona lizzati
importanti rami dell'economia e si awiò una politica di pianificazio11e.
Le nazionalizzazioni, attuate in alcuni paesi, non furono delle statizza-
zioni. Le imprese naziona lizzate continuarono a operare in r egime di libero
mercato e goderono di una loro autonomia, pur essendo di proprietà pubbli-
ca. In Francia si procedette ( 1944-46) alla nazionalizzazione della Banca di
Francia e delle quattro maggiori banche di deposito del Paese, delle più im-
portanti società di assicurazione, delle miniere di carbone e delle compa-
gnie dei trasporti aerei. Fu anche espropriata la R enault, che aveva collabo-
rato con i Tedeschi durante l' occupazione. In Gran Bretagna le nazionaliz-
zazioni (1946-51) riguardarono diversi campi, dalla Banca d'Inghilterra alle
miniere di carbone, dall' aviazione civile alle telecomunicazioni, dalle so-
cietà elettriche ai trasporti, dalla produzione di gas alle industrie siderurgi-
che, anche se queste ultime furono riprivatizzate qualche anno dopo dal go-
25. La ricostruzione dell 'economia mondiale 235

vemo conservatore. Successivamente le nazionalizzazioni riguardarono la


Germania, dove passarono allo Stato la produzione di alluminio, alcune ca-
se automobilistiche e le miniere di carbone, e l' Italia, dove fu nazionalizzata
la produzione e la distribuzione dell'energia elettrica e venne costituito l'Enel
(Ente nazionale per l'energia elettrica, 1962). L' economia mista si estese
dall'Europa a numerosi paesi di altri continenti, in particolare a quelli che
dovevano recuperare un ritardo economico e che ritenevano essenziale l' ap-
porto dello Stato per il loro sviluppo.
La pianificazione, che in Italia si chiamò programmazione, fu adottata in
alcuni paesi europei in forma molto diversa da quella sovietica. Essa non fu
coercitiva ma solamente indicativa e si fondò su un accordo fra le parti so-
ciali (imprenditori e sindacati). La pianificazione fu più incisiva in Francia,
d.o ve si predisposero diversi piani quadriennali, mentre fu meno efficace in
Gran Bretagna e in Italia, dove andò grad11almente perdendo importanza.
Ma gli interventi più consistenti furono quelli che portarono alla nascita
del moderno Welfare State o Stato sociale (o anche <<Stato del benessere>>),
che si proponeva di assicurare - come si disse - l'assistenza a ogni cittadi-
no <<dalla culla alla bara>>. Si è già ricordato che le prime forme di previ-
denza sociale erano state introdotte in Germania da Bismarck sul finire del-
l'Ottocento. Così come si è visto l' intervento dello Stato in diversi paesi
durante la depressione degli anni Trenta, con lo scopo d' introdurre provvi-
denze a favore dei lavoratori (sussidi di disoccupazione, assegni familiari,
ecc.). Il Welfare State moderno, però, nacque in Gran Bretagna, grazie
all'opera dell' economista William Beveridge, che presiedette un comitato
governativo incaricato di avanzare proposte per migliorare il sistema di as-
sicurazioni sociali in vigore. I risultati dei lavori furono raccolti nel cosid-
detto <<Rappo1io Beveridge>>, pubblicato nel 1942, in piena guerra, che di-
venne un best seller (con diverse centinaia di migliaia di copie vendute) e
influenzò le legislazioni sociali di molti Stati.
Secondo Beveridge era necessario giungere a quel la che chiamava <<libe-
razione del bisogno>> dei cittadini, ossia liberazione dalle ristrettezze econo-
miche, dalla malattia, dall' ignoranza, dalla miseria e dalla mancanza di lavo-
ro. Il progetto di Beveridge si basava su tre pilastri fondamentali:
a) un sistema di previdenza sociale capace d'intervenire in tutti i momenti
critici della vita di una persona (disoccupazione, incidente sul lavoro, malat-
tia e vecchiaia);
b) un sistema di assistenza sanitaria universale e accessibile gratuitamen-
te a tutti;
c) una politica economica basata sul pieno impiego e sulla riduzione gene-
ralizzata (fino al l'eliminazione) della disoccupazione.
236 L 'economia contemporanea (1950-2017)

Le proposte di Beveridge vennero messe in pratica dal governo laburista


britannico ( 1948) e furono in seguito accolte da altri paesi, ognuno dei quali
le adattò alle proprie esigenze e alla propria visione del problema. Nei paesi
scandinavi, p er esempio, l'assistenza ai lavoratori e ai cittadini fu più este-
sa, mentre negli Stati Uniti essa non fu applicata in modo generalizzato,
tanto che, per esempio, l' assistenza medica gratuita o semigratuita fu limi-
tata alle persone con basso reddito e agli anziani. G li altri cittadini doveva-
no stipulare un'assicurazione privata per avere la cop ertura delle spese me-
diche. Solo di recente (201 O) una legge di riforma ha ampliato il 11umero
delle persone che godono dell' assistenza pubblica e ha agevolato la stipula-
zione di assicurazioni private.
Lo Stato sociale si rivelò molto costoso e le spese per mantenerlo au-
mentarono notevolmente. Basti pensare che all' inizio del N ovecento, quan-
do gli Stati si limitavano alle funzioni essenziali (cosiddetto <<Stato mini-
mo>> o <<Stato minimale>>), la spesa pubblica sia centrale che locale rappre-
sentava circa il 1O per cento del Pil ed era in gran parte destinata alla difesa,
alle infrastrutture e al mantenimento dell'ordine pubblico e dell' apparato
amministrativo. All' istruzione pubblica, all'assistenza sanitaria e a quella
economica ai meno abbienti e agli anziani andava meno della metà della
spesa complessiva, cioè meno del 5 per cento del Pil. Lo Stato sociale mo-
derno, viceversa, per assicurare tutti questi servizi e il funzionamento del
sistema pensionistico cominciò a spendere, a partire dagli anni Settanta, fra
il 25 e il 35 per cento del Pil in gran parte dei paesi europei. Ai nostri giorni
queste spese assorbono, negli stessi paesi, il 65-70 per cento della spesa
pubblica complessiva, centrale e locale.
I costi del Welfare divennero enormi, anche per molti sprechi cui il si-
stema diede luogo in diversi paesi. I governi furono costretti ad aumentare
la pressione fiscale e dovettero ricorrere sempre più ali ' indebitamento, fa-
cendo lievitare il debito pubblico a cifre gigantesche (spesso superiori allo
stesso Pii). Ciò creò grossi problemi, specialmente quando, con la fine della
fase di espansione economica, vi furono meno risorse finanziarie a disposi-
zio11e. Perciò il Welfare entrò i11 crisi e si dovettero ridurre alcune presta-
zioni, per esempio in materia pensionistica o sanitaria.
238 L'economia contemporanea (1950-2017)

Tab. 26. 1. - Livello del Pil pro capite di alcuni paesi raffrontato con quello del
Regno Unito, per decenni, dal 19 5 O al 201 O

Paesi 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010


I
Regno Unito 100 100 100 100 100 100 100
Stati Uniti 138 131 140 144 141 136 128
Unione Sovietica 41 46 52 50 42
Russia 47 25 36
Giappone 28 46 90 104 114 97 92
Francia 75 86 106 114 107 97 90
Germania 56 89 101 109 97 90 87
Italia 46 63 87 100 99 89 78
Belgio 79 80 99 112 105 99 100
Olanda 86 96 111 114 105 105 102
Svizzera 13 1 144 157 145 131 107 105
Svezia 97 100 118 116 107 99 106
Norvegia 78 83 93 117 112 119 118
Danimarca 100 102 118 118 112 109 99
Spagna 32 36 59 71 73 75 71
Canada 105 101 112 125 115 107 105
Australia 107 102 112 111 105 102 108
Singapore 32 27 41 70 87 101 122
Hong Kong 32 36 53 81 107 105 129
Taiwan 13 16 24 41 60 79 98
Corea del Sud 12 14 20 32 53 71 91
Cina 6 8 7 8 11 16 34
India 9 9 8 7 8 9 14
Messico 34 36 40 49 37 35 32
Brasile 24 27 28 40 30 26 29
Fonte: Dati di A. Maddison, aggiornati al 201 O, tratti dal sito web del Groningen Growth
and Development Centre, all' indirizzo "www.ggdc.net/Maddison" (nostri calcoli).
Nota: I dati della Germania sono riferiti ai confini del 1991 (Germania riunificata).

già stata superata, nel 1950, oltre che dagli Stati Uniti, da Svizzera, Dani-
marca, Canada e A ustralia. N ei decenni successivi, essa fu raggiunta da al-
tri paesi europei e dal Giappone. Dagli anni Ottanta la Gran Bretagna ha di
nuovo superato la Germania e l' Italia e, successivamente, anche diversi al-
tri paesi europei (vedi tab. 26. 1).
La rincorsa iniziata due secoli prima era sostanzialmente terminata.
Ormai, intorno al 1990, i principali paesi industrializzati europei erano più
o meno allineati alla Gran Bretagna, mentre gli Stati Uniti erano defmitivamen-
te diventati la principale potenza economica mondiale. Era ad essi che ormai
gli altri paesi dovevano guardare e nei confronti dei quali esercitare l' azione
26.
DALLA GOLDEN AGE
ALLA CRISI

26.1. La <<golden age>>

Con l'espressione golderz age gli storici fanno riferimento a qu el lungo


periodo di crescita economica continua e stabile, dal 1950 al 1973, che pre-
senta le caratteristiche di una nuova fase a del ciclo Kondratieff. Si trattò di
una vera <<età d ell'oro>>, che riguardò soprattutto i paesi sviluppati, mentre il
divario con i paesi più arretrati si andava allargando, nonostante gli sforzi,
forse non sempre convinti, delle nazioni prospere di fornire aiuti economici
al cosiddetto <<Terzo Mondo>>. Questa locuzione, coniata (1952) dall ' econo-
mista francese Alfred Sauvy, cominciò a essere utilizzato dopo la conferen-
za di Bandung (Indonesia) dei paesi afro-asiatici del 1955, per indicare i
paesi che non vollero identificarsi né con i paes i capitalisti ( <<Primo Mon-
do>>) né con quelli socialisti (<<Secondo Mondo>>). L 'espressione <<Terzo
Mondo>> finì poi per indicare genericamente i paesi sottosviluppati.
Nell'età del l'oro, la crescita del Pil pro capite raggiunse livelli mai regi-
strati prima, soprattutto nelle nazioni u scite sconfitte dalla guerra, come
Giappone, Germania e Italia, mentre più modesti furono i risultati della
Gran Bretagna e degli Stati Uniti, proprio perché partivano da posizioni più
avanzate ed era quindi più difficile realizzare un consistente incr emento del
Pil in termini percentuali (vedi tab. 14.1 ). La crescita fu anche estremamen-
te rapida. Fatto uguale a 100 il Pii pro capite del 1950 dei principali paesi, il
Giappone, la Germania e I 'Italia riuscirono a raddoppiarlo ( in valori costan-
ti) in appena una decina d 'anni (entro il 1960 e il 1963), mentre Stati Uniti
e Gran Bretagna impiegarono più di trent ' anni ( 1984 e 1985). A l tempo
della seconda rivoluzione industriale erano stati necessari tempi molto p iù
lunghi: Stati Uniti e Germania avevano raddoppiato il Pil pro capite d.e l
1850 dopo più di quarant'anni, mentre Gran Bretagna, Francia, Giappone
e Italia ne impiegarono oltre sessanta. La Gran Bretagna (Regno Unito) era
26. Dalla golden age alla crisi 239

Tab. 26.2. - Livello del Pii pro capite di alcuni paesi raffrontato con quello de-
gli Stati Uriiti, per decenni, dal 1950 al 2010

Paesi 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010


Stati Uniti 100 100 100 100 100 100 100
Regno Unito 73 76 72 70 71 73 78
Unione Sovietica 30 35 37 35 30
Russia 34 18 28
Giappone 20 35 65 72 81 71 72
Francia 54 65 76 79 76 71 70
Germania 41 68 72 76 69 66 68
Italia 33 48 62 70 70 65 61
Belgio 57 61 71 78 74 73 77
Olanda 63 73 80 79 74 77 80
Svizzera 95 11O 112 101 93 78 82
Svezia 70 77 85 80 76 73 83
Norvegia 57 64 67 81 80 87 92
Danimarca 73 78 84 82 80 80 77
Spagna 23 27 42 50 52 55 55
Canada 76 77 80 87 81 78 82
Australia 78 78 80 78 74 74 84
Singapore 23 20 30 49 61 74 95
Hong Kong 23 28 38 57 76 77 101
Taiwan 10 12 17 28 43 58 76
Corea del Sud 9 11 14 22 38 52 71
Cina 5 6 5 6 8 12 26
Indi a 6 7 6 5 6 7 1l
Messico 25 28 29 34 26 25 25
Brasile 17 21 20 28 21 19 23
Fonte: Dati di A. Maddison, aggiornati al 2010, tratti dal sito web del Groningen Growth
and Development Centre, all ' indirizzo " www.ggdc.net/Maddison" (nostri calcoli).
Nota: I dati della Germania sono riferiti ai confini del 1991 (Germania riunitìcata).

di catching up, che finora non è riuscita ad alcuna grande nazione (vedi tab.
26.2). Come vedremo, però, dopo un ulteriore ravvicinamento, la crisi iniziata
nel 2008 provocherà una nuova divaricazione fra le economie di questi paesi.
La nuova contrapposizione era fra gli Stati Uniti da un lato e l' Unione
Sovietica e il Giappone dall' altro. Con l'Unione Sovietica si trattò di un
confronto politico, ideologico, militare e anche tecnologico (sfida per la
conquista dello spazio), senza che il paese dei Soviet riuscisse a insidiare la
supremazia economica americana. Il tenore di vita dei Russi rimase me-
diamente sempre molto più basso di quello degli Americani e il Pil pro ca-
pite giunse, negli anni migliori, a poco più di un terzo di quello statuniten-
240 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

se. Il Giappone, viceversa, si pose come un temibile avversario economico,


in grado di muovere concorrenza ai prodotti americani ed europei, soprat-
tutto a quelli ad alto contenuto tecnologico (radio, televisori, automobili,
macchine fotografiche, orologi da polso e così via).
La crescita riguardò tutti i settori. L 'uomo vide aumentare i beni a sua
disposizione, capaci di soddisfare nuovi bisogni, molti dei quali indotti
più dalla moda e da lla pubblicità che dalle sue reali esigenze, sicché si
parlò di consumismo. Si diffusero i beni di consumo durevoli prodotti in
serie, come l' automobile, gli elettrodomestici e i televisori, che poterono
essere venduti (anche con pagamento rateale) a un gran numero di perso-
ne appartenenti a diversi ceti sociali e che venivano sostituiti ancor prima
di terminare la loro vita fisica, per essere rimpiazzati con nuovi modelli.
Erano il <<fordismo>> e il <<taylorismo>> che ormai dagli Stati Uniti si dif-
fondevano nelle nazioni più progredite.
Il commercio internazionale fece registrare un fortissimo incremento,
grazie alla scelta di quasi tutti i paesi di passare progressivamente al libero
scambio e grazie al p erfezionamento dei mezzi di trasporto. Le merci co-
minciarono a viaggiare, dagli anni Sessanta, in capaci <<containers>>, grandi
contenitori metallici di dimensioni standardizzate, che possono essere tra-
sportati indifferentemente su navi, carri ferroviari e autocarri, con un note-
vole abbattimento dei costi. Le imprese multinazionali, infine, crebbero di
numero (nel 2009 erano oltre 82 mila con più di 800 mila filiali) e dispiega-
rono la loro capacità produttiva e di vendita nei principali paesi, raggiungen-
do con i loro prodotti (si pensi alla Coca-Cola) quasi ogni parte del mondo.
La produttività aumentò sulla spinta dello sviluppo tecnologico e consentì
soddisfacenti margini di profitto alle imprese, anche senza che esse fossero
costrette ad alzare i prezzi e persino quando dovettero aumentare i salari.

26.2. I fattori della crescita

La rapida crescita economica del dopoguerra fu dovuta a 11umerosi fattori.


1. Disponibilità di una tecnologia pronta ad essere utilizzata. Nel perio-
do fra le due guerre e durante il secondo conflitto mondiale si erano accu-
mulate molte innovazioni, che non si erano diffuse a livello intemazio11ale,
dapprima per la crisi economica e il protezionismo e poi per la guerra. Alla
fine del conflitto molti paesi poterono attingere a questo serbatoio di inno-
vazioni disponibili, mentre la tecnologia faceva passi giganteschi, con
un'accelerazione incredibile che, in poco tempo, rendeva obsolete quelle
che erano sembrate scoperte fondamentali e durature. La frontiera della
26. Dalla golden age alla crisi 241

tecnologia si spostava sempre più avanti e, fatto importantissimo, riguarda-


va tutti i campi, dalla medicina all'agricoltura, dall'industria ai mezzi di
trasporto, dal lavoro amministrativo alle varie forme di comunicazione.
2. Ruolo dello Stato. In diversi paesi si registrò una forte presenza del
settore pubblico, che da solo concorreva alla formazione di una consisten-
te quota del Pii (da un quarto a un terzo). Lo Stato, che si assunse il com-
pito di stabilizzare la domanda e di garantire l' occupazione, estese le sue
funzioni: fu programmatore, produttore e consumatore di beni e fornitore
di una vasta gamma di servizi e di prodotti. In tal modo, ai consumi e agli
investimenti privati si aggiunsero quelli pubblici e lo Stato contribuì a so-
stenere la domanda, anche per evitare il ripetersi di una situazione simile
a quella degli anni Trenta.
3. Cooperazione internazionale. La cooperazione fra le nazioni, che era
tragicamente mancata nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, si
sviluppò successivamente qua11do furono costituite numerose organizzazio-
ni internazionali. Anche se esse non sempre funzionarono bene, riuscirono
tuttavia ad assicurare un clima di cooperazione fra le nazioni, con frequenti
incontri di capi di Stato e di governo, pur fra le continue diffidenze che
caratterizzarono i loro rapporti. In Europa furono molto positivi gli effetti
del processo d 'integrazione economica, avviata con la costituzione del
Mercato comune.
4. Formazione del capitale umano. Quasi dappertutto si raggiunse un più
elevato grado d' istruzione della popolazione e si riuscì ad abbattere
l'analfabetismo. I paesi di antica industrializzazione, ma anche parecchi paesi
meno sviluppati, impostarono vasti programmi di alfabetizzazione e investi-
rono molte risorse nell' istruzione di base dei loro cittadini, in modo da met-
terli in condizione d'inserirsi in un mondo del lavoro in cui quasi nessuna at-
tività produttiva poteva ormai essere svolta senza un'adeguata preparazione.
5. Disponibilità di capitali e sistema dei cambi fissi. L 'economia poté
giovarsi di un' abbondanza di capitali, i quali peraltro si potevano facilmen-
te spostare da un paese all'alh·o, e del sistema dei cambi fissi inaugurato a
Bretton Woods, con il dollaro diventato la moneta dei pagamenti interna-
zionali, che facilitò notevolmente gli scambi.
6. Bassi prezzi delle materie prime e bassi salari. I bassi prezzi delle
materie prime e i bassi salari consentirono di ottenere beni di consumo a
costi contenuti. In particolare i bassi salari, dovuti all'abbondanza di mano-
dopera ( anche per il massiccio esodo dalle campagne), garantirono alle im-
prese per due decenni un costo del lavoro non elevato, specialmente nei pa-
esi europei, dove si era anche realizzata una relativa facilità di movimento
dei lavoratori grazie a l Mercato comune.
242 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

26.3. La crisi: la fine del sistema dei cambi fissi

Il periodo d'intenso sviluppo economico che aveva caratterizzato il dopo-


guerra s'interruppe a ll 'inizio degli anni Settanta, proprio quando sembrava ad
alcuni che i cicli economici fossero un ricordo del passato e che la crescita
sostenuta dell' economia dovesse costituire una condizione permanente. A li-
vello mondiale, l'incremento del Pii pro capite, che era stato dell'ordine del
2,9 per cento all' anno fra il 1950 e il 1973, si ridusse all'l,6 per cento nel
trentennio successivo. Solo il Pii pro capite dei paesi asiatici crebbe più velo-
cemente, mentre tutti gli altri rallentarono. Molto forte fu il rallentamento del
Giappone, mentre l'Europa orientale e l' Unione Sovietica fecero registrare
un vero crollo. L ' età dell' oro era defmitivamente tramontata. La domanda
aumentò molto più lentamente, la prod.uzione industriale ristagnò, il com-
mercio internazionale rallentò, la disoccupazione riprese a crescere, portan-
dosi a livelli elevati, e l' inflazione aumentò rapidame11te, assumendo propor-
zioni registrate solo in tempo di guerra. Tuttavia - è bene ripeterlo - non bi-
sogna pensare a un I.u ngo periodo di recessione. L'economia mondiale e
quella dei singoli Stati continuarono complessivamente a crescere, sia pure
più lentame11te. Il Pii pro capite mondiale, che si era quasi raddoppiato nei
ventitré anni compresi fra il 1950 e il 1973 (in valori costanti), riuscì ancora a
crescere del 36 per cento nei successivi ventitré anni (1973-96).
Due eventi in particolare segnarono l' inizio del nuovo periodo: il crollo
d.el sistema monetario internazionale e gli <<shock petroliferi>>. Il sistema
varato a Bretton Woods funzionò abbastanza bene per circa un quarto di
secolo e i cambi rimasero stabili. G li Stati Uniti continuarono a emettere
d.o llari con i quali pagavano le loro spese (Piano Marshall, mantenimento
del le truppe americane al l'estero, aiuti ai paesi del Terzo Mondo e guerra
del Vietnam, durata dal 1961 al 1975). N ella prima metà degli anni Sessan-
ta, però, diversi paesi, in particolare la Francia guidata da Charles De Gaul-
le, cominciarono a chiedere il cambio in oro dei dollari da essi detenuti. Ciò
contribuì alla riduzione delle riserve auree degli Stati Uniti che, fra il 1958
e il 1968, calarono dal 47 al 25 per cento dell' enorme quantità di dollari che
avevano emesso e buona parte dei quali era rimasta fuori dei loro confini.
I principa li paesi europei, dal canto loro, non riuscirono a garantire la parità
con l' oro delle proprie monete e, fra il 1967 e il 1969, quelli con un' econo-
mia meno solida (Gran Bretagna e Francia) dovettero svalutarle, mentre la
Germania fu costretta a rivalutare il marco.
Il sistema dei cambi fissi vacillava. Anche la moneta americana fu sot-
toposta a pressioni speculative da parte di chi ne prevedeva la svalutazione,
sicché il 15 agosto del 1971, il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon,
26. Dalla golden age alla crisi 243

dichiarò l'inconvertibilità del dollaro, che da allora non si poté più cambia-
re in oro e fu lasciato fluttuare liberamente sul mercato. Un accordo fra die-
ci paesi (detto <<Smithsonian Agreement>>, dal nome dell' istituzione di Wa-
shington che ospitò l'incontro), mediante il quale si cercò di ripristinare un
sistema di cambi fissi con la quotazione ufficiale dell'oro a 38 dollari
l'oncia, durò solo due anni e, nel 1973, il gold exchange standard fu defini-
tivamente abbandonato. Da allora i cambi divennero fluttuanti, ossia deter-
minati in base alla domanda e all'offerta delle valute.
Pure se era diventato i11convertibile, il dollaro rimase la moneta interna-
zionale per eccellenza e continuò a essere accettato dappertutto per la fidu-
cia che si aveva nella solidità dell'economia statunitense. Anzi, la sua quo-
tazione riprese a crescere e raddoppiò in una decina di anni, rispetto alle
principali valute europee. Molti paesi, specialmente asiatici e latinoameri-
cani, ancorarono le loro monete al dollaro, nel senso che stabilirono un tasso
di cambio fisso con la moneta americana, in modo da eliminare il rischio di
cambio e favorire gli investimenti esteri. Ma risultò difficile, specialmente
per i paesi con economie più debol i, conservare la parità fissata con il dolla-
ro, anche perché contro le loro monete si accanì la speculazione, resa pos-
sibile proprio dalla variabilità dei cambi. A fine secolo, perciò, molti di essi
furono costretti a sganciare le loro monete dal dollaro, lasciandole fluttuare
liberamente sul mercato, con una loro inevitabile svalutazione.

26.4. La crisi: gli shock petroliferi

L 'altro evento che segnò l'inizio della crisi fu il primo shock petrolifero
del 1973. In Medio Oriente vi era una situazione instabile da quando, nel
1948, si era costituito lo Stato di Israele, appoggiato dai paesi occidentali. Es-
so si era subito trovato in contrasto con i Palestinesi che abitavano quelle ter-
re da secoli, anche perché gli Ebrei provenienti dall'Europa, dove durante la
guerra erano stati crudelmente perseguitati dai nazisti, diventavano sempre
più numerosi. Le rivalità con i Palestinesi e con gli arabi degli Stati limitrofi
si acuirono, portando a diversi conflitti, tutti vinti da Israele. Quando scoppiò
la quarta guerra arabo-israeliana (1973), detta del Kippur (dal nome di una
festività ebraica), alcu11i paesi esportatori di petrolio, riuniti fin dal 1960
nell'Opec (Organization of Petroleum Exporting Countries), un' organizza-
zione promossa dal Venezuela ma della qu,a le facevano parte quasi solo paesi
arabi, decisero di penalizzare gli Stati che avevano appoggiato Israele. Essi
ridussero la produzione di petrolio e aumentarono il prezzo, che arrivò a qua-
drup licarsi in pochi mesi, passando da 3 a 12 dol lari al barile (159 litri).
244 L 'economia coritemporanea (1950-2017)

I paesi industrializzati, che dipendevano dall' importazione di petrolio


per il funzionamento delle loro fabbriche e per i loro consumi di massa, su-
birono un vero shock e furono costretti a iniziare una politica di risparmio
energetico. La <<bolletta petrolifera>>, come venne chiamato il costo dell' im-
portazione del petrolio, fu particolarmente p esante per i paesi che dovevano
acquistarlo all'estero, come quelli dell'Europa occidentale, dove solo nella
piattaforma continentale del Mare de l Nord erano stati rinvenuti da poco
(1969) ricchi giacimenti, poi sfruttati da Gran Bretagna e Norvegia.
Dopo qualche anno, nel 1979, si verificò un secondo shock p etrolifero,
quando venne a mancare la produzione iraniana, in seguito alla rivo luzione
islamica in quel Paese, che portò al potere gli estremisti religiosi e pose fine
al processo di modernizzazio11e precedentemente avviato. Il prezzo del p e-
trolio aumentò ancora una volta in modo consistente, giungend.o a raddop-
piarsi in poco tempo, sicché nel 1980 esso costava ormai 30 dollari al bari-
le, vale a dire dieci volte il prezzo del 1973. In seguito agli shock petroliferi
divenne conveniente ricorrere sempre più al gas nati,rale (specialmente
metano), pera ltro meno inquinante di carbone e petrolio, la cui produzione
aumentò del 67 per cento fra il 1973 e il 1994 ( da 1.300 a 2.170 miliardi di
metri cubi), mentre nel frattempo la produzione di petrolio cresceva solo
dell' l l per cento (da 2.700 a 3.000 milioni di tonnellate).
L'aumento del prezzo del petrolio ebbe due effetti principali: fece cr e-
scere i costi di produzione e di distribuzione di tutti i beni e mise a disposi-
zione dei paesi esportatori di petrolio un'enorme quantità di dollari, che si
dissero p etJ•odollari (oildollars). Quelli affluiti soprattutto nei paesi arabi
(Arabia Saudita e Kuwait ebbero 37 miliardi di dollari in più all' anno) ven-
nero utilizzati per spese improduttive (armi, consumi di lusso degli sceic-
chi, ecc.) o depositati in banche estere. I governanti di quei paesi non im-
piegarono questo enorme flusso di d.e naro per avviare lo sviluppo interno.
La maggior parte dei petrodollari fu depositata presso le banche europee e
americane, le quali, non potendoli investire tutti nelle imprese occidentali,
peraltro in difficoltà dopo la crisi petrolifera, li prestarono ai paesi in via di
sviluppo, che ne avevano bisogno specialmente per pagare le loro importa-
zioni di petrolio. Si venne a creare, così, un colossale indebitamento di mol-
ti paesi dell'Asia, dell'Africa e dell' America Latina (più qualche paese
dell' Europa orientale, come la Polonia e la Jugoslavia), che alla fine del
1986 aveva raggiunto l'enorme ammontare di mille miliardi di dollari.
I prestiti erano stati contrattati in dollari e a tassi variabili, vale a dire a
un tasso che, periodicamente, sarebbe at1mentato se i tassi d' interesse (quelli
del mercato di Londra, assunti come riferimento) fossero aumentati e sareb-
be diminuito se i tassi d' interesse fossero diminuiti. Siccome i tassi d' inte-
26. Dalla golden age alla crisi 245

resse aumentarono, per via dell'inflazione che colpì i paesi avanzati, e il dol-
laro si apprezzò sulle altre monete, cioè divenne più caro, il peso per i paesi
debitori (per capitali da rimborsare e interessi da corrispondere) si fece in-
sopportabile. Nel 1982, il problema esplose in tutta la sua drammaticità e il
Messico fu costretto a chiedere una moratoria dei pagamenti.
Poiché non era pensabile che le banche creditrici potessero fallire, inter-
vennero il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e i governi
dei paesi industrializzati, che concessero ulteriori prestiti con i quali i paesi
debitori poterono rimborsare le banche occidentali. In tal modo, il debito
contratto con banche private divenne pubblico, nel senso che ora il debito
era verso governi stranieri o istituzioni pubbliche internazionali. Molti pre-
stiti vennero rinegoziati, con riduzio11i e ampie dilazioni nei pagamenti, e si
cominciarono anche a cancellare quelli verso i paesi più poveri. Il Fondo
monetario internazionale (il principale fmanziatore) impose politiche di au-
sterità ai paesi debitori, che furono costretti a prendere drastiche misure di
risanamento dei loro bilanci e provvedimenti per favorire le esportazioni, in
modo da procurarsi i dollari necessari a l pagamento dei debiti, ma sottraen-
do così risorse ai consumi e agli investimenti interni. La crisi si fece meno
grave quando i tassi d ' interesse cominciarono a diminuire a mano a mano
che l' inflazione dei paesi avanzati veniva domata. I nuovi prestiti ottenuti,
ancora una volta, non furono utilizzati per progetti d'investimento a favore
dello sviluppo economico, ma per pagare le importaz ioni, sostenere i consu-
mi, compresi quelli di lusso delle élites, e fmanziare progetti spesso inutili.

26.5. Stagflazione e disoccupazione

L'inflazione galoppante che caratterizzò gli anni Settanta e Ottanta ebbe


diverse cause:
a) l' aumento del prezzo del petrolio, che comportò un incremento del
costo dei trasporti e della produzione di energia elettrica, con conseguente
crescita dei prezzi dei manufatti e dei prodotti agricoli;
b) l'aumento dei salari, rivendicato dai sindacati nei principali paesi svi-
luppati, che provocò un incremento del costo di produzione dei beni e
quindi dei loro prezzi;
c) l'aumento della domanda dei beni ( materie prime, fonti di energia e
generi alimentari), a causa dell'incremento demografico e della comparsa
sui mercati di consumo di nuovi paesi.
Per la prima volta un lungo periodo inflazionistico si verificò in tempo
di pace contemporaneamente a una fase negativa del ciclo economico, sic-
246 L 'eco11omia contemporanea (1950-2017)

ché si coniò il termine stagflazione, proprio per indicare la coesistenza di


stagnazione e inflazione. Il vantaggio dei paesi esportatori di petrolio, dovu-
to alla massa di petrodollari che furono in grado di accumulare, non durò a
lungo. Quando anche i prezzi dei manufatti dei paesi industrializzati comin-
ciarono ad aumentare per via dell'inflazione, la ragione di scambio fra manu-
fatti e petrolio ritornò ai livelli reali precedenti.
La disoccitpazione assunse dimensioni simili a quel le dell'immediato
dopogue1Ta. L 'azione sindacale ne uscì indebolita e non fu in grado di osta-
colare, in Europa, forme di lavoro flessibile e precario, sconosciute all' età
dell'oro. Aumentarono dappertutto la libertà delle imprese di assumere e di
licenziare la manodopera e la possibilità di stipulare contratti a tempo de-
terminato o con orario ridotto. Il settore terziario si sviluppò ulteriormente e
riuscì ancora ad assorbire manodopera, almeno in alcuni rami, mentre l'au-
tomazione industriale rendeva necessario un numero sempre più ridotto di
addetti per produrre un quantitativo sempre maggiore di beni. L 'elettronica
e la robotica, con l' impiego di sofisticati macchinari che sostituiscono il
lavoro dell'u omo, contribuirono a rivoluzionare i processi produttivi e il
modo di vivere e di lavorare. Gli economisti, a tal proposito, hanno parlato
dijobless growth, ossia di crescita economica senza creazione di nuovi po-
sti di lavor o.

26.6. Dal fordismo al postfordismo

Lo stesso modello di sviluppo fordista, o taylor-fordista, cominciò ad


evolvere verso un nuovo modello, chiamato, per convenzione, postfordista.
Il fordismo, caratterizzato dalla produzione di massa, attuata mediante la
catena di montaggio e assicurata dalla grande impresa, produceva per un
mercato in continua espansione, alimentato dall'aumento del reddito delle
famiglie. Il nuovo modello postfordista, viceversa, sperimentato dalla fab-
brica automobilistica giapponese Toyota, si proponeva di abbandonare la
produzione basata sulla catena di 1nontaggio (mass production) per passare
alla cosiddetta <<produzione snella>> (lean production), più adatta alle mutate
esigenze del mercato e in grado di sfruttare le nuove tecnologie dell'infor-
mazione e delle comunicazioni.
Il modello fordista si era diffuso nel dopoguerra dagli Stati Uniti al-
l'Europa occidentale, al Giappone, al Canada, all'Australia e a qualche pae-
se asiatico. Esso s i adattava particolarmente alla produzione di automobili,
le cui vendite stavano aumentando, ma anche al comparto aeronautico, a
quello degli elettrodomestici tradizionali e, dagli anni Cinquanta, a un nuo-
26. Dalla golden age alla crisi 247

vo prodotto di massa: i televisori. Queste industrie trascinarono altri com-


parti, come la siderurgia, la plastica, l'industria petrolifera, quella dei pneu-
matici, dell' elettricità e così via. La televisione, inoltre, contribuì notevol-
mente, attraverso la pubblicità, a far crescere i consumi e quindi a spingere
le imprese ad aumentare le loro dime11Sioni per sfruttare meglio le economie
di scala. I guadagni realizzati dalle grandi imprese e l' i11cremento della pro-
duttività del lavoro permisero di mantenere e anche d' incrementare i salari
reali, sicché il sistema poteva continuare ad autoalimentarsi.
A partire dagli anni Settanta, il modello fordista entrò in crisi per diver-
se ragioni. Innanzitutto la possibilità di realizzare economie di scala in d.e-
terminati rami produttivi si andava esaurendo. La produzione, difatti, una
volta spinta fino a sfruttare interamente gli impianti esistenti, richiedeva la
costruzione di nuovi impianti, che sarebbero stati utilizzati solo in parte per
le necessità aggiuntive dell'azienda. Ciò avrebbe provocato un aumento dei
costi unitari e quindi avrebbe reso inefficaci le economie di scala. Inoltre, i
mercati di determinati beni di consumo durevoli si stavano saturando e la
domanda cominciava a diminuire, per stabilizzarsi a livelli più bassi. Si
pensi, per esempio, al mercato delle automobili, delle moto, degli elettro-
domestici o dei televisori: quando quasi tutti i consumatori sono venuti in
possesso di tali beni, la domanda ulteriore si riduce alla loro sostituzione e
non vi è più, come prima, una domanda in crescita che consenta di aumen-
tare continuamente la produzione. Nel settore terziario, inoltre, risultava più
difficile realizzare consistenti economie di scala e molte aziende di servizio
assunsero funzioni che prima erano svolte dalle grandi imprese, per conto
delle quali ora esse lavoravano.
Si andò affermando allora il nuovo modello della produzione snella, che
si fondava, in particolare, su una maggiore flessibilità operativa. Le grandi
fabbriche fordiste, difatti, non potendo realizzare ulteriori economie di sca-
la, anche perché erano venute meno alcune condizioni favorevoli, come la
disponibilità di energia a buon mercato, fecero ricorso al decentramento e
alla delocalizzazione:
a) il decentramento produttivo consiste nell' affidare determinate opera-
zioni o lavorazioni ad aziende più piccole ( estemalizzazione), sulle quali
scaricare il rischio d' impresa; si venne a costituire un complesso sistema di
subforniture molto flessibile, che consentiva di aumentare o ridurre la pro-
duzione con una certa facilità: se gli affari fossero andati male, sarebbe sta-
to il subfornitore a risentirne maggiormente fino al fallimento ;
b) la delocalizzazione consiste nel trasferire alcune fasi del processo
produttivo o l' intero processo in paesi dove vi sono condizioni più favore-
voli, in particolare bassi costi della manodopera e una tassazione contenuta.
248 L 'economia contemporanea (1950-201 7)

U lteriori risparmi si realizzarono, per esempio, riducendo le scorte di


magazzino, le quali, con i nuovo mezzi di comunicazione e di trasporto, po-
tevano essere facilmente fatte giungere just in time, poco prima della loro
utilizzazione.
Si applicarono anche differenti modalità lavorative, ch e portarono alla
graduale riduzione del ripetitivo lavoro alla catena di montaggio, sostituito
con nuove forme, basate sul lavoro di gruppo e su una pluralità di mansioni
affidate al dipendente. Diminuì, p erò, la sicurezza del posto di lavoro e i la-
voratori furono costretti a cambiare spesso occupazione, sicché divenne dif-
ficile p er un individuo restare p er tutta la vita presso la stessa azienda o
svolgere le stesse mansioni. In questo modello l ' impresa divenne più legge-
ra, agile e snella, capace di adattarsi alle variabili esigenze della produzione
e della domanda.
Un 'altra caratteristica del periodo in esame fu la costituzione di molte
piccole e medie imprese, spesso concentrate in alcune zone, che assunsero
le caratteristiche di distretti industriali, come furono chiamati in Italia, o
<<clusters industriali>>, come si dissero n egli Stati Uniti.
Il modello fordista, tuttavia, non scomparve. Se esso aveva ceduto il po-
sto al nuovo modello di sviluppo nei paesi più industrializzati, fu, in qual-
che modo, esportato nei paesi in via di sviluppo. Qui era ancora possibile
sfruttare le economie di scala e contare su una manodopera a buon mercato.
Così il modello fordista ha continuato a funzio11are in alcuni settori produt-
tivi in C ina, in India e in altri paesi asiatici.
27.
NEOLIBERISMO
E GLOBALIZZAZIONE

27.1. Le politiche neoliberiste

Con la svolta degli anni Settanta si modificò il ruolo dello Stato nell' e-
conomia. I liberisti avevano sempre sostenuto che il mercato sarebbe stato
capace di risolvere autonomamente le crisi e perciò ritenevano che lo Stato
dovesse limitarsi alle sue funzioni essenziali, predisponendo un insieme di
regole generali per tutelare la proprietà privata, assicurare il rispetto degli
obblighi contrattuali, gara.ntire la stabilità della moneta e favorire lo svilup-
po di mercati liberi e aperti. A partire dalla Grande depressione degli anni
Trenta, le teorie liberiste non erano state giudicate idonee ad affrontare eri-
solvere i problemi delle complesse economie mod.erne e avevano perso vi-
gore. John M. Keynes aveva fornito la giustificazione teorica all'intervento
dello Stato e le sue teorie si affermarono dappertutto nel seco11do dopoguer-
ra. Secondo il suo pensiero, l' intervento statale era considerato l'unico mo-
do per rimediare alle carenze del capitalismo e del mercato e assicurare il
pieno impiego dei fattori produttivi. I governi attuarono gradualmente poli-
tiche ispirate alle teorie dell'economista inglese.
Esauritasi la fase espansiva del dopoguerra, i neoliberisti ripresero il so-
pravvento sui keynesiani e riproposero, sia pure sotto forme più sofisticate,
le teorie sulla capacità del mercato di autoregolarsi. Negli anni Ottanta, le
politiche economiche ispirate a questa corrente di pensiero trovarono i loro
più convinti sostenitori nel presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan
(1981-89), e nel primo ministro britannico, Margaret Thatcher (1979-90),
tanto che si parlò di reaganismo (o reaganomics ) o thatcherismo.
In quegli anni, i governi erano preoccupati principalmente dell'inflazione
e non della disoccupazione e, perciò, si affidarono alle idee dei monetaristi,
che insistevano sulla necessità di una moneta solida, anche se ciò compor-
tava il ricorso a politiche monetarie restrittive. I neoliberisti, inoltre, al con-
250 L 'economia contemporanea (1950-2017)

trario dei keynesiani che puntavano sul sostegno della domanda, propone-
va110 u11a politica dal lato dell 'offerta (supply-side), capace di garantire il
funzionamento dei mercati e assicurare la crescita economica. Secondo
questa teoria, era necessario:
a) attuare una decisa deregolamentazione dei mercati (deregi,lation ), ri-
muovendo norme e regolamenti che ne impedivano il libero funzionamento,
come la fissazione di salari minimi o i controlli sulle operazioni finanziarie;
b) introdurre forti sgravi f iscali (e quindi una diminuzione della spesa
pubblica), nella convinzione che, riducendo le imposte da pagare, special-
mente ai più ricchi, si sarebbe consentito loro di spendere di più e sostenere i
consumi privati, anche se ciò avrebbe comportato (come infatti ha comporta-
to) un aumento delle disparità sociali, che i sostenitori della supply-side rite-
nevano un fenomeno del tutto temporaneo, perché alla fme il benessere si sa-
rebbe progressivamente propagato dai ricchi alle altre categorie.
E, infme, se K eynes aveva visto l' intervento dello Stato come una conse-
guenza del fallimento del mercato, i neoliberisti sottolineavano il fallimento
dello Stato, che con il suo intervento impediva il libero funzionamento del
mercato. Chiesero, perciò, il drastico ridimensionamento della sua presenza
nell' attività economica e con essa anche la revisio11e dell' impalcatura del
Welfare State. Ronald Reagan sosteneva che lo Stato non era la soluzione
dei problemi, ma era esso stesso il problema. Quando, però, negli anni
2008-09 esplose una nuova grave crisi, favorita dall' eccessiva libertà del
mercato, in particolare di quello finanziario, il prestigio dei neoliberisti
sembrò incrinarsi, e anche molti di coloro che fino a poco tempo prima a-
vevano avversato l' inger enza dello Stato nell'economia, reclamarono a
gran voce il suo intervento. Si chiesero massicce iniezioni di d.e naro a so-
stegno delle imprese e delle banche in diffico ltà e a favore dei redditi delle
famiglie per sostenere i consumi, nonché nuove e più efficaci regole per ga-
rantire un più corretto funzionamento dei mercati.
Negli anni precedenti, però, nonostante le politiche indicate dai neoliberi-
sti, era stato possibile ridurre solo in parte la presenza dello Stato nell'eco-
nomia. Se risultò abbasta.nza agevole liberalizzare i mercati e privatizzare pa-
recchie banche e imprese, finite nelle mani dello Stato per i salvataggi degli
anni Trenta o con le nazionalizzazioni del dopogu erra, risultò molto più diffi-
cile contenere i costi del Welfare. Ormai i cittadini ritenevano una conquista
irrinunciabile le prestazioni fornite dallo Stato e non ne avrebbero accettato la
riduzione, specialmente in un periodo di crisi. I governi, perciò, per conserva-
re tali serviz i, dovettero indebitarsi ulteriormente e il debito pubblico non fe-
ce che crescere, creando non pochi problemi a parecchi paesi, che dovettero
pagare interessi più elevati per collocare i loro titoli sul mercato.
27. Neoliberismo e g lobalizzazione 251

27.2. La globalizzazione

La ristrutturazione economica e le politiche neoliberiste adottate in se-


guito alla crisi degli anni Settanta favorirono la globalizzazione dell 'eco-
nomia (dall'inglese global, che sta per mondiale). Con questo termine, che
s' iniziò ad usare negli anni Ottanta, s'intende il fenomeno che ha portato al-
la formazione di un mercato mondiale dei fattori della produzione, dei pro-
dotti, dei serv izi, del lavoro e dei capitali. Ciò è stato reso possibile dal pro-
gresso tecnologico, in particolare nel campo dell' i11formazione e della co-
municazione, che permette di effettuare transazioni finanziarie con imme-
diatezza, e in quello dei trasporti, che consente di trasferire merci e persone
a grande distanza a costi molto contenuti.
La globalizzazione dei mercati non è un fenomeno del tutto nuovo. Per
tacere dell' espansione dei traffici internazionali nei secoli XVI-XVII, si può
ricordare che già durante la Belle époque si era formato un vasto mercato
mondiale di molti beni e servizi, oltre che dei capitali e della manodopera.
Sicuramente, però, ai nostri giorni il fenomeno ha coinvolto un numero mol-
to maggiore di paesi e, inoltre, non riguarda solo l'ambito economico. La
globalizzazione, difatti, investe tutte le sfere della vita sociale, come la cul-
tura, le istituzioni, le comunicazioni e la tecnologia. Ormai gli uomini di
quasi tutto il mondo hanno accesso alle medesime informazioni, special-
mente tramite la rete, sicché hanno gusti, preferenze, opinioni e modelli di
comportamento molto simili.
La globalizzazione economica è stata senza dubbio agevolata dall' atti-
vità delle imprese mi,ltinazionali, le cui unità all' estero ormai godono di
una più ampia autonomia operativa (si parla perciò di <<imprese transnazio-
nali>>). La conseguenza è stata un' enorme intensificazione degli scambi e
degli investimenti internazionali, che comportano una maggiore interdipen-
denza delle diverse economie. In tal modo - ed è questa un' altra caratteri-
stica della globalizzazione - le decisioni assunte in un qualsiasi punto del
Pianeta o gli avvenimenti che vi si verificano fanno sentire i loro effetti an-
che in luoghi molto lontani.
Negli ultimi decenni, inoltre, più di due miliardi di persone sono entra-
te pienamente o parzialmente nei circuiti di mercato. Sono principalmente
la classi medie dei paesi e1nergenti che hanno incrementato i loro consumi
e che crescono a ritmo elevato. Munite di una certa capacità di spesa, le
classi medie costituiscono un elemento propulsivo dello sviluppo econo-
mico e sociale in ogni paese. Esse forniscono gli imprenditori che creano
posti di lavoro, sostengono la necessità di migliorare il capitale umano e
di favorire il risparmio e spingono la classe politica a investire in beni
252 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

pubblici fondamentali per lo sviluppo economico (istruzione, salute, in-


frastrutture, ecc).
La globalizzazione ha ricevuto consensi entusiastici e critiche violente. I
suoi fautori ritengono che essa può condurre ad un mondo più ricco, più li-
bero e più equo, contribuendo a ridurre la distanza fra paesi sviluppati e pa-
esi in via di sviluppo e uniformando prezzi e salari a livello mondiale. I suoi
avversari, viceversa, sostengono che essa, guidata dalle multinazionali e
dalla finanza, porterà a una nuova forma di sfruttamento dei paesi sottosvi-
luppati, non sempre in grado di far sentire la loro voce e difendere i loro in-
teressi. Né riuscirà a far diminuire la povertà mondiale, ma farà aumentare
l'inquinamento e provocherà un'ulteriore distruzione di risorse naturali. In
mezzo a queste due posizioni estreme stanno coloro - e probabilmente sono
la maggioranza - che ritengono la globalizzazione un fenomeno ormai irre-
versibile, il quale, però, deve essere governato e regolamentato sia per evi-
tare che possa nuocere alla convivenza fra i popoli, alla democrazia e al-
l' ambiente, sia per accrescere i suoi effetti positivi. Non vi è dubbio, tutta-
via, che le economie emergenti hanno cominciato a essere più dinamiche
proprio mentre si assisteva ad un ampliamento dei rapporti economici e
commerciali a livello internazionale. Sembra anche che i paesi maggior-
mente integrati nell'economia mondiale siano cresciuti, negli ultimi anni,
più dei paesi non globalizzati.
Va rilevato, infine, che di recente la globalizzazione sta forse assumen-
do caratteristiche nuove, nel senso che si stanno formando delle unioni
economiche a carattere continentale in grado di rappresentare interessi più
vasti di quelli dei singoli Stati. Oltre all'Unione Europea, alla quale spesso
si richiamano, si sono formate altre organizzazioni economiche di vaste
dimensioni. La più antica è l' Asean (Association of South East Asian Na-
tions), sorta nel 1967 con lo scopo di promuovere la cooperazione e l'assi-
ste112a reciproca fra gli Stati membri per accelerare il progresso economico.
Essa raggruppa una decina di paesi del Sudest asiatico (Indonesia, FiHppi-
ne, Vietnam, Thailandia, Birmania, ecc.) e ha stipulato trattati di amicizia e
cooperazione co11 quasi tutti gli Stati vicini, compresi India, Cina e Giappo-
ne. Molto più tardi, nel 1994, nacque il Nafta (North American Free Trade
Agreement) fra Stati Uniti, Canada e Messico, con lo scopo di creare un
grande mercato nordamericano mediante la progressiva eliminazione delle
barriere tariffarie fra i paesi che vi aderiscono. Nel 2002 è sorta l'Unione
Africana, che comprende tutti gli Stati africani, tranne il Marocco, per acce-
lerare l' integrazione politica, sociale ed economica del continente. Nel 2008,
infine, si è costituita l'Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane), che si
propone d.i coordinare le politiche economiche, sociali e culturali del conti-
27. Neoliberismo e globalizzazio11.e 253

nente e di giungere a lla creazione di un mercato unico e persino di una mone-


ta comune. Come si vede, ormai esistono grandi organizzazioni economiche
in tutti i continenti, abbastanza autosufficienti dal punto di vista economico,
le quali, se avranno successo, pur operando in concorrenza fra di loro, po-
tranno probabilmente collaborare per assicurare un più equilibrato sviluppo
economico mondiale e correggere alcune distorsioni della globalizzazione.

27.3. La globalizzazione finanziaria

Una particolare importanza riveste la globalizzazione finanziaria, che ha


portato alla formazione di un mercato mondiale dei capitali, sul quale essi
si muovono in tempo reale da una parte all'altra del Pianeta. Ciò ha prodot-
to un' espansione senza precedenti dell'economia finanziaria, che in genere
viene contrapposta alla cosiddetta economia reale, costituita dalla produ-
zione e dalla vendita di beni e servizi. Si parla anche di fina nziarizzazione
dell'economia per indicare il ruolo predominante che la finanza ha assunto
nell' economia dei principali paesi, come Stati Uniti, Unione Europea e
Giappone, che da soli gestiscono la stragrande maggioranza del sistema fi-
nanziario mondiale.
Per cercare di comprendere questo fenomeno bisogna ricordare che i ca-
pitali in cerca di investimenti provengono principalmente dalle banche e
dagli investitori istituzionali. Gli investitori istituzionali sono società o enti,
obbligati, per legge o per il loro statuto, a impiegare i fondi disponibili in ti-
toli o in immobili : si tratta prevalentemente di fondi comuni 1, di fondi pen-
sione 2 e di compagnie di assicurazione 3• I capitali gestiti da banche e inve-
stitori istituzionali appartengono, perciò, ai depositanti (quelli affidati alle

1
! fondi comuni d 'investimento sono organismi d'investi mento collettivo, che raccolgono
quote di partecipazione dai risparmiatori e le impiegano in titoli, provvedendo a di videre il
guadagno fra i partecipanti, dedotte le spese di gestione. In tal modo, si consente anche a picco-
lj risparmiatori di investire fondi che altrimenti non sarebbero in grado di impiegare convenien-
temente se operassero da soli.
2
1/ondi pensione sono t1na fonna di previdenza a favore dei lavoratori di un'impresa o di
una categoria professionale. Gli iscritti al fondo versano dei contributi per ottenere una pensi o-
ne all 'epoca prestabilita e i gestori dei fondi investono in vario modo le somme raccolte, per
accrescere il capitale destinato all 'erogazione delle prestazioni. Nei paesi anglosassoni (Regno
Unito, Usa, Canada, Australia, ecc.) e in qualche altra nazione, come Olanda e Giappone, le
pensioni sono prevalentemente assicurate da fondi pensione privati, 1nentre nel continente eu-
ropeo vi provvede per lo più la previdenza pubblica.
3
Le con1pagnie di assicurazione devono investire proficuamente i pre1ni riscossi dagli as-
sicurati . Tali premi costituiscono in sostanza il fondo al quale attingere per risarcire i danni al
verificarsi dell 'evento per il q1.1ale si è stipulato tm contratto di assicurazione.
254 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

banche), ai risparmiatori in cerca d'impiego (fondi comuni), ai lavoratori


(fondi pensione) e agli assicurati (compagnie di assicurazione). I manager
( superpagati) di queste istituzioni guidano in sostanza la fmanza internazio-
nale e, con le loro decisioni, influenzano l'andamento dei mercati. Il sistema
finanziario internazionale, perciò, è costituito da una quantità enorme di rap-
porti di credito e debito, i cui titolari sono sparsi nel mondo intero.
Negli ultimi decenni g li investimenti finanziari hanno assunto sempre
più un carattere fortemente speculativo, nel senso che gli investitori punta-
no al guadagno immediato sia con la classica compravendita dei titoli (s i
acquista per rivendere dopo breve tempo appena il loro prezzo sale) sia so-
prattutto con altre forme di contrattazioni, che si sono notevolmente diffuse
all' inizio del nostro secolo. Si tratta di operazioni note da tempo, ma che di
recente hanno assunto caratteri particolari, come i contratti a termine 4 e le
operazioni di <<arbitraggio>> 5 •
I titoli trattati sui mercati finanziari, inoltre, non sono più soltanto azioni
e obbligazioni di società impegnate in attività produttive oppure titoli di
Stato. Specialmente dopo il 2000, gli strumenti finanz iari si sono moltipli-
cati per il gran numero di derivati che sono stati immessi sul mercato. Con
questo termine si fa riferimento a titoli il cui valore dipende (<<deriva>>) da
un valore sottostante, che può essere qualsiasi cosa (merce, titoli, tassi di
interesse, valore delle monete, nolo delle navi, andamento del clima, ecc.).
Il maggior numero di questi titoli è costituito da quelli legati all' andamento
dei tassi di interesse. Il 90 per cento dei derivati, inoltre, non è negoziato
4
Con una operazione a terniine (Jutures o fotward) il venditore s' impegna a consegnare
al compratore titoli (o un 'altra merce) a una certa data (per es. dopo un mese), a 11n prezzo de-
terminato (per esempio 100 euro). Il prezzo è fissato prima, perché il venditore ritiene che, nel
frattempo, il prezzo scenderà (perciò è detto «ribassista») e quindi alla scadenza consegnerà
titoli che valgono meno (per esempio 90 euro), riscuotendo il prezzo convenuto di 100 euro.
Viceversa, il compratore si attende che il loro valore aumenti (perciò è detto «rialzista») e alla
scadenza avrà titoli che valgono più dei 100 euro pagati. Lo scopo delle operazioni a termine
è di tutelare i contraenti dalle oscill azione del valore sulla base di proprie previsioni, 1na spes-
so essi non banno alcun interesse nel possesso dei titoli e, alla scadenza, versano soltru1to la
differenza (nel nostro esempio 10 euro). In tal caso si tratta di una vera e propria sco1runessa,
in cui una parte scommette sul ribasso della quotazione di un titolo e l'altra sul suo rialzo.
5
L'arbitraggio consiste nell 'acquistare titoli (o merci) in una pi azza dove sono quotati
di meno e venderli in una dove sono quotati di più, con l' effetto di livellare i prezzi fra mer-
cati diversi. Anche in questo caso, se i contraenti non sono interessati ai titoli, ma solo a lu-
crare la differenza di prezzo, si è di fi·onte a una pura speculazione. Oggi, con la possibilità
di acquistare o vendere con un click del compu ter, queste operazioni sono diventate numero-
sissime. Anzi molti computer sono programmati in modo tale che gli ordini di acqui sto o di
vendita partano automaticamente quando rilevano anche una minima differenza di prezzo
fra due piazze. In tal modo, per esempio, pure con una differenza di prezzo di appena un
millesimo di euro, con un click si guadagnano l 00 mila euro se si investono l 00 milioni. E
operazioni simili possono essere ripetute più volte nello stesso giorno.
27. Neoliberismo e globalizzazio11.e 255

sui mercati ufficiali (Borse), ma su mercati alternativi non regolamentati,


creati da istituzioni finanziarie o da professionisti mediante reti telematiche,
sicché sfuggono a qualsiasi forma di controllo.
Un particolare tipo di derivati è costituito dai tito li emessi in seguito a
operazioni di cartolarizzazione, alle quali ricorrono le banche per mobiliz-
zare i loro crediti. Una banca, difatti, può vendere una parte dei suoi crediti
ad un'apposita società (spesso creata o sponsorizzata dalla banca stessa),
detta <<società veicolo>>, la quale sulla base di tali crediti emette proprie ob-
bligazioni (titoli derivati), che colloca sul mercato. Con il ricavato della
cessione, la banca può concedere nuovi mutui. Ovviamente il rimborso dei
titoli derivati emessi dalla società veicolo e il pagamento dei relativi inte-
ressi, dipenderà dalla regolare riscossione dei crediti acquistati. Se ciò non
avviene, g li investitori grandi e piccoli che hanno sottoscritto tali derivati
potrebbero avere perdite rilevanti. Ma vi è di più. Le società che hanno ac-
quistato i derivati emessi in seguito alla cartolarizzazione possono a loro
volta cederli ad un'altra società veicolo, che emetterà nuovi titoli. Dopo a l-
cuni di questi passaggi non si saprà più da che cosa o da chi siano garantiti i
titoli emessi e collocati sul mercato.
L'economia finanziaria (detta anche <<economia di carta>>) è aumentata
in misura eccezionale nel primo decennio di questo secolo. Sembra che nel
2013, a fronte di un Pil mondiale di 75 mila miliardi di dollari (economia
reale), vi fosse più di un trilione di dollari (un milione di miliardi) di atti-
vità finanziarie (economia finanziaria), di cui ben 700 mila miliardi costi-
tuiti da titoli derivati. L'economia finanziaria, quindi, aveva un valore di ol-
tre 13 volte quella reale. Dietro questi valori monetari non vi è denaro effet-
tivo, visto che essi esistono sostanzialmente come una serie di bit nella
memoria di un computer ( oggi banconote e monete in circolazione rappre-
sentano meno del 3 per cento di questi valori). Quel che è certo è che
nell' economia mondiale vi è un eccesso di liquidità alla ricerca spasmodica
di elevati rendimenti, rea lizzabili solo sottraendo valori a qualcun a ltro me-
diante la speculazione.
La finanziarizzazione ha coinvolto anche le grandi imprese industriali e
commerciali. Gli investitori istituzionali, difatti, hanno investito parte dei
fondi disponibili (talvolta anche prendendoli a prestito dalle banche) in
pacchetti azionari di grandi imprese, tanto che oggi sembra che posseggano
più della metà dei titoli quotati nelle Borse mondiali. Siccome essi mirano
esclusivamente a ottenere buoni risultati dal loro investimento, impongono
ai dirigenti delle imprese di impegnarsi principalmente per far aumentare il
valore delle azioni della società, mediante il raggiungimento di elevati ren-
dimenti nel breve periodo. Perciò, almeno dagli anni Ottanta del Novecen-
256 L 'ecoriomia contemporanea (1950-2017)

to, i manager delle grandi imprese hanno cominciato a tenere presenti innan-
zitutto gli interessi degli azionisti, sacrificando quelli degli altri portatori di
interessi verso l' impresa (stakeholders), come dipendenti, fornitori, clienti,
banche fmanziatrici e comunità locali. Perciò, tali manager non hanno alcuna
difficoltà a ristrutturare, chiudere o vendere un settore dell'azienda se il suo
rendimento non è quello atteso, anche se è comunque soddisfacente. Inoltre,
spesso molti di essi preferiscono impiegare le risorse disponibili in operazio-
ni finanziarie, che rendono più degli impieghi nell'attività produttiva.
La finanziarizzazione dell' economia ha rafforzato l' idea che il denaro
debba fruttare un interesse solo perché è denaro e non - come sarebbe più
logico e giusto ritenere - perché è investito in un'attività produttiva (indu-
striale, commerciale, agricola, ecc.), dalla quale si ricava un profitto che
d.eve remunerare, oltre all' imprenditore, anche chi ha fornito i capitali, op-
pure perché è prestato allo Stato che lo impiega a favore della collettività.
28.
SVILUPPO
E SOTTOSVILUPPO

28.1. Lo sviluppo ineguale

L 'eccezionale sviluppo dell'economia mondiale nella seconda metà del


Novecento produsse un ulteriore forte divario fra paesi ricchi e paesi pove-
ri, facendo aumentare le disuguaglianze già emerse nel corso degli ultimi
due secoli. Secondo le stime di Angus Maddison, il Pil pro capite degli Sta-
ti Uniti era, nel 1820, circa tre volte superiore a qu ello dell'Africa, nel 1913
era sei volte maggiore e nel 1995 ben diciannove volte. Allo stesso modo, il
Pil pro capite americano era, nel 1820, poco più di due volte superiore a
quello asiatico, ma nel 1913 era diventato quasi otto volte maggiore, per
fermarsi a poco più di sette volte nel 1995 . E anche nei confronti
dell'America Latina, il Pil pro capite degli Stati Uniti era passato dal dop-
pio nel 1820 a 3,5 volte nel 191 3 e a 4 ,5 volte nel 1995.
Solo nell'ultimo ventennio il divario è cominciato a diminuire, sia in
termini percentuali sia in termini assoluti, anche se risulta comunque molto
più elevato di quanto non fosse all'inizio del processo di industrializzazio-
ne. Nel 2010, difatti, la differenza fra il Pil pro capite americano e quello
africano si era ridotta a meno di nove volte, la differenza con l' Asia a circa
cinque volte, mentre era rimasta immutata quella con l' America Latina.
Se si prendono in considerazione le grandi aree geografiche del mondo
(vedi tab. 28.1), si nota come nel 2010 solo l'Europa occidentale raggiun-
gesse un Pil pro capite pari a poco più dei due terzi di quello degli Stati Uniti.
L 'ex U11ione Sovietica, l'Europa orientale, l' Asia e l' Atnerica Latina pro-
ducevano un Pil che si collocava fra il 2 1 e il 28 per cento di quello ameri-
cano, mentre l' Africa arrivava solo a l 12 per cento.
Quel che è certo, comunque, è che negli ultimi decenni il numero delle
persone che vive nei paesi poco sviluppati è notevolmente aumentato. Le
profonde trasformazioni in atto, inoltre, hanno reso la locuzione Terzo Mon-
258 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

Tab. 28.1. - Livello del Pii pro capite delle diverse regioni del mondo raffron-
tato con quello degli Stati Uniti, per decenni, dal 1950 al 2010

Regioni 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010


Stati Uniti 100 100 100 100 100 100 100
Europa occidentale 47 60 67 71 69 67 69
Unione Sovietica 30 35 37 35 30 16 25
Europa orientale 22 27 29 31 23 21 28
Asia 7 9 10 l1 12 13 21
America Latina 26 28 27 29 22 21 22
Africa 9 9 9 8 6 7 12
Fonte: Dati di A. Maddison, aggiornati al 20 l O, tratti dal sito web del Groningen Growth
an d Development Centre, all' indirizzo " www.ggdc.net/Maddison" (nostri calcoli).
Nota: I dati del 2000 e del 20 l O dell'Unione Sovietica sono ri feriti all ' insierne degli Sta-
ti che ne facevano parte; quelli della sola Federazione R ussa sono l 8 nel 2000 e 28 nel 20 1O.

do, che pure continua ad essere utilizzata, incapace di rappresentare in mo-


do appropriato la situazione attuale. Negli ultimi tempi il mondo sembra
potersi dividere più adeguatamente in tre diverse parti: in cima vi sono i
paesi sviluppati, in mezzo la gran massa dei paesi in via di sviluppo, che
stanno crescendo in misura consistente, e in fondo i paesi arretrati, che
fanno fatica a uscire dal sottosviluppo e non riescono a recuperare il ritardo.
Il primo e il terzo gruppo ospitano ciascuno intorno a un miliardo di perso-
ne, mentre il resto della popolazione mondiale, ossia più del 70 per cento,
vive nei paesi del secondo gruppo 1•
Di fronte all' inadeguatezza del Pil di valutare e rappresentare il divario
fra i diversi Stati del mondo, sono stati costruiti altri indici, fra i quali
l'Indice di sviluppo umano (Human development index, Hdi), messo a
punto da un economista pakistano e pubblicato annualmente dalle Nazioni
Unite a partire dagli anni Novanta. Esso, che pure ha ricevuto parecchie
critiche, tende a <<misurare>> non solo la ricchezza ma anche il ben essere
sociale e si basa su alcuni parametri che riguardano tre dimensioni fon-
damentali dello sviluppo umano: la durata della vita (speranza di vita a lla
nascita), il livello culturale (tasso di alfabetizzazione e accesso ai vari li-

1 Gli economisti distinguono soltanto fra paesi sviluppati (Psv) e paesi in via di sviluppo
(Pvs) e fissano la linea di de1narcazione fra i due gruppi intorno a 10 1ni la dol lari di reddito

medio pro capite annuo. E ovvio che al loro interno vi sono situazioni profondamente diver-
se, in particolare fra i Pvs, di cui fa parte il gruppo di paesi an·et rati ai qu ali si è fatto sopra
riferimento. Perciò, la Banca mondiale ha individuato delle sottoclassi fra i P vs: paesi a bas-
so reddito, paesi a reddito medio-basso e paesi a reddito medio-alto.
28. Sviluppo e sottosviluppo 259

velli d'istruzione) e la quantità di ricchezza disponibile (Pil pro capite a


parità di potere d'acquisto). In tal modo, si determina per ciascun paese
un valore variabile fra O e 1 (dove 1 è il livello massimo) e si costruisce
una graduatoria.
Nel 2016 i primi cinque Stati di tale graduatoria (su 188) erano la Nor-
vegia (0,949), l'Australia (0,939), la Svizzera (0,939), la Germania (0,926)
e la Danimarca (0,925); gli ultimi cinque erano tutti africani: Buru.ndi
(0,404), Burkina Faso (0,402), Ciad (0,396), Niger (0,353) e Repubblica
Centrafricana (0,352). L' Italia (0,887) occupava il ventiseiesimo posto ed
era preced.uta da sedici paesi europei, mentre gli Stati Uniti si trovavano al
decimo posto (0,920). La Cina (0,738) e l'India (0,624) si trovavano rispet-
tivamente al novantesimo e al centotrentunesimo posto.
Le principali economie del mondo sviluppato continuano ad essere
quelle dell'Unione Europea, degli Stati Uniti e del Giappone. Negli ultimi
decenni si è assistito al risveglio dei paesi asiatici, fra i quali i più impor-
tanti sono sicuramente la Cina e l' India, allo sviluppo di alcuni paesi lati-
noamericanj e, più di recente, anche alla crescita di diversi paesi africani.
I maggiori quattro paesi emergenti, per i quali è stato coniato l'acronimo
Bric (Brasile, Russia, India e Cina), hanno costituito un gruppo che ha i-
njziato a riunirsi periodicamente dal 2009. Con l'aggiunta del Sudafrica,
che è l'economia leader del continente africano, l'acronimo si è trasfor-
mato in Brics.
Ma vi sono altri paesi emergenti, le cui economie stanno crescendo no-
tevolmente e che sono entrati a far parte del cosiddetto G20 (Gruppo Ven-
ti), costituito dai principali paesi del mondo, che rappresentano quasi i
due terzi d.ella popolazione del Pianeta e 1'83 per cento del Pil mondiale.
Fin dal 197 5 i ministri delle fmanze e i governatori delle banche centrali
delle maggiori potenze (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito,
Francia e Italia) cominciarono a riunirsi periodicamente per discutere del-
le principali questioni finanziarie e commerciali. Il G6, come si disse quel
consesso, divenne l'anno successivo G 7, con l' ingresso del Canada e, dal
1997, G8 con la Russia.
Nel 1999, il gruppo fu allargato ad altri paesi (Cina, India, Indonesia,
Corea del Sud, Brasile, Messico, Argentina, Australia, Sudafrica, Turchia e
Arabia Saudita), portando il numero complessivo degli Stati a diciannove, i
quali, con la presenza anche dei rappresentanti dell' Unione Europea, di-
vennero l'attuale G20. A partire dal 2008, per fronteggiare la crisi econo-
mica appena iniziata, il G20 si è trasformato in un vertice dei capi di Stato e
di governo, che si riuniscono periodicamente per affrontare i più importanti
problemi economici a livello mondiale.
260 L 'eco11omia contemporanea (1950-2017)

28.2. Il processo di decolonizzazione

Il processo che va sotto il nome di decolonizzazione interessò in partico-


lare l'Asia e l'Africa. Quasi tutti gli attuali paesi in via di sviluppo hanno
avuto un passato coloniale, remoto o recente, e ha1mo dovuto affrontare un
difficile periodo d'instabilità politica ed economica dopo l'indipendenza.
Così avvenne per le colonie spagnole e portoghesi dell'America Latina agli
inizi del secolo XIX e così è avvenuto per le colonie dell'Africa e dell'Asia
intorno alla metà del secolo XX.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il processo di decolonizzazione rice-
vette un forte impulso proprio per la partecipazione al conflitto di numerose
truppe coloniali assieme agli Alleati, che le avevano inviate a combattere
per ideali come la libertà, la democrazia e l' autodeterminazione dei popoli.
Questi principi furono inclusi nella Carta Atlantica, frrmata d.a Stati Uniti e
Gran Bretagna (1941 ), e nella Carta delle Nazioni Unite (1945). Gli indi-
pendentisti si richiamarono proprio a queste dichiarazioni solenni quando
organizzarono i movimenti politici per rivendicare l ' indipenden.za dei loro
popoli. Dopo una resistenza più o meno convinta, le potenze occidentali
dovettero abbandonare le colonie, in genere pacificamente, ma spesso an-
che dopo violente guerre di liberazione, come quelle che si combatterono
nei possedimenti francesi di Algeria e Indocina. Gli stessi ambienti economi-
ci dei paesi colonialisti cominciarono a non ritenere più vantaggiose le co-
lonie. Esse avevano sempre comportato un costo elevato per i governi della
madrepatria, ma avevano consentito alle imprese nazionali di realizzare ot-
timi profitti. Ora, invece, i costi per i governi continuavano ad essere eleva-
ti, mentre i profitti delle imprese erano in forte calo, sicché non risultava
più conveniente conservare vasti imperi coloniali.
Il primo paese a ottenere l'indipendenza fu l'India. Seguirono altri paesi
asiatici, come Birmania, Cambogia, Indonesia, Laos e Vietnam, e quelli
del!' Africa settentriona le (Libia, Tunisia, Marocco e Algeria). Intorno al
1960 fu la volta dell' Africa nera. A metà degli anni Sessanta, quasi tutte le
nazioni europee avevano concesso l' indipe11denza alle loro colonie. Solo il
Portogallo lasciò l' Angola e il Mozambico nel 1975, in seguito a una lunga
lotta armata (vedi fig. 35 .1 ). I nuovi Stati indipendenti conservarono, in ge-
nere, legami economici e culturali con le ex potenze coloniali. Quelli sotto
d.o minio britannico, per esempio, scelsero quasi tutti di rimanere nel Com-
monwealth , che, di fatto, fmì con il sostituire il vecchio impero. In tal mo-
do, poterono mantenere i rapporti economici con la Gran Bretagna e usu-
fruire dei ridotti dazi applicati ai paesi aderenti. La rilevanza economica del
Commonwealth cominciò a dec linare dopo il 1973, quando il Regno Unito
260 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

28.2. Il processo di decolonizzazione

Il processo che va sotto il nome di decolonizzazione inter essò in partico-


lare l' Asia e l'Africa. Quasi tutti gli attua li paesi in via di sviluppo hanno
avuto un passato coloniale, remoto o recente, e hanno dovuto affrontare un
difficile periodo d' instabilità politica ed economica dopo l' indipendenza.
Così avvenne per le colonie spagnole e portoghesi dell' America Latina agli
inizi del secolo XIX e così è avvenuto per le colonie dell'Africa e dell'Asia
i11tomo alla metà del secolo XX.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il processo di decolonizzazione rice-
vette un forte impulso proprio per la partecipazione al conflitto di numerose
truppe coloniali assieme agli Alleati, che le avevano inviate a combattere
per ideali come la libertà, la democrazia e l'autodeterminazione dei popoli.
Questi principi furono inclusi nella Carta Atlantica, frrmata d.a Stati Uniti e
Gran Bretagna (1941), e nella Carta delle Nazioni Unite (1945). Gli indi-
pendentisti si richiamarono proprio a queste dichiarazioni solenni quando
organizzarono i movimenti politici per rivendicare l ' indipenden.z a dei lor o
popoli. Dopo una resistenza più o meno convinta, le potenze occidentali
dovettero abbandonare le colonie, in gener e pacificamente, ma spesso an-
che dopo violente guerre di liberazione, come quelle che si combatterono
nei possedimenti francesi di Algeria e Indocina. Gli stessi ambienti economi-
ci dei paesi colonialisti cominciarono a non ritenere più vantaggiose le co-
lonie. Esse avevano sempr e comportato un costo elevato per i governi della
madrepatria, ma avevano consentito alle imprese nazionali di realizzare ot-
timi profitti. Ora, invece, i costi per i governi continuavano ad essere eleva-
ti, mentre i profitti delle imprese erano in forte calo, sicché non risultava
più conveniente conservare vasti imperi coloniali.
Il primo paese a ottenere l' indipendenza fu l'India. Seguirono altri paesi
asiatici, come Birmania, Cambogia, Indonesia, Laos e Vietnam, e quelli
dell'Afri ca settentriona le (Libia, Tunisia, Marocco e Algeria). Intorno al
1960 fu la volta dell' Africa nera. A metà degli anni Sessanta, quasi tutte le
nazioni europee avevano concesso l' indipe11denza alle lor o colonie. Solo il
Portogallo lasciò l' Angola e il Mozambico nel 1975, in seguito a una lunga
lotta armata (vedi fig. 35 .1 ). I nuovi Stati indipendenti conservarono, in ge-
nere, legami economici e culturali con le ex potenze coloniali. Quelli sotto
dominio britannico, per esempio, scelsero quasi tutti di rimanere nel Com-
nionwealth, che, di fatto, fmì con il sostituire il vecchio impero. In tal mo-
do, poterono mantenere i rapporti economici con la Gran Bretagna e usu-
fruire dei ridotti dazi applicati ai paesi aderenti. La rilevanza economica del
Commonwealth cominciò a declinare dopo il 1973, quando il Regno Unito
28. Sviluppo e sottosviluppo 261

entrò nel Mercato comune e dovette rinunziare ai rapporti privilegiati con le


ex colo1ùe, molte delle quali ottennero condiziom di favore per il commer-
cio con l'Europa comumtaria. Il Commonwealth, tuttavia, continuò a so-
pravvivere come una Libera associazione di Stati.

28.3. Le strategie economiche dei paesi in via di sviluppo

Le politiche economiche dei paesi in via di sviluppo (Pvs), che costitui-


scono realtà anche profondamente diverse fra di loro, presentano alcune ca-
ratteristiche comum che è opportuno richiamare. Quasi tutti i Pvs indiv i-
duarono, dopo la fine della Seconda guerra mondiale o al momento del-
1' indipendenza, strategie di sviluppo simili.
I . Intervento diretto dello Stato nell'economia. Fu previsto quasi ovun-
que, perché ritenuto necessario per recuperare il forte ritardo nei confronti
dei paesi sviluppati. I Pvs avevano due esempi ai quali rifarsi: la piamfica-
zione di tipo sovietico, che sembrava aver dato buoni risultati, visto che
quel Paese era riuscito a sconfiggere la Germania nazista, oppure le varie
forme di economia mista introdotte nell'Europa occidentale. L ' intervento
statale, quando non portò a una completa pianificazione, come nel caso ci-
nese, si mamfestò in diversi modi: furono nazionalizzati importanti settori
produttivi (servizi di pubblica utilità, banche, industrie, ecc.), vennero con-
servate o introdotte misure protezionistiche a beneficio di alcuni comparti
industriali, furono imposti bassi prezzi per i bem di consumo essenziali e si
fissarono livelli minimi dei salari.
2. Politiche di sostituzione delle importazioni (import substitution).
Queste politiche tendevano a favorire la creazione di impianti industriali in
grado di produrre nel proprio paese i bem che si dovevano importare (manu-
fatti e macchinari), via seguita, in particolare, dai principali Stati dell' Ame-
rica Latina (Argentina, Brasile e Messico). Alcuni paesi asiatici (Hong
Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan), invece, fecero una scelta diver-
sa e puntarono su una politica di promozione delle esportazioni (export
promotion ), sviluppando industrie tecnologicamente avanzate, capaci di
competere sui mercati internazionali.
3. Prestiti esteri. Furono otte11uti sia dai goverm strameri, che li erogava-
no espressamente per agevolare lo sviluppo, sia dalle banche estere sotto
forma di prestiti commerciali. Questi tra.sferimenti di capitali non sempre
servirono per gli scopi ai quali erano destinati, ma talvolta furono utilizzati
per sostenere i consumi. La loro gestione, inoltre, alimentò quasi dappertutto
la corruzione degli ammimstratori pubblici.
262 L 'economia contemporanea (1950-2017)

4. Acquisizione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche. I Pvs ebbe-


ro accesso a tali conoscenze nei campi della medici11a e dell'agricoltura,
anche grazie all' attività degli organismi internazionali. Le conseguenze fu-
rono la riduzione dell.a mortalità e un forte incremento demografico, nonché
l'aumento delle rese per ettaro delle terre coltivate. Per l'agricoltura si par-
lò, negli anni Settanta, di rivoluzione verde, per indicare la diffusione di va-
rietà di riso, grano e altri cereali più resistenti alle avversità climatiche o
capaci di maturare più rapidamente.
Le strategie di sviluppo seguite, anche se non riuscirono a ridurre le di-
suguaglianze sociali e la povertà, funzionarono abbastanza bene fino alla
crisi degli anni Settanta. In seguito, come stava avvenendo quasi ovunque, il
ruolo dello Stato fu in genere ridimensionato e si procedette alla liberalizza-
zione dell'economia e alla privatizzazione di diverse imprese. La presenza
dello Stato in economia, però, anche se ridotta, continuò ad avere un peso ri-
levante. L 'effetto più grave della crisi fu l'aumento del prezzo del p etrolio,
che costituì, per i paesi sottosviluppati che non ne possedevano, un forte ag-
gravio del costo delle importazioni. Inoltre, la riduzione della domanda di
beni da parte dei paesi avanzati, molti dei quali ricorsero a forme di prote-
zione per le loro industrie in crisi, colpì le esportazioni dei Pvs. La conse-
guenza fu che molti di questi paesi riuscirono a esportare di meno e dovette-
ro pagare molto di più il petrolio importato. I loro governi, perciò, furono
costretti a ricorrere ai prestiti esteri, tanto più che l'abbondanza di petrodol-
lari sul mercato internazionale consentiva di ottenerli facilmente. Si venne a
formare così l'enorme debito estero dei Pvs di cui si è detto, passato dai 70
miliardi di dollari del 1970 agli 850 del 1982 e ai quasi 1.500 del 1990, che
d.ovette poi essere rinegoziato e, in parte, cancellato.
La globalizzazione coinvolse anche i Pvs, alcuni dei quali ne trassero
beneficio, me11tre altri se ne giovarono molto di meno. N egli anni Novanta
aumentò la loro partecipazione al commercio mondiale di beni e servizi e
molti di essi accolsero le imprese dei paesi avanzati che stavano dis locan-
do all'estero parte della loro attività. L 'allargamento dei mercati fmanziari
internazionali, favoriti dalla liberalizzazione, attirò un nuovo flusso di inve-
stimenti esteri (nel 1999 il debito estero era di oltre 2.500 miliardi di dolla-
ri). Infine, le rimesse degli emigrati divennero sempre più consistenti e co-
stituirono un' importante fonte di entrata per i paesi più poveri, da dove par-
tivano ( e continuano a partire) numerose persone in cerca di fortuna.
29.
LA GRANDE
RECESSIONE

29.1. La crisi del 2008-09

Con la locuzione Grande recessione 1 si è fatto riferimento dapprima alla


crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti d'America a fme 2007 e durata
fino alla metà del 2009 e poi al lungo periodo che dal 2008 arriva almeno al
2013, caratterizzato da una lunga crisi che ha investito molti paesi.
Sembra che verso la metà degli anni Novanta una serie di elementi abbia
concorso a imprimere un diverso andamento al ciclo economico. In quegli
anni, le politiche neoliberiste avevano portato a una maggiore libertà di azio-
ne delle imprese, delle banche e della finanza, a una ristrutturazione produt-
tiva e a una riduzione dell' ingerenza dello Stato in economia, nonché alla
globalizzazione dei mercati. Intanto, erano crollati i sistemi a economia
pianificata, l'Asia e l'Africa nel loro complesso iniziavano a crescere a rit-
mo accelerato e le economie americana e britannica davano segni di parti-
colare vitalità e dinamismo. Lo stesso Pil pro capite mondiale accelerò il
ritmo di crescita, riuscendo, in un decennio (1996-2006), ad aumentare del
31 per cento (in valori costanti), mentre nel decennio precedente la crescita
era stata solo del 15 per cento.
Durante gli anni Novanta, gli Stati Uniti attirarono capitali da altri paesi,
per la fiducia degli investitori nella stabilità del dollaro e nell'efficienza del
sistema economico americano. Agli inizi del nuovo secolo, la Borsa ameri-
cana conobbe una forte espansione. Fra il 2002 e il 2004, il valore dei titoli
delle principali società aumentò di oltre il 1O p er cento ogni tre mesi p er
ben undici trimestri consecutivi.

1
Il termine recessione indica una fase del ciclo econo1nico caratterizzata dall a 1iduzione
del Pi l. Dal punto di vista tecnico, un paese si defi1ùsce in recessione quando il Pil diminu i-
sce per almeno due trimestri consecutivi.
264 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

Le banche alimentarono la speculazione concedendo prestiti a chi desi-


derava investire in titoli, così come sostennero le famiglie nei loro consumi
sia con i prestiti concessi mediante carte di credito di ogni tipo sia con i co-
siddetti mutui subprime. Con questa espressione si indicano, in genere, i
prestiti erogati per l'acquisto della casa a soggetti non in grado di addossar-
si impegni finanziari continuativi, poiché non dispongono di un reddito cer-
to e duraturo. Le ragioni che indussero le famiglie a indebitarsi e le banche
e le istituzioni finanziarie a concedere tali mutui, oggettivamente rischiosi,
furono parecchie:
a) i bassi tassi di interesse, dovuti alla politica espansiva della Federai
Reserve (la banca centrale americana), che rendevano particolarmente con-
venienti i mutui per l'acquisto della casa;
b) il desiderio di possedere un 'abitazione, che era una delle principali
aspirazioni dell'americano medio e, perciò, era sostenuto anche dal gover-
no, che esercitò pressioni in particolare su alcune istituzioni creditizie se-
mipubbliche perché concedessero mutui a condizioni favorevoli a un gran
numero di persone per consentire l'acquisto di una casa;
c) la garanzia ipotecaria a favore delle banche sulle abitazioni acqui-
state, che faceva ritenere sicuri i mutui concessi sia perché le case pote-
vano essere espropriate e vendute per recuperare il credito sia perché il lo-
ro prezzo continuava a crescere per la forte domanda, sostenuta dagli
stessi mutui; in tal modo aumentava a11cl1e il valore della garanzia, sicché
spesso si concedevano ulteriori mutui sulla stessa abitazione già ipotecata,
il cui valore era cresciuto;
d) la cartolarizzazione dei mutui alla quale ricorrevano le banche, che li
trasferivano ad altre società per recuperare subito una parte dei propri credi-
ti da reinvestire in ulteriori prestiti.
I mutui subprime sembravano, perciò, un buon affare per tutti. Ma nella
primavera del 2007, la domanda di case cominciò a diminuire, mentre mol-
te famiglie non riuscirono più a pagare le rate del mutuo, peraltro aumenta-
te, e persero l'abitazione. Sembra che in due anni (2008-09) circa 6 milioni
di famiglie americane subissero la perdita della propria abitazione. Ovvia-
mente, le banche che le avevano finanziate si trovarono in difficoltà, perché
non riuscirono a rivendere le case espropriate ai debitori, il cui valore, pe-
raltro, era crollato sul mercato. Anche il valore dei titoli cartolarizzati pre-
cipitò, con grave danno per banche e istituzioni finanziarie, sia americane
che di altri paesi, che li avevano acquistati. La sfiducia si diffuse e il merca-
to interbancario (costituito dai prestiti che le istituzioni creditizie si conce-
dono fra di loro), si arrestò, generando una crisi di liquidità dell' intero si-
stema finanziario.
29. La Grande recessione 265

L'episodio che assurse a simbolo della crisi fmanziaria americana fu il


fallimento della Lehman Brothers (15 settembre 2008), una grande banca
d ' investimento di New York, causato da un'eccessiva immobilizzazione in
titoli derivati e in titoli ad alto rischio e dalla fuga dei clienti, senza che le au-
torità monetarie americane decidessero di intervenire, come invece stavano
facendo con altre banche. Quel fallimento, che fu il più grave della storia
americana, suscitò grande scalpore e fu il sintomo che la crisi si sarebbe este-
sa dagli Stati Uniti agli altri paesi. Nello stesso autunno del 2008, difatti, si
registrò il crollo delle quotazioni nelle principali Borse del mondo, dopo la
forte crescita degli anni precedenti e il panico si diffuse fra i risparmiatori.
La crisi finanziaria americana, come nel 1929, si estese anche all'eco-
nomia reale. Le banche in difficoltà ridussero i loro fi11anziamenti a im-
prenditori e consumatori e molti risparmiatori, per le p erdite subite o attese,
limitarono l'acquisto di beni. I prezzi delle materie prime e del petrolio pre-
cipitarono, la produzione industriale si contrasse, il commercio internazio-
nale rallentò e la disoccupazione aumentò. Le indus trie, in particolare quel-
le automobilistiche, fecero fatica a vendere i loro prodotti e dovettero ess e-
re sostenute con incentiv i statali.
Come si è detto, dagli Stati Uniti la crisi si diffuse in altri paesi svilup-
pati, in particolare in quel li europei, dove parecchie banche si trovarono in
difficoltà perché si erano impegnate anch'esse in mutui ipotecari per con-
sentire l' acquisto di abitazioni e avevano in portafoglio molti titoli <<tossi-
ci>>, specie quelli derivanti dalle cartolarizzazioni amer icane. Quando il va-
lore di quei titoli crollò, banche e istituzioni fmanziarie di molti paesi si
trovarono in difficoltà e vi furono pareccl1i fallimenti in Gra11 Bretag11a,
Belgio, Olanda, Germania e altrove. La crisi colpì dappertutto anche l'eco-
nomia reale e provocò una forte riduzione del Pil complessivo e di qu ello
pro capite delle principali economie sviluppate (vedi tab. 29. 1).
Lo Stato, richiamato in causa dovunque, dovette intervenire per salvare
molte banche e imprese in difficoltà. Si an·estò, così, il lungo periodo di de-
regolamentazione e di privatizzazioni che aveva caratterizzato la politica
economica di molti paesi. Negli Stati Uniti fu predisposto un grande piano
di salvataggio del sistema finanziario e dei grandi istituti di credito, che si
articolò in du e tipi di interventi:
a) acquisizione di importanti pacchetti azionari di banche e istituzioni
creditizie (come si era fatto durante la Grande depressione degli anni Tren-
ta) per consentire l'aumento del loro capitale, che furono poi ricollocati sul
mercato con buoni profitti per il governo,
b) acquisto di titoli cartolarizzati per circa 7. 700 miliardi di dollari, che
comportò una consistente iniezione di liquidità nel sistema creditizio.
266 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

Anche in Europa i governi dovettero intervenire con quasi 3.200 miliardi


di euro a sostegno di banche e istituzioni finanziarie, destinati per oltre tre
quarti a fornire garanzie a loro favore e per il resto alla loro ricapitalizzazione
o alla concessione di linee di credito e prestiti. Tutte queste forme di sostegno
furono effettuate mediante il ricorso all'indebitamento, con un conseguente
notevole aumento del debito pubblico dei principali paesi industrializzati.
Questa volta, al contrario di quanto era avvenuto negli anni Trenta, i go-
verni dei principali paesi cercarono di operare congiuntamente per individua-
re e adottare rimedi atti a combattere la crisi, a11che perché la globalizzazione
rendeva i mercati molto più interdipendenti che in passato. In molti paesi, per
esempio, furono vietate le vendite di titoli allo scoperto2, come azione di con-
trasto all'attività speculativa.
La crisi del 2008-09 era stata preceduta da diverse altre crisi, specialmente
negli anni Novanta e all'inizio del nuovo secolo, in genere di natura fmanzia-
ria e limitate a determinati paesi o aree del mondo. Si possono ricordare la
crisi giapponese, iniziata nel 1990 e durata a lungo, quella più breve del Sud-
est asiatico di fine secolo (1997-2000) e quelle che interessarono alcuni gran-
di paesi latinoamericani, come il Messico e l'Argentina, nonché la crisi fi-
nanziaria del 2000-01, detta delle <<dot-com>> (punto com, dal suffisso .com),
una bolla speculativa sulle nuove società che operavano su Internet.
La crisi del 2008-09, però, è stata sicuramente la più grave. Iniziata ne-
gli Stati Uniti, da dove s i estese alle economie del mondo globalizzato, si
manifestò anch'essa, come quella del '29, con una crisi finanziaria e borsi-
stica e una crisi del l'economia reale. Quella borsistica, com'era accaduto
altre volte, venne sostanzialmente superata in breve tempo, mentre la se-
conda ha richiesto tempi più lunghi e le sue conseguenze, specie sull' occu-
pazione, si sono mostrate più durature.

29.2. La crisi europea dei debiti sovrani (2012-13)

A partire dalla seconda metà del 2009, la crisi sembrò arrestarsi. Nel
20 l O e nel 20 11 vi furono segni di ripresa nei principali paesi industrializ-
zati, più marcati in alcuni e più deboli in altri (vedi tab. 29 .1 ). Ma la crisi

2
Una vendita si dice allo scoperto quando il venditore non possiede i titoli che vende, ma
conta di acquistarli solo aJ momento della consegna, poiché prevede che a quell 'epoca il loro
prezzo sarà diminuito. Si tratta di un'operazione esclusiva1nente speculativa, tanto che a volte è
stabilito che alla scadenza il venditore si limiti a riscuotere dal compratore la differenza di
prezzo fra quello pattuito e quello di mercato se quest'ultimo è diminuito (come previsto dal
venditore) o a pagargli tale differenza se il prezzo è aumentato (come previsto dal compratore).
29. La Grande recessione 267

non era terminata. Essa si ripresentò sotto altre forme o, se si preferisce, si


manifestò una nuova crisi che si innestò su quella precedente e interessò i
debiti sovrani (ossia il debito pubblico) di alcuni Stati europei, come Gre-
cia, Spagna, Portogallo, Irlanda (indicati con l' acronimo Pigs) e, infine, Ita-
lia, sui quali si concentrò la speculazione. Gli investitori furono influenzati
dalle valutazioni delle agenzie di rating 3, che continuavano a declassare i
titoli pubblici dei paesi maggiormente indebitati.
La Grecia fu particolarmente coinvolta poiché il suo governo aveva te-
nuto nascosto l'enorme debito pubblico e l'elevato deficit del bilancio sta-
tale, che furono conosciuti solo nell'ottobre del 2009. Perciò, per ottenere
aiuti finanziari dall'Unione Europea e dal Fmi, il governo ellenico dovette
intervenire più volte con tagli alle spese pubbliche ( diventate eccessive per
il lassismo degli anni precedenti), licenziamento di dipendenti pubblici e
aumento dei tributi, imponendo notevoli sacrifici ai cittadini. Si dovette an-
che decidere di non rimborsare per intero il debito pubblico ai risparmiatori
privati ( comprese le banche), che persero più della metà dei loro crediti, il
che equivaleva a un parziale fallimento del Paese. La possibilità che la Gre-
cia diventasse insolvente provocò un persistente stato d'instabilità sui mer-
cati borsistici mondiali, perché ciò avrebbe messo in difficoltà la sopravvi-
venza stessa della nuova moneta europea, l' euro, alla quale anche la Grecia
aveva aderito. In sei anni di crisi, dal 2008 al 2013, la Grecia perse un quar-
to del proprio Pil complessivo.
Intanto la crisi dei debiti sovrani si estendeva all'Irlanda, alla Spagna e
al Portogallo, che stavano vivendo momenti difficili in seguito alla crisi del
2008-09, e che furono, in qualche modo, contagiati dalla situazione greca.
La speculazione, cioè, si accanì anche contro questi paesi, i quali dovettero
assumere duri provvedimenti di austerità per salvarsi dal rischio d' insolven-
za, continuamene ventilato dalle agenzie di rating, che peggioravano le loro
valutazioni.
Nell' estate del 2011 maturò anche la crisi italiana, il cui debito pubblico
complessivo era giunto a quasi il 120 per cento del Pil. Il debito veniva da
lontano, ossia dagli anni Ottanta, quando in appena una dozzina d'anni
( 1982-94) era passato dal 60 al 120 per cento del Pile, tranne qualche effi-
mera riduzione (nel 2007 era al l 04 per cento), si era mantenuto intorno a
quel livello. I governi non erano stati in grado di ridurlo, dato che ciò signifi-

3
Le agenzie di rating sono società private che valutano la solvibilità dei titoli privati e
pubblici. Ne esistono oltre un centinaio, ma le più importanti sono solo tre, tutte statunitensi :
Standard & Poor's, Moody's e Fitch. Le loro valutazioni, talvolta criticate, determinano gli in-
vestimenti in un titolo piuttosto che in un altro, specialmente da parte degli investitori istituzio-
nali, che dovrebbero preferire impieghi a basso rischio, visto che amministrano capitali altrui.
268 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

Tab. 29.1 - Pil pro capite dei paesi del G20 e del Mondo dal 2007 al 2016
(2007=100)

Paesi 2007 2008 2009 2010 2011

Unione Europea 100,0 100,3 95, 7 97,4 99, 2


Francia 100,0 99,6 96,2 97,6 99, 2
Germania 100,0 101,3 95,8 99, 9 105,5
Italia 100,0 98,3 92,5 93,8 94, 1
Regno Unito 100,0 98,6 93,6 94,7 95,3
Stati Uniti 100,0 98,8 95,2 96,8 97,6
Canada 100,0 99,9 95,9 97, 7 99,8
Australia 100,0 101,6 101,4 101,8 102,8
Cina 100,0 109, 1 118,8 130,7 142,5
Corea de l Sud 100,0 102, 1 102,2 108,3 111 ,5
Giappone 100,0 98,9 93,5 97,4 97,5
India 100,0 102,4 109,5 119, 1 125,3
Indonesia 100,0 104,6 108,0 113,2 11 8,6
Arabia Saudita 100,0 103,4 98,6 100,6 107,5
Turchia 100,0 99,6 93,8 100,3 109,8
Russia 100,0 105,3 97,0 101 ,4 105,6
Argentina 100,0 103,0 95,9 104,5 109,7
Brasile 100,0 104,0 102,9 109,6 112,8
M essico 100,0 99,8 93,6 96,8 99,2
Sudafrica 100,0 10 1,8 98,8 83, 7 102,2
Mondo 100,0 101,6 100,0 104,0 106,9
Fonte: Dati tratti dal sito web della World Bank. Il Pii pro capite preso in considerazione
è quello in dollari internazionali costanti del 201 l a parità di potere d' acquisto.
Nota: I valori che segnano una riduzione del Pii pro capite rispetto al 2007 sono indicati in
.
corsivo.

cava assumere decisioni impopolari, come l'aumento delle imposte o lari-


duzione delle spese, con prevedibili conseguenze negative sul piano del
consenso elettorale. Quando, in autunno, la speculazione si rivolse anche al
debito pubblico italiano, i titoli si poterono collocare sul mercato solo ga-
rantendo rendimenti più alti, con un aggravio di costi per lo Stato che dove-
va pagare interessi più elevati per continuare a fmanziarsi4 • L'Unione Euro-
pea chiese all' Italia di adottare drastiche misure di risanamento dei conti pub-

4
In Europa la condizione del debito pubblico di un paese si misura con il cosiddetto spre-
ad, ossia con la differenza tra i rendnnenti dei titoli di Stato dei paesi in difficoltà e il rendi-
mento dei titoli di Stato tedeschi, considerati un investi1nento sicuro. Lo spread italiano giunse,
nel momento più drarrunatico della crisi, a fine 2011 , a oltre 500 punti base, vale a dire a 5
punti percentuali in più rispetto ai titoli tedeschi, con tm forte aggravio della spesa per interessi.
29. La Grande recessione 269

Segue: Tab. 29.1 - Pii pro capite dei paesi del G20 e del Mondo dal 2007 al
2016 (2007=100)

Paesi 20 12 201 3 2014 201 5 20 16


Unione Europea 98,5 98,4 99,8 10 1,8 103,4
Francia 98,9 98,9 99,4 100,0 100,8
Germania 105,8 106,0 107,3 108,2 108,9
Italia 91,2 88,6 87,9 88, 7 89, 7
Regno Unito 95,9 97,1 99,3 100,7 10 1,7
Stati Uniti 99,0 100,0 101 ,6 103,5 104,4
Canada 100,4 101,7 103 , 1 103,2 103,5
AustraJia 104,7 105,6 106,8 107,8 109,3
Cina 153,0 164,0 175 , 1 186,3 197,7
Corea del Sud 113,4 116,2 119,3 122,0 124,9
Giappone 99,1 101,2 101,7 103,1 104,2
India 130,5 137,2 145 ,7 155,6 164,7
Indonesia 124,2 129,4 134,3 139,2 144,5
Arabia Saudita 110,0 109,8 110,7 112,4 111,8
Turchia 113,3 120,9 125, 1 130,6 132,3
Russia 109,1 110,3 109, 1 105,8 105,4
Argentina 107,4 108,8 105 ,0 106,7 103,2
Brasile 113,9 116,3 115,8 110,5 105,7
Messico 101,7 10 1,7 102,6 103,9 104,9
Sudafrica 102,9 103,9 104,0 103,7 102,3
Mondo 109,1 111,4 114,0 116,4 118,6

blici, per tentare di mantenere la stabilità dell' euro ed evitare spinte inflazio-
nistiche. Intanto, l' economia reale continuava a peggiorare. L'Italia aveva
conosciuto una crescita contenuta negli anni precedenti la crisi e la situa-
zione s i era aggravata successivamente (vedi tab. 29.2). Si registrarono non
solo un forte calo della produzione industriale, specialmente nel settore au-
tomobilistico, e un incremento della disoccupazione, in particolare di quella
giovanile, ma anche un rilevante ritiro di investimenti esteri e un aumento del
debito pubblico.
Ma ormai era tutta l'Europa a trovarsi di nuovo in recessione, già a pa11ire
dall'ultimo trimestre del 20 11 , quando la crisi del settore industriale risultò
particolarmente grave in Ita lia, Spagna, Po11ogallo e Grecia, con sensibili ri-
duzioni degli ordinativi e perdita di interi settori produttivi.
Le politiche di austerità e di risanamento dei conti pubblici seguite da
diversi paesi cominciarono a essere criticate da alcuni economisti, che rite-
nevano necessario adottare politiche di sostegno della domanda, come ne-
270 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

gli anni Trenta del Novecento. Essi suggerivano di ricorrere a un ulteriore


it1debitamento pubblico, mediante l' emissio11e di titoli, da vendere alle ba n-
che centrali, che vi avrebbero provveduto con la stampa di nuova moneta,
senza rischio di spinte inflazionistiche, particolarmente temute dalla Ger-
mania, perché non ci s i trovava in un p eriodo di piena occupazione ma di
elevata disoccupazione. Peraltro si riteneva che le politiche di austerità fos-
sero di ostacolo alla ripresa economica.
In un primo momento (2010) furono i paesi che avevano adottato l'euro
a costituire dei fondi intergovernativi per s ostenere gli Stati aderenti in dif-
ficoltà o per acquistare titoli di Stato sul mercato. Ma dall' estate del 20 11 ,
la Banca Centr ale Europea, che fmo ad allora si era astenuta dall' interveni-
re, decise di provvedere direttamente all'acquisto sul mercato di titoli di
Stato, immettendo liquidità nel sistema, come stavano facendo le banche
centrali di a ltri paesi (Stati Uniti, Regno Unito e Giappone). Successiva-
mente, gli interventi della Banca Centrale Europea si fecero sempre più in-
cisivi fino ad adottare, all' inizio del 2015, la politica del quantitative ea-
sing, consistente nell 'acquisto sistematico di titoli pubblici o privati me-
diante la stampa di nuova moneta.
Tale politica espansiva, co11 l' immissione di liquidità, si proponeva, in-
nanzitutto, di sostenere la ripresa economica manifestatasi dal 201 4 (vedi
tab. 29 .1), garantendo fmanziamenti a famiglie e imprese per sostenere
consumi e produzione, poi di provocare una riduzione dei tassi di interessi
sui titoli pubblici (com'è avvenuto, anche per la continua rid.uzione dei tassi
di interesse di riferimento operata dalla Banca Centr ale Europea) e, infine,
di portare l 'inflazione intorno al 2 per cento annito, con lo scopo di stimo-
lare la ripresa produttiva.

29.3. Gli effetti della Grande recessione

La Grande recessione, iniziata nel 2008 e durata almeno fino al 2013,


ma con strascichi ancora negli anni successivi, è stata sicuramente la più
grave dopo la Grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso.
In particolare, la fase del 2008-09 ha inciso profondamente sulle eco-
nomie dei paesi più avanzati ed ha provocato una riduzione della distanza
con i paesi in via di sviluppo, come risulta chiaramente dai dati relativi al-
l'andamento del Pil pro capite (in valori costanti) elaborati dalla Banca
Mondiale, riportati nella tab. 29. 1. Nel 2009, tutte le economie del G20, con
l' eccezione di Cina, India, Indones ia e Corea del Sud, accusarono una ridu-
zione del Pii pro capite rispetto all 'anno precedente, che già aveva visto ar-
29. La Grande recessione 271

Tab. 29.2 - Pil pro capite dei principali paes; europei in alcuni anni dal 1990
al 2016, in dollari internazionali 2011

Paesi 1990 2000 2005 2007 2009 20 I I 2013 2016


Francia 29.528 34.896 36.522 37.772 36.341 37.457 37.367 38.059
Germania 31.287 36.765 37.704 40.474 38.784 42. 693 42.914 44.072
Itali a 31.142 36.536 37.604 38.612 35. 71 O 36.347 34.220 34.620
Regno Unito 26.769 32.962 36.928 38.236 35. 795 36.456 37.130 38.901
Fonte: Dati tratti dal sito web della World Bank. Per ciò che riguarda la posizione dei
singoli paesi, questi dati differiscono da quelli elaborati da Maddison e utilizzati per le tabb.
26. 1 e 26.2. L'andamento del fenomeno, però, è sostanzialmente lo stesso e tale rimane an-
che se si utilizzano i dati in valori co11·enti.

retrare alcune economie, come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia e
Giappone.
Sempre in base al Pil pro capite, la crisi del 2012-13 fu meno grave eri-
guardò sostanzialmente i paesi europei. Fra i paesi del G20, soltanto l' Italia
segnò un arretramento di qualche rilievo (5,5 punti). Nel 2016, quando ormai
la crisi sembrava superata, era.n o chiari i segni che essa aveva lasciato. In no-
ve anni, il Pii pro capite del l'Unione Europea era cresciuto appena di poco
più di tre punti percentuali, con la sola Germania che aveva realizzato una
crescita di nove punti e con l' Italia che faceva ancora segnare, unica fra le
economie dei paesi del G20, una perdita del Pil pro capite di oltre dieci punti
rispetto al 2007. Gli Stati Uniti, che nel 2013 erano ritornati alla situazione
del 2007, raggiunsero un iJ.1cremento nel 2016 del 4,4 per cento.
Le economie emergenti, viceversa, per tutto il lungo periodo di crisi, fe-
cero registrare una crescita, in alcuni casi spettacolare, come quelle della
Cina e dell' India. Rispetto al 2007, la Cina aveva realizzato, nel 2013 , un
incre1nento del Pil pro capite del 64 per cento e quasi giunse a raddoppiarlo
nel 2016, conservando elevati tassi di incremento annuo, in media superiori
al 10 per cento. L 'altra grande economia emer gente, l' India, fece registrare
un incremento di quasi il 65 per cento e l'Indonesia del 44,5 per cento.
Se, infine, si considera il Pil pro capite mondiale, sempre in valori co-
stanti, si può osservare come in tutti gli anni compresi fra il 2007 e il 2016
esso sia stato costantemente in crescita, tranne che nel 2009, quando arretrò
di 1,6 punti, subito recuperati. Nel 2013, nonostante la crisi, era cresciuto
dell'l l per cento rispetto al 2007 e nel 2016 di quasi il 19 per cento.
Se confrontata con quella degli anni Trenta del Novecento, la Grande
recessione di inizio secolo XXI è stata senza dubbio meno grave. Il Pil pro
capite dei principali paesi, difatti, aveva conosciuto, fra il 1929 e il 1932,
272 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

crolli consistenti: 37 punti negli Stati Uniti, 21 in Francia e 19 in Germania


(vedi tab. 21.1). Fra il 2007 e il 2009, invece, le flessioni erano dell'ordine
di 4-5 punti e solo Italia e Regno Unito erano scesi di 6-7 punti. Entro il
20 14, tranne che in l' Italia, si era dappertutto ritornati sostanzialmente alla
situazione del 2007 (vedi tab. 29 .1 ).
Un'ultima considerazione sugli effetti della crisi a livello europeo. Co-
me mostra la tab. 29.2 (vedi anche fig. Al 1 dell'Appendice), durante il
lungo periodo di crisi si è registrata una profonda divaricazione fra le prime
quattro grandi economie (Francia, Germania, Italia e Regno Unito). Fino al
2005, difatti, il Pil pro capite in valori costanti di questi paesi mostra una
tendenza alla convergenza, per poi allargarsi notevolmente. Nel 1990 la dif-
ferenza fra il Pil pro capite più alto e quello più basso superava i 4.500 dol-
lari. Quindici anni dopo (2005) tale differenza si era ridotta a meno di 1.200
dollari, sicché i valori si assestavano intorno a uno stesso livello. Nel 2013 ,
invece, la differenza era cresciuta a quasi 8. 700 dollari e tre anni dopo
(20 I 6) a quasi 9. 500 dollari, con il Pil pro capite italiano a livelli inferiori
di quello di prima della crisi. Tutto lascia prevedere che, se vi sarà, biso-
gnerà attendere molti anni per assistere ad una nuova convergenza.
La lunga crisi ha anche contribuito a far aumentare, nei paesi dove si è
maggiormente manifestata, il divario fra le diverse categorie sociali, che
si era già manifestato in seguito alle politiche neoliberiste. U na larga fetta
della classe media è stata sospinta verso livelli più bassi di reddito e a
fame le spese sono state, in particolare, le giovani generazioni, che sten-
tano a trovare un'occupazione adeguata. Se, tuttavia, molte famiglie sono
riuscite a resistere meglio che non durante la depressione degli anni Tren-
ta d.e l Novecento, ciò è dovuto oltre che alla minore intensità della reces-
sione anche alle strutture del Welfare State, le quali, nonostante siano sta-
te ridimensionate, restano ancora vitali, specialmente in Europa, dove so-
no in grado di garantire pensioni, assistenza medica, istruzione pubblica e
sostegno a lle famiglie.
30.
LE ECONOMIE SVILUPPATE
STATI UNITI E GIAPPONE

30.1. L'egemonia degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti uscirono rafforzati dalla Seconda guerra mondiale. Durante
il conflitto sfruttarono in pieno la loro capacità produttiva e incrementarono
la produzione agricola e quella industriale per soddisfare la forte domanda
bellica. Dopo la guerra, il <<gap>> tecnologico dell' Europa nei loro confronti
risu.ltò evidente. La tecnologia americana, soprattutto i processi produttivi ba-
sati sulla catena di montaggio e sui prodotti standardizzati, fu esportata do-
vunque vi fossero le condizioni per poterla applicare. Si assistette allora, in
Europa e in molti altri paesi, a una sorta di <<americanizzazione>> a tutti i livel-
li e l'American way of /ife divenne l'esempio da imitare in tutti i campi (eco-
nomia, arte, musica, letteratura, ecc.), specialmente per le nuove ge11erazioni.
Lo stile di vita americano fu illustrato da migliaia di film, telefilm e romanzi
ed entrò nell'immaginario collettivo di molti popoli del mondo.
Gli Stati Uniti erano definitivamente diventati la maggiore potenza poli-
tica, militare ed economica del Pianeta e avevano pres o coscienza del loro
ruolo di leader del mondo capitalistico. Gli Americani si sentirono colletti-
vamente responsabili di una grande missione: combattere il comunismo
mondiale e affermare e diffondere i loro principi, basati su lla certezza della
superiorità della democrazia, del le libertà individuali e del libero mercato.
La lotta al comunismo, però, li portò, in più occasioni, ad appoggiare regi-
mi autoritari e corrotti, che non rispettavano affatto i diritti umani.
Il dollaro americano era stato posto a base de l sistema monetario inter-
nazionale e aveva assunto la funzione di moneta dei pagamenti internazio-
nali. Gli Stati U11iti goderono del particolare privilegio di uti lizzare la loro
moneta per i pagamenti all ' estero e di vedere una massa sempre più grande
di dollari trattenuti fuori dei propri confini dagli altri paesi, che li tenevano
274 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

come riserva per le loro emissioni monetarie o li utilizzavano per i paga-


menti internazionali, in particolare per acquistare il p etrolio e le altre mate-
rie prime. Il Pil pro capite americano, che nel 1950 aveva superato quello di
tutti i maggiori paesi industrializzati, crebbe al tasso del 2,5 per cento al-
l' anno fmo al 1973 (vedi tab. 14.1).
La cr escita degli Stati Uniti riguardò tutti i settori, dall'agricoltura al-
l' industria, dal commercio estero a quello interno, dalle banche al turismo.
L'agricoltura fece registrare un incremento della produttività e della produ-
zione, ma il reddito delle famiglie contadine rimase mediamente pari ai due
terzi di quello delle altre famiglie americane e, in alcuni anni, scese fino alla
metà. I farmers, oltre a godere di un grande prestigio in una società che ser-
bava ancora viva la memoria del loro ruolo nella colonizzazione dell' Ovest,
avevano anche un notevole peso elettorale, specialmente nell' elezione del
Senato. Siccome ogni Stato dell'Unione elegge due senatori (su 100 com-
plessivi), indipendentemente dal numero dei suoi abitanti, quelli che rappre-
sentavano i poco popolosi Stati agricoli dell' Ovest protessero gli interessi dei
ceti agricoli loro elettori. Il governo federale intervenne per sostener e i redditi
degli agricoltori, ma non riuscì a evitare un' eccessiva produzione di grano,
per via della crescita dei rendimenti, che si cercò di vendere all' estero quando
il mercato internazionale era in grado di assorbirla. La conseguenza fu un 'u l-
teriore riduzione degli addetti all'agricoltura e l' espulsione dal mercato di
molte piccole aziende a favore di quelle più grandi e produttive.
Le imprese continuarono a ingrandirsi. Le corporations divennero più
numerose e assunsero caratteristiche diverse da quelle dei p eriodi prece-
denti, qua11do erano gestite in modo centralizzato, spesso dallo stesso fon-
datore. Si affermò l'impresa multidivisionale, organizzata in divisioni o set-
tori, ognuno con una sua autonomia funzionale e gestionale. Dagli Stati
Uniti, l' impresa multidivisionale si diffuse in Europa, dove contribuì a mo-
dificare l' organizzazione sia delle imprese private sia di quelle pubbliche.
Inoltre, si realizzò la separazione fra la proprietà, sovente dispersa fra un
gran numero di azionisti e perciò incapace di esercitare una reale funzione
di controllo, e il management aziendale, che acquistava sempre maggiore
autonomia. In tal modo, i veri detentori del potere e delle decisioni nelle
grandi imprese divennero i manager e non gli azionisti, ai quali bastava che i
manager fossero in grado di assicurare buoni dividendi. Negli Stati Uniti, le
grandi imprese attirarono l' attenzione degli investitori istituzionali che ac-
quistarono le loro azioni e negli anni Ottanta arrivarono a possedere più
della metà delle azioni quotate in Borsa, dove il volume delle transazioni
aumentò di oltre cinquanta volte in trent'anni. Nacquero anche società
specializzate nell'acquisto di aziende o di parti di esse, che poi fraziona-
30. Stati Uniti e Giappone 275

vano o accorpavano per rivenderle con buoni profitti, dando vita a una
sorta di mercato delle aziende.
Le corporations americane, oltre che nei tradizionali rami di attività si
diffusero in particolare nell'elettronica e nell'informatica, nella chimica e
nei prodotti petroliferi. Molte di esse diedero vita, a partire dagli anni Ses-
santa, a un gran numero di conglomerate, imprese che operavano contem-
poraneamente in diversi rami produttivi. Le conglomerate, sorte già da
tempo, si svilupparono notevolmente solo a partire dal secondo dopoguerra .
Esse erano un tipo particolare di grande impresa, formata da un insieme di
attività che producevano e commercializzavano beni anche molto diversi
fra loro. In tal modo - come ha rilevato Alfred Chandler - si realizzano, ol-
tre a quelle di scala, anche economie di diversificazione, consistenti nella
possibilità di utilizzare servizi comuni, come la stessa catena di vendita e
gli stessi uffici legali. La diversificazione della produzione, inoltre, permet-
te di avvertire in modo meno traumatico le oscillazioni della domanda di un
singolo prodotto.

30.2. La reaganomics

Gli Stati Uniti realizzarono buoni risultati anche dopo il 1973, senza ac-
cusare il forte rallentamento del ritmo di crescita registrato in Europa e in
Giappone (vedi tab. 14.1). Negli anni Settanta, tuttavia, conobbero una fase
di stagnazione e di aumento dell'inflazione (la cosiddetta stagflazione), che
portò alla vittoria del repubblicano Ronald Reagan alle elezioni del 1980 e
all'adozione della politica economica neoliberista che da quel presidente
prese il nome: la reaganomics.
La lotta all'inflazione fu attuata con provvedimenti monetari e creditizi
(alti tassi d' interesse, restrizione del credito, ecc.) per tenere sotto controllo
la massa di moneta in circolazione. Il rilancio della crescita si fondò sulla
riduzione dell' imposizione fiscale, sul taglio della spesa assistenziale, su un
forte aumento della spesa militare e su una decisa liberalizzazione dei mer-
cati finanziari, industriali e del lavoro. Si cercò d'incentivare la domanda
con la diminuzione delle imposte, specialmente sui redditi medio-alti, e si
soste1me l' offerta mediante significative misure di deregolamentazione per
dare maggiore libertà alle imprese. Ciò fu possibile anche perché gli Stati
Uniti, a differenza dell'Europa, dove i lavoratori erano maggiormente tute-
lati, avevano un mercato del lavoro più flessibile e meno regolamentato. La
deregolamentazione riguardò in modo particolare il sistema bancario. Le
banche si orientarono verso il tipo di banca universale e si costituirono
276 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

gruppi creditizi di notevo li dimensioni. Negli anni Novanta fu abolita


(1999) la disti11zio11e fra ba11che commerciali e banche d'it1vestime11to, in-
trodotta durante la crisi degli anni Trenta. Fu anche consentito ( 1994) alle
banche di operare su tutto il territorio nazionale e non più soltanto nello
Stato di appartenenza, com'era stato fmo a quel momento.
Con la reaganomics, le disuguaglianze sociali aumentarono. A ciò contri-
buirono sia la riduzione delle imposte sui redditi più elevati, sui redditi da ca-
pitale e sugli immobili, sia i tagli dei fondi per l'assistenza ai disoccupati e
agli indigenti, ritenuta u.na spesa improduttiva e fattore d ' inflazione. Solo per
fare qualche esempio, si può ricord.a re che, nel 1980, l' 1 per cento degli ame-
ricani più ricchi disponeva del 9 per cento del reddito nazionale, ma un quar-
to di secolo più tardi, nel 2007, ne possedeva il 22 per cento. Inoltre, mentre i
compensi dei grandi manager erano, nel dopoguerra, di 30-50 volte quelli
degli operai e degli impiegati esecutivi, oggi sono arrivati a 400-500 volte.
La crescita delle diseguaglianze sociali - è opportuno sottolinearlo - non ha
riguardato solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri paesi sviluppati che hanno
adottato politiche economiche ispirate al neoliberismo. E la recessione degli
inizi di questo secolo non l1a fatto altro che far aumentare tali disuguaglianze.
Le elevate spese per la difesa non consentirono una riduzione del deficit
del bilancio federale, il quale, anzi, aumentò, così come crebbe notevolmen-
te il debito pubblico. Le spese militari erano ritenute necessarie per contra-
stare l'Unione Sovietica, definita da Reagan <<impero del male>>, e servirono
a costruire costosi e sofisticati sistemi di difesa e di offesa. Esse, mantenen-
do un apparato industriale rivolto alla produzione di armi e all'equipaggia-
mento delle forze armate, ebbero una funzione propulsiva dell'economia e
servirono anche a evitare la sovrapproduzione di beni di consumo. La cre-
scita economica, sostenuta da un forte calo dei prezzi delle materie prime e
dalle spese nùlitari, fu robusta e la disoccupazione diminuì.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, dopo essere stati a lungo creditori
netti verso il resto del mondo, gli Stati Uniti divennero di nuovo debitori,
perché iniportavano capitali, indebitandosi verso l'estero. Ciò significava
che, com ' era avvenuto prima della Grande guerra, gli altri paesi s osteneva-
no l'espansione americana e finanziavano il deficit della loro bilancia dei
pagamenti (si ricordi che i prestiti esteri costituiscono una voce dell'attivo
della bilancia dei pagamenti). D ' altra parte gli Stati Uniti contribuirono a
sostenere la domanda mondiale, con un forte incremento delle loro impor-
tazioni, stimolate dal grande mercato interno e favorite dalle riduzioni tarif-
farie promosse da Gatt e Wto, oltre che dal Nafta.
Nonostante qualche difficoltà, come la crisi borsistica dell' ottobre 1987,
quando Wall Street segnò, in pochi giorni, un calo delle quotazioni del 25
30. Stati Uniti e Giappone 277

per cento, l' economia americana continuò a crescere, conservando un note-


vole vantaggio sulle economie delle altre aree del mo11do (vedi tab. 28.1).
Nella seconda metà degli anni N ovanta, conobbe un lungo ciclo espansivo,
che fece scomparire il disavanzo del bilancio statale e ridt11Te il debito pub-
blico. Si procedette anche a una ristrutturazione delle imprese, che segnò il
declino del fordismo nel paese stesso che lo aveva inventato. Le impres e di-
vennero più piccole e snelle e spesso delocalizzarono alcuni processi produt-
tivi in altri paesi, specialmente in M essico. Gli Stati Uniti riuscirono a pro-
fittare della globalizzazione, che in sostanza avevano essi stessi contribuito
in modo determinante a diffondere, anche con lo scopo di affermare la loro
supremazia economica e imporre il loro modello di sviluppo.

30.3. La crisi e le trasformazioni della società americana

La fase espansiva continuò anche negli anni successivi, nonostante la


breve crisi seguita all 'attacco terroristico a lle Torri gemelle di New York
(11 settembre 2001) e la già ricordata bolla speculativa originata dalla co-
siddetta new economy, connessa con le nuove tecnologie informatiche (bol-
la delle dot-com). La crescita fu sostenuta, ancor più di prima, da una forte
espansione del credito, concesso con troppa facilità, anche per la derego-
lamentazione del sistema bancario, che ora poteva operare con maggiore li-
bertà. In tal modo, nel 2007, il debito delle famig lie americane era giunto
ad eguagliare il Pil degli Stati Uniti.
Nel 2007, come si è visto, i nodi vennero al p ettine e molti mutui su-
bprime non furono rimborsati. Con la recessione d.el 2008-09 i consumato-
ri, che sostenevano la domanda grazie all'indebitamento, si trovarono privi
di mezzi, anche per la r iduzione dell' occupazione nei comparti dell'edilizia
e dei servizi fma112iari. Ancora una volta, come nel '29, gli Stati Uniti dovet-
tero affrontare una crisi di sovrapproduzione, che vide la caduta dei consu-
mi e l'impossibilità di assorbire la gran quantità di manufatti che l'apparato
industriale era in grado di produrre. Le vendite di automobili, in particolare,
crollarono di un terzo nel 2008 e la produzione di molti beni rallentò, con il
triste corollario di un forte aumento della disoccupazione. Il governo fede-
rale dovette intervenire p er salvare banche e imprese in difficoltà, abbando-
nando sostanzialmente la politica della deregulation inaugurata da Reagan.
Gli Stati Uniti, comunque, sono usciti abbastanza bene dalla crisi (nel
2014 la disoccupazio11e era ritornata ai livelli del 2008), anche perché han-
no potuto contare sulla recente rivoluzione tecnologica dello shale gas, che
li ha resi indipendenti per qu esto tipo di combustibile. Per conseguenza, il
278 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

prezzo del gas americano è notevolmente inferiore a quello europeo, con


i1megabili vantaggi per la produzione di e11ergia elettrica e per la ripresa
economica del Paese.
Intanto, la società americana sta subendo profonde trasformazioni. Il so-
gno americano ( <<american dream>>), ossia la convinzione diffusa che negli
Stati Uniti vi fossero opportunità di lavoro e di profitto per chiunque avesse
capacità e voglia d' impegnarsi, è cominciato a venir meno. Le accresciute di-
seguaglianze sociali sono un sintomo della ridotta mobilità sociale e del fatto
che diventa sempre più difficile, in particolare per gli strati meno favoriti del-
la popolazione, aspirare a migliorare significativamente la propria condizione
economica e sociale. La società americana sembra ormai fatta per proteggere
gli interessi della parte più agiata della popolazione e per escludere dai bene-
fici della crescita economica una parte consistente di cittadini.
Anche la composizione della popolazione si sta modificando a causa della
forte immigrazione, caratterizzata dall'arrivo di numerosi individui prove-
nienti dall' America Latina e dall'Asia. Particolarmente numerosi sono di-
ventati gli ispanici (hispanics), termine con il quale negli Stati Uniti vengo-
no usualmente indicate le persone di razza mista di provenienza latinoame-
ricana con un cognome di origine spagnola. La conseguenza è stata una di-
minuzione della percentuale di popo lazione bianca (non latinoamericana),
passata dall' 85 per cento nel 1960 al 67 per cento nel 2005. Gli Stati Uniti
si avviano a diventare definitivamente un paese multiculturale e multiraz-
ziale e dovranno affrontare non pochi problemi sociali, economici e di con-
vivenza fra le varie culture.

30.4. Il miracolo economico giapponese

Il Giappone divenne, nel corso degli anni Ottanta, la seconda potenza


economica mondiale per Pii prodotto. Eppure aveva subito enormi distru-
zioni nella parte fmale della Seconda guerra mondiale, quando fu sottoposto
a continui bombardamenti aerei con il tragico sgancio di due bombe atomi-
che su Hiroshima e Nagasaki. Nel 1949, le sue condizioni erano ancora mol-
to gravi e, specialmente nelle città, la maggior parte della popolazione sof-
friva la fame o quantomeno era malnutrita. La produzione agricola era crol-
lata del 40 per cento rispetto all' anteguerra, mentre nel Paese erano affluiti
circa sei milioni di persone, fra militari smobilitati e coloni ridotti in miseria,
che rientravano dai territori occupati dal Giappone. La produzione industria-
le era crollata a un quarto di quella del 1940 e la disoccupazione era eleva-
tissima. In un solo anno, il 1945 , il Pil pro capite si era dimezzato e risultava
30. Stati Uniti e Giappone 279

pari a meno del 12 per cento di quello americano. Le speranze nel futuro di
una nazione umiliata e sconfitta erano molto basse.
Invece, a partire dal 1950 e fino al 1973, anche il Giappone conobbe il
suo miracolo economico. Il Pii pro capite aumentò in media dell'8, 1 per cen-
to all'anno, il doppio della crescita dell'Europa occidentale. La rimonta fu
straordinaria: nel 1950 il Pil pro capite era ancora pari al 28 per cento di quel-
lo britannico e al 20 per cento di quello americano, ma nel 1973 aveva quasi
raggiunto il Pil britannico e si era avvicinato a quello degli Stati Uniti (vedi
tabb. 26.1 e 26.2). Gli investime11ti e la produttività crebbero, la disoccupa-
zione fu riassorbita e le esportazioni aumentarono di ben ventitré volte.
L'eccezionale sviluppo economico giapponese si basò su diversi fattori ,
alcuni dei quali esterni al Paese.
1. La guerra di Corea (1950-53). Maturata nel clima della Guerra
fredda contrappose gli Stati Uniti, alla guida di un corpo di spedizione
delle Nazioni Unite, alla Corea del Nord comunista, sostenuta dalla Cina.
Durante il conflitto, il Giappone, situato proprio di fronte alla Corea, fu in
grado di rifornire le t1uppe americane di tutto ciò di cui avevano bisogno
in cambio di dollari, che si rivelarono preziosi per pagare le importazioni
di materie prime e di petrolio; in tal modo, la sua economia poté ripartire.
2. Gli aiuti americani. Gli Americani, che occuparono militarmente il
Giappone fino al 1952, al loro arrivo avevano smantellato il suo apparato
i11dustriale e smembrato i potenti zaibatsu, accusati di detenere troppo po-
tere economico e finanziario e di aver sostenuto lo sforzo bellico nipponi-
co. Successivamente cambiarono atteggiamento e ne consentirono la rico-
stituzione, aiutando il Giappone a risollevarsi per farne il fedele alleato
asiatico contro il comunismo.
3. La disponibilità di una tecnologia avanzata. Come nell'epoca Meiji,
la tecnologia disponibile a basso prezzo sul mercato internazionale consentì
al Giappone di recuperare il <<gap>> tecnologico accumulato fra la fine degli
anni Trenta e la fine degli anni Quaranta, quando la sua economia era rima-
sta sostanzialmente isolata dal resto del mondo. I Giapponesi seppero pro-
fittarne meglio degli altri per due ragioni: disponevano di un capitale uma-
no di alto livello e avevano un elevato volume di risparmio, dovuto a lla vita
sobria che conducevano, sicché il processo di accumulazione di capitali po-
té ripartire in modo consistente. I Giapponesi riuscirono anche a sviluppare
una propria tecnologia, soprattutto nel campo dell 'elettronica, in cui rag-
giunsero una posizione di primissimo piano, contra.stando con successo il
predominio statunitense.
4. La partecipazione al commercio internazionale. Il Giappone seppe in-
serirsi sul mercato mondiale come paese esportatore di prodotti ad alta tecno-
280 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

logia di ottima qualità. Il suo sviluppo economico fu sostanzialmente trasci-


nato dalle esportazioni, specialmente verso gli Stati Uniti, anche perché le
imprese più che alla massimizzazione del profitto puntavano all'espansione
produttiva e alla conquista di nuovi mercati.
5. L 'azione dello Stato. Il governo adottò numerosi provvedimenti a so-
stegno dell' economia e delle imprese: tenne bassi i tassi d' i11teresse e in-
dusse le banche a finanziare le imprese che introducevano nuove tecnolo-
gie; ridusse le imposte sui redditi e sugli investimenti di capitali e concesse
sgravi fiscali alle imprese che investivano in <<ricerca e sviluppo>> 1; favorì la
costituzione di cartelli (vietati dagli Americani d.u rante l' occupazione); va-
rò misure protezionistiche per ostacolare l'importazione di merci straniere,
sia attraverso barriere tariffarie sia attraverso barriere non tariffarie; realiz-
zò un' imponente riforma agraria (1950), che ridistribuì a circa cinque mi-
lioni di contadini terre acquistate a basso prezzo dai proprietari assenteisti.
6. La collaborazione fra governo e imprese. Questo tipo di cooperazione
consentì di predisporre specifiche politiche d ' intervento e persino una pia-
nificazione indicativa per i singoli comparti industriali. I ministeri, fra i quali
spiccava per autorevolezza e impegno il celebre M iti (Ministero del com-
mercio internazionale e dell' industria), predisponevano direttive concordate
con g li imprenditori, che, in genere, questi ultimi e le loro associazioni ap-
plicavano diligentemente, in uno spirito di collaborazione, per raggiungere
. .
scopi comuru.
7. La collaborazione fra singole imprese. La collaborazione riguard.ò in
particolare le imprese che facevano parte dei keiretsu, i nuovi gruppi im-
prenditoriali eredi degli zaibatsu. I keiretsu sono gruppi senza struttura ge-
rarchica, formati da numerose imprese con partecipazioni azionarie incro-
ciate 2 e con incarichi direttivi intrecciati. Le imprese che ne fanno parte, te-
nute assieme più da vincoli di carattere etico che di tipo giuridico, sono en-
tità indipendenti che elaborano autonomamente le proprie strategie, in col-
laborazione con le a ltre società affiliate, fra le quali vi è sempre una banca
che li finanzia.
8. La collaborazione fra management delle imprese e dipendenti. Que-
sta forma di collaborazione rientrava nella tradizione confuciana di rispetto
delle gerarchie all'interno del gruppo al quale si appartiene, e quindi anche

1
L'espressione ricerca e sviluppo (in sigla R&S) indica le attività mediante le quali
un' impresa studia e sperimenta la fattibi lità tecnica di nuovi prodotti (,icerca) e traduce
queste conoscenze in una fonna che ne consenta la reali zzazione industriale (sviluppo).
2
Si hanno partecipazioni azionarie incrociate, quando una società (A) possiede azioni di
un'altra società (B), che a sua volta possiede azioni della società A. In tal modo, uomini di A
possono far parte del Consiglio di amministrazione di B, e viceversa.
30. Stati Uniti e Giappone 28 1

all' interno dell' azienda. I manager garantivano la sicurezza del posto di la-
voro e prevedevano una serie di benefici (formazione professionale, au-
menti salariali di anzianità, gratifiche periodiche, ecc.), in cambio della fe-
deltà dei dipendenti. La diffusione di public companies, inoltre, consenten-
do a un gran numero di persone di diventare azionisti di grandi società,
contribuì a legare i Giapponesi alle imprese nelle quali investivano e delle
quali spesso erano dipendenti.

30.5. Il decennio perduto del Giappone

Il G iappone, per i successi raggiunti, risentì meno di altri paesi delle cri-
si petrolifere degli anni Settanta. La crescita del Pil rallentò, anche in modo
consistente, ma conservò livelli superiori a quelli dell'Europa e degli Stati
Uniti (vedi tab. 14.1). Si procedette a una ristrutturazione produttiva, attra-
verso l' introduzione di nuovi metodi (la <<produzione s11ella>>, inventata pro-
prio dai Giapponesi) e l'utilizzazione diffusa dei robot, che sostituirono il
lavoro umano, garantendo la competitività internazionale di molte indu-
strie. Negli anni Ottanta, quando il Giappone era diventato la seconda po-
tenza economica mondiale, la sua crescita s'intensificò, facendo registrare
un incremento medio annuo del Pii pro capite di circa il 3,5 per cento.
Negli anni Novanta, invece, l' incremento del Pii pro capite crollò ad ap-
pena lo 0,7 per cento all 'anno. Che cosa era successo? Il Giappone era stato
investito da una. grave crisi, che presenta non poche analogie con quella
americana e mondiale del 2008-09. L e cause dell' inversione di tendenza
sono da ricercarsi proprio nella crescita precedente, durante la quale le espor-
tazioni verso gli Stati Uniti erano aumentate e il governo aveva adottato
u na politica di espansione del credito, mediante la riduzione dei tassi d ' in-
teresse, che comportò la stampa di nuova ca1tamoneta. La disponibilità
monetaria risultò elevata, anche per l'alto livello del risparmio interno, e i
Giapponesi (imprese, istituzioni fmanziarie e famig lie) effettuarono inve-
stimenti in titoli azionari e in immobili.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, il corso delle azioni giunse a tri-
plicarsi e i prezzi degli immobili quasi raddoppiarono, mentre il livello ge-
nerale dei prezzi rimaneva stabile e i consumi aumentavano, sostenuti dal-
1' elevata occupazione. L'economia sembrava solida e i Giapponesi si atten-
devano ancora un lungo periodo di crescita, senza rendersi conto che stava-
no entrando in u11a bolla speculativa. La bolla scoppiò all' inizio del 1990,
quando alcuni investitori cominciarono a vendere le loro azioni, proprio
mentre la Banca del Giappone, per ridurre la massa monetaria in circola-
282 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

zione, si era convinta a elevare il tasso ufficiale di sconto. In due anni e


mezzo l'indice della Borsa crollò del 63 p er cento e i prezzi delle proprietà
immobiliari, acquistate con i prestiti facili delle banche, precipitarono. Le
conseguenze furono quelle solite in tali casi: gli istituti finanziari e le ban-
che non riuscirono a recuperare i loro crediti e molti fallirono o dovettero
essere salvati, il credito bancario si ridusse notevolmente, i co11sumi rista-
gnarono e parecchie industrie dovettero ridurre la produzione, la disoccu-
pazione aumentò e tutta l'economia entrò in crisi. Perciò si è parlato, a pro-
posito del difficile periodo attraversato dal Giappone negli anni Novanta, di
un decennio perduto.
Per contrastare la crisi fu varato un piano di grandi lavori pubblici, il
costo del denaro fu portato a livelli bassissimi (0,25 p er cento) e si avviò un
processo di deregolamentazione. Gli investimenti cominciarono di nuovo a
crescere, anche se solo in alcuni settori, mentre il debito pubblico continua-
va ad aumentare. Durante la fase di ristagno dell'economia nipponica furo-
no introdotte forme sostanziali di protezione per alcune industrie (ricorren-
do a barriere non tariffarie) e si fece ricorso al dumping, pur di conservare i
mercati di sbocco ai propri prodotti. Solo nei primi anni del nuovo secolo
l' economia giapponese mostrò segni di ripresa, con un Pil pro capite che,
fra il 2002 e il 2007, aumentò a un tasso medio annuo del 2 per cento.
Durante la crisi del 2008-09 il Pil pro capite giapponese si ridusse del
6,5 per cento e solo nel 2013 riuscì a tornare ai livelli del 2005 (vedi tab.
29 .1 ). Inoltre nel 2011 risentì del violento terremoto e del conseguente di-
sastro della centrale atomica di Fukushima. Il Giappone, con i suoi quasi
130 milioni di abitanti è - secondo i dati in valori costanti pubblicati dalla
Banca mondiale - la quarta potenza economica del Pianeta in termini di
Pii complessivo, dopo Cina, Stati Uniti e India (in valori con·enti è ancora
al terzo posto).
31.
LE ECONOMIE SVILUPPATE
L'UNIONE EUROPEA

31.1. Il Mercato comune

Nel secondo dopoguerra, la generazione che aveva vissuto due conflitti


mondiali, rappresentata da uomini come i francesi Robert Schuman e Jean
Monnet, gli ita liani Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, il tedesco Conrad
Adenauer e il belga Paul-Henri Spaak, avviò con convinzione e con grande
impegno un processo d ' integrazio11e economica che successivamente portò
alla nascita dell'Unione Europea. I paesi che aderirono ai vari organismi
via via istituiti furono chiamati a ceder e una parte della loro sovranità, in
uno o più ambiti, a organismi sopranazionali, ma spesso lo fecero con r i-
luttanza. Finora ogni tentativo di costruire un'unione politica è risultata
vana e ciò ha contribuito a far diminuire il p eso dell'Europa, che sulla sce-
na internazionale non è in grado di presentarsi come un' unica entità politi-
ca ed economica.
All'inizio, gli sforzi principali furono concentrati sull' ampliamento dei
mercati, ritenuti troppo limitati e non in grado di garantire una conveniente
collocazione ai prodotti di massa. Si reputava che solo mer cati più ampi e
imprese di maggiori dimensioni potessero assicurare economie di scala e un
aumento della produttività. L ' Oece, sorta per accogliere e convogliare ver-
so gli Stati Uniti le richieste d 'intervento del Piano Marshall, fu una pale-
stra di cooperazione economica. Consentì di compilare statistiche a livello
europeo, di prevedere una progressiva liberalizzazione degli scambi e per-
sino di abbozzare un piano quadriennale europeo. Ma le rivalità fra i paesi
europei non consentirono di ottenere bu.o ni risultati sulla strada dell'amplia-
mento dei mercati.
Perciò, il primo passo verso l' integrazione europea fu compiuto da tre
piccoli Stati, che allora contavano circa 19 milioni di abitanti, cioè il Bel-
gio, i Paesi Bassi e il Lussemburgo, i quali diedero vita (1948) a un'unione
284 L 'ecoriomia contemporanea (1950-2017)

doganale, il Benelux, che decise la libera circolazione delle merci al suo in-
terno e stabili un'unica barriera doganale esterna.
Qualche anno più tardi, nel 1951, su iniziativa del ministro degli Esteri
francese Robert Schuman, fu fondata, con il trattato di Parigi, la Comunità
europea del carbone e dell 'acciaio (Ceca), alla quale parteciparono la Fran-
cia, la Germania occidentale, l' Italia e i tre paesi del Benelux. La durata
della Ceca era prevista per cinquant'anni e perciò ebbe termine nel 2002.
Essa era un 'unione doganale per il minerale ferroso, il carbone, il coke e
l' acciaio ed esercitava il controllo sulla produzione e sulla vendita di quei
beni. La Comunità ebbe successo e la produzione di acciaio aumentò da 34
a 56 milioni di tonnellate fra il 1950 e il 1958, quando gli Stati Uniti ne
producevano 77 milioni e la Gran Bretagna 20 milioni.
Ma il passo più importante fu compiuto con i trattati di Roma del 1957,
sempre fra i sei paesi che avevano dato vita alla Ceca . Nacquero allora la
Comunità economica europea (Cee) - o Mercato comune europeo (Mec) -
e la Comunità europea p er l 'energia atomica (Ceea o Euratom), entrate in
funzione all' inizio del 1958, con scopi molto più ambiziosi.
L 'Euratom si proponeva di promuovere lo sviluppo delle ricerche e la
diffusione delle conoscenze in materia nucleare, nonché di provvedere
all 'approvvigionamento della materia prima necessaria, assicurandone un
uso pacifico. Non essendo stata prevista alcuna scadenza, questa organizza-
zione è ancora in attività e si occupa in particolare della sicurezza in mate-
ria nucleare.
Ben più importante fu il Mercato comune, che si prefiggeva la libera
circolaz ione delle merci, dei lavoratori, dei capitali e dei servizi, da realiz-
zare entro dodici anni. Si dovevano abolire i dazi doganali e le restrizioni
quantitative agli scambi, bisognava fissare una tariffa doganale comune, ga-
rantire la libera concorrenza e praticare politiche comuni nel campo com-
merciale ( verso i paesi terzi) e in quelli agricolo, dei trasporti e sociale. I ri-
s11ltati furono superiori alle attese ed entro il 1968, con anticipo sui tempi
previsti, i dazi tra gli Stati membri erano stati completamente eliminati.
La Gran Bretagna, pure invitata a entrare nel 11uovo organismo, non vi
aderi, perché non voleva rinunziare a parte della propria sovranità e ai suoi
legami particolari con i paesi del Commonwealth. Tuttavia, non era contra-
ria a semplici aree di libero scambio e, perciò, promosse, assieme ai paesi
scandinavi, alla Svizzera, ali' Austria e al Portogallo, l'Associazione euro-
p ea di libero scambio (Efta, European Free Trade Association), che entrò in
funzione nel 1960. Ma già qualche anno dopo, la Gran Bretagna chiese di
essere ammessa al Mercato comune, uscendo dall'Efta. L'opposizione della
Francia ne ritardò l'ingresso, che avvenne solo nel 1973, assieme al i'Irlan-
31. L 'Unione Europea 285

da e alla Danimarca. Negli anni Ottanta aderirono alla Comunità europea


anche la Grecia, la Spagna e il Portogallo e, nel 1995, l' Austria, la Finlan-
dia e la Svezia.
La crescita economica dei sei paesi della Comunjtà durante l'età del-
1' oro fu veramente imponente. Tutti gli indicatori economici mostrano un
andamento che ha del <<miracoloso>> e il Pil non fece che aumentare a tassi
mai raggiunti né nei periodi precedenti né in quelli successivi. Per fare un
solo esempio, basti considerare come, fatta uguale a 100 la produzione in-
dustriale del 1938, ossia di prima della guerra, essa fosse giunta già nel
1958 a 195 nella Germarua occidentale, a 188 in Francia e a ben 232 in Ita-
lia. Anche l'agricoltura conobbe una forte espansione ed entro il 1960 rese
la Comurutà autosufficiente in molti prodotti (latte e suoi derivati, carne
suina e ortaggi) e quasi autosufficiente in altri (grano, zucchero e pollame).
Il commercio estero dei paesi della Cee, per conseguenza, aumentò di ben
2,4 volte fra il 1953 e il 1962, quando essi controllavano il 24 per cento del
commercio mondiale.
Una notevole importanza riveste la politica agricola comunitaria
(Pac), prevista dai trattati istitutivi della Comunità. La sua attuazione, pe-
rò, non fu facile per le divergenze di interessi fra i paesi dell' Europa set-
tentrionale, produttori di cereali, di latte e dei suoi derivati, e quelli del-
1'Europa meridionale, che producevano ortaggi, vino e olio. La Pac si
proponeva principalmente d' incrementare la produttività dell'agricoltura
e di assicurare un equo tenore di vita ai ceti agricoli.
Per realizzare questi obiettivi bisognò sostenere i redditi degli agricol-
tori e proteggere la produzione dalla co11con·enza estera, specialmente da
quella d.ei paesi in via di sviluppo, che riuscivano a produrre a costi più
bassi. I prezzi furono necessar iamente tenuti alti, a scapito dei consumato-
ri, e quando si realizzavano delle eccedenze di prodotti, queste venivano
acquistate dalla Comurutà e distrutte. E' facile comprendere come una tale
politica fosse molto costosa, tanto da assorbire buona parte del bilancio
comurutario. I tentativi di modificarla si scontrarono p er lungo tempo con
la violenta opposizione degli agricoltori che non intendevano rinunziare
al sostegno comunitario e solo dagli anru Novanta fu possibile mitigare la
protezione accordata al settore.
Con i paesi del Terzo Mondo, in particolare con gli ex possedimenti co-
loruali, la Comunità europea stipulò diverse convenzioni, a partire da quella
di Yaoundé, nel Camerun (1963), che prevedeva forme di cooperazione
commerciale, tecruca e finanziaria con diciotto Stati africani, in gran parte
ex colorue francesi e belghe. In seguito, tali rapporti preferenziali furono
estesi anche alle ex colonie britannjche del Commonwealth.
286 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

31.2. L'Unione Europea e l'euro

Le crisi petrolifere degli anni Settanta e il crollo del sistema dei cambi
fissi colpirono in modo particolare i paesi dell'Europa occidentale. Il Pil
pro capite aumentò, fra il 1973 e il 2003 , dell' 1,9 per cento all'anno, vale a
dire meno della metà della crescita registrata nel periodo precedente e la
produttività del lavoro cominciò a diminuire. Nel frattempo rallentava la
crescita demografica e il vecchio continente fu interessato da un imponente
flusso d' immigrazione. I principali problemi dell' economia europea erano
la disoccupazione e l'inflazione. La disoccupazione raggiu.nse livelli altis-
simi, che, fra il 1994 e il 1998, oscillarono mediamente intorno all 'l 1 per
cento, mentre durante l'età dell' oro erano stati inferiori al 3 per cento. Una
disoccupazione così elevata riuscì ad essere sopportata solo grazie al siste-
ma di sicurezza sociale (pensioni, indennità di disoccupazione, assegni fa-
miliari, assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattia, assistenza
medica per tutti, ecc.), che fece crescere l' indebitamento pubblico. D ' altra
parte, proprio il tenore di vita raggiunto dagli Europei e l'elevato costo del
lavoro, grazie alle conquiste sindacali dei decenni precedenti, metteva i
prodotti europei in difficoltà sui mercati mondiali, dove si affacciavano in
misura sempre maggiore quelli a basso costo dei paesi in via di sviluppo.
La lotta all 'injlazione, che in alcuni paesi superò il 16 per cento medio
annuo (1974-83), indusse i governi a tralasciare un' efficace politica di lotta
alla disoccupazione per puntare sulla stabilità dei prezzi. Essendo saltato
anche il sistema dei cambi fissi, si temeva che l' inflazione si potesse tra-
sformare in iperinflazione e si adottarono politiche restrittive del credito,
che non favorivano g li investimenti e quindi la creazione di nuovi posti di
lavoro. Le politiche deflazionistiche, comunque, ebbero successo e
l' inflazione, a partire dalla metà degli anni Ottanta cominciò a decrescere,
per portarsi poco sopra il due per cento nel periodo 1994-98 e rimanere in-
torno a quei valori anche successivamente.
La necessità di combattere l' inflazione era dovuta anche a un obiettivo
che i paesi europei volevano perseguire: realizzare l' unione monetaria. Una
proposta in tal senso era già stata avanzata nel 1970, ma era stata accanto-
nata in seguito alla fine del s istema di Bretton Woods. Se ne ricominciò a
parlare molto tempo dopo, nel 1989. Nel frattempo, i paesi dell'Europa oc-
cidentale tentarono di limitare l'oscillazione dei cambi delle loro monete
mediante appositi accordi. Quello più importante riguardò la costituzione
del Sistema monetario europeo (Sme), entrato in vigore 11el 1979, che pre-
vedeva la fissazione di una parità fra le monete aderenti e la possibilità di
oscillazioni del 2,25 per cento in più o in meno. La lira italiana, più debo le,
31. L 'Unione Europea 287

fu autorizzata a fluttuare del 6 per cento, concessione che durò fino al 1990.
Le parità furo110 calcolate in una nuova u11ità di conto, l'Eci, (European
Currency Unit), composta di un <<paniere>> di monete europee. Negli anm
successivi, però, a lcune monete, come il franco francese e la lira ita liana,
furono svalutate, mentre il marco fu rivalutato. Lo Sme conseguì modesti
risultati fmo al 1992, quando entrò in crisi. L'Italia e il Regno Unito ne usci-
rono, lasciando fluttuare liberamente le loro monete e l'anno successivo la
banda di oscillazione fu portata al 15 per cento, decisione che significava il
sostanziale fallimento del sistema europ eo dei cambi fissi.
Proprio nel 1992, intanto, veniva stipulato il Trattato di Maastricht
(Olanda), con il quale la Comunità economica europea si sarebbe trasfor-
mata in Unione Europea, con lo scopo di perseguire l'unione politica, eco-
nomica e monetaria. Fu decisa l'introduzione di u na moneta unica, l' euro,
in sostituzione di quelle dei singoli Stati e vennero fissati rigidi criteri di
convergenza, ai quali i paesi che volevano a dottare la nuova moneta si do-
vevano attenere. Questi criteri, in sostanza, miravano ad assicurare stabilità
alla nuova moneta e perciò ognj paese s'impegnava a contenere il deficit
del bilancio statale entro il 3 per cento del Pii e a ridurre gradualmente il
debito pubblico (se più elevato) entro il 60 per cento del Pil.
L 'euro fu introdotto nel 1999 come moneta di conto (utilizzata a fmi
contabili e p er i pagamenti non in contanti) e nel gennaio del 2002 come
moneta effettiva, con la speranza di poter fa re concorrenza al dollaro come
moneta internazionale. Esso fu adottato da dodici paesi (su quindici), con
l' importante e sigmficativa eccezione della Gran Bretagna, che continuò a
utilizzare la sterlina. L 'emissione della nuova moneta è stata affidata alla
Banca Centrale Europea (Bee), che ha il compito di definire e attuare la
politica monetaria nell' area dell'euro (la cosiddetta <<Eurozona>>) e di dete-
nere e gestire le riserve degli Stati membri. Essa si propone innanzitutto di
garantire il potere d' acquisto dell' euro e la stabilità dei prezzi. Il Consiglio
direttivo della Bee è composto dai governatori delle banche centrali degli
Stati aderenti all'euro, le quali hanno p erso la sovramtà che avevano sulle
loro precedenti monete.
In seguito, l' Unione si è ulteriormente allargata fino a comprendere 28
Stati, che contano poco più di 500 milioni di abitanti, inclusi alcuni paesi
dell'Europa orientale (Poloma, Ungheria, Repubblica ceca, Repubblica slo-
vacca, Slovema, Croazia, Bulgaria e Romania) o appartenenti all'ex Unione
Sovietica (Estoma, Lettonia e Lituama). Fino al 2018 diciannove paesi
hanno adottato l'euro e cioè Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lus-
semburgo, Spagna, Portogallo, Irlanda, Austria, Grecia, Finlandia, Slovac-
chia, Slovenia, Malta, Cipro, Estonia, Lettonia e Lituania. Nel mese di giu-
288 L 'eco11.omia contemporanea (1 950-2017)

gno del 2016, un referendum nel Regno Unito ha sancito l'uscita di quel
paese dall'Unione Europea (la cosiddetta Brexit), che avverrà, se non vi sa-
ranno ripensamenti, entro il 2019.

31.3. La lenta crescita della Gran Bretagna

Nel secondo dopoguerra, i paesi più grandi dell' Europa occidentale - Gran
Bretagna, Francia, Germania e Italia - ebbero destini comuni, segnati dalla
costruzione dell'Unione Europea, ma, specialmente agli inizi, ognuno seguì
un proprio percorso per realizzare il grande sviluppo della seconda metà del
ventesimo secolo. La Gran Bretagna, nonostante fosse uscita vincitrice dal
secondo conflitto mondiale, si trovò in gravi difficoltà e dovette prendere
atto che ormai la leadership economica (e politica) mondiale era defmiti-
vamente passata agli Stati U11iti. Durante la guerra aveva accumulato un
pesante debito estero e fu costretta a chiedere un prestito di ben cinque mi-
ljardi di do llari agli Stati Uniti e al Canada per pagare le importazioni di
derrate e di materie prime. Inoltre, fu particolarmente provata dal rigido in-
verno del 1946-47, che coprì le isole britanniche di una coltre di ghiaccio e
paralizzò l' economia per diverse settimane, durante le quali, oltre al pane,
dovette essere razionata anche la con·ente elettrica.
Il nuovo governo laburista mise mano a una serie di nazionalizzazioni
(Banca d'Inghilterra, telecomunicazioni, aviazione civile, carbone, elettrici-
tà, trasporti, gas, siderurgia), che non mutarono i caratteri dell' economia di
mercato. L ' 80 per cento delle industrie rimase ai privati e le imprese nazio-
nalizzate, più che diventare il settore trainante dell' economia, si trovarono a
rimorchio di quelle private. Di grande importanza furono i provvedimenti
tesi a realizzare il Welfare State, così come proposto da Lord Beveridge. Fu
istituito, prima che in altri paesi, il Serviz io sanitario nazionale, che doveva
garantire la completa assistenza medica a tutti i residenti nel R egno Unito,
si varò un vasto programma di edilizia pubblica per ricostruire gli immobili
distrutti dai bombardamenti, s 'introdussero diverse forme di assistenza ai
lavoratori e ai cittadini e venne migliorato il sistema dell' istruzione.
Superati i difficili momenti dell' immediato dopoguerra, l'economia ri-
prese a crescere e i cittadini britannici poterono entrare nell' era dei consumi
di massa qualche anno prima del resto dell'Europa. Ma si trattò di una cre-
scita lenta. Dalla fine del conflitto agli anni Novanta, difatti, il Pii pro capi-
te del R egno Unito aume11tò a un ritmo medio di circa il 2 per cento all' an-
no. Sembrava - com'è stato scritto - che questa percentuale <<fosse stata elar-
gita ali ' economia britannica per grazia divina>>, quasi che, effettuato lo
31. L 'Unione Europ ea 289

sforzo di trainare la prima rivoluzione industriale, la Gran Bretagna avesse


acquisito il diritto a un tasso di crescita modesto, ma costa11te, del quale si
doveva accontentare (vedi tab. 14.1). Gli Inglesi non s ' impegnarono in mo-
do particolare nella modernizzazione dell'economia e trascurarono campi
come la <<ricerca e sviluppo>>, l'incremento della produttività e l'innova-
zione tecnologica, mentre la bilancia commerciale continuava a essere pas-
siva, perché si importava più di quanto si esportasse.
La crisi p etrolifera fu particolarmente dura e coincise con un lungo
sciopero dei minatori che, nel 1974, bloccò l' economia britannica, chiaro
sintomo di un malessere sociale abbastanza diffuso. Alcune crisi cicliche
colpirono in modo particolare il Paese d'oltremanica e, in certi anni (1974-
75 , 1980-81, 1991), il Pil invece di aumentare fece registrare una diminu-
zione, anche se non molto grave. Negli anni Ottanta, la politica neoliberista
di Margaret Thatcher portò alla privatizzazione di molte indt1strie statali
(telecomunicazioni, gas, automobili, ecc.), alla riduzione della sp esa pub-
blica, che fece peggiorare la qualità dei servizi (sanità, istruzione, ecc.) e a
un processo di ristrutturazione industriale, che comportò la chiusura delle
fabbriche inefficienti e un aumento della disoccupazione, passata, in pochi
anni, da due a oltre tre milioni di persone. Le privatizzazioni, comunque,
fecero aumentare la partecipazione dei risparmiatori al capitale delle società
messe sul mercato e molti cittadini divennero azionisti, fornendo capitali
freschi alle imprese.
Negli anni Ottanta e Novanta si svilupparono nuovi settori di avanguar-
dia (in particolare l'elettronico) a scapito soprattutto dell' industria pesante e
di quella tessile. Inoltre, la Gran Bretagna iniziò a sfruttare, dal 1975, as-
sieme alla Norvegia, i ricchi giacimenti p etroliferi scoperti nel Mare d.el
Nord. La produzione complessiva dei due paesi, sia di petrolio che di gas
naturale, giunse al 4-5 per cento di quella mondiale e consentì al Regno Uni-
to di coprire il suo fabbisogno energetico e anche di esportare petrolio.
A cavallo del nuovo secolo, l'economia britannica conobbe una fase di
crescita accelerata. Il Pil pro capite, a partire dal 1995 e fino al 2007, au-
mentò in media del 3 per cento all' anno, superando la soglia del fatidico 2
per cento (vedi tab. 14.1), anche grazie a una ritrovata competitività dei pro-
dotti nazionali. La Gran Bretagna recuperò il ritardo accumulato e la City di
Londra riacquistò il ruolo d' importantissimo centro finanziario mondiale.
Oltre ad ospitare i grandi gruppi bancari che si erano formati nel Paese, es-
sa attirò un gran numero di banche estere, diventando la seconda piazza fi-
nanziaria del mondo dopo quella di New York. Ma la crisi iniziata nel 2008
colpì in modo particolare l' economia britannica, che dovette segnare una
nuova battuta d' arresto (vedi tab. 29.1).
290 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

Anche l' agricoltura si andò modernizzando, come avveniva in tutti i


paesi sviluppati. Fece ricorso alle nuove tecnologie per sfruttare le su e terre
più fertili, ma continuò a perdere addetti. Nel 2011 erano ormai solo poco
più dell'un per cento della popolazione attiva e riuscivano ad assicurare
meno del 60 per cento del fabbisogno del Regno Unito, che continua a do-
versi rifornire all'estero. Il settore, sostenuto dagli aiuti comunitari, aveva
ormai un ruolo marginale nell'economia britannica, una delle più terziariz-
zate al mondo.
Come si è visto, la Gran Bretagi1a decise di non aderire all' euro e co11Ser-
vò la vecchia sterlina. Anche se la metà d.ei traffici britannici si svolgevano
con l'Europa continentale, il governo, sostenuto dall'opinione pubblica, deci-
se di tenersi fuori dall'euro. Non si voleva cedere all' Unio11e Europea la pro-
pria sovranità monetaria e si voleva conservare la possibilità di fissare i tassi
d'interesse, tanto più che la City era diventata di nuovo un grande mercato
finanziario mondiale e se ne voleva conservare la completa autonomia.

31.4. L'economia francese

La Francia, uscita dalla guerra con gi·avi distruzioni materiali sull' intero
territorio nazionale, presentava alcune debolezze sostanziali: la popolazione
era rimasta praticamente invariata nei cinquant'anni precedenti (e perciò
era invecchiata), l' economia era chiusa verso l' esterno e riusciva a soste-
nersi solo con misure protezionistiche e grazie ai rapporti commerciali con
le colonie. Il governo, dopo la lunga occupazione 11azista, 110n aveva né gli
strumenti né la volontà per impegnarsi a fondo in un ' efficace politica eco-
nomica. Il Paese, inoltre, era ancora troppo legato a ll'agricoltura, che con-
servava un numero di addetti particolarmente elevato.
All' indomani della liberazione, però, la Francia fu capace di uno slancio
nazionale, a l quale parteciparono tutte le parti politiche e l' intera popolazio-
ne. Ciò consentì di riprendersi rapidamente e in cinque anni il Pil pro capite
arrivò a raddoppiarsi. Il Paese poté entrare con determinazione nei <<trenta
gloriosi>>, come i Francesi chiamano gli anni della golden age, che per loro
iniziò con anticipo sugli altri paesi europei. La popolazione, nel rinnovato
clima di fiducia, riuscì a invertire la tendenza negativa che durava da troppo
tempo e riprese a crescere a ritmi sostenuti. Dalla fme della gue1Ta a oggi, es-
sa è aumentata di oltre il 60 per cento, mentre quelle del Regno Unito, della
Germania e dell' Italia sono cresciute di circa il 25 per cento. Ancora una vol-
ta, la crescita d.e mografica si è rivelata un potente fattore di sviluppo in un
paese dotato di risorse umane e materiali e di infrastrutture adeguate. La rico-
31. L 'Unione Europea 29 1

struzione fu realizzata a tempo di record, anche perché la Francia aveva accu-


sato una caduta delle attività produttive negli anni dell'occupazione nazista
(1940-44). Dopo la Liberazione poté subito iniziare la fase di rilancio in tutti
i settori e, nel 1949, la produzione era tornata ai livelli del 1939, che era stato
l'anno migliore del periodo compreso fra le due guerre mondiali.
L ' obiettivo principale fu la modernizzazione sotto la guida dello Stato.
Pur rimanendo legata ali' economia di mercato, la Francia s 'indirizzò, come
altri paesi dell'Europa continentale, verso una forma di economia mista, con
la creazione di un ampio settore pubblico accanto a quello privato. Il primo
passo fu la nazionalizzazione di diverse imprese, eseguita immediatamente
fra il 1944 e il 1946, che riguardò alcuni settori strategici: l'energia ( carbone,
elettricità e gas), i trasporti (aerei e marittimi) e il credito (grandi banche).
Grazie all' impegno di Jean Monnet, fu introdotta, già sul fmire del 1946,
la pianificazione economica, mediante l'approvazione di piani quadriennali,
volti dapprima alla ricostruzione e poi alla crescita economica. I risultati fu-
rono notevoli, sia nella produzione industriale sia in quella agricola. L 'agri-
coltura si modernizzò, fece largo uso di macchine e vide aumentare la sua
produttività, mentre un consistente esodo rurale forniva manodopera alle
fabbriche. Lo Stato promosse anche l' apertura dell' economia verso l' ester-
no. Furono abbandonate le pratiche protezionistiche e le strategie autarchi-
che e la Francia, con Robert Schuman, fu tra i più convinti sostenitori della
costruzione del Mercato comune europeo.
La crisi petrolifera degli anni Settanta indusse la Francia a puntare sulle
centrali nucleari per la produzione di energia elettrica e oggi, in questo
campo, è seconda solo agli Stati Uniti. Dopo la crisi, la politica economica
francese fu caratterizzata da un alternarsi di privatizzazioni e nazionalizza-
zioni. Dapprima venne seguita una politica economica liberista, tesa al ri-
lancio della competitività delle imprese attraverso l' innovazione e la priva-
tizzazione di alcune industrie di Stato. Negli anni Ottanta, il governo socia-
lista, in controtendenza con quanto avveniva in altri paesi europei, effettuò
ulteriori nazionalizzazioni (grandi banche e gruppi industriali chimici, side-
rurgici, dell' informatica e degli armamenti) e aumentò i salari e la spesa
pubblica per rilanciare i consumi interni. Ma poi riv ide il suo programma :
tagliò le spese, congelò i salari e svalutò il franco. Negli anni Novanta fu-
rono anche riprivatizzate alcune imprese precedentemente nazionalizzate.
Oggi la Francia ha un' economia prospera, fondata principalmente sui
servizi, possiede la più forte agricoltura dell'Unione Europea, un'industria
di altissimo livello ed è il primo paese al mondo per numero di turisti stra-
nieri che riesce ad attirare. Lo Stato conserva una considerevole presenza
nell'economia e controlla circa un terzo delle attività industriali e la mag-
292 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

gior parte di quelle finanziarie. L'efficienza della pubblica amministrazione


è garantita da una classe di funzionari molto preparati, appositamente for-
mati in prestigiose
,
scuole della funzione pubblica, la più famosa delle quali
è l' Erra (Ecole nationale d'ad.m inistration).

31.5. Le due Germanie

La Germania, prostrata materialmente e moralmente dalla guerra, rimase


priva di un proprio governo fino al 1949. Gli occupanti (specialmente i So-
vietici) cominciarono subito a smantellare l' industria degli armamenti e altre
industrie pesanti, parte delle quali acquisirono in conto delle riparazioni che
pensavano d' imporre al nemico sconfitto. Lo scopo degli Alleati era d 'impe-
dire alla Germania di ricostruire un apparato produttivo e una concentrazione
del potere economico che le avevano consentito di sostenere il p eso di due
guerre mondiali a distanza di poco tempo. Perciò, smembrarono le grandi
imprese e le grandi banche, che furono divise in società di più modeste di-
mensioni. P er ciò che riguarda la moneta, dopo infruttuose discussioni, gli
Americani e i loro alleati, senza consultare i Sovietici, introdussero, nel 1948,
una nuova moneta per i territori sotto il loro controllo, il Deutsche Mark, in
sostituzione del vecchio Reichsmark, ormai completamente privo di valore.
Questo provvedimento acuì i co11trasti fra le potenze occupanti e portò alla
definitiva divisione della Germania in due Stati separati.
La Germania occidentale (Repubblica Federale Tedesca), divisa in dieci
Lander (Stati federali), accoglieva 50 milioni di persone ed era la parte più
industrializzata e meglio dotata di infrastrutture e di risorse naturali. Il cli-
ma della Guen·a fredda e la divisione in due del paese indussero gli Ameri-
cani a rivedere la loro politica verso la nazione sconfitta, che intendevano
trasformare in un sicuro alleato in fu112ione anticomunista. Perciò ne favori-
rono la ricostruzione e lo sviluppo, inserendola nel programma di aiuti del
Piano Marshall, e qualche tempo dopo fu possibile anche la ricostituzione dei
grandi gruppi bancari e imprenditoriali che erano stati precedentemente
smembrati. Da a llora ebbe inizio un lungo periodo di crescita, che va sotto
il nome di 1niracolo economico tedesco, con un incremento medio annuo
del Pil pro capite del 5 per cento fino al 1973. Nel 1954, la Germania occi-
d.entale aveva recuperato il livello del Pil pro capite dell 'anteguerra ( calco-
lato in valori costanti) e impiegò appena quindici anni per raddoppiarlo.
Molteplici sono le ragioni di questo rapido sviluppo. Furono innanzitut-
to eliminate le bardature protezionistiche e autarchiche del periodo nazista
e fu liberalizzata l'economia. La Germania s'ispirò ali' economia sociale di
31. L 'Unione Europea 293

mercato, una forma di economia mista che, in qualche misura, ha influen-


zato anche altri paesi dell'Europa co11tinentale. E ssa si basa sul libero mer-
cato, ma prevede un' incisiva azione pubblica per perseguire la giustizia so-
ciale e la solidari età fra le diverse componenti della collettiv ità, con parti-
colare attenzione alle categorie più deboli. Questo modello fu completato
con la cogestione, vale a dire con la partecipazione dei lavoratori, mediante
rappresentanti eletti, alla conduzione delle aziende, introdotta già alla fine
della guerra e generalizzata negli anni Settanta.
La crescita dell'economia tedesco-occidentale si basò principa lmente
sulle esportazioni, che aumentarono notevolmente a mano a mano che il
Paese s'inseriva nel commercio internazionale e conquistava nuov i mercati
con un' agguerrita politica di penetrazione commerciale. La Germania oc-
cidentale esportava, prevalentemente, beni a elevato contenuto tecnologico
(macchinari, automobili, prodotti chimici, televisori, frigoriferi, ecc.), il
cui valore arrivò a un quarto della produzione complessiva, facendo cono-
scere e apprezzare, in tal modo, i prodotti tedeschi in tutto il mondo. E ssa
si poté giovare anche di un continuo flusso di lavoratori immigrati. Nei
primi anni giunsero i profughi provenienti dai territori caduti sotto il con-
trollo sovietico (almeno 12 milioni), successivamente arrivarono i lavora-
tori, spesso altamente specializzati, che fuggivano dalla Germania orienta-
le e che quindi riuscivano facilmente a integrarsi (oltre 2,2 milioni) e, infi-
ne, fu la volta dei lavoratori generici affluiti dall' area mediterranea (alme-
no alh·i 4 milioni), in particolare italiani e, soprattutto, turchi, che ebbero
non pochi problemi d'inserimento. L'economia della Germania occidenta-
le diventò la più solida dell' Europa e assunse la funzione di <<locomotiva>>
dello sviluppo dell'intera Comunità europea, con un marco <<forte>>, che
dovette essere più volte rivalutato.
La Germania orientale (Repubblica D emocratica Tedesca), viceversa,
con appena 18 milioni di abitanti, nacque come uno Stato accentrato e attuò,
sull'esempio sovietico, l'economia pianificata. Essa costituiva la parte meno
sviluppata della Germania e il suo Pil pro capite era, nel 1950, la metà di
quello della parte occidentale. Fino al 1973, però, la sua crescita fu solo di
poco inferiore a quella della Germania occidentale(+ 4,5 per cento all'anno)
ed essa si pose tra le nazioni più ricche e avanzate del Blocco sovietico. Parti-
ta da una situazione meno favorevole, sub~ fmo all'erezione del muro di Ber-
lino nel 1961 (elevato proprio per questo motivo), una emorragia di mano-
dopera, che spesso mise in crisi la continuità del lavoro nelle fabbriche. La
pianificazione puntò sull' industria pesante, a scapito dei beni di consumo, e
l' agricoltura socializzata diede scarsi risultati. Il confronto continuo fra le re-
alizzazioni delle due Germanie, che condizionò l'operato dei rispettivi go-
294 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

verni, era nettamente favorevole alla parte occidentale e i Tedeschi dell'Est


soffrirono di u11'insufficiente disponibilità di beni di consumo.

31.6. La riunificazione tedesca

La riunificazione, di cui si era parlato negli anni Cinquanta e che era poi
stata accantonata durante la Guerra fredda, fu realizzata nel 1990, dopo la fi-
ne del regime comunista nella Germania orientale. Avvenne pacificamente
per annessione, nel senso che i territori orientali chiesero di entrare a far parte
della Repubblica Federale Tedesca come nuovi Lander. Il costo dell'opera-
zione fu molto elevato. La necessità di agire con rapidità e decisione e la vo-
lontà di favorire, per motivi politici, i Tedeschi dell'Est, indussero il governo
a fissare la conversione del marco orientale con qu.ello occidentale alla pari
(uno contro uno), mentre valeva molto di meno. Ne beneficiarono coloro che,
nell'ex Germania comunista, percepivano un salario o uno stipendio. Il go-
verno, inoltre, dovette affrontare spese ingenti, coperte con nuove imposte,
per la modernizzazione delle infrastrutture e il risanamento dell' apparato in-
dustriale della parte orientale. Le imprese furono privatizzate e quelle poco
produttive smantellate, con l'inevitabile incremento della disoccupazione,
che creò malcontento in una popolazione - quella dell'ex Germania comuni-
sta - abituata a vivere modestamente, ma con i bisogni essenziali garantiti
dallo Stato. Anche nella Germania occidentale non mancarono proteste per il
costo eccessivo dell'unificazione, che aveva imposto sacrifici a tutti.
Negli anni Novanta, perciò, furono necessari dolorosi interventi di ri-
strutturazione produttiva (delocalizzazione) e di riduzione delle spese pub-
bliche. L'economia tedesca rimane comunque molto solida ed è fortemente
legata alle esportazioni, il cui valore risultava (2008) pari al 4 7 per cento
del Pii, successivamente ridottosi a meno del 39 per cento ( 2016). Negli ul-
timi anni la Germania, che conta oltre 80 milioni di abitanti, ha perso il
primato come paese esportatore, essendo stata superata dalla Cina e dagli
Stati Uniti, e ha subito un crollo di 4,2 punti percentuali del Pil pro capite
nel 2009. Tuttavia essa resta l'economia più forte del continente europeo, e
ha saputo superare gli anni della crisi di inizio secolo con una disoccupa-
zione più contenuta e un incremento del Pil pro capite di sei punti nel 2013,
portatisi a quasi nove nel 2016 (vedi tab. 29 .1 ).
32.
L'ECONOMIA
ITALIANA

32.1. La ricostruzione

Le condizioni dell' Italia, alla fine del secondo co1rl1itto mondiale, erano
disastrose. La guerra, combattuta per oltre due anni sul territorio nazionale,
aveva provocato ingenti danni al patrimonio abitativo e al sistema dei tra-
sporti, sia per i bombardamenti aerei degli Anglo-americani sia per le si-
stematiche distruzioni dei Tedeschi in ritirata. Erano stati distrutti 1,9 mi-
lioni di vani e quasi altri 5 milioni risultarono danneggiati (su circa 34 mi-
lioni di vani esistenti); si era perso più dell'80 per cento della marina mer-
cantile; le linee ferroviarie erano interrotte per i danni arrecati a ponti, linee
elettriche aeree e binari; molte strade erano impraticabili e gli autocarri si
erano ridotti a meno della metà. Relativamente pochi (meno del 10 per cento)
erano, invece, i danni ali' apparato industriale.
Se si considera il Pil pro capite, si nota come esso fosse crollato, nel
1945, al 55 per cento di quello del 1939 e risu ltasse addirittura inferiore (in
valori costanti) a quello del 1905. Nessuno avrebbe immaginato che sareb-
bero bastati appena cinque anni per ritornare al livello di prima della guer-
ra, né che lo sviluppo successivo sarebbe stato eccezionale, tanto da far par-
lare di <<miracolo economico>>, e avrebbe trasformato profondamente l'eco-
nomia e la società italiane. In appena ventitré anni, fra il 1950 e il 1973, il
Pil pro capite riuscì a triplicarsi (sempre in valori costanti), e aumentò, in
media, del 5 per cento all'anno, consentendo un miglioramento senza pre-
cedenti del tenore di vita degli Italiani (vedi tab. 14.1). Per comprendere le
trasformazioni realizzate, basti pensare che, secondo l'inchiesta parlamen-
tare sulla miseria del 1951 -52, quasi un quarto delle famiglie italiane era
considerato misero o indige11te, la metà degli appartamenti non possedeva il
gabinetto interno e più della metà non disponeva di acqua corrente. E questi
valori erano sensibilmente più elevati nel Mezzogiorno.
296 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

Negli anni della ricostruzione, la nuova classe politica repubblicana, in


genere priva di esperienza di governo, si trovò ad affrontare alcurli problemi
immediati, come la ripresa della produzione e la lotta all'inflazione, e dovet-
te effettuare scelte fondamentali per il futuro del Paese. La ricostruzione del-
1' apparato produttivo e dei trasporti fu rapida e si giovò degli aiuti america-
ni, arrivati dapprima attraverso l' UmTa e poi con il Piano Marshall. Fra il
1948 e il 1952, giunsero combustibili, cotone, cereali, macchinari e attrezza-
ture industriali, che servirono sia a far fronte alle più pressanti necessità ali-
mentari, sia alle esigenze produttive. Il governo italiano vendeva questi beni
sul mercato nazionale e, con il ricavato, confluito in un apposito <<fond.o li-
re>> presso la Banca d 'Italia, provvedeva alle spese per la ricost1uzione, in
accordo con gli Americani. Le imprese italiane, da parte loro, ottennero da-
gli Stati Uniti prestiti per l'acquisto di attrezzature, di cui beneficiarono
principalmente le industrie meccaniche, metallurgiche ed elettriche (Fiat,
Edison, Sip e numerose società dell'Iri). All' incirca i due terzi dei prestiti
andarono alle tre regioni del triangolo industriale e solo poco più del 9 per
cento a l Mezzogiorno continentale (quasi esclusivamente alla Campania).
Un grave problema del dopoguerra fu l'inflazione. Abbastanza contenuta
fmo al 1943, esplose dopo l 'armistizio dell ' 8 settembre, quando il fronte di-
v ise in due l'Italia, tanto che nel 1947 il costo della vita era aumentato di ol-
tre quaranta volte rispetto al 1939. L'inflazione fu dovuta a diversi fattori,
com e la scarsità di prodotti agricoli e di manufatti, una massiccia emissione
di biglietti di banca e di Stato per coprire dapprima le spese della guerra e
poi quelle della ricostruzione e, infine, l'emissione da parte delle autorità
militari alleate delle <<amlire>> (Allied military currency), una moneta di oc-
cupazione che circolò dal 1943 al 1950. Alle amlire fu attribuito un valore
elevato rispetto alla lira, sicché gli acquisti delle t1uppe alleate, pagati con
quella mo11eta, contribuirono a far aumentare i prezzi.
L ' inflazione fu combattuta con la cosiddetta linea Einaudi, una serie di
misure prese dal ministro del Bilancio, Luigi Einaudi, che miravano alla ri-
duzione della circolazione monetaria. Si elevò il tasso ufficiale di sconto,
rendendo i prestiti più cari, e si aumentarono le riserve obbligatorie delle
banche, in mod.o che esse non potessero investire una parte dei depositi rac-
colti (che perciò non venivano rimessi in circolazione). Tali provvedimenti
comportarono una temporanea riduzione degli investimenti e un aumento
della disoccupazione, ma riuscirono a fermare l' inflazione e diedero fiducia
agli investitori stranieri, che furono invogliati a impiegare i loro capitali in
Italia. La lira fu stabilizzata e il cambio con il dollaro fu fissato, nel 1948, a
625 lire, che costituì la parità con la quale la moneta italiana entrò nel si-
stema monetario internazionale e tale rimase fino al suo crollo nel 1971.
32. L 'econoniia italiana 297

La scelta fondamentale del governo, costituito dal partito della Demo-


crazia cristiana e da alcuni partiti minori, dopo l'estromissione (1947) di
socialisti e comunisti, fu di optare per un' economia aperta fondata sul libe-
ro mercato, che doveva inserire l'Ita lia negli scambi internazionali, in parti-
colare con i paes i europei. La scelta era, in qualche modo, obbligata, per-
ché, secondo gli accordi di Yalta, l'Italia rientrava nella sfera d' influenza
americana e quindi nell' economia di mercato. D' altra parte, il passaggio a
un' economia aperta era inevitabile per un paese costretto a importare mate-
rie pr ime e combustibili ( carbone e p etrolio), che poteva pagare solo con le
sue esportazioni. Furono revocate le precedenti misure autarchiche, che o-
stacolavano il commercio con l'estero (contingentamenti, restrizioni valuta-
rie, alti dazi doganali, ecc.) e l'Italia aderì al Fondo monetario internaziona-
le e alla Banca mondiale, nonché all'Unione europea dei pagamenti.
Durante la ricostruzione non vi furono nazionalizzazioni, come in Fran-
cia e in Inghilterra, poiché in Italia già esisteva u11 consistente settore pub-
blico. L 'h·i, sorto in seguito ai salvataggi degli anni Trenta, controllava, at-
traverso le sue società finanziarie, diverse imprese che operavano nel settore
industriale, in quello dei trasporti e nel sistema bancario. In mano pubblica
era pure l' Agip (Azienda generale italiana petroli), sorta nel 1926, che fu ri-
lanciata da Enrico Mattei, ex partigiano e potente manager pubblico. Mattei
promosse, nel 1953, la costituzione di un'altra grande azienda pubblica,
l' Eni (Ente nazionale idrocarburi), che doveva assicurare all'Italia il rifor-
nimento delle fonti di energia. Le imprese pubbliche operavano sul mercato
in regime di concorrenza con quelle private ed erano costituite sotto forma
di società per azioni, possedute, in tutto o in parte, dallo Stato. P erciò fu isti-
tuito il Ministero delle partecipazioni statali (1956-93), con il compito di
gestire le società appartenenti allo Stato, che ricevette non poche critiche per
i metodi politico-clientelari seguiti nello svolgimento della sua attività.
Nel 1950 furono varati due importanti provvedimenti che favorirono lo
sviluppo successivo: la riforma agraria e la costituzione del la Cassa per il
Mezzogiorno. La cosiddetta riforma agraria (in realtà provvedimenti par-
ziali, ma tuttavia importanti) consistette nell' espropriazione di 800 mila et-
tari di terre ai grandi proprietari (di cui 650 mila nel Mezzogiorno) e nella
loro assegnazione a famiglie di braccianti agricoli. I proprietari furono in-
dennizzati con titoli di Stato e gli assegnatari, che ebbero quote di modesta
estensione, diventavano pieni proprietari dopo il pagamento di trenta an-
nualità. In quegli stessi anni, molti contadini acquistarono appezzamenti di
terra direttamente da proprietari non coltivatori, potendo beneficiare di par-
ticolari facilitazioni e di ampie sovvenzioni creditizie. Entrambe queste r e-
distribuzioni di terre (la riforma e i trasferimenti vo lontari) fecero aumenta-
298 L 'eco11.omia contemporanea (1950-201 7)

re la piccola proprietà coltivatrice che, se da un lato soddisfaceva l'atavica


fame di terre dei contadini, dall ' altro era di ostacolo all 'ammodernamento
dell'agricoltura, per via delle rid.o tte dimensioni delle aziende agricole. Si
sviluppò, perciò, un vasto movimento cooperativo, che consentì, in molte
zone, di superare i limiti posti dal frazionamento della proprietà.
La Cassa per il Mezzogiorno, vissuta fino al 1984 (poi sostituita con
un 'Agenzia per il Mezzogiorno, soppressa nel 1993), doveva finanziare ope-
re straordinarie di pubblico interesse nelle regioni meridionali, in Sicilia e in
Sardegna. Nei primi anni s ' impegnò nella creazione di infrasn·utture (strade,
opere idrauliche, scuole, ospedali, ecc.) e soprattutto nel sostegno all' agricol-
tura, visto che si era deciso di accantonare l' ipotesi dell' industrializzazione
del Mezzogiorno, per affidare solo alla più efficiente industria settentrionale
il compito di essere presente sui mercati internazionali. Nel 1960 tale posi-
zione fu rivista e si decise di sostenere la creazione di industrie nel Mezzo-
giorno mediante il potenziamento dei fo11di a ciò destinati.

32.2. Il miracolo economico

Negli anni centrali del miracolo economico, vale a dire dal 1950 al
1963, il Pil pro capite aumentò del 5,8 per cento all'anno, mentre successi-
vamente, fino al 1973, i risultati furono meno elevati, ma comunque rag-
guardevoli (+ 4 per cento). La crescita fu accompagnata da profondi muta-
nienti strutturali, che in poco tempo cambiarono il volto dell ' Italia. Fra i
censimenti del 1951 e del 1971, gli addetti all' agricoltura crollarono dal 4 2
al 17 per cento del totale e o ltre cinque milioni di contadini abbandonarono
le campagne, mentre aumentarono g li addetti all' industria e al settore ter-
ziario. L ' industrializzazione e poi la terziarizzazione del Paese emergono
ancora più chiaramente se si considera l' apporto dei tre settori alla forma-
zione del Pii (vedi tab. 17.2). Il punto massimo della partecipazione del-
l'industria si registrò nel 1976 con il 42,5 per cento. Anche l'istruzione de-
gli Italiani stava migliorando. Nel ventennio 1951 -7 1 gli analfabeti si ridus-
sero dal 10,5 al 4 per cento del la popolazione e aumentarono i diplomati
(+ 44 per cento) e i laureati (+ 109 per cento).
L'agricoltura si modernizzò, anche grazie all' aiuto dello Stato, mediante
una rapida meccanizzazione e una più diffu.sa utilizzazione dei concimi
chimici, e si rivolse maggiormente all'allevamento e alle produzioni specia-
lizzate (ortofrutta, vite, olivo, ecc.). Basti pensare cl1e i trattori, macchine
che possono essere assunte come indice dell'intera meccanizzazione agrico-
la, balzarono da poco più di 40 mila alla fine del la guerra, quando erano pre-
32. L 'economia italiana 299

senti principalmente nell'Italia settentrionale, a 600 mila nel 1970, per cre-
scere ancora nei decenni successivi fino a raggiungere il numero di 1.700.000
a fme secolo: in cinquant'anni essi si erano moltiplicati per oltre quaranta
volte. Anche il consumo di pesticidi e ferti lizzanti aumentò notevolmente, fa-
cendo migliorare le rese agricole. Inoltre, i contadini che abbandonarono le
campagne costituirono una forza di lavoro a basso costo per l'industria.
Le principali industrie che caratterizzarono il miracolo economico ri-
guardarono la produz ione di automobili, di elettrodomestici e di fibre sinte-
tiche, nonché la meccanica di precisione e la petrolchimica. Per queste atti-
vità, anche in Italia si affermò, sull'esempio americano, la grande impresa,
organizzata secondo i criteri della fabbrica fordista. Nel dopoguerra, molti
industriali italiani si recarono negli Stati Uniti per visitare le grandi fabbri-
che e studiarne la struttura e l' organizzazione. La bilancia dei pagamenti si
portò in attivo a partire dal 1957, non solo per le accresciute esportazioni,
ma anche per le rimesse degli emigrati e per lo sviluppo del turismo, che
ormai cominciava ad attirare un gran numero di stranieri desiderosi disco-
prire le ricchezze artistiche e paesaggistiche del Bel Paese.
L'Italia era diventata, in pochi decenni, una nazione industrializzata, in
cui si diffondevano i consumi di massa e si registrava un forte esodo dalle
campagne, mentre le città del triangolo industria le si riempivano di operai,
molti dei quali provenivano dalle regioni meridionali. L'istruzione si dif-
fondeva, lo Stato introduceva le prime forme di Welfare e le prospettive
apparivano rosee, in particolare per le giovani generazioni. Ma vi erano
anche alcune ombre, come l ' in·isolta questione meridionale e la ripresa
dell'emigrazione.
Il ritardo del Mezzogiorno riuscì a essere parzialmente ridotto, ma non
annullato. L'intervento statale, principalmente attraverso l'azione della Cassa
per il Mezzogiorno, consentì la nascita, in alcune zone costiere del Mezzo-
giorno, di grandi industrie, pubbliche e private, ad alta intensità di capitale e
spesso anche tecnologicamente avanzate. Esse, però, riuscirono ad assorbire
poca manodopera, sicché la disoccupazione rimase molto elevata e per molte
persone la soluzione contiI1uò a essere costituita dall'emigrazione.
Dopo la Seconda guerra mondiale riprese anche l' emigrazione dalle re-
gioni meridionali (ma pure da alcune zone del Nordest, come il Veneto),
dove la modernizzazione dell' agricoltura e specialme11te il ricorso alle
macchine agricole fece emergere la sovrappopolazione relativa delle cam-
pagne. Gli emigranti partirono per le Americhe (Argentina, Stati Uniti,
Canada e Brasile) e, sempre più frequenteme11te, per l'Europa (Francia,
Svizzera e Germania) e per l'Australia. Fra il 1946 e il 1976 lasciarono
l'Italia quasi 7,5 milioni di persone, con una media di 240 mila emigrati
300 L 'eco11omia contemporanea (1950-2017)

all'anno. Molti di essi, però, specialmente quelli diretti in Europa, fecero


ritorno in patria dopo alcuni anni, sicché l'emigrazione netta del periodo fu
di poco superiore ai 3, 1 milioni. Gli emigranti erano per oltre la metà me-
ridionali (furono coloro che rimpatriarono di meno) e per quasi un quarto
provenienti dal Nordest, specie dal Veneto e da l Friuli. Ancora una volta,
come nell'età giolittiana, si emigra va in un p eriodo di espansione econo-
mica, quando le differenze sociali tendevano ad a llargarsi e l'agricoltura
espelleva manodopera.
Vi fu pure - e questa era una novità per l' Italia - una massiccia migra-
zione interna verso le zone del triangolo industriale. Negli anni Cinquanta e
Sessanta si trasferirono dal Sud al Centro-Nord del Paese circa due milioni
di persone, con 110n pochi problemi di sistemazio11e e di adattamento nelle
città di arrivo. Numerose altre abbandonarono le zone interne per spostarsi
in quelle costiere della stessa regione. Bisogna infme notare che se l' emi-
grazione degli anni del miracolo economico r iguardò quasi soltanto la ma-
nodopera generica priva d 'istruzione, richiesta in molte fabbriche, in segui-
to essa ha interessato sempre più giovani diplomati e laureati. Questi si so-
no trasferiti non solo in altre aree del Paese ma, nei tempi a noi più vicini,
anche all' estero per svolgervi un' attività lavorativa qualificata.
Le ragioni del miracolo economico italiano sono numerose. Ne riassu-
miamo le principali:
a) gli aiuti americani, che consentirono la ripresa dell' economia;
b) la scelta di un'economia aperta orientata alle esportazioni, che costi-
tuirono, secondo molti, il motore della crescita;
c) la disponibilità di manodopera a basso costo, durata fino alle rivendi-
cazioni salariali del 1962-63 e, soprattutto, del 1969, quando vi furono
scioperi e agitazioni che caratterizzarono il cosiddetto <<autunno caldo>>; nel
1970 fu approvato lo Statuto dei lavoratori, che si proponeva di tutelare
maggiormente i lavoratori dipendenti;
d) un lungo periodo di bassi prezzi internazionali del le materie prime e
delle fonti energetiche, che l'Italia doveva importare;
e) il ruolo dello Stato, che fina11Ziò lo sviluppo di determinati settori, in
particolare agricoltura, edilizia e trasporti (fra il 1956 e il 1964 fu costruita
l' <<autostrada del sole>> da Milano a Napoli), e fu presente in numerosi rami
economici con le ilnprese pubbliche, alle quali si aggiu11Se l' Enel (1963), in
seguito alla nazionalizzazione d.e lle aziende elettriche;
f) un solido sistema bancario, rishutturato con la legge del 1936, capace
di fornire i fmanziamenti necessari, anche mediante nuovi istituti di credito
(in genere di origine pubblica) destinati ai finanziamenti industriali a medio-
lungo temine (Mediobanca, Mediocrediti regionali, ecc.).
32. L 'economia italiana 301

32.3. L'Italia nella crisi degli anni Settanta

L ' economia italiana risentì della crisi petrolifera del 1973 e rallentò la
sua crescita. Il tasso medio annuo d'incremento del Pil pro capite, che du-
rante la golden age era stato del 5 per cento, nel trentennio successivo si ri-
dusse a poco più del 2 p er cento.
Una delle conseguenze della crisi petrolifera fu la forte inflazione, che si
tenne mediamente intorno al 13,5 per cento all'anno sino a ll'inizio degli anni
Ottanta. Nei mesi successivi all'aumento dei prezzi del petrolio, furono vara-
te diverse misure per il risparmio energetico che, sebbene restassero in vigore
per poco tempo, resero evidente a tutti la gravità della crisi: fu vietato alle au-
tovetture di circolare la domenica; le vetrine dei negozi dovevano essere
spente alle 19 ; le sale cinematografiche, i bar e i ristoranti dovevano chiudere
alle 23 e alla stessa ora dovevano terminare le trasmissioni televisive, allora
mandate in onda solo dalla Rai. L 'Italia cominciò a utilizzare sempre più il
gas naturale, riducendo la dipendenza dal petrolio, che fmo al 1973 copriva
quasi 1'80 per cento del fabbisogno energetico nazionale. Ai nostri giorni,
l'utilizzazione del p etrolio per la produzione di energia elettrica si è enorme-
mente ridotto non solo a vantaggio del gas naturale, importato soprattutto
dall'Algeria e dalla Russia, ma anche delle fonti di energia rinnovabili (idroe-
lettrico, fotovoltaico, eolico, ecc.), giunte a oltre il 30 per cento.
La crisi fu affrontata grazie all'intervento dello Stato, che s ostenne le im-
prese in difficoltà e i red.d iti delle famiglie. Il sostegno alle imprese fu attuato
mediante la fiscalizzazione degli oneri sociali (rimasta in vigore fino al
1999), con la quale furono ridotti i contributi previdenziali che i datori di la-
voro dovevano versare per i loro dipendenti (pensioni, assicurazioni contro
gli infortuni e le malattie, ecc.). Le imprese in difficoltà si avvalsero dei fi-
nanziamenti agevolati della Gepi (Società per le gestioni e partecipazioni in-
dustriali, 197 1-99), un'agenzia pubblica, che poteva intervenire anche per
acquistare partecipazioni azionarie. Essa, di fatto, venne utilizzata per evitare
il licenziamento delle maestranze e mantenne in vita aziende improduttive.
Fu anche finanziata ulteriorme11te la Cassa integrazione guadagni, incaricata
di versare, per un certo periodo, una parte dello stipendio ai lavoratori licen-
ziati o momentaneamente sospesi dal lavoro per riduzione della produzione.
I redditi delle famiglie furono sostenuti anche m ediante l 'allarganiento
del Welfare. Nel 1969 erano state introdotte le pensioni sociali a favore di
persone di oltre 65 anni di età prive di reddito ed era stato riformato il siste-
ma pensionistico, con la concessione, fra l' altro, di pensioni ai pubblici di-
pendenti dopo soli quindici anni di servizio effettivo. Nel 1978 fu istituito il
Servizio sanitario nazionale, che assicurò a tutti le prestazioni medic he e
302 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

ospedaliere, prima dispensate a pagamento o riservate ai lavoratori che ver-


savano i contributi ai loro enti mutualistici (le cosiddette <<casse mutue>>).
La conseguenza di queste forme d ' intervento fu un forte aumento della
sp esa pubblica, alla cui lievitazione contribuirono anche la realizzazione di
numerose opere pubbliche, le massicce assunzioni di nuovo personale nel
pubblico impiego e l 'istituzione delle regioni a statuto ordinario (1970), che
diventarono centri di spesa e il cui mantenimento divenne con il tempo par-
ticolarmente dispendioso. Fu, perciò, necessario aumentare il prelievo fisca-
le, m ediante la riforma del sistema tributario ( 1973-74), che introdusse l' Iva
(imposta sul valore aggiunto) e l'Irpef (imposta sul reddito delle persone fi-
siche). Ma l'aumento delle imposizioni fiscali non bastò e fu necessario ri-
correre all ' indebitamento pubblico e all'emissio11e di banconote. L 'aume11to
d.ella circolazione monetaria e la forte crescita dei prezzi internazionali del
petrolio e delle materie prime fecero esplodere l' inflazione, che arrivò a toc-
care la punta del 2 1 per cento annuo (1980). Per ridare comp etitività alle
imprese sui mercati internazionali si fece ricorso a continue svalutazioni del-
la lira, metodo frequentemente utilizzato fino all'introduzione dell' euro.
La lotta all 'injlazione fu condotta in vario modo. Fu adottata una politi-
ca restrittiva del credito e il governo fece minore ricorso alle a nticipazioni
della Banca d 'Italia, che comportavano la stampa di nuova moneta, rivol-
gendosi solo al mercato p er collocare i propri titoli, sui quali doveva co1Ti-
spondere, p erò, i11teressi più elevati di quelli pagati all' istituto di emissione.
Fu anche ridotta la cosiddetta scala mobile, un sistema di adeguamento au-
tomatico di salari e stipendi al costo della vita, in vigore dal 1975, poi defi-
nitivamente abolito nel 1992, p erché si ritenne che tale sistema, introdotto
per difendere le retribuzioni dall ' inflazione, contribuisse a far crescere i
prezzi. In seguito a questi provvedimenti il tasso d ' inflazione si portò, alla
fine degli anni Ottanta, al 6 p er cento e continu ò a diminuire successiva-
mente fino al 2 per cento del 1997. Si tentò pure di ridurre il debito pubbli-
co, come p eraltro era richi esto d.a l trattato di Maastricht, abolendo certi pri-
v ilegi p ensionistici, diventati troppo onerosi p er le casse pubbliche, innal-
zando l' età p ensionabile e aumentando la pressione fiscale.
Il debito pu.bblico, però, rimase a livelli molto elevati perc hé risultò dif-
ficile ridurre le sp ese sociali (pensioni, sanità e istruzione). Si fece ricorso,
allora, come stavano facendo altri paesi europ ei, alla privatizzazione del ri-
levante patrimonio pubblico. Già negli anni Ottanta erano state privatizzate
l'Alfa Romeo (ceduta alla Fiat) e Mediobanca, una grossa banca d 'affari
costituita nel dop ogue1Ta. Negli a nni Novanta, dopo aver trasformato le
banche e gli enti pubblici in società p er azioni (per poterne collocare le azioni
sul mercato), si procedette a una serie di privatizzazioni, totali o parziali,
32. L 'economia italiana 303

che, fra il 1992 e il 2005, portarono nelle casse dello Stato quasi 140 mi-
liardi di euro. Esse riguardarono le banche, le imprese dell ' Iri ( ente sop-
presso nel 2002), l' Eni, l'Enel, i trasporti e le telecomunicazioni. Gli acqui-
renti furono sia imprenditori nazionali che stranieri, alcuni dei quali con
scopi speculativi, vale a dire con l' intenzione di rivendere successivamente
le imprese acquistate e non di potenziarle con un piano strategico per il loro
futuro. I piccoli risparmiatori, essendo poco abituati agli investimenti di ri-
schio, non acquistarono molte azioni. Lo Stato conservò tuttavia importanti
quote di partecipazione e rimase l'azionista di riferimento (detentore del
pacchetto di controllo) di molte grandi aziende (Finmeccanica, Fincantieri,
Rai, ecc.), sicché si può affermare che lo Stato imprenditore non è del tutto
finito, pur se notevolmente ridimensionato.
Anche il sistema bancario fu privatizzato. Esso fu riformato con alcune
leggi, poi confluite nel Testo Unico Bancario del 1993, che sostituì defmiti-
vamente la legge bancaria del 1936. Il sistema fu semplificato e le diverse
categorie di banche esistenti (istituti di credito di diritto pubblico, banche
d'interesse nazionale, casse di risparmio, banche popolari, casse rurali, ecc.)
furono sostanzialmente ridotte a du e: le banche sotto forma di società p er
azioni e le banche cooperative. Il nuovo Testo Unico stabilì il superamento
della distinzione tra banche commerciali e banche d'investimento, introdotto
durante la crisi degli anni Trenta, per adottare il sistema della banca univer-
sale. Vi furono anche parecchie fusioni, che portarono a una riduzione del
numero delle banche e alla formazione di grandi gruppi (Unicredit, Intesa
San Paolo, Monte dei Paschi di Siena, ecc.), ritenuti maggiormente in grado
di competere sul mercato inten1azionale dei capitali. Lo Stato, che, nel 1994,
controllava il 70 per cento del sistema bancario, dieci anni dopo ne control-
lava solo il 1Oper cento.
Nel frattempo, si accelerava la terziarizzazione dell'economia. In quaran-
tacinque anni, fra il 197 1 e il 2016, gli addetti ai servizi passarono dal 38 al
70 per cento, mentre calarono quelli dell'industria (dal 44 al 26 per cento) e
caddero a livelli minimi gli addetti all'agricoltura (dal 17 al 4 per cento).

32.4. Imprese e distretti industriali

Dopo la crisi degli anni Settanta, le grandi imprese, che si erano dovute
notevolmente indebitare, procedettero ad una ristiutturazione produttiva. Per
risparmiare sul costo d.ella manodopera, diventato più rigido con le conquiste
salariali e normative successive all' <<autunno caldo>>, ricorsero sempre di più
all' automazione dei processi produttivi, sostituendo i lavoratori con le mac-
304 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

chine utensili e, successivamente, con i computer, e decentrarono parte della


loro attività a imprese più piccole o cominciarono a trasferirla all'estero. Il
modello fordista cominciava a tramontare anche in Italia. La disoccupazione
aumentò, ma molte grandi imprese, con un minor numero di occu.pati, furono
in grado di recuperare produttività e competitività e di lanciarsi di nuovo, dal-
la metà degli anni Ottanta, alla conquista dei mercati esteri.
I comparti industriali più competitivi continuarono ad essere quello mec-
canico (macchinari, elettrodomestici, automobili) e il cosiddetto niade in 1-
taly, che proprio allora cominciava ad affermarsi. Il <<made in Italy>> è costi-
tuito da un insieme di imprese, in genere di medie dimensioni, che operano
nei rami del tessile-abbigliamento-calzature (Benetton, Armani, Versace,
Tod's, Prada, Luxottica, ecc.), dell'arredamento e, in generale, dei prodotti
destinati alle fasce alte del mercato. Questo particolare comparto riuscì a
crescere in termini di fatturato, a incrementare notevolmente le proprie e-
sportazioni e a far conoscere i prodotti italia11i di qualità in tutto il mondo.
Mentre il peso della grande impresa industriale diminuiva, aumentava
quello del le piccole e medie imprese (Pmi). Esse, molto più flessibili, ave-
vano sempre avuto un ruolo importante nell'economia nazionale, ma ora
assunsero caratteristiche particolari ed ebbero il compito di trainare l' eco-
nomia del Paese. La loro presenza, diffusa sul territorio, pose fine allo sto-
rico predominio del triangolo industriale e fece emergere la cosiddetta
<<Terza Italia>> (Centro e Nordest). Le Pmi erano particolarmente presenti
nei settori leggeri (abbigliamento, calzature, alimentare, prodotti per la ca-
sa, meccanica artigianale, ecc.) e, di fronte alla crisi degli anni Settanta, fu-
rono maggiormente in grado di resistere e di assicurare un lavoro a tantis-
sime persone. La percentuale di forza lavoro impiegata nelle Pmi si tenne
intorno al 60 per cento del totale, mentre calava quella impiegata nelle grandi
imprese con più di 500 addetti (dal 31 al 23 per cento fra 1971 e 1981).
La caratteristica nuova di queste imprese - già presente da tempo ma che
allora emerse con chiarezza - fu che esse spesso si concentrarono in aree geo-
grafiche limitate, che si dissero distretti industriali. Tali aree coincidevano, in
genere, con pochi comuni, sedi storiche di molte Pmi a carattere familiare,
specializzate in una o più fasi di un processo produttivo. Le imprese dei di-
stretti potevano contare sulla presenza di maestranze preparate, anche per
l'esistenza di apposite scuole professionali, e su una rete (che si era venuta
formando col tempo) di relazioni commerciali con l'esterno per l'acquisto di
materie prime e di macchinari e, soprattutto, per la collocazione sul mercato
delle produzio1ù <<tipiche>> del distretto. Le famiglie imprenditoriali dei di-
stretti avevano maturato un forte senso di appartenenza e di identificazione
con il territorio, oltre che una specifica <<cultura>>(valore del lavoro, della fa-
32. L 'economia italiana 305

miglia e del risparmio, volontà di rischiare, ecc.) e una serie di relazioni fra di
loro, che si dimostrarono importanti fattori di sviluppo dell'intera zona.
A partire dagli anni Settanta si costituirono numerosi distretti industriali,
successivamente tutelati dalla legge (1991). Oggi se ne contano oltre 140,
che rappresentano circa un quarto del sistema produttivo del Paese. Solo
per fare qualche esempio, si possono ricordare quelli di Prato e di Carpi
(tessile), di Sassuolo (ceramica), della Brianza (mobili), di Fermo (calzatu-
re), di Vicenza (oreficeria) e di Solofra (concerie). Le imprese dei distretti,
in origine solo di modeste dimensioni, in molti casi riuscirono a prospera-
re e a diventare veri gruppi con una presenza internazionale (le cosiddette
<<multinazionali tascabili>>). Nel momento in cui, da un lato, le grandi im-
prese, come Fiat, Montedison, Pirelli e Olivetti, si trovarono in difficoltà
e dovettero procedere a drastiche ristrutturazioni e, dall' altro, le piccole
imprese non riuscivano a crescere e subivano la concorrenza dei manufat-
ti provenienti dai paesi con basso costo della manodopera, furono le me-
die imprese ( diciamo quelle che fatturano fra 150 milioni e 1,5 miliardi di
euro) che fecero registrare i maggiori successi. Queste imprese, che co-
minciarono ad affermarsi negli anni Ottanta, divennero le vere nuove pro-
tagoniste del sistema industriale italia.no. In alcuni casi, il loro fatturato si
moltiplicò per decine o addirittura per centinaia di volte.

32.5. Le difficoltà dell'economia italiana

A partire dalla crisi degli anni Settanta, l'economia italia11a crebbe a


ritmi non travolgenti come durante il miracolo economico, ma comunque
abbastanza elevati fino a lla metà degli anni Novanta, con un tasso d'incre-
mento medio annuo del 2,2 per cento. A partire da allora, però, la crescita
rallentò notevolmente, realizzando, fino alla vigilia della crisi del 2008-09,
un misero 1,2 per cento annuo, valore inferiore a quello degli altri grandi pa-
esi europei (vedi tab. 14.1). La crisi, inoltre, ha colpito l' Italia più grave-
mente degli altri paesi industrializzati (vedi tab. 29 .1 ). Evide11temente vi
sono alcuni problemi stru.tturali che hanno determinato questa cattiva per-
formance dell'economia italiana nell'ultimo ventennio.
Tralasciando quelli non strettamente economici (inefficienza della pubbli-
ca amministrazione, corruzione, instabilità e inadeguatezza politica, ecc.),
che pure hanno un peso non indifferente, si può ricordare, innanzitutto, la
perdita di competitività, tanto più che con l' introduzione dell'euro non si è
potuto più fare affidamento sulla svalutazione della lira che, per parecchio
tempo, era diventato il modo con cui si cercava di ridare competitività ai
33.
LA FINE
DELL'ECONOMIA
PIANIFICATA
IL BLOCCO SOVIETICO

33.1. I limiti della pianificazione

Fra i paesi che avevano combattuto la Seconda guerra mondiale, l' Unione
Sovietica fu quello che subì i danni maggiori, sia per le perdite di vite uma-
ne sia per le devastazioni materiali a1Tecate al suo territorio. Dopo la guerra
fu ripresa la pianificazione e si varò il quarto piano quinquennale, che punta-
va ancora, come i precedenti, sull 'industria pesante e sugli armamenti, con
particolare riguardo a quelli nucleari. La Russia continuava a temere l'accer-
chiamento, anche se ormai aveva messo fra sé e l' Europa occidentale un lar-
go cuscinetto costituito dagli <<Stati satelliti>>, come si dissero i paesi dell'Eu-
ropa orientale passati sotto il suo controllo. Anche dopo la morte di Stalin
(1953), l'organizzazione dell'economia pianificata non mutò. Si continuaro-
no a predisporre piani che sacrificavano la produzione di beni di consumo a
vantaggio di quelli strumentali e degli armamenti, oltre che dell'esplorazione
dello spazio, che fu l'unico campo in cui i Sovietici riuscirono a ottenere
maggiori successi degli Americani, almeno nei primi anni.
Tuttavia, anche l'Unione Sovietica partecipò alla generale fase di svi-
luppo dell'economia mondiale e il suo Pil pro capite crebbe al tasso del 3,4
per cento annuo, vale a dire a una velocità maggiore di quelli di Gran Bre-
tagna e Stati Uniti (vedi tab. 14.1 ). Esso, però, era pari, nel 1973, solo al 50
per cento del Pil pro capite britannico e appena al 36 per cento di quello
americano. Nel 1989 quei valori si erano ridotti al 43 e al 31 per cento, poi-
ché nel frattempo il Pil pro capite era aumentato solo di un modesto O, 7 per
cento annuo.
A mano a mano che l' attività eco11omica diventava più ampia e articola-
ta, i limiti della pianificazione centralizzata sovietica, processo molto com-
plesso e difficile da gestire in modo efficace, risultarono più evidenti.
306 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

prodotti italiani. La strad.a da seguire sarebbe stata quella di migliorare la


loro qualità e accrescere la produttività del lavoro e del capitale, ma da que-
sto punto di vista i risultati non sono stati incoraggianti. Perciò, nelle classi-
fiche internazionali in materia di competitività, l'Italia è superata da una
quarantina di paesi, pur essendo fra le prime economie del mondo.
Un secondo problema è costituito dal fatto che la struttura delle espor-
tazioni è rimasta in larga misura immutata e non risulta più all'altezza delle
sfide globali. L 'Italia, cioè, ha continuato a puntare sui settori tradizionali e
non su quelli ad alta tecnologia, sicché l1a risentito sempre più della concor-
renza dei paesi in via di sviluppo, che possono contare su bassi costi di pro-
duzione. Si pensi, per esempio, alle importazioni di manufatti cinesi, il cui
valore si è quadruplicato dall' inizio del nuovo secolo a oggi, facendo della
Cina il terzo paese dal quale l'Italia importa merci, preceduta soltanto da
Germania e Francia.
Un altro grave problema è costituito dall' enorme debito pubblico. No-
nostante le misure adottate dai governi che si sono succeduti alla guida del
Paese, esso non si è ridotto; anzi, fì·a il 2007 e il 2017, è ancora aumentato
da 1.600 a quasi 2.300 miliardi di euro (+ 4 3 per cento), che corrispondono
a più del 130 per cento del Pil. L ' esistenza di questo peso sull' economia ita-
liana, che grava principalmente su lle generazioni future, ha mostrato tutta la
sua pericolosità durante la crisi dei debiti sovrani del 2012-13, quando si
dovettero adottare ulteriori pesanti misure di austerità, a11che a carattere
strutturale, che chiamarono gli Italiani a grossi sacrifici, com'era avvenuto
per entrare nell'euro. Il debito pubblico, peraltro, risulta elevato anche per
la consistente evasione fiscale che si stima sottragga al fisco intorno a cento
miliardi di euro all' anno.
L'Italia soffì·e pure di un'elevata disoccupazione, specialmente giovani-
le e femminile, in particolare nel M ezzogiorno. Ad essa si è accompagnata
una precarizzazione del rapporto di lavoro, in seguito all' adozione di una
serie di provvedimenti volti a trasformare il mercato de l lavoro rigido ( che
garantiva il posto di lavoro) in un mercato flessibile. La globalizzazione e
la forte conco1Tenza a livello internazionale hanno spinto le imprese a pre-
mere per ottenere minori vincoli alla possibilità di assumere e di Licenziare
la manodopera secondo le esigenze della produzione. Sono state introdotte
numerose forme di contratti a termine, che hanno i11teressato principalmente
i giovani. In tal modo, si è creata una netta divaricazione fra chi ha un lavoro
a tempo indeterminato e tutelato e chi ne ha uno precario e poco tutelato.
308 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

I principali limiti erano quelli di seguito riportati:


a) difficoltà di coordinamento fra l'attività delle diverse fabbriche, che
non riusciva ad essere assicurato in modo adeguato, poiché l'approvvigio-
namento di materie prime e semi lavorati di una fabbrica dipendeva dal fu n-
zionamento di altre fabbriche e dalla loro capacità di rispettare i tempi di
consegna, per cui se un anello della catena non funzionava e11trava in crisi
l' intero sistema. I piani quinquennali (peraltro riaggiustati ogni anno, sicché,
di fatto, fmivano con l'essere annuali), stabilivano la quantità fisica di beni
che ogni fabbrica doveva produrre; lo scopo dei manager, perciò, era di rag-
giungere gli obiettivi prefissati, senza badare alla qualità dei prod.otti, che ri-
sultava molto scadente, anche perché non vi era concorrenza fra le imprese;
b) difficoltà di prevedere la quantità di beni da produrre, sicché vi poteva
essere un loro eccesso o, più frequentemente, una scarsità, che costringeva i
cittadini a lunghe file ( opptrre a ricorrere al mercato nero) per procurarseli;
c) fissazione dei prezzi al consumo se112a tenere nella dovuta considera-
zione i costi di produzione; molti prezzi, poi, erano mantenuti artificialmen-
te bassi, in particolare quelli dei generi di prima necessità e degli alloggi;
d) difficoltà di introdurre innovazioni tecnologiche, nonostante si spen-
dessero somme cospicue per la ricerca, poiché non vi era uno stimolo alle
invenzioni e alle innovazioni da parte dei tecnici delle imprese statali.
Per completare il quadro dell'economia sovietica, bisogna ricordare che
in quel paese, come nelle altre economie pianificate, non vi era disoccupa-
zione. Un posto di lavoro era garantito a tutti, essendo ritenuto lo svolgi-
mento di un'attività lavorativa un obbligo dei cittadini, ma la produttività
del lavoro era bassissima e, quindi, il costo di produzione dei beni risultava
elevato. Per garantire l'occupazione, le fabbriche sovietiche avevano un
numero di dipendenti eccessivo, sicuramente molto superiore a quello delle
fabbriche dello stesso tipo dei paesi capitalistici occidentali.
Anche in agricoltura, che qualcuno ha defmito il <<tallone di Achille>> del-
1' economia sovietica, la produttività era molto bassa. I contadini che dispo-
nevano di piccoli appezzamenti privati (non più di mezzo ettaro) preferiva-
no dedicare i loro sforzi e le loro cure a questi fazzoletti di terra. Pur costi-
tuendo appena il 3 per cento della ten·a coltivata, essi erano in grado di for-
nire il 20 per cento della produzione agricola complessiva. Più volte N ikita
Chruscev, segretario generale del Partito comunista dell'Unione Sovietica
( 1953-64), dichiarò di voler raggiungere gli Stati Uniti nella produzione di
latte, bwTo e carne, senza riuscirvi. Durante gli anni Settanta, grazie agli in-
vestimenti destinati all'agricoltura, la produzione di derrate alimentari au-
mentò notevolmente, ma non fu capace di rendere autosufficiente l'Unione
Sovietica, che dovette continuare a importarne una parte. L 'agricoltura, inol-
3 10 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

aveva assicurato la gestione dell'economia e della pianificazione, e la disin-


tegrazione dell' Unione Sovietica. Le riforme di Gorbacev furono indub-
biamente attuate in modo dis ordinato, ma non bisogna dimenticare che egli
si dovette costantemente di fender e dagli attacchi di due opposte co1Tenti del
partito: i conservatori, che non volevano le riforme, e i riformisti, che le
consideravano troppo timide. Con le riforme e le liberalizzazioni di Gorba-
cev, cominciò a formarsi quel la categoria di oligarchi, vale a dir e di uomini
d'affari legati al governo, da cui ottenevano protezione e benefici, diventati
ricchissimi e potenti dopo il crollo del regime.
Intanto, il deficit del bilancio statale era straordinariamente cresciuto,
per via delle enormi spese che lo appesantivano. Ai normali elevati costi
per conservare imprese i11efficienti e tenere basso il livello dei prezzi al
consumo, si aggiunsero le spese per far fronte ad alcuni eventi eccezionali,
come l' incidente della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina (1986) e il
ten·emoto in Armenia (1988). Ma soprattutto bisognava mantener e un co-
stoso apparato difensivo, che era giunto ad assorbire, assieme ai costi delle
imprese spaziali, il 15 per cento del Pil, percentuale tripla di quella impie-
gata allo stesso scopo dagli Stati Uniti.
La liberalizzazione di alcuni prezzi, conseguenti alle riforme introdotte,
li fece aumentare ed erose i risparmi delle famig lie, mentre la riduzione dei
meccanismi di controllo statale sulla produzione creò difficoltà di approv-
vigionamento e alcune città lamentarono la p enuria di beni di prima neces-
sità . Lo Stato, da parte sua, dovette ricon·ere all'emissione di cartamoneta per
far fronte alle spese pubbliche. I cittadini sperimentarono, allora, due feno-
meni prima ignoti alla società sovietica: l'inflazione e la disoccupazione,
che fecero crescere il loro malcontento.

33.3. Il crollo dei regimi comunisti

Dopo la Seconda guerra mondiale, anche i paesi dell'Europa orientale


liberati dall' Armata Rossa adottarono il sistema politico ed economico del-
l' Unione Sovietica. Essi entrarono a far parte del Comecon (Consig lio per
la mutua assistenza economica), un' organizzazione con sede a Mosca, vo-
luta dai Sovietici (1949) in contrapposizione al Piano Marshall. I paesi ade-
renti al Comecon erano l'Albania (uscita nel 1961 ), la Bulgaria, la Ceco-
slovacchia, la Germania orientale, la Polonia, la Romania, l' Ungheria e, da l
1972, anche Cuba, portata nell'orbita sovietica dal suo leader Fidel Castro.
Ancora una volta il comunismo si affermava, com' era avvenuto in Russia e
come avverrà in Cina, in paes i prevalentemente agricoli e con una scarsa
33. La fine dei Blocco sovietico 3 11

presenza di industrie. Il Comecon si proponeva di coordinare lo sviluppo


economico d ei paesi membri, di realizzare tra di loro una più efficiente di-
visione del lavoro e di favorire gli scambi. Fu, invece, lo strumento attra-
verso il quale i Sovietici imposero il loro dominio sui paesi satelliti. Il mal-
contento verso l'Unione Sovietica fu sempre molto forte e diede luogo a
diverse rivolte, represse nel sangue, come quelle della Germania orientale
(1953), dell'Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968).
Negli anni della golden age, la crescita dei paes i dell'Europa orientale
fu comunque più consistente di quella dell'U1ùone Sovietica e quasi identi-
ca alla crescita dell'Europa occidentale. Il Pil pro capite dei paesi socialisti
europei (compresa la Jugoslavia), difatti, aumentò, fra il 1950 e il 1973, al
tasso annuo del 3,8 per cento, vicinissimo al tasso dei pri11cipali dodici pae-
si d.e ll' Europa occidentale (3,9 per cento). La crisi degli anni Settanta frenò
la crescita di questi paesi, che successivamente riuscirono a incrementare il
loro Pil pro capite solo dello 0,5 per cento all' anno.
Nell'Europa orientale, la statizzazione dell'economia era stata meno
spinta che in Unione Sovietica. In Polonia, per esempio, i contadini pote-
vano coltivare privatamente i loro piccoli poderi e in Ungheria, Polonia e
Germania orientale era consentita la gestione privata di alcune piccole at-
tività commerciali. L ' incapacità dell 'economia pianificata di mi gliorare le
condizioni di vita delle masse fece crescere il malcontento, tanto più che
ormai era possibile osservare alla televisione l' abbonda11za dei vicini pae-
si occidentali. Le riforme avviate da Gorbacev in Unione Sovietica diede-
ro maggiore forza ai gruppi che si opponevano ai regimi comunisti. Le
condizioni per la loro caduta stavano maturando.
Il 1989 fu l'anno della svolta. Dapprima in Polonia e poi in Ungheria si
rea lizzò una transizione pacifica verso governi non comunisti. Anche in
Cecoslovacchia, dopo proteste e dimostrazioni di massa, si raggiunse un
accordo per la formazione di un nuovo governo e, successivamente (1990-
92), fu attuata una pacifica divisione del Paese fra Repubblica ceca e Re-
pubblica slovacca. Ma l'evento, che ha ormai assunto una funzione s imbo-
lica, come la presa della Bastiglia durante la Rivoluzione francese, fu il
crollo del Muro di Berlino, nella notte fra il 9 il 1O novembre 1989. Una
moltitudine di Tedeschi di Berlino Est, sotto gli occhi stupiti di tutto il
mondo, che seguiva l'avvenimento attraverso la televisione, si riversò nella
parte occidentale della città e poi cominciò ad abbattere il muro cost1uito
nel 1961, senza che le autorità tedesco-orientali osassero intervenire. L' an-
no successivo la Germania fu riunificata.
In rapida successione caddero tutti gli altri regimi comunisti, in modo
pacifico in Bulgaria o in seguito a violente agitazioni di piazza in Romania. La
Fig. 33.1 . - La dissoluzione dell 'Unione Sovietica w
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33. La.fine del Blocco sovietico 3 13

Jugoslavia tentò di tenere assieme le repubbliche che la componevano, ma la


secessione della Slovenia e della Croazia (1991) portò alla sua dissoluzione e
a una serie di atroci guerre intestine, con la persecuzione delle minoranze et-
niche. Il Comecon, che non era mai stato molto efficace, fu sciolto ufficial-
mente nel 1991.

33.4. La crisi della transizione

L'Unione Sovietica non intervenne per reprimere le manifestazioni che


avevano portato al crollo dei regimi comunisti. Essa, come si è visto, sta-
va attraversando un periodo difficile. Il tentativo di riforme di Gorbacev
non riuscì e, dopo un fallito colpo di Stato dei più accaniti sostenitori del
regime, le tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), dichiara-
rono, nel dicembre del 1991, lo scioglime11to dell'Unione Sovietica. An-
che il Partito comunista fu sciolto e i suoi beni confiscati. Dall' ex Urss
nacquero quindici repubbliche indipendenti (vedi fig. 33.1 ), la più grande
e importante delle quali era la Russia (Federazione russa), che da sola ac-
coglieva oltre il 50 per cento della popolazione dell' i11tera Unione Sovie-
tica e produceva il 60 per cento del Pil.
La transizione al capitalismo fu lunga e difficile. Il passaggio da un' e-
conomia pianificata, in cui lo Stato era l'unico proprietario dei mezzi di
produzione, a un' economia di mercato costituiva un'esperienza nuova e
piena di incognite. Essa fu attuata in modo affrettato e i risultati furono di-
sastrosi. Fra il 1990 e il 1998, il Pil pro capite diminuì, in media, di quasi il
7 per cento all' anno nella disciolta Unione Sovietica, mentre nell'Europa
orientale il calo fu più contenuto.
La Federazione russa fu sostanzialmente l'erede dell'Unione Sovietica
(per esempio occupò il suo seggio all' Onu) e si assunse il debito estero del
passato regime. I primi provvedimenti riguardarono la liberalizzazione del
commercio interno e di quello estero e l'apertura del mercato russo al
commercio internazionale e agli investimenti esteri. L ' operazione più diffi-
cile e complessa fu la privatizzazione delle imprese statali, già avviata
ali' epoca di Gorbacev, che venne affidata a una Commissione statale. Le
imprese pubbliche furono trasformate in società anonime e una parte delle
azioni fu ceduta a poco prezzo ai lavoratori delle imprese stesse. Fu anche
deciso ( 1992-94) di distribuire gratuitamente voucher (buoni) ai cittadini,
che li avrebbero potuti trasformare in azioni delle imprese privatizzate.
Non si ricorse alla vendita delle azioni per evitare che finissero nelle mani
di poche persone, appartenenti al precedente gruppo dirigente comunista o,
314 L 'economia contemporanea (1950-2017)

p eggio ancora, legate alla mafia russa, che era risorta e diventata potente
con il crollo del regime. Lo scopo, però, non fu raggiunto, p erché i posses-
sor i dei voucher preferirono venderli proprio ai vecchi dirigenti che and.a -
rono a ingrossare le fi la degli oligarchi . Non tutte le imprese furono priva-
tizzate, perché lo Stato conservò la proprietà (in tutto o in parte) di nume-
rose attività, in particolare di quelle ritenute strategiche, come le teleco-
municazioni, l'energia e l' industria degli armamenti.
L'altro grande problema della fase di transizione fu una violenta infla-
zione, che si trasformò in iperinflazione, con tassi annui che, nel 1992, fu-
rono del 2.500 per cento. Il rublo, diventato convertibile nelle a ltre monete
(1992), perse rapidamente valore rispetto al dollaro, il cui valore passò, in
tre anni, da 144 a 5.000 rubli. L ' iperinflazione fu dovuta sia alla liberalizza-
zione dei prezzi sia, soprattutto, alle necessità fmanziarie dello Stato, che fe-
ce continuo ricorso all' emissione di biglietti. In regime di economia pianifi-
cata lo Stato traeva le sue entrate dalle imprese che gli appartenevano. Cedu-
te queste per pochi soldi, dovette elaborare e attuare un nuovo sistema tribu-
tario, che fu di difficile applicazione, con un'evasione fiscale molto elevata.
Vi furono, per conseguenza, grandi mutamenti nella distribuzione del
reddito, che all' epoca dell' Unione Sovietica era abbastanza equa . Il potere
d'acquisto dei salari fu falcidiato dal l' inflazione e la sperequazione fra i
nuovi ricchi, che seppero profittare in tutti i modi (anche illegali) della si-
tuazione, e la massa della popolazione si fece gr ave e preoccupante. La po-
vertà aumentò in modo impressionante: le persone considerate indigenti,
per esempio, passarono in pochi anni dal 2 al 50 per cento in Russia e dal 2
al 63 per cento in Ucraina.
L'agricoltura fu ancora una vo lta sacrificata, nel senso che si fece poco
per creare dinamismo in un settore arretrato, in cui i figli dei contadini col-
lettivizzati non erano ancora pronti a lavorare in r egime di mercato, tanto
che molti di loro preferirono restare nelle aziende di Stato o nelle coopera-
tive piuttosto che mettersi in proprio. Molti altri abbandonarono i vil laggi
per trasferirsi in città, sicché ben 17 mila villaggi (su 160 mila) restarono
disabitati, specialmente in Siberia. In Russia e in Ucraina la produzione agri-
cola risultò, a fine secolo, inferiore del 40 per cento a quella del 1990.
Uno dei fenomeni più inquietanti seguiti alla dissoluzione dell'Unione
Sovietica fu il calo demografico. La popolazione della Russia diminuì del 5
per cento fra il 1995 e il 2008, pare a causa della diffusione dell ' alcolismo
(antica piaga 1ussa), della droga e di malattie sessualmente trasmissibili,
no11ché per un gran numer o di morti violente (omicidi, suicidi e incidenti) e
per lo stress causato dall ' incertezza dell' avvenire, come hanno rilevato al-
cuni studiosi che s i sono occupati del problema. In poco tempo, la vita me-
33. La.fine del Blocco sovietico 315

dia dei maschi si ridusse di circa sei anni, portandosi a 60 anni, mentre il
numero delle femmine diventava molto superiore a quello dei maschi (100
femmine per 86 maschi). Anche altre repubbliche dell' ex Unione Sovietica
subirono una diminuzione della popolazione, addirittura più marcata di
quella russa, come la Bielorussia (- 6 per cento), le repubbliche baltiche
(- 10 per cento), l'Ucraina (- 12 per cento) e la Georgia (- 15 per cento).
Solo in seguito la popolazione di questi paesi è ricominciata a crescere.
Nell'Europa orientale il processo di transizione risultò meno traumati-
co. Il collettivismo era durato per un periodo più breve, era stato rea lizzato
in modo meno incisivo e la fase di passaggio all'economia di mercato fu
meglio gestita. Fu comunque necessario rinnovare gli obsoleti impianti in-
dustriali, riqualificare i lavoratori, trasformare il sistema tributario e quello
d.ella sicurezza sociale e ricostruire dal nulla il sistema bancario. Quasi tutti
i paesi dell'Europa orientale entrarono, nel 2004 e nel 2007, nell'Unione
Europea. Dopo essere diminuito, fra la fme degli anni Ottanta e i primi anni
Novanta, il loro Pil pro capite riprese ad aumentare prima della fine del se-
colo. La crescita dell'ultimo ventennio è stata eccezionale, molto superiore
a quella dei paesi più industrializzati dell'Europa occidentale, e ha prodotto
un aumento dei consumi e la riduzione della disoccupazione.
La transizione russa risultò più complessa, anche perché la Russia ereditò
la maggior parte dei problemi della disciolta Unione Sovietica. Un primo
problema era la presenza di un enorme apparato industriai-militare, nel
quale erano impiegate moltissime persone. Finita la Gue1ra fredda e ridottosi
lo sbocco per gli armamenti, il settore entrò in crisi e la disoccupazione dila-
gò. Esistevano, poi, parecchie economie regionali ince11trate sulla monocol-
tura industriale, vale a dire sulla presenza di poche grandi aziende che ope-
ravano in un solo ramo, molte delle quali collassarono con la fme de l regime
comunista. La produzione industriale crollò, in tutto il Paese, del 50 per cen-
to, con il consueto corollario di disoccupazione e sottooccupazione. Anche il
sistema previdenziale ereditato dall 'Urss non poté essere utilizzato, poiché
era affidato alle grandi imprese statali, che si occupavano direttamente di as-
sistere i lavoratori (previdenza, salute, alloggi, ecc.). Il passaggio di queste
competenze ai governi locali creò moltissimi problemi e risultò difficile con-
tinuare a garantire un minimo di assistenza alla popolazione.

33.5. La ripresa dell'economia russa

La crisi della transizione fu superata verso la fine degli anni N ovanta,


dopo u.n 'ulteriore crisi valutaria del rublo, che fu sottoposto ad attacchi
316 L 'economia contemporanea (1950-2017)

speculativi (1998) e si svalutò rispetto alle altre monete. Il dollaro balzò da


7 rubli (valore al quale era stato stabilizzato dopo l'iperinflazione dei primi
anni Novanta) a 21 rubli. Con il nuov o secolo la Federazione russa conobbe
una forte ripresa economica. Il Pil pro capite, dopo essere crollato del 42
per cento fra il 1990 e il 1998, aumentò successivam ente a ritmi elevati
(+ 7 ,4 per cento all' anno), riportandosi, nel 2006, al livello del 1990 e supe-
randolo del 17 per cento nel 2008. Tale risu ltato fu dovuto sostanzialmente
a due fattori: a) le consistenti esportazioni di petrolio e di gas naturale, oltre
che di metalli e legname, i cui prezzi sul mercato mondiale erano in cresci-
ta; b) la debolezza del rublo, che favoriva le esportazioni e scoraggiava le
importazioni, sostenendo, in tal modo, le industrie nazionali. Il valore delle
esportazioni russe, però, è legato all'andamento dei prezzi mondia li delle
materie prime e in particolare a quelli dei prodotti energetici, che da soli
costituiscono quasi i due terzi delle vendite all'estero (2015). Esso, perciò,
può essere soggetto a frequenti variazioni e influire sulla bilancia dei p a-
gamenti, che tuttavia si è mantenuta in attivo.
Lo Stato conservò il conh·ollo di alcune grandi impres e, fra le quali vale
la pena di ricordare Gazprom, che estrae ed esporta petrolio e gas naturale,
di cui la Russia è il primo produttore mondiale. Sorta come azienda pubbli-
ca nel 1988, fu privatizzata cinque anni dopo, ma lo Stato conservò un'im-
portante quota di partecipazione. Oltre alla banca centrale (Banca di Rus-
sia), lo Stato mantenne anche il controllo di diverse banche, nate o ristruttu-
rate in seguito alla completa riforma del s istema bancario sovietico, non più
adatto alle esigenze di un'economia di mercato. Nel 2012 la Russia entrò
nella Wto e quindi s'impegnò a liberalizzare il proprio commercio estero.
Lo sviluppo economico interessò principalmente la regione di Mosca (e
qualche altra grande città), dove i livelli di reddito si avvicinarono a quelli
europei, mentre gran parte del paese rimase it1dietro, soprattutto nelle zone
rurali e nei territori asiatici. Il governo avviò anche piani di rientro del debito
estero e di risanamento del debito pubblico. L 'eccessiva dipenden.za dell'eco-
nomia russa dal settore energetico, la poco chiara gestione delle imprese e la
presenza ancora molto marcata dello Stato nell' economia non riuscirono, pe-
rò, a favorire gli investimenti esteri.
Il Pil pro capite russo, nonostante i sicuri progressi realizzati dopo la fine
della crisi di transizione, nel 2016 era al 45 per cento di quello americano. La
Federazione russa, con i suoi oltre 140 milioni di abitanti, è certamente uno
dei principali paesi emergenti e una delle maggiori potenze industriali mon-
diali, ma deve ancora trovare un equilibrio politico ed economico più stabile.
34.
IL RISVEGLIO
DELL'ASIA

34.1. La Cina comunista

Fra gli eventi economici più rilevanti verificatisi tra gli u ltimi decenni
del secolo XX e l'inizio del XXI vi è sicuramente la ricomparsa, fra le
grandi aree economiche mondia li, dei paesi asiatici. L'Asia nel suo com-
plesso (non considerando i territori as iatici dell'Impero russo e poi dell'U-
nione Sovietica) produceva, nel 1820, secondo i calcoli di Angus Maddi-
son, quasi il 60 per cento del Pil mondiale. Nel 1950 la sua quota si era ri-
dotta a meno del 20 per cento, per riportarsi al 44 per cento nel 2008. Que-
sti soli dati bastano a for1ùre un' idea di come il continente asiatico avesse
perso molto terreno di fronte all' ava.n zata della rivoluzione industriale in
Occidente e come, negli ultimi decenni, abbia saputo realizzare una cresci-
ta per certi versi inaspettata. Nel 1820, inoltre, le prime due economie del
continente asiatico e del mondo intero erano la Cina e l' India, che da sole
producevano quasi la metà del Pil mondiale (33 per cento la prima e 16 per
cento la seconda).
Nel contesto asiatico la Cina rappresenta un caso particolare. Fra i secoli
XVI e XIX, essa aveva vissuto un lungo periodo d'isolamento, durante il
quale si era chiusa ai rapporti internazionali. Verso la metà dell'Ottocento
fu costretta dalle potenze occidentali ad aprirsi ai traffici e dovette stipula-
re dei trattati che la obbligarono a tenere bassi i dazi doganali e a ospitare
sul suo territorio alcune delegazioni straniere. L'economia cinese, anche
per ragioni interne, collassò e il Pil pro capite del 1950 (in valori costanti)
risultò addirittura inferiore del 25 per cento a quello del 1820, proprio
mentre l'economia dei paesi industrializzati stava crescendo, sicché essa
rimase alquanto emarginata dal punto di vista economico. Il crollo è anco-
ra più evid.e nte se si compara l' economia cinese con quelle di Gran Breta-
gna e Stati Uniti. Fra il 1820 e il 1950, il Pii pro capite della Cina crollò
318 L 'ecorzomia contemporanea (1950-2017)

dal 29 a circa il 6 per cento di quello britannico e dal 44 a l 5 per cento di


quello americano.
Con la fme dell 'ultima dinastia imperiale cinese ( 19 11 ), fu instaurata la
repubblica e iniziò un lungo periodo di torbidi interni, sfociato in un conflitto
armato fra il Partito 11azionalista e il Partito comunista. Durante la Seconda
guerra mondiale, le due fazioni sospesero le ostilità per combattere gli inva-
sori giapponesi, ma a guen·a finita ripresero la lotta. Si trattò di uno scontro
molto duro e c1uento, che terminò con la sconfitta dei nazionalisti, costretti a
rifugiarsi 11ell' isola di Taiwa11 (Formosa), e con il trionfo del Partito comuni-
sta di Mao Zedong, che nel 1949 instaurò la Repubblica Popolare Cinese.
La storia economica della Cina comunista si può dividere in due periodi
nettamente distinti: quello dell'economia pianificata (1949-78) e quello del-
l' <<economia socialista di mercato>>, come una modifica della costituzione
cinese (1993) ha definito il nuovo sistema economico, scaturito dalle rifor-
me introdotte sul finire degli anni Settanta.
La realizzazione del comunismo passò attraverso diverse fasi, che ripete-
rono l'esperien.z a sovietica, anche se si tentò di evitare gli errori del potente
vicino. In un primo tempo la Cina seguì l'esempio dell' Unione Sovietica
ma, successivamente, si manifestarono profo11de divergenze fra i dirigenti
dei due paesi, acuite da a lcune questioni di confine, che portarono (1960) le
due grandi economie socialiste a prendere strade diverse. Dopo aver doma-
to l' iperinflazione che, anche in Cina, aveva accompagnato la rivoluzione, e
dopo aver stabilizzato la moneta, il nuovo governo dovette affrontare la tra-
sformazione socialista dell'economia. Come in Unione Sovietica, furono in-
trodotti i piani quinquennali, che puntarono sull' industria pesante, a scapito
della produzione dei beni di consumo. Le grandi imprese e le banche furono
nazionalizzate, senza indennizzo, mentre le piccole imprese a conduzione
familiare furono spinte a trasformarsi in cooperative. Il commercio all' in-
grosso passò nelle mani dello Stato, che trasferì quello al minuto a imprese
miste con partecipazione pubblica.
L'agricoltura costituiva il settore più importante dell'economia. In Cina
fu attuata la più grande riforma agraria che la storia ricordi ( 1950-52), con
ben 80 milioni di ettari confiscati ai proprietari terrieri e distribuiti ai conta-
dini. La proprietà individuale della te11·a fu conservata, anche perché i nuovi
dirigenti non volevano alienarsi l'appoggio dei ceti agricoli, che erano la
stragrande maggioranza della popolazione e costituivano la base di sostegno
del Partito comunista e del regime. Siccome gli appezzamenti assegnati risul-
tarono troppo piccoli, il governo promosse la costituzione di cooperative a-
gricole, alle quali i contadini dovevano conferire i loro poderi. In media, una
cooperativa era composta di 160 famiglie e aveva un'estensione di 150 ettari.
34. Il risveglio dell'Asia 3 19

Le condizioni dei contadini non migliorarono molto rispetto alle a ltre catego-
rie e il salario agricolo rimase molto più basso di quello dell' industria.
I risultati del primo decennio del nuovo regime, nonostante fossero
complessivamente positivi, non vennero ritenuti soddisfacenti dai dirigenti
del Partito comunista, che lanciarono il grande balzo in avanti (1958-60),
un piano economico e sociale che richiese una generale mobilitazione della
popolazione per riformare il paese e trasformarlo in una moderna società
industriale, con l' intento dichiarato di raggiungere i paesi sviluppati, soprat-
tutto la Gran Bretagna. Nel campo industriale vennero attuate diverse misu-
re di decentramento, si potenziarono le medie e le piccole industrie locali e
i lavoratori delle fabbriche furono coinvolti nella loro gestione. Nelle cam-
pagne si formarono le comuni agricole, una sorta di comunità di villaggio,
organizzate in brigate (le ex cooperative) e squadre (unità operative). Le
comuni assunsero anche la funzione di nuove t1nità amministrative dello
Stato e fu loro consentito di possedere e gestire piccole fabbriche, laborato-
ri, trattori, autocarri e magazzini, nel tentativo di fame unità produttrici au-
tosuffi cienti. Nonostante i sacrifici imposti al la popolazione e gli e1Tori
commessi (il Paese subì una gravissima carestia con 14 milioni di morti,
secondo le prudenti stime ufficiali), il grande balzo in avanti trasformò il
volto della Cina rurale, con la realizzazione di grandi progetti locali, grazie
al lavoro collettivo. Furono dissodate nu ove terre, costruiti sistemi d'irriga-
zione per milioni di ettari, assicurati servizi comunali (scuole, ospedali,
ecc.) e fu insegnato un nuovo mestiere a milioni di persone.
La crescita economica subì un rallentamento all' epoca della cosiddetta
rivoluzione culturale (1966-69), un vasto movimento politico ed economico
voluto da Mao, già sostanzialmente estromesso dal potere effettivo, come
rimedio straordinario al perico lo, da lui intravisto, d' involuzione autoritaria
e burocratica della rivoluzione comunista. Si trattò, it1 sostanza, di u11a lotta
interna al partito, nel quale si contrapponevano differenti visioni sul prosie-
guo del la rivo luzione. La rivoluzione culturale si basò principalmente su l.la
mobilitazione dei giovani (universitari e non) riuniti in gruppi, denominati
<<guardie rosse>>. Essi imperversarono in tutto il paese per imporre il pensie-
ro di Mao, sventolando il <<libretto rosso>> contenente le massime del loro
lead er, nel tentativo di modificare le strutture della società e finanche il
modo di pensare dei Cinesi.
Il Pil pro capite cinese raddoppiò fra il 1950 e la metà degli anni Settan-
ta, anche se nel 1973 era ancora pari al 5 per cento di quello americano e al
7 per cento di quello brita11nico (sempre in valori costanti), all' incirca quan-
to era nel 1950. Ma il s olo fatto che l'economia cinese fosse riuscita a tene-
re il passo con quelle occidentali, senza arretrare, fu un successo, in un pae-
320 L 'economia contemporanea (1950-2017)

se che doveva mantenere la popolazione più numerosa del mondo. I Cinesi,


che nel 1950 erano intorno a 550 milioni, trent'anni più tardi erano diventa-
ti quasi un miliardo, con un incremento dell'80 per cento.

34.2. Le riforme cinesi e l'economia socialista di mercato

Dopo la morte di Mao (1976), il suo successore D eng Xiaoping avviò


un graduale processo di liberalizzazione dell'economia. Il precedente s i-
stema politico con un partito unico, il Partito comunista cinese, fu conser-
vato ma si cominciò a passare all'economia di mercato sotto il controllo
dello Stato. A partire dal 1978 furono attuate riforme in tutti i settori, ten-
denti ad accelerare lo sviluppo e a modernizzare l'economia, mediante
l'introduzione di elementi di capitalismo nel sistema. I dirigenti cinesi rite-
nevano che il controllo politico accentrato dell'economia rappresentasse il
modo più efficace per creare sviluppo. Essi erano convinti che il processo
di modernizzazione di un paese richiedesse, specialmente nelle fasi iniziali,
una struttura politica forte e centralizzata, per impedire che le tens ioni so-
ciali, che inevitabilmente ne sarebbero scaturite, potessero ostacolarne lo
svolgimento. Perciò hanno sempre reagito con durezza alle manifestazioni
volte a chiedere una maggiore democrazia in Cina.
Fin dall' inizio, i riformatori cinesi si proposero di far aumentare i reddi-
ti individuali e i consumi e d ' introdurre nuovi sistemi di gestione delle im-
prese per incrementare la loro produttività, che era stata molto bassa nel pe-
riodo precedente. Furono introdotti degli incentivi salariali, visti come un
efficace strumento per stimolare il maggiore impegno dei lavoratori e il
concetto di egualitarismo, perseguito sino a quel momento, venne conside-
rato un ostacolo alla crescita economica. Si conservarono i piani quinquen-
nali (anche se dal 2006 vennero chiamati, con un'espressione più sfumata,
semplicemente <<linee guida>>), che continuarono ad avere un ruo lo impor-
tante nell'organizzazione economica, sia pure con funzioni diverse in una
situazione profondamente mutata.
La prima riforma riguardò l'agricoltura. Il sistema delle comuni agri-
cole fu abbandonato e si tornò a un s istema basato su aziende agricole fa-
miliari. Le terre rimanevano di proprietà collettiva, ma furono divise in
appezzamenti e assegnate alle famiglie contadine con un complesso siste-
ma di affitti. Una volta pagato il canone, i contadini potevano vendere con
profitto le eccedenze sia allo Stato ai prezzi u fficiali ( che vennero aumen-
tati) sia sul libero mercato che era stato ripristinato. In appena una decina
d'anni, la produzione di cereali aumentò di circa il 30 per cento e i raccolti
34. Il risveglio dell 'Asia 321

di cotone, canna da zucchero, tabacco e frutta raddoppiarono. La popola-


zione attiva in agricoltura crollò da oltre il 70 per cento, livello al quale
ancora si trovava nel 1995, al 28 per cento nel 2016, valore comunque
troppo elevato se confrontato con quello dei maggiori paes i sviluppati e se
si tiene conto che ormai l'agricoltura contribuisce alla formazione del Pii
cinese solo per meno del 9 per cento del totale. Questa consistente diminu-
zione degli addetti all'agricoltura in un lasso di tempo così breve comportò
un esodo massiccio di persone dalle campagne che si riversarono nelle cit-
tà o emigrarono ali' estero.
Anche il settore industriale subì profonde modifiche. Fino a quel mo-
mento, le imprese erano pubbliche e si dividevano fra grandi imprese stata-
li, che dipendevano dal governo centrale, e imprese locali più piccole, sot-
toposte alle autorità provinciali e municipali. Solo dopo il 1978 fu ammessa
la costituzione di piccole imprese private a carattere familiare, che non po-
tevano avere più di sei dipendenti, limitazione in seguito eliminata. Le im-
prese controllate dalle autorità locali vennero progressivamente privatizzate
(o semiprivatizzate) e cominciarono a conquistare quote di mercato sempre
più ampie. Le imprese statali, da parte loro, costituirono grandi gruppi ca-
paci di competere sui mercati internazionali e furono autorizzate a vendere
ljberamente la quantità di prodotti che eccedeva quella stabilita dal piano,
al quale dovevano comunque attenersi.
Il governo cinese decise anche di attirare investimenti esteri per sostene-
re lo sviluppo economico e perciò aprì diverse zone economiche speciali
lungo la costa. Le zone speciali (presenti anche in altri paesi, come India,
Corea del Nord, Polonia e Russia) sono regioni o città dotate di una legisla-
zione particolare in materia economica (diversa da quella dello Stato cui
appartengono), con lo scopo precipuo di attirare gli investitori, offrendo loro
agevolazioni di ogni tipo (incentivi fiscali, burocrazia snella, disponibilità di
prodotti destinati all'esportazione, facilità di costituire joint ventures, ecc.).
Il sistema bancario fu riformato e nacquero numerose banche private,
ma il ruolo di quelle pubbliche rimase preponderante. Furono riaperte le
Borse, chiuse dal 1949, a cominciare da quella di Shanghai ( 1990 ), che s i
svilupparono enormemente. La moneta, lo yuan ( o renminbi) non è libe-
ramene convertibile in valute estere e perciò il cambio ufficiale viene fis-
sato dalle autorità cinesi, che lo hanno tenuto basso rispetto al dollaro per
dare competitività alle loro merci, provocand.o il disappunto e le recrimi-
nazioni dei paesi importatori, specialmente degli Stati Uniti.
Per via del basso costo della manodopera, i prodotti cinesi costavano po-
co e inondarono tutti i paes i. La Cina, a poco a poco, è diventata il primo
esportatore mondiale, essendo riuscita a superare la Germania (2009). I pro-
322 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

dotti inviati all'estero, che negli anni Novanta erano principalmente manu-
fatti a bassa tecnologia, sono diventati, con il nuovo secolo sempre più pro-
dotti ad alta tecnologia, che nel 20 15 costituivano quasi il 26 per cento
dell'esportazione di manufatti. In Cina, infatti, si è sviluppata, all' inizio del
secolo XXI, una vasta attività di assemblaggio di componenti, per lo più elet-
tronici, importati da diversi paesi asiatici. Va rilevato che a ciò provvedono
principalmente importanti società multinazionali straniere, che hanno aper-
to propri stabilimenti nel Paese, grazie ai vantaggi offerti dal governo e ai
finanziamenti delle banche. Molti prodotti <<made in China>>, che oggi rag-
giungono quasi tutti i paesi del mondo, sono dovuti, perciò, a imprese stra-
niere e non a imprese cinesi. Le principali esportazioni (in valore) riguar-
dano oggi proprio materiale elettrico ed elettronico, computer e accessori e
apparecchiature per telecomunicazioni. Il valore complessivo delle esporta-
zioni cinesi, espresso in dollari, aumentò di otto volte fra il 1980 e il 1996 e
di altre sei volte entro il 2007, attestandosi intorno al 37 per cento del Pii
(2006), risultato sicuramente favorito dall' ingresso della Cina nella Wto nel
2001. Dopo di a llora, per via dell'aumento dei consumi interni e dell ' in-
cremento del Pil, il valore delle esportazioni, ancorché raddoppiato entro il
2016, si è ridotto a meno del 19 per cento del Pii.
Nonostante la necessità d' importare molte materie prime (specialmente
petrolio, carbone, rame e legname) e manufatti di qualità, a partire dagli anni
Novanta la bilancia commerciale fu costantemente attiva. La Cina si ritrovò
con enormi disponibilità di valuta estera, una parte della quale fu investita,
attraverso un <<fondo sovrano>> (cioè statale), nell'acquisto di titoli pubblici
americani, arrivando a detenerne una buona quota. In tal modo, i legami eco-
nomici fra i due paesi sono diventati molto forti e la Cina ha tutto l'interesse
alla solidità economica degli Stati Uniti, che sono un suo grosso debitore.
Lo straordinario sviluppo dell'economia cinese è testimoniato dagli ele-
vati tassi di crescita del Pii, che si tennero al di sopra del 1O per cento
all 'anno, mentre il Pil pro capite giunse a triplicarsi (in valori costanti) fra il
1980 e il 1999 e a raddoppiarsi ancora entro il 2007. Rispetto ai paesi più svi-
luppati, però, il Pii pro capite cinese è rimasto a livelli molto bassi, anche se
la distanza si sta rapidamente accorciando. Fra il 2000 e il 2010, infatti, esso
è passato dal 16 al 34 per cento di quello britannico e dal 12 al 26 per cento
di quello americano (vedi tabb. 26.1 e 26.2). Per la Cina è fondamentale
mantenere un elevato tasso di crescita, dato che ogni anno all ' incirca 12-15
milioni di persone si affacciano sul mercato del lavoro.
La Cina continua a macinare primati. O ggi è il primo produttore mon-
diale di molti beni (le principali derrate alimentari, alcuni animali da alle-
vamento, importanti metalli e numerosi beni durevoli, come autovetture,
34. Il risveglio dell 'Asia 323

televisori, lavatrici e frigoriferi) ed è anche il principale produttore di ener-


gia idroelettrica e termoelettrica. Per molti altri beni occupa il secondo o
il terzo posto.
Queste profonde trasformazioni economiche hanno comportato anche
una maggiore mobilità sociale e geografica. Milioni e milioni di persone
hanno avuto la possibilità di migliorare la loro condizione economica e so-
ciale e si sono spostate dalle zone rurali dell 'interno verso le città delle aree
costiere, dove oggi si addensa gran parte della popolazione. Moltissimi Ci-
11esi, inoltre, hanno preso la via dell' emigrazione. Una serie di campagne di
pianificazione familiare, lanciate fin dal 1970, assieme a disposizioni che
avvantaggiavano le famiglie con un solo figlio, hanno fatto diminuire il tas-
so di natalità. Nonostante ciò, la popolazione è aumentata notevolmente, sia
pure a ritmi meno elevati del trentennio precedente, portandosi a quasi 1.400
milioni (20 16), che rappresentano oltre il 18 per cento di quella mondiale.
In Cina si è ormai affermata un'economia mista, in cui lo Stato conserva
un peso molto rilevante, denominata, come si è detto, <<economia socialista di
mercato>>. Forse anche per questo e per la disponibilità di risorse, accumulate
con le esportazioni, la Cina ha potuto affrontare meglio la Grande recessione
di inizio secolo XXI. Essa è stata in grado di varare un vasto programma
d' intervento pubblico in funzione anticongiunturale, con grossi investimenti
in infrastrutture (fe11·ovie, strade, aeropo11i e opere d'irrigazione), nella co-
struzione di alloggi a basso costo, nonché nello sviluppo agricolo, nell' avan-
zamento tecnologico e nel risparmio energetico. Come si è già detto, la Cina
è riuscita, unico fra i principali paesi del Pianeta, a realizzare una crescita del
Pii pro capite del 64 per cento fra il 2007 e il 201 3 e quasi a raddoppiarlo en-
tro il 2016 (vedi tab. 29 .1). Second.o i dati in valori costanti della Banca
Mondiale, il Pil complessivo cinese ha superato quello americano nel 2013,
diventando l'economia più grande del mondo (secondo i dati in valori con·en-
ti, invece, gli Stati Uniti conservano il primo posto).

34.3. L'India indipendente

Il subcontinente indiano conquistò l'indipendenza nel 1947, al termine di


lu11ghe lotte, in prevalenza no11 viole11te, condotte principalmente dal Partito
d.el Congresso, sotto la guida del mahatma Gandhi e del pandit N ehru. Al
momento dell' indipendenza nacquero due Stati: l'India e il Pakistan.
L 'India, a maggioranza induista, diede vita a una repubblica federale,
formata da ventotto Stati. Il Pakistan, a maggioranza musulmana, risultò
composto dalle province nordoccidentali (l'attuale Pakistan) e dal Bengala
324 L 'eco11.omia contemporanea (1950-2017)

orientale, separatosi nel 1971, con il nome di Bangladesh. I rapporti fra i due
paesi si rivelarono subito difficili per via della questione del Kashmir, una
regione di confine il cui controllo ha provocato diversi scontri fra i due con-
tendenti, senza che il problema sia stato ancora risolto.
La dominazione coloniale aveva comunque lasciato all' India, fra l'altro,
la conoscenza diffusa della lingua inglese, una moderna burocrazia statale e
una buona dotazione di infrastrutture (in particolare un imponente sistema
ferroviario), che si rivelarono utili allo sviluppo successivo. L'India rimase
nel Commonwealth per i forti legami economici con l'Inghilterra e con l'area
della sterlina, e adottò una strategia d 'industrializzazione fondata su tre ele-
menti fra loro strettamente collegati:
a) la sostituzione delle importazioni, scelta che comportò l'abbandono del
sistema coloniale, che aveva assegnato alle colonie ( e voleva continu,a re ad
assegnare ai paesi sottosviluppati) la funzione di esportatrici di materie
prime e di importatrici di manufatti;
b) il protezionismo, che doveva difendere le imprese impegnate nella
produzione di beni che prima bisognava importare;
c) l' intervento statale nell'economia, che doveva garantire lo sviluppo e
recuperare il grave ritardo del Paese; perciò, gli Indiani, ancor prima del-
1' indipendenza, progettarono il controllo statale delle attività economiche e
la creazione di un solido sistema di imprese pubbliche (piano di Bombay,
1944), sicché al momento dell' indipendenza avevano le idee chiare e il nuo-
vo governo si orientò subito verso l'elaborazione di piani quinquennali.
L'attività industriale fu sostanzialmente divisa fra tre gruppi di imprese:
a) le imprese pubbliche, che si sarebbero dovute occupare dell' industria
pesante e della trasformazione delle risorse naturali;
b) le imprese a partecipazione pubblica, in cui la presenza privata si sa-
rebbe dovuta gradualmente ridurre, impegnate in diversi rami produttivi;
c) le imprese private, prevalenti nell' industria leggera e destinate alla
produzione di beni di consumo.
Sul finire degli anni Sessanta, una nuova accelerazione dell'intervento
statale portò alla nazionalizzazione delle banche, con lo scopo di far giungere
i servizi bancari anche nelle zone rurali e favorire la formazione del rispar-
mio. Qualche anno dopo furono nazionalizzati gli impianti di estrazione del
carbone, le raffinerie e le compagnie di assicurazione. Le piccole imprese ri-
cevettero particolare attenzione da parte dello Stato, specie dagli anni Settan-
ta, anche perché erano maggiormente in grado di assorbire manodopera.
L'agricoltura, invece, rimase affidata a l settore privato, ma fu ampia-
mente sostenuta dallo Stato, che, fra l' altro, garantiva l'acquisto di cereali
da destinare a lla distribuzione a prezzi controllati. Il governo federale e
34. Il risveglio dell 'Asia 325

quelli dei singoli Stati promossero la diffusione di nuove tecniche di col-


tivazione, l'utilizzazione di cereali ad alto rendime11to, l' irrigazione, l' uso
di fertilizzanti chimici e la meccanizzazione e facilitarono l'accesso al
credito bancario. Ma tutto questo non r iuscì a evitare due gravi carestie
alla metà degli anni Sessanta. In seguito, l' India raggiunse l'autosuffi-
cienza alimentare.
Tuttavia, i risultati complessivi furono modesti. Fra il 1950 e il 1980, il
tasso di crescita medio annuo del Pii (in valori costanti) fu del 3,6 per cento,
mentre quello pro capite aumentò di appena l' 1,40 per cento all' anno. Perciò,
grandi masse rimasero escluse d.a qualsiasi beneficio e continuarono a soffri-
re la fame e le malattie.

34.4. Riforme e liberalizzazioni in India

Negli anni Settanta, dopo la crisi petrolifera e in considerazione del fatto


che il settore industriale indiano si mostrava stagnante già da tempo, si co-
minciò a pensare ad alcune riforme economiche. Come stava avvenendo
quasi dappertutto, anche in India furono introdotte le pri1ne forme di libera-
lizzazione e fu realizzata la riforma del settore pubblico, con lo scopo di
aumentare l'efficienza e la competitività del sistema. Ma solo a partire dal
1991 fu attuata una vera e propria liberalizzazione dell 'economia e si pro-
cedette al graduale smantellamento d.e l sistema dei controlli, per dare vita a
un'economia competitiva sul piano internazionale, con imprese orientate
all ' esp ortazione. Nel contempo fu ridimensionato e ridefmito il ruolo dello
Stato, mediante una decisa deregolamentazione, specialmente nel settore
industriale, una liberalizzazione del commercio estero, una riforma del set-
tore finanziario, soprattutto del mercato azionario, e una maggiore apertura
ai capitali esteri. Molte imprese pubbliche furono privatizzate, ma lo Stato
conservò I.a proprietà di cospicue quote del loro capitale sociale. Le riforme
si prefiggevano, fra l' altro, la riduzione del disavanzo pubblico, mediante il
taglio delle spese statali, ma in un paese con profondi squilibri, non si riu-
scirono a ridurre le spese a carattere sociale (salute, istruzione, sviluppo ru-
rale e sussidi per i prodotti alimentari e per i fertilizzanti). Un'importante
conseguenza delle riforme fu l'affermazione di una competitiva e dinamica
industria del software, che si poté giovare di giovani ingegneri preparati ed.
alimentò una crescente con·ente di esportazioni.
A partire dagli anni Ottanta, e a11cor più dai Novanta, l' India conobbe
una crescita eccezionale, con un incremento medio annuo del Pil che s i
tenne intorno al 6 per cento sino a fine secolo, per superare il 9 p er cento
326 L 'economia contemporanea (1950-2017)

negli anni successivi. Aumentarono gli investimenti esteri e la partecipa-


zione al commercio internaziona le, il cui valore, anche se si mantenne
modesto, arrivò quasi a quadruplicarsi fra il 2 001 e il 2007. N onostante
ciò, l'economia indiana è ancora poco internazionalizzata e rimane orien-
tata principalmente verso il mercato interno.
I problemi dell 'India sono numerosi e lo sviluppo è stato pieno di con-
traddizioni. L a popolazione, che al censimento del 198 1 era di 685 milioni,
è passata a 1.320 milioni nel 2016, con un incremento di oltre il 90 p er cen-
to in trentacinque anni e si appresta a superare la Cina entro pochi anni. La
forte crescita demografica ha comportato che il Pil pro capite, pure aumen-
tato, si sia tenuto troppo basso, pari, com' è (2016), a meno del 16 per cento
di qu ello britannico e all ' 11 per cento di quello americano. L e persone che
d.e vono vivere con meno di due dollari al giorno costituiscono quasi il 70
per cento della popolazione. Gli analfabeti, che erano 1'80 per cento della
popolazione al momento dell' indipendenza, erano ancora il 34 per cento nel
2007. Ciò nonostante, l'India è considerata uno dei paesi emergenti più im-
portanti, che negli anni di crisi 2008- 13 è riuscita a realizzare un incremento
del Pil pro capite del 37 per cento, diventato di quasi il 65 per cento nel 2016
(vedi tab. 29.1). Se la sua crescita continuerà ai ritmi attuali, questo grande
paese è destinato a diventare uno dei protagonisti dell ' economia mondiale.

34.5. Le <<tigri asiatiche>>

U11 cenno merita110 le cosiddette tigri asiatiche (Hong Kong, Taiwan,


Singapore e Corea del Sud), dove v ivono quasi 90 milioni di persone. Que-
sti paesi hanno orientato le loro economie in prevalenza alla produzione e
all'esportazione di prodotti ad elevato contenuto tecnologico, anche se ciò
li ha resi fortemente dipendenti dall 'andamento dei mercati mondiali. Il lo-
ro Pii pro capite è cresciuto moltissimo e oggi si trova al livel lo di qu ello
dei paesi più sviluppati.
Hong Kong è stata una colonia britannica dal 1842 al 1997, quando pas-
sò alla Cina, che ne fece una regione autonoma speciale es ' impegnò a con-
servare per cinquant' anni il sistema economico e sociale v igente sotto l'am-
ministrazione britannica, basato sulla libera iniziativa e sull'economia di
mercato. La sua posizione di <<porta verso la Cina>> le ha consentito di svol-
gere il ruolo d'intermediaria negli scambi fra la Cina e il resto del mondo.
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E riuscita ad attrarre ingenti investimenti esteri, è diventata una piazza fi-
nanziaria di prim' ordine e ha potuto contare su un inesauribile serbatoio di
manodop era per le sue industrie, proveniente da lla Cina comunista.
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Fig. 34.1. - I paesi asiatici
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328 L 'ecoriomia contemporanea (1950-2017)

Anche Singapore, che fu colonia britannica dal 1826 al 1959, ha saputo


sfruttare la sua posizione strategica sulle rotte che collegano l' Oceano India-
no con il Pacifico ed è diventata uno dei maggiori porti mondiali. La sua
economia è simile a quel la di Hong Kong, con la differenza che qui lo Stato
ha avuto un ruolo maggiore nel favorire la crescita. Fra il 1950 e il 201 O, il
Pil pro capite (in valori costanti) di queste due città-stato (Hong Kong e
Singapore) è aumentato, rispettivamente, di 14 e di 13 volte.
Nello stesso periodo, Taiwan e Corea del Sud hanno fatto registrare un
aumento del loro Pil pro capite di oltre 25 volte, il più alto realizzato da
qualsiasi altro paese al mondo. Lo sviluppo della Corea del Sud è stato
promosso da governi autoritari, spesso retti da militari, che hanno puntato
su settori tradizionali ad alta intens ità di capita le (it1dustrie siderurgiche, au-
tomobilistiche, cantieristiche, del cemento, ecc.), hanno sostenuto le espor-
tazioni e hanno spinto le imprese a mist1rarsi st1l mercato globale. Un rt1olo
molto importante lo hanno avuto i chaebol, gruppi imprenditoriali familiari,
simili ai keiretsu giapponesi, ma dei quali non fa parte una banca, che con-
trollano grandi conglomerate e sono sostenuti dallo Stato.
L'isola di Taiwan (Cina nazionalista), dove si era rifugiato il governo na-
zionalista sconfitto dai comunisti, portando con sé le riserve auree cinesi, è
stata retta da un regime autoritario a partito unico fino agli anni Ottanta. Ha
puntato su piccole imprese altamente competitive orientate all'esportazione
(materiale elettrico ed elettronico, circuiti elettronici integrati e microproces-
sori, macchinari, strumenti ottici e di precisione, ecc.) e, negli ultimi tempi,
ha effettuato cospicui investimenti all'estero, specialmente in Cina.
Le economie dei paesi asiatici, nel loro complesso, si avviano ad essere
(se già non lo sono) le protagoniste del secolo XXI. Ormai il baricentro
dell'economia g lobale si sta spostando da Occidente a Oriente e da Nord a
Sud e, anche se tale processo non è uniforme, appare tuttavia it·reversibile.
Come il s ecolo XIX è stato il secolo dell' Inghilterra e il XX è stato quello
degli Stati Uniti, probabilmente il secolo XXI sarà il secolo dell 'Asia e dei
suoi grandi paesi emergenti, come Cina e India.
35.
AMERICA LATINA
E AFRICA

35.1. Stato e populismo in America Latina

La Grande depressione degli anni Trenta aveva colpito pesantemente


l'America Latina. Durante la Seconda guerra mondiale, però, molti paesi lati-
noamericani, non essendo direttamente coinvolti 11el conflitto, fecero registra-
re una debole ripresa, basata su un allargamento dei consumi interni, grazie al
sostegno statale, e sui rifornimenti che furono in grado di garantire alle nazio-
ni impegnate nel conflitto. La produzione di beni di consumo fu incoraggiata
per sostituire i prodotti che era difficile importare in tempo di guerra e
l'agricoltura fu stimolata con riforme agra1ie, che prevedevano la redistribu-
zione di vasti patrimoni fondiari e la messa a coltura di nuove terre.
Negli anni Trenta e Quaranta, l' intervento dello Stato era aumentato ed
era stata perseguita una politica protezionistica, strettamente collegata al
nazionalismo allora imperante anche in quella parte del mondo. I governi e-
rano intervenuti in tutti i settori dell' economia, avevano nazionalizzato al-
cune attività produttive nel campo minerario e in quel lo agricolo e avevano
creato apposite aziende di Stato. Anche quando, dopo la guerra, i principali
paesi del mondo liberalizzarono le loro economie e avviarono una politica
di libero scambio, i governi populisti dell' America Latina (di <<destra>> e di
<<sinistra>>)' restarono legati al protezionismo e all' intervento statale, pre-
sentati come u11a forma di difesa dell' eco11omia 11azionale.
Gli anni successivi al conflitto furono, anche in America Latina, un p e-
riodo di crescita. I paesi latinoamericani avevano s ostanzialmente scelto il

1
Il populismo è variamente defi nito dalle scienze politiche. In questo caso è ri ferito a quei
governi latinoamericani, basati sull'esistenza di un capo carismatico (come Juan Per6n in Ar-
gentina o Getulio Vargas in Brasile), che si rivolge direttamente, in modo retorico e paterna-
listico, al popolo, in nome del quale dice di parlare e a favore del quale di ce di operare. La loro
politica è, in genere, nazionalista e prevede un forte intervento statale in economia.
330 L 'economia conteniporanea (1950-2017)

campo occidentale (tranne Cuba, che nel 1960 passò nell 'orbita sovietica) e
subivano, sia pure a malincuore, il dominio economico e politico degli Stati
Uniti. Ciò nonostante, essi continuarono la politica d' intervento statale.
L'industria fu certamente il settore più dinamico, specie negli anni Sessanta,
anche se non riuscì ad avere un ruolo propulsivo per realizzare la moderniz-
zazione. Essa si basò sullo sfruttamento delle risorse naturali e su una mano-
dopera non qualificata, senza investimenti di capitali in nuove tecnologie che
ne elevassero la competitività. Sostenuta dallo Stato, l'industria si limitò ari-
fornire il mercato interno e non fu in grado di espandersi su quello interna-
zionale. La strategia di potenziare l'industrializzazione sostitutiva delle im-
portazioni fu appoggiata dalla borghesia latinoamericana che poteva investire
nel settore indus triale i capitali di cui disponeva. La stessa agricoltura, nono-
stante le continue riforme agrarie, non riuscì a progredire significativamente.
Il controllo governativo dei prezzi agricoli, tenuti artificialmente bassi, non
incoraggiava gli agricoltori e finiva con il costituire una forma di sostegi10 ai
ceti urbani e industriali.
Gli effetti negativi di queste politiche furono una forte inflazione, spe-
cialmente nelle economie più <<chiuse>>, come quelle argentina, brasiliana e
cilena, e il deterioramento delle finanze statali, compromesse dalle spese e
dai sussidi governativi, con una conseguente elevata pressione fiscale, spe-
cialmente sui ceti più deboli.
L ' inflazione fu un costante fattore d' instabilità in America Latina. Le
politiche populistiche avevano portato a un'espansione della spesa pubbli-
ca, senza un conseguente aumento delle entrate tributarie, e quindi impo-
nendo il ricorso all' indebitamento pubblico e all' aumento della circolazione
monetaria. Quando, con la crisi degli anni Settanta, l'inflazione interessò
tutti i paesi a economia di mercato, quella latinoamericana divenne iperin-
flazione e molti paesi dovettero continuamente svalutare la loro moneta o
anche ritirare quella in circolazione e sostituirla con una nuova. Furono ne-
cessarie drastiche politiche di risanamento per mettere sotto controllo
l' inflazione e assicurare una certa stabilità monetaria.
L 'America Latina è stata caratterizzata, negli ultimi settant' anni, da un
consistente incremento demografico, al quale, nell' immediato dopoguerra,
contribuì la ripresa dell'immigrazione proveniente dall'Europa. In seguito,
il subcontinente latinoamericano è diventato zona di emigrazione, in parti-
colare verso gli Stati Uniti. La sua popolazione si è quadruplicata da l 1945
a oggi (da 145 a oltre 600 milioni) e continua a registrare un forte incre-
mento, secondo solo a quello dell'Africa.
La situazione peggiorò con la crisi degli anni Settanta. Molti paesi furono
costretti a indebitarsi ulteriormente a tassi d' interesse molto più elevati di
35. A,nerica Latina e Africa 33 1

prima e il debito estero complessivo aumentò di sette volte fra il 1973 e il


1982. Quando il Messico dovette dichiarare la sua insolvenza (1982), il flus-
so dei prestiti privati si arrestò di colpo e fu necessario ridurre gli investimen-
ti sia nelle aziende stata li sia nei serviz i pubblici. Si verificò, inoltre, una con-
sistente <<fuga dei capita li>> all' estero, ossia il trasferimento (anche illegale) in
altri paesi dei capitali privati delle classi agiate, in cerca di migliori rendi-
menti. Per conseguenza, mentre i governi si indebitavano all 'estero per so-
prawivere, i detentori di capitali nazionali li esportavano.

35.2. Le liberalizzazioni

In seguito alla crisi degli anni Settanta, i governi mutarono la loro poli-
tica economica e attuarono forme di deregolamentazione e di privatizzazio-
ne, a ciò spinti anche dalla circostanza che gli aiuti internazionali e i prestiti
esteri, che avevano consentito le spese pubbliche del lungo periodo prece-
dente, si erano drasticamente ridotti. Le basse tariffe dei servizi p11bblici
dovettero essere riviste e la politica fiscale divenne più rigorosa.
Le privatizzazioni furono avviate, fin dagli anni Settanta, nel Cile go-
vernato da una dittatura militare, su richiesta del Fondo monetario interna-
zionale. Successivamente, esse interessarono diversi paesi, come M essico,
Argentina, Brasile, Venezuela e P erù . Gli acquirenti delle imprese messe in
vendita erano sia imprenditori naziona li, che utilizzarono anche i capitali
esportati negli anni Ottanta e successivamente fatti rientrare in patria, sia
imprenditori stranieri. I loro investimenti furono spesso di natura sp eculati-
va ed essi puntarono più su risultati di breve periodo (per rivendere le a-
ziende acquistate) che su strategie durature. Le imprese privatizzate conti-
nuarono a investire poco nella tecnologia e a fare affidamento soprattutto
sullo sfruttamento delle risorse naturali e sulla manodopera generica a bas-
so costo, sicché la competitività internazionale dei prodotti latinoamericani
è rimasta a livelli molto bassi. Il mercato dei titoli azionari, per conseguen-
za, crebbe notevolmente, ma fu caratterizzato da u11' alterna112a di periodi di
euforia finanziaria e periodi di panico.
D 'altra parte, i principali paesi, come M essico, Brasile e Argentina, fu-
rono colpiti da crisi finanziarie, legate al valore delle monete e al debito e-
stero. Essi avevano ancorato le proprie monete al dollaro, attribuendo loro
un valore troppo elevato: quattro a uno per il <<peso>> messicano (4 pesos
per un dollaro), due a uno per il <<real>> brasiliano (introdotto nel 1994 in so-
stituzione del vecchio <<cruzeiro>>, completamente svalutato) e addirittura
uno a uno (alla pari) il <<peso>> argentino. Rapporti di cambio così elevati
332 L 'economia conteniporanea (1950-2017)

non poterono essere sostenuti a lungo e tutti questi paesi prima o poi dovet-
tero svalutare la loro moneta: dell'80 per cento il Messico (1994), del 40
per cento il Brasile (1999) e d.el 400 per cento l' Argentina (2002), che fu
anche costretta a sospendere il pagamento del debito estero, diventato
troppo elevato ed oneroso.
Negli ultimi decenni è stata abbandonata la politica protezionistica e i
paesi latinoamericani sono entrati prima nel Gatt e poi nel la Wto, parteci-
pando in misura maggiore al commercio internazionale. La loro quota nei
traffici mondiali è aumentata, ma ha riguardato solo pochi comparti e si è
limitata ad alcune aree geografiche. Sul finire del secolo XX diversi paesi
dell'America Latina diedero vita al Mercosur (Mercato comune del Sud,
1995) e alla Comunità andina (1997), successivamente (2008) confluiti nel-
la già ricordata Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur). Il Messico,
invece, partecipa al Nafta, assieme agli Stati Uniti e al Canada.
L 'America Latina, che alla fine della Seconda guerra mondiale vedeva la
maggior parte della popolazione legata all'agricoltura, è attualmente una e-
conomia terziarizzata, con profondi squilibri fra i diversi paesi e fra i vari
ceti sociali. Le differenze fra le categorie più ricche e la massa di popolazio-
ne che, molto spesso, vive in condizioni di assoluta povertà, sono aumentate.
Ciò ostacola la crescita economica, che non è adeguatamente sostenuta da
un flusso continuo di consumi, dai quali moltissimi individui sono esclusi.
Ciò ha comportato sia una massiccia emigrazione verso gli Stati Uniti, da
d.o ve arriva un consistente flusso di rimesse da parte degli emigrati, sia lo
spostamento di moltissime persone nelle periferie delle grandi città. Gli ag-
glomerati urbani di Città del Messico e San Paolo del Brasile ospitano oltre
20 milioni di persone ciascuno e quello di Buenos Aires quasi 15 milioni.
Nell'area si segnalano due economie emergenti, quelle del Messico e del
Brasile, che contano rispettivamente oltre 120 e 200 milioni di abitanti, vale
a dire più della metà della popolazione dell' intera America Latina. Il Mes-
sico è strettamente legato economicamente agli Stati Uniti, di cui subisce
l'influenza. Prova ne sono le cosiddette imprese maquiladoras, ossia quegli
stabilimenti industriali posseduti o controllati da soggetti stranieri (per lo
più statunitensi), in cui si producono o assemblano componenti temporane-
amente importati dai paesi industrializzati in un regime di esenzione doga-
nale e fiscale, che sfruttano anche il basso costo della manodopera locale.
I prod.otti assemblati o trasformati vengono successivamente esportati. Sor-
te negli anni Sessanta per attirare investimenti esteri, le maquiladoras costi-
tuivano, già negli anni Ottanta, la seconda fonte di entrate per il Messico,
dopo l' industria petrolifera. Dal 2000 esse hanno subito la concorrenza di
altri paesi, come la Cina, e il loro numero è diminuito. Tuttavia il loro peso
35. A,nerica Latina e Africa 333

nell'economia del Paese rimane notevole, poiché impiegano ancora il 13


per cento dei lavoratori messicani.
Il Brasile è riuscito fmalmente a liberarsi dall'andamento ciclico della sua
economia, legata per molti secoli alla produzione e all'esportazione di singoli
prodotti, che avevano dato vita dapprima al ciclo dei legnami pregiati (sec.
XVI), poi a quello dello zucchero (sec. XVII), successivamente ai cicli
dell'oro e del bestiame (sec. XVIII) e, infine, a quelli del caffè e del caucciù
(secc. XIX e XX). Il Brasile sta ora puntando su industria, infrastrutture e fi-
nanza, con la Borsa di San Paolo, che è diventata la più importante
dell'America Latina. Il suo recente sviluppo ne ha fatto uno dei principali pa-
esi emergenti, che fa parte del gruppo Bric.
Oggi, quelle del Brasile e del Messico sono economie terziarizzate, con
una percentuale di ad.d etti al settore terziario che si attesta rispettivamente
al 68 e al 62 per cento del totale, mentre l'industria occupa il 22-25 per cen-
to e l'agricoltura il 10-13 per cento. Nonostante lo sviluppo realizzato negli
ultimi tempi, però, i due paesi presentano ancora (2016) un Pil pro capite
modesto se confrontato con quello degli Stati Uniti: appena il 26 per cento
il Pil brasiliano e il 32 per cento quello messicano.

35.3. Il ritardo dell'Africa

Fino alla metà dell' Ottocento, la maggior parte del continente africano
era ancora sconosciuta e inesplorata. Gli abitanti di molte regioni pratica-
vano un' agricoltitra di sussistenza e le ten·e da coltivare erano periodica-
mente distribuite dai capi villaggio alle famiglie, senza che esistessero dirit-
ti di proprietà di tipo occidentale. Dal 1880, l'Africa fu conquistata dalle
principali potenze europee (in particolare Francia e Gran Bretagna), che co-
stituirono proprie colonie, tenute fino a dopo la Seconda guerra mondiale. I
colonialisti si appropriarono delle terre migliori, introdussero i diritti di
proprietà e sfruttarono la manodopera locale nelle piantagioni e nelle mi-
niere. Pochi furono gli sforzi compiuti per ish·uire la popolazione o per co-
st1uire un' efficiente rete di trasporti.
Con la fine del colonialisnio, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del No-
vecento, si formarono i nuovi Stati indipendenti (vedi fig. 35.1), nella mag-
gior parte dei casi creati artificialmente e, perciò, privi di una chiara id.e nti-
tà nazionale, nei quali si trovarono a convivere diversi gruppi tribali o etni-
ci, sovente in contrasto fra di loro. Scoppiarono numerose guerre e molti
Stati fmirono nelle mani di governanti senza scrupoli, talvolta appoggiati
dalle ex potenze coloniali.
334 L 'economia conteniporanea (1950-2017)

Anche in Africa, la golden age fu caratterizzata dall'intervento statale in


economia, ritenuto indisp ensabile p er garantire la modernizzazione dei
nuovi Stati nati dall 'indipendenza. L ' azione dei governi conservò alle ex
colonie la loro funzione di esportatrici di materie prime in cambio di ma-
nufatti. Si formarono gruppi di privilegiati che trassero vantaggio da questi
traffici (spesso illegali) e furono in grado di alimentare i consumi dei pro-
dotti importati, mentre la massa della popolazione viveva nell' ignoranza e
nella miseria. Siccome era l'epoca della Guerra fredda, i paesi occidentali e
quelli comunisti fecero a gara per sostenere i nuovi Stati africani con aiuti
finanziari e forniture di armi, pur di attirarli nel loro campo.
I governi africani fecero affidamento su questi aiuti per assicurare i ser-
vizi minimi alla popolazione. Comunque, fra il 1950 e il 1973 il Pil pro ca-
pite crebbe, in tutto il continente, a un tasso medio annuo di oltre il 2 per
cento, con differenze talvolta rilevanti fra un paese l' altro. I risultati miglio-
ri, fra gli Stati più popolosi, furono ottenuti dalla Nigeria, dalla Costa d'Avo-
io, dall' Algeria e dal Sudafrica.
Il p rimo shock p etrolifero del 1973, se portò qualche vantaggio ai paesi
esportatori di p etrolio (Nigeria, Algeria, Libia, Gabon e Repubblica del
Congo), costrinse gli altri a indebitarsi per acquistare il petrolio di cui ave-
vano bisogno. Si formò un ingente debito estero, parte del quale si dovette
poi ridurre o cancellare, per l'impossibilità dei debitori più poveri di rim-
borsarlo. In molti paesi furono adottate politiche neo/iberiste, che portarono
alla liberalizzazione del mercato e alla privatizzazione delle imprese pub-
bliche, nel tentativo di far decollare l'economia e di migliorare le condizio-
ni della popolazione. Ma sino alla fine del secolo XX, la crescita del Pil pro
capite sostanzialmente si arrestò e in alcuni paesi più grandi esso addirittura
diminuì, segnando, quindi, un peggioramento delle condizioni di vita della
maggioranza della popolazione.
Nel primo decennio del nuovo secolo, invece, quasi tutti i paesi africani
fecero registrare un buon andamento della loro economia e il Pii pro capite
dell'Africa crebbe a ritmi sostenuti, tanto da passare, in appena un decennio
(2000-10), dal 7 al 12 per cento di quello americano (vedi tab. 28.1). Secon-
do i dati aggiornati di Maddison, il Pii pro capite, che nei trentacinque anni
compresi fra il 1960 e il 1995 era cresciuto di appena il 25 per cento, nei suc-
cessivi quindici anni aumentò del 175 per cento, riuscendo quasi a triplicarsi,
pur in presenza di un forte incremento demografico.
A questo risultato hanno contribuito diversi paesi, a cominciare dal Su-
dafrica, il quale, grazie alle sue grandi risorse minerarie ( carbone, oro, dia-
manti, platino, ferro, rame, ecc.), è diventato la principale economia del
continente. Un consistente sviluppo stanno avendo anche i paesi produttori
35. A,nerica Latina e Africa 33 5

Fig. 3 5.1. - L 'indipendenza dell 'Africa

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Nota: Sotto il nome degli Stati è indicata la data dell'indipendenza.

di p etrolio, come la Nigeria, che conta oltre 160 milioni di abitanti, l' Angola
e il Ciad, nonché alcuni paesi del Nord Africa, come l' Algeria, ricca di gas
naturale, il Marocco e la Tunisia. Siccome la crescita degli ultimi anni è in
gran parte determinata dalle alte quotazioni del petrolio e delle materie prime
minerarie che molti paesi africani sono in grado di esportare, non è ancora si-
curo che essa si possa trasformare in una crescita duratura. Nell' Africa sub-
336 L 'economia conteniporanea (1950-2017)

sahariana, invece, dove si concentrano più dei tre quarti della popolazione
complessiva dell' intero continente, si trovano i paesi più poveri.

35.4. I problemi del continente africano

L'Africa presenta molti problemi, che ostacolano lo sviluppo economico


del continente.
1. Incremento demografico. Esso è stato più elevato che in qualsiasi al-
tra area del mondo. Secondo alcuni studiosi, la popolazione africana era
uguale, agli inizi del Novecento, a quella di tre secoli prima, quando co-
minciò la tratta degli schiav i verso le Americhe, che sottrasse al continente
nero circa undici milioni di persone (più due milioni portati in Asia). Se-
condo altri, la popolazione africana sarebbe comunque cresciuta, anche se
in misura contenuta. Ciò che è certo è che dal 1945 a oggi essa è passata da
circa 200 milioni a oltre 1,2 miliardi, giungendo a sestuplicarsi. La vita me-
dia è stata a lungo molto bassa, tenendosi, in alcuni paesi a sud del Sahara,
poco sopra i 30 anni, mentre in quelli che si affacciano sul Mediterraneo si
awicinava ai livelli europei. Negli ultimi tempi, però, essa sta salendo dap-
pertutto, tanto che ormai non vi è più alcun paese in cui scende sotto i 50
anni e sono numerosi quelli in cui supera i 60.
2. Scarsità di acqua e siccità. L 'insufficienza di acqua provoca ricorrenti
periodi di siccità, come quelli d.e gli anni Settanta e Ottanta, che sono sempre
accompagnati da carestie, alle quali si cerca di far fronte grazie agli aiuti in-
ten1azionali. In <<annate normali>>, sembra che almeno cento milioni di africa-
ni patiscano la fame e la denutrizione, che sono i principali fattori di diffusio-
ne delle epidemie. Non è u.n caso che l' Aids colpisca in particolare i paesi
dell'Africa subsahariana, vale a dire la parte più povera del continente. Guer-
re, siccità e malattie costringono molti poveri a spostarsi nelle città o a emi-
grare verso i paesi ricchi del l'Europa, con lunghi, pericolosi e costosi viaggi.
3. Contirzue guerre e rivolte. Dall'indipendenza in poi, la maggior parte
dei p aesi è stata scossa da guerre civ ili e colpi di Stato, che sembrano veri-
ficarsi con maggiore frequenza nei paesi a basso reddito o con una crescita
molto lenta. Pare anche che il possesso o la scoperta di risorse naturali (pe-
trolio, diamanti, minerali, ecc.), invece di consentire ai paesi che ne di-
spongono di svilupparsi, fomentino guerre e rivolte. Attorno ai guadagni
che si possono realizzare con la loro esportazione, difatti, si concentra la
cupidigia di governanti intenzionati a p erseguire soltanto il loro interesse
privato, sovente sostenuti dai governi dei paes i importatori. Le maggiori
entrate derivanti dall'esportazione di materie prime ( o anche dal le rimesse
35. A,nerica Latina e Africa 337

degli emigrati e dagli aiuti internazionali) danno spesso l' illusione di un'im-
provvisa ricchezza, peraltro conce11trata it1 poche mani, e non stimolano la
produzione e l' esportazione di altri beni e serviz i, che potrebbero innescare
un processo di sviluppo. Molte di ta li risorse finiscono nell'acquisto di armi
e in progetti costosi quanto inutili, che accrescono la corruzione. Questi pa-
esi, in genere, sono guidati da governi autoritari, ostili alla democrazia, che
stenta ad affermarsi, perché sp esso si fonda sul clientelismo, favorito dalla
stessa disponibilità di risorse finanziarie assicurate dalle esportazioni e da-
gli aiuti internazionali.
4. Difficoltà di partecipare al commercio internazionale. Molti paesi afì·i-
cani hanno grande difficoltà a partecipare al commercio internazionale, in
particolare quelli che non hanno accesso al mare e sono, quasi sempre, cir-
condati da paesi altrettanto poveri e privi di efficienti sistemi di trasporto.
Perciò soffrono della condizione di Stati interni, che non riescono a inserirsi
nei traffici mondiali e sono condannati alla povertà, anche quando dispon-
gono di risorse da esportare. Né la partecipazione alla Wto produce qualche
consistente beneficio, per la scarsa capacità contrattuale dei paesi afì·icani
nei lu nghi negoziati che precedono la stipulazione degli accordi commercia-
li. Perciò, la maggior parte di questi paesi non è riuscita a profittare delle
opportunità offerte dal processo di globalizzazione.
Il costo dello sviluppo è, nel frattempo, ulteriormente cresciu to, rendendo
difficile il recupero del ritardo di paesi così poveri, situazione sp esso aggra-
vata dalla stessa globalizzazione. Le persone più giovani e intraprend.enti e-
migrano, specialmente se conoscono un mestiere o hanno un titolo di studio,
e fmanche i capitali, legalmente o illegalmente accumulati dai benestanti,
vengono trasferiti all'estero.
Nonostante i problemi che affliggono l'Africa, vi sono segni di vitalità, a
cominciare da quello demografico, che, se nell'immediato crea enormi pro-
blemi, in futuro potrebbe rivelarsi un fattore di sviluppo, specialmente per
l' esisten.z a di una popolazione mo lto giovane. Non bisogna dimenticare che
gli Africani hanno dovuto affrontare, dopo l' indipendenza, una fase molto
difficile. Mancava una classe dirigente adeguata, che non si era formata du-
rante il periodo coloniale, esisteva un grave ritardo nell' istruzione, la popola-
zione cresceva a ritmi incredibili e si urbanizzava (una città come Kinshasa,
capitale della Repubblica democratica del Congo, è passata d.a i 360 mila abi-
tanti del 1955 ai oltre 11 milioni attuali) e ha dovuto soffrire un lungo perio-
do di siccità, durato una ventina d'anni. Essere riusciti a mantenere una popo-
lazione che è raddoppiata ogni ventitré anni, sia pure grazie agli aiuti interna-
zionali, e nonostante le inique sperequazioni nella distribuzione del reddito, è
comunqu e un altro segno di vita lità del continente.
338 L 'economia conteniporanea (1950-2017)

35.5. Epilogo

Il cammino compiuto dall'uomo negli ultimi secoli è stato prodigioso.


La popolazione mondiale è passata dai circa 800 milioni di individui a metà
Settecento agli oltre 7,5 miliardi attuali. Ma si è anche allungata di molto la
vita media ed è cresciuto il tenore di vita di buona parte della popolazione
mondiale. L'uomo è stato affrancato da l lavoro de lla ten·a e oggi bastano
relativamente poche persone che, con l'aiuto di macchine sempre più perfe-
zionate e di fertilizzanti chimici, riescono ad alimentare un gran numero di
individui che si possono dedicare ad altre attività, soprattutto nel settore dei
servizi, e peraltro dispongono di molto tempo libero.
Lo sviluppo è costato grandi sacrifici a intere generazioni. Lo sfrutta-
mento dei lavoratori nelle prime fasi dell' industrializzazione è stato molto
forte, l'assoggettamento e lo sfruttamento di interi paesi sono durati a lungo
e lo spostamento di tantissime persone alla ricerca di migliori condizioni di
vita è stato massiccio e continua ancora, con elevati costi sociali. Come una
volta l'uomo si spostava per inseguire il cibo, oggi si sposta per cercare la-
voro, il che in sostanza è la stessa cosa.
Le sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, anche all' interno
dei paesi più avanzati, restano, però, rilevanti. Anzi, le differenze fra i di-
versi ceti sociali si sono accentuate rispetto alla società preindustriale,
quando, in genere, l' accumulazio11e di ricchezze individuali era limitata
dalla possibilità di utilizzarle per migliorare la propria condizione di vita ol-
tre una determinata soglia. L ' esperimento di un'economia pianificata che
garantisse l'eguaglianza economica fra gli uomini è miseramente fallito. Il
capitalismo trionfante, che peraltro presenta molte varietà al suo interno, se
risulta maggiormente capace di creare ricchezza, non riesce ad assicurare
una sua equa distribuzione sia a livello nazionale che internazionale e per-
ciò è oggetto di numerose critiche. E inoltre si appresta a subire trasforma-
zioni di non poco rilievo per via dell'accelerato sviluppo tecnologico degli
ultimi tempi.
Lo s quilibrio fra nazioni sviluppate e in via di sviluppo, categorie peral-
tro assai molto poco omogenee, è andato continuamente crescendo e i loro
interessi continuano ad essere divergenti. Purtroppo, come si è visto
dall' evoluzione dei diversi paesi negli ul timi due o tre secoli, non esiste una
sola via allo sviluppo e ogni nazione ha dovuto sforzarsi per trovare la sua,
che qua.si mai è stata identica a quella dei suoi vicini. Non vi è una <<ricetta>>
che possa essere valida per tutti i paesi e per tutte le epoche. Tuttavia, a par-
tire dalla seconda metà del secolo XX, l'Asia è stato il continente più di-
namico dal punto di vista economico. Dopo essere rimasta ferma per alcuni
35. A,nerica Latina e Africa 339

secoli, mentre altre regioni del mondo progredivano, l'Asia ha ripreso a


crescere e ha cominciato anche a muovere concorrenza alla produzione di
manufatti occidentali, potendo contare su una numerosa e fmora poco esi-
gente manodopera, e quindi a pa11ecipare in modo più consistente al com-
mercio internazionale.
All' inizio del nuovo millennio l' interdipendenza fra gli uomini e i popo-
li del Pianeta è sicuramente cresciuta rispetto ai secoli precedenti. Da un la-
to, la complessità dei sistemi produttivi e relazionali rende gli uomini di-
pendenti in misura molto maggiore che in passato dal comportamento di al-
tri uomini. Dall'altro, le decisioni assunte in una parte del globo hanno ef-
fetti anche in posti molto lontani. Il mondo è diventato un unico grande
mercato e la vita degli uomini ormai si svolge in un <<villaggio globale>>, in
cui le comunicazioni avvengono, come si dice, in tempo reale.
Lo svilt1ppo economico è stato reso possibile da molti fattori, il pitì di-
namico dei quali si è dimostrato sicuramente la tecnologia, che ha contri-
buito significativamente a l compimento d.e lla rivoluzione industriale e che
oggi permette di aprire nuovi orizzonti nel campo dell'informazione e della
conoscenza, nonché nell'uso delle fonti di energia rinnovabili.
Di recente, si sta prendendo coscienza che lo sviluppo non può essere
solo economico, misurabile con l'incremento del Pil pro capite. Esso deve
essere anche umano, cioè deve tenere conto pure di altri parametri che ri-
guardano le condiziorii di vita degli i11dividui e dei popoli, e sostenibile, va-
le a dire che deve soddisfare le esigenze delle generazioni presenti, senza
compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare le loro.
I problemi - no11 solo economici - che l'uomo del secolo XXI dovrà af-
frontare sono, perciò, enormi e vanno dall'accelerato incremento demogra-
fico al rimescolamento dei popoli, dalle disuguaglianze fra le diverse aree
del mondo all' esistenza di armi di distruzione di massa, dalle problematiche
ecologiche (che si fanno sempre più pressanti e vitali per il futuro del Pia-
neta) all'organizzazione di nuove forme di produzione e di consumo. Forse
la tecnologia potrà ancora venire in aiuto all'uomo per consentirgli di risol-
vere alcuni di questi problemi, ma i risultati dipenderanno da come egli sa-
prà utilizzarla per il bene comune dell 'intera umanità.
APPENDICE

GRAFICI
342 Appe11.dice

I grafici da 1 a 9 sono stati costruiti sulla base dei dati elaborati da Angus
Maddison, pubblicati sul sito web del Groningen Growth and Development
Centre dell'Università di Groningen, all'indirizzo "www.ggdc.net/Maddison''
ed espressi in dollari internazionali Geary-Khamis a prezzi 1990, che si ba-
sano sulla parità del potere d'acquisto. Dopo la scomparsa di Maddison
(2010) i dati relativi al Pil pro capite sono stati rivisti e aggiornati fino al
2010 da un gruppo di lavoro composto di suoi colleghi presso la stessa Uni-
versità. In questa Appendice si sono utilizzati i dati aggiornati, che in parte
differiscono da quelli precedentemente pubblicati da Maddison. I grafici 1O
e 11 si basano sui dati pubblicati dalla Banca Mondiale sul suo sito e sono
espressi in dollari internazionali a prezzi 2011.
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Fig. A3. - Pil pro capite dei principali paesi, dal 1950 al 2010, in dollari internazionali 1990 ~
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Fig. A4. - Pii pro capite dei principali paesi europei, dal 1850 al 2010, in dollari internazionali 1990 O\

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33. La.fine del Blocco sovietico 309

tre, sacrificata alle necessità della pianificazione industriale, continuava ad


avere un numero eccessivo di addetti, inconcepibile per la seconda potenza
militare, politica ed economica del mondo.

33.2. I tentativi di riforma in Unione Sovietica

Le disfunzioni del sistema erano note ai dirigenti sovietici, che tentaro-


no più volte di riformarlo, fin dagli anni Cinquanta e Sessanta, senza risul-
tati apprezzabili. Si possono ricordare le riforme ispirate dall' economista
sovietico Evsej Liberman, che conferirono maggiore autonomia alle impre-
se e utilizzaronono il concetto di profitto sul capitale per valutare la loro
produttività. Ma solo in seguito Michail Gorbacev, che guidò l' Unione So-
vietica dal 1985 al 1991, pose mano a riforme più incisive, compendiate nei
termini <<glasnost>> e <<perestrojka>>.
La glasnost (trasparenza o pubblicità) doveva realizzare forme più de-
mocratiche di gestione del potere politico, partendo dalle libertà di espres-
sione e d' informazione. Il suo scopo era di consentire una libera discussione
dei problemi del Paese, senza nasconderli, e di combattere la corruzione e i
privilegi dell'apparato politico. La perestrojka (ristrutturazione), invece, ri-
guardava la trasformazione del precedente sistema politico ed economico,
ritenuto troppo autoritario e burocratico. Essa richiamava la Nuova politica
economica di Lenin degli anni V enti e si concretizzò in alcuni importanti
provvedimenti legislativi. Le imprese statali furono più libere di fissare le
loro quote di produzione in funzione della domanda delle altre imprese e del
mercato, fu consentita l' iniziativa privata per creare piccole e medie imprese
nei settori del commercio e della produzione, vennero assegnate terre ai con-
tadini con affitti di lunga durata (50 anni) e furono accolti investimenti di
capita li esteri mediante la costituzione di joint ventures 1• Venne a11che ridi-
mensionato il potere del Partito comunista, con la graduale riduzione del
ruolo dei suoi funzionari a vantaggio dei dirigenti statali.
Lo scopo di Gorbacev era di conservare il sistema socialista attraverso
una sua radicale trasformazione. Secondo alcuni, il suo errore sarebbe stato
di puntare più sulle riforme politiche che su quelle economiche, al contrario
di ciò che stavano facendo i dirigenti cinesi. Le conseguenze furono il crol-
lo del dominio del Partito comunista, il cui apparato burocratico comunque

1
Una joint venture è sostanzialmente un accordo temporaneo fra due o più imprese, anche
appartenenti a Stati djversi, con il quale esse si iinpegnano a collaborare per reali zzare un de-
terrrunato progetto, mettendo assieme le loro competenze, al fme dj ottenere un profitto.
~
Fig. A5. - Pil pro capite di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, dal I 870 al 20 I O, in dollari internazionali I 990 ~
(")

35.000
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Fig. A6. - Pii pro capite degli Stati Uniti e del! 'Unione Sovietica, dal 1921 al 1991, in dollari internazionali 1990 00

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Nota: Dal 1950 al 1989, i dati riportati per la Russia sono quelli dell' Unione Sovietica, che in genere sono un poco più bassi di ~
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quelli russi, non disponibili prin1a del 1990.
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Fig. A7. - Pii pro capite delle grandi aree continentali, dal 1950 al 2010, in dollari internazionali 1990
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Fig. A9. - Pii pro capite delle attuali qitattro economie più grandi, dal 1950 al 2010, in dollari internazionali 1990 ~
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Fig. A IO. -Pil delle attuali quattro economie più grandi, dal 1990 al 2016, in miliardi di dollari internazionali 2011 N

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Fig. Al 1. - Pii pro capite delle prime quattro economie europee, dal 1990 al 2016, in dollari internazionali 2011 ~
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V,
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ORIENTAMENTI
BIBLIOGRAFICI

INDICE
DELLE TABELLE
E DELLE FIGURE

INDICE
DEI NOMI
ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI
(Di ogni opera è indicata in genere la data dell'ultima edizione)

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INDICE
DELLE TABELLE E DELLE FIGURE

Tabelle nel testo


3.1. Stima della popolazione europea dal 400 a.C. al 1750, in milioni 26
4.1. Distribuzione percentuale per settori economici della popolazio-
ne atti va dei principali paesi, per alcuni anni dal 180 1 al 2011 34
8.1 . Livello del Pil pro capite dei principali paesi raffrontato con
quello della Gran Bretagna negli anni 1700, 1820 e 1870 74
9.1. Alcu.ni p1incipali indicatori dell 'economia mondiale nel 1850 e
nel 1914 88
14.1. Tassi percentuali medi annui di crescita del Pil pro capite nei
principali paesi, per periodi, dal 1820 al 20 1O 128
14.2. Livello del Pii pro capite dei principali paesi raffrontato con
quello della Gran Bretagna, per alcuni anni dal 1820 al 2010 128
17.1 Percentuale del Pil pro capite delle regioni del Mezzogiorno
d'Italia (Sud e Isole) rispetto a quelle del Nordovest e del Nord-
est-Centro, a prezzi costanti, per alcuni anni, dal 1871 al 2009 15 5
17.2. Distribuzione percentuale della popolazione attiva italiana, per
settore di attività economica, e partecipazione dei settori alla
formazione del Pil, alle date dei censimenti e al 2010 156
17.3. Percentuale del Pil pro capite delle regioni del Mezzogiorno
d' Italia (Sud e Isole) rispetto a qu.elle del Centro-Nord, a prezzi
costanti 19 11, per quinquenni, dal 1861 al 2010 157
21.1. Andamento del Pil pro capite dei principali paesi, per alcuni
anni fra il 1913 e il 1946 (1913 = 100) 190
23.1. Alcuni principali indicatori dell'economia mondiale nel 1955
e nel 2014 2 10
26.1. Livello del Pii pro capite di alcuni paesi raffrontato con quello
del Regno Unito, per decenni, dal 1950 al 20 10 238
26.2 Livello del Pil pro capite di alcuni paesi raffrontato con quello
degli Stati Uniti, per decenni, dal 1950 al 2010 239
28.1. Livello del Pil pro capite delle diverse regioni del mondo raffron-
tato con quello degli Stati Uniti, per decenni, dal 1950 al 2010 258
366 Indice delle tabelle e delle figure

29.1. Pii pro capite dei paesi del G20 e del Mondo dal 2007 al 2016
(2007= 100) 268-69
29.2. Pil pro capite dei principali paesi europei in alcuni anni dal
1990 al 20 16, in dollari internazionali 201 1 271

Figure nel testo


2.1. Schema del ciclo Kondratieff e trend secolare 22
3 .1. Popolazione europea dal 400 a.C. al 1750, in milioni (anda-
mento <<ad onde>>) 27
3.2. Popolazion e mondiale dal 400 a.C. al 1500, in mili oni 27
3.3. Transizione dal regime demografico antico a quello moderno 29
6.1. Le principali industrie in Inghilterra e nel Galles nel 1800 59
8.1. L'espansione territoriale degli Stati Uniti 82
11. 1. La costruzion e della rete ferroviaria europea 100
25.1. L'Europa dopo la Seconda guerra mondiale 228
33 .1. La dissoluzione dell'Unione Sovietica 312
34.1. I paesi asiatici 327
35. 1. L'indipendenza dell ' Africa 335

Figure dell'Appendice
Al. Pil pro capite dei principali paesi, dal 1830 al 1913, in dollari
internazionali 1990 343
A2. Pii pro capite dei principali paesi, dal 1913 al 1950, in dollari
internazion ali 1990 344
A3. Pil pro capite dei principali paesi, dal 1950 al 2010, in dollari
internazion ali 1990 345
A4. Pii pro capite dei principali paesi europei, dal 1850 al 2010, in
dol lari internazionali 1990 346
A5. Pil pro capite di Stati Un iti, Regno Unito e Giappone, dal 1870
al 20 1O, in dollari internazionali 1990 347
A6. Pil pro capite degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, dal 1921
al 199 1, in dollari internazionali 1990 348
A7. Pii pro capite delle grandi aree continentali, dal 1950 al 2010,
in dollari internazionali 1990 349
A8. Pil pro capite di Brasile, Russia, India e Cina (BRIC), dal 1950
al 2010, in dollari internazionali 1990 350
A9. Pii pro capite delle attuali quattro economie più grandi, dal
1950 al 2008, in miliardi di dollari internazionali 1990 35 1
A. 10. Pii delle attuali quattro econ omie più grandi, dal 1990 al 2016,
in miliardi di dollari internazionali 2011 352
Al 1. Pil pro capite delle prime quattro economie europee, dal 1990
al 20 16, in dollari internazionali 2011 349
INDICE DEI NOMI
(In corsivo sono indicati i nomi di persona; in tondo quelli di luogo.
Non sono riportati i nomi contenuti negli Orientamenti bibliografici)

Abilene, 141 Atlantico, oceano, 103, 138, 143


Adenauer C., 283 Australia, 89-90, 11 1, 114, 119-20, 199,
Adriatico, mare, 155 213, 234, 238-39, 246, 253, 259,
Africa, 6, 25, 33, 48, 91, 111, 206, 211- 268-69, 299
14, 216, 244, 257-58, 260, 263, 329- Austria, 107-08, 135-36, 166, 173, 178,
30, 333-37 181-82,213,284-85,287
Agnelli G., 115 Austria-Ungheria (Impero austro-unga-
Agro Pontino, 192 rico), 96-97, 116, 173, 182
Alaska, 92 Azerbaijan, 3 12
Albania, 229, 3 1O
Albany, 44 Bacone F. , 14
Aldrin E., 219 Bagnoli, 170
Alessandro II, 146 Bahrein, I 13
Algeria, 168, 260, 301 , 334-35 Bandung, 237
Alighieri D., 26 Bangladesh, 324
Alsazia, 128, 134, 137, 191 Bari, 160
America (Americhe), 36, 89, 92, 96, 105, Basilicata, 157
213 ,299,336 Baviera, 136
A.Inerica (co1ne Stati Uniti): v. Stati Uniti Belgio, 74, 75, 9 1, 97, 108, 133, 148, 174,
America del Nord (Nord America o Ame- 176, 180, 201-02, 2 13, 234, 238-39,
rica settentrionale), 25, 48, 54, 119 265,283, 287
America Latina, 91, 97, 119, 197, 211, Beli A., 104
213-14, 232, 244, 258, 260-61, 278, Bengala, 323
329-30, 332-33 Bennett M, 25
Amsterda1n, 195 Benz C., 101
AI1gola, 260, 335 Berlino, 90, 95, 101, 134, 229,293, 31 1
Ailtille (Indie occidentali), 48, 54, 111 Bessemer H , 114, 217
Arabia saudita, 11 3,244,259, 268-69 Beveridge W , 235-36, 288, 367
Argentina, 96, 111, 114, 119,172, 201, Biella, 164
259,261 ,266,268-69,299 ,329-32 Bielorussia, 312-13, 3 15
Ar!t.rwright R., 55 Birmania (o Myanmar), 252,260
Armenia, 310, 312 Birmingham, 53
Arn1strong N., 219 Bismarck (von) O., 134, 136, 139, 235
Asburgo, casa d: 182 Blériot L., 103
Asia, 25, 33, 62, 91, 15 1-52, 206, 213- Blum L., 204
14, 244, 257-28, 260, 263, 278, 317, Boemia, 11
328, 338-39 Bolivia, 11O
368 Indice dei nomi

Bombay, 95, 324 Cipolla C.M , 3, 5


Boston, 123 Cipro, 287
Boulton M , 53 Città del Messico, 95, 213, 340
Brasile, 95-96, 111, 172, 213, 238-39, Clark C., 35
259, 261, 268-69, 299, 331-33, 350, Coalbrookdale, 57
360 Cobden R, 70, 133
Brest-Litovsk, 183 Colombo G., 171
Bretton Woods, 207, 229-30, 233, 241- Congo, Repubblica democratica del, 337
42, 246 Congo, Repubblica del, 334
Brianza, 305 Copernico N , 14
Buenos Aires, 95, 332 Corea, 279
Bulgaria, 229, 287, 310- 11 Corea del Nord, 228, 279, 321
Burkina Faso, 259 Corea del Sud, 219, 238-39, 259, 261,
Burundi, 259 268-70, 326, 328
Cornovaglia, 53, 60
Calabria, 155, 157, 164 Cort H., 57
Calcutta, 54 Costa d'Avorio, 334
Calicut, 54 Crimea, 145-46, 227
California, 81, 89-90, 92, 113, 150, 227 Croazia, 287, 313
Cambogia, 260 Cro,npton S. , 55
Cambridge (Mass.), 123 Cuba, 31 O, 330
Ca,neron R., 59
Camerun, 285 Daimler G., 101
Campania, 155, 157, 296 Daniele V, 156-57
Canada, 89, 92, 96-97, 111 , 119-20, 178, Danimarca, 238-39, 259, 285
199, 2 16, 219, 234, 238-39, 246, DarbyA. , 57
252-53, 259,268-69, 288, 299, 332 Darlington, 42
Cardiff, 60 Dawes C. G., 180
Carnegie A., 142 De Gasperi A., 283
Carpi, 305 De Gaulle C., 242
Cartwright E., 55 Deng Xiaoping, 320
Castellammare di Stabia, 159 Dodge City, 141
Castro F , 310 Doha, 231
Caterina, zarina di Russia, 146 Donetz, bacino, 148
Caucaso, 148 Duby G., 228
Ceca, Repubblica, 287, 31 1 Due Sicilie (regno di), 154, 159, 16 1
Cecoslovacchia, 182,229, 310-11 Dunlop J., 117
Chandler A.D., 220, 275 Durrer l~., 217
Chernobyl, 219,3 10
Chevalier M., 133 Edimburgo, 41
Chicago, 95 Edison T., 117
Chruséev 1V., 308 Edo, 150
Churchill W, 227, 229 Egitto, 201
Ciad,257,259,335 Einaudi L., 296
Cile, 110, 331 Eire, canale, 83
Cina, 13, 58, 114, 152, 210-11, 214, 218- Elba, fiume, 11 , 135
19, 228-29, 238-39, 240, 252, 259, Elba, isola, 153
268-71 , 279, 282, 294, 306, 310, Engel E., 24
317-23, 326, 328,332 Engels F. , 72
Cina nazionalista: v. Taiwan Essen, 137
Indice dei no,ni 369

Estonia, 287, 312 91 , 197-98, 202, 204-06, 213 , 2 19,


Estremo Oriente, 114 228-29, 232, 235, 237-39, 242, 259,
Europa, 9-1 1, 13, 16-17, 25-26, 31-32, 34- 261 , 265, 268-72, 287-88, 290, 293-
36, 41, 44, 47-48, 57, 62, 69-70, 74- 94, 299, 306, 311 , 321
75, 79-80, 84, 87, 90-91, 93, 96-97, Germania occidentale (Repubblica Fede-
99, 103, 105-06, 109-11, 11 3, 117-19, rale Tedesca), 228-29, 284-85, 292-
125-26, 136, 138, 140-41, 153-54, 94
163, 167, 173, 181-82, 186, 188-90, Germania orientale (Repubblica Demo-
192, 196-97, 200, 205-06, 21 1-14, cratica Tedesca), 228-29, 293-94,
226, 228-29, 232-35, 241-44, 246, 310-11
257-58, 261, 266-69, 272-75, 279, GerschenkronA., 74, 107,137
281, 283, 285-88, 290-91, 293, 299- Giappone, 12, 107-08, 114, 127-29, 145,
300, 307, 310-l l, 313, 315, 330,336 147, 149-50, 152, 168, 173, 182,
184, 190, 197, 200-01 , 205-06, 211 -
Far West, 81 12, 216, 219-20, 228, 23 1-32, 234,
Felloni G., 34 23 7-40, 242, 246, 252-53, 259, 268-
Fermo, 305 71, 273, 275, 278-79, 281-82
Filippine, 2 14, 252 Gilchrist P., 114
Finlandia, 285, 287 Ginevra, 230-31
Fleniing A., 212 Giolitti G. , 170
Florida, 81 Giustiniano, imperatore, 25
FordH , 116,124,142, 199 Glasgow, 53
Formosa: v. Taiwan Goodyear C., 117
Fowler J , 109 Gorbaéev M ., 309-11, 313
Francia, I 0-12, 25, 34, 52-53, 64, 68, 73- Gran1me Z., 11 7
79, 89, 91 , 94, 96-97, 104, 106-08, Gran Bretagna (v. anche Inghilterra), 12-
115-17, l 19, 125-29, 132-34, 136- 13, 21 , 25, 29, 34, 41-43, 47-49, 52-
37, 148, 161 , 164, 168, 170, 173-74, 53, 57, 65, 68-69, 72-75, 78, 80, 88-
176, 180-81, 184, 188, 190-92, 197, 89, 9 1, 96, 104-07, 113, 119-20, 127-
200-02, 204-05, 213, 215, 219, 229, 31 , 133, 139, 143, 148, 155, 173-74,
232, 234-35, 237-39, 242, 259, 268- 176, 180-81, 188, 190, 197, 199,
69, 271-72, 284-85, 287-88, 290-91 , 200-0 1, 205, 229, 232, 234-35, 237-
297,299, 306, 333 38, 242, 244, 260, 265, 284, 287-90,
Friuli, 300 307, 317, 319,333
Frosinone, 159 Grandi Laghi, 81, 83, 143
Fukushima, 219, 282 Grecia, 96, 140, 267, 269, 285, 287
Fu/ton R., 44 Gresha,n T, 108
Furth, 136 Groningen, 128, 190, 238-39, 258,342
Guglielmo L Kaiser, 136
Gabon, 3334
Gagarin Y. , 219 Hall C., 115
Galilei G., 14 Hargreaves J, 55
Galles, 12, 32, 59-60, 63, 35, 74, 95, 128 Harvard J. , 123
Gandhi, 323 Haussmann G.-E., 133
Genova, 154, 161, 170-71, 179 Hawley WC. , 199
Georgia, 312, 315 Héroult P., 115
Gennruùa, 11-12, 34, 52-53, 74, 76, 90- Hiroshima, 278
91 , 95-97, 99, 104, 106-10, 112, 119, Hitler A, 204
122, 126-29, 134-40, 148, 152, 171 , Hong Kong, 238-39, 26 1, 326, 328
173-74, 176, 178-81 , 183, 188, 190- Hoover H , 181, 198, 200
370 Indice dei nomi

Howe E., 84 Lancashire, 54 -56, 60


Hudson, fiume, 44 Laos, 260
Latina, 192
India, 13, 54, 114, 211 , 2 14, 238-39, Lazio, 160
248, 252, 259-60, 268-7 1, 282, 317, Le Chapelier IR. G., 78
321 , 323-26, 328 Le Havre, 133
Indie occidentali : v. Antille L enin N, 118, 183, 185, 187, 309
Ind ocina, 111, 260 Lettonia, 287, 312
Indonesia, 111, 237, 252, 259-60, 268-7 1 Liberman E. , 309
Inghilterra ( v. anche Gran Bretagna), l 0- Libia, 260, 334
12, 28, 30, 32-33, 36-38, 40, 43-44, L iebig (von) J , 11 O, 13 7
47-48, 54, 56-57, 59-60, 62 -63, 65, Liguria, 155 , 170
67, 69-70, 72-76, 79, 89, 95, 102, Lindbergh C., I 03
106, 125, 128, 130, 135, 164, 181, Lione, 79, 132
184,201, 234, 288, 297, 324,328 Liri, valle del, 159
Indiano, oceano, 328 List F., I 36
Iran, 113 Littoria: v. Latina
Iraq, 113 Litua1ùa, 287,312
Irlanda, 12, 20, 93,96, 128,267, 287 Liverpool, 42, 56
Israele, 97, 243 Lombardia, 159, 164, 170
Istanbul, 95 Lombardo-Veneto, 154
Italia, 12, 28, 33-34, 64, 74, 96-97, 99, Londra, 32, 37, 4 1-43, 48, 58, 63-64, 95,
104, 106-08, 116, 126-29, 133-34, 140, 108, 190, 244, 289, 370
153, 158-59, 161 , 163-65, 167-69, 173, Lorena, 128, 134, 137, 191
176, 181, 190-94, 197-98, 202, 204- Louisiana, 8 1
06, 2 12, 2 14-15, 219, 232, 235, 237- Lubecca, 123
39, 248, 259, 267-69, 271-72, 284-85, Lucca, 154
287-88, 290, 295-302, 304-06 Ludd N., 68
Ivrea, 116 Lumière A., 11 7- 18
Lumière L., 11 7-18
Ja cquard J -M , 78 Lussemburgo, 17, 283,287
Jenner E., 31 L 'vov G., 183
Jug lar C., 21-22, 88
Jugoslavia, 229,244, 311, 3 13 Maastricht, 287, 302
Maddison A., 73-74, 128, 173, 190, 238-
Kashmir, 324 39, 257-58, 2 71, 317, 334, 342
Kay J , 55 Madrid, 101
Kenned.y JF., 231 Malaninia P. , 156-57
Kerenskij A., I 83 M alta, 287
Keynes J.M , 5, 71, I 80, I 99-200, 221, Malthus T. R., 3., 80, 209
249-50 M anaus, 111 -12
Kinshasa, 337 M anchester, 42, 70, 125
Kitchin J., 21-22 M anica (La), canale, l 03
Klondike, 92 Mann T , 123
Kondratief f (Kondrat 'ev) N , 21-22, 69, Mao Zedong, 318-20
88, 90, 92, 170, 237 M arche, 158
Krivoj Rog, 148 Marconi G., I 04
Krupp, industriali, 137 Marocco, 23 1, 252, 260, 33 5
Kuwait, 113, 244 M arrakesh, 23 1
Kyoto, 150 Marshall G. , 233
Indice dei no,ni 371

Marsiglia, 133 Norimberga, 136


Martin P.-E., 115 North Carolina, 103
Marx K , 72-73, 183 Norvegia, 238-39, 244, 259, 289
Massa Carrara, 154 Nuova Zelanda, 89, 96, 119-20, 199
Massachusetts, 123 Nuovo Messico, 8 1
Mattei E., 113, 297
Matteotti G., 192 Oceania, 91
McAdam J ., 42 Olanda (v. anche Paesi Bassi), 11, 37, 47,
Medio Oriente, 113, 243 75, 137,201,238-39, 253, 265,287
Mediterraneo, mare, 43,213,33 6 Olivetti C., 116
Méliès G., 118 Onions P., 57
Méline J , 134 Osaka, 150
Messico, 81,214, 238-39, 245 , 252,259, Ottawa, 199
261,266,268-69,27 7,331-33
MetcalfJ., 42 Pacifico, oceano, 81, 143, 150, 328
Meucci A., 104 Padana, pianura, 153, 158
Midlands, 60 Paesi Bassi (v. anche Olanda), 74, 283
Midwest (Middle West), 81 , 126 Panama, canale, 102, 143
Milano, 160, 170-71, 300 Papin D., 53
Mississippi, fimne, 8 1, 83-84 Pakistan, 323
Mitsubishi, famiglia, 151 Parigi, 95, 101 , 115, 118, 132-33, 213,
Mitsui, .famiglia, 151 233,284
Modena, 154 Parma, 154
Mongolia, 228 Pasteur L.,93
Monnet J. , 283, 291 Peel R., 70
Morgan JP., 142, 144 Pennsylvania, 113
Morse S., 84, 103 Pereire E., 133
Mosca, 95,14 8, 3 10, 3 16 Pereire !., 133
Mozambico, 260 Per/rin W. , 116
Mussolini B., 193 Per-,.)1 M , 150
Mutsuhito, in1peratore del Giappone, Perù, 110, 331
150 Pesaro, 193
Piemonte, 159, 161, 164, 170
Nagasaki, 278 Pietrarsa, 159
Napoleone I, 79, 81 Po, fittme, 153
Napoleone III, 133-34 Poincaré R., 195
Napoli, 159-6 1, 169-70, 300 Pollard S., 59
Nehru J., 323 P olonia, 11, 140, 174, 176, 178, 205,
Newcomen T., 53 229,244, 287, 310-ll , 321
New Hampshire, 229 Polsinelli A., 163
Newton 1., 14, 65 Portici, 159
New York, 44, 83, 90, l 04, 11 3, 134, Portogallo, 96, 260, 267, 269, 284-85,
144, 194-95, 213, 229,265,277,289 287
Nicola Il, 183 Prato, 305
Niger, 259 Prussia, 11, 89, 133, 135-36
Nigeria, 334-35 Pugaéev E., 146
Nixon R., 242 Puglia, 164, 168
Nobel A., 116
Nord, mare del, 244, 289 Qatar, 113,231
Norfolk, 37 Quesnay F , 77
372 Indice dei nomi

Raiffeisen F , 126 Senna, fiume, 44, 79, 133


Reagan R., 249-50, 275-77 Severn, fiume, 57
Regno Unito, 12, 34, 128, 199, 219, 237, Shanghai, 321
238-39, 253, 259-60, 268-72, 287-90 ShermanJ., 142
Rernington P., 116 Siberia, 147, 187, 314
Renault, fratelli, 115 Sicilia, 153, 161, 164, 172, 298
Repubblica Centrafricana, 259 Siemens F., 115
Repubblica Democratica Tedesca: v. Siemens W, 115
Germania orientale Siniiand F., 22
Repubblica Federale Tedesca: V . Ger- Singapore, 238-39, 26 1, 326, 328
mania occidentale Sisifo, 28
Ricardo D., 70-71 Slicher van Bath B.H, 26
Rifkin J , 221, 223 Slovacca, Repubblica (Slovacchia), 287, 311
Rocciose, montagne, 81 Slovenia, 287, 313
Rochdale, 125 S,nith A., 44-45, 70-71
Rockefeller J.D. , , 142 S,noot R., 199
Roma, 160-6 1, 169, 192, 284 Solofra, 305
Romania, 229, 287, 3 10-1 1 Solvay E., 116
Roosevelt FD. , 200-02, 227 Sombart W, 20
Rostow W W, 18-19 Sora, 159, 164
Rouen, 101 Spaak P.-H., 283
Ruhr, 136-37, 180 Spagna, 64, 81, 96-97, 140, 2 15, 2 19,
Russia, 11-12, 25, 93, 96, 99, 107-08, 238-39,267, 269 , 285 , 287
119, 127-29, 140, 145, 147-49, 152, Spinelli A., 283
173 -74, 178, 182-85, 188, 190, 205, Staffordshire, 60
2 19, 238-39, 259, 268-69, 30 1, 307, Stalin J , 187, 227, 307
3 10, 3 12-16, 32 1 Stati Uniti d'America (Usa), 12, 17, 19, 21,
34, 42, 44, 52, 56, 73-74, 79-84, 87, 90,
Sabaudia, 192 94, 96-97, 99, 103-06, 108-09, 111. 13-
Sahara, deserto, 336 19, 122-24, 125-29, 135, 139-40, 142-
Saint-Etienne, 79 44, 148,150, 17 1-73, 176,178, 180-
Saint-Sinion (conte di), C.H de RouvroJ1, 82, 184, 187-90, 192-94, 196-202, 205-
77 06, 2 10-11 , 214-16, 2 18-20, 223-27,
Salerno, 159 229, 23 1-34, 236-40, 242, 246, 248-49,
San Francisco, 227, 229 252-53, 257-60,263, 265-66, 268-84,
San Paolo del Brasile, 95, 213, 332-33 288, 291, 294, 296, 299, 307-08, 3 1O,
San Pietroburgo, 95, 147 317, 32 1-23, 328, 330, 332-33
Sardegna, 153, 298 Stephenson G., 42
Sardegna (regno di), 154, 161 Stockton, 42
Sassuolo, 305 Stolypin P., 147
Sauvy A., 237 Sudafrica, 92, 199, 259, 268-69,334
Savety T. , 53 Suez, canale di, 77, 102
Say J-B. , 7 1 Sumito,no, .faniiglia, 151
Schulze-Delitzsch H. , 126 Svezia, 63, 238-39, 285
Schuman R , 283-84, 291 Svizzera, 134, 201-02, 2 13, 2 19, 238-39,
Schumpeter JA., 21, 54 259, 284, 299
Scozia, 12, 63, 74, 128
Sebastopoli, 146 Taiwan, 238-39, 261, 318, 326, 328
Sella Q., 164 Tavoliere di Puglia, 153
Sempione, tunnel, I O1 Taylor F. , 123
Indice dei no,ni 373

Telford T, 42 Unione Sovietica (Urss) v. anche Russia,


Tennessee, 203 109, 113, 127-28, 186-88, 197, 205,
Temi, 170 2 10-11, 215, 219, 227-29, 233, 238-
Texas, 81, 141 39, 242, 257-58, 276, 287, 307-1 1, 3 13
Thailandia, 252 Uruguay, 231
Thatcher M, 249, 289
Thornas S., 114 Valle d' Aosta, 153
Three Mile Island, 219 Vanderbilt C., 142
Tirreno, mare, 155 Veneto, 155, 160, 164, 167, 176, 299-300
Titusville, 11 3 Venezia, 154
Tokugawa,fa,niglia, 149-50 Venezuela, 113, 243 , 331
Tokyo, 150, 213, 231 Versailles, 13 6, 180
Tori110, 115, 160-6 1, 170-71 Vicenza, 305
Toscana, 154, 158, 161 Vienna, 60, 95, 134-35, 154, 198
Townshend C., 37 Vietnam, 2 14, 228, 242, 252, 260
Transvaal, 92 Vittoria, regina, 129
Trentino, 160
Trevithick R., 42 Washington, 144,233,243,
Trotzki} L., 187 Watt J , 53
Tunisia, 26, 335 Weber M , 13, 20
Turchia, 2 19, 259, 268-69 Weimar, 197
Turkestan, 148 WhitneJ' E., 55, 84
Turner FJ , 81-83 Wilkinson J , 57
Tyneside, 60 Wilson T.W , 193
Wright, fratelli, 103
Ucraina, 219, 3 10, 3 12-15 Wiirttemberg, 136
Ul'janov VI: v. Lenin
Umbria, 158 Yalta, 227, 297
Ungheri a, 178, 18 1-82, 229, 287, 310-11 Yaoundé, 285
Unione Et1ropea, 215 , 252-53, 259, 268- Yorksb ire, 60
69, 271 , 283 , 286-88 , 290-9 1, 315 Young O.D., 180
Economia
Textbook

Ultin1i volurni pubblicati:

EMILIA o BRANCACCIO, Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della


.
macroecono1111a.
LORENZO GAI (a cura di), Linea,nenti di gestione bancaria.
ROMILDA MAzZOTTA, STEFANO POZZOLI, Contabilità g enerale. Tecnica di rilevazione ed
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aziendale della gestione d'azienda. Le rilevazioni in contabilità generale.
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MARCO BISOGNO, AURELIO TOMMASETTI, E conom.ia aziendale.
STEFANO CoRONELLA, Ragioneria generale. La logica e la tecnica delle scritture contabili.
ENRICO BATTISTI, ANGELA SCILLA, Applicazioni di.finanza aziendale. Esercizi commentati
e richiami di teoria.
G1ov ANNI LIBERATORE (a cura di), La contabilità generale per il bilancio di esercizio.
Profili teorici e applicativi.
MARCO BISOGNO, AURELIO TOMMASETTI, Contabilità e bilancio d 'impresa. Il sistema
scritturale delle fonti e degli impieghi.
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loro applicazioni contabili.
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informatica.
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contabilità.
VALERIO A TONELLI, GIOVANNI LIBERATORE (a cura di), Il bilancio d'esercizio. Teoria e
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casi.
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commentati per i corsi di Economia politica Il - Macroeconomia.
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gestione.
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(a cura di), Bilanci d'impresa. Voi. I . Principi, schemi, criteri di valutazione.
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GIUSEPPE CAVALIERE, MICIIELE COSTA, LUCA FANELLI, ATTILIO GARDINI, PAOLO P ARUOLO,
Econonietria. Volume I.
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corso di Economia politica l - Microeconomia.
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ARNOLD HEERTJE, GUIDO TORTORELLA ESPOSITO, Microeconon1ia.
CARLOTTA DEL SORDO, FEDERICA f ARNETI, REBECCA LEVY ÙRELLI, introduzione alla
contabilità generale e al bilancio d'esercizio. Tecniche di rilevazione e casi.
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SILVIO BIA CIII MARTTNI, LINO CINQUTNI, GIANCARLO DI STEFANO, MICIIELE GALEOTTI,
introduzione alla valutazione del capitale economico. Criteri e logiche di stima.
DANIELE DALLI, SIMO AROMANI, il comporta,nento del consun1atore. Acquisti e consumi
in una prospettiva di marketi11g.
STEFANO CAPRI, ROSELLA LEVAGGI, Economia sanitaria.
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funzionamento.
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governance aziendale.
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nell'Unione Europea e nell'esperienza internazionale. Vol. I. Principi e Metodi di Analisi.
GIUSEPPE CAVALIERE, MICHELE COSTA, LUCA FA ELLI, ATTILIO GARDTNI, PAOLO P ARUOLO,
Econometria. Volume Il .
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ALESSA DRO MONTRONE, l i bilancio di gruppo tra normativa nazionale e principi contabili
internazionali. Profili evolutivi e comparativi.
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ù1formativi gestionali.
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nell'Unione Europea e nell'esperienza internazionale. Voi. Il. Settori di applicazione e studio
di casi.
NINO LUCIANT, Econoniia generale. Economia di mercato e dell'impresa, economia
pubblica e politica economica, economia internazionale, economia dell'ingegneria:
valutazione e scelta degli investimenti privati e pubblici.
MARINA DACCò, Capire il consuniatore. I comportamenti di acquisto e la funzione
marketing.
MARCO CASELGRA DI, MAruo DI MARCO, STEFANO ORONZO, DAVIDE TuPONE, Manuale
dello sport. Aspetti giuridici, fiscali e organizzativi.
ALESSANDRO MONTRONE, Il bilancio consolidato. Evoluzione normativa e metodologia di
redazione.
MrCIIELE PISANI, Appunti di contabilità generale ed applicata.
FABJO PAMMOLLI, Modelli e strategie di ,narketing.
SERGIO TERZA I, // sistema dei bilanci.
ROMILDA MAzZOTTA, il bilancio di esercizio. Casi, esercizi e complementi.
AMEDEO FOSSATI (a cura di), Econom.ia pubblica.
ALESSANDRO MONTRONE, Ele,nenti di metodologie e determinazioni quantitative di
azienda.
ROBERTO CAPARYI, La nuova attività bancaria. Economia e tecniche di gestione.
GIANCARLO DI STEFANO, IACOPO ENNIO I Gl-IIRAMI, LUCIANO MARCI-O, FABIO TARINI,
Conoscenze informatiche di base p er l'econoniia.
In questo libro è descritto, in modo chiaro ed agevole, lo sviluppo econo-
mico degli ultimi due secoli e mezzo, dalla rivoluzione industriale alle re-
centi trasformazioni prodotte dal la rivoluzione informatica, che sta cam-
biando il modo di lavorare e di vivere di quasi tutta l'umanità. Le forme e i
modi in cui lo sviluppo si è realizzato hanno lasciato in eredità al secolo XXI
numerosi problemi, fra i quali la sperequazione economica e sociale fra il
nord e il sud del mondo e il forte incremento della popolazione. Il testo ri-
percorre le varie tappe dello sviluppo, con particolare riferimento all'Europa
e all'Italia, trattando i momenti topici dei singoli paesi e allargando lo
sguardo, per i tempi più recenti, alle grandi aree economiche mondiali.
Esso ha due scopi: illustrare le profonde trasformazioni economiche realiz-
zate, in modo da determinare nel lettore maggiore consapevolezza delle
problematiche del mondo attuale, e aiutare gli studenti universitari, ai qua-
li il libro è innanzitutto rivolto, a comprendere concetti e problemi storici ed
economici, alcuni dei quali forse incontrano per la prima volta. Perciò, nel-
le note sono riportati, in forma di glossario, i termini economici necessari
alla migliore comprensione degli argomenti trattati. Il libro è stato indicato
come testo di riferimento in parecchi corsi universitari e perciò ha avuto
cinque edizioni in pochi anni, proprio per cercare di adeguarlo meglio agli
obiettivi prima richiamati, in particolare ampliando continuamente la trat-
tazione degli ultimi decenni. La "quinta edizione aggiornata" è sostanzial-
mente quella precedente e contiene solo i necessari aggiornamenti relativi
agli ultimi anni, nonché una diversa sistemazione di un paio di capitoli.

Ennio De Simone, già ordinario di Storia economica, ha insegnato nel-


l'Università degli Studi di Napoli "Federico Il", in quella di Salerno e nel-
l'Università degli Studi del Sannio. Attualmente è professore straordinario
nell'Università Telematica "Giustino Fortunato" . Presso la FrancoAngeli ha
pubblicato anche: L'economia sannita nel ventesimo secolo (assieme a V.
Ferrandino) (2003), Banche e imprese in una provincia contadina (assie-
me a V. Ferrandino e E. Cuomo) (2009), Moneta e banche attraverso i se-
coli (2011, Il ed.), Breve storia delle assicurazioni (2011, Il ed.). Sempre
per la FrancoAngeli dirige la Collana di Storia Economica.

CA'l FrancoAngeli
ll::SJ La passione per le conoscenze

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