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Ernesto de Martino, antropologo della contemporaneità

3: Morte e pianto rituale nel mondo antico


11 giugno 2018 - Bologna

Nicola Martellozzo

Siamo ormai al nostro terzo incontro su Ernesto de Martino, e con questa serata possiamo dire
che comincia davvero il Seminario sul pensiero critico. Non che i primi due incontri non ne
facessero parte, ma erano pensati più come un'introduzione generale, per avvicinarsi alla figura e al
lavoro dell'antropologo napoletano. Alla persona e al lavoro, perché come abbiamo visto è
impossibile separare la biografia di de Martino dalle sue opere. Lo scorso incontro faceva una
panoramica del pensiero e delle ricerche dell'antropologo, e sono stati moltissimi i rimandi agli
avvenimenti storici e personali. Colgo l'occasione per comunicare a tutti gli interessati che sia i testi
sia le registrazioni delle precedenti serate sono disponibili, rivolgendosi a Officina Mentis.
Questa sera entreremo nel vivo del pensiero demartiniano, con il suo libro Morte e pianto rituale
nel mondo antico (1958); come vedremo è un'opera per molti versi già matura, e corrisponde ad uno
dei momenti principali di elaborazione personale di de Martino. Un momento intermedio, che
riprende criticamente alcune tesi de Il mondo magico (1948) e al tempo stesso prepara il terreno per
le più ampie riflessioni de La fine del mondo (1977).
Nello scorso incontro abbiamo instaurato un dialogo tra la voce di ieri e la voce di oggi, un
contrappunto continuo che ci ha permesso di cogliere il valore delle riflessioni di de Martino
applicate al nostro contesto. Quella sera sono bastate due voci per riassumere decenni di lavoro e
ricerche. Sembra un paradosso, ma oggi per un solo libro dovremo moltiplicare quelle voci, e
mettere in atto un discorso molto più ampio. Morte e pianto rituale non è il frutto di un solo autore
o meglio: l'autorialità di de Martino non è sufficiente a coprire tutta l'opera. Le interviste, le
registrazioni, i documenti etnografici, i resoconti psichiatrici, le citazioni bibliche, ognuno di questi
testi è una testimonianza, la testimonianza di un “altro” che parla. De Martino non si limita a
raccogliere queste voci, non le inserisce passivamente nel proprio libro, ma instaura un dialogo con
ognuna di esse.
Ecco perché Morte e pianto rituale può essere presentato come un lavoro corale. Certo, non si
tratta di una situazione esclusiva, né tanto meno de Martino è un caso unico; qui stiamo solo
proponendo un'interpretazione del testo, che ci permetterà di esaminarlo con più attenzione.
Bisogna anche stare attenti a non confondere questo tipo di coralità con quello, decisamente più
consapevole e progettuale, proprio di un'opera come La caduta del cielo (Kopenawa, Albert 2018).
Frutto del lavoro congiunto di un antropologo, Bruce Albert, e di uno sciamano dell'Amazzonia,
Davi Kopenawa, questa collaborazione promette di essere uno dei lavori più interessanti e influenti
di questi anni. Per le sue assonanze con i temi dell'apocalisse in de Martino, e in vista dell'incontro
di ottobre con Giordana Charuty, si potrebbe valutare una serata dedicata.
Ma torniamo a Morte e pianto rituale, e alle sue voci. De Martino dedica alle varie testimonianze
uno spazio proprio, specie quando si tratta di interviste e registrazioni effettuate durante il viaggio
in Lucania. Le parole dei contadini, le loro storie e le loro leggende, non sono delle curiosità
folkloristiche, non sono aneddoti e neppure deliri irrazionali. Anche quando parlano di fantasmi, di
magia o di favole, sono prima di tutto voci vive, indici di una realtà sociale permeata di valori
decisamente diversi da quelli della borghesia italiana degli anni '50.
Proprio il concetto di “valore” costituisce il cuore dell'opera. L'azione culturale dell'uomo, che
solo l'essere umano possiede, corrisponde precisamente ad una continua attribuzione di valori alla
realtà. In altre parole, gli uomini trascendono la natura ponendo valori in ogni cosa, anche la morte.
Soprattutto la morte. Di fronte a certi eventi drammatici, come quelli luttuosi, l'uomo deve
confrontarsi con la dissoluzione della realtà, come se la sottile trama di valori che avvolge il mondo
si sfibrasse, si squarciasse.

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Ed è qui, in questo squarcio che comincia la crisi, che gli uomini rischiano di cadere in uno stato
di natura dove le loro azioni sono fini a se stesse, quasi come delle scariche fisiologiche che si
esauriscono nell'appagamento del desiderio. De Martino sta dialogando con l'ennesima voce: non
quella del contadino lucano, ma dello psicoanalista viennese. Morte e pianto rituale è la prima
opera in cui l'antropologo si confronta direttamente con il pensiero psicoanalitico di Freud e dei suoi
allievi, ma anche con altri psicologi come Janet. Comincia qui un parallelo tra le crisi dell'Io
psicologico e le crisi della presenza storica, che ritroveremo quasi un decennio dopo nelle apocalissi
psicopatologiche.

Queste sono tutte anticipazioni di temi che saranno considerati durante l'incontro, spunti per
altrettanti canovacci tra le voci di questo libro. Anche se è inevitabilmente de Martino che tiene le
fila di questi discorsi, e non potrebbe essere altrimenti, guardare un po' alla genesi di questo libro ci
permette di cogliere un lavoro di costruzione condiviso.
All'inizio degli anni '50, nell'Italia del dopoguerra si sta compiendo un lungo lavoro di
ricostruzione. Non sono solo le industrie e le città ad essere state colpite, ma tutto il tessuto umano e
la stessa identità nazionale. Dopo il dramma del fascismo, la nuova Repubblica deve fare i conti con
nuovi attori politici, ma anche con situazioni marginali lasciate per troppo tempo a se stesse.
Gramsci aveva sollevato da molto il problema delle classi subalterne, specie nel Meridione. Negli
anni '50 inizia una “riscoperta” del Sud, a cominciare dalle inchieste di Vittorini e l'opera
documentaristica di Cesare Zavattini.
In questo clima, Ernesto de Martino comincia la propria fase “meridionalista”, con un trittico di
opere di cui Morte e pianto rituale è l'inizio. Tra il 1952 e il 1956, l'etnologo organizza una serie di
spedizioni di ricerca in Basilicata, accompagnato da un'equipe interdisciplinare. Oltre alla sua
compagna - Vittoria De Palma, anche lei etnologa – sono presenti Diego Carpitella come etno-
musicologo e Franco Pinna come fotografo. L'uso del magnetofono e della cinepresa costituisce un
altro elemento di rottura rispetto alle classiche ricerche sul folklore in Italia.
In questo periodo de Martino ha assimilato i “classici” della ricerca etnografica estera, specie
quelli della scuola sovietica. In un primo momento la spedizione in Lucania viene impostata come
un'attività di raccolta su vasta scala del materiale orale. Sull'esempio del lavoro di Propp,
l'antropologo napoletano vuole fare un grande inventario dell'oralità subalterna, quell'insieme di
storie, canti e leggende che copre la vita di ognuno “dalla culla alla tomba”. Tuttavia de Martino
sceglie di concentrarsi sull'ultimo atto, sul momento più drammatico, cioè sul cordoglio e sul lutto.
Questa decisione prende le mosse dall'opera precedente, Il mondo magico, che cercava di
applicare lo storicismo di Benedetto Croce ai temi dell'irrazionale e della magia. De Martino
considera limitante l'approccio negativo dell'idealismo crociano verso la magia, proiettata fuori
dalla Storia insieme alle piante, agli animali e ai popoli primitivi. Al contrario, tutte le opere della
fase meridionalista concorrono a descrivere una storia religiosa della magia e del Sud.
La prospettiva de Il mondo magico non è ancora così matura, e si presta alle critiche di Croce. Se
durante gli anni della guerra tra il filosofo e l'antropologo si consuma un certo distacco, le cose
cambiano decisamente con Morte e pianto rituale. Fin dalle prime pagine de Martino ritorna sulle
sue posizioni precedenti, dimostrando non solo di aver accolto il giudizio di Croce, ma mettendo lo
storicismo di nuovo al centro. Considerando un passaggio dei Frammenti di etica (1922), de
Martino corregge il tiro e si concentra sul problema della scomparsa. Il cuore dell'evento luttuoso,
ciò che gli conferisce il suo dramma, è il fatto che chi amiamo non c'è più, mentre noi ancora siamo.
Ecco quindi il problema: da una parte c'è la scomparsa irrevocabile dell'Altro, di cui non
rimangono che le spoglie fisiche, dall'altra c'è la fortissima tentazione di scomparire noi stessi. Il
pericolo del lutto è quello dell'annullamento totale. Morte e pianto rituale si presenta così come un
complesso commentario storico e religioso delle modalità con cui gli uomini hanno cercato di
superare questo rischio.
C'è una frase che colpisce su tutte, che abbiamo già sentito nello scorso incontro ma che voglio

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ripetere adesso, prima di addentrarci nell'opera:

Per grande che possa essere il dolore di una perdita, subito si impone a noi, nella piena stessa del dolore e
con tanto maggiore urgenza quanto più siamo prossimi alla disperazione, il compito di evitare la perdita
più irreparabile e decisiva, quella di noi stessi […] perciò nella morte della persona cara siamo
perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte” (De Martino 1958, 8)

Teniamo a mente questo passaggio. Cosa significa farsi “procuratori di morte”, e che scopo ha
nel lutto? Sempre ne Il mondo magico de Martino aveva introdotto un concetto fondamentale,
quello di “presenza”, rifacendosi al concetto di “esser-ci” in Heidegger. La presenza è il
radicamento di ognuno di noi in queste circostanze storiche, la nostra adesione costante alla realtà
dell'esistenza. Per l'antropologo la presenza non è uno stato continuo e omogeneo, ma può essere
messa in crisi da particolari avvenimenti. Nell'opera precedente venivano esaminati diversi casi
provenienti da altrettanti contesti etnografici, in cui era presente la figura dello sciamano. Di fronte
alla crisi della presenza, al rischio di perdere il proprio radicamento nel mondo, lo sciamano mette
in atto un dramma rituale che risolve la crisi della persona. Il suo ruolo è prima di tutto quello di
operatore sociale, colui che possiede e sa gestire i codici simbolici della propria cultura.
Tuttavia Benedetto Croce sottolinea le difficoltà di sostenere un simile concetto di “presenza”,
che sembra essere una specie di nozione a-storica, una dimensione della persona che precede ogni
altra categoria. In Morte e pianto rituale de Martino rielabora queste critiche, sganciandosi dal
contesto etnografico più esotico e proponendo un vasto materiale storico. Ma soprattutto, fornisce
una definizione chiara e sintetica della presenza, legandola alla dimensione del lutto: la presenza è
la “volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione” (De
Martino 1958, 17).
Dunque la presenza è innanzitutto l'atto di trascendere la natura, che qui va intesa come una
dimensione orizzontale, dominata dalle polarità opposte di piacere e dolore. Questo distacco si
manifesta nell'operare umano, in un “fare economico” che si innesta sulla naturalità dell'esistenza.
Se la natura è pura vitalità, senza altri riferimenti che se stessa, la cultura è prima di tutto “un porre
in forma”, una plasmazione della realtà. La presenza non è mai una volontà indifferente, un volere
categorico, ma una volontà di forma, orientata, storicamente fondata. È l'attribuzione di valori che
permette tutto questo, per cui ogni azione umana implica sempre un'attribuzione di valore.
Non sono ragionamenti facili da cogliere, e anche per questo il primo capitolo è il più denso e
complesso dell'opera. Tuttavia, se cerchiamo un luogo dove de Martino mette nero su bianco la sua
visione della cultura e della condizione umana, è qui che occorre cercare. La cultura si manifesta
anzitutto a partire dal fare economico, dal linguaggio e dalla politica, motivo per cui l'uomo è
l'unica specie animale che può trascendere la mera vitalità. L'azione sul mondo introduce un
momento di separazione, di oggettivazione: agendo sulle cose, l'uomo diventa altro dalla natura. Da
una forma alle cose, cioè fornisce dei contenuti, e per questo la volontà è sempre orientata,
specifica, in-formata. Alla vitalità della materia, sostanza indifferente, viene contrapposta la
presenza come volontà di forma, storicamente fondata.
Per adesso ci basta dire che de Martino cerca somiglianze e differenza tra la sua “presenza” e la
“libido” di Freud, il “sentimento di sé” di Hegel e il “me variopinto” di Kant. Nella Critica della
ragion pura (2004) Kant pone in maniera polemica la possibilità di una coscienza plurale, con tante
personalità quante sono le rappresentazioni intuite; l'antropologo napoletano ritiene che questa
coscienza variopinta non solo sia possibile, ma costituisca un rischio reale, di cui il lutto è un caso
specifico.
Il problema del lutto, così come di ogni crisi della presenza, è quello di rimanere aggrappati alle
cose anche quando queste scompaiono in una dimensione irrazionale e funesta. La presenza non è
mai un dato acquisito una volta per tutte, ma costantemente negoziato da ogni nostra azione, in ogni
momento. Il fare economico dell'uomo dentro la Storia è un dato positivo e fondante, ma visto che
trascende una situazione preesistente e negativa esiste sempre il rischio di una caduta. L'esito

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peggiore possibile è un'uscita dalla Storia, la ricaduta dell'uomo nella natura senza più valori.
Questo è possibile perché, nonostante tutto il lavoro umano, nonostante ogni cultura tenti di
plasmare ogni aspetto della realtà, permangono sempre delle zone cieche in cui ciò che accade non
solo non ha nessuna forma, ma comprende tutta una serie di fenomeni che “passano” senza l'uomo e
contro di esso.
La morte è l'esempio migliore, e per questo il più drammatico. Con la morte le persone che
amiamo scompaiono dalla realtà, “passano” appunto in una sfera del reale cui non abbiamo accesso.
Di fronte a questa situazione, che l'uomo non può assolutamente invertire o controllare, diventa
evidente il carattere funesto della vitalità. Sembra paradossale parlare di vitalità come “morte”, ma
visto che la natura si presenta come una serie di impulsi ciechi che inevitabilmente si esauriscono,
la scomparsa e la dissoluzione ne fanno parte.
Per quanto non si tratti di pensieri molto ottimisti, de Martino spinge fino in fondo il suo
ragionamento: se la natura è caratterizzata dalla scomparsa e questa avviene nostro malgrado, allora
la storia umana si trova costantemente a fronteggiare una crisi della presenza. Nel lutto si perde il
proprio radicamento, ci si svuota di certezze e valori, e per questo rischiamo di “passare con ciò che
passa”, per usare l'espressione di de Martino. Viene così a mancare il trascendimento, tornando alla
dimensione naturale, e l'oggettivazione, confondendo noi stessi con l'altro.
In sintesi, possiamo dire che la crisi del lutto è indice di una presenza malata, che si fissa su una
persona e non la lascia andare. Ci si smarrisce, si perde la propria identità, una situazione che trova
molti paralleli con certe malattie psichiche. A questo proposito de Martino recupera le dichiarazioni
di alcuni malati trattati da Janet, i quali mostrano tutti un atteggiamento di disillusione, disaffezione
e disarticolazione verso il mondo.

Giova invece ai nostri fini l'analisi fenomenologica di alcuni caratteristici sintomi della perdita della
presenza, prescindendo da ogni considerazione dinamica individuale e da ogni riferimento al carattere
reale o simbolico dei momenti critici in cui ha luogo l'insorgenza morbosa. Particolarmente istruttive
sono, a questo riguardo, le esperienze di un sé spersonalizzato, sognante, vuoto, automatizzato, inattuale
e simili. Una malata di Janet diceva: “Io mi sono smarrita, è orribile avere lo stesso volto e lo stesso
nome e non essere la stessa persona... Voi non avete visto la vera Letizia; se sapessi dov'è ve la farei
vedere, ma non la posso trovare”. E un'altra malata: “Di tanto in tanto la mia persona se ne va, io perdo la
mia persona. È una cosa bizzarra e ridicola, ma è come se un velario cadesse e tagliasse in due la mia
personalità. Le altre persone non se ne accorgono perché io posso parlare e rispondere correttamente. In
apparenza per voi io sono la stessa, ma per me le cose non stanno così”. E ancora un altro malato: “Ciò
che mi manca sono io stesso, è terribile sfuggire a se stesso, vivere e non essere con se stesso”. A queste
esperienze della perdita della presenza fanno riscontro quelle della perdita del mondo, che è avvertito
come strano, irrelativo, indifferente, meccanico, artificiale, teatrale, […] Diceva un malato di P. Janet:
“Io intendo, vedo, tocco, ma non sento come un tempo, gli oggetti non si identificano col mio essere; un
velo spesso, una nuvola cambia il colore e l'aspetto dei corpi”. E un altro malato: “Voi non siete che un
fantasma, come ce ne sono tanti: e non potete pretendere che si abbia obbedienza ed affetto per qualcuno
di cui non si avverte la realtà” (De Martino 1958, 27).

Tutte le testimonianze rimandano ad un problema di esistenza, alla certezza di non essere


veramente qui ed ora, ma come scollati dalla realtà. De Martino riassume questi atteggiamenti con
due termini: estraniamento e destorificazione. Il primo è riferito alla caduta progressiva delle
distinzioni tra persona e ambiente, il secondo all'uscita dalla dimensione culturale. La reazione dei
malati, e in generale degli uomini, davanti a questa situazione è l'angoscia. L'angoscia è il sintomo
di un disagio esistenziale: così come la febbre non è la malattia ma il suo indice, allo stesso modo
l'angoscia è il segno di una crisi profonda, in cui l'uomo avverte la rottura del suo rapporto con il
mondo.
De Martino muove i primi passi verso il concetto di “apocalisse psicopatologica”, in cui la crisi
del mondo viene portata alla sue estreme conseguenze. Non è un caso che tra gli appunti de La fine
del mondo ci siano diversi riassunti e rimandi al lavoro di Janet, che viene apprezzato molto più di

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Freud e della psicoanalisi in generale. Anche rispetto a Il mondo magico notiamo una maggiore
elaborazione: lì la crisi era un affare individuale, o di coppia se pensiamo al ruolo dello sciamano;
ora la presenza malata si apre ad una dialettica più ampia con il mondo, non più visto come un dato
oggettivo e a sé, ma come un substrato vitale da cui non ci si libera mai completamente.
Inoltre, adesso è l'intero sistema religioso che si fa portatore di valori culturali, fornendo a ogni
individuo uno schema di riferimento per rimanere agganciato alla cultura. L'intera società si trova
coinvolta in un processo di produzione e trasmissione delle forme culturali permesso dalla presenza
“sana” degli uomini. Se vogliamo rendere tutto ciò con una metafora, pensiamo all'opera di
disboscamento messa in atto in Amazzonia dai popoli indigeni: lo spazio del villaggio, lo spazio
umano e culturale, non è indipendente dalla foresta. È un luogo conquistato, strappato alla giungla
attraverso un lungo e faticoso lavoro quotidiano; basta che l'uomo smetta di occuparsene perché la
natura riprenda possesso di quella terra. Capiamo allora che non se n'era mai veramente andata, che
la giungla era sempre lì, ma temporaneamente celata dall'azione umana. Non dipende nemmeno dal
grado di “civiltà” raggiunto: le enormi piramidi maya, monumenti in pietra alti decine di metri,
adesso sono parte della foresta e dell'uomo non c'è più traccia.
De Martino si rende perfettamente conto di questo pericolo, dei rischi cui gli uomini sono
costantemente esposti. Come lui, ogni società nella Storia si è interrogata su questo problema, e ha
cercato sistemi per arginare l'angoscia. Le mitologie, i riti, le religioni, sono tutti dispositivi culturali
per risolvere la crisi della presenza. Agiscono precisamente come affermava de Martino, facendosi
“procuratori di morte” per mettere in scacco la morte naturale. Ma per riuscirci devono superare
l'orizzonte storico. Dato che la morte ci mostra una dimensione senza storia cui non abbiamo
accesso, una dimensione naturale priva di contenuto, le varie tecniche religiose devono muoversi
come se fossero al di là della Storia.
Il ragionamento è il seguente. Le tecniche religiose sono sistemi creati dall'uomo per risolvere
una crisi, una crisi che rischia di far crollare la cultura e i suoi valori. Per contrastare questo pericolo
occorre che queste tecniche possano agire nello stesso piano della crisi, cioè possano fornire uno
sfondo di riferimento che si sganci dalla Storia. Ma ogni opera dell'uomo è sempre e comunque
storica, perché si basa su una volontà di forma. Le tecniche religiose sono un prodotto storico, ma
funzionano solo se sono fuori dalla Storia. Il paradosso viene risolto con un mascheramento: anche
se sono storiche, i sistemi mitici e religiosi sono presentati come al di là dell'uomo e della cultura.
In altre parole l'orizzonte naturale della morte viene letto come un divenire futuro, attraverso una
de-storificazione che si basa su un ordine meta-storico, il mito. Ogni mitologia diventa un orizzonte
conoscibile, a cui l'uomo può accedere e verso cui non prova più angoscia. Il rito, di conseguenza, è
un ordine di comportamento, cioè lo strumento con cui l'uomo accede al mito. Siamo sempre di
fronte all'agire umano, alla plasmazione della realtà per mezzo di valori, solo che in questo caso
l'azione per essere efficace non deve mai essere riconosciuta come tale. Nel momento in cui applico
uno sguardo storico alla religione, questa perde la sua efficacia.
Questo è lo sfondo teorico di tutto Morte e pianto rituale, che in realtà del lamento funebre
lucano non parla molto. Tutti i risultati etnografici delle spedizioni in Basilicata sono condensati
all'incirca nel secondo capitolo dell'opera. Il lamento funebre è una tecnica religiosa specifica, una
tecnica del pianto. Non ci si improvvisa lamentatrici, ma si impara a piangere come si deve. Ma
perché esiste un dispositivo culturale simile? Perché in Basilicata e in altri contesti si è sentita
l'esigenza di creare una pratica specifica per il lamento? Vediamo cosa riporta de Martino rispetto
alla reazione delle donne al lutto.

Nella sua forma più radicale la crisi del cordoglio presenta la caratteristica polarità dell'assenza e della
scarica convulsiva: la presenza perde se stessa degradandosi a pura e semplice energia meccanica che
defluisce senza significato. La frequenza di una reazione di questo tipo è incredibilmente alta fra le
contadine lucane, e presenta varie sfumature a seconda del grado di assenza e dei caratteri della scarica
meccanica. In una forma meno radicale l'assenza si attenua in uno stato di ebetudine stuporosa, o in
luogo della scarica meramente meccanica si ha la terrificante esplosione parossistica, tendenzialmente

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autoaggressiva. Lo stato di ebetudine stuporosa ha fra le contadine lucane una incidenza così forte da
essere indicato con un vocabolo di uso corrente nei villaggi lucani: attassamento. La persona attassata è
irrigidita in una immobilità fisica che riflette un vero e proprio blocco psichico più o meno accentuato.
[…] Polarmente contrapposta allo stato di ebetudine stuporosa è l'esplosione parossistica. Se
nell'ebetudine stuporosa la donna colpita dal lutto sta come inerte, senza anamnesi della situazione,
nell'esplosione parossistica essa si getta a terra, dà col capo nel muro, salta, si graffia a sangue le gote, è
accesa da furore tendenzialmente diretto verso la propria persona, si strappa i capelli, si lacera le vesti, si
abbandona ad un gridato che è piuttosto un ululato. A questo comportamento disordinato e pericoloso,
possiamo dare la denominazione di planctus (De Martino 1958, 78-9).

Tanto l'immobilità totale che la furia autodistruttiva sono sintomi della presenza malata, momenti in
cui le donne lucane perdono il proprio radicamento nel mondo e si lasciano cadere in una
dimensione puramente vitale. Anche se di segno opposto, i due atteggiamenti mostrano l'incapacità
di lasciare andare il morto, cioè l'incapacità di venire a patti con la scomparsa della persona amata.
Nel primo caso la donna rimane immobile, rigida, incapace di azione, come simile ad una pianta;
nel secondo esplode in una violenza cieca, senza scopo, autodistruttiva, una furia animale. In
entrambi i casi viene spontaneo un parallelo naturale, appunto perché è a questa dimensione che
spinge la crisi.
Di fronte a questi scenari la società lucana ha elaborato nel corso dei secoli delle tecniche per
controllare parzialmente queste crisi. In particolare, il pianto rituale è una pratica con cui si fornisce
un ordine al planctus. Mentre in questa esplosione folle di dolore i movimenti sono incontrollati e
frenetici, nel lamento funebre assumono un ritmo e una codifica. Se nel planctus la donna urla frasi
sconnesse, il pianto comprende tutta una serie di moduli canori e di frasi tipiche per esprimersi. In
altre parole quello che avviene è una messa in forma dell'energia amorfa della crisi. Al posto di una
scarica fisiologica senza contenuto, il lamento funebre fornisce un sistema codificato per esprimere
il proprio dolore.
De Martino nota come gli studi folkloristici non distinguano quasi mai tra due funzioni del lamento,
cioè il fatto che costituisca una tecnica del piangere e nel contempo una modalità poetica di
risoluzione del dolore. Non si tratta di una distinzione oziosa. Mettendo in ombra l'aspetto tecnico
del lamento il rischio è quello di interpretare il pianto come una delle tante testimonianze orali,
astraendolo dal contesto e limitandolo ad un'analisi letteraria. In questo modo viene perso sia il
carattere performativo, con gli elementi di ritmo, melodia, intonazione, ecc., sia il dato biografico.
Anche se il lamento è una modalità rituale, e perciò formale, di gestione del dolore, questo non
significa che sia un modello chiuso. Al contrario, in ogni lamento sono presenti degli “accidenti”
biografici, per cui una donna citerà il nome del marito piuttosto che quello dello zio, inserirà un
riferimento alle circostanze della morte piuttosto che a quelle del funerale. De Martino non scarta
queste informazioni, ma anzi ne fa il punto focale della sua analisi. Nel trascrivere le varie canzoni
funebri ha cura di allegare le melodie e le indicazioni sul ritmo. Cerca insomma di riportare il più
possibile al lettore l'aspetto performativo del pianto anche sul piano lirico. In questo modo
l'antropologo si discosta dal modello sovietico degli studi sul folklore, che spesso trattavano i canti
come fonti orali prive di aderenza storica.
A questo punto è d'obbligo una piccola parentesi sulle modalità di raccolta di questo materiale. Il
pianto funebre è tanto in momento collettivo che un'espressione personale di dolore, messo in atto
da attori sociali precisi: le donne. Queste costituiscono un sotto-gruppo piuttosto preciso nella
società lucana degli anni '50, e per molti versi si trovano in una condizione separata rispetto agli
uomini. L'accesso a quella dimensione non è affatto scontata, specie quando si è un maschio adulto,
estraneo alla comunità ed estremamente curioso. Raramente de Martino riuscì a stabilire rapporti
diretti con le donne intervistate, ma fu la sua compagna Vittoria De Palma a garantirgli l'accesso a
quel mondo. Come giovane donna poteva accedere molto più facilmente a quel gruppo sociale,
senza la diffidenza che avrebbe suscitato invece suo marito.
Questo è un ottimo esempio per mostrare come la ricerca etnografica, e in generale ogni ricerca, si

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faccia sempre a partire dal proprio corpo, e come questo condizioni molto il posizionamento che si
assume sul campo. In qualunque contesto etnografico, anche quelli nella nostra società, essere uomo
o donna non è indifferente, e da accesso a persone, informazioni e relazioni diversi. Senza Vittoria
De Palma, de Martino non avrebbe potuto raccogliere tutto quel materiale sul lamento funebre,
essendo questo una modalità rituale pressoché riservata alle donne.
Accennavamo prima al contesto pubblico. Il pianto rituale è un vero e proprio dramma messo in
atto davanti alla comunità, una pubblica manifestazione di dolore in cui le lamentatrici si mostrano
agli altri con certi atteggiamenti e certe espressioni. Potremmo dire che si tratta di una pratica
aperta, nel senso che chiunque può imparare il codice corretto assistendo negli anni al lamento nel
corso dei funerali e delle veglie. Questo è possibile perché a livello sociale esiste un insieme di
riferimenti che rendono riconoscibile il pianto come tale.
Il planctus è una scarica irrelativa, priva di regole e di riferimenti, che esprime un dolore personale
senza alcun rispetto sociale. Proprio per questo è un evento pericoloso, dato che pone la comunità di
fronte all'angoscia del cordoglio. Al contrario il lamento funebre propone una serie di moduli
d'azione e di parola che formano un canovaccio per la lamentatrice, che può personalizzare quei
modelli a seconda delle circostanze.
La ripetizione ritmica è sicuramente il tratto più caratteristico del pianto rituale. Leggendo le
trascrizioni dei lamenti e le descrizioni dei gesti colpisce subito la ripetitività di tutto l'insieme, che
sulle donne ha l'effetto di indurre uno stato semi-ipnotico, quasi onirico, in cui a tratti filtra la
lucidità del momento. De Martino parla per questo di una presenza del pianto e di una presenza
della veglia. Mentre la seconda fa da guida e permette la personalizzazione dei moduli poetici e
d'azione a seconda degli avvenimenti, la presenza del pianto è una condizione di fissità, di
reiterazione pura, che permette alle donne di iniziare, interrompere e riprendere il lamento a piacere.
La ripetizione costituisce il nucleo della tecnica del pianto, fornendo un ritmo e dei contenuti fissi
per l'espressione del dolore. A questo proposito, sentiamo il lamento di una donna che piange suo
marito.

O marito mio, o marito mio buono e bello, quanto ti penso, a unghia a unghia. Marito mio, guarda come
mi lasci in mezzo a una via con tre figli. Chi li deve far grandi questi figli, marito mio? Quante me ne hai
fatte passare per amore degli altri, marito mio! Adesso son rimasti contenti: si prendessero una coscia e
se la mangiassero! Marito mio, vuoi essere ricordato per quanta fatica hai fatto con queste mani: sei
morto con la fatica alle mani. Dove dovrò venirti a cercare? Ecco che entra compare Giovanni: non ti
verrà più a chiamare alle tre del mattino per andare in campagna. Ecco che vengono tutti, comari e
compari, senz'essere invitati, marito mio. Come offrire qualche cosa agli invitati, ché non c'è nulla?
Speriamo in Gesù Cristo che questo dovere che ti vengono a rendere comari e compari io lo possa
rendere in bene. E chi è morto, marito mio? È morto Nicola. Marito mio, non ho che dirti e che farti:
prenditi i capelli miei per ricordo. Marito mio, l'ultimo bacio che ti danno i figli tuoi: prega Dio per loro,
non ti dimenticare mai dei tuoi figli e della tua donna. Fammi aprire un'altra porta [fammi trovare un'altra
strada] per farli grandi. Questi figli debbono andar sotto i dispetti degli altri, chi darà loro uno schiaffo e
chi un manrovescio. Ecco che viene zio Menico: quando ti portò all'ospedale come ti vedesti, marito mio,
solo solo senza la tua donna? Chi s'è preso cura di te e chi t'ha dato una goccia d'acqua quando stavi sotto
a quel coltello, sopra a quella barella, e t'operavano? Marito mio, marito mio, punta i piedi contro la porta
e non te ne andare, marito mio (De Martino 1958, 88-89).

Come vedete, la vedova non si esprime con frasi a caso, ma neppure rimane legata ad una
sceneggiatura rigida. C'è un certo grado di improvvisazione, che mostra come sia reattiva agli
avvenimenti intorno al morto. Non solo ripercorre gli eventi luttuosi, ma esprime pubblicamente
tutta una serie di preoccupazioni sulla sua famiglia e i suoi figli. In altri casi la lamentatrice arriva a
lagnarsi dei parenti del morto, o muove addirittura delle accuse verso certe persone; sono tutti temi
e discorsi che una donna non potrebbe normalmente pronunciare in un'occasione pubblica, ma che
sono legittimati dal lamento.
De Martino lo definisce un “discorso protetto”, un momento eccezionale attraverso cui la donna

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supera temporaneamente i propri confini sociali. Questo è possibile solo finché dura il lamento, e
mai al di fuori di esso. Anche così, è interessante notare la valenza multipla del pianto rituale,
perfettamente integrato nel contesto culturale lucano. Questa tecnica rituale del pianto permette non
solo l'espressione pubblica di una sofferenza personale, ma fornisce una forma specifica attraverso
cui si manifesta il dramma. Si tratta della strategia culturale più importante per affrontare il lutto,
ma non è detto che il dispositivo rituale funzioni sempre.
Il lamento funebre facilita il lavoro del cordoglio, cioè aiuta a non annullarsi insieme al morto, e lo
fa procurando una seconda morte – culturale – al defunto. Eppure, il rischio permane
continuamente, sotto forma del “ritorno irrelativo del morto”. Con questo termine de Martino si
riferisce ad una rappresentazione ossessiva, un'immagine allucinatoria che perseguita i vivi. Non
bisogna farsi ingannare dalle etichette psichiatriche: non si tratta di una follia, bensì di un fenomeno
culturale causato nuovamente dalla crisi del cordoglio.
Il lamento funebre non fornisce solo una cornice protettiva nei confronti dell'ebetudine stuporosa e
del planctus, ma permette di gestire questo ritorno del defunto. Come abbiamo visto in precedenza,
la presenza malata si fissa su certi oggetti e persone; essendo incapace di accettare la scomparsa, si
formano delle rappresentazioni sostitutive che nel caso lucano vengono declinate come spiriti dei
morti. Vediamo in proposito alcuni brani indicativi.

Anna Padula di anni 40, contadina di Roccanova, nel settembre del 1953 si recò in campagna con altre
sei compagne, per la raccolta dei fichi. Dovevano essere all'alba sul campo, e perciò si erano messe in
cammino verso mezzanotte. Arrivata la comitiva in un punto della strada dove qualche tempo prima un
giovane contadino era morto per disgrazia, sembrò loro di scorgere nelle tenebre la figura del morto, che
dopo qualche istante sparì dissolvendosi in una colonna di fuoco. Il panico si impadronì della comitiva:
chi gridava, chi piangeva, chi si dette a una fuga disperata.
Maria Totaro, di anni 70, contadina di Roccanova, racconta che una volta da giovinetta, mentre era in
cammino all'alba vide un serpe sulla strada. Lo uccise e lo appese ad un albero. La sera, dopo una
giornata di lavoro nei campi, sulla via del ritorno ripassò per lo stesso posto: il serpe era sempre appeso
all'albero. Come per un presentimento, decise di seppellire il serpe e si avvicinò all'albero per farlo. Ma
proprio mentre stendeva le mani, il serpe drizzò il capo e disse: “Non sei contenta di avermi uccisa, vuoi
farmi ancora del male mettendomi sottoterra?” Da queste parole Maria capì che il serpe era l'anima di un
morto, e ne ebbe grande paura, tanto che, tornata a casa, dovette mettersi a letto con la febbre.
Angela Conte, di anni 50, contadina di Roccanova, riferisce che qualche tempo fa un contadino tornava a
sera dopo il lavoro dei campi, quando improvvisamente fu assalito da uno stormo di uccelli neri che
presero a beccarlo e tormentarlo. Il contadino difendendosi gridava: “Ma che volete da me? Volete
l'anima? E prendetevela allora!” Infine gli uccelli neri sparirono e il contadino tornò a casa. Si era
incontrato con le anime dei morti (De Martino 1958, 97-8).

In questi e in altro casi abbiamo a che fare con un ritorno irrelativo, cioè una rappresentazione
verso cui le persone hanno poco o nessun controllo, e che conduce il più delle volte ad uno stato di
prostrazione fisica e mentale. Il cordoglio, parzialmente elaborato, entra in conflitto con se stesso.
Da una parte si accetta la scomparsa della persona, dall'altra c'è una fissità che rifiuta l'avvenimento
e porta alla crisi. A volte questo può avvenire durante il funerale, con una forma di delirio che porta
le persone a negare la morte del defunto, ritenendola una sorta di sonno o altro. Anche in questi casi
il lamento permette di esprimere questo disagio e “dare voce” al delirio senza che diventi del tutto
cosciente e produca una nuova crisi.
È interessante notare che la malattia, la fame e grandi fatiche sono tutte condizioni che
concorrono al ritorno del morto. Pur non collegate al lutto, povertà, malattia e miseria sono
avvenimenti storici in cui la presenza si trova di nuovo in pericolo; non per la scomparsa dell'altro,
ma di se stessi. Abbiamo a che fare con un disagio esistenziale, una profonda insofferenza per le
condizioni storiche in cui si vive, momenti in cui la semplice vitalità si affaccia al limite della
cultura.
Favorito da queste condizioni, il cordoglio parzialmente elaborato si manifesta con il ritorno

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della rappresentazione ossessiva, che però non è mai una semplice scarica vitale, ma possiede per
l'appunto dei contenuti precisi, una forma che si presta ad essere interpretata. Il contesto lucano
offre una serie di scenari mitici che permettono di dare senso alla visione del morto, inquadrandolo
in un orizzonte simbolico preciso. Non solo, ma le stesse visioni e allucinazioni non sono concepite
come eventi patologici o negativi, ma esistono saperi e pratiche per gestirli e controllarli. In questo
modo una persona, grazie alla sua appartenenza alla comunità e ad uno stesso retaggio culturale,
può inserire la sua visione all'interno di una più ampia tradizione.
Il ritorno del morto non è mai totalmente irrelato, ma questo non toglie che possa comunque
essere pericoloso. È comunque indice di una presenza malata, incapace di elaborare completamente
il cordoglio, una situazione a cui nuovamente il lamento funebre può rispondere. Esiste una vera e
propria forma di “difesa culturale”, che permette di ricondurre ogni visione in uno schema
mitologico predefinito. In altre parole inserisce l'avvenimento in un ordine meta-storico a cui si può
accedere con riti particolari. Non è affatto strano che siano nuovamente le donne ad avere il
controllo di questo codice, visto che già sono delle specialiste del lamento rituale. De Martino
raccoglie moltissime testimonianze di donne che hanno la capacità, cioè una tecnica specifica, di
agire da mediatrici tra vivi e morti. Le “coronelle” sono una delle forme più tipiche di queste
pratiche in Basilicata.

Zia Maddalena, una contadina di Castronuovo, morta poco tempo fa, sapeva fare le “coronelle”, cioè
aveva l'attitudine di mettere i vivi in rapporto con i defunti. Una volta la madre morta di un tal Vincenzo
Fortunato apparve in sogno a zia Maddalena e la pregò di avvertire il figlio che se fosse passato col mulo
per una certa tempa avrebbe corso il rischio di cadere nel burrone. Vincenzo non si mostrò però molto
propenso a prendere sul serio l'avvertimento, e chiese a Maddalena una prova che essa realmente era a
contatto con la madre. Allora Maddalena gli disse: “Vieni con me per nove notti al Calvario: alla nona
notte tua madre ti carezzerà”. Vincenzo fece come la donna gli aveva detto, e si recò per nove notti al
Calvario con lei. Alla nona notte, proprio a mezzanotte, apparve la processione dei morti, e a un certo
punto si sentì carezzare da una mano gelida. Restò tre giorni con freddo e febbre, e al terzo giorno,
attraversando la tempa col mulo, una capra gli saltò improvvisamente davanti, e prese a girare intorno al
mulo, che inciampò nella corda e poco mancò non cadesse nel burrone. Da quel giorno Vincenzo credette
nelle “coronelle” (De Martino 1958, 100).

Come accennavo prima, il lamento funebre lucano occupa solo una piccola sezione di tutto il
libro, che si presenta corredato di un ricchissimo apparato storico ed etnografico. Prendendo in
considerazione la diffusione del lamento nell'area euro-mediterranea, de Martino si sofferma su un
caso particolare, quello di Lazzaro Boia. Si tratta di un pastore rumeno, appartenente ad un villaggio
della Transilvania, un caso etnografico che l'antropologo non seguì direttamente. Fu l'Istituto di
Folklore di Bucarest, nella persona del direttore Mihai Pop, che concesse a de Martino il materiale
inedito al riguardo.
In Romania il lamento funebre prende il nome di bocet, su cui l'antropologo ci informa
dettagliatamente allegando come di consueto le linee melodiche principali. In questo capitolo di
Morte e pianto rituale sono considerati gli avvenimenti dall'arrivo della salma di Lazzaro fino alla
sua inumazione. Tutte le operazioni rituali oscillano tra riferimenti al mondo cristiano e a quello
pagano, inteso come retaggio storico ormai travisato.
Il copione è più o meno lo stesso di un paese lucano: all'arrivo del morto cominciano le
lamentazioni dei famigliari, che qui sono molto più liberi rispetto ai moduli ripetitivi. Viene
ripercorsa la storia di Lazzaro, la sua situazione familiare, lo si supplica di tornare indietro, tutti
temi comuni che però vengono adattati alle circostanze del momento.
Un elemento di forte discontinuità sono le modalità con cui è condotta la veglia del morto. Anche
in Basilicata è presente in certi casi, ma mai con i caratteri del funerale di Lazzaro Boia. Il cadavere
è trasportato in casa, dove le lamentazioni continuano fino al tramonto. Prima della veglia notturna,
aspettando che arrivino tutti i partecipanti, cominciano ad essere raccontate una serie di fiabe e

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storie divertenti, alcune volgari, altre con diversi impliciti sessuali.

Intanto la figlia del morto, Marica Boia, che con tanto impegno aveva partecipato alle precedenti
lamentazioni, si è messa anche lei a raccontare una fiaba, La matrigna:
«C'era una volta un uomo che aveva due figli. Quest'uomo prese un'altra moglie, che era una donna
cattiva, molto cattiva. La matrigna cacciò di casa i bambini, che andarono vagando per la foresta. […]
videro un fuoco grande: era il diavolo. Il diavolo si prese la sorella del bambino e la fece sua: poi le
insegnò come doveva fare per sbarazzarsi del fratello, provocandolo ad accettare le scommesse del
diavolo. Una volta la diavoletta disse al fratello: “Chi porta un legno più grosso, tu o il diavolo?” Il
diavolo si caricò sulle spalle un albero, ma il ragazzo prese un ramo e fece finta di cingerne il bosco per
portarselo via. Un'altra volta la diavoletta disse al fratello: “Vediamo chi scoreggia più forte, tu o il
diavolo?” Il diavolo tirò un peto così forte che andò in pezzi tutto l'intonaco della casa, e dovette mettersi
ad aggiustarla, se no bastava un altro peto per farla crollare».
La fiaba di Marica Boia, ricca di omissioni, di allusioni e di incidenti […] prosegue a lungo. […] La eco
delle ultime fiabe si disperde nel brusio dei nuovi venuti che riempiono il cortile e la casa. Si avvicina la
veglia funebre. […] La conversazione è animata, ma del morto si parla pochissimo. Si va diffondendo
un'aria di festa gaia e spregiudicata, che forma singolare contrasto con il cadavere esposto presso la
finestra (De Martino 1958, 163-64).

Gli invitati alla veglia si trovano tutti in un'unica stanza, insieme alla salma del defunto. Finite le
favole e mandati a letto i bambini, cominciano una serie di giochi che alimentano il clima leggero
della serata, con una serie di sottintesi erotici nemmeno così celati. Tra baci e finti accoppiamenti, a
mezzanotte la veglia finisce e gli invitati possono tornare a casa, mentre solo i parenti più stretti
rimangono con il morto. Resta da spiegare perché proprio durante una veglia funebre vengano
raccontate queste favole e fatti questi giochi. In altre parole, perché la presenza del morto si
accompagna all'erotico e all'osceno.
Per rispondere a questa domanda de Martino allarga la sua prospettiva storica, considerando una
serie di pratiche del cordoglio nel mondo greco antico. In questo modo individua tre grandi rischi
che si accompagnano al rituale funerario antico, e che permangono in maniera attenuata nel caso di
Lazzaro Boia. Furore, erotismo e fame sono pericoli implicati nel crollo della presenza, che nella
crisi del cordoglio vengono riaffermati come pulsioni cieche di semplice vitalità. Abbiamo già visto
come la violenza autodistruttiva si manifesti nel planctus, rintracciabile in molti contesti del mondo
antico. Il trascendimento fallisce, non c'è superamento ma una parvenza di ordine culturale.
La fame irrelativa, il cieco bisogno di introiettare qualcosa, per de Martino è alla base del
cannibalismo funerario, diffuso principalmente in Australia e in alcune zone dell'Amazzonia.
Ultimo dei tre, l'erotismo è quello che più di tutti tenta di riaffermare la presenza umana, la propria
esistenza, ma che si risolve in uno scacco totalmente naturale. È questa sorta di istinto - meramente
vitale - alla riproduzione che dà origine agli scherzi e ai giochi erotici, alle battute e alle favole
oscene.
Insomma, furore, fame ed erotismo sono tre modalità d'azione con cui l'uomo tenta
disperatamente di affermare la vita di fronte alla morte, un modo per non perdere la propria
presenza e differenziarsi dal defunto. Tuttavia, proprio perché c'è una crisi in atto, queste spinte non
superano mai il livello della vitalità cieca, e rimangono bloccate come pulsioni irrelative, con una
forma appena abbozzata, su cui diversi contesti del mondo antico hanno fondato alcune pratiche
funerarie come la vendetta, il banchetto e le esibizioni oscene.
Tutto il contesto euro-mediterraneo ha ereditato parte di questo retaggio, integrandolo con le
forme proprie del Cristianesimo senza creare nessun conflitto palese. Tuttavia, analizzando la
simbologia dell'albero e della resurrezione nel funerale di Lazzaro Boia, de Martino si rende
perfettamente conto della compresenza di due diverse modalità di guardare non solo la morte, ma la
pratica del lamento funebre.
Prima di presentare il contributo del Cristianesimo, de Martino evidenzia la profonda dimensione
storica del pianto rituale, muovendosi in tutta l'area mediterranea antica. La sua posizione in merito

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all'esperienza di morte nel mondo antico è per certi versi sorprendente. Non sono tanto le spoglie
del defunto, il cadavere umano, la scomparsa della persona cara al centro dei sistemi religiosi del
mondo antico, quanto un altro tipo di riferimento culturale. Ci riferiamo ad un altro campo in cui
l'uomo si è fatto procuratore di morte secondo regole proprie, operando un distacco dalla natura e
introducendo un ciclo di scomparse e ritorni costante, e cioè l'agricoltura.
De Martino dedica un densissimo capitolo al legame tra raccolto, passione vegetale e pianto
rituale, rifacendosi alle ricerche dei primi antropologi vittoriani, ma cambiando radicalmente le
conclusioni. Mietitura, vendemmia, raccolta dei frutti e dei cereali, sono tutte attività agricole che
instaurano un ciclo di morte e rinascita, che legano una specie vegetale ad un destino culturale.
Tuttavia rimane sempre uno scarto tra controllo umano e ambiente naturale, un'area di rischio che
mette sempre in pericolo la comunità umana. Il momento del raccolto si configura come l'evento
più pericoloso, e viene messo al centro dell'esperienza di morte nel mondo antico.
I racconti mitologici sulla passione vegetale, che ritroviamo costantemente legati ai cicli di morte
e rigenerazione in tutte le civiltà agricole del Mediterraneo, formano così un corpus coerente non
per una diffusione del mito, ma per una stessa esperienza fondamentale alla base. Per lo stesso
motivo, il lamento funebre trova la sua origine nei rituali drammatici in occasione della mietitura e
del raccolto. Nel momento in cui si falcia l'ultima spiga o si coglie l'ultimo grappolo, c'è sempre il
rischio che sia davvero l'ultimo in assoluto, cioè che la morte procurata diventi morte definitiva,
irreversibile. Il lamento funebre dà voce a questa angoscia, permettendo il completamento della
mietitura e dando valore all'atto della passione vegetale.
De Martino ricostruisce questo mosaico di società facendo riferimento a fonti scritte e artistiche,
incrociando le osservazioni su Dioniso con quelle su Osiride e Tammunz. Ogni caso concorre a
delineare uno schema più ampio che, pur rifiutando facili interpretazioni diffusioniste o razziali,
apre ad una comparazione tra società. Il mito della rigenerazione è lo sfondo meta-storico che
permette ai contesti cerealicoli di gestire l'esperienza della morte vegetale, usando il lamento
funebre come rito prima di tutto agrario, e solo poi trasposto alla morte umana. Mentre l'Antico
Testamento è pervaso da questa ideologia religiosa, il Cristianesimo rompe decisamente con tutto
ciò, introducendo uno spartiacque storico che diventa subito evidente per il diverso trattamento
riservato al pianto rituale.
Il Cristianesimo, come ogni sistema religioso, propone una destorificazione della realtà che si
differenzia nettamente da quella appena vista, come pure da quella ebraica. Il mondo antico, quello
che verrà definito poi “pagano”, utilizzava come paradigma una iterazione rituale delle origini. Vale
a dire che il tipo di destorificazione proposto si basava sul ritorno periodico di un evento originale
situato in un tempo mitico, al di là della Storia umana. Nel contesto ebraico il riferimento diventa
l'attesa del Messia, collocato alla fine della storia come esito di un patto tra Dio e un popolo eletto.
La destorificazione del Cristianesimo è diversa in un altro modo: non solo la destorificazione
avviene in un momento centrale, cioè paradossalmente fondatore della Storia, ma si la resurrezione
più importante si è già verificata.
La resurrezione di Cristo non è come le altre rigenerazioni, che ogni anno dovevano venire
riaffermate per combattere l'angoscia della fine. Nel Cristianesimo la salvezza è già data una volta
per tutte, e rimane solo da aspettare il sigillo finale, l'apocalisse. Non solo, ma mentre il lamento
funebre serve a controllare una crisi causata dalla morte irreversibile dell'altro, il Cristianesimo
propone una morte apparente e temporanea, da cui si può risorgere. Si capisce allora come fin dalle
origini la religione cristiana si scagli contro il pianto rituale, accusando i pagani di non comprendere
il messaggio della salvezza. Diamo un esempio di tale polemica.

Ma il campione della lotta contro il lamento funebre è senza dubbio Giovanni Crisostomo.
Ricollegandosi all'ammonimento di Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi, il Crisostomo svolge una
efficace argomentazione contro il lamento funebre:
«Non io proibisco di piangere i morti, ma l'apostolo che ha detto “Non voglio, o fratelli, che siate in
ignoranza circa i dormienti, affinché non siate contristati come coloro che non hanno speranza”. La

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chiarezza del Vangelo non può essere offuscata dal fatto che piangevano i morti coloro che vissero prima
della Legge o durante la sua epoca. Costoro con ragione piangevano poiché Cristo non era ancora venuto
dai cieli, quel Cristo che con la sua risurrezione asciugò le lacrime dei loro occhi. Costoro con ragione
piangevano, poiché la risurrezione non era stata ancora predicata» (De Martino 1958, 291).

La disperazione dei pagani per la morte fisica è incompatibile con la fede cristiana nella
resurrezione, ma questa linea intransigente è stata raramente portata fino in fondo. Si trattava di
annullare in un colpo solo secoli di tradizioni e pratiche culturali, imponendo una nuova disciplina
del corpo. Non sorprende quindi che il lamento funebre abbia potuto trovare diversi interstizi dove
sopravvivere, anche solo come tecnica subalterna. È interessante come il modello di Maria, invece
di diventare un esempio di contegno e moderazione nel lutto, si sia caricato sempre di più dei
caratteri del planctus pagano. Di fronte alla passione del figlio, Maria sviene, piange, si dispera, si
lamenta per le sofferenze che deve subire. Si potrebbe anche considerare il ruolo avuto dalle varie
Passioni e della loro rappresentazione sacra nel diffondere un certo codice culturale nella società
medievale.
Ad ogni modo, nonostante l'aspra polemica dei primi secoli e i vari tentativi della Chiesa per
combatterlo, il lamento funebre rimane radicato in tutta l'area euro-mediterranea, mescolandosi ai
simboli e ai riti cristiani. Il passare del tempo ridimensiona il planctus, che passa da passi collettiva
a tecnica propria di alcune figure specializzate, le lamentatrici. Come mostrerà in Sud e Magia,
l'introduzione del Cristianesimo segna per de Martino un punto di svolta sostanziale per la società
occidentale, e soprattutto per la storia religiosa del Meridione.
La resurrezione di Cristo, vincitore della morte una volta per tutte, cambia completamente
l'esperienza del lutto, ma rimane pur sempre la crisi della presenza. La destorificazione del
Cristianesimo non ha annullato quel rischio, ha solo cambiato la maniera di percepirlo. L'angoscia
della scomparsa permane, e la stessa elaborazione del cordoglio ha dato vita a nuove pratiche.
Pensiamo per esempio all'abitudine, cominciata nei primi anni del Duemila, di applaudire al
passaggio della bara come segno di tributo alla vittima (perché quasi sempre di vittima si tratta). Ci
può dire molto del modo con cui concepiamo e gestiamo il lutto nella nostra società, che ormai
lascia il planctus a pochi momenti eccezionali e non controllati.
Tutto il commentario storico ed etnografico di Morte e pianto rituale è il tentativo di inquadrare
una tecnica specifica del lutto, quella del lamento lucano; per farlo, de Martino sceglie il giro più
lungo, ma anche quello che gli permette una coerenza maggiore.

Noi siamo partiti dai frammenti di un'Atlantide sommersa e abbiamo cercato di ricostruire la
configurazione del continente prima del cataclisma che lo sprofondò nell'Oceano, e il carattere del
cataclisma che cagionò lo sconvolgimento. Fuor di metafora, siamo partiti dai relitti folklorici del
lamento funebre, siamo risaliti al lamento funebre antico e al suo nesso con il pianto stagionale, per
ridiscendere poi nel corso del tempo sino al momento in cui, disarticolato che fu quel nesso nella storia
religiosa di Israele, il lamento funebre entrò col Cristianesimo in una crisi decisiva. Siamo così tornati al
punto di partenza, cioè alla disgregazione folklorica di quanto oggi, nel mondo moderno, non ha tenuto il
passo con la storia. Il circolo del discorso storiografico è stato in tal modo chiuso: dal presente al
presente, mediante il passato e per illuminare il presente. Non resta ora che misurare il cammino percorso
e determinare meglio l'incremento di consapevolezza umanistica che il discorso storiografico ha
realizzato. [...]
La vita culturale di tutti i tempi e di tutti i luoghi ha messo a disposizione degli individui vari sistemi
tecnici per facilitare il lavoro del cordoglio, cioè per riprendere le tentazioni della crisi e per
ridischiuderle al mondo dei valori. Se la buona riuscita del lavoro del cordoglio consiste nel procurare la
seconda morte culturale a ciò che appare come scandalo del morire naturale, i sistemi tecnici sono
orientati a rendere possibile questa seconda morte nel valore, che la crisi rischia di compromettere. Ora la
crisi comporta, in tutte le sue manifestazioni morbose, un rischio di destorificazione irrelativa, cioè un
cader fuori di ogni possibile storia umana culturalmente illuminata e aperta ai valori della cultura (De
Martino 1958, 308-9).

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Se il suo percorso è chiuso, noi dobbiamo ancora ricongiungerci con l'inizio di questo incontro e
con il nostro tempo. Come avevo anticipato, torniamo sul dialogo più intenso di tutta l'opera, cioè
quello con Freud e la psicoanalisi. In un saggio di inizio Novecento, Lutto e melanconia (Freud
1977b), Freud esamina diverse questioni legate alla morte e al cordoglio, che in parte ritroviamo
anche nel più tardo Totem e tabù (Freud 1977a). Mentre la melanconia non è un fenomeno
omogeneo e chiaramente identificabile, il lutto si può descrivere molto più facilmente.
Come per Croce e per de Martino, il lutto è una reazione alla perdita della persona amata, ma che
si può anche applicare ad un'astrazione come la patria, la libertà, o altri valori. L'uomo non prova
cordoglio solo per la morte dell'altro, ma anche per la sconfitta del suo paese, la perdita della
libertà, e casi simili: in altre parole, l'esperienza del lutto non è ancorata necessariamente alla morte
umana. Questo accade perché nelle dinamiche psichiche sono in gioco delle energie che vengono
investite e disinvestite; la libido è la principale di queste pulsioni inconsce, che nell'uomo è
responsabile di ogni forma di erotismo e affezione.
In una prospettiva psicoanalitica (almeno per quella di Freud) una persona può diventare
l'oggetto su cui la libido viene investita. Tutte le forme di amore rimandano a questo investimento
nell'altro, come termine specifico della pulsione. Sia nel lutto, sia nella melanconia assistiamo ad
una scomparsa dell'oggetto amato, che obbliga l'uomo a ritirare l'investimento di libido.
La relazione tra de Martino e la psicoanalisi meriterebbe uno spazio a sé. Le critiche principali
dell'etnologo al pensiero di Freud sono destinate a quei lavori sul mito e la religione come Totem e
tabù, in cui de Martino polemizza con il metodo ricostruttivo e l'utilizzo poco attento del materiale
folklorico (De Martino 1963). Al contrario dimostra molto interesse per i lavori psicoanalitici più
classici, come vediamo in Morte e pianto rituale, anche se rimane un po' fumoso in proposito.
Secondo l'antropologo la libido viene presentata dalla psicoanalisi come pura vitalità sessuale
irrelata, priva di contenuti; ma questo è un errore di Freud, che non riesce a riconoscere la libido
come presenza (De Martino 1958, 22), cioè come un'energia sintetica che trascende gli oggetti.
L'errore più grande di Freud e della psicoanalisi per de Martino è la limitazione alla sfera del
sessuale. Solo un trascendimento permette l'oggettivazione e la risoluzione della crisi di senso, in
una cornice culturale.
C'è una profonda differenza tra le due posizioni, che tuttavia rimangono slegate e indipendenti
tra loro. Per comprendere meglio come il lutto venga considerato in maniera diversa dalla
psicoanalisi e da de Martino vi propongo un campo di prova nuovo, un esempio preso dai nostri
giorni. Si tratta di un rituale giapponese chiamato mizuko kuyō, in cui le donne cercando di placare
lo spirito del bambino che hanno abortito. Il fenomeno comincia a diventare molto rilevante negli
anni '80, con grandi campagne pubblicitarie e servizi offerti per il trattamento dei feti. In poche
parole, queste donne sperimentano un “ritorno del defunto”: si sentono perseguitate dallo spirito del
loro bambino, al punto che si ammalano e perdono il lavoro.
Nel contesto giapponese si immagina il feto abortito come un “bambino d'acqua” privo di
identità, senza un nome e una forma precisa, una presenza inquietante che rimane attaccato alla
madre che l'ha rifiutato. La sua vendetta si esercita non solo sui genitori, ma anche su parenti e
amici. Per risolvere questa situazione esiste un servizio dedicato, un rituale religioso che placa lo
spirito e permette alle donne di superare il lutto. Come applicare quanto detto finora a questo caso
specifico?
Cominciamo con la prospettiva psicoanalitica, e chiedo scusa agli addetti ai lavori presenti se la
mia terminologia sarà un po' imprecisa. Le donne che hanno abortito vivono un fortissimo conflitto
interiore. Per varie ragioni hanno deciso di abortire, cioè di porre fine all'esistenza del feto, un gesto
che nonostante venga eseguito dal medico non perde la sua carica di colpa a causa dell'ostilità
latente che viene percepita come un sorta di soddisfazione per la morte del bambino. Ecco
l'ambivalenza intollerabile che viene proiettate sul morto. Il mizuko, questo “bambino d'acqua”, è il
simulacro del feto, una rappresentazione psichica che consente una sopravvivenza del morto, ma lo

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carica di intenzione maligne e di vendetta. Il ritorno del morto è anche la manifestazione
drammatica del senso di colpa, rimasto fissato all'oggetto scomparso.
Viceversa de Martino parlerebbe di un “ritorno irrelativo del morto”. Nella sua prospettiva la
donna rimarrebbe fissata al feto nonostante la sua scomparsa, e questo mette in crisi il suo
radicamento nel mondo. Ma la sua presenza non corre un pericolo qualunque, generale, bensì uno
più specifico. L'aborto è un'interruzione della maternità, un atto drammatico che rischia sempre di
mettere in crisi il ciclo continuo di nascita e morte. La maternità viene concepita, nella maggior
parte dei contesti umani, come un fenomeno puramente naturale, ma l'aborto incrina questa visione.
Allora diventa davvero difficile, come diceva de Martino, “far morire i nostri morti in noi”. Il
feto è letteralmente nel corpo della madre, e quel trauma si inscrive all'interno della donna, nella sua
carne. Il ritorno del morto è un'esperienza reale, incorporata, ma non è il prodotto di un dramma
isolato: è prima di tutto il risultato di processi culturali che agiscono sul corpo della donna, che
mettono in crisi la sua presenza nel profondo. Il rituale per placare lo spirito ha molto in comune
con il lamento funebre lucano: in entrambi i casi è presente una ritualità, un insieme di specialisti
ufficiali, un discorso protetto e un ampio margine di personalizzazione del dolore.
Ma è l'ethos culturale, la riaffermazione rituale dei valori che permette alle donne di superare il
lutto ed elaborare la scomparsa, non l'investimento libidico sulla rappresentazione. Possiamo usare
gli stessi termini, ma tutto Morte e pianto rituale è dedicato alla differenza sostanziale tra vitalità e
cultura. Lo spirito indefinito del feto riceve dei contorni, un nome, una sorta di identità surrogata, e
al tempo stesso instaura un nuovo rapporto con la donna. Il furore incontrollato viene placato dal
rito, ricondotto ad una modalità di relazione stabile, come quella tra morti e vivi nel folklore lucano.
Pare giusto concludere con una frase di de Martino: “Se volessimo definire l'umana civiltà nel
giro di una espressione pregnante potremmo dire che essa è la potenza formale di far passare nel
valore ciò che in natura corre verso la morte” (De Martino 1958, 214).

Non andartene docile in quella buona notte,


I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.

Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta,


Perché dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in quella buona notte,

I probi, con l'ultima onda, gridando quanto splendide


Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce

[Dylan Thomas, Non andartene docile in quella buona notte, 1951]

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Bibliografia:

Angelini, P., (2008) Ernesto de Martino, Carocci, Roma.

Berardini, S.F. (2013) Ethos Presenza Storia. La ricerca filosofica di Ernesto de Martino,
Università degli Studi di Trento, Trento.

Croce, B., (1922) Frammenti di etica, in Saggi filosofici, vol. VI, Laterza, Bari.

De Martino, E., (1948) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati
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De Martino, E., (1958) Morte e pianto rituale nel mondo antico, Bollati Boringhieri, Torino.

De Martino, E., (1963) «Etnologia e storiografia religiosa nell'opera di Freud», Homo, 4: 47-50.

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