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LEZIONI Ponti esistenti

INTERVENTI DI RIQUALIFICAZIONE STATICA E SISMICA SUI PONTI ESISTENTI


Le tipologie di interventi che si possono attuare, sono tante e variegate dal momento che dipendono
dalle tecnologie disponibili, che vengono sviluppate e migliorate continuamente. Il problema principale
a cui sono soggetti i ponti è un problema essenzialmente di tipo statico dovuto al degrado, però
analizzando i collassi che sono avvenuti nell’ultimo ventennio, ci si rende conto che i collassi statici, da
intendersi come un collasso con grave danneggiamento avvenuto per cause intrinseche al ponte, quindi
dovute al degrado ma anche e soprattutto a errori di progettazione e\o realizzazione, che pertanto non
sono dipendenti da cause esterne. Invece le cause esterne appunto, possono essere terremoti, rischio
idraulico e rischio frane. Si osserva come in più della metà dei casi negli ultimi 20 anni, è stato il rischio
idraulico a generare collassi. D'altronde anche a livello internazionale ci sono degli studi che hanno preso
in considerazione i collassi avvenuti in tutto il mondo, evidenziando anche qui come per la maggior parte
dei casi sia stato il rischio idraulico la causa scatenante il collasso, legata o a vere e proprie esondazioni
e sormonto del corso d’acqua rispetto al ponte, oppure lo scalzamento, il quale tralaltro è un tipo di
collasso difficile da predire, proprio perché tale fenomeno avviene sotto il pelo libero dell’acqua, per cui
non è facile rendersene conto, e quindi si può solo, in presenza di fondazioni profonde accertarsi
dell’assenza di tali fenomeni con accurate ispezioni periodiche. Gli interventi atti ad evitare lo
scalzamento sono soprattutto di carattere idraulico, e eventualmente di adeguamento e rinforzo delle
fondazioni.
Quello che si può fare dopo aver analizzato attentamente il ponte, è determinare la classe di attenzione,
e quindi dopo aver stabilito se è necessario fare una valutazione accurata oppure è possibile fare delle
ispezioni periodiche per monitorare l’andamento del degrado. Nel caso in cui si fa una valutazione
accurata, il ponte è in una classe di attenzione alta o medio-alta, e quindi con grande probabilità
potrebbe capitare che il ponte non risulta verificato, rispetto alle azioni sismiche e azioni statiche, per
cui potrebbe essere necessario mettere in atto degli interventi di rafforzamento, che in sostanza
possono essere di 3 tipi:
• Gli interventi di riparazione, risanamento e riqualificazione statica, sono degli interventi rivolti a
ripristinare la resistenza originaria del ponte che aveva prima che l’evento accidentale (come un
urto, un sisma ecc..) creasse il decadimento di resistenza, quindi si vogliono semplicemente
ripristinare le condizioni precedenti, senza eseguire un vero e proprio rafforzamento, oppure
contestualmente a questi interventi si può anche optare per un rafforzamento. Questo va deciso
in base ai risultati della valutazione accurata.
• E’ possibile eseguire anche interventi di riqualificazione sismica, prevedendo un incremento della
capacità degli elementi strutturali del ponte rispetto proprio alle azioni sismiche.
• Infine si possono effettuare interventi di riqualificazione funzionale, volte ad adeguare il ponte
rispetto a delle normative non strutturali, come quelle relative alle barriere di sicurezza per
adeguarne la classe di contenimento, oppure in merito alla mitigazione del rumore, allorquando
il ponte sia posto su un’arteria stradale prossima ai cosiddetti ricettori come centri abitati e
strutture civili sensibili al rumore. Spesso gli interventi di riqualificazione funzionale, vanno
quantomeno in parallelo con interventi di riqualificazione statica, proprio perché l’adeguamento
funzionale dovuto alla sostituzione ad esempio delle barriere di sicurezza per le quali si richiede
l’impiego di classi più performanti, che però comportano un aggravio delle sollecitazioni della
struttura, il che rende necessaria per l’appunto anche una riqualificazione statica.
Per quanto riguarda gli interventi di riqualificazione statica, l’evento che ha determinato il danno può
essere semplicemente il degrado legato all’età e all’esposizione agli agenti atmosferici, oppure danno
accidentale dovuto ad urto. Nell’ambito di questi interventi di riqualificazione, ci si può occupare di:

L’esigenza del risanamento di cordoli e solette in c.a. si presenta spesso in concomitanza alla necessità
di sostituire barriere di sicurezza non più a norma, come le vecchie barriere a doppia onda, e spesso le
nuove barriere più performanti comportano maggiori sollecitazioni sul cordolo, che però può essere di
suo già degradato, e pertanto necessita anche esso di risanamento. Per riqualificare il cordolo bisogna
innanzitutto tagliare i paletti del sicurvia, dopo di che si passa alla scarifica fino a portare a nudo le barre
di armatura, ed è possibile quindi rilevare i ferri di armatura stessa valutandone il diametro, il passo e se
sono ad aderenza migliorata oppure lisci, anche se già in passato per i ponti venivano impiegate barre
nervate. Fatto ciò si possono estrarre dei campioni per poter eseguire delle prove d trazione, e bisogna
gestire la condizione per cui l’installazione di una barriera bordo ponte con la dovuta classe di
contenimento certamente più performante di quella esistente, comporta un aggravio delle sollecitazioni
sul cordolo in caso di plasticizzazione, che porta ad avere un momento flettente maggiore perché è
necessario uno sforzo maggiore per la plasticizzazione di una barriera di classe di contenimento più
elevata, ma dipende anche dal diverso interasse tra i paletti. Un maggiore momento di plasticizzazione
alla base del paletto della barriera si traduce anche in un aggravio del momento flettente nella sezione
di incastro in corrispondenza della trave di bordo, per cui risulta anche necessario indagare i ferri che
sono presenti nella zona di incastro della soletta, per cui proprio in corrispondenza della suddetta
sezione bisogna effettuare un saggio di ispezione con rimozione della pavimentazione e del copriferro
senza danneggiare i ferri di armatura. I ferri sono orditi sia in senso longitudinale che trasversale, e
ovviamente quelli trasversali all’asse del ponte conferiscono la resistenza a flessione, mentre quelli
longitudinali paralleli allo sviluppo della trave di bordo sono chiamati alla ripartizione. Per l’estrazione
conviene non estrarre direttamente i ferri di armatura trasversali per non provocare una riduzione di
resistenza a flessione dello sbalzo, ma conviene estrarre uno spezzone di ferro longitudinale, poiché se
è della stessa tipologia fornisce le informazioni necessarie, senza però ridurre la resistenza flessionale
perché si tratta comunque solo di ferri di ripartizione. Una volta analizzato lo stato di fatto si sceglie la
tipologia a di barriera, e tale operazione compete sia al progettista che all’ente gestore della strada, ed
è una scelta da effettuarsi sia in funzione del tipo di strada che del traffico giornaliero medio. E’
necessario quindi pervenire alle caratteristiche della sezione della barriera come il modulo plastico
rispetto all’asse forte che è quello resistente, per poter pervenire al momento massimo di
plasticizzazione, l’interasse tra i paletti, e il tipo di acciaio di cui è composto. Il problema si pone
valutando le sollecitazioni sullo sbalzo riguardabile come una mensola, valutando tutti i carichi che
competono alla definizione delle sollecitazioni nella sezione di incastro stessa, e sono il peso della
soletta, del cordolo, della pavimentazione, il peso della barriera di sicurezza, inoltre come noto si deve
tenere conto della presenza del carico fornito dalla ruota in svio q, perché affinché l’urto possa
materializzarsi, è necessario che il veicolo si porti in prossimità della barriera stessa, quindi si deve
valutare anche il peso dovuto alla ruota nella suddetta zona, e dunque si assume la presenza della singola
ruota dello schema di carico 2 pari a 200 KN applicata su un’impronta 35x60, lo si diffonde fino alla
mezzeria della soletta, dopo d che lo si diffonde nuovamente dalla soletta verso la sezione di incastro.
E’ possibile combinare questi carichi secondo le combinazioni di carico accidentale, che prevede la
presenza delle forze di urto e veicolo in svio, e la combinazione fondamentale che prevede
amplificazione dei carichi rispetto all’accidentale, senza prevedere però l’urto e il veicolo, e si devono
valutare gli effetti più gravosi ricavabili da entrambe. Questa operazione consente di pervenire al
momento flettente, per poter verificare se i ferri presenti nella soletta nella sezione di incastro,
forniscono la resistenza a flessione necessaria. Se l’effetto di tutti i carichi sopracitati viene valutato per
metro lineare di soletta, si deve verificare che la resistenza della suddetta sezione sia sufficiente. Questa
verifica consente di valutare se è necessario prevedere interventi di rinforzo della soletta stessa.
Le fasi di lavorazione per questo intervento prevedono innanzitutto la demolizione della parte
sommitale del cordolo, almeno per uno spessore pari a tutta la parte ammalorata fino a portare a nudo
i ferri di armatura, una volta fatto ciò si verifica se le armature stessa hanno necessità di passivazione
per poter limitarne la corrosione. Tali interventi si possono eseguire tramite speciali vernici che vengono
applicate ai ferri per poter inibire la corrosione futura. Questo per quanto riguarda i ferri esistenti già
presenti, mentre è possibile aggiungerne altri all’occorrenza, per i quali si possono avere due
conformazioni differenti, una a ganci separati che vengono installati separatamente previo intervento di
alloggiamento nella soletta che viene forata, e successiva installazione de ferri conformati ad L mediante
resina epossidica bicomponente, che è un materiale legante di altissima resistenza che consente di
ottenere una perfetta aderenza delle armature installate e il cls, avendo avuto cura di pulire i fori
realizzati nella soletta mediante aria compressa, dopo di che si inietta la resina epossidica e si annegano
i ferri all’interno. La resina fa presa entro poche ore e consente ai ferri aggiunti di avere un’aderenza
addirittura superiore a quella che si materializza tra acciaio e calcestruzzo stesso al momento della presa.
La seconda soluzione può essere formata da un cavallotto, ossia un ferro unico che però espone al
problema di realizzare i fori al giusto interasse per poter inserire correttamente il ferro così conformato.
Inseriti questi ferri che rappresentano il mezzo con cui la parte sommitale nuova del cordolo che viene
gettata si solidarizza con quella già presente. In questo modo si riesce a risagomare il cordolo utilizzando
un calcestruzzo di classe adeguata ad esempio C 32/40 per un determinato spessore che in genere è
dell’ordine dei 10 cm, perché se la parte ammalorata risulta di spessore maggiore, vuol dire che il cordolo
è in una condizione di degrado eccessivo. L’operazione di risagomatura del cordolo deve fare in modo di
riportare la parte sommitale ad una quota dal piano viabile di 5 cm, perché come prescritto da normativa
il piano di posa della barriera deve essere compreso tra -5 cm e +5 cm dal piano viabile. In genere è
conveniente porsi ad una quota di + 5 cm così da evitare che eventuali successivi strati di asfalto disposti
senza rimuovere quello già presente, possano innalzare eccessivamente il piano viabile. Infine si può
installare la barriera sempre tramite ancoranti chimici, con dei fori all’interno del cordolo, i quali vanno
ad interessare in parte la porzione di cordolo nuova, in parte quella esistente, proprio perché la parte
ripristinata risulta almeno di 10 cm e i tirafondi di ancoraggio della barriera sono lunghi almeno 20 cm,
quindi si va ad interessare anche la parte esistente.

La quantità di ganci che si deve disporre deve essere tale da garantire la monoliticità della parte di
cordolo nuova rispetto a quella esistente e deve essere tale da poter prevenire un eventuale distacco
tra la parte nuova e vecchia del cordolo. In sostanza si deve fare una verifica a flessione in cui il gancio
più esterno, che è quello che in caso di urto viene sollecitato a trazione, prevenga il distacco lungo una
linea di frattura orizzontale, generando sulla sezione alla base del paletto un momento ultimo, ovvero
momento resistente, maggiore di quello che si otterrebbe dalla completa plasticizzazione della barriera.
Questo è il criterio utilizzato per determinare la quantità di questi ganci, poiché una volta stabilito il
diametro, se ne può determinare il passo in modo tale da avere una resistenza a flessione all’interfaccia
tra la parte nuova e vecchia del cordolo, sufficiente a sopportare il momento di plasticizzazione del
singolo paletto. Questo vuol dire che il numero di ganci può essere infittito nella zona dove sono installati
i paletti, e comunque una quantità adeguata anche nelle zone in cui i paletti non sono presenti, per poter
ovviamente garantire dappertutto la connessione delle due parti del cordolo. Inoltre è necessario
sempre garantire la resistenza allo scorrimento delle due parti del cordolo, e questo meccanismo di
rottura interessa entrambi i ganci, perché entrambi attraversano la sezione lungo la quale si può avere
lo scorrimento. Nei ponti più datati, i cordoli venivano dotati di una canaletta passacavi, ossia uno spazio
vuoto alle spalle della parte dove viene ancorata la barriera, funzionale per accogliere cavi di vario tipo.
Attualmente invece si preferisce disporre canalette in materiale plastico applicate esternamente al
cordolo e sorrette mediante staffe. Spesso quando si interviene con la sostituzione delle barriere si
possono avere situazioni in cui l’ingombro risulti maggiore anche perché la tripla onda deve stare a filo
con la pavimentazione, per cui si può avere la necessità si disporre la barriera più indietro, e quindi in tal
caso bisogna riempire la canaletta con calcestruzzo, non prima sempre di aver installato dei ferri a
cavallotto oppure dei ganci separati, che servono sempre a garantire la solidarizzazione, e vengono
installati come nel caso precedente preforando in due parti distinte il cls esistente, e realizzando un
sopralzo (come si vede nella figura in basso a sinistra) avendo preventivamente demolito la parte
effettivamente appartenente al cordolo che risulta ammalorata e che quindi va ripristinata, e

completando quindi con la realizzazione di un getto unico per la tombatura (riempimento) del cordolo e
il ripristino corticale del cordolo stesso. Nel momento in cui si installa una nuova barriera di sicurezza
più prestante che quindi genera un momento plastico alla base più elevato, il quale si trasferisce uguale
in modulo nella zona di incastro della soletta, ed è pertanto necessario verificare che la soletta sia in
grado effettivamente di sostenere il suddetto momento. La sezione di soletta da verificare, che resiste
all’urto sul singolo paletto, si ottiene facendo una diffusione prima fino all’asse della soletta, e poi a 45
gradi fino alla trave di bordo. Dividendo il momento flettente generato dall’urto per la larghezza ottenuta
dalla diffusione, si ottiene il momento per metro lineare di soletta. In caso la verifica non sia soddisfatta,
si prevede un rinforzo localizzato laddove vengono installati i paletti, evitando un rinforzo complessivo
di tutta la soletta per l’intera lunghezza del ponte, il che sarebbe molto più invasivo tralaltro. Quindi il
rinforzo si effettua lungo delle strisce predefinite in corrispondenza dei paletti che sono quelle
evidenziate in rosso in figura:
Per attuare l’intervento si rimuove la pavimentazione per un tratto di lunghezza pari almeno alla
lunghezza dei ferri integrativi che si vogliono aggiungere, considerando che bisogna proseguire oltre la
sezione di incastro di una certa quantità sufficiente ad ancorare i ferri. Solo nelle zone dove si vuole
determinare un rinforzo a flessione si rimuove anche il copriferro (solo nelle zone in rosso), effettuando
dei tagli nella soletta trasversalmente al ponte, dopo di che si passa alla rimozione di materiale mediante
la tecnica dell’idrodemolizione effettuato mediante getto d’acqua ad elevata pressione, ed è un tipo di
demolizione molto vantaggioso perché non genera delle vibrazioni, e non arreca danni ulteriori al ponte
e alle armature esistenti.

Una volta terminata la demolizione si passa alla disposizione dei nuovi ferri di armatura, i quali
presentano un tratto inclinato che si va ad ancorare all’interno del cordolo, e un tratto rettilineo che
deva avere lunghezza tale da poter superare la sezione d’incastro rappresentata dalla sagoma della
trave, per una lunghezza ulteriore necessaria a garantire il corretto ancoraggio. Tale lunghezza di
ancoraggio va ulteriormente amplificata rispetto allo stretto necessario, dal momento che il ferro è
inserito all’intero di un getto di completamento che avviene successivamente e pertanto non risulta
monolitico con quello preesistente, pertanto è una situazione per cui lo sviluppo delle tensioni di
aderenza non è ottimale, quindi si provvede ad attribuire una lunghezza di ancoraggio maggiore di quella
di calcolo. I ferri aggiunti sono spesso dotati di un gancio finale, che si instaura in un foro praticato nella
soletta. Questo serve a fornire un ulteriore incremento della capacità di resistenza a trazione del ferro,
e sviluppare nella zona di interesse la giusta resistenza a flessione della soletta. Una volta aggiunto il
ferro, e dopo aver forato anche in altre zone la soletta per poter installare dei ganci, che sono funzionali
per evitare il distacco del ferro dal getto di calcestruzzo, e vengono sempre installati con un certo passo
tramite l’impiego di una resina epossidica ad elevatissima resistenza. Terminata la sistemazione dei ferri
viene effettuato un getto con malta reoplastica fibrorinforzata, che non è un calcestruzzo ma unna malta
con inerti molto fini, dotata della presenza al suo interno di fibre di acciaio che rendono la malta molto
resistente. Successivamente si può procedere al ripristino della impermeabilizzazione, e della
pavimentazione ultimando così il rinforzo della soletta che diviene adeguata a sostenere le sollecitazioni
impresse dalla nova barriera di sicurezza. Le armature integrative per incrementare la resistenza a
flessione della sezione resistente della soletta, sono disposte un po' al di sopra di quelle già esistenti
perché è difficile operativamente disporle allo stesso livello di queste, anche perché in genere sono
sormontate da un’armatura trasversale di ripartizione che non è possibile rimuovere. Quindi nella
verifica a flessione a momento negativo con parte di calcestruzzo compressa inferiore, si deve
considerare come armatura resistente quella già presente e quella aggiunta perché sarebbe eccessivo
affidare tutta la flessione solo alle armature aggiunte. C’è anche la possibilità di installare armature in
FRP ovvero materiali fibrorinforzati, costituiti da fibre di carbonio, di vetro, aramidiche disposte in una
matrice di resina, ad alta resistenza, e possono essere conformate anche in barre. I materiali polimerici
in genere si trovano sotto forma di tessuti o di lamine ma anche di barre di forma cilindrica che hanno
diversi diametri, ed hanno una elevata resistenza rispetto all’acciaio, hanno il vantaggio di poter esser
installate con una minore invasività, in quanto si possono effettuare dei tagli con un certo interasse i
all’interno della soletta, in modo tale da ottenere la resistenza voluta in corrispondenza della sezione di
incastro. Le barre si possono inserire all’interno di scanalature praticate nella soletta, ad esempio per
una barra fi 12 si può eseguire un taglio di diametro 20 mm e profondità 30 mm, dopo di che vengono
incollate con resina epossidica per garantire la perfetta aderenza al calcestruzzo, fornendo la richiesta
armatura aggiuntiva rispetto alle barre preesistenti. Questa modalità alternativa di eseguire l’intervento
è vantaggiosa perché non prevede lo scasso di porzioni un pò più ampie di soletta come nel caso
precedente, ma consente di effettuare dei piccoli tagli che riducono l’invasività dell’intervento.
L’esigenza di rinforzare il cordolo e la soletta di un ponte può derivare anche dall’installazione di barriere
antirumore costituite da pannelli fonoassorbenti, necessaria quando in prossimità del ponte ci sono delle
costruzioni sensibili come ospedali, scuole uffici ecc. I pannelli di queste barriere sono sostenuti da
montanti metallici di altezza maggiore rispetto alle barriere di sicurezza, che può essere anche di 4-5 m
quindi un’altezza rilevante che comporta una maggiore sensibilità rispetto alle azioni da vento. Tali
barriere svolgono la duplice funzione sia antirumore sia barriere di sicurezza, e prendono il nome in tal
caso di barriere integrate proprio perché sono in grado di fungere da separatore della strada dove viene
generato il rumore, rispetto alla zona sensibile da preservare, e i pannelli in particolare hanno capacità
in parte di assorbire le onde sonore, in parte di rifletterle verso la strada stessa.
Il problema di tali barriere è che essendo piene non lasciano passare il vento, che può agire
ortogonalmente alla barriera in entrambi i versi, e bisogna considerare entrambe le eventualità per
l’aleatorietà di questa azione, poiché il carico del vento è distribuito su tutta l’altezza della barriera,
pertanto ha una risultante V nel baricentro di tale distribuzione che moltiplicata per l’altezza dalla base
della barriera genera un momento flettente M, che si ripercuote analogamente nella sezione di incastro
della soletta. Quindi se prima la barriera integrata non era presente, per l’installazione bisognerà fare le
stesse verifiche fatte in precedenza, tenendo conto però anche dell’azione del vento, e riferendosi ad
una prima combinazione di carico accidentale che è sempre la stessa sia per progettazione di solette
nuove che per verifiche di quelle esistenti e che prevede la presenza dell’azione da urto e ruota del
veicolo in svio appartenete allo schema di carico 2. Poi si deve considerare una seconda combinazione
con presenza sempre della ruota in svio, per la presenza di un veicolo che scarica eventualmente il suo
peso nella zona marginale della carreggiata, combinata con l’azione del vento, poiché analizzando i
coefficienti parziali per la combinazione delle azioni, si osserva che la combinazione eccezionale dove
compare l’ Ad non prevede l’azione del vento, invece nella combinazione fondamentale bisogna
considerare i 200 KN nella zona estremale della pavimentazione, che è un’azione da traffico comunque
variabile, combinata con l’azione del vento, che andrebbe considerata in entrambe le direzioni, ma in
presenza del peso del veicolo l’azione del vento che spira da destra verso sinistra da origine ad un
momento positivo che tende e fibre inferiori mentre il veicolo genera un momento negativo che invece
tende le fibre superiori, e siccome l’azione del vento è comunque meno gravosa di quella del veicolo,
andrebbe a ridurne l’azione complessiva, per cui la condizione più gravosa è comunque quella in cui è
presente + pv ovvero il vento che spira da sinistra verso destra che da un contributo al momento
flettente dello stesso segno. Comunque si devono considerare tutte le condizioni che possono
presentarsi, perché ad esempio se è presente uno sbalzo molto corto che interessa il solo cordolo con la
trave di bordo proprio al margine della carreggiata, allora in questa condizione la presenza di una ruota
da 200 KN, non genererebbe alcun momento nella sezione di incastro, per cui si avrebbe solamente il
vento nella combinazione fondamentale, a generare momento all’incastro, e potrebbe essere +pv o -pv,
nel primo caso il momento sollecita le armature superiori, nel secondo caso quelle inferiori, che in
genere sono presenti in quantità inferiore rispetto alle superiori proprio perché si fa conto di un
eventuale urto, mentre le armature inferiori in questa zona sono solitamente disposte per il
completamento del getto, quindi non espressamente calcolate per assorbire un momento flettente.
Bisogna valutare allora questa eventualità perché la presenza di vento da destra verso sinistra potrebbe
generare una sollecitazione cui la sezione resistente della soletta non è in grado di resistere
adeguatamente perché non prevista.

INTERVENTI DI RIPARAZIONE E RINFORZO DI TRAVI E TRASVERSI


Quando si effettua un intervento di risanamento o riparazione la quale è spesso legata al superamento
di problemi legati al degrado, mentre la riparazione può essere dovuta comunque ad un evento come
un urto o altre situazioni accidentali che possono verificarsi e provocare danni, solitamente questi
interventi sono anche accompagnati contestualmente da un rinforzo. Quindi è raro effettuare interventi
di solo risanamento senza eseguire un rinforzo.
Un esempio di intervento molto comune è legato all’incamiciatura di travi in cemento armato e c.a.p.
che viene eseguito seguendo varie fasi:

Innanzitutto è necessario per mettere in opera tale intervento rimuovere la parte di cls ammalorato con
parti parzialmente espulse, soggetto a problemi di spalling e diffusa fessurazione, facendo quindi
un’accurata pulizia della parte da rinforzare. Eventualmente se necessario si procede ad un trattamento
passivante delle armature esposte, se risultano visibilmente corrose, mediante applicazione di una
speciale vernice passivante inibitrice della corrosione. In seguito si procede alla risarcitura delle lesioni
presenti, tramite l’impiego di resine epossidiche di opportuna fluidità, dopo di che si procede alla
ricostruzione della superficie corticale facendo una opportuna rasatura del cls per ricostruire le parti che
in precedenza sono state pulite e liberate dalle zone di calcestruzzo ammalorato, tramite applicazione
di una malta cementizia a ritiro compensato, che risulta esente da ritiro e pertanto non da problemi di
variazione volumetrica in una fase successiva. Terminata questa fase si prendono i profilati metallici che
vengono sottoposti ad un trattamento di sabbiatura al metallo bianco dalla arte interna, in modo tale
che aumentino al massimo le capacità di aderenza e scabrezza superficiale. I profili sabbiati vengono poi
posizionati attorno alla zona da rinforzare, ed essendo dotati di appositi fori, fungono anche da dima per
individuare i punti in cui forare la trave, per l’inserimento dei perni di ancoraggio, i quali devono essere
inseriti e serrati dopo aver messo dei distanziali funzionali per avere una distanza di alcuni millimetri tra
i profilati metallici e l’elemento in calcestruzzo da rinforzare. Questa distanza è necessaria proprio per
poter iniettare successivamente la resina epossidica che consente di incollare la parte metallica alla trave
in cls. Bisogna eventualmente prevedere delle saldature nelle zone di connessione tra i vari profilati,
dopo di che si possono posizionare i tubetti di iniezione nelle zone più alte se si intende procedere con
l’iniezione della resina a gravità, per poter riempire tutta l’intercapedine tra i profilati e la trave,
provvedendo preventivamente alla sigillatura di tutte le parti da cui la resina potrebbe fuoriuscire. Una
volta ultimata l’iniezione si avrà una parte metallica perfettamente aderente alla trave in cls, che
comporta la realizzazione di una vera e propria sezione composta acciaio-calcestruzzo. Successivamente
viene eseguita una rasatura sul profilo metallico funzionale per l’applicazione di una retina metallica che
viene spruzzata con sabbia di quarzo fine che rende molto scabra la superficie fungendo da aggrappante
funzionale per l’applicazione di una rasatura finale con malta fibrorinforzata a fini protettivi per la
corrosone del profilo metallico, già verniciato con speciali vernici passivanti antiruggine. L’intervento
suddetto è definito beton-plaquè ed è una incamiciatura metallica di elementi in c.a. e cap.

Altri tipi di interventi di rinforzo relativi agli elementi strutturali principali, ovvero travi e trasversi in
cemento armato, consistono nella precompressione esterna, il quale viene eseguito mediante
disposizione di appositi cavi di precompressione costituiti da trefoli disposti parallelamente all’interno
di guaine protettive, quindi dei cavi molto simili a quelli adottati nelle strutture strallate. I suddetti cavi
vengono posti lungo un tracciato tale per cui la struttura possa beneficiare di un incremento di resistenza
a flessione e taglio, conferito grazie alla disposizione dei cavi che vengono opportunamente tesati. Il
tracciato dei cavi, che viene stabilito nella fase di progettazione dell’intervento, viene definito ed
assicurato attraverso l’impiego di apposite selle di deviazione o semplicemente deviatori, che posti nelle
posizioni opportune, conferiscono al cavo il tracciato ottimale prescelto, e che normalmente è
rappresentato da una spezzata. Questo tipo di intervento consente di recuperare una deficienza statica
iniziale della trave da ponte, che può essere dovuta al degrado normale o dovuto a danni accidentali,
ma anche semplicemente consente di recuperare una deficienza iniziale di resistenza se il ponte è stato
progettato con una normativa precedente. E’ un tipo di intervento che consente di recuperare anche
parzialmente o totalmente dai quadri fessurativi presenti, perché se opportunamente calibrato consente
di chiudere le lesioni, anche perché questo tipo di intervento contribuisce anche a fornire una benefica
riduzione delle frecce, richiudendo le lesioni presenti. La tecnica della precompressione esterna è
impiegata non soltanto per intervenire su strutture esistenti, ma è utilizzata anche per la realizzazione
di strutture nuove, come ad esempio delle particolari coperture, dei solai o ponti pedonali realizzati con
questa tecnica. L’indubbio vantaggio che tale tecnica possiede è la facile ispezionabilità dei cavi rispetto
alle strutture classiche in c.a.p. con cavi interni, e consentono di applicare dei metodi di controllo non
distruttivi come la dispersione del flusso magnetico proprio perché i cavi sono in vista, sono facilmente
sostituibili, e si possono sottoporre a successive ricalibrazioni della tesatura, all’occorrenza.
La messa in opera di un intervento di questo tipo prevede l’ausilio di ancoraggi di testata, costituiti da
piastre con una particolare forma a cuneo per potersi adattare nella zona di ringrosso della trave che ha
uno spessore variabile, e inoltre la disposizione di selle ovvero i deviatori che sono posizionati nella zona
intermedia. Sono elementi di carpenteria metallica da progettare in maniera classica tenendo conto
delle forze in gioco. La sella deve essere conformata in modo tale da ridurre al minimo le sollecitazioni
sugli elementi in calcestruzzo armato su cui si va ad installare, pertanto va allettata con malte
fibrorinforzate e a ritiro compensato, per cui la parte metallica non è a diretto contatto con la parte in
calcestruzzo ma viene prima messa in posizione per poi procedere con il riempimento dell’intercapedine
tra sella e trave in ca, in modo tale da avere una zona cuscinetto, avendo un contatto migliore che
altrimenti non sarebbe perfetto ponendo a diretto contatto la parte metallica con il calcestruzzo, per via
delle imperfezioni esistenti sul calcestruzzo.

La conformazione dei deviatori, deve essere tale da minimizzare le concentrazioni di tensione, e devono
essere dotati di un certo raggio di curvatura, legato anche al tipo di cavi che si utilizzano. Quelli
solitamente impiegati sono di due tipi:

• Cavi con dei trefoli accostati all’interno di una malta di cemento oppure grasso, e i trefoli sono
poi contenuti all’interno di una guaina protettiva di polietilene, in grado di inibire la corrosione
• Una seconda soluzione maggiormente utilizzata è quella in cui i trefoli all’interno sono a loro
volta protetti da una propria guaina con del grasso interposto, dopo di che i trefoli vengono messi
insieme e immersi in una guaina di polietilene, iniettata con una malta di cemento. Tale soluzione
fornisce una protezione dalla corrosione maggiore perché i singoli trefoli sono protetti a loro
volta da una guaina propria.
Per la progettazione dei cavi si può ricorrere alle schede tecniche dei produttori, che in funzione del
diametro e del tipo di acciaio forniscono il carico di rottura del cavo stesso. Altra informazione
importante che bisogna acquisire è relativa al raggio di curvatura minimo da attribuire ai deviatori,
il quale è sempre fornito dai produttori in funzione del tipo di cavo scelto. Il raggio prescritto,
garantisce che non vi siano danni al cavo in corrispondenza della sella quando il cavo è soggetto al
tiro di progetto, che ovviamente sarà molto inferiore al carico di rottura del cavo. La progettazione
di questi dettagli costruttivi, che sono elementi di carpenteria metallica specifici perché realizzati in
base alle dimensioni del ponte da recuperare, va eseguita in modo congiunto con il produttore dei
cavi.
La peculiarità delle strutture che beneficiano di questa tecnica di recupero, è che certamente sono
sottoposte a delle variazioni del tiro presente nei cavi. Queste variazioni dipendono sicuramente dalle
dilatazioni termiche che in corrispondenza di un aumento della temperatura, provocano un
allungamento del cavo per cui a parità di percorso imposto, si determina una riduzione di tiro, per cui
si deve lavorare in un range di temperatura massima e minima che si può avere, e rispetto alla
temperatura di installazione. Il cavo è soggetto ad un certo rilassamento come tutti gli elementi
metallici soggetti ad elevate tensioni, che per questo tipo di cavi per interventi di precompressione
esterna risulta contenuto e talvolta si può trascurare perché i trefoli sono di acciaio ad alta resistenza
progettati per avere un livello di rilassamento molto basso. L’aspetto che maggiormente influenza il
tiro è l’attrito che si registra in corrispondenza dei deviatori. Nel momento in cui si sottopone il cavo
ad un tiro, si può supporre che sia costante lungo il tracciato, anche se costante in realtà non è perché
in corrispondenza dei deviatori nasce una componente verticale del tiro per forza di cose per via di un
cambio di percorso che determina una componente verticale, la quale è una componente di forza che
preme il cavo sul deviatore, per cui questo sforzo di contatto tra i cavo e il deviatore crea attrito il quale
dipende molto dalle superfici che si trovano a contatto, e in particolare tra acciaio e polietilene varia
tra il 5% e il 7% (0.05-0.07) il che vuol dire che è un coefficiente di attrito molto basso ma comunque è
presente. Quindi una volta applicato uno sforzo di tiro T nel tratto estremale, questo valore si manifesta
pari al 100% ne primo tratto immediatamente successivo all’estremità del cavo, mentre nel secondo
tratto il tiro ha un valore diverso pari a T2, perché si deve sottrarre una quantità pari a V1 per mu cioè
la componente verticale di contatto tra il cavo e la sella moltiplicata per il coefficiente di attrito, fornisce
una componente orizzontale di resistenza parassita, che fa si che il cavo nel tratto intermedio
successivo (quello centrale in figura) avrà un tiro T2 minore di T. Allo stesso modo se si considera il
terzo tratto, il tiro risulterà ancora minore. In un primo dimensionamento si può anche trascurare
questa perdita di tiro, ma quando si effettuano delle verifiche definitive per progettare l’intervento di
rinforzo se ne deve tenere conto.
Nel momento in cui si progetta un intervento di questo genere, si devono soddisfare due esigenze: la
verifica dello stato limite di esercizio in particolare per quanto riguarda la formazione delle fessure e il
contenimento dell’ampiezza delle fessure stesse. Però siccome spesso l’intervento è eseguito su
strutture ammalorate già interessate dalla presenza di un quadro fessurativo, è possibile calibrare
l’intervento anche per poter ridurre l’ampiezza delle fessure o annullarla completamente, per cui
un’operazione di questo tipo è molto benefica per la struttura perché si riduce tantissimo l’evoluzione
dei fenomeni corrosivi. Per quanto riguarda invece la verifica allo SLU, che è la più importante, si deve
valutare il momento agente allo stato limite ultimo sulla trave di bordo, ma anche su quelle intermedie
proprio perché si può calibrare il tiro nei singoli dispositivi, in modo differenziato tra la trave di bordo
più sollecitata e quelle intermedie, in modo tale da garantire un incremento con l’intervento posto in
essere, di resistenza flessionale della trave, tale da garantire il soddisfacimento della verifica stessa allo
stato limite ultimo.
Per la scelta dello stato limite ultimo bisogna sempre porsi nella logica delle linee guida, valutando a
monte lo stato limite da verificare come ad esempio l’adeguamento, ovvero transito libero dei carichi di
normativa senza limitazioni, l’operatività ovvero transito dei carichi di normativa su una carreggiata
ristretta, oppure la transitabilità cioè transito di carichi conformi al codice della strada, pesanti o leggeri.
Quindi è importante stabilire a monte quello che si vuole fare se garantire la sicurezza a pieno carico,
oppure riferirsi all’operabilità o alla transitabilità, e tale scelta va fatta in concomitanza con il gestore del
ponte, e delle sue condizioni di conservazione perché se risulta molto ammalorato e ci si rende conto che
per ottenere il pieno adeguamento rispetto alle norme tecniche si dovrebbe mettere in atto un intervento
molto oneroso, allora è il caso di porsi un obiettivo meno ambizioso, ripiegando ad esempio
sull’operatività o al limite sulla transitabilità. Dipende dall’importanza del ponte dalla strategicità e il tipo
di interventi che ragionevolmente possono essere attuati.
I metodi di calcolo dell’intervento di precompressione esterna sono 3: il metodo cinematico che è il meno
usato e si basa sull’ipotesi che la rottura della trave avvenga per un determinato valore della freccia, e in
particolare si può ipotizzare che la condizione ultima della trave in cui l’acciaio è snervato e il calcestruzzo
compresso superiore raggiunge la massima deformazione ammissibile del 3,5 per mille, avvenga per un
determinato valore della freccia. Quindi la rotazione totale nella sezione di mezzeria, è quella che
condiziona la rottura ed è determinabile mediante la teoria degli stati limite ultimi, ovvero la teoria che
consente di calcolare il momento resistente di una sezione in cemento armato, per cui una volta stabilito
qual è la curvatura per cui si attinge la rottura della sezione, si può anche calcolare la freccia f, perché
conoscendo la rotazione nella mezzeria che porta alla rottura della sezione, si può risalire alla freccia.
Ipotizzando che la rottura avvenga per un valore della freccia definita come una certa percentuale della
luce (nell’esempio 2% della luce della trave). Si definisce x l’asse neutro posto pari alla distanza tra il lembo
inferiore della sezione e l’asse neutro stesso. La rotazione F di metà della campata della trave, è pari al
rapporto tra f/L/2 tra freccia e metà della luce e quindi 2f/L. Dopo di che sapendo che il centro di rotazione
della cerniera plastica che si viene a formare in mezzeria della trave coincide proprio con la posizione
dell’asse neutro, è possibile calcolare l’allungamento dei due punti estremi inferiori che tendono ad
allontanarsi reciprocamente, ed è pari a 2*F*x, facendo l’ipotesi di conservazione delle sezioni piane
poiché la rotazione è molto piccola dunque anche ad avvenuta rotazione nella condizione deformata, l’asse
neutro ha sempre lunghezza x. Sostituendo quindi le espressioni dedotte si ha:
Una volta noto l’allungamento delta L si può risalire al tiro nel cavo pari al prodotto della tensione s per
l’area resistente del cavo, somma delle aree dei singoli trefoli presenti, e questo prodotto è equivalente
ad E modulo di Young per la deformazione e dato che s=Ee e in tal caso la deformazione è proprio pari
all’allungamento calcolato in precedenza delta L rapportato alla lunghezza iniziale del cavo, che si può
anche approssimare alla luce della trave dato che il suo tracciato si discosta poco dalla rettilineità. Bisogna
valutare se è il caso di ridurre leggermente il modulo elastico oppure no in funzione del fatto che non si
ha a che fare con una sezione di acciaio piena ma una serie di trefoli all’interno di guaine ed una malta di
riempimento e protettiva, ed inoltre come visto per i ponti strallati si perviene ad un modulo elastico
ridotto per le funi, perché esse hanno un tracciato influenzato dal peso proprio del cavo stesso, per cui il
modulo elastico è ridotto rispetto a quello dell’acciaio. In questo caso tale problema però non si pone
perché i tracciati dei cavi sono molto brevi in genere, per cui il peso incide comunque poco rispetto agli
stralli dei ponti e quindi il problema del modulo elastico ridotto dovuto al peso proprio non si pone, ma
può esserci un problema legato al tipo di sezione che si utilizza e quindi a come sono fatti i trefoli.
Quindi ricapitolando si analizza la sezione resistente in cemento armato o cap mediante la teoria degli
stati limite pervenendo alla regione di rottura, grazie alla conoscenza della quale si è in grado di valutare
a che livello di rotazione relativa tra le due facce della trave si giunge alla condizione ultima, ottenendo la
F grazie alla quale trovare poi l’allungamento cui il cavo è sottoposto, ed il conseguente tiro.

Moltiplicando poi il tiro così ottenuto per il braccio delle forze interne, sostanzialmente lo si dovrebbe
moltiplicare per x perché il tiro T genera un momento rispetto all’asse neutro T*x che è un momento
resistente aggiuntivo, che comporta un incremento di resistenza.
Il secondo metodo è molto simile al primo ma semplicemente si tiene in conto delle reazioni in direzione
verticale generate in corrispondenza dei deviatori, da parte del cavo. Tali reazioni verticali generano un
momento negativo perché sono rivolte verso l’alto, e tale momento si va a sottrarre pertanto ai momenti
generati dal peso proprio della trave e dai carichi mobili, per cui in qualche modo si tiene conto
dell’intervento non come un incremento di resistenza, ma come una riduzione delle sollecitazioni, e ciò
che interessa maggiormente è che ci sia sempre un corretto bilanciamento tra resistenza e azioni.
Il terzo metodo consiste semplicemente nell’assegnare un valore del tiro ai cavi con il quale è poi possibile
calcolare l’asse neutro della sezione della trave, facendo l’equilibrio alla traslazione orizzontale delle forze,
esattamente a come si fa nell’analisi allo stato limite ultimo per tensioni normali nelle sezioni in cemento
armato, per cui una volta trovata la posizione dell’asse neutro si può calcolare il momento resistente con
le formule note. Quindi si va a determinare qual è il tiro nei cavi che genera un incremento del momento
resistente sufficiente a quelle che sono le necessità. Il secondo e terzo metodo sono più conservativi
rispetto al primo, perché non ipotizzano una deformata a rottura ma il cavo genera un incremento di
resistenza nel metodo 3, oppure una riduzione delle sollecitazioni nel metodo 2, facendo in modo di poter
lavorare su una condizione indeformata della struttura, e quindi con un valore di tiro preassegnato. Già è
noto che anche in assenza di carichi mobili si dovrà fornire un certo tiro ai cavi per poter ottenere
l’incremento di resistenza. Invece nel metodo 1 si potrebbe anche disporre il cavo in maniera appena
tesata, cioè senza attribuirgli un vero e proprio tiro ma facendo in modo che il tiro si venga a generare
soltanto nel momento in cui si assiste ad una deformazione della trave quindi corrispondente ad un
abbassamento significativo, il che vuol dire far lavorare il cavo in maniera passiva, cioè solo laddove ci sia
la necessità ovvero sollecitazioni eccessive che portino a rottura o comunque rotazioni in mezzeria della
trave molto elevate. Questo è poco conservativo perché comunque si vuole prevenire una condizione
simile, e dunque bisogna cercare di utilizzare dei cavi che abbiano un livello di tiro iniziale significativo,
anche in assenza di carichi mobili.

Si analizza di seguito un esempio:

La campata di questo viadotto è stata adeguata con un sistema di precompressione esterna. Per la
progettazione dell’intervento si ipotizza la presenza di carichi mobili che generano un carico flettente
equivalente da traffico sulla trave di bordo, pari a 60 KN/m che può essere stimato conoscendo la
larghezza del ponte, il numero di travi e l’interasse, con il metodo di Courbon-Engesser, a partire dai
carichi previsti da Normativa valutati nella condizione di adeguamento ossia carichi di Normativa pieni al
100 % senza alcuna limitazione. Quindi si dispongono le corsie di carico convenzionali sulla piattaforma
stradale con la risultante posizionata in un certo punto della sezione trasversale, e ipotizzando un
comportamento torsio-rigido dell’impalcato, si arriva a stimare quanto vale il carico flettente equivalente
da traffico sulla trave di bordo. Inoltre si valutano il carico distribuito permanente strutturale dovuto al
peso proprio della trave di bordo più le porzioni di soletta, cordolo e barriera di sicurezza portate, che
rientrano nel G1, mentre il carico distribuito permanente non strutturale G2 in cui rientra la sola
pavimentazione, e si può cosi definire un carico complessivo ricorrendo alla combinazione fondamentale
mediante l’uso dei coefficienti di Normativa, e in funzione di questo carico distribuito complessivo si può
calcolare il momento flettente massimo Med valutato su schema di trave doppiamente appoggiata quindi
q*l^2/8. Con il valore così ottenuto si può andare a stimare, una volta conosciuta la trave di bordo nella
sua geometria, sapendo qual’ è il cls di cui è composta e le armature sia lente che di precompressione di
cui dispone, mediante il metodo 3 di analisi delle sezioni allo SLU si può calcolare il valore del tiro in grado
di garantire un valore del momento flettente resistente della trave maggiore del momento agente.
Pertanto si può in prima battuta ipotizzare un valore del tiro di primo tentativo, che è pari al doppio del
tiro del singolo cavo poiché è somma di due contributi, per cui ipotizzando la regione di rottura e
conoscendo l’armatura presente nella trave, si può determinare dall’equilibrio alla traslazione la posizione
dell’asse neutro, grazie alla quale si può calcolare il momento resistente della sezione, che deve essere
confrontato con il momento agente, e deve risultare superiore al momento agente. Se si rientra in una
condizione di questo tipo allora il tiro nel cavo è soddisfacente, però si deve considerare un aspetto
importante ovvero che quello calcolato è il valore del tiro che si deve avere al netto delle cadute di
tensione dovute all’attrito come visto in precedenza. Se invece si tiene conto del fatto che il tiro è soggetto
ad una caduta di tensione secondo un coefficiente 1-k, dove k rappresenta la caduta di tensione dovuta
alla presenza dei deviatori, si ottiene il valore effettivo di T che si deve invece applicare in corrispondenza
delle selle, dividendo il valore di T calcolato, per (1-k). Essendo 1-k un valore minore di 1, è chiaro che il
valore di T’ da applicare è maggiore di quello calcolato cioè T proprio per fronteggiare le cadute di
tensione. I fenomeni lenti si considerano esauriti quindi non c’è presenza di viscosità e ritiro da
considerare, e comunque sono fenomeni che non vengono considerati a prescindere perché si sta
eseguendo nell’ottica di questo metodo (il metodo 3) un’analisi agli stati limite ultimi per cui non interessa
il modulo elastico del calcestruzzo, ma interessa la resistenza del cls stesso ed il valore della resistenza a
compressione di progetto fcd. I fenomeni lenti influiscono solo in un calcolo agli stati limite di esercizio,
perché si deve tener conto in tal caso del modulo elastico del cls, e del fatto che si deve considerare un
coefficiente di omogeneizzazione che tiene conto appunto della maturazione e dei fenomeni viscosi.
Quindi solo per verifica allo stato limite di esercizio si deve tener conto di fenomeni lenti già avvenuti, per
cui è necessario calcolare un valore di n che è il coefficiente di omogeneizzazione, a tempo infinito. Nell’
ottica invece del metodo 2, che come il precedente non è da intendersi come un metodo di verifica ma
metodi di primo dimensionamento, perché comunque in seguito è possibile elaborare un modello
complessivo accurato agli elementi finiti che consentono di gestire elementi come i cavi. Per il caso
specifico si può notare che i deviatori sono stati posti in corrispondenza dei due trasversi intermedi, cioè
quelli posti ad una distanza di L/4 da un appoggio e dall’altro.
La componente verticale V che viene scambiata tra il cavo e il deviatore, genera un andamento
trapezioidale del momento flettente come quello in figura con valore costante pari a -V*L/4 nella zona
compresa tra i trasversi intermedi. Tale momento è in realtà un delta M, perché non è un momento vero
e proprio ma una variazione di momento flettente, perché la struttura è soggetta a determinate
sollecitazioni sotto i carichi permanenti e variabili quando presenti. Quindi se si tiene conto che in
corrispondenza del deviatore si ha un certo tiro T, il quale ha due componenti una verticale V ed una
orizzontale, in particolare la relazione tre V e T è pari a V=T*sin(a) funzione dell’inclinazione del cavo. Si
supponga di avere dalla verifica a flessione della trave di bordo un valore di zita con v che è il rapporto tra
momento resistente della trave e il momento agente, pari a 0,8. Il momento resistente se si effettua
un’analisi ad adeguamento, si valuta con pieni valori dei carichi di Normativa, e in tal caso vuol dire che
allo stato di fatto la trave ha un momento resistente pari all’80% di quello che servirebbe per soddisfare
la verifica, per cui l’obiettivo è quello di ottenere un valore di zita con v pari ad 1, facendo in modo che
l’Mrd della trave proprio senza nessun incremento di resistenza più il delta con M rapportato ad Med
momento agente, sia pari ad 1, il che vuol dire ovviamente che il delta con M ovvero l’incremento di
momento resistente dovuto alle reazioni verticali in corrispondenza de deviatori, deve generare un
momento pari al 20% di Med che è stato valutato precedentemente. Sapendo inoltre il valore di delta M
pari a V*L/4 in valore assoluto come visto in precedenza, si può ottenere V pari a delta M per 4 diviso la
luce L. Quindi una volta dedotta la componente verticale V si può poi risalire al tiro da attribuire al cavo
rapportando V al seno dell’angolo di inclinazione del cavo per la relazione che intercorre tra T e V. Il tiro
così valutato va diviso per il numero di cavi presenti in corrispondenza di ciascuna trave di solito 2, per cui
è possibile accedere alle tabelle fornite dai produttori, scegliendo un cavo con un carico di rottura
abbondantemente superiore al valore così ottenuto da calcolo, supponendo ad esempio di garantire un
coefficiente di sicurezza di 1,5. Nello specifico trattandosi di elementi non direttamente trattati da
normativa, conviene anche riferirsi ai valori dei coefficienti di sicurezza suggeriti dal produttore, il quale
oltre a fornire il carico di rottura fornisce anche un carico raccomandato di lavoro del cavo.
INTERVENTI SUGLI APPARECCHI DI APPOGGIO
La sostituzione degli apparecchi di appoggio è un intervento frequente proprio perché soprattutto quelli
metallici sono elementi soggetti a degrado in particolare alla corrosione, ma anche quelli in neoprene
sono soggetti a decadimento, per via dell’invecchiamento della gomma che tende a subire un indurimento
per via della trasformazione a livello cristallino nella gomma che comporta il fatto che questa abbia una
rigidezza maggiore di quella che ha in origine. La maggiore rigidezza della gomma è una condizione da
evitare perché ovviamente ne risente la deformabilità dell’appoggio, che tende a ridursi per cui anche per
le sole variazioni termiche a trave da ponte ha necessità di allungarsi e accorciarsi, l’appoggio danneggiato
non consentirà tali allungamenti con i livelli di forza molto contenuti che dovrebbe garantire, ma
ovviamente se la gomma si indurisce, la rigidezza aumenta per cui a parità di spostamenti imposti dalle
deformazioni termiche, i livelli di forza scambiate all’interfaccia tra la trave e la gomma aumentano.
Questo vuol dire che si potrebbe avere anche lo spostamento dell’apparecchio in gomma fino alla perdita
di appoggio. In tali casi va valutata la possibilità di sostituire gli apparecchi di appoggio, proprio perché
come osservato il malfunzionamento di questi può comportare la variazione dello schema statico, da uno
schema in cui in presenza di un appoggio in gomma si può di fatto ipotizzare che la trave possa avere uno
spostamento orizzontale con una certa rigidezza, mentre in seguito col passare del tempo tale rigidezza
cambia. Anche la corrosione di altri tipi di apparecchi come quelli a rullo o a cerniera rappresenta una
condizione di degrado.

Per la sostituzione degli apparecchi di appoggio si devono sollevare le travi del ponte, il che è
un’operazione delicata. Il sollevamento si può fare sia contemporaneamente su entrambi i lati del ponte
cioè sia su un pulvino che sull’altro dove poggia l’impalcato, oppure su un pulvino per volta, e l’aspetto
importante da tener presente è che il sollevamento va eseguito sull’ intera linea delle travi
contemporaneamente e non è consentito il sollevamento differenziato di una trave per volta poiché
essendo tutte rigidamente connesse nell’impalcato mediante i trasversi, questo provocherebbe delle
sollecitazioni eccessive in questi elementi. Operativamente vengono applicati dei martinetti che possono
disporsi sia sotto le travi direttamente se è presente lo spazio necessario, oppure sotto i trasversi se lo
spazio sotto le travi non è sufficiente, e tra le due condizioni è sicuramente preferibile la disposizione
sotto le travi perché possono sopportare meglio la sollecitazione indotta dal martinetto, in quanto la forza
da applicare è già quella che la trave stessa scarica nella zona di appoggio, pertanto si ha la certezza che
è in grado di sopportarla. Se invece non c’è lo spazio necessario a disporre i martinetti sotto la trave,
questi vengono messi a contrasto con i trasversi che però non sono fatti per sostenere una sollecitazione
elevata. L’entità del sollevamento può anche essere di pochi millimetri giusto il necessario per rimuovere
gli apparecchi ammalorati e inserire quelli nuovi. Siccome molto spesso non si dispone di trasversi
resistenti abbastanza per poter fare una simile operazione, bisogna provvedere in primo luogo a
rinforzare i trasversi, i quali vanno innanzitutto indagati in maniera estensiva acquisendo un livello di
conoscenza accurato quindi il massimo livello di conoscenza possibile, proprio per avere maggiori certezze
sulla capacità resistente dei trasversi stessi. Oltre a questo si deve sicuramente prevedere un intervento
di rinforzo, affiancando al trasverso esistente e collegando ad esso con degli elementi inghisati, un
elemento in grado di incrementare la sezione resistente in modo tale che il martinetto possa essere
disposto al di sotto del trasverso prendendo sia la parte nuova che la vecchia, avendo un trasverso più
resistente che consente di sollevare il ponte. Questo si può fare tramite modellazioni accurate di quella
che è la resistenza dei trasversi e soprattutto attraverso un’indagine accurata per poter determinare le
caratteristiche de trasversi sia in termini di dettagli costruttivi che di proprietà e resistenza dei materiali
costituenti. Una operazione che spesso si fa è quella di sostituire gli apparecchi di appoggio, con degli
isolatori sismici, ed è l’intervento più diffuso sui ponti esistenti in termini di adeguamento sismico. Le
operazioni esecutive in tal caso sono sempre le stesse ossia sollevamento del ponte e nello specifico è
prevista la demolizione parziale del baggiolo che consente di avere lo spazio sufficiente da occupare con
la disposizione dell’isolatore sismico, il quale ha solitamente uno spessore di circa 20 cm, molto più grande
di un comune dispositivo di appoggio, pertanto è necessario demolire parzialmente il baggiolo per poterlo
inserire.
SOSTITUZIONE DEI GIUNTI
Tale intervento è un’operazione che dal punto di vista statico strutturale non crea particolari
problematiche e non richiede l’esecuzione di calcoli, ma bisogna scegliere in base ai dettagli costruttivi
della situazione allo stato di fatto quindi all’interfaccia tra le due campate dove si va ad intervenire, quale
sia la soluzione migliore. Si deve conoscere quanto distano le parti da giuntare, come sono fatte quale
forma hanno e che armature hanno. La necessità di sostituire i giunti può essere determinata da varie
problematiche ad esempio legati alla continuità del piano stradale che comporta la presenza di parti
interessate da un certo dislivello, oppure sebbene non ci siano dislivelli i giunti possono essere in uno
stato di cattiva conservazione dovuto ad esempio a condizioni di lavoro non previste in cui il giunto ha
dovuto sostenere spostamenti maggiori di quelli per cui è stato progettato. Altra condizione che può
portare alla sostituzione del giunto è l’assenza di impermeabilità, la cui manifestazione principale si ha
per via della presenza di un pulvino molto umido, che è un chiaro segnale di percolazione di acqua in
corrispondenza del giunto. Non ci sono aspetti specifici per questi interventi dato che non ci sono calcoli
da effettuare, ma si deve sceglier il tipo più adatto anche in relazione ai carichi da sopportare, e allo
spostamento relativo tra le due campate che deve essere consentito dal giunto stesso. Per sostituire un
giunto si chiudono le corsie alternativamente, operando prima da una parte poi dall’altra.

RISANAMENTO DI SPALLE E PULVINI


E’ una problematica che affligge diversi ponti proprio perché spesso si assiste ad una cattiva
conservazione dei giunti i quali vengono sostituiti sesso molto tempo dopo rispetto a quando se ne
determina la necessità, il che fa si che le acque possano percolare dalla piattaforma stradale sul pulvino
degradandolo abbondantemente. Oltre all’acqua infiltrata bisogna considerare il contributo delle piogge
dirette sulla parte effettivamente esposta, oltre alle acque di piattaforma non correttamente regimentate
e smaltite, che quindi creano le condizioni più favorevoli per la corrosione molto diffusa sul pulvino,
accompagnata da fessurazione ed effetto spalling di espulsione del copriferro che favoriscono il rapido
avanzamento della corrosione delle armature.
La presenza di lesioni orizzontali e sub-orizzontali sul pulvino non deve destare preoccupazione per
quanto concerne l’integrità statica dell’elemento strutturale. Molto più preoccupanti sono invece le
lesioni a 45 gradi oppure verticali che invece derivano da taglio e flessione, mentre le lesioni orizzontali
sono certamente legate alla corrosione delle armature seguendo un percorso che ripercorre lo sviluppo
della barra stessa, e prelude alla fase di espulsione del copriferro poiché i prodotti della corrosione avendo
un volume maggiore del materiale base, provocano delle spinte interne alla matrice del calcestruzzo che
risulta sottoposto a sforzi di trazione insostenibili fessurandosi e successivamente portando allo spalling.
Condizioni simili di degrado sono spesso dovuti ad un cattivo smaltimento delle acque, ad esempio
quando la scossalina situata al di sotto del giunto tra due campate adibita al raccoglimento e
allontanamento delle acque stesse, non sia munita di un discendente adatto a fare in modo che l’acqua
venga allontanata superando la parte strutturale senza interessarla con diretto contatto.
Per effettuare interventi di risanamento sui pulvini, se questi sono molto pesanti necessitano della
predisposizione di puntellature, in seguito è necessario procedere con la rimozione mediante
idrodemolizione del calcestruzzo superficiale ammalorato ovvero tutto lo strato di copriferro, ed è poi
possibile procedere con un trattamento passivante delle armature esposte mediante apposite vernici
antiruggine, e quindi si può poi ricostruire lo strato corticale del calcestruzzo di 3-4 cm a seconda delle
esigenze, tramite malte cementizie tixotropiche che sono particolari tipi di malte a ritiro compensato ed
a elevata resistenza ed in grado di inibire fortemente la corrosione, definire un’efficace barriera
all’ingresso di cloruri e al processo di carbonatazione. Contestualmente alla ricostruzione dello strato
corticale è possibile arrotondare gli spigoli, questa operazione è funzionale per garantire la corretta
applicazione di fasce di materiale fibrorinforzato, le quali costituiscono un’armatura a taglio aggiuntiva,
oltre alla disposizione di lamine di FRP sulla zona estradossale del pulvino per ottenere un incremento di
resistenza a momento negativo, che è la condizione tipica di lavoro del pulvino dato che gli scarichi delle
travi poste superiormente ad esso generano un momento che tende le fibre superiori. Questa soluzione
non è sempre perseguibile per via della presenza dei baggioli su cui poggiano le travi, e dunque lo spazio
per la disposizione di queste lamine è talvolta limitato. Quindi una soluzione alternativa potrebbe essere
quella di prevedere una precompressione esterna del pulvino, con delle barre di acciaio, che disposte sui
lati del pulvino generano un incremento di resistenza flessionale. Questi tiranti da disporre, vanno
collocati ad un’altezza dal baricentro del pulvino opportuna, facendo un calcolo a flessione della sezione
che possiede una sua armatura di base presente all’interno, alla quale si va ad aggiungere lo sforzo di
trazione indotto nelle armature di precompressione esterna, facendo un calcolo allo SLU, valutando
l’incremento di resistenza flessionale garantito.

I materiali fibrorinforzati impiegati negli interventi sono composti da fibre ad alta resistenza disposte
lungo una o più direzioni, all’interno di un materiale polimerico ad alta resistenza. Questo materiale
polimerico è sostanzialmente una resina in grado di accogliere le fibre stesse. I tessuti di fibre possono
essere unidirezionali oppure bidirezionali o ancora quadriassiali. L’impiego dei diversi tipi di fibre che
vengono incollate esternamente sulle superfici di calcestruzzo, è eseguito in base al risultato che si vuole
ottenere poiché spesso come accade ad esempio nel caso in cui si voglia ottenere un incremento di
resistenza a flessione, per cui il materiale fibrorinforzato deve lavorare come un’armatura metallica quindi
sollecitata prevalentemente in una direzione, per cui vuol dire che sono sufficienti delle fibre
unidirezionali. Se invece si devono fronteggiare degli stati tensionali composti biassiali o triassiali si ha la
necessità di utilizzare fibre bidirezionali o quadriassiali che esplicano una resistenza in quattro direzioni
diverse che sono le direzioni di massima resistenza. Le fibre possono essere di diverso materiale: carbonio,
aramide, vetro, basalto e boro che sono i più utilizzati e diffusi.

I materiali fibrorinforzati si possono trovare sia i termini di tessuti secchi da impregnare (in basso a sinistra
nella slide precedente) e sono confezionati in rotoli e quindi risultano facilmente tagliabili per potersi
adattare facilmente alla superficie di calcestruzzo da rinforzare. Questi tipi di tessuti all’atto
dell’incollaggio vanno impregnati con una matrice polimerica, disponendo ad esempio una o più mani di
resina epossidica che appunto costituisce la matrice del fibrorinforzato. Esistono poi anche dei materiali
definiti pultrusi, ovvero delle fibre che sono già preimpregnate, e sono quindi delle lamine che
contengono al loro interno delle fibre di carbonio, aramide ecc. Quindi sono già provvisti sia di matrice
che di fibre in un unico prodotto. Le lamine così costituite sono però meno flessibili e meno duttili
nell’utilizzo rispetto al tessuto semplice, e non sono pertanto vendibili in rotoli.
Il comportamento meccanico delle fibre è di tipo elasto-fragile, ma nonostante questo è comunque
funzionale perché nella sua fragilità ha comunque delle resistenze molto elevate. Si può osservare il
confronto del comportamento con un acciaio che ha una resistenza allo snervamento di 4-5 Mpa mentre
il range di comportamento delle fibre di carbonio (CFRP) evidenziato dal triangolo a sinistra, mostra come
la deformazione a rottura possa raggiungere valori al più del 2% mentre l’acciaio raggiunge anche valori
del 20% a seconda del tipo di acciaio utilizzato. Quindi le fibre sono molto meno duttili dell’acciaio e
soprattutto sono prive nel legame costitutivo del ramo di snervamento, e si rompono dunque in
condizioni elastiche, raggiungendo la massima resistenza per poi rompersi. Le fibre di aramide invece
hanno un comportamento compreso nel poligono campito con quadratini, (AFRP) e quello vicino definisce
il comportamento delle fibre di vetro (GFRP), e si evidenzia che sono meno rigide e resistenti di quelle di
carbonio, ma molto più duttili perché possono subire delle deformazioni maggiori, manifestando
comunque sempre lo stesso tipo di comportamento di tipo fragile per cui si rompono senza mostrare una
deformazione plastica e non sono sottoposte a snervamento.
Le fibre sono ampiamente impiegate per via dello spazio ridotto che occupano essendo di spessore ridotto
realizzando quindi un rinforzo che non comporta aggravio di peso nella struttura. L’incremento di
resistenza che garantiscono, non è solo legato alle caratteristiche del materiale fibrorinforzato, ma anche
alla resistenza e alle caratteristiche di conservazione del supporto costituito dall’elemento in cemento
armato da rinforzare. Se lo stato di conservazione del supporto infatti non risulta buono, l’intervento
potrebbe non avere gli effetti sperati ecco perché è sempre opportuno ricostruire lo strato superficiale di
calcestruzzo previa demolizione completa del copriferro ammalorato, e successiva ricostruzione dello
strato corticale con malte tixotropiche, che condizionano positivamente la buona riuscita dell’intervento.
Altro vantaggio dell’impiego di questi materiali per il rinforzo è che hanno elevata durabilità non essendo
soggetti a corrosione perché privi di materiali metallici.
Il rinforzo mediante fibre di carbonio di una trave doppiamente appoggiata soggetta a un momento
positivo, è eseguito mediante applicazione di lamine di tessuto da impregnare e incollare all’intradosso
della trave stessa, oppure mediante impiego di lamine pultruse ovvero lamine dotate già di matrice e
tessuto, pre-impregnata, da incollare alla parte inferiore avendo cura che tale parte sia in buone
condizioni per la buona riuscita dell’intervento. Il rinforzo a taglio invece consiste nella creazione di
cosiddette staffe fittizie mediante l’impiego sempre del fibrorinforzato che deve girare attorno alla
sezione per creare una forma ad U in cui le parti verticali lavorano praticamente come staffe dando un
incremento di resistenza a taglio. È possibile anche la combinazione di questi due tipi di interventi per
ottenere contemporaneamente incremento di resistenza a flessione e taglio. Realizzare le staffe fittizie
rigirando il fibrorinforzato attorno alla trave, è molto difficile con le lamine perché meno duttili dei tessuti
che invece meglio si prestano ad adattarsi alla forma della sezione. L’ intervento di rinforzo mediante fibre
può anche essere accoppiato con altri interventi come la precompressione esterna che mediante il tiro è
in grado di determinare la chiusura di eventuali lesioni presenti nella trave.
RINFORZO DEGLI APPOGGI
Tale intervento può essere necessario qualora si tema per la struttura di interesse, una possibile perdita
di appoggio. Pertanto è necessario perseguire l’obiettivo di limitare gli spostamenti relativi tra il pulvino
e l’impalcato ovvero le travi. Questo si può ottenere in diversi modi, ad esempio tramite impiego di shock
trasmitter, i quali entrano in gioco solamente in presenza di azione sismica, bloccandosi e quindi
consentendo in tale eventualità di non avere spostamenti relativi tra impalcato e pulvino. Questa
possibilità si può raggiungere anche attraverso cavi di ritegno oppure selle di appoggio nel caso di trave
Gerber in cui di solito sono presenti delle zone di appoggio molto piccole e dunque il problema della
perdita di appoggio è sentito effettivamente, e si può rimediare collegando una trave metallica (steel
girder) esterna alla trave principale, in modo tale che questa prolungandosi vada ad interessare la trave
tampone con una zona di appoggio aggiuntiva più ampia. E’ un intervento provvisionale che
evidentemente entra in gioco solo quando ci sono delle azioni sismiche o un eccessivo deterioramento
della zona di appoggio tra trave principale e trave tampone che serve appunto a scongiurare l’eventuale
crollo della campata tampone stessa.
RINFORZO DELLE PILE
Il rinforzo delle pile si può eseguire in diversi modi, ed uno dei metodi di più largo utilizzo e di facile
applicazione poiché non necessita di lavorazioni molto particolari, è certamente l’incamiciatura in
cemento armato, che per i ponti risulta un intervento molto efficace, e si esegue asportando lo strato
corticale di copriferro ammalorato, dopo di che si esegue se necessario la passivazione delle armature
esistenti, poi si procede al montaggio di una nuova gabbia di armatura esterna a quella esistente, la quale
deve essere collegata tramite delle cravatte alla pila esistente. La presenza di queste cravatte o spilli
passanti, viene garantita dalla esecuzione di fori nella pila esistente, l’inserimento di queste cravatte e
l’inghisaggio mediante resina epossidica che consente il corretto fissaggio di questi ferri. Quindi una volta
disposta la nuova armatura e completato con il getto in calcestruzzo, si riesce ad ottenere un incremento
di sezione resistente che consente un incremento di resistenza flessionale e tagliante e anche di duttilità
perché i dettagli costruttivi che si impiegano per la parte nuova di pila ossia la corona attorno alla parte
esistente, sono certamente dei dettagli che soddisfano le normative attuali, consentendo un incremento
notevole di duttilità. E’ molto importante collegare i ferri nella zona fondale tramite esecuzione di fori in
cui vengono inseriti i ferri longitudinali aggiuntivi, anche essi inghisati con una resina epossidica, avendo
l’accortezza di prevedere un foro più ampio del diametro nominale della barra, proprio per garantire lo
spazio necessario alla resina epossidica. Questo intervento è più facilmente applicabile alle pile a fusto
unico o multiplo ma comunque piene e non cave, proprio per il fatto di poter facilmente forare la pil per
l’intero spessore e inserire le cravatte che quindi saranno molto efficaci nel contrastare l’instabilizzazione
delle barre nuove e facilitando la collaborazione della parte nuova di calcestruzzo con quella esistente.
Nelle pile cave questo tipo di intervento è meno efficace ma comunque perseguibile, con l’unica
accortezza di prevedere per il collegamento della corona di calcestruzzo realizzata attorno alla pila
esistente, degli elementi non passanti per l’intera sezione per consentire comunque la corretta
collaborazione.
L’intervento si può eseguire anche mediante incamiciatura in acciaio, tale tecnica è stata molto utilizzata
a seguito del terremoto del ’95 in Giappone, per l’adeguamento di molti ponti, dato che si è rivelata una
tecnica molto efficace per la riuscita stessa dell’intervento, anche se risulta meno economica
dell’incamiciatura in cemento armato, perché necessita di quantitativi di acciaio notevoli. Tale tipo di
incamiciatura funziona molto bene per le pile circolari in quanto la camicia riesce a conferire un ottimo
confinamento al calcestruzzo, funziona meno bene per le pile di forma allungata proprio perché la
presenza di lati molto lunghi fa si che l’effetto di confinamento della camicia su tali lati sia pressoché nullo
perché la camicia stessa è molto deformabile lungo tali direzioni e può subire spanciamenti che annullano
del tutto l’effetto contenitivo. La camicia da inserire tipicamente è costituita da due semi gusci metallici
circolari che vengono poi saldati in cantiere, avendo l’accortezza di lasciare un’intercapedine tra camicia
e pilla esistente così come accade nell’intervento di beton-plaquè per le travi, funzionale per poter poi
iniettare della resina epossidica che incolla la camicia metallica con il calcestruzzo, realizzando un
tutt’uno. Anche in tal caso è opportuno prevedere una sabbiatura al metallo bianco per la parte interna
della camicia, per cercare di ottenere il massimo effetto aggrappante da parte della resina, grazie alla
scabrezza superficiale. Questo tipo di intervento se non collegato alle fondazioni fornisce un incremento
di resistenza a taglio, e di duttilità della pila. Se invece lo si va a collegare alle fondazioni, grazie alla
presenza di un opportuno risvolto della camicia metallica che con un tirafondo viene collegata alla
fondazione solidarizzandola e facendo in modo che l’acciaio aggiuntivo presente nella sezione circolare
possa essere trasferito alle fondazioni, ed è pertanto un dettaglio costruttivo necessario da eseguire se si
vuole anche un incremento di resistenza anche a flessione.

Il rinforzo delle pile può essere fatto anche tramite incamiciatura in FRP, che è simile a quella in acciaio, e
consiste in una fasciatura perimetrale eseguita tramite dei tessuti che vengono impregnati e incollati alla
superficie, e se si impiegano tessuti di fibre unidirezionali, la direzione delle fibre che si dispone lungo la
circonferenza, perché si vuole appunto che lungo quella direzione si esplichi la massima resistenza a
trazione che consente di conferire uno stato di confinamento all’elemento in cemento armato, e tale
effetto confinante viene a crearsi proprio perché l’FRP disposto sul perimetro, contrasta la dilatazione del
calcestruzzo e quindi anche un eventuale effetto di espulsione del copriferro, ottenendo un incremento
della duttilità e della capacità di spostamento della pila, che è l’elemento principale che resiste alle azioni
sismiche. Se si vuole garantire un incremento anche della resistenza a flessione e non solo della duttilità,
di devono disporre delle lamine o dei tessuti anche in direzione verticale lungo il fusto della pila e
risvoltarle alla base in prossimità della fondazione, dove si devono introdurre degli elementi meccanici di
bloccaggio che consentono alle fasce in FRP di contribuire anche alla resistenza flessionale della pila.
Quindi è necessario disporre dapprima le lamine verticali da bloccare alla base, e in seguito eseguire la
fasciatura orizzontale con il tessuto unidirezionale, evitando anche in tal modo il distacco delle lamine per
effetto della flessione, ottenendo un duplice effetto da parte della fasciatura orizzontale. Talvolta
l’intervento di fasciatura può essere tale da essere eseguito seguendo una forma ellittica attorno alla pila,
e riempiendo poi l’intercapedine con del calcestruzzo, ed è un tipo di intervento da eseguirsi per le pile
con fusto di forma allungata facendo si che anche sui lati lunghi, il confinamento possa risultare più
efficace rispetto ad un fibrorinforzato disposto direttamente a contatto con il lato lungo stesso, il quale
produce un confinamento quasi nullo. In questo modo si ottiene un effetto benefico di confinamento da
parte dell’FRP, poi si ottiene un incremento di resistenza a flessione, e a taglio perché aumenta anche la
sezione, decidendo in base alle esigenze statiche e sismiche fino a che altezza si deve estendere tale
intervento, in quanto si hanno delle azioni sismiche che si possono ritenere applicate all’incirca nel
baricentro dell’impalcato, le quali creano un momento crescente lungo il fusto della pila, generando
maggiori problematiche nella zona di base dove questo momento è più elevato. Quindi se si hanno
solamente problematiche di resistenza flessionale e di duttilità, ci si può limitare al rinforzo della zona d
cerniera plastica, che subisce danni in caso d sisma plasticizzandosi. Nel caso in cui si hanno problemi
anche a taglio, si deve estendere invece il rinforzo a tutta l’altezza della pila, perché applicando una forza
sismica nel baricentro dell’impalcato, si ha un momento flettente con andamento crescente verso la base,
e massimo all’incastro, mentre il taglio risulta costante per cui se la sezione non risulta verificata a taglio,
non lo sarà in nessuna sezione lungo lo sviluppo longitudinale, e il rinforzo va pertanto esteso a tutta
l’altezza della pila.
Gli interventi con FRP su pile a fusto circolare, possono essere effettuate anche tramite metodi
automatizzati che riducono ancor più le incertezze e gli errori di posa in opera legati alla realizzazione
dell’intervento.
In presenza di pile a portale, uno degli interventi più semplici da fare è quello di trasformare la pila in un
setto riempiendo lo spazio vuoto tra due pile consecutive. Si va a forare la parte interna delle due colonne
consecutive per consentire l’inserimento dei ferri orizzontali della parete da inghisare opportunamente,
si effettuano le stesse operazioni anche sulla fondazione per inserire i ferri verticali, e una volta
completata la disposizione della gabbia di armatura, si effettua il getto per riempire la zona interessata,
trasformando una pila a portale con colonne, in una pila a setto, molto più resistente della configurazione
precedente.

Oltre però all’incremento di resistenza si determina un incremento della rigidezza del setto, che provoca
una riduzione del periodo di vibrazione il che è una condizione sfavorevole poiché può essere
accompagnata da un incremento delle azioni sismiche significative, dato che l’incremento delle
accelerazioni spettrali può essere dell’ordine del 50-70%. Pertanto questa condizione deve essere
compatibile con la resistenza che si è ottenuta mediante l’intervento. Ecco perché l’intervento principale
che si utilizza per l’adeguamento sismico sei ponti è sempre l’isolamento, che invece va nella direzione
opposta ovvero aumentare il periodo di vibrazione della struttura sconnettendo l’impalcato dalle pile
riducendo gli effetti sulle stesse.
Se si ottiene un incremento di rigidezza e resistenza della pila, questo si ripercuote sulle fondazioni,
perché se la pila diventa più prestante potendo sostenere sollecitazioni taglianti e flettenti maggiori, è
chiaro che anche alla fondazione potrebbero giungere sollecitazioni maggiori, in funzione di quanto è
stata rinforzata la pila e quindi si devono prevedere dei rinforzi anche delle fondazioni. I diversi tipi di
interventi sulle fondazioni dipendono in larga misura da come essa è fatta. In fondazione si possono avere
due tipi di problemi particolari: problema di tipo geotecnico per cui essa non verifica la portanza a carico
limite e il complesso terreno fondazione non resiste, oppure si può avere un problema di tipo strutturale.
Nel primo caso la fondazione esistente viene integrata con una corona circostante in cemento armato,
munita di una cortina di pali. Quindi si realizzano una serie di pali collegati in testa mediante una trave
perimetrale, la quale viene a sua volta collegata alla fondazione esistente, producendo un incremento
dello spessore della stessa, poiché si estende il getto di calcestruzzo dei cordoli perimetrali che collegano
le teste dei pali, anche sopra al plinto esistente determinandone anche un incremento di resistenza e
rigidezza perché aumenta la sua altezza, perché aumenta anche il numero di pali e in particolare quelli
realizzati per il rinforzo, hanno un braccio maggiore rispetto al centro della fondazione rispetto a quelli
esistenti. Si può fare questo tipo di intervento sia se si tratta di un plinto su pali, sia se si tratta di un plinto
superficiale. Se invece si ha solamente la necessità di incrementare la resistenza del plinto, è possibile
incrementare l’altezza della sezione facendo un getto estradossato sul plinto stesso. Si tratta sempre di
scarificare superiormente la superficie del plinto stesso mediante idrodemolizione, successiva pulizia e
passivazione dei ferri esistenti, dopo di che si dispongono le nuove armature ben collegate alla parte
esistente e dopo aver sistemato la cassaforma si procede con il getto di completamento per ottenere
l’incremento di sezione. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di aumentare il quantitativo di
armatura del plinto tramite dei cavi di precompressione, effettuando un foro all’incirca al centro del plinto
esistente applicando una barra che viene pretesa ed eventualmente anche iniettata, diventa un’armatura
aggiuntiva che se in quantità adeguata può fornire un incremento di resistenza a flessione sia a momento
negativo che a momento positivo perché se l’armatura la si dispone all’incirca a metà della sezione può
funzionare bene in entrambe le condizioni.

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