Sei sulla pagina 1di 114

DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

prof. Gaspari
01/07/21
30
PARTE GENERALE
INTRODUZIONE
EVOLUZIONE E NASCITA DELL’UNIONE EUROPEA COME LA CONOSCIAMO OGGI
per quanto non fossero mancate in un passato anche più remoto le ipotesi di un legame più stretto
tra i paesi e i popoli europei, è soprattutto negli anni successivi al secondo conflitto mondiale che
l’idea è stata perseguita concretamente ed è stata finalmente realizzata. infatti, nell’immediato
dopoguerra, ma già durante l’ultima fase del conflitto, si pensava a come impedire il riprodursi
delle situazioni politiche, economiche e militari che avevano portato l’europa e il mondo intero
a quel disastro. non è un caso che accanto all’ipotesi complessiva di un’europa unita si sottolineasse
soprattutto la necessità di un legame stretto e definitivo tra francia e germania, da sempre al centro
della patologia dei rapporti europei; né è un caso che le preoccupazioni maggiori e i problemi più
urgenti riguardavano da un lato l’assetto territoriale e militare dell’europa centrale e, dall’altro, le
vicende economiche, soprattutto dell’industria carbosiderurgica presente in misura rilevante nei
due bacini della ruhr (germania) e della saar (francia).
in questa luce va letta, e si spiega perfettamente, la dichiarazione del maggio 1950 del ministro degli
esteri francese schuman (uno dei c.d. padri dell’europa comunitaria insieme a monnet, de gasperi
e adenauer) che poneva l’accento sull’esigenza di eliminare l’opposizione tra francia e germania e
di porre l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto un’alta autorità*
comune, in un’organizzazione aperta alla partecipazione degli altri paesi europei. un obiettivo
certo economico, ma trasparentemente anche politico: mettere fine alla rivalità tra le due industrie,
pacificare le due aree da sempre oggetto di contesa e far gestire ad un organo plurinazionale
l’industria pesante.
l’ipotesi di un’integrazione completa tra i paesi europei cominciò a delinearsi come un obiettivo da
raggiungere in un futuro più o meno prossimo, ma da realizzare con gradualità - nella stessa
dichiarazione di schuman il passaggio più significativo e premonitore era quello in cui si
prefigurava una serie progressiva di realizzazioni concrete, dunque non una costruzione istantanea
e d’insieme.
(1) la prima iniziativa concreta fu la creazione della comunità europea del carbone e dell’acciaio
(CECA) mediante trattato del 1951 firmato da francia, germania, italia, belgio, paesi bassi e
lussemburgo. la comunità aveva nell’alta autorità* un organo di gestione dotato di ampia
indipendenza deliberativa rispetto ai paesi membri e con vastissimi poteri decisionali nei diretti
confronti delle imprese del settore. accanto a questa, la struttura istituzionale della comunità
prevedeva un consiglio speciale dei ministri, composto dai rappresentanti degli stati membri e con
competenze sostanzialmente di controllo, un’assemblea comune con membri designati dai
parlamenti nazionali e una corte di giustizia.
(2) successivamente, il processo graduale di integrazione subì una battuta di arresto con il
fallimento dell’iniziativa di creare una comunità europea di difesa (CED). il relativo trattato,
fondato sull’idea di una forma armata europea collegata ad una struttura istituzionale unitaria, fu
firmato nel 1952, ma non entrò mai in vigore per mancanza del consenso del parlamento francese.
(3) il dialogo tuttavia continuò, focalizzandosi sull’ipotesi di un mercato liberalizzato e di iniziative
comuni nei settori dei trasporti e dell’energia nucleare. in particolare, nel corso di una conferenza
tenutasi a messina nel 1955, si decise di dar corpo a queste ipotesi affidandone la realizzazione ad
un gruppo di esperti indipendenti presieduto da una personalità politica che assicurasse il
coordinamento con i rappresentanti degli stati. ne seguì in tempi brevi la presentazione di due
progetti: si delineava cosi, accanto alla comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la
comunità economica europea (CEE) e la comunità europea per l’energia atomica (CEEA), i cui
trattati furono firmati nel 1957 dagli stessi sei stati membri cui nel tempo se ne aggiunsero altri.
(4) nel primo decennio di vita di queste comunità si compì il grande sforzo di realizzare il mercato
comune, cioè un’area comprendente l’insieme degli stati membri che fosse sottoposta ad un regime
di libertà degli scambi in merci, lavoratori e servizi. per questo motivo, nel 1968, si abolirono le
barriere doganali tra gli stati membri.
(5) verso la metà degli anni ’70 si cominciarono a porre le basi per una più accentuata convergenza
delle economie e per la creazione di un’unione monetaria attraverso la creazione del sistema
monetario europeo; si rafforzò inoltre l’impegno per una progressiva riduzione delle disarmonie
regionali attraverso la realizzazione di programmi di sostegno alle regioni meno evolute e la
creazione di un fondo apposito (fondo europeo di sviluppo regionale).
la crescita della struttura comunitaria, il suo progressivo consolidamento e soprattutto la sua
presenza sempre più attiva ed incisiva nella sfera economica degli stati e ancor di più nella sfera
giuridica dei singoli, fecero avvertire il bisogno di rendere più democratico il processo
partecipativo e decisionale nonché l’esigenza di una più visibile cooperazione politica. (6) da qui
derivò l’iniziativa dell’elezione a suffragio universale del parlamento, realizzata nel 1979, e il
progetto del 1984 dello stesso parlamento di realizzare un’unione europea ispirata ad un modello
di tipo federale e con competenze estese ad altri settori di collaborazione, ma soprattutto
caratterizzata da una partecipazione più significativa del parlamento al processo legislativo. tale
ultimo progetto, pur approvato a larghissima maggioranza, non ebbe seguito. tuttavia, l’esigenza
oggettiva di migliorare la struttura istituzionale e di accelerare almeno il processo di integrazione
economica indusse gli stati membri ad avviare comunque una riflessione approfondita su questi
temi e la commissione ad esercitare una spinta forte verso la realizzazione di traguardi predefiniti.
(7) nei secondi anni ’80, dunque, prima il libro bianco sul completamento del mercato interno e
poi l’atto unico europeo, segnarono una vistosa svolta nel cammino comunitario e impresso una
forte accelerazione al processo di integrazione dei mercati.
(8) il ruolo da sempre trainante della corte di giustizia, infine, negli anni ’80 consacrò la comunità
di diritto come valore fondamentale e portò l’integrazione giuridica ad un livello del tutto
soddisfacente e comunque più avanzato rispetto ad ogni altro campo di azione comunitaria - la
dialettica con alcune giurisdizioni nazionali sancì il definitivo consolidarsi anche nelle
giurisprudenze nazionali sia dell’effetto diretto delle norme comunitarie sulla posizione giuridica
dei singoli sia del primato delle stesse sulle norme nazionali confliggenti.
(9) il quadro sin qui delineato dell’europa comunitaria subì una sensibile modificazione ed un
ulteriore rilancio con il trattato di maastricht sull’unione europea firmato nel 1992, che riunì in un
unico testo i risultati di una conferenza intergovernativa sull’unione politica e su quella
economica e monetaria. tale trattato era composto da tre parti che costituivano i tre pilastri da cui
muoveva il processo:
1. comunità: una delle modifiche più importanti fu relativa al trattato della comunità economica
europea (CEE) che venne rinominata comunità europea (CE); non fu una scelta puramente
estetica, avendo infatti l’intento di avvicinarsi sempre di più al cittadino e di instaurare una reale
solidarietà tra i popoli. nell’ambito del trattato della ormai rinominata comunità europea la
modifica più importante fu rappresentata dall’obiettivo di procedere, attraverso tre fasi,
all’instaurazione dell’unione economica e monetaria (UEM) la cui realizzazione più rilevante era
costituita dalla sostituzione delle monete nazionali con una moneta unica europea: l’euro.
2. politica estera e di sicurezza comune: la novità consisteva nel fatto che non si trattava più di una
semplice cooperazione tra stati membri, ma di una politica comune che si collocava all’interno
dell’unione pur restando fuori dal quadro comunitario.
3. cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale: si previde che il consiglio potesse
adottare, su una serie di materie (es. lotta contro la tossicodipendenza, politica di asilo e di
immigrazione, cooperazione doganale e di polizia ai fini della prevenzione e della lotta contro il
terrorismo, ecc.), posizioni comuni che comportavano per gli stati membri l’obbligo di
conformarvisi sul piano interno e nella loro politica estera; oppure elaborare convenzioni che
spettava poi agli stati membri adottare conformemente alle loro rispettive norme
costituzionali.
l’insieme delle previsioni consegnate nel trattato di maastricht non smentì la logica propria dei
trattati comunitari, dotati di un notevole potenziale di sviluppo in direzione di una sempre più
accentuata integrazione; per questo motivo fu sancito l’obiettivo di mantenere e sviluppare il
trattato comunitario fino a verificare la necessità di rivedere, quando si fossero rivelate inadeguate,
le politiche e le forme di cooperazione previste dallo stesso al fine di garantire l’efficacia dei
meccanismi e delle istituzioni comunitarie – a tale scopo lo stesso trattato di maastricht prevedeva
espressamente che una conferenza intergovernativa dovesse aver luogo nel 1996.
(10) la conferenza ebbe effettivamente luogo e il risultato fu il trattato di amsterdam firmato nel
1997. questo, oltre ad aver proceduto ad una rinumerazione di tutti gli articoli dei trattati esistenti,
apportò modifiche al trattato sull’unione europea in tutte le sue parti – alcune modifiche
riguardarono anche le disposizioni comuni, incidendo sui principi su cui si fonda l’unione e
rafforzando, in particolare, la materia del rispetto e dei diritti fondamentali.
il tema dell’ampliamento ad un numero consistente di altri paesi alimentò il dibattito all’interno
della comunità soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90 e influenzò e accelerò in modo
determinante anche la riflessione sull’assetto istituzionale della comunità, dai più e non senza
ragione considerato superato già nella composizione a quindici paesi e certamente inadeguato
rispetto al futuro scenario. (11) a tal proposito, i consigli europei di colonia ed helsinki diedero il
via alla nuova conferenza intergovernativa al fine di definire le questioni istituzionali lasciate
ancora irrisolte: la conferenza si aprì a bruxelles nel 2000 e si concluse a nizza, con il relativo trattato,
nel 2001. non furono molte le novità apportate al TUE:
− si articolò meglio l’intervento del consiglio nell’ipotesi di violazione dei principi
fondamentali di libertà e democrazia
− si migliorò il meccanismo della cooperazione rafforzata
− fu proclamata a nizza della carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, preparata da
rappresentanti dei parlamenti nazionali, del parlamento europeo, della commissione e dei capi
di stato e di governo, che sancì un complesso di diritti fondamentali, articolato sui valori della
dignità, della libertà, dell’eguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza europea e della
giustizia - lo scopo dell’iniziativa era di rendere più visibili i diritti fondamentali all’interno
dell’esperienza comunitaria.
pur nel susseguirsi di realizzazioni di rilievo, non sono mancate le pause nel corso del processo di
integrazione in analisi. e non può neppure sfuggire la delusione provocata dal fallimento del
tentativo di dare una costituzione in senso anche formale al consolidamento della fase di
integrazione.
(12) dopo due anni di riflessione, il consiglio europeo indicò la strada per riprendere il cammino,
dettando con dettagli e perentorietà il contenuto della riforma che un’apposita conferenza
intergovernativa avrebbe dovuto limitarsi a tradurre in trattato. e così fu: il trattato di riforma
venne firmato a lisbona nel 2007 e comportò una successione dell’unione europea alla comunità
europea ed una revisione in senso proprio del trattato dell’unione europea (TUE) e del trattato della
comunità europea, rinominato trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE).
il trattato di lisbona merita un’osservazione sul contenuto: porta alcune, non grandi ma significative
novità rispetto allo scenario consolidatosi in oltre mezzo secolo. tra le principali:
− la carta dei diritti fondamentali di nizza ha visto riconosciuto anche formalmente valore
vincolante
− è stata prevista una più incisiva partecipazione del parlamento europeo e dei parlamenti
nazionali nel processo decisionale
− qualche novità nelle competenze degli organi giurisdizionali
− introduzione di un protocollo ad hoc sulla concorrenza
− consolidamento delle politiche dell’ambiente, dell’energia e dell’immigrazione.
i passi avanti compiuti con la riforma di lisbona devono tuttavia essere valutati alla luce degli ultimi
avvenimenti che hanno scosso le fondamenta dell’unione; crisi che, pur profonda, non può
comunque paralizzare il cammino del disegno di integrazione, considerato un processo
irreversibile. in particolare:
− crisi finanziaria: la risposta dell’unione ha offerto (13) l’istituzione del meccanismo europeo di
stabilità (MES o fondo salva-stati) e (13.1) la conclusione del patto di bilancio europeo (fiscal
compact), che rappresentano un modello di gestione esterna delle crisi, giustificato anche dalla
necessità di garantire la stabilità monetaria dell’unione; a ciò si aggiunge poi il risultato di un
difficile negoziato concluso dal consiglio europeo nel 2012: (13.2) la dotazione di un meccanismo
per stabilizzare i mercati e per calmierare i tassi di interesse dei paesi dell’unione europea. (13.3)
in attuazione di tali misure, la commissione ha prefigurato l’introduzione di un meccanismo di
vigilanza unico, all’interno del quale la BCE ha assunto il ruolo di supervisore per l’eurozona.
− crisi migratoria: negli ultimi anni ha investito l’unione europea e segnatamente taluni stati che,
come l’italia, per la loro posizione geografica costituiscono tra le più vicine destinazione dei flussi
migratori o quantomeno la via di transito degli stessi. (14) sebbene nel 2016 sia stato presentato
un pacchetto di riforme del sistema del diritto di asilo, su tali proposte è tuttora in corso un
dibattito molto acceso che coinvolge, da un lato, le istituzioni dell’unione e, dall’altro, gli stati
membri. le posizioni delle une e degli altri sono, comunque, ancora molto distanti, arrecando
quindi un grave pregiudizio soprattutto con riferimento al livello di tutela dei diritti
fondamentali garantito ai migranti.
− (15) brexit: ha creato una serie di problemi soprattutto con riferimento all’esercizio del diritto di
recesso (art. 50 TUE) mai applicato prima. la bozza d’accordo raggiunta tra le parti è stata
inizialmente bocciata dal parlamento britannico e la proroga del termine biennale intervenuta
nel frattempo ha scongiurato una catastrofica uscita senza accordo. il recesso è stato formalizzato
nel gennaio 2020, anche se è stato previsto un periodo di transizione che sarebbe durato fino a
dicembre 2020 a meno di ulteriori proroghe (non intervenute) NB sebbene un periodo di
transizione non sia contemplato dall’articolo in questione, è stato ritenuto necessario al fine di
meglio definire il raggiungimento di un accordo sulle future relazioni.
− movimenti populisti: nati a causa delle ombre che negli ultimi anni si sono addensate sull’unione
europea. infatti, la sfiducia nei confronti del processo di integrazione ha comportato
l’invocazione, da più parti, del ritorno alla concezione statocentrica e dell’innalzamento di muri
o di recinzioni sui confini. per arginare tali sentimenti gli stati membri e le istituzioni europee
si sono fatti promotori di talune significative iniziative: (16) nel 2016 gli stati membri hanno
adottato una dichiarazione in cui è contenuta una tabella di marcia che fissa gli obiettivi per i
mesi a seguire:
o ripristino del pieno controllo delle frontiere esterne
o garanzia della sicurezza interna e lotta al terrorismo
o rafforzamento della cooperazione dell’unione europea nel campo di sicurezza esterna e
difesa
o promozione del mercato unico
o offerta di migliori opportunità ai giovani europei.
(17) nel 2017 la commissione ha poi presentato il libro bianco sul futuro dell’europa e sulla via da
seguire. riflessioni e scenari per l’unione europea a 27 con il quale ha offerto agli stati ben cinque
modelli di integrazione per il futuro:
1. continuare il processo di integrazione cosi come intrapreso
2. limitarlo al solo mercato unico
3. accelerarlo
4. ricorrere più di frequente alla cooperazione rafforzata
5. concentrarsi su taluni specifici settori (es. innovazione, sicurezza, gestione delle frontiere, ecc.).
a ben vedere tali soluzioni prospettate dalla commissione si limitano ad offrire un quadro di
alternative su cui da tempo si discuteva e, peraltro, alcune di esse risultavano già espressamente
disciplinate dai trattati (cooperazione rafforzata). in sostanza, quindi, non è stata prospettata una
rivoluzione dell’attuale sistema, quanto piuttosto una serie di aggiustamenti collocabili in una scia
che da sempre si prefigge il graduale rafforzamento dell’integrazione. d’altronde, se è vero che il
lungo cammino di integrazione ha seguito e segue un percorso non lineare, è pur vero che il sistema
europeo è molto radicato nella realtà storica, negli apparati giuridico-istituzionali, nel tessuto
economico e sociale e, in senso più generale, nella cultura politica degli stati membri. infatti, la
preferenza accordata da più parti alla cooperazione rafforzata risiede proprio nei suoi caratteri e
nel fatto che essa opera all’interno dei trattati senza minacciare l’integrità e la coerenza dell’accordo
comunitario; tuttavia, se la cooperazione rafforzata divenisse la regola, allora avremmo una somma
di integrazioni che condurrebbe all’insorgere di un miscuglio di cooperazioni, obblighi e diritti; cosi,
se non devono essere ostacolate le cooperazioni virtuose che rispettano i principi di fondo
dell’unione, è pur vero che la deviazione dal modello di integrazione uniforme, come precisato
dai trattati e ribadito dalla corte di giustizia, deve avvenire in ultima istanza = deve farsi ricorso
alla cooperazione rafforzata soltanto quando il tentativo di raggiungere un accordo tra gli stati sia
effettivamente impossibile.
APPARTENENZA DEGLI STATI ALL’UNIONE
VALORI FONDANTI DELL’UNIONE
parallelamente all’evoluzione del processo di integrazione europea, i trattati hanno attribuito
sempre maggiore rilevanza ai valori primari e identitari dell’unione che costituiscono il suo
patrimonio spirituale e morale. si tratta di valori sui quali si fonda la costruzione europea, che
ritroviamo in altre organizzazioni internazionali e nelle costruzioni nazionali e che devono
necessariamente essere condivisi da tutti i soggetti dell’unione NB tali valori sono posti a
fondamento non solo dell’azione interna dell’unione, bensì anche di quella esterna, con la finalità
di promuoverli nel resto del mondo.
tali valori sono indicati nell’art. 2 TUE: rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello stato di diritto e dei diritti umani, compresi quelli delle persone appartenenti
a minoranze. in particolare:
• il richiamo alla dignità umana e la sua presenza anche nell’art. 1 della carta dei diritti
fondamentali evidenzia come la persona sia stata collocata al centro del sistema dell’unione;
nella stessa prospettiva si colloca il principio dell’uguaglianza, che tra l’altro trova molteplici
applicazioni specifiche sia nello stesso TUE che nel TFUE. queste scelte mostrano dunque la
particolare enfasi posta sui valori di cui sopra, considerati autonomamente anziché essere
ricompresi nella generale categoria dei diritti umani alla quale appartengono.
• il richiamo alla libertà e alla democrazia assumono invece una rilevanza fondamentale sul piano
politico e, più in generale, rappresentano i valori costitutivi dello stato di diritto. in particolare:
il valore della libertà è da intendere in senso generale e non può essere circoscritto alle sole
quattro libertà fondamentali che caratterizzano il mercato unico europeo (libertà di
circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali); per quanto concerne la
democrazia, l’unione si fonda sulla democrazia rappresentativa e partecipativa – a tal proposito
la corte di giustizia ha sempre affermato che il coinvolgimento del parlamento europeo nel
processo decisionale è il riflesso, a livello dell’unione, di un principio democratico fondamentale
in base al quale i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di un’assemblea
rappresentativa.
• viene poi enunciato lo stato di diritto, che vincola le istituzioni e gli organi dell’unione, gli stati
membri e i singoli all’effettiva osservanza del diritto dell’unione. in tal senso, occorre
evidenziare che la corte di giustizia ha assimilato l’unione a una vera e propria comunità di diritto
laddove ha messo in risalto che né gli stati membri né le istituzioni comunitarie sono sottratti
al controllo della conformità dei loro comportamenti alla carta costituzionale fondamentale
costituita dai trattati. correlativamente, l’esistenza di un controllo giurisdizionale effettivo
destinato ad assicurare il rispetto delle disposizioni del diritto dell’unione è inerente ad uno
stato di diritto – l’art. 19 TUE affida questo controllo non solo alla corte di giustizia, ma anche
agli organi giurisdizionali nazionali.
• in ultimo, si fa riferimento al rispetto di generici diritti umani, che ricevono uno specifico
riconoscimento nell’art. 6 TUE: l’articolo da un lato attribuisce alla carta dei diritti fondamentali
lo stesso valore giuridico dei trattati, dall’altro impone il rispetto dei diritti fondamentali
dell’uomo.
sempre l’art. 2 TUE chiarisce che tali valori sono comuni agli stati membri in una società
caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla
solidarietà e dalla parità tra donne e uomini → precisazione: va qui evidenziato che la solidarietà
non risulta formalmente nell’elenco dei valori fondanti dell’unione sebbene sia citata dallo stesso
articolo limitatamente ai rapporti tra individui. si tratta di una questione di particolare rilevanza,
poichè ciò significa, come effettivamente previsto, che la procedura sanzionatoria dell’art. 7 TUE
può essere attivata soltanto per la violazione dei valori espressamente indicati dall’art. 2 TUE cosi
come la questione dell’ammissione di nuovi membri è circoscritta agli stati europei che rispettino i
suddetti valori. nonostante questa lacuna derivante dalla mancata inclusione della solidarietà
nell’elenco dei valori, superabile eventualmente con una procedura di infrazione, è stato
autorevolmente affermato che essa rientra tra i valori che sostengono il modello di società europea
che deriva dai trattati e che fa parte di un insieme di valori e principi che costituisce la base della
costruzione europea.
il rispetto dei valori e le sanzioni per la loro violazione
i valori richiamati e la loro promozione costituiscono una condicio sine qua non sia per l’adesione di
nuovi stati, sia la loro permanenza nell’unione. a tal fine, l’art. 7 TUE ha previsto un sistema di
controllo sull’osservanza dei valori di cui all’art. 2 TUE che consente al consiglio di fornire
preventivamente un avvertimento al paese coinvolto prima che la violazione grave si
materializzi. in pratica, su proposta motivata di 1/3 degli stati membri, del parlamento europeo o della
commissione, il consiglio può constatare, previa approvazione del parlamento europeo, che esiste un
evidente rischio di violazione grave dei valori fondanti dell’unione da parte di uno stato membro – il
consiglio può anche utilizzare lo strumento soft della raccomandazione, deliberando secondo la stessa
procedura e invitando lo stato a porre fine alla violazione dei valori fondamentali dell’unione.
nell’ipotesi in cui la violazione sia grave e persistente, invece, la procedura di allarme precede
l’applicazione di sanzioni che coinvolgono anche il consiglio europeo: viene constatata l’esistenza
della violazione, aprendo cosi la strada alla decisione del consiglio di sospendere alcuni dei diritti
derivanti allo stato membro in questione dall’applicazione dei trattati – tale ultima decisione può
spingersi fino al punto di sospendere i diritti di voto del rappresentante del governo dello stato
inadempiente in seno al consiglio, fermo restando che tale stato rimane vincolato al rispetto degli
obblighi dell’unione. va da sé che lo stato interessato non prende parte a questa e alle altre votazioni
che lo riguardano ai sensi dell’art. 7 TUE, ma esso deve essere sempre messo nelle condizioni di
presentare le proprie osservazioni prima che sia presa una decisione nei suoi confronti.
nel caso di mutamento della situazione che ha portato all’imposizione della sanzione, il consiglio
può decidere di modificare o revocare le misure adottate purchè la sua deliberazione sia adottata
a maggioranza qualificata NB la discrezionalità sanzionatoria del consiglio deve tener conto delle
possibili conseguenze sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche.
il rispetto dell’art. 7 TUE ha assunto una rilevanza crescente, in quanto la crisi economico-finanziaria
e la drammatica questione dei migranti hanno rischiato (e rischiano tutt’oggi) di determinare un
significativo distacco di alcuni stati membri dalla base valoriale sulla quale si fonda l’unione. infatti,
i fallimenti dell’attuale meccanismo di protezione della rule of law hanno richiesto una
ridefinizione del quadro di tutele da parte di tutte le istituzioni europee coinvolte nella
supervisione della corretta applicazione del diritto dell’unione. a tal proposito la commissione ha
adottato la comunicazione del marzo 2014 al fine di rendere possibile l’utilizzo di strumenti
informali per contrastare le minacce allo stato di diritto prima che si verifichino le condizioni per
attivare i meccanismi previsti dall’art. 7 TUE: è previsto infatti che la commissione debba ricercare
una soluzione in via bonaria con lo stato membro inadempiente, obbligato a dialogare con essa in
attuazione del principio di leale collaborazione di cui all’art. 4 TUE - il dialogo intavolato tra le parti,
in caso di esito negativo della procedura, potrebbe comunque rivelarsi utile per circostanziare la
potenziale violazione, orientando in tal modo la scelta verso la clausola di sospensione piuttosto che
verso il ricorso per infrazione.
la violazione dei valori contenuti nell’art. 2 TUE non è priva di conseguenze anche nei rapporti con
stati terzi o altre organizzazioni internazionali. difatti, il rispetto di questi valori è diventato una
costante nelle relazioni esterne dell’unione poichè negli accordi internazionali dell’unione sono
ormai sempre inserite le c.d. clausole di condizionalità: se lo stato terzo viola i suddetti valori,
l’unione si riserva, con diverse formulazioni a seconda delle clausole, la facoltà di sospendere o
interrompere l’accordo.
OBIETTIVI DELL’UNIONE
i valori dell’unione non vanno confusi con i suoi obiettivi, che sono invece richiamati dall’art. 3 TUE
e ispirano l’azione dell’unione, caratterizzandola rispetto ad altre organizzazioni internazionali.
l’art. 3 enuncia, anzitutto, l’obiettivo generale di promuovere la pace, i valori dell’unione e il
benessere dei suoi popoli. a questo macro-obiettivo si aggiungono obiettivi più specifici che
corrispondono ai principali campi di azione dell’unione e che dimostrano che l’integrazione non ha
una connotazione soltanto economica, ma anche culturale, sociale e politica:
• in primis vengono in rilievo gli obiettivi che facevano parte del terzo pilastro: garantire ai
cittadini dell’unione uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia
assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne
i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la
lotta contro quest’ultima.
• viene poi menzionata la realizzazione del mercato unico, che rappresenta il nucleo originario
della comunità europea attorno al quale si è sviluppato il processo di integrazione europea e che
comporta uno spazio senza frontiere nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle
persone, dei servizi e dei capitali.
• vengono poi elencati altri obiettivi di natura sociale, che hanno ad oggetto la lotta all’esclusione
sociale e alle discriminazioni, la promozione della giustizia e della protezione sociale, la tutela
dei diritti del minore, la parità tra donne e uomini e la solidarietà tra le generazioni. è il caso di
aggiungere che nell’ambito degli obiettivi di natura sociale assumono una particolare rilevanza
la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli stati membri NB la solidarietà
qui prevista e richiamata anche dall’art. 2 TUE può essere considerata al contempo un pilastro e
un principio guida delle politiche dell’unione relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e
all’immigrazione, ma incontra notevoli resistenze da parte degli stati.
• viene poi menzionato il principio dell’unione economica e monetaria, obiettivi considerati
unitariamente nonostante l’unione disponga di competenze differenti in questi settori: mero
coordinamento in relazione alle politiche economiche degli stati membri ed esclusiva nel
campo monetario.
• tra gli obiettivi perseguiti dall’unione vengono poi ricompresi la promozione del progresso
scientifico e tecnologico, il pluralismo linguistico, la diversità culturale e la salvaguardia e
promozione del patrimonio culturale europeo.
come anche i valori, gli obiettivi non vengono perseguiti solo all’interno dell’unione, ma anche nelle
relazioni esterne con il resto del mondo al fine di affermare e promuovere i suoi valori e interessi e
tutelare i suoi cittadini. a questo obiettivo esterno se ne aggiungo altri, quali il contributo dell’unione
alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco
tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà, alla tutela dei diritti
umani e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale.
ADESIONE DI NUOVI STATI
dalle origini del processo di integrazione europea ad oggi si è passati dai sei paesi fondatori ai
ventisette stati membri poichè i trattati comunitari prima e quelli dell’unione europea dopo, cosi
come modificati nel corso degli anni, sono stati aperti all’adesione di nuovi stati.
l’allargamento dell’unione ha oggi la sua base giuridica nell’art. 49 TUE, che indica le condizioni
che devono essere soddisfatte e la procedura da seguire. in particolare:
• condizioni: il paese candidato deve essere uno stato europeo e deve rispettare i valori fondanti
dell’unione di cui all’art. 2 TUE (dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, stato di diritto
e diritti dell’uomo) – la nozione di stato europeo non ha un significato soltanto geografico poichè
implica anche valutazioni di ordine storico-culturale in vista della realizzazione di un progetto
comune di integrazione; il paese candidato deve altresì soddisfare i criteri definiti dal consiglio
europeo svoltosi a copenaghen nel 1993 (c.d. criteri di copenaghen), quali: capacità di assumere
gli obblighi derivanti dal diritto e dalle politiche dell’unione, ivi compresi gli obiettivi politici,
economici e monetari (criterio giuridico); presenza di istituzioni stabili che garantiscano la
democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela
(criterio politico); esistenza di un’economia di mercato affidabile e capacità di far fronte alle
forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’unione (criterio economico).
il consiglio europeo di madrid, nello stesso anno, ha aggiunto un’ulteriore condizione: il paese
candidato deve essere in grado di applicare il diritto dell’unione e di garantire che tale diritto sia
attuato nel suo ordinamento in modo efficace attraverso adeguate strutture amministrative e
giudiziarie.
• procedura di adesione: prende avvio dalla (1) domanda dello stato interessato, che viene (2)
trasmessa al consiglio e comunicata al parlamento europeo e ai parlamenti nazionali; (3)
successivamente il consiglio delibera all’unanimità previa consultazione della commissione e
previa approvazione del parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono.
dopo l’accoglimento della domanda di adesione (4) si apre una seconda fase che ha ad oggetto la
negoziazione e la conclusione di un accordo (c.d. atto di adesione) tra gli stati membri e lo stato
richiedente, che può contenere disposizioni transitorie e clausole di salvaguardia al fine di
consentire al nuovo stato membro di adattarsi progressivamente ad alcune norme e/o di
beneficiarie di talune deroghe. tali trattative sono condotte parallelamente alla (5) fase di screening,
finalizzata a valutare se lo stato candidato necessiti di assistenza e se sia in grado di conformarsi
agli obblighi dell’unione.
(6) in ultima fase, l’accordo di adesione viene firmato da tutti gli stati contraenti, i quali lo (7)
ratificano conformemente alle loro procedure costituzionali.
NB la concessione dello status di paese candidato all’adesione può richiedere un periodo di tempo
piuttosto lungo e non necessariamente si conclude in senso positivo. lo dimostra, ad esempio, il caso
della turchia, che ha presentato la domanda nel 1987, ha acquisito lo status di paese candidato nel
1999 e ha avviato i negoziati nel 2005, ma si trova ancora in una situazione di limbo per le
preoccupazioni che questo stato tutt’ora solleva sotto il profilo del rispetto dei diritti umani e civili.
NB il paese candidato può anche decidere di rinunciare a tale status, cosi come è successo per
l’islanda che nel 2015 ha ufficialmente ritirato la domanda di adesione presentata nel 2009 e accolta
dal consiglio europeo l’anno seguente.
RECESSO
i trattati hanno una durata illimitata nei confronti degli stati membri ai sensi degli artt. 53 TUE e 356
TFUE, a meno che essi non decidano di esercitare il diritto di recesso.
il diritto di recesso è previsto e disciplinato oggi dall’art. 50 TUE. l’articolo è stato introdotto dal
trattato di lisbona, anche se si poteva ritenere previsto anche prima di questo in forza dell’art. 62
della convenzione di vienna sul diritto dei trattati: tale disposizione, nell’ipotesi di mancanza di
disposizioni ad hoc, consente l’applicazione della clausola rebus sic stantibus secondo la quale può
essere invocato come motivo di recesso un sopravvenuto mutamento fondamentale delle
circostanze esistenti al momento della conclusione dei trattati – la convenzione riconosceva il diritto
di recesso anche quando vi fosse stato il consenso di tutte le parti o quando la facoltà di esercitare
unilateralmente tale diritto fosse stata ricavabile implicitamente dal testo dei trattati. con l’art. 50
TUE è stata invece introdotta una procedura specifica in base alla quale ogni stato membro può
decidere di recedere dal sistema dell’unione europea conformemente alle proprie norme
costituzionali – l’espulsione di uno stato non era e non è tutt’ora contemplata nel diritto
dell’unione neanche nei casi di violazioni dei valori di cui all’art. 2 TUE.
procedura di recesso: l’intenzione di recedere va (1) notificata dallo stato membro al consiglio
europeo, che (2) formula specifici orientamenti al riguardo. la notifica non ha l’effetto di
sospendere l’applicazione del diritto dell’unione nello stato membro che abbia notificato la propria
intenzione di recedere, quanto piuttosto (3) l’apertura di un negoziato volto a definire un accordo
sulle modalità di recesso, tenuto conto delle future relazioni tra lo stato recedente e l’unione.
(4) la conclusione dell’accordo è regolata dalla procedura di cui all’art. 218 TFUE in materia di
negoziazioni tra unione e stati terzi, con la differenza che lo stato recedente non prenderà parte
all’adozione della decisione in seno al consiglio; istituzione che è tenuta a deliberare, previa
approvazione del parlamento europeo, a maggioranza qualificata.
a differenza del trattato di adesione, l’accordo di recesso non richiede la ratifica da parte degli stati
membri, in quanto tale accordo viene concluso tra l’unione e lo stato recedente, senza la
partecipazione degli stati membri.
conseguenze del recesso: lo stato recedente non sarà più membro dell’unione e, quindi, non sarà più
vincolato dai trattati a partire dall’entrata in vigore dell’accordo di recesso oppure, in mancanza
di tale accordo, a partire da due anni dopo la notifica salvo che il consiglio europeo, in accordo con
lo stato interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine.
il recesso non può essere parziale né può riguardare un solo trattato o taluni suoi obblighi, dunque
lo stato cessa di far parte dell’unione e di assumere lo status di membro.
è evidente che dopo il recesso lo stato non beneficerà di alcun trattamento privilegiato, dunque se
intenderà entrare nuovamente nell’unione dovrà rispettare integralmente la procedura ordinaria di
adesione di cui all’art. 49 TUE.
non è chiaro se l’art. 50 TUE possa fungere da base giuridica per il recesso dall’euro (questione non
sollevata dalla brexit in quanto il regno unito aveva negoziato un opt-out dall’euro con il trattato di maastricht
e, conseguentemente, ha mantenuto la sua moneta). è indubbio che il recesso dall’unione comprenda
l’uscita dall’UEM, essendo l’unione monetaria una costola di quella politica; più problematica è
invece la possibilità per uno stato di recedere dall’euro senza mettere in discussione la sua
appartenenza all’unione. a tal proposito, l’art. 50 TUE non pare formalmente strutturato per
garantire singoli opt-out; anzi, fa riferimento alla cessazione dell’applicazione dei trattati nel loro
complesso e non contiene alcuna indicazione in merito alla possibilità di utilizzare la
disposizione come strumento per recedere da singoli settori del diritto dell’unione. la ratio di una
simile scelta è ovvio: evitare di indebolire il processo di integrazione europea impedendo agli stati
di uscire da singole politiche dell’unione. inoltre, se è vero che la mancata partecipazione al sistema
della moneta unica è stata concessa ad alcuni stati (regno unito e danimarca), oltre ad essere imposta
in via provvisoria agli stati che non rispettano determinati parametri economici, occorre tener
presente che questa esclusione è stata negoziata ed è stata espressamente riconosciuta in un
trattato di revisione; pertanto, l’unica strada percorribile per gli stati che intendono abbandonare
soltanto la moneta unica sembra una modifica dei trattati attraverso l’utilizzo dell’art. 48 TUE.
prima del referendum del regno unito era difficilmente ipotizzabile che uno stato decidesse effettivamente di
non far più patte dell’unione, ma l’esito di questo, favorevole alla c.d. brexit, ha destato preoccupazioni e ha
sollevato una serie di questioni in merito all’esercizio del diritto di recesso in vista dell’assenza di
precedenti riguardanti l’applicazione dell’art. 50 TUE. in particolare, tale articolo non stabilisce né il
contenuto né le modalità di conclusione dell’accordo di recesso, cosi come non chiarisce quale sia
l’organo nazionale competente a decidere se e quando procedere alla notifica, rimettendo cosi la
risoluzione di tale questione alle norme costituzionali interne. tuttavia, durante il periodo delle trattative con
il regno unito, la corte di giustizia è intervenuta per chiarire taluni aspetti controversi: in merito
all’applicabilità dei trattati in pendenza del termine biennale, ha confermato che la notifica non produce la
sospensione dell’efficacia del diritti dell’unione nello stato in uscita fino al perfezionamento del
recesso; con riferimento specifico alla possibilità di ritirare la notifica di recesso ha chiarito che, in
considerazione del carattere unilaterale della notificazione, il cui perfezionamento non è condizionato ad
alcuna accettazione, lo stato è legittimato a ritornare sui suoi passi prima della conclusione definitiva
della procedura, conformemente alle proprie norme costituzionali.
LE COOPERAZIONI RAFFORZATE
lo status di membro dell’unione comporta l’obbligo di applicare integralmente il trattato
comunitario. tuttavia, i trattati contemplano varie ipotesi di deroghe, limitazioni ed eccezioni a
questo obbligo, che sono eloquentemente qualificate con diverse espressioni (es. europa a più
velocità, europa a doppia velocità, europa a geometria variabile, europa à la carte).
in realtà, si possono distinguere forme di applicazione differenziata del diritto dell’unione di
carattere territoriale da quelle di natura sostanziale. nel primo ambito si colloca l’art. 355 TFUE che
disciplina due tipologie di applicazione territoriale differenziata:
• la prima consente che la normativa dell’unione, nella sua interezza o parzialmente, può non
trovare applicazione in parti del territorio metropolitano di taluni stati membri o in territori
soggetti alla sovranità di uno stato membro o ad essa riconducibili in base ad un particolare
rapporto giuridico
• la seconda introduce un regime speciale per i territori che, pur essendo parte integrante di
alcuni stati membri o mantenendo con gli stessi relazioni particolari, sono situati fuori dal
continente europeo (es. martinica-francia, azzorre-portogallo, ecc.).
il secondo ambito di natura sostanziale è più ampio e ricomprende innanzitutto le c.d. clausole
aperte, ossia le disposizioni dei trattati che abilitano qualsiasi stato membro a non essere
vincolato da norme o atti dell’unione – numerose altre deroghe sono contenute in vari protocolli.
oltre alle deroghe esplicitate dai trattati, altre deviazioni da un modello di integrazione uniforme
possono essere introdotte grazie al meccanismo delle cooperazioni rafforzate: introdotte dal trattato
di amsterdam, consentono l’adozione di una normativa più avanzata che vincola soltanto taluni
stati membri e che convive accanto alla normativa comune applicabile anche agli stati che non
partecipano alla cooperazione. tra l’altro, se è vero che queste cooperazioni tra stati, come del resto
le diverse forme di applicazione flessibile, rischiano di indebolire il processo di integrazione
europea, è pur vero che esse si svolgono all’interno dell’unione anziché al suo esterno e consentono
di superare situazioni di blocco e di veti incrociati.
il meccanismo delle cooperazioni rafforzate è attualmente disciplinato dall’art. 20 TUE e dagli artt.
326-334 TFUE. in particolare, l’iniziativa di instaurare una cooperazione rafforzata deve essere presa
da almeno nove stati membri e il suo oggetto deve rientrare nei limiti delle competenze
dell’unione, ma non può riguardare settori che rientrano nelle sue competenze esclusive – la ratio
di questo divieto è dovuto al fatto che nelle materie di competenza esclusiva si ritiene che solo
un’azione comune possa realizzare in modo efficace gli obiettivi dell’unione; la cooperazione deve
rispettare non solo i trattati e il diritto dell’unione, ma anche le competenze, i diritti e gli obblighi
degli stati membri che non vi partecipano; non può recare pregiudizio al mercato interno e alla
coesione economica e territoriale, non può costituire un ostacolo o una discriminazione per gli
scambi tra gli stati membri e non può provocare distorsioni alla concorrenza.
ad una cooperazione rafforzata può aderire qualsiasi stato membro sia al momento del suo avvio
sia in un momento successivo, purchè soddisfi le condizioni di partecipazione eventualmente
stabilite nella decisione di autorizzazione. nel caso in cui l’adesione avvenga in un momento
successivo spetta alla commissione verificare il rispetto di tali condizioni e adottare le eventuali
misure transitorie necessarie a consentire l’applicazione degli atti già approvati nell’ambito della
cooperazione rafforzata; se le condizioni, invece, non risultino soddisfatte, lo stato interessato può
rivolgersi al consiglio che decide al riguardo e, in caso positivo, può adottare le misure transitorie
necessarie.
gli atti adottati nel quadro di una cooperazione rafforzata vincolano soltanto gli stati partecipanti.
i trattati disciplinano due particolari ipotesi di cooperazioni rafforzate, che presentano delle
deviazioni rispetto alla disciplina comune:
• c.d. cooperazione strutturata permanente: prevista dall’art. 42 TUE in materia di missioni che
l’unione europea può effettuare nel quadro della politica di sicurezza e difesa comune al fine di
garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della
sicurezza internazionale. la disciplina di tale cooperazione è dettata dall’art. 46 TUE, ai sensi del
quale gli stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che
abbiano sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative,
instaurano una cooperazione rafforzata notificando la loro intenzione al consiglio e all’alto
rappresentante dell’unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza. a differenza della
cooperazione rafforzata generale tale cooperazione è reversibile: sono previsti espressamente
sia il recesso volontario sia la sospensione della partecipazione di uno stato membro che non sia
più in possesso dei suddetti criteri; un’altra differenza con la cooperazione rafforzata si ravvisa
nel fatto che non è previsto un numero minimo di paesi partecipanti (nella cooperazione
rafforzata devono essere almeno nove).
• l’altra ipotesi di cooperazione rafforzata sui generis riguarda l’eliminazione dei controlli alle
frontiere interne oggetto dell’accordo di schengen del 1985.
il ricorso alla cooperazione rafforzata si è avuto in pochi casi sia per la complessità della procedura
che per la resistenza degli stati membri non partecipanti all’introduzione di forme di integrazione
differenziata. più di recente, però, è stato auspicato un utilizzo maggiore di tale cooperazione per
rilanciare il processo di integrazione europea; è stata infatti inserita nel libro bianco presentato
dalla commissione nel 2017 come uno dei cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’unione
europea.
RIPARTIZIONE DI COMPETENZE TRA UNIONE E STATI MEMBRI
il riparto di competenze tra unione e stati membri è disciplinato dal principio delle competenze di
attribuzione, che riguarda il riconoscimento da parte degli stati membri di talune competenze in
capo all’unione e, quindi, alle sue istituzioni - l’esercizio delle stesse è affidato, invece, ai principi
di sussidiarietà (limitatamente ai settori di competenza concorrente) e di proporzionalità.
tanto l’attribuzione quanto l’esercizio delle competenze si iscrivono nel più generale principio di
leale cooperazione, pietra angolare delle relazioni tra stati membri e unione europea e che,
direttamente o indirettamente, in via esclusiva o incidentale, vincola l’esercizio delle loro
competenze al rispetto della cooperazione, della solidarietà, della buona fede e della lealtà.
i trattati designano gli obiettivi che l’unione deve perseguire e indicano i compiti che essa deve
assolvere e le azioni che può intraprendere per perseguire tali fini; tuttavia, all’enunciazione dei
fini non corrisponde un’attribuzione automatica di competenze necessarie alla loro
realizzazione. pertanto, le competenze sono rimesse all’unione solo in quanto e nella misura in cui
i trattati conferiscono poteri di intervento alle istituzioni – si tratta dunque di competenze derivate
che, in concreto, possono investire un intero settore o solo alcuni suoi profili, possono essere
esclusive dell’unione o lasciare sussistere anche quelle degli stati membri oppure accompagnarsi
alle azioni nazionali o, in ultimo, possono tradursi in poteri normativi, decisionali, di
armonizzazione o ravvicinamento o di coordinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative degli stati membri.
il principio delle competenze di attribuzione emerge nell’art. 5 TUE, secondo cui in virtù del
principio di attribuzione, l’unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono
attribuite dagli stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. qualsiasi
competenza non attribuita all’unione nei trattati appartiene agli stati membri. esso è poi ripreso in
altre disposizioni dei trattati, nonché nella carta dei diritti fondamentali ed in una dichiarazione allegata ai
trattati; i limiti di espansione delle competenze dell’unione sono altresì evidenziati nel TFUE - la ripetizione
ridondante dei limiti posti alle competenze dell’unione risponde alla preoccupazione degli stati membri di
impedire ulteriori erosioni della propria sovranità attraverso un ampliamento strisciante delle competenze
dell’unione. possiamo quindi dire che l’attribuzione di competenze dell’unione è costruita in termini
finalistici, nel senso che alle istituzioni europee è riconosciuto il potere di adottare i
provvedimenti necessari o utili in relazione agli obiettivi dei trattati o semplicemente ad alcuni
di essi e nelle norme materiali sono specificate la portata, le condizioni e le modalità di esercizio di
tali competenze.
il principio in parola opera come norma di rinvio simultaneo a tutte le competenze che i trattati
attribuiscono all’unione sia espressamente che mediante implicito rinvio. per questo vengono in
rilievo, da un lato, le tecniche di interpretazione giurisprudenziale* che hanno valorizzato i
numerosi collegamenti del complesso normativo dell’unione e, dall’altro, la clausola di flessibilità**
(art. 352 TFUE). in particolare:
• tecniche di interpretazione giurisprudenziale: sono servite soprattutto ad ampliare i poteri di
azione delle istituzioni in settori già attribuiti all’unione. la corte di giustizia, infatti, ha fatto
propria la dottrina dei c.d. poteri impliciti elaborata dalla corte suprema degli stati uniti
d’america e ripresa poi dalla corte internazionale di giustizia per legittimare l’intervento degli
stati federali e dell’onu in settori funzionali all’esercizio di compiti istituzionali e nella misura
necessaria al raggiungimento dei fini prefissati dai rispettivi statuti. in particolare, la corte di
giustizia ha precisato che anche qualora una determinata competenza non sia stata attribuita
all’unione, questo non significa che l’esercizio dei poteri possa essere limitato se ciò comporta
delle ripercussioni sui provvedimenti adottati nel settore in questione; è stato inoltre ritenuto
che quando un articolo dei trattati affida ad un’istituzione un compito specifico, si deve
ammettere, se non si vuol privare la disposizione di qualsiasi efficacia pratica, che esso le
attribuisce, per ciò stesso, necessariamente i poteri indispensabili per svolgere tale compito.
la corte si è servita anche di altri principi ermeneutici che, integrando la teoria dei poteri
impliciti, hanno favorito l’espansione delle competenze dell’unione – si fa riferimento, ad
esempio, all’interpretazione funzionale che, attribuendo un significato dinamico ed evolutivo a
talune disposizioni, ha esteso la portata delle singole attribuzioni.
• clausola di flessibilità: presente nei trattati sin dall’origine, ha permesso una vera e propria
estensione delle competenze dell’unione in materie non formalmente attribuitele. in particolare,
prefigura una formale procedura per l’ampliamento dei poteri che, seppur non espressamente
attribuiti, sono necessari per la realizzazione dei fini assegnati all’unione europea dai trattati.
il ricorso alla clausola ha sollevato, soprattutto in un primo momento, numerose critiche, in
quanto si riteneva che con essa si potesse facilmente aggirare la formale procedura di revisione
dei trattati, cosi pregiudicando la sovranità statale e, soprattutto, il potere dei parlamenti
nazionali e l’esigenza di democraticità del processo di integrazione europea. tale iniziale
scetticismo è stato tuttavia superato grazie alla garanzie offerte dalla procedura: coinvolgimento
di tutte le istituzioni e unanimità in seno al collegio.
il ricorso alla clausola di flessibilità è condizionato al rispetto di talune condizioni:
− l’azione dell’unione non può violare i principi generali di attribuzione delle competenze,
sussidiarietà e proporzionalità
− deve risultare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno
degli obiettivi di cui ai trattati - la valutazione della necessità dell’azione è rimessa al
consiglio sulla base di un proposta della commissione e di un parere del parlamento)
− deve essere compatibile con i principi generali dell’ordinamento, che includono i diritti e le
libertà sanciti nella carta dei diritti fondamentali dell’unione e nella CEDU (convenzione
europea dei diritti dell’uomo), nonché taluni principi enucleati dalla corte di giustizia.
il controllo sull’uso corretto dell’art. 352 TFUE è affidato ai parlamenti nazionali nelle ipotesi in
cui l’azione riguardi una materia di competenza concorrente con uno stato membro, ma
soprattutto e in generale alla corte di giustizia, alla quale compete impedire che la clausola possa
essere utilizzata per alterare l’identità dell’unione e, dunque, vigilare sul rispetto dei principi che
regolano la struttura istituzionale e i rapporti interistituzionali.
(1) COMPETENZE ESCLUSIVE
gli originari trattati istitutivi non avevano previsto in modo diretto ed espresso una ripartizione
di competenze tra comunità e stati membri - ripartizione che poteva comunque dedursi
dall’attribuzione delle diverse competenze alle istituzioni. con il trattato di lisbona, invece, il titolo
I della parte I del TFUE è stato dedicato espressamente a “categorie e settori di competenza
dell’unione”, la cui disciplina risulta poi diversamente graduata. in particolare, il nuovo sistema ha
riconosciuto in capo all’unione nuove competenze e ne ha attribuito formalmente altre, in parte
già esercitate. in realtà, le competenze dell’unione hanno ormai un carattere tendenzialmente
universale, essendo difficile individuare materie in cui le istituzioni, sia pure in forme e con intensità
diverse, non possono intervenire. tale carattere universale è però comunque mitigato dalla
possibilità di ridurre le competenze tramite la procedura ordinaria di revisione o tramite il ri-
esercizio da parte degli stati membri di una competenza concorrente qualora l’unione decida di
cessare di esercitare la propria.
le competenze dell’unione sono distinte, anzitutto, in esclusive e concorrenti; accanto a queste vanno
annoverate altre di natura e intensità diversa che possiamo definire come competenze
complementari:
1. competenze esclusive: presuppongono un trasferimento completo dell’originaria competenza
statale in capo all’unione, che potrà esercitarla nei modi e nei tempi che riterrà più opportuni
2. competenze concorrenti: materie in cui gli stati membri e l’unione sono contitolari e il cui
esercizio è regolato dai principi di sussidiarietà e proporzionalità
3. materie complementari: materie in cui l’unione affianca gli stati attraverso diverse forme di
intervento
4. competenza per definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune che comprende anche
la politica di difesa: regolata comunque dal metodo intergovernativo e rimessa all’azione
collettiva che, di volta in volta, deve essere precisata tramite accordo unanime.
i settori di competenza esclusiva sono tassativamente indicati nell’art. 3 TFUE: unione doganale,
definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica
monetaria per gli stati la cui moneta è l’euro, conservazione delle risorse biologiche del mare nel
quadro della politica comune della pesca e politica commerciale comune; si aggiunge poi la
conclusione di accordi internazionali contemplati in atti secondari ovvero necessari per esercitare
competenze interne o, ancora, in grado di incidere su norme comuni o di modificarne la portata NB
l’elenco non potrà essere ampliato in via interpretativa, ma soltanto attraverso la procedura di
revisione di cui all’art. 48 TUE.
l’esclusività non ammette alcuna azione degli stati, tranne in determinate ipotesi espressamente
contemplate. è opportuno precisare, però, che essendo competenze derivate è molto probabile che
la materia risulti già disciplinata a livello nazionale; pertanto, la competenza divenuta formalmente
esclusiva con l’attribuzione, lo diverrà sostanzialmente soltanto quando sarà esercitata = in
assenza di un intervento normativo delle istituzioni dell’unione gli stati potranno mantenere la
legislazione preesistente - a tal proposito l’art. 2 TFUE prevede che nei settori di competenza
esclusiva solo l’unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti; gli stati membri
possono farlo solo se autorizzati dall’unione oppure per dare attuazione agli atti dell’unione. in
altri termini, nell’ipotesi in cui la regolamentazione dell’unione dovesse risultare lacunosa o
incompleta, gli stati membri possono chiedere l’autorizzazione ad adottare atti legislativi oppure
possono essere direttamente delegati a dare attuazione a taluni atti dell’unione.
(2) COMPETENZA CONCORRENTE
l’art. 4 TFUE enumera i principali settori di competenza concorrente: mercato interno, politica
sociale per quanto riguarda gli aspetti definiti nel trattato, coesione economica, sociale e
territoriale, agricoltura e pesca (tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare, di
competenza esclusiva dell’unione), ambiente, protezione dei consumatori, trasporti, reti
transeuropee, energia, spazio di libertà, sicurezza e giustizia, problemi comuni di sicurezza in
materia di sanità pubblica per quanto riguarda gli aspetti definiti nel trattato NB l’elenco delle
materie di competenza concorrente è semplificativo e dunque suscettibile di essere integrato o
modificato alla luce di nuove e diverse esigenze.
i settori di competenza concorrente possono essere oggetto di attività legislativa tanto da parte
dell’unione quanto da parte degli stati, ma l’esercizio delle competenze concorrenti da parte
dell’unione è ancorato ai principi di sussidiarietà e proporzionalità. in particolare:
• principio di sussidiarietà, art. 5 TUE e art. 2 TFUE: l’intervento dell’unione nelle materie di
competenza concorrente è costruito in termini negativi e vincolato al verificarsi di una duplice
condizione:
− l’azione dell’unione, per la portata o per gli effetti, risulta più adeguata di quella presa a
livello statale/regionale/locale
− gli obiettivi non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri
NB le due condizioni devono necessariamente cumularsi.
l’esercizio di una competenza concorrente può riguardare anche solo taluni aspetti, limitandosi
a quelli per cui l’azione europea è necessaria e lasciando agli stati membri la piena titolarità
dei poteri residui. ciò significa che l’applicazione del principio in questione è in grado di
determinare diversi scenari:
a) gli stati dispongono dell’intera competenza normativa qualora l’unione si astenga da
qualsiasi forma di intervento o smetta di occuparsi del settore in questione
b) gli stati sono chiamati ad adottare semplicemente norme di attuazione qualora l’unione
intervenga con una disciplina non auto-applicativa
c) gli stati conservano una competenza sugli aspetti della materia non disciplinati dall’atto
dell’unione
d) gli stati subiscono la completa espropriazione delle proprie prerogative normative qualora
l’unione detti una disciplina esaustiva.
il rispetto e il funzionamento del principio è affidato ad uno specifico protocollo allegato ai
trattati, che individua precisi requisiti motivazionali di qualsiasi proposta di atto legislativo e
attribuisce ai parlamenti nazionali il controllo del rispetto del principio ex ante ed ex post. per
quanto riguarda il principio ex ante è previsto che la commissione trasmetta ogni progetto di
atto legislativo ai parlamenti nazionali al fine di consentire loro di formulare entro un termine
perentorio un parere motivato; il principio ex post, dunque successivamente all’adozione
dell’atto, prevede che la corte di giustizia possa essere investita, da un parlamento nazionale,
di un ricorso di annullamento contro un atto legislativo per violazione del principio di
sussidiarietà.
• principio di proporzionalità, art. 5 TUE: prevede che l’esercizio di una determinata competenza
risponda a tre requisiti sostanziali:
− deve essere utile e pertinente per la realizzazione dell’obiettivo per il quale la competenza è
stata conferita
− deve essere necessario e indispensabile
− deve esistere un nesso tra l’azione e l’obiettivo. specificamente, infatti, l’articolo in questione
prevede che il contenuto e la forma dell’azione dell’unione si limitino a quanto necessario per
il conseguimento degli obiettivi dei trattati.
il controllo del rispetto del principio è affidato alla corte di giustizia, secondo la quale la
legittimità della misura può essere inficiata solo dalla manifesta inidoneità della stessa rispetto
allo scopo che le istituzioni competenti intendono perseguire.
(3) COMPETENZE COMPLEMENTARI
le competenze complementari sono caratterizzate da un intervento dell’unione diversamente graduato
rispetto alle esigenze nazionali e si configura spesso come semplice coordinamento delle azioni degli stati
membri. più precisamente, gli stati hanno, in via primaria ed esclusiva, il potere di disciplinare il
settore, anche completamente; l’unione, invece, può essere chiamata a svolgere soltanto un’azione
integrativa e/o accessoria.
nei settori di competenza complementare l’intervento delle istituzioni europee assume forme ed
ampiezza diverse:
• azioni dirette a definire e attuare programmi relativi ai settori della ricerca, dello sviluppo
tecnologico e dello spazio; cui si aggiungono le azioni e la politica comune nei settori della
cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario
• azione di coordinamento che l’unione può svolgere in relazione alle politiche economiche
nazionali, a quelle occupazionali e a quelle sociali
• azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’intervento degli stati membri in materia di
tutela e miglioramento della salute umana, industria, cultura, turismo, istruzione, formazione
professionale, gioventù e sport, protezione civile e cooperazione amministrativa.
(4) COMPETENZE IN MATERIA DI PESC (politica estera e di sicurezza comune) E PSDC
(politica di sicurezza e difesa comune)
alle competenze sopra esaminate va aggiunta la competenza dell’unione in materia di politica estera
e di sicurezza comune (PESC) e di difesa e sicurezza comune (PSDC).
la PESC costituisce il principale settore dell’azione esterna dell’unione europea che ricomprende
tutte le attività svolte dalle istituzioni per partecipare alle relazioni internazionali, dirette a
sviluppare la reciproca solidarietà degli stati, ad individuare questioni di interesse generale e a
realizzare un livello sempre maggiore di convergenza delle azioni.
i confini di questa competenza non sono ben definiti. a tal fine, è possibile stabilire se un accordo
rientra nel settore della PESC o in altro ambito di competenza dell’unione soltanto alla luce dei suoi
obiettivi e, dunque, valutando se persegue o meno un interesse generale.
la necessità di stabilire l’ambito di competenza è rilevante ai fini della procedura da seguire, in
quanto l’art. 24 TUE in materia specifica che tale politica è soggetta a norme e procedure specifiche:
• è definita dal consiglio europeo e dal consiglio che deliberano all’unanimità, ma che non
possono adottare atti legislativi
• è attuata dall’alto rappresentante dell’unione europea per gli affari esteri e la politica di
sicurezza
• funzioni soltanto marginali sono riservate al parlamento e alla commissione
• il controllo della corte di giustizia è limitato alla valutazione del riparto di competenze tra
politiche materiali e PESC e della legittimità delle decisioni che comportano misure restrittive
per le persone fisiche o giuridiche.
dunque, tale settore assegna un ruolo predominante agli stati membri, cosi come confermato anche
dalle dichiarazioni nn. 13 e 14 secondo cui le competenze dell’unione in materia di PESC lasciano
impregiudicate:
− le competenze degli stati membri per la formulazione e conduzione della loro politica estera
− la loro rappresentanza nei paesi terzi e nelle organizzazioni internazionali
− le competenze degli stati in materia di sicurezza e di difesa
− la responsabilità degli stati e dei servizi diplomatici nazionali nella formulazione e nella
conduzione della politica estera e nella partecipazione alle organizzazioni internazionali.
sebbene parte integrante della PESC, la PSDC prevede una forma peculiare di integrazione
settoriale, ossia la cooperazione rafforzata strutturata permanente, affidata ad un gruppo ristretto
di stati. specificamente, l’obiettivo di questa politica è assicurare all’unione una capacità operativa
ricorrendo a mezzi civili e militari di cui la stessa unione può avvalersi per il mantenimento della
pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale.
anche in questo ambito le forze operative sono al momento fornite dagli stati membri, ma è previsto
il passaggio ad una vera e propria politica di difesa comune dell’unione. allo stato attuale, però, la
PSDC resta una politica di carattere marcatamente intergovernativo sia per il ruolo marginale
affidato alle istituzioni, che è lo stesso di quello loro attribuito in ambito PESC (non possono adottare
atti legislativi e il parlamento e la commissione hanno funzioni marginali), sia perché sono gli stati
a fornire i mezzi operativi per l’attuazione di tale politica.
PRINCIPIO DI LEALE COLLABORAZIONE
i rapporti tra unione e stati membri nell’esercizio di ogni tipo di competenza sono improntati al
principio di leale cooperazione di cui all’art. 4 TUE. si tratta di un principio strutturale dell’unione
per il buon funzionamento dell’organizzazione e il raggiungimento degli obiettivi stabiliti,
perseguibili unicamente se fra tutte le parti coinvolte si instaurino costantemente rapporti basati su
una corretta e adeguata collaborazione.
da tempo sono stati superati i limiti insiti in una prima superficiale lettura della disposizione,
secondo cui il principio in questione non sarebbe molto difforme dal tradizionale obbligo di
diritto internazionale (pacta sunt servanda) che impone alle parti contraenti di un trattato di
rispettare gli impegni assunti e di dare le possibilità alle eventuali istituzioni di adempiere alla loro
missione. infatti, poichè una simile interpretazione avrebbe conferito all’articolo in esame il
significato di ribadire inutilmente che gli obblighi sono obbligatori, la giurisprudenza gli ha
attribuito un ruolo di rilievo per garantire l’effettività, la coerenza e la completezza del sistema
istituito dai trattati. cosi, il principio di leale collaborazione è stato utilizzato per affermare che ogni
disposizione dei trattati va interpretata e applicata in modo funzionale al raggiungimento delle
sue finalità.
dal principio di leale collaborazione deriva un duplice obbligo in capo agli stati membri: assumere
tutti i comportamenti necessari al perseguimento degli obiettivi comuni predefiniti; astenersi da
comportamenti o dall’emanare atti che possano pregiudicare i raggiungimento di quegli obiettivi
comuni predefiniti. è però possibile scomporre entrambi i doveri in obblighi di profilo orizzontale,
verticale e trasversale. in particolare:
• obblighi di profilo orizzontale: non sono solo gli stati a dover collaborare tra loro per garantire
la realizzazione degli obiettivi comuni, ma anche le istituzioni dell’unione
• obblighi di profilo verticale: deve esserci una cooperazione non solo tra gli stati e tra le
istituzioni, ma anche tra stati e istituzioni
• obblighi di profilo trasversale: risulta importante anche il rapporto tra istituzioni e autorità
collocate a livelli diversi e con funzioni diverse.
bisogna in ultimo precisare che se è vero che il principio è stato utilizzato come chiave di lettura di
numerose disposizioni dei trattati o di diritti derivato, è anche vero che in origine non aveva una
sua chiara autonomia rispetto alle norme materiali cui veniva collegato; successivamente, invece,
gli sviluppi della prassi ne hanno progressivamente rilevato anche un ruolo autonomo di
parametro di legittimità. ne sono una chiara testimonianza le occasioni in cui è stata censurata la
mancata collaborazione degli stati membri per il corretto e puntuale controllo della commissione
sul rispetto del diritto dell’unione o la mancanza di iniziative, anche di tipo sanzionatorio, idonee a
garantire l’effettività delle norme dell’unione.
AMBITO DI APPLICAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE
il concetto di “ambito di applicazione del diritto dell’unione” individua l’area attratta nella sfera
di incidenza del principio delle competenze di attribuzione. in particolare, come detto
precedentemente, vi sono casi di competenza esclusiva in cui solo l’unione ha il potere di emanare
atti vincolanti, casi di competenza concorrente in cui unione e stati membri cooperano e casi di
competenza residuale degli stati membri – è per questo che la corte ha affermato che i limiti del
campo d’applicazione del diritto dell’unione sono incerti e aleatori.
nonostante l’eccezionale espansione che ha caratterizzato la sfera di efficacia del diritto dell’unione
è comunque evidente che permangono dei limiti alla sua applicazione, ovvero ci sono ambiti che
l’unione non può disciplinare o non è titolata a regolare. tali ambiti vengono definiti come
“situazioni puramente interne” e impediscono a priori l’applicazione delle norme del diritto
dell’unione. in un primo momento la giurisprudenza ha identificato tali situazioni con l’assenza
di elementi di estraneità nei fatti di causa da cui origina il procedimento nazionale oppure nelle
norme nazionali applicabili nel giudizio in questione. tuttavia, esistono situazioni che, pur non
presentando elementi transfrontalieri, sono idonee a ricadere nell’ambito di applicazione del diritto
dell’unione. per tale motivo, alla luce della giurisprudenza più recente, una situazione è definita
puramente interna non soltanto qualora i suoi elementi di fatto caratterizzanti si collochino tutti
all’interno di un unico stato membro, ma anche quando, più genericamente, la situazione non
presenta alcun fattore di collegamento con una qualsiasi delle situazioni contemplate dal diritto
dell’unione.
partendo da tale assunto, la corte ha progressivamente individuato una serie di limiti alla nozione
di situazione puramente interna che hanno ridimensionato la sua portata. in particolare, ha ritenuto
di potersi pronunciare sull’interpretazione delle disposizioni dei trattati relative alle libertà
fondamentali, anche in presenza di elementi tutti circoscritti all’interno di un solo stato membro e
questo quando vengono soddisfatte tre condizioni:
− le disposizioni possono essere applicate non solo nei confronti dei cittadini nazionali, ma
anche dei cittadini degli altri stati membri
− il diritto nazionale impone al giudice del rinvio di riconoscere ad un cittadino dello stato
membro di appartenenza del giudice gli stessi diritti di cui il cittadino di un altro stato
membro, nella stessa situazione, beneficerebbe in forza del diritto dell’unione
− le disposizioni del diritto dell’unione sono state rese applicabili dalla normativa nazionale.
COMPETENZE PROPRIE DEGLI STATI MEMBRI
altro limite all’applicazione del diritto dell’unione è rappresentato dai settori che gli stati membri
hanno voluto riservare alla propria competenza.
individuare tali competenze risulta non agevole, soprattutto perché non è sufficiente sottrarre dalle
materie in origine proprie degli stati membri quelle devolute, ma è necessario verificare in che
modo l’esercizio delle competenze da parte dell’unione sia destinato a restringere, di volta in
volta gli ambiti esclusivi nazionali. infatti, le competenze che gli stati conservano, nella maggior
parte dei casi sono soggette a erosione nonché ad essere attratte nella sfera di applicazione del diritto
dell’unione sia perché strumentali o complementari alla corretta efficacia di quest’ultimo, sia perché
interferiscono ed eventualmente impediscono l’effetto utile di conseguimento degli scopi di un atto
dell’unione, sia perché, qualora il loro esercizio si traduca in una misura vietata dai trattati,
comunque questa non potrà trovare applicazione in osservanza del primato della normativa
dell’unione.
è comunque possibile enucleare i principali settori riservati agli stati membri considerando le
norme convenzionali e le posizioni della giurisprudenza – bisogna precisare che attraverso una
revisione dei trattati questi potrebbero aumentare o diminuire con effetti di segno opposto su quelli
riconosciuti all’unione. innanzitutto, nell’art. 4 TUE è sancito che l’unione rispetta le funzioni
essenziali dello stato e, in particolare, quelle relative alla salvaguardia dell’integrità territoriale, al
mantenimento dell’ordine pubblico e alla tutela della sicurezza nazionale; sebbene poi non siano
qualificate come competenze esclusive, la PESC e la PSDC restano comunque nell’alveo degli stati
in quanto disciplinate dal metodo intergovernativo; ai sensi dell’art. 4TFUE sono poi riservati agli
stati i settori della politica sociale e della sanità pubblica per quanto riguarda gli aspetti non definiti
dai trattati, cui si aggiungono le materie complementari; le politiche economiche e quelle
occupazionali restano proprie degli stati, ma possono essere oggetto di un mero coordinamento in
sede dell’unione; l’art. 6 TUE elenca poi alcuni settori in cui l’intervento dell’unione è limitato a
sostenere, coordinare o completare l’azione degli stati, senza tuttavia potersi sostituire alla loro
competenza e senza poter procedere ad un’armonizzazione delle disposizioni legislative e
regolamentari nazionali: contenuto degli insegnamenti, organizzazione del sistema di istruzione e
di formazione professionale, politica sanitaria, organizzazione, gestione e fornitura di servizi
sanitari e di assistenza medica nonché assegnazione delle risorse loro destinate. a questi sono poi
stati aggiunti dalla giurisprudenza la protezione sociale, la fiscalità diretta, lo status personale, la
materia penale e la procedura penale, la disciplina processuale e la proprietà immobiliare.
l’esercizio delle competenze proprie degli stati membri è comunque vincolato al rispetto degli
obblighi derivanti dall’appartenenza all’unione oltre che al principio di leale cooperazione. a tal
ultimo proposito, infatti, la corte di giustizia ha fatto discendere dal principio precisi doveri in
capo agli stati al fine di assicurare l’esecuzione diligente degli obblighi convenzionali; inoltre,
sempre in ossequio al principio di leale cooperazione, è previsto che gli stati si astengano
dall’adottare misure suscettibili di ostacolare o di compromettere la realizzazione degli obiettivi
dei trattati e, più precisamente, lo sviluppo delle politiche comuni e l’attività delle istituzioni. in
tal senso assume rilievo il fatto che, qualora per la realizzazione di una politica le istituzioni abbiano
adottato norme comuni, gli stati membri non hanno più il potere di contrarre con gli stati terzi
trattati in grado di incidere su tali norme. si tratta dunque di una limitazione molto stringente della
competenza a stipulare degli stati membri nelle materie loro riservate.
STRUTTURA ISTITUZIONALE
nel corso degli anni il quadro istituzionale dell’unione e il suo equilibrio sono profondamente
cambiati, passando dall’iniziale duopolio della commissione e del consiglio, al pieno
coinvolgimento anche del parlamento europeo al fine di incrementare la legittimità democratica
del sistema nel suo insieme. nel suo complesso si tratta di un sistema istituzionale che non
riscontriamo in alcuna organizzazione internazionale o statale, in quanto riflette le caratteristiche
peculiari e sui generis dell’unione.
si utilizza l’espressione “triangolo istituzionale” per evidenziare il ruolo fondamentale esercitato
da tre istituzioni nel processo legislativo e decisionale dell’unione: (quasi) monopolio della proposta
in favore dell’istituzione che rappresenta gli interessi dell’unione (commissione) e sua
approvazione da parte delle istituzioni che rappresentano gli interessi degli stati membri
(consiglio) e dei cittadini europei (parlamento europeo).
oltre al ruolo di queste tre istituzioni, non può essere messo in secondo piano quello centrale
esercitato dal consiglio europeo, che rappresenta, insieme al consiglio, gli interessi degli stati,
detta l’agenda politica dell’unione e definisce le priorità della sua azione che vanno poi tradotte in
atti legislativi da parte del triangolo istituzionale.
accanto a queste quattro istituzioni politiche si pone la corte di giustizia, che assume un ruolo
fondamentale nel sistema di tutela giurisdizionale e che, più in generale, contribuisce in modo
determinante a realizzare un’”unione di diritto” nella quale né gli stati membri né le istituzioni
sono sottratti al controllo della conformità dei loro comportamenti al livello costituzionale costituito
dai trattati.
rientrano tra le istituzioni dell’unione anche la corte dei conti e la banca centrale europea: la prima
controlla i conti dell’unione, sebbene le sue competenze non siano equiparabili a quelle delle altre
istituzioni; la seconda assume un ruolo prioritario nell’ambito dell’unione economica e monetaria,
che manifesta una forte discontinuità sul piano istituzionale rispetto alle altre politiche dell’unione.
il quadro istituzionale cambia ancora di più in relazione alla politica estera e di sicurezza comune,
poichè il filo conduttore di questa politica è rappresentato dal fatto che i protagonisti sono gli stati
membri e le istituzioni che maggiormente gli rappresentano (consiglio europeo e consiglio), oltre
che l’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza; la commissione e
il parlamento sono relegati ad un ruolo secondario. in questo settore non è riconosciuto un
sindacato giurisdizionale della corte di giustizia, salvo il controllo sul rispetto dell’art. 40 TUE che
definisce i confini tra il settore della PESC e gli altri settori dell’unione, e una residuale competenza
sui ricorsi riguardanti il controllo della legittimità delle misure restrittive nei confronti di persone
fisiche o giuridiche adottate dal consiglio.
l’assetto attuale dell’unione è il risultato delle novità introdotte dal trattato di lisbona, che ha
modificato il quadro istituzionale con l’obiettivo di promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi,
servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli stati membri, garantire la coerenza,
l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle sue azioni (art. 13 comma 1 TUE). con l’entrata
in vigore del trattato di lisbona, in particolare, il consiglio europeo è stato formalmente inserito nel
novero delle istituzioni, riservato agli organi di fondamentale importanza dell’unione NB la
nozione di istituzione dell’unione non ha un significato soltanto formale, ma comporta delle
significative conseguenze poichè alcune norme di TUE e TFUE si applicano soltanto nei loro
confronti. in particolare, nell’assetto attuale, sono qualificate come istituzioni dell’unione (art. 13
comma 2 TUE):
1. parlamento europeo
2. consiglio europeo
3. consiglio
4. commissione europea
5. corte di giustizia dell’unione europea
6. banca centrale europea
7. corte dei conti.
in questa cornice sono state introdotte nuove figure, quali il presidente del consiglio europeo e
l’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e per la politica di sicurezza. accanto alle
istituzioni operano anche altri organismi, alcuni menzionati dai trattati, altri creati con atti delle
istituzioni sulla base della c.d. clausola di flessibilità. tali organismi svolgono funzioni diverse, più
o meno rilevanti, ma non hanno competenze paragonabili a quelle delle istituzioni dell’unione;
agiscono in base ai principi delle competenze di attribuzione e di leale cooperazione: in base al
primo ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati,
secondo le procedure, condizioni e finalità da esse previste; il principio di leale cooperazione viene
invece in rilievo nella sua dimensione orizzontale, che valorizza la collaborazione tra le istituzioni
al fine di raggiungere gli obiettivi definiti dai trattati. in ultimo, occorre ricordare anche l’obbligo di
rispettare l’equilibrio istituzionale dell’unione, che impone a ciascuna istituzione di esercitare la
propria competenza senza compromettere quelle delle altre.
1. PARLAMENTO EUROPEO – rappresenta gli interessi dei cittadini europei
il parlamento europeo è composto dai rappresentanti dei cittadini dell’unione; esercita,
congiuntamente al consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio, nonché funzioni di
controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai trattati ed elegge il presidente della
commissione (art. 14 TUE).
si tratta di un’istituzione anomala per composizione rispetto a quelle tradizionali di
un’organizzazione internazionale e in parte anche per competenze rispetto ad una struttura di
tipo federale o comunque statale. per questo, possiamo dire che il parlamento è emblematico della
specificità dell’unione: riassume le spinte verso una democratizzazione dei processi decisionali e,
allo stesso tempo, verso la realizzazione di un livello più marcato di integrazione,
tendenzialmente sul modello di una struttura di tipo federale. inoltre, le numerose innovazioni
apportate fino al trattato di lisbona ne hanno ampliato i poteri di controllo e di esercizio della
funzione legislativa, nonché in materia di bilancio.
evoluzione storica della composizione: originariamente assemblea comune, poi assemblea
parlamentare europea e successivamente parlamento europeo in virtù di una sua decisione risalente
al 1962 e poi dell’atto unico, l’istituzione fu per molti anni composta da membri dei parlamenti
nazionali da questi designati, rendendo cosi la rappresentatività dei popoli riuniti nella comunità
indiretta e imperfetta: indiretta in quanto i parlamentari non venivano eletti direttamente dai
cittadini europei, bensì dai rappresentanti di questi ultimi eletti in seno ai rispettivi parlamenti;
imperfetta in quanto, almeno in alcuni casi, non rifletteva esattamente e proporzionalmente la
presenza di tutte le componenti politiche in seno ai parlamenti nazionali. prefigurata dai trattati
istitutivi, l’elezione diretta dei membri del parlamento fu decisa da un atto del consiglio europeo
del 1976.
il numero dei parlamentari europei che spettano ad ogni stato, che non può essere inferiore a 6 né
superiore a 96, è stabilito in base al principio di proporzionalità degressiva: i paesi con una
popolazione più elevata hanno più seggi rispetto ai paesi di dimensioni minori, che tuttavia
ottengono un numero di seggi superiore aa quello che avrebbero in base ad un rapporto puramente
proporzionale tra numero dei parlamentari e popolazione.
i parlamentari hanno un mandato di cinque anni e sono divisi in gruppi politici e non in gruppi
nazionali, anche se essi possono decidere di non aderire a nessun gruppo – la determinazione dello
statuto dei partiti politici e le norme sul loro finanziamento sono stabilite dal consiglio e dal
medesimo parlamento attraverso la procedura legislativa ordinaria. nel parlamento europeo ci sono
attualmente 8 gruppi politici e ciascuno di essi è composto da un numero minimo di 25 deputati.
organizzazione: nell’organizzazione dei lavori i parlamentari si dividono in commissioni
permanenti con competenza per materie, che riflettono la suddivisione tra le direzioni generali
della commissione.
il parlamento europeo elegge, tra i suoi membri, il presidente e l’ufficio di presidenza. in
particolare, il presidente viene eletto per un mandato di due anni e mezzo; rappresenta il
parlamento all’esterno e nelle sue relazioni con le altre istituzioni europee e nomina i
vicepresidenti; ne presiede e ne ordina i lavori e le discussioni garantendo il rispetto del
regolamento interno; con la sua firma adotta formalmente il bilancio dell’unione dopo
l’approvazione del parlamento.
immunità e privilegi: un protocollo allegato al TFUE precisa le immunità e i privilegi riconosciuti ai
membri del parlamento europeo:
− non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti per le loro opinioni o per i voti espressi
nell’esercizio delle loro funzioni
− per la durata delle sessioni, ai parlamentari europei sono estese, sul territorio nazionale, le stesse
immunità riconosciute ai membri del parlamento del loro paese; sul territorio degli altri stati
membri i parlamentari europei sono esenti da provvedimenti di detenzione e da procedimenti
giudiziari, anche relativamente agli atti compiuti al di fuori delle loro funzioni.
tali immunità incontrano un limite nell’ipotesi di flagrante delitto.
in ogni caso, al parlamento europeo è riconosciuta la possibilità di privare un parlamentare delle
immunità sopra indicate NB la libertà di espressione dei parlamentari, pur beneficiando di una
tutela rafforzata, deve eccezionalmente cedere il passo ai legittimi interessi costituiti dalla tutela
del corretto svolgimento delle attività parlamentari e della protezione degli altri parlamentari.
poteri:
• potere di controllo: tra il parlamento e la commissione non c’era mai stato un vero e proprio
rapporto di fiducia, nel senso attribuito all’espressione nello schema tradizionale di democrazia
parlamentare: i membri della commissione, infatti, erano designati dagli stati membri senza una
partecipazione sostanziale del parlamento. tuttavia, il trattato di lisbona, modificando la
procedura di nomina della commissione, ha introdotto in questa materia significative novità
proprio nel senso di una più consistente partecipazione del parlamento che, ad oggi, è chiamato
ad eleggere il presidente della commissione proposto dal consiglio europeo e, in secondo
luogo, ad esprimere un voto di approvazione del presidente, dell’alto responsabile per gli
affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati.
la commissione è tenuta a presentare annualmente al parlamento una relazione generale
sull’attività svolta nell’anno precedente, nonché relazioni annuali sulla situazione
dell’agricoltura, sociale e sulla politica di concorrenza. in tali occasioni il parlamento procede
al loro esame al fine di esercitare la sua funzione di controllo sull’azione della commissione;
inoltre, quest’ultima presenta al parlamento europeo un programma d’azione relativo all’anno
successivo, consentendo cosi anche un controllo preventivo sulle future attività che la
commissione intende sviluppare. si aggiungono poi le interrogazioni del parlamento o dei suoi
membri alla commissione, nonché la partecipazione dei membri o dei funzionari della
commissione o del consiglio ai lavori delle commissioni parlamentari, al fine di rendere
effettiva l’attività di controllo del parlamento.
significativa è poi la possibilità per il parlamento di pronunciare una censura sull’operato della
commissione: se il parlamento utilizza questo strumento i membri della commissione si
dimettono collettivamente dalle loro funzioni e l’alto rappresentante dell’unione per gli affari
esteri e la politica di sicurezza si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla commissioni
– in realtà le occasioni in cui tale mozione di censura è stata presentata sono state molto rare e
non si è arrivati mai alla sua approvazione; appare dunque un’arma che ha, nella pratica, una
valenza ridotta.
nel corso degli anni il potere di controllo del parlamento si è esteso anche alle altre istituzioni,
pur risultando più debole di quello esercitato nei confronti della commissione; in particolare,
il suo potere di controllo nei confronti del consiglio può essere considerato di carattere
meramente morale.
• potere normativo: è stato progressivamente rafforzato da un lato, prevedendo una
partecipazione sempre più intensa al processo di formazione degli atti dell’unione e di
conclusione di accordi internazionali negoziati dalla commissione e dal consiglio; dall’altro,
attribuendo al parlamento europeo, nella procedura di bilancio, una posizione equiparata al
consiglio e ampliandone il ruolo nella procedura di revisione dei trattati.
la partecipazione al procedimento legislativo si manifesta con intensità diversa a seconda che i
trattati attribuiscano al parlamento solo un diritto di consultazione o, invece, un potere di
codecisione o, addirittura, di autonomia decisionale. tuttavia, il trattato di lisbona ha accresciuto
ancora di più il ruolo del parlamento europeo rendendo procedura legislativa ordinaria la
procedura di codecisione (art. 294 TFUE) – il parlamento, inoltre, gode ormai di un vero e proprio
potere generale di pre-iniziativa legislativa: in virtù dell’art. 225 TFUE può infatti chiedere alla
commissione di presentare proposte adeguate quando reputi necessaria l’adozione di un atto
dell’unione europea.
• potere di approvazione del bilancio.
i trattati di riforma hanno introdotto ulteriori novità di sicuro rilievo:
− il trattato di nizza ha collocato il parlamento europeo sullo stesso piano della commissione e del
consiglio quanto alla possibilità di adire la corte di giustizia sollevando l’azione di
annullamento
− è stata prevista la possibilità per il parlamento, e non più soltanto per il consiglio, la commissione
e gli stati membri, di chiedere alla corte di giustizia un parere sulla compatibilità di un accordo
internazionale con le disposizioni del trattato (art. 218 TFUE).
2. CONSIGLIO EUROPEO (riunione trimestrale)
nato parallelamente ma all’esterno della struttura istituzionale comunitaria, dalla prassi delle
riunioni al vertice tra i capi di stato o di governo degli stati membri che dal 1961 fino ai primi anni
’70 si sono tenute senza una cadenza regolare per discutere questioni attinenti alla vita e allo
sviluppo della comunità, vede la formalizzazione della sua esistenza con l’atto unico, che ne
stabilisce anche la cadenza delle riunioni.
nel sistema antecedente all’entrata in vigore del trattato di lisbona, il consiglio europeo occupava
una posizione peculiare e di rilievo, ma non era collocato all’interno del sistema istituzionale in
senso proprio; il trattato di lisbona lo ha invece inserito a pieno titolo tra le istituzioni dell’unione.
composizione, art. 15 TUE: le novità più significative introdotte dal suddetto trattato riguardano la
composizione.
• capi di stato o di governo degli stati membri, dal suo presidente e dal presidente della
commissione; la partecipazione del capo dello stato o del governo dipende dalle norme nazionali
dello stato membro e, dunque, dalla forma di governo prescelta (es. il rappresentante per l’italia
è il capo del governo – in quanto repubblica parlamentare; il rappresentante per la francia è il
presidente della repubblica – in quanto repubblica semipresidenziale).
• alto rappresentante dell’unione europea per gli affari esteri: partecipa ai lavori senza però far
formalmente parte del consiglio europeo
• quando l’ordine del giorno lo richieda, la composizione può essere integrata da un ministro che
assiste ogni membro del consiglio europeo e da un membro della commissione che assiste il
presidente della commissione; in ultimo, il presidente del parlamento europeo può essere
eventualmente invitato alle riunioni per essere ascoltato.
altra novità rilevante introdotta dal trattato di lisbona è la stabilità attribuita al presidente, eletto
dal consiglio europeo a maggioranza qualificata per un periodo di due anni e mezzo, rinnovabile
una volta e preclusivo di ogni mandato nazionale. in particolare:
− il presidente è investito del compito di presiedere e animare i lavori del consiglio europeo
− ne deve assicurare la preparazione e la continuità dei lavori in cooperazione con il presidente
della commissione e in base ai lavori del consiglio affari generali
− deve adoperarsi per facilitare la coesione e il consenso il seno all’istituzione
− presentare al parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle riunioni
− deve assicurare la rappresentanza esterna dell’unione per le materie relative alla politica estera
e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni affidate all’alto rappresentante dell’unione
europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza con il quale si coordina.
competenze, art. 15 TUE:
• ruolo di impulso e definizione degli orientamenti politici generali necessari allo sviluppo
dell’unione europea
• non esercita funzioni legislative
• funzione di indirizzo politico nel settore della politica estera e di sicurezza comune e nel settore
della politica di sicurezza e di difesa comune (art. 22 TUE)
• precisa gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nelle materie
relative allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (art. 68 TFUE)
• garante del rispetto dei principi fondamentali di cui all’art. 7 TUE cui sono tenuti gli stati membri.
3. CONSIGLIO (DELL’UNIONE EUROPEA) – rappresenta gli interessi degli stati membri
composizione: il consiglio (già consiglio dei ministri) è composto dai rappresentanti di tutti gli stati
membri scelti nell’ambito dei rispettivi governi e normalmente con il rango di ministri in funzione
della materia trattata. si tratta dunque di un organo di stati, in quanto i membri che lo compongono
rappresentano i rispettivi stati membri e a questi ultimi rispondono.
è un organo a composizione variabile e si riunisce in diverse formazioni a seconda dell’argomento
trattato, il cui elenco è adottato a maggioranza qualificata dal consiglio europeo ad eccezione delle
formazioni “affari generali” e “affari esteri” che sono definite dallo stesso trattato. in particolare, il
consiglio affari generali assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del consiglio e
rappresenta un momento di collegamento rispetto al consiglio europeo, dovendo preparare i lavori
di questo e confermandone il pieno inserimento nel quadro istituzionale dell’unione; il consiglio
affari esteri elabora invece l’azione esterna dell’unione secondo le linee strategiche definite dal
consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’unione.
la presidenza delle formazioni del consiglio, tranne quella “affari esteri” che spetta all’alto
rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, è esercitata da gruppi
predeterminati di tre stati membri per un periodo di diciotto mesi secondo un sistema di rotazione
paritaria stabilito da una deliberazione, a maggioranza qualificata, del consiglio europeo.
il presidente in carica è coadiuvato nella sua attività dal presidente che lo ha preceduto e da quello
che gli succederà.
il consiglio è assistito da un segretariato generale che ne rappresenta il supporto funzionale ed
amministrativo; gioca talvolta un ruolo di mediatore nelle negoziazioni, agevolando contatti
preparatori tra le delegazioni degli stati membri.
di rilievo è il COREPER (comitato dei rappresentanti permanenti degli stati membri), responsabile
della preparazione dei lavori del consiglio e della realizzazione dei compiti ad esso attribuiti;
può essere considerato una struttura di collegamento tra l’unione e i paesi membri e di
coordinamento del lavoro delle tante commissioni tecniche che preparano l’attività normativa
del consiglio, di cui rappresenta il filtro politico: il consiglio, infatti, trasmette le proposte legislative
della commissione al COREPER che, una volta istruite e discusse, ricerca una posizione unanime su ognuna
di esse: se viene raggiunta l’unanimità, la proposta è inserita nell’ordine del giorno del consiglio che,
di regola, la approva senza ridiscuterla; diversamente, la questione è iscritta, ma viene ri-discussa
in seno al consiglio sulla base del rapporto istruttorio presentato dal COREPER - quest’ultimo ha
perciò un’influenza fondamentale nel processo decisionale del consiglio.
poteri: al consiglio è attribuito un vasto potere normativo e di coordinamento. infatti, ai sensi
dell’art. 16 TUE il consiglio esercita, congiuntamente al parlamento europeo, la funzione legislativa
e la funzione di bilancio; esercita altresì funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento
alle condizioni stabilite nei trattati. il consiglio è, dunque, l’istituzione cui sono affidati in via
principale tanto l’esercizio del potere legislativo, sempre più condiviso con il parlamento, quanto
la responsabilità dei rapporti esterni: il consiglio, infatti, autorizza la commissione a negoziare
accordi internazionali, ne autorizza la firma e li conclude.
i poteri del consiglio rispondono al principio delle competenze di attribuzione, essendo il loro
esercizio collegato ad espresse previsioni nei trattati; fa eccezione la competenza del consiglio in
base all’art. 352 TFUE, disposizione-chiave dell’intero sistema, che consente al consiglio di adottare
all’unanimità un atto normativo in materie non espressamente attribuite alla sfera delle competenze
dell’unione se un’azione dell’unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai
trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati, senza che questi ultimi abbiano previsto
i poteri di azione richiesti a tal fine.
4. COMMISSIONE EUROPEA (“esecutivo europeo”) – rappresenta gli interessi dell’unione
la commissione europea è, al contrario del consiglio, un organo di individui: i suoi membri
esercitano le loro funzioni in piena indipendenza e non sollecitano né accettano istruzioni da
alcun governo, istituzione, organo o organismo (art. 17 TUE), fatta eccezione per la figura dell’alto
rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
composizione: i trattati avevano previsto, a decorrere dal 2014, la riduzione del numero dei
commissari in modo da corrispondere soltanto ai 2/3 del numero degli stati membri. tuttavia, nel
consiglio europeo del 2008 è stato deciso che la commissione avrebbe continuato ad essere
composta da un cittadino di ciascuno stato membro che, a tal fine, sarebbe stata adottata una
decisione; decisione intervenuta nel 2013 ad opera del consiglio europeo: la commissione è
composta da un numero di membri, compreso il presidente e l’alto rappresentante dell’unione per
gli affari esteri e la politica di sicurezza, pari al numero degli stati membri. in tal modo sono stati
dunque vanificati tutti gli sforzi profusi per rendere più snello ed efficace il sistema di
funzionamento della commissione.
il mandato dei commissari è di cinque anni ed è rinnovabile; la responsabilità di nomina del
presidente e dei membri della commissione spetta al consiglio europeo. in particolare, la revisione
dei trattati operata a lisbona aveva formalmente aperto la strada al sistema dei candidati guida: il
consiglio europeo avrebbe proposto al parlamento un candidato alla carica di presidente della
commissione tenuto conto delle elezioni; il consiglio europeo era così obbligato ad assegnare la
presidenza della commissione al candidato principale prescelto dal partito politico europeo che
aveva ottenuto il maggior numero di seggi in parlamento. tuttavia, nella tornata elettorale del 2019,
è stato designato quale nuovo presidente della commissione un soggetto diverso dal c.d. candidato
guida, mettendo per il momento fine all’affermazione del meccanismo in discorso. in particolare,
(1) il candidato è eletto dal paramento europeo con deliberazione a maggioranza dei membri che lo
compongono; qualora questo non dovesse ottenere la maggioranza, il consiglio europeo, sempre a
maggioranza qualificata, entro un mese, designa un nuovo candidato che deve essere eletto dal
parlamento europeo secondo la stessa procedura. (2) il consiglio procede poi, di comune accordo
con il presidente eletto, all’adozione dell’elenco delle altre persone che intende nominare come
commissari, in conformità alle proposte avanzate da ciascuno stato membro – in questa fase i
candidati sono sottoposti alle audizioni delle diverse commissioni parlamentari: se emerge un
giudizio negativo sull’elezione dei candidati prescelti, il consiglio e il presidente propongono nuove
designazioni. in ultimo, la commissione nel suo insieme, comprensiva del presidente e dell’alto
rappresentante, (3) è sottoposta ad un voto di approvazione del parlamento europeo, a seguito del
quale la commissione è formalmente nominata dal consiglio europeo a maggioranza qualificata –
tale procedura determina un consolidamento della commissione nel suo insieme attraverso una
maggiore responsabilità politica nei confronti del parlamento.
al presidente della commissione è affidata l’organizzazione interna e il coordinamento dell’attività
della commissione. il suo ruolo ha acquistato nel tempo una maggiore connotazione politica: oltre
a definire l’indirizzo politico della commissione, infatti, gode di un potere piuttosto ampio nella
strutturazione e nella ripartizione delle competenze ai singoli commissari; previa approvazione del
collegio nomina i vicepresidenti, ad eccezione dell’alto rappresentante per gli affari esteri, e può far
rassegnare le dimissioni ai membri della commissione.
poteri: definita comunemente ma impropriamente, l’”esecutivo”, la commissione ha un ruolo
centrale nell’assetto istituzionale:
• promuove l’interesse generale dell’unione
• partecipa in modo sostanziale al processo di formazione delle norme e ne controlla la puntuale
esecuzione: il potere di proposta degli atti legislativi è esclusivo della commissione, salvo che i
trattati non dispongano diversamente. ciò vuol dire che, se da una parte il consiglio può
emendare la proposta della commissione solo all’unanimità, dall’altra la commissione può, in
ogni momento e fino all’adozione dell’atto, modificare la propria proposta – per gli atti non
legislativi vale la regola opposta: sono adottati su proposta della commissione solo se questo è
previsto dai trattati.
la proposta della commissione può anche essere sollecitata dal consiglio, dal parlamento o dai
cittadini dell’unione, in un numero di almeno un milione e a condizione che abbiano la
cittadinanza di un numero significativo di stati membri. tuttavia, queste ipotesi si fermano allo
stato della pre-iniziativa legislativa, in quanto la commissione beneficia di un potere valutativo
discrezionale che la libera dall’obbligo di dar seguito a tali richieste - pur dovendo motivare
l’eventuale diniego.
la proposta legislativa è il frutto di considerazioni tecniche, economiche e in parte anche politiche.
infatti, un progetto di proposta che nasce all’interno della direzione generale competente viene
(1) esaminato dal servizio giuridico e da commissioni di esperti, anche esterni alla struttura
normalmente inviati dalle amministrazioni competenti dei paesi membri; (2) vengono poi sentiti
gli organismi di categoria e all’occorrenza le parti sociali; (3) infine viene sottoposto
all’approvazione collegiale.
per quanto riguarda poi l’esecuzione dei trattati e degli atti derivati, viene in rilievo un duplice
profilo:
− controllo sull’osservanza del diritto dell’unione, art. 17 TUE: la commissione vigila
sull’applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati e
vigila sull’applicazione del diritto dell’unione europea sotto il controllo della corte di
giustizia. a tal fine è stato predisposto un meccanismo generale di contestazione delle
infrazioni (art. 258 TFUE) che la commissione attiva nei confronti dello stato membro
inadempiente a mezzo di una messa in mora e quindi di un parere motivato; in caso di
persistente inadempimento la commissione propone ricorso dinanzi alla corte di giustizia per
l’accertamento giurisdizionale dell’infrazione.
− esecuzione in senso proprio.
• ha la rappresentanza dell’unione, fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune
affidata all’alto rappresentante
• ha un autonomo potere di decisione in settori specificamente definiti dai trattati e, qualora il
consiglio e il parlamento lo prevedano negli atti da essi adottati, un potere delegato.
5. CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
la corte di giustizia dell’unione europea comprende la corte di giustizia, il tribunale e i tribunali
specializzati (art. 19 TUE). è l’istituzione cui è attribuito il controllo giurisdizionale da una parte
sulla legittimità degli atti e dei comportamenti delle istituzioni dell’unione rispetto ai trattati;
dall’altra sull’interpretazione del diritto dell’unione.
CORTE DI GIUSTIZIA:
composizione: la corte di giustizia è composta da un giudice per ogni stato membro ed è assistita
da avvocati generali* il cui numero è attualmente fissato in undici – attualmente i cinque stati
dell’unione con la popolazione più numerosa (germania, francia, italia, spagna e polonia)
dispongono di un avvocato generale permanente; i rimanenti sei sono sottoposti ad un sistema di
rotazione.
si tratta di un organo di individui, nel senso che i suoi membri non rappresentano i rispettivi stati
di appartenenza e non ne ricevono istruzione alcuna.
giudici e avvocati generali hanno il medesimo statuto e sono nominati di comune accordo dagli
stati membri, ovvero dalla conferenza dei rappresentanti degli stati membri, per la durata di sei
anni, tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni per
l’esercizio, nel paese di appartenenza, delle più alte funzioni giurisdizionali o che siano giuristi di
notoria competenza. il mandato può essere rinnovato NB il trattato di lisbona ha introdotto l’obbligo
di previa consultazione di un comitato composto da sette personalità tra ex membri della corte di
giustizia e del tribunale, al fine di ottenere un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio
delle funzioni di giudice e di avvocato generale.
il presidente della corte viene eletto tra i giudici per tre anni. dirige l’attività della corte nel suo
insieme, sia sotto il profilo giurisdizionale che amministrativo; dirige le udienze plenarie, designa
il giudice relatore per ogni causa ed esercita tutte le competenze che il regolamento di procedura
gli attribuisce; di rilievo è poi la competenza in materia di provvedimenti cautelari e d’urgenza,
nonché di sospensione dell’esecuzione delle sentenze.
*l’avvocato generale ha il compito di presentare pubblicamente, in completa indipendenza
rispetto alle parti e all’unione, conclusioni scritte e motivate nelle cause trattate dinanzi alla corte.
in base all’art. 252 TFUE le conclusioni sono presentate non in tutte le cause, come avveniva prima
della riforma introdotta con il trattato di nizza, ma soltanto rispetto a quelle che, conformemente
allo statuto della corte, lo richiedono. a sua volta, lo statuto precisa che la corte potrà escludere le
conclusioni dell’avvocato generale sentito quest’ultimo e quando la questione non presenti nuovi
punti di diritto.
la corte di giustizia nomina per un periodo di sei anni il cancelliere, che oltre ad esercitare le funzioni
normalmente connesse a questa figura (tenuta del ruolo delle cause, ricezione di tutti gli atti e
documenti a queste relative, notifiche previste dalle norme di procedura, ecc.), provvede
all’amministrazione e alla gestione finanziaria della corte, sotto la responsabilità del presidente.
anche il mandato del cancelliere può essere rinnovato.
formazioni: la corte può sedere sia nella sua composizione plenaria di 15 giudici (denominata
“grande sezione”), sia in sezioni di cinque o tre giudici. per una maggiore flessibilità del sistema è
consentita la rimessione alle sezioni in ogni caso, salvo che la grande sezione non sia
espressamente richiesta da uno stato membro o da un’istituzione che sia parte; i casi di ricorso
alla plenaria sono invece limitati ad una serie di cause contro mediatore, membri della commissione
e membri del consiglio per mancanza o venir meno delle condizioni necessarie allo svolgimento
della funzione. inoltre, la corte può decidere, sentito anche l’avvocato generale, di rinviare un
giudizio pendente alla plenaria per l’importanza eccezionale delle questioni sollevate nello stesso.
TRIBUNALE: l’atto unico aveva previsto che il consiglio potesse, con decisione unanime, su
domanda della stessa corte di giustizia e previo parere della commissione e del parlamento,
affiancare alla corte un altro organo giurisdizionale. tale previsione ha trovato attuazione in una
decisione del 1988 con cui è stato istituito il tribunale di primo grado delle comunità europee, ora
tribunale dell’unione europea. le modifiche apportate al riguardo dal trattato di maastricht hanno
inciso, oltre che sulla sfera delle competenze attribuibili, anche sulla collocazione del nuovo organo
nell’ambito del sistema istituzionale dell’unione. infatti, il tribunale è divenuto, definitivamente,
parte integrante dell’apparato giurisdizionale dell’unione, senza che la sua esistenza dipenda da
un atto del consiglio, il cui potere è ora limitato alla definizione della sua organizzazione e
competenze. inoltre, il trattato di nizza prima e il trattato di lisbona dopo, hanno completato questo
percorso riconoscendo formalmente il ruolo di giurisdizione autonoma attribuito al tribunale.
più precisamente, ai sensi dell’art. 19 TUE, il tribunale è compreso nella corte di giustizia
dell’unione.
composizione: il tribunale è composto da almeno un giudice per stato membro con requisiti
sostanzialmente analoghi a quelli dei membri della corte e nominati con le stesse modalità previa
consultazione del comitato.
diversamente dalla corte, il tribunale, nella trattazione delle cause che gli vengono sottoposte, non
viene sistematicamente assistito dall’avvocato generale, che può tuttavia essere nominato nei casi
previsti dallo statuto, scegliendolo tra i giudici, soltanto quando il tribunale siede in plenaria o
quando lo esigono le difficoltà in diritto o la complessità in fatto della causa.
competenze: la competenza del tribunale, limitata in un primo tempo al contenzioso del personale
e ai ricorsi individuali in materia di concorrenza, è stata estesa ai ricorsi diretti, ad eccezione di
quelli che lo statuto riserva alla corte di giustizia – il trattato prevede che lo statuto possa estendere
la competenza a categorie di ricorsi dalle quali è al momento escluso.
conformemente alle disposizioni introdotte dal trattato di nizza, lo statuto ha modificato il riparto
di competenze tra corte di giustizia e tribunale:
• corte di giustizia: ricorsi di annullamento e in carenza avverso gli atti del parlamento e del
consiglio presentati dalle istituzioni o dagli stati, nonché gli atti della commissione in tema di
cooperazione rafforzata
• tribunale:
− competenza a conoscere di tutti i ricorsi avverso gli atti o carenze della commissione,
prescindendo dalla qualità del ricorrente, che potrebbe quindi anche essere uno stato o un’altra
istituzione
− competenza a conoscere le questioni pregiudiziali, sia pure in materie specifiche indicate
nello statuto (art. 256 TFUE).
in questi casi il tribunale potrà anche decidere di rinviare la decisione alla corte qualora ravvisi
la necessità di una decisione di principio tale da poter compromettere l’unita o la coerenza del
diritto comunitario. a conferma della cautela con la quale si è inteso coinvolgere il tribunale nella
definizione delle questioni pregiudiziali, l’articolo in questione prevede che la sentenza dello
stesso possa essere sottoposta alla procedura di riesame dinanzi alla corte di giustizia – ciò potrà
avvenire solo eccezionalmente e qualora sussistano gravi rischi che l’unità e la coerenza del
diritto comunitario siano compromesse. ad oggi, tuttavia, l’ipotesi di cognizione dei rinvii
pregiudiziali da parte del tribunale non ha ancora trovato attuazione, restando dunque di
competenza esclusiva della corte di giustizia.
formazioni: con una decisione del 1999 il consiglio ha introdotto una modifica significativa,
sancendo la possibilità che il tribunale decida anche con giudice unico. conseguentemente, il
tribunale ha modificato il regolamento di procedura per quanto necessario: la sezione dinanzi alla
quale la questione pende può, all’unanimità, assegnarla ad un giudice unico, salvo opposizione di
uno stato membro o di una istituzione dell’unione; tale possibilità è limitata alle cause di
personale, ai ricorsi di annullamento o di responsabilità contrattuale che sollevano questioni già
chiarite da una consolidata giurisprudenza o che siano parte di una serie di cause con lo stesso
oggetto ed una sia stata già decisa con forza di giudicato. per contro, è esclusa l’assegnazione ad un
giudice unico quando la causa sollevi questioni di legittimità di un atto a portata generale, ovvero
quando si verta in materia di concorrenza, aiuti, organizzazione comune dei mercati agricoli,
marchi e varietà vegetali.
TRIBUNALI SPECIALIZZATI: il trattato di nizza ha attribuito al consiglio la facoltà di istituire
camere giurisdizionali, denominate “tribunali specializzati” dal trattato di lisbona, competenti a
conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specifiche (art. 257 TFUE). il
trattato di lisbona ha altresì modificato in modo significativo anche la procedura per l’istituzione
di nuovi tribunali specializzati, attribuendo un maggior potere al parlamento europeo, al quale
viene dunque assegnato un ruolo paritario rispetto al consiglio.
ad oggi il consiglio ha esercitato detti poteri una sola volta, istituendo nel 2009 il tribunale della
funzione pubblica dell’unione europea, specializzato nelle controversie tra l’unione e i suoi agenti
(c.d. contenzioso del personale). tuttavia, nel 2015, tenuto conto dell’aumento del contenzioso e
dell’eccessiva durata della trattazione delle cause dinanzi al tribunale, il legislatore dell’unione ha
deciso di aumentare progressivamente, sino a 56, il numero dei giudici di questo organo
giurisdizionale dell’unione e di integrare in esso le competenze del tribunale della funzione
pubblica, sciolto nel 2016. così, anziché istituire nuovi tribunali specializzati, si è proceduto
all’ampliamento del tribunale, completato nel 2019. inoltre, per accompagnare tale cambiamento di
dimensioni e per consentire al nuovo collegio di lavorare in modo efficace, il tribunale ha adottato
misure di vario ordine: il numero delle sue sezioni è stato portato da nove a dieci ed è stato deciso
di renderle specializzate; tra le dieci sezioni del tribunale, quattro tratteranno le cause in materia
di funzione pubblica e sei conosceranno delle cause relative alla proprietà intellettuale; le altre
controversie saranno ripartite tra tutte le sezioni.
6. BANCA CENTRALE EUROPEA
il trattato di lisbona ha inserito la banca centrale europea tra le istituzioni a pieno titolo.
composizione:
• comitato esecutivo: è composto da un presidente, un vicepresidente e quattro membri, nominati
per 8 anni a maggioranza qualificata del consiglio europeo, su raccomandazione del consiglio e
previa consultazione del parlamento e del consiglio direttivo della BCE; gestisce invece gli affari
correnti della BCE, prepara i lavori del consiglio direttivo e dà attuazione alle sue decisioni.
• consiglio direttivo: comprende sei membri del comitato esecutivo e i governatori delle banche
centrale degli stati membri la cui moneta è l’euro; rappresenta il principale organo decisionale
della BCE
competenze: la BCE e le banche centrali nazionali degli stati membri la cui moneta è l’euro
conducono la politica monetaria dell’unione* (art. 282 TFUE). in particolare:
• ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro
• è responsabile del funzionamento del meccanismo di vigilanza unico allo scopo di garantire la
stabilità all’intero settore bancario europeo
• nei settori che rientrano nelle sue attribuzioni, dispone di un autonomo potere normativo (art.
132 TFUE)
• è consultata su ogni progetto di atto dell’unione e su ogni progetto di atto normativo a livello
nazionale
• può formulare pareri.
nell’esercizio delle sue funzioni e nella gestione delle sue finanze, la BCE gode di indipendenza, che
deve essere rispettata dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’unione, nonché dai
governi degli stati membri – tale indipendenza della BCE discende sia dall’esigenza di preservare
le sue decisioni dalle influenze esterne e dalle pressioni politiche, sia dal carattere estremamente
tecnico e dell’alto grado di specializzazione che caratterizzano la politica monetaria.
sono previsti alcuni rapporti e forme di comunicazione della BCE con le altre istituzioni, che tuttavia
non sembrano soddisfare pienamente il principio di democrazia sul quale l’unione si fonda (art. 2
TUE). in particolare, la BCE è tenuta a trasmettere al parlamento europeo, oltre che al consiglio, al
consiglio europeo e alla commissione, un rapporto annuale sull’attività del sistema europeo delle
banche centrali e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso; inoltre, pur
non essendovi un vero e proprio controllo politico da parte dell’assemblea rappresentativa dei
cittadini europei, il presidente della BCE e gli altri membri del comitato esecutivo possono essere
ascoltati, su richiesta o di propria iniziativa, dalle competenti commissioni del parlamento
europeo.
*UNIONE ECONOMICA E MONETARIA
evoluzione storica: nel giugno del 1988 il consiglio europeo di hannover affidò a un comitato
presieduto da jacques delors, allora presidente della commissione, il mandato di realizzare lo
sviluppo del progetto della realizzazione di un’unione economica e monetaria. il c.d. rapporto
delors del 1989 raccomandava di articolare la costituzione dell’unione economica e monetaria in tre
fasi distinte e progressive.
gli obiettivi di tale rapporto furono recepiti dai trattati di maaastricht, che sancì la nascita di
un’unione economica e monetaria e l’istituzione di una moneta unica. in particolare, con l’avvio
della terza fase nel 1999, la conduzione della politica monetaria fu affidata alla banca centrale
europea e undici stati membri adottarono l’euro quale moneta unica (diventati diciannove nel
corso degli anni) NB la danimarca beneficia di uno status speciale sancito dai protocolli allegati ai
trattati (c.d. clausola di opting out), che le attribuisce il diritto di non aderire al sistema della moneta
unita pur se in possesso dei requisiti per l’ammissione – lo stesso valeva per il regno unito. invece,
rientrano nello status di stato membro con deroga quegli stati che non adottano la moneta unica e
continuano ad utilizzare la loro moneta, in quanto non soddisfano ancora le condizioni necessarie
per l’ammissione all’UEM, anche se la loro situazione viene riesaminata a cadenze regolari, al fine
di verificare se sussistono i requisiti per abolire la deroga, ai sensi dell’art. 140 TFUE NB in tale
ambito non può tacersi sulla circostanza che alcuni stati non dichiarino consapevolmente la
sopravvenuta incompatibilità della deroga per evitare l’adozione definitiva dell’euro.
competenze: l’unione economica e monetaria dispone di competenze differenti nei due settori e, in
particolare, di coordinamento in relazione alla politica economica ed esclusiva nel campo
monetario.
la politica economica sfugge alle tipiche categorie di competenze, mentre la seconda vi rientra
seppur limitatamente agli stati la cui moneta è l’euro. il paradosso di questo sistema trova ragione
nella riluttanza degli stati a cedere all’unione competenze in un settore da sempre ancorato alla
sovranità degli stati membri; reticenza mitigata, però, dai poteri conferiti alle istituzioni europee
in moltissimi altri settori che, direttamente o indirettamente, riguardano la politica economica e
nei quali è previsto un intervento delle istituzioni più incisivo (es. regole di concorrenza, mercato
interno, ecc.).
per quanto riguarda la politica economica, se si eccettua il ruolo propulsivo assunto dal consiglio
europeo, il consiglio riveste una posizione centrale anche in questa materia. infatti, elabora, su
raccomandazione della commissione, un progetto di indirizzi di massima per le politiche
economiche degli stati membri e dell’unione. inoltre, l’art. 126 TFUE affida alla commissione, ma
solo in prima battuta, il controllo della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico
negli stati membri, al fine di evitare disavanzi pubblici eccessivi. “in prima battuta” in quanto,
qualora la commissione ravvisi l’esistenza di un tale rischio, è il consiglio ad esserne informato e ad
accertarne l’esistenza, in contraddittorio con lo stato membro interessato, nonché a formulare
raccomandazioni. nell’ipotesi in cui le raccomandazioni siano disattese, il consiglio può imporre allo
stato membro ogni misura necessaria ad evitare il disavanzo eccessivo e, in caso di inottemperanza,
invitare la banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso tale
stato, richiedere che esso costituisca un deposito infruttifero adeguato presso l’unione fino a
quando il disavanzo eccessivo non sia stato corretto e infliggere ammende di entità adeguata.
i meccanismi di sorveglianza sono stati rafforzati a seguito della crisi del debito sovrano che ha
colpito alcuni stati membri: la prima risposta è consistita nell’adozione nel 2011 del c.d. six pack,
cinque regolamenti e una direttiva che hanno reso ancor più stringenti i meccanismi di
sorveglianza, ex ante ed ex post, ed hanno previsto eventuali sanzioni per i disavanzi eccessivi o
per la crescita del debito pubblico; nel biennio 2011-2012 sono poi stati conclusi a bruxelles due
accordi internazionali sottoposti alla ratifica degli stati membri: il c.d. meccanismo europeo di
stabilità (MES), la cui revisione, dettata dall’esigenza di combinare criteri politici con quelli economici, è al
centro del dibattito degli stati membri; il fiscal compact (patto di bilancio europeo), che contiene una
serie di regole a protezione del principio dell’equilibrio del bilancio (c.d. regole d’oro).
altri organi dell’UEM: la realizzazione della politica monetaria dell’unione è affidata, oltre che alla
BCE, anche ad altri organi cui la BCE solitamente partecipa:
• sistema europeo delle banche centrali:
− composto dalla BCE e dalle banche centrali degli stati membri
− diretto dagli organi decisionali della banca centrale europea
− l’obiettivo principale è il mantenimento della stabilità dei prezzi, al quale si affianca il
compito di sostenere le politiche economiche generali per contribuire alla realizzazione degli
obiettivi dell’unione (art. 282 TFUE)
• eurosistema: è composto dalla BCE e dalle banche centrali degli stati membri la cui moneta è
l’euro – tale distinzione continuerà ad essere necessaria finchè vi saranno stati membri che non
adotteranno l’euro
• comitato economico e finanziario:
− composto da un massimo di sei membri, designati per 1/3 dagli stati membri, 1/3 dalla
commissione e 1/3 dalla BCE
− le sue funzioni sono identiche a quelle del comitato monetario, suo predecessore fino al 1999,
con un’importante differenza: a dispetto delle competenze pregresse, l’informazione della
commissione e del consiglio sull’evoluzione della situazione monetaria rientra ormai nelle
competenze della BCE.
• consiglio economia e finanza:
− riunisce i ministri delle finanze di tutti gli stati membri dell’unione
− previa consultazione della BCE, assume decisioni in relazione alla fissazione dei tassi di
cambio dell’euro rispetto alle monete dei paesi terzi, nel rispetto dell’obiettivo della stabilità
dei prezzi
• eurogruppo:
− riunisce i ministri dell’economia e delle finanze dell’eurozona
− organo consultivo e informale, si riunisce periodicamente per affrontare tutte le questioni
relative al regolare funzionamento della zona euro e dell’UEM; la commissione e, laddove
necessario, la BCE sono invitate a partecipare alle riunioni.
7. CORTE DEI CONTI
istituita con un trattato del 1975 che modificava talune disposizioni finanziarie dei trattati, la corte
dei conti è compresa formalmente nel novero delle istituzioni di cui all’art. 13 TUE. peraltro, il rango
di istituzione autonoma è sottolineato dal potere di autodeterminazione nella definizione del
regolamento interno che, sul modello della corte di giustizia e del tribunale, è poi approvato dal
consiglio a maggioranza qualificata.
composizione: è un organo di individui è ed è composta da un cittadino per stato membro,
designati dai rispettivi governi tra personalità che abbiano maturato un’esperienza nelle
istituzioni nazionali di controllo o che posseggono qualificazioni specifiche per tale funzione. i
membri designati sono nominati dal consiglio con deliberazione a maggioranza qualificata,
previa consultazione del parlamento; restano in carica sei anni e il loro mandato è rinnovabile.
competenze: la corte dei conti è definita da alcuni come revisore esterno dell’unione. infatti, oltre ad
assistere l’autorità di bilancio (parlamento e consiglio), ha il compito di assicurare il controllo sulla
gestione finanziaria dell’unione. a tal fine esamina tutte le entrate e le spese dell’unione e degli
organismi da questa creati, tranne espressa esclusione – il controllo si svolge tanto su documenti
che con accesso presso le istituzioni o negli stati membri, in tal caso con la collaborazione degli
organi di controllo o delle amministrazioni nazionali competenti; non disponendo di poteri
sanzionatori propri, qualora verifichi irregolarità o frodi ne riferisce all’OLAF (ufficio europeo per
la lotta antifrode).
alla chiusura dell’esercizio, la corte dei conti presenta la relazione annuale, comunicata alle altre
istituzioni e pubblicata sulla gazzetta ufficiale insieme alle risposte delle istituzioni ai suoi rilievi.
inoltre, la corte può, all’occorrenza, presentare relazioni speciali su problemi particolari o dare
pareri su richiesta di una delle altre istituzioni.
NB per quanto ancora estremamente carente, è stato previsto un maggiore raccordo con le
corrispondenti istituzioni nazionali di controllo.
ALTRI ORGANI:
ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E PER LA POLITICA DI
SICUREZZA
introdotto dal trattato di lisbona come figura istituzionale, l’alto rappresentante dell’unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza è chiamato a svolgere un ruolo molto delicato per il c.d. doppio
cappello che è tenuto ad indossare, rivestendo uno status particolare all’interno di due diverse
istituzioni: presidente del consiglio affari esteri e vicepresidente della commissione. la scelta di
unificare in capo ad una sola persona due mandati, che però restano rigorosamente separati, è il
risultato di un compromesso diretto a valorizzare il ruolo di rappresentanza politica di tale
soggetto, sottraendolo in parte ai rigidi meccanismi che sovraintendono il funzionamento delle
istituzioni europee - infatti, l’alto rappresentante è tenuto a seguire le procedure che regolano
l’esercizio di competenza da parte della commissione soltanto qualora agisca come vicepresidente
di quest’ultima.
il carattere ibrido di tale figura si rispecchia tanto nella nomina quanto nelle competenze attribuitele
e nell’esercizio delle stesse. in particolare:
• nomina: spetta al consiglio europeo con delibera a maggioranza qualificata e con l’accordo del
presidente della commissione – seguendo la medesima procedura è possibile porre fine alle sue
funzioni; è poi soggetto al voto del parlamento europeo in sede di approvazione collettiva della
commissione in quanto suo vicepresidente.
• funzioni:
− coordinare e attuare la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la politica di sicurezza e
di difesa comune (PSDC): presiede il consiglio affari esteri, autonoma formazione
dell’istituzione europea destinata ad occuparsi delle politiche esterne dell’unione, tutelandone
la coerenza, ed è chiamato a dare attuazione a tale politica, preoccupandosi che vengano
eseguite le decisioni adottate
− è uno dei vicepresidenti della commissione europea: è incaricato di curare il settore delle
relazioni esterne, rendendo effettivo e stabile il coordinamento con la PESC NB peraltro,
attraverso il vicepresidente alle relazioni esterne si supera il limitato coinvolgimento della
commissione nell’elaborazione ed attuazione della PESC e si bilanciano le esigenze nazionali,
rappresentante in seno al consiglio europeo e al consiglio, con quelle dell’unione di cui è
custode la commissione.
ai sensi dell’art. 36 TUE, l’altro rappresentante è tenuto poi a consultare regolarmente il
parlamento europeo sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della PESC, a provvedere
affinchè le sue opinioni siano tenute in debita considerazione, nonché ad informarlo
sull’evoluzione di tale politica presentando annualmente una relazione generale sull’attività in
questo settore e nella quale sono contenuti anche gli obiettivi e le priorità per l’anno
successivo – ciò risponde sempre alla logica di assicurare unità, coerenza ed effettività all’azione
dell’unione europea, superando i problemi che l’articolazione dei processi decisionali pone alla
definizione a livello europeo di una politica estera efficace.
NB nell’esercizio delle sue funzioni, l’alto rappresentante si avvale del servizio europeo per
l’azione esterna (SEAE), che rappresenta un vero e proprio corpo diplomatico dell’unione.
un gran numero di altri organismi, alcuni dei quali creati dai trattati istitutivi o con modifiche intervenute
successivamente, altri mediante atti di diritto derivato, altri ancora con accordi internazionali dei quali
l’unione è parte, intervengono nella vita e nell’attività dell’unione in modo più o meno incisivo.
è chiaro che non è possibile considerare o anche solo indicare tutti gli organi, organismi e comitati esistenti; di
conseguenza, ci si limita ad accennare a quelli che tra essi occupano un ruolo di rilievo nel funzionamento del
sistema.
• comitato economico e sociale (CESE) – rappresenta gli interessi dell’unione: composto dai
rappresentanti di diverse categorie della vita economica e sociale, per un totale di 350 membri,
il trattato di lisbona ne ha ampliato la composizione, includendovi i rappresentanti delle
organizzazioni dei datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi
della società civile, in particolare nei settori socioeconomico, civico professionale e culturale
(art. 300 TFUE).
è un organo di individui e dunque i membri del comitato agiscono in completa indipendenza
dagli stati membri, nell’interesse generale dell’unione (art. 301 TFUE).
i trattati stabiliscono i casi in cui la commissione, il consiglio o il parlamento hanno l’obbligo
di consultare il CESE (es. libera circolazione dei lavoratori e diritto di stabilimento), mentre è
loro facoltà consultarlo ogni volta che lo ritengano opportuno. il comitato può, di propria
iniziativa, formulare pareri.
• comitato delle regioni – rappresenta gli interessi dell’unione: istituito dal trattato di maastricht,
è un organo di individui, indipendenti dagli stati membri e che agiscono dunque
nell’interesse generale dell’unione; allo stesso tempo, tuttavia, devono essere titolari di un
mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale o, comunque, politicamente
responsabili dinanzi ad un’assemblea eletta (art. 305 TFUE).
il comitato delle regioni deve essere consultato nei casi previsti dai trattati o quando il consiglio,
la commissione o il parlamento lo ritengano opportuno; come il comitato economico e sociale,
anch’esso può formulare pareri di propria iniziativa, con particolare riferimento ai casi in cui sia
stato consultato il CESE su problemi che investono interessi regionali specifici.
tra le novità più significative introdotte dal trattato di lisbona vi è il riconoscimento al comitato
delle regioni del potere di ricorso alla corte di giustizia per denunciare la violazione del
principio di sussidiarietà qualora tale violazione sia dovuta ad atti legislativi sui quali è richiesta
la sua consultazione.
• banca europea per gli investimenti (BEI): inserita da sempre nello scenario istituzionale dell’unione
in senso lato, in realtà non è mai stata compresa tra le istituzioni, tanto che l’indicazione dei suoi
compiti figurava nella parte del trattato dedicata alle politiche dell’unione e non in quella
dedicata alle istituzioni.
la banca, dotata di personalità giuridica, opera sui mercati finanziari sostanzialmente come un
istituto di credito, anche se non ha fini di lucro e si muove in ogni caso nell’ottica dello sviluppo
equilibrato e senza scosse del mercato unico; inoltre, è ben specificato che nello svolgimento dei
suoi compiti la banca facilita la realizzazione dei programmi di investimento congiuntamente
agli altri meccanismi finanziari dell’unione.
• mediatore europeo – rappresenta gli interessi dell’unione: introdotto dal trattato di maastricht,
il suo ruolo è quello di defensor civitatis con storiche funzioni di controllo sull’esecutivo e di
difesa di quegli interessi dei cittadini nei confronti dell’autorità la cui lesione non sarebbe
traducibile in azioni giudiziarie – questa figura esiste da tempo a livello regionale anche in italia
con la denominazione di difensore civico.
il mediatore europeo, nominato dal parlamento per la durata della legislatura con mandato
rinnovabile, è un organo di individui ed esercita le sue funzioni in completa indipendenza.
riceve le denunce da qualsiasi cittadino dell’unione o da qualsiasi persona fisica o giuridica che
risieda o abbia la sede in uno stato membro, relativamente a casi di cattiva amministrazione
nell’attività delle istituzioni dell’unione – fatta eccezione, ovviamente, per la corte di giustizia
e il tribunale nell’esercizio della funzione giurisdizionale. in molti casi tale rimedio costituisce
l’unico mezzo a disposizione del cittadino, in considerazione dei requisiti stringenti previsti per
la legittimazione attiva degli individui dinanzi agli organi giurisdizionali dell’unione.
sulla base della denuncia presentata, o anche di propria iniziativa, (1) il mediatore svolge le
indagini che ritiene utili e, in caso di conclusione positiva, (2) ne investe l’autorità interessata –
(3) quest’ultima gli deve comunicare il proprio punto di vista entro tre mesi. (4) all’esito della
procedura, il mediatore trasmette una relazione al parlamento europeo e all’istituzione
interessata, informando il denunciante del risultato dell’indagine NB l’azione del mediatore
non è giuridicamente vincolante, ma è dotata di un rilevante peso politico.
• agenzie: le agenzie hanno competenze per lo più tecniche e/o di supporto informativo per gli
stati membri e per le istituzioni dell’unione; dipendono generalmente dalla commissione, che
ne mantiene la responsabilità finanziaria.
gli obiettivi delle agenzie dell’unione possono essere molteplici, ognuna è unica nel suo genere e
il compito specifico viene definito al momento della sua creazione:
− informazione e coordinamento
− adottare decisioni individuali vincolanti o raccomandare
− sviluppare il know-how scientifico o tecnico in alcuni settori specifici
− mediazione tra vari gruppi di interesse, facilitando il dialogo a livello europeo o
internazionale.
• eurojust: nell’ambito del settore della cooperazione giudiziaria e di polizia va menzionata
l’eurojust, ossia l’unità europea di cooperazione giudiziaria. introdotta dal trattato di nizza e
ulteriormente disciplinata dal trattato di lisbona (art. 85 TFUE), ha competenze in materia di lotta
alla criminalità organizzata al fine di rafforzare la cooperazione tra le autorità giudiziarie e le
altre autorità competenti degli stati membri responsabili dell’azione penale.
• procura europea: al fine di combattere specificamente i reati che ledono gli interessi finanziari
dell’unione, un regolamento del 2017 ha dato origine alla procura europea. si tratta di un organo
dell’unione unico nel suo genere che svolge indagini, esercita l’azione penale ed esplica le
funzioni di pubblico ministero dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli stati
membri.
• europol: ha il compito di sostenere e potenziare l’azione delle autorità di polizia e degli altri
servizi incaricati dell’applicazione della legge degli stati membri e la reciproca collaborazione
nella prevenzione e lotta contro la criminalità grave che interessa due o più stati membri, il
terrorismo e le forme di criminalità che ledono un interesse comune oggetto di una politica
dell’unione. il trattato precisa che qualsiasi azione operativa dell’europol deve essere condotta
in collegamento e d’intesa con le autorità dello stato membro o degli stati membri interessati
e che l’applicazione delle misure coercitive resta di competenza esclusiva delle autorità
nazionali.
FONTI
come in ogni altro ordinamento giuridico, anche in quello dell’unione europea è possibile collocare
le norme secondo un ordine gerarchico, ovvero alla luce della diversa natura, del diverso modo di
produzione e della diversa forza. in tale ordinamento, però, il criterio gerarchico è parzialmente
mitigato da quello della competenza con riguardo al rapporto tra le diverse fonti di secondo livello,
sia perché talvolta le istituzioni sono vincolate nella scelta dell’atto da adottare per perseguire gli
obiettivi prefissati, sia perché si rinvengono caratteristiche del procedimento e di forma tali da
differenziare tali fonti le une dalle altre.
va poi ricordato che l’unione europea è un ordinamento giuridico autonomo, sebbene integrato con
quello degli stati membri, e considerando che trae la sua origine da un trattato internazionale, i
criteri per esaminare i rapporti intercorrenti tra le fonti del diritto dell’unione vanno ripresi,
mutatis mutandis, dal diritto internazionale.
si deve tener conto poi della teoria generale del diritto, della quale ogni ordinamento è debitrice per
i tradizionali criteri che regolano i rapporti tra le norme di pari livello (lex posterior derogat priori e
lex specialis derogat generali).
inoltre va evidenziato che, non essendo rinvenibile nei trattati istitutivi alcuna disposizione sui
rapporti tra le fonti, dobbiamo ai numerosi interventi della corte di giustizia la precisazione dei
rapporti tra le norme di diritto primario e quelle di diritto derivato, come anche la collocazione da
attribuire al diritto internazionale e ai principi, sia di diritto internazionale sia di diritto dell’unione.
NB nelle fonti del diritto dell’unione rientrano anche gli accordi internazionali dell’unione che si
collocano in una posizione intermedia, in quanto subordinati al diritto primario ma prevalenti sul
diritto derivato.
NORME DI PRIMO LIVELLO
TRATTATI
al vertice del sistema normativo dell’unione vanno collocati i trattati istitutivi che ne costituiscono
il fondamento condizionante e legittimante, dal momento che ne disciplinano le competenze e il
funzionamento.
essi trovano le radici dell’obbligatorietà nel principio pacta sunt servanda, sovrastano ogni altra
fonte e non sono modificabili se non mediante una revisione nel rispetto della procedura di cui
all’art. 48 TUE - lo stesso giudice dell’unione, nel 1998, riconosceva espressamente che il diritto
comunitario primario è costituito dai trattati istitutivi della comunità europea del carbone e
dell’acciaio, della comunità europea e della comunità europea dell’energia atomica, nonché dalle
convenzioni che hanno integrato e modificato tali trattati istitutivi.
attualmente, sono fonti di primo livello:
• TUE e TFUE: l’art. 1 TUE precisa che hanno lo stesso valore giuridico; nonostante ciò, è
comunque possibile, sul piano sostanziale, ascrivere al secondo un ruolo funzionale rispetto al
primo – tale differenza si evince anche sul piano della resistenza alle modifiche, in quanto per il
TFUE è prevista una procedura di revisione semplificata.
• trattato CEEA (comunità europea per l’energia atomica)
• carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, ai sensi dell’art. 6 TUE: ha lo stesso rango
dei trattati e contiene un catalogo molto dettagliato di diritti che gli stati membri sono tenuti a
rispettare - tali diritti erano già stati richiamati dalla corte di giustizia in moltissime sentenze.
• i protocolli e gli allegati che sono parte integrante dei trattati, come precisato dall’art. 51 TUE
• atti collegati ai trattati che nel tempo hanno modificato o integrato i testi vigenti
• accordi di adesione dei nuovi stati membri e le disposizioni in essi contenute.
la natura dei trattati istitutivi, nonché delle integrazioni e modificazioni convenzionali intervenute
nel corso degli anni, è quella di accordi internazionali nel senso pieno e proprio di tale espressione.
ciò vuol dire, tra l’altro, che i criteri di interpretazione e il regime giuridico generale dei trattati
dell’unione sono anzitutto quelli propri di normali accordi internazionali. tuttavia, va subito
aggiunto che i trattati dell’unione europea rivelano alcune caratteristiche ulteriori e specifiche
rispetto al genus cui appartengono. in particolare:
− oltre alla previsione di una serie di obblighi e diritti per gli stati contraenti, contengono la
definizione di un complesso istituzionale destinato ad esercitare le competenze attribuite
all’ente e delegate dagli stati – specificità propria di tutti i trattati istitutivi di organizzazioni
internazionali
− l’ampiezza e l’incisività delle competenze, cosi come le modalità e i mezzi attribuiti per il loro
esercizio, vanno senza dubbio al di là del modello tradizionale di organizzazione
internazionale. infatti, i trattati contenevano fin dall’origine un chiaro potenziale di sviluppo
verso un complesso integrato di stati, diversi e sovrani, ma capaci di realizzare unitariamente gli
scopi ambiziosi da essi definiti: mercato comune e sviluppo armonioso delle economie fondato
sulla come aspirazione liberista.
a tal proposito si è giustamente rilevato che, essendo l’obiettivo fondamentale dell’unione quello
di porre le basi di un’unione sempre più stretta tra i popoli europei e di eliminare le barriere che
dividono l’europa, i trattati sono stati concepiti come strumento del processo di integrazione
europea e dunque molto più di un mezzo per coordinare politiche e armonizzare legislazioni.
− le norme convenzionali e quelle che da queste ultime ricevono forza, hanno un’incidenza diretta
e immediata sulla situazione giuridica soggettiva non solo dello stesso ente e degli stati
membri, ma anche dei singoli – sostanziale complemento al disegno strutturale dell’unione. e se
tale qualità non può considerarsi esclusiva dei trattati dell’unione, in quanto presente anche in
altre esperienze di cooperazione internazionale organizzata, è pur vero che nell’esperienza
dell’unione si tratta di un aspetto essenziale, diffuso e per ciò stesso qualificante. la competenza
normativa dell’unione europea, infatti, pur non potendosi qualificare generale in senso proprio
in quanto comunque riferita a materie definite, ha dimensioni più che ragguardevoli, investendo
settori sempre più ampi della vita di relazione; in più, essa si aggiunge e a volte si sostituisce
alle corrispondenti competenze degli organi legislativi e amministrativi nazionali e investe in
modo diffuso e permanente la posizione giuridica dei singoli, senza che debba sempre e
comunque operare il tradizionale adattamento da parte degli stati membri.
− è stato previsto un meccanismo di controllo giurisdizionale, imperniato sulla corte di giustizia e
sulla cooperazione tra questa e i giudici nazionali. esso riguarda non solo la legittimità
dell’esercizio delle competenze attribuite alle istituzioni dell’unione, dunque degli atti, ma
anche l’armonia del sistema giuridico complessivo, composto da norme internazionali, norme
dell’unione in senso proprio e norme nazionali.
è opportuno sottolineare che, in ragione dei caratteri di specificità suddetti, i trattati istitutivi sono
indicati come la carta costituzionale dell’unione di diritto, nella quale le sue istituzioni sono
assoggettate alla verifica della conformità dei loro atti (…) e in cui le persone fisiche e giuridiche
devono beneficiare di una tutela giurisdizionale effettiva.
interpretazione dei trattati: in relazione a quanto appena detto, emerge l’esigenza di
un’interpretazione dei trattati focalizzata sugli obiettivi perseguiti; esigenza che viene soddisfatta
ricorrendo al criterio teleologico di interpretazione: le norme dell’unione europea, e in particolare
quelle che impongono obblighi agli stati membri, sono interpretate nel senso che meglio favorisce
il processo di integrazione.
tra l’altro, nonostante i trattati, cosi come gli altri atti normativi di diritto dell’unione, siano redatti
in tutte le lingue ufficiali dell’unione, occorre tendere ad un’interpretazione uniforme al fine di non
permettere a nessuna versione linguistica di prevalere sulle altre: la lettura deve ispirarsi alla reale
volontà sottesa alle norme e allo scopo da queste perseguito.
applicazione del diritto dell’unione europea: la sfera di applicazione territoriale del diritto
dell’unione europea coincide con quella dell’insieme dei diritti nazionali. in particolare, l’art. 52
TUE elenca per esteso gli stati membri cui si applica e la corrispondente disposizione del trattato
euratom si riferisce anche ai territori, europei e non, degli stati membri sottoposti alla loro
giurisdizione: le competenze dell’unione europea possono essere esercitate fino a dove si estende,
salvo eccezioni espresse, la giurisdizione degli stati membri e nei limiti sanciti dalle rispettive
disposizioni costituzionali. nella sfera di applicazione territoriale del diritto dell’unione, pertanto,
sono comprese le zone di mare e gli spazi aerei sui quali si esercita legittimamente il potere di
governo degli stati membri, nonché i territori europei di cui uno stato membro abbia la
rappresentanza nei rapporti esterni.
vi sono tuttavia alcuni territori degli stati membri per cui sono previsti dei regimi particolari:
− alcuni di essi sono sottratti all’applicazione dei trattati
− altri vi sono sottoposti solo nei limiti espressamente sanciti dai conferenti trattati di adesione
− i dipartimenti francesi d’oltremare, nonché le azzorre, madeira e le canarie possono essere
oggetto di misure specifiche in considerazione delle particolari condizioni geo-economiche in
cui versano
− i c.d. paesi e territori d’oltremare di cui all’allegato II dei trattati sono sottoposti allo speciale
regime di associazione stabilito dal TFUE e per questo esclusi dalla sfera di applicazione dei
trattati salvo il caso di un espresso riferimento.
revisione dei trattati, art. 48 TUE: è prevista una procedura di revisione ordinaria e due procedure
di revisione semplificate.
• procedura ordinaria: i progetti con cui intendono modificare i trattati possono essere
espressamente diretti ad accrescere o a ridurre le competenze attribuite all’unione nei trattati.
procedura: i progetti presentati da uno stato membro, dal parlamento o dalla commissione sono
(1) trasmessi al consiglio europeo e notificati ai parlamenti nazionali; (2) consultati il
parlamento e all’occorrenza la commissione, nonché la banca centrale europea ove si tratti di
modifiche istituzionali nel settore monetario, il presidente del consiglio europeo, qualora
quest’ultimo abbia adottato, a maggioranza semplice, una (3) decisione favorevole in tal senso,
(4) convoca una convenzione dei rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di stato o
di governo degli stati membri, del parlamento europeo e della commissione – il consiglio
europeo può anche decidere, a maggioranza semplice e previa approvazione del parlamento
europeo, di non convocare la convenzione qualora si tratti di modifiche la cui entità non lo
giustifichi. la convenzione è tenuta ad (5) esaminare i progetti di modifica e ad adottare, per
consenso, una (6) raccomandazione che invia a una conferenza dei rappresentanti dei governi
degli stati membri. quest’ultima ha lo scopo di (7) stabilire di comune accordo le modifiche da
apportare ai trattati che, cosi adottate, dovranno poi, per poter entrare in vigore, essere (8)
ratificate da tutti gli stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
• procedure speciali:
o la prima è prevista per la modifica esclusivamente della parte del TFUE relativa alle
politiche e alle azioni interne dell’unione. la revisione di tale parte del trattato non include
la possibilità di estendere le competenze attribuite all’unione dai trattati in questo ambito, ma
solo, eventualmente, di ridurle.
procedura: i progetti volti a modificare la parte del TFUE in questione e presentanti da qualsiasi
stato membro, dal parlamento o dalla commissione, sono (1) inoltrati al consiglio europeo;
il consiglio europeo (2) adotta una decisione al riguardo, deliberando all’unanimità e previa
consultazione del parlamento europeo, della commissione o della BCE, quando la modifica
riguardi il settore monetario. la decisione entra in vigore previa approvazione degli stati
membri conformemente alle rispettive norme costituzionali NB la previsione di una semplice
approvazione piuttosto che della ratifica, come nella procedura ordinaria, sembra ammettere
una manifestazione di volontà semplificata da parte degli stati membri.
o la seconda procedura semplificata contempla due ipotesi: la prima concerne la possibilità che
il consiglio deliberi a maggioranza qualificata e non all’unanimità, laddove richiesta,
nell’adozione di decisioni relative al TFUE o alla parte V del TFUE, tranne che tali decisioni
abbiano implicazioni militari o rientrino nel settore della difesa; la seconda ipotesi concerne la
possibilità per il consiglio di adottare atti legislativi secondo la procedura ordinaria e non
secondo quella speciale, laddove prevista.
procedura: in entrambi i casi (1) l’iniziativa è presa dal consiglio europeo all’unanimità previa
approvazione del parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo
compongono; la proposta di modifica è poi (2) trasmessa ai parlamenti nazionali che, entro
sei mesi, (3) possono respingerla – e allora la decisione non è adottata – o, in assenza di
opposizione, la decisione è (4) adottata dal consiglio europeo ed entrerà in vigore senza
ulteriore ratifica o approvazione da parte degli stati membri.
NB tale procedura di revisione semplificata, ai sensi dell’art. 353 TFUE, non può essere
applicata:
− per l’adozione del regolamento con il quale viene stabilito il quadro finanziario generale
− per l’esercizio di competenze implicite o sussidiarie
− per la decisione di sospensione dei diritti di voto di uno stato membro.
i diritti di circolazione e di soggiorno riconosciuti ai cittadini degli stati membri dall’art. 20
TFUE, possono essere integrati attraverso disposizioni adottate dal consiglio all’unanimità
secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del parlamento europeo.
tali disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli stati membri in conformità alle
rispettive norme costituzionali – si tratta dunque di un’ulteriore procedura di revisione del
tutto atipica.
possiamo dunque concludere affermando che le procedure di revisione dei trattati dell’unione sono,
da un lato, arricchite da una dialettica complessa cui partecipano già sul piano dell’iniziativa le
istituzioni europee; dall’altro, tali procedure di revisione confermano, sul piano della forma, la
normale natura internazionale dei trattati e dunque del diritto primario dell’unione.
sorge, in ultimo, un quesito: possono essere oggetto di revisione/abrogazione tutte le norme dei
trattati, o le norme fondamentali sono insuscettibili di modificazione? la domanda, non nuova alle
esperienze costituzionali nazionali, non trova una risposta nei trattati e neppure nella
giurisprudenza della corte. certo, la natura pur sempre convenzionale dell’unione europea lascia
intatta la possibilità che le alterazioni anche profonde siano concordate dagli stati membri; è però
difficile immaginare che ciò possa verificarsi in concreto rispetto ai profili fondamentali dell’unione.
CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI E CEDU
ai sensi dell’art. 6 TUE la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea ha lo stesso valore
giuridico dei trattati. pertanto, tra le norme primarie, vanno annoverati i diritti fondamentali che
fanno parte del complesso sistema di principi e valori di carattere costituzionale dell’unione.
prima di passare all’esame della carta, è utile analizzare l’evoluzione del riconoscimento e della
tutela dei diritti fondamentali nel corso del processo di integrazione:
(1) in un primo momento i trattati istitutivi delle comunità non contenevano alcuna disposizione a
tutela dei diritti umani che potesse in qualche modo costituire la base per il controllo giudiziale – e
se è vero che talune libertà individuali vi risultavano fin da subito sancite, come la libertà di
circolazione o il diritto a non essere discriminati in base alla nazionalità e al sesso, è pur vero che si
trattava di libertà riconosciute al singolo esclusivamente in quanto protagonista economico
dell’unione.
(2) coerente con questa impostazione del trattato della comunità economica europea, la corte
affermava, nei primi anni ’60, l’irrilevanza, sul piano del diritto dell’unione, dei diritti fondamentali
tutelati già nelle costituzioni degli stati membri e dunque la propria incompetenza a garantire il
rispetto di norme interne, anche costituzionali, in vigore nell’uno o nell’altro stato. il suo principale
interesse era evidentemente quello di assicurare l’autonomia e il primato del diritto dell’unione sul
diritto interno, nonché la sua uniformità entro il territorio dell’unione che rischiava di essere
pregiudicata dalla subordinazione di tale diritto a nome nazionali, anche se di rango costituzionale
come quelle sui diritti dell’uomo.
(3) un decennio più tardi la corte di giustizia voltava pagina. in particolare, l’affermazione
incondizionata del principio del primato e l’inevitabile interferenza della normativa dell’unione con
i diritti umani che la prassi aveva evidenziato, avevano indotto le corti costituzionali, in particolare
italiana e tedesca, a rivendicare un controllo giudiziale residuo sulla normativa dell’unione; il che
ha ovviamente portato la corte di giustizia ad affermare a sua volta che i diritti fondamentali
risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e dalla convenzione europea
sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU), fanno parte dei principi giuridici generali di cui
essa garantisce l’osservanza = la corte si è cosi riservata il compito di verificare di volta in volta il
rispetto dei diritti fondamentali nell’ambito della disciplina dell’unione.
particolarmente rilevante è poi il riconoscimento come principio generale, rinvenibile negli artt. 6 e
13 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, del diritto alla tutela giurisdizionale piena ed
effettiva; riconoscimento che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema
dell’unione. la giurisprudenza ha sviluppato tale principio soprattutto in vista dell’esigenza dei
uniformità del livello di tutela nell’unione. ne è derivato, da una parte, il criterio secondo cui la
tutela dei diritti attribuiti da norme dell’unione deve essere almeno pari a quella prevista per i
diritti conferiti da norme nazionali (principio di equivalenza); dall’altra, il principio che il sistema
nazionale di rimedi giurisdizionali deve essere tale da non rendere praticamente impossibile o
eccessivamente gravoso l’esercizio dei diritti attribuiti al singolo da norme dell’unione (principio
di effettività). la conseguenza è stata una progressiva comunitarizzazione del livello di adeguatezza
della tutela giurisdizionale nonché l’introduzione nei sistemi nazionali di rimedi nuovi o comunque
più favorevoli al singolo – ciò trova significativa conferma nell’art. 19 TUE che tende a sottolineare
l’obbligo che incombe sugli stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare
una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’unione.
NB l’esercizio dei diritti fondamentali può essere oggetto di restrizioni in vista di obiettivi di
interesse generale perseguiti dall’unione.
carta dei diritti fondamentali dell’unione europea: l’idea di dotare l’unione di un proprio catalogo
scritto di diritti fondamentali è emersa più volte nella storia del processo di integrazione europea.
in particolare, nel 1999 il consiglio europeo di colonia aveva deliberato la predisposizione di una
carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, affidandone la redazione ad un apposito
organismo, la convenzione, composto da rappresentanti dei parlamenti nazionali, del parlamento
europeo, della commissione e dei capi di stato e di governo. in occasione del consiglio europeo di
nizza del 2000, la carta, articolata in 54 articoli e un breve preambolo, era stata solennemente
proclamata ad opera del parlamento, della commissione e del consiglio, senza che ad essa fosse
conferito valore giuridico vincolante e deferendo ad una successiva conferenza intergovernativa il
problema dell’individuazione del suo status. tale decisione ha avuto seguito solo con il processo di
riforma dei trattati conclusosi con la firma del trattato di lisbona, che ha attribuito alla carta di nizza
lo stesso valore giuridico dei trattati.
nella carta si ritrovano tutti i diritti che la corte di giustizia aveva fino a quel momento garantito in
via giurisprudenziale e pochi di più. lo scopo dell’iniziativa enunciato dal suddetto consiglio
europeo di colonia, infatti, non era quello di innovare, ma di rendere esplicita e solenne
l’affermazione di una serie di valori, nei limiti e secondo il quadro di competenze già delineato
dalla giurisprudenza della corte di giustizia – impegno confermato anche nell’art. 51 della carta che,
tra l’altro, precisa che le disposizioni della carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi
dell’unione, come pure agli stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’unione.
con riferimento all’applicabilità della carta nel solo ambito di applicazione del diritto dell’unione,
quando si parla degli stati membri, sono sorte una serie di discussioni da parte della dottrina: il
ragionamento della corte di giustizia si è incentrato sull’affermazione che i diritti fondamentali
garantiti nell’ordinamento giuridico dell’unione trovano tutela in tutte le situazioni disciplinate dal
diritto dell’unione, ma non al di fuori di esse = l’ambito di applicazione della carta coincide con
l’ambito di applicazione del diritto dell’unione. in questa prospettiva, la corte di giustizia ha
precisato che essa, per quanto riguarda la carta, non può valutare una normativa nazionale che non
si colloca nell’ambito del diritto dell’unione. in particolare, per stabilire se una normativa nazionale
rientri nell’attuazione del diritto dell’unione, ai sensi dell’art. 51 della carta, occorre verificare:
− se essa abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’unione
− quale sia il suo carattere e se essa persegua obiettivi diversi da quelli contemplati dal diritto
dell’unione
− se è in grado di incidere su quest’ultimo
− se esista una normativa di diritto dell’unione che disciplini specificamente la materia o che
possa incidere sulla stessa.
e allora qual è, ci si chiede, il valore aggiunto della carta rispetto alla tutela reale dei diritti
fondamentali nel sistema del diritto dell’unione, visto che la carta aveva già un valore sostanziale e
di riferimento essenziale anche prima dell’entrata in vigore del trattato di lisbona? innanzitutto la
carta ha contribuito a rafforzare la solida giurisprudenza della corte di giustizia, consolidando
dunque i principi comuni alle istituzioni dell’unione e agli stati membri; inoltre, con il trattato di
lisbona si è rinunciato a trasferire la materiale elencazione dei diritti fondamentali nel testo dei
trattati, preferendo piuttosto pervenire al riconoscimento di questi contenuti nella carta, cui
peraltro si è attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati - la scelta in tal senso, oltre che dettata
da ragioni di opportunità politica, si giustifica anche con motivazioni di ordine pratico volte a
sottrarre eventuali future modificazioni della carta al passaggio obbligato della procedura di
revisione dei trattati.
tra le disposizioni della carta assumono rilevanza centrale gli artt. 52 e 53 che definiscono la portata
dei diritti e dei principi della carta, nonché le norme per la loro interpretazione. in particolare:
• art. 52: ispirandosi alla giurisprudenza consolidata della corte di giustizia, contiene una clausola
limitativa generale in base alla quale eventuali restrizioni dei diritti e delle libertà garantite dalla
carta devono essere previste dalla legge, rispettare il contenuto essenziale di tali diritti nonchè,
in conformità al principio di proporzionalità, risultare necessarie e rispondere effettivamente a
finalità di interesse generale dell’unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui NB
resta fermo che vi sono alcuni diritti fondamentali che hanno valore assoluto e non possono
essere limitati (es. diritto al rispetto della dignità umana, diritto a non essere sottoposto a tortura
o a pene inumane e degradanti, ecc.).
l’articolo in questione contiene poi diverse previsioni che sono considerate tra le più rilevanti
dell’intera carta poichè mirano ad assicurare la coerenza sistematica tra questa carta e la CEDU,
in linea con l’obbligo dell’unione di rispettare i diritti fondamentali garantiti dalla
convenzione ai sensi dell’art. 6 TUE. viene infatti messo in risalto che il significato e la portata
dei diritti della carta corrispondenti a quelli della CEDU sono uguali a quelli conferiti dalla
convezione stessa, aggiungendo che il livello di tutela dei diritti fondamentali riconosciuto
dalla carta non può essere inferiore agli standard minimi fissati dalla CEDU senza tuttavia
precludere che il diritto dell’unione conceda una protezione più estesa = eventuali conflitti
dovrebbero essere risolti dando preferenza al sistema che consente una tutela più elevata dei
diritti fondamentali, formalizzando cosi una regola generale del diritto internazionale dei diritti
umani.
per quanto riguarda poi i rapporti con le costituzioni nazionali, l’art. 52 richiede di interpretare
i diritti fondamentali della carta in armonia con quelli che risultano dalle tradizioni
costituzionali comuni agli stati membri.
• art. 53: prevede che la carta non intende rimettere in discussione il livello di tutela dei diritti
fondamentali riconosciuto dalle costituzioni nazionali; anzi, una sentenza pronunciata dalla corte
di giustizia precisa che l’articolo in questione consente agli stati membri di mantenere lo standard
di tutela più protettivo di quello derivante dalla carta laddove il legislatore dell’unione non abbia
definito uno standard comune di tutela; viceversa, in presenza di specifiche regole di diritto
dell’unione che definiscono lo standard di tutela applicabile, non residua spazio alcuno per
l’applicazione degli standard nazionale, sia pure di rango costituzionale e maggiormente
protettivi, al fine di non pregiudicare il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’unione.
adesione dell’unione alla CEDU: l’art. 6 TUE sancisce l’impegno e la competenza dell’unione
europea in ordine all’adesione alla CEDU, ferme restando le competenze dell’unione cosi come
definite dai trattati. l’effettiva adesione alla CEDU resta subordinata, tuttavia, alla stipulazione di
un accordo internazionale che, ai sensi dell’art. 218 TFUE, deve essere concluso dal consiglio
all’unanimità, previa approvazione del parlamento europeo; talune condizioni sostanziali sono
poi richieste dal protocollo n. 8 allegato ai trattati:
− l’accordo di adesione non deve alterare le competenze dell’unione previste dai trattati
− deve preservare la specificità dell’unione e del suo diritto
− non deve aver alcun impatto sulle competenze dell’unione e sulle attribuzioni delle sue
istituzioni
− nessun effetto deve investire l’art. 344 TFUE in forza del quale le controversie sull’interpretazione
e sull’applicazione dei trattati vanno sottoposte esclusivamente ai procedimenti di composizione
previsti dai trattati stessi.
nonostante gli sforzi di velocizzare il processo negoziale, il cammino verso l’adesione resta
impervio: (1) il negoziato, iniziato nel 2010, si è svolto nell’ambito istituzionale del consiglio
d’europa (organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la democrazia, i diritti umani,
l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in europa) e quindi con la
partecipazione anche di stati membri di quest’ultimo, ma non dell’unione; (2) nel 2013 è stato
presentato un progetto complessivo di accordo di adesione, ma la procedura (3) ha subito una
battuta d’arresto a seguito del parere negativo della corte di giustizia chiamata a pronunciarsi, in
via consultiva, sulla compatibilità del progetto di accordo ai sensi dell’art. 218 TFUE. in particolare,
la corte:
− ha ritenuto il progetto non in grado di salvaguardare la specificità dell’ordinamento giuridico
dell’unione; specificità che si manifesta soprattutto nella sua origine convenzionale e nell’effetto
diretto che connota molte delle sue norme
− ha sottolineato che il rispetto dei diritti fondamentali è già garantito all’interno del sistema
giuridico dell’unione
− ha affermato che la specificità dell’unione non sarebbe salvaguardata se l’interpretazione di
norme del diritto dell’unione potesse essere messa in discussione da un organo esterno, quale la
corte europea dei diritti dell’uomo (corte di strasburgo)
− ha rilevato una potenziale incompatibilità tra l’autonomia dell’ordinamento dell’unione e
l’esclusività della sua competenza quanto ad interpretazione e applicazione del diritto
dell’unione e l’art. 33 CEDU. quest’ultimo prevede che ogni parte contraente può deferire alla
corte qualunque inosservanza delle disposizioni della convenzione che essa ritenga possa essere
imputata ad un’altra alta parte contraente = lo stato membro deve sottoporre alla corte di
strasburgo un’ipotesi di violazione della convenzione da parte di altro stato membro o della
stessa unione, quando si tratta dell’interpretazione o applicazione del diritto dell’unione →
conseguente violazione dell’art. 344 TFUE e della competenza esclusiva del giudice dell’unione.
(4) dopo il parere negativo della corte di giustizia, la soluzione della questione è stata rinviata. in
realtà è ancora da dimostrare che l’adesione alla CEDU possa elevare significativamente e nella
sostanza il tasso di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei; è altresì da considerare il
rischio, e con esso il costo, di un incremento del tasso di vischiosità dei meccanismi di tutela, di
una moltiplicazione dei tempi, di una confusione di lingue e in generale di eventi che
porterebbero con ogni probabilità ad un esito processuale intempestivo e ad un esito sostanziale
non sicuramente migliore rispetto a quello che si ottiene in assenza di adesione. va anche
considerato che la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, elevata anche formalmente
al rango dei trattati, è uno strumento adeguato a garanzia di una tutela piena dei diritti
fondamentali nel sistema di controllo giurisdizionale dell’unione; né va trascurata la circostanza
che la giurisprudenza della corte di giustizia, oggi anche con la lettura, l’interpretazione e
l’applicazione della carta, utilizza da sempre e costantemente come parametri di confronto,
insieme alle tradizioni costituzionali degli stati membri, le disposizioni della convenzione cosi
come interpretate dalla corte di strasburgo.
PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO INTERNAZIONALE
le norme convenzionali non esauriscono le fonti di primo livello dell’unione europea. infatti, il
riconoscimento all’unione di personalità giuridica (art. 47 TUE) e, dunque, la sua configurabilità
come soggetto di diritto internazionale, comporta che essa sia destinataria di tutte le norme
internazionali generali e pattizie. in tale scia si collocano talune disposizioni convenzionali che
espressamente sanciscono che l’unione rispetta i principi della carta delle nazioni unite e del
diritto internazionale; di conseguenza, come ha ben chiarito la corte di giustizia, quando adottano
un atto le istituzioni dell’unione sono tenute a rispettare il diritto internazionale nella sua
globalità, ivi compreso il diritto internazionale consuetudinario.
è importante precisare che, data la peculiarità dell’ordinamento dell’unione, la rilevanza delle
norme internazionali generali va verificata in relazione all’ambito di competenza che l’unione è
chiamata ad esercitare e alla luce della condotta richiesta dal diritto internazionale: infatti, vi sono
poteri che le istituzioni non possono porre in essere e che restano in capo agli stati; viceversa, vi
sono settori in cui l’azione dell’unione è espressamente legata al rispetto dei principi di diritto
internazionale generale → spetta all’interprete individuare le norme internazionali generali
rilevanti nel caso concreto e determinarne l’efficacia.
numerose volte la corte ha utilizzato norme di diritto internazionale generale sul diritto dei
trattati, codificate nella convenzione di vienna, per motivare una determinata interpretazione di
un accordo internazionale concluso tra l’unione e un paese terzo: si è riconosciuto che l’unione è
vincolata alla regola pacta sunt servanda, al principio di buona fede nell’esecuzione degli accordi
internazionali e alla clausola rebus sic stantibus. essendo però, le norme consuetudinarie
caratterizzate da flessibilità, e quindi dalla loro derogabilità mediante accordo, talune di esse sono
state considerate incompatibili con la struttura e le finalità dell’unione e la loro rilevanza è
risultata più limitata in ragione della specificità di tale ordinamento.
PRINCIPI DI DIRITTO DELL’UNIONE
tra le fonti che l’unione è chiamata a rispettare rientrano anche i principi comuni alle tradizioni
costituzionali degli stati membri – categoria elaborata dalla corte di giustizia che, attraverso
l’analogia juris, ha individuato i principi necessari a colmare le lacune del diritto convenzionale e
consuetudinario. infatti, l’art. 340 TFUE rinvia a principi generali comuni ai diritti degli stati
membri limitatamente alla responsabilità extracontrattuale dell’unione e, dunque, alla materia del
conseguente obbligo risarcitorio; da questa disposizione la corte è partita al fine di applicare principi
comuni agli ordinamenti nazionali anche in materie diverse.
nella prassi dell’unione la rilevanza e l’applicazione di principi, comunque denominati, non è di
poco rilievo. a volte si tratta soltanto di criteri di interpretazione, ma il più delle volte sono utilizzati
al fine di individuare i limiti all’esercizio dei poteri da parte dell’amministrazione nei confronti degli
amministrati o, più in generale, per determinare la legittimità di un atto o di un comportamento di
un’istituzione dell’unione o di uno stato membro. si tratta in ogni caso di veri e propri parametri di
legittimità e dunque di norme idonee a creare diritti e obblighi.
rilevante applicazione hanno trovato nella giurisprudenza della corte alcuni principi specifici
collegati alle garanzie proprie del sistema dell’unione; sistema che vuole essere quello proprio di
una comunità di diritto. in particolare:
• principio di certezza del diritto, che si manifesta in numerosi e diversi aspetti. il principale profilo
riguarda la trasparenza dell’attività dell’amministrazione, nel senso che la normativa
dell’unione deve essere chiara e la sua applicazione prevedibile per coloro che vi sono
sottoposti, in modo che possano reagire in modo adeguato – lo stesso dicasi per l’attività
richiesta alle amministrazioni nazionali.
ulteriore aspetto di rilievo del principio di certezza del diritto è il principio del legittimo
affidamento, espressamente ritenuto parte dell’ordinamento giuridico dell’unione e utilizzabile
come parametro di legittimità degli atti. in generale, tale principio viene in rilievo:
− nell’ipotesi di modificazione improvvisa di una disciplina, in cui la violazione del principio
in questione può costituire motivo di invalidità della nuova
− nel caso in cui l’amministrazione abbia fatto nascere nell’interessato, con il proprio
comportamento o addirittura con informazioni, un’aspettativa ragionevolmente fondata
− in tema di revoca di atti individuali illegittimi, possibile entro un termine ragionevole e
tenuto conto del legittimo affidamento maturato dal destinatario.
• principio di proporzionalità: consente di verificare la legittimità di un atto che imponga un
obbligo o una sanzione in base alla sua idoneità o necessità rispetto ai risultati che si vogliono
conseguire; il principio, inoltre, richiede che la sanzione in caso di violazione di un obbligo
imposto dal diritto dell’unione non sia più grave di quanto è necessario, o che in caso di
alternativa tra misure diverse nei confronti degli operatori sia adottata quella che impone
oneri minori o meno restrittiva.
• principio dell’effetto utile: impone un’applicazione o un’interpretazione delle norme
dell’unione che sia funzionale al raggiungimento delle loro finalità.
• principio di precauzione: sancito dal TFUE con riguardo alla tutela dell’ambiente, la corte di
giustizia lo ha definito come un principio generale che impone l’adozione di misure atte a
prevenire rischi per la sicurezza e la salute, oltre che per l’ambiente.
• principio di leale cooperazione: la giurisprudenza ha fatto ricorso più volte a questo principio,
ricavandolo dall’art. 4 TUE e limitandosi ad una sua affermazione molto ampia. il contenuto
dell’obbligo di cooperazione, infatti, dipende dalle disposizioni materiali dei trattati che di volta
in volta vengono in rilievo e con riferimento anche alla struttura complessiva del sistema.
• principio di eguaglianza:
− trova nel trattato di lisbona riconoscimento espresso e generale nella forma di un divieto di
discriminazione fondato sulla nazionalità (art. 18 TFUE), con applicazioni specifiche
relativamente alla libertà di circolazione delle merci e dei servizi e alla libertà di
stabilimento
− si ritrova anche nella disciplina concernente le organizzazioni comuni di mercato, che prevede
l’esclusione di qualsiasi discriminazione tra produttori o consumatori dell’unione
− nell’art. 157 TFUE viene sancito, in termini generali, il principio della parità di retribuzione
tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un
lavoro di pari valore
NB il principio generale di non discriminazione, disposizione provvista di effetto diretto, è di
applicazione solo in assenza di altre disposizioni che in modo specifico vietino trattamenti
discriminatori ed esclusivamente nei limiti dell’ambito di applicazione dei trattati.
se nel trattato originario il principio di eguaglianza trovava espresso riconoscimento soprattutto
al fine di rendere operative le libertà previste e dunque in funzione degli obiettivi di
integrazione e non come principio e/o diritto fondamentale, l’evoluzione successiva della prassi
e della giurisprudenza hanno radicalmente mutato il quadro e l’impostazione originaria.
attualmente, infatti, l’affermazione che il principio generale di eguaglianza rappresenta uno dei
principi fondamentali del diritto dell’unione costituisce una costante della giurisprudenza
della corte che ha, per tale via, ampliato la protezione dei singoli.
il divieto di discriminazioni è stato da sempre interpretato dalla corte nel senso tradizionale: è
fatto divieto di trattare in modo diverso situazioni simili o di trattare in modo identico
situazioni diverse. in particolare, una disparità di trattamento è arbitraria nell’ipotesi in cui il
diverso o eguale trattamento oggetto della controversia non sia giustificabile in base a criteri
oggettivi; per contro, non si è in presenza di una discriminazione vietata ogniqualvolta il diverso
trattamento sia giustificabile in modo oggettivo.
non sono illegittime solo le violazioni palesi del principio di uguaglianza, ma anche le
discriminazioni dissimulate o indirette. per questo motivo, la corte ha da tempo posto in rilievo
che il divieto di discriminazione in base alla nazionalità investe anche quelle discriminazioni
fondate su parametri diversi da quello della nazionalità, ma che di fatto conducono al
medesimo risultato, ossia negare al cittadino dell’unione i benefici accordati ai nazionali.
in definitiva, la corte ha inteso garantire un’uguaglianza sostanziale e non meramente formale.
NORME INTERMEDIE
ACCORDI INTERNAZIONALI DELL’UNIONE
nell’esercizio delle competenze esterne derivanti principalmente da disposizioni del trattato,
l’unione europea può concludere accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni
internazionali. tali accordi vincolano le istituzioni dell’unione e gli stati membri in virtù del
principio del diritto internazionale pacta sunt servanda e dell’omologa disposizione di cui all’art.
216 TFUE. in particolare, l’ articolo colloca gli accordi internazionali nel sistema delle fonti europee
e ne determina il rango: gli accordi conclusi dall’unione si pongono subito dopo i trattati ma prima
del diritto derivato dell’unione, da cui deriva una posizione intermedia tra il diritto primario
dell’unione e quello derivato = gli accordi possono essere stipulati solo qualora sia garantita la loro
compatibilità con gli atti costitutivi dell’unione – pertanto, un accordo internazionale in contrasto
con i trattati dell’unione può essere concluso soltanto previa revisione dei trattati stessi; inoltre,
l’eventuale contrarietà degli accordi internazionali ai trattati è sindacabile dalla corte di giustizia
esclusivamente sotto il profilo dell’atto dell’unione con il quale le istituzioni hanno concluso
l’accordo.
gli accordi in parola divengono parte integrante dell’ordinamento dell’unione dal momento della
loro entrata in vigore, per il solo fatto di essere stati conclusi alle condizioni indicate dai trattati.
l’entrata automatica nel sistema delle fonti dell’unione può comportare, tra l’altro, effetti diretti nelle
sfere giuridiche dei singoli: gli accordi internazionali, dunque, creano diritti e obblighi in capo alle
persone fisiche e giuridiche, tutelabili dinanzi alle giurisdizioni nazionali.
ACCORDI CONCLUSI DAGLI STATI MEMBRI
l’appartenenza all’unione europea non ha fatto venire meno il ruolo degli stati in quanto membri
della comunità internazionale, come dimostrano le consistenti relazioni che intrattengono ancora in
prima persona con soggetti terzi rispetto all’ordinamento dell’unione. infatti, sono parte di
numerosi trattati bilaterali, partecipano ad importanti regimi multilaterali e a numerose
organizzazioni internazionali nelle quali l’unione non ha lo status di membro con diritto di voto.
sebbene il rapporto giuridico tra stato membro e stato terzo si realizza nell’alveo dell’ordinamento
internazionale e solo da questo è regolato, l’accrescimento delle competenze attribuite all’unione
europea rende sempre più necessario il coordinamento delle attività delle istituzioni europee con
gli obblighi internazionali assunti dagli stati membri. in particolare, il problema è quello del
potenziale conflitto tra obblighi internazionali discendenti da accordi conclusi dagli stati membri
con stati terzi e vincoli derivanti dal diritto dell’unione; conflitto che potrà essere risolto alla luce
degli strumenti previsti dall’ordinamento internazionale oppure dei meccanismi di
coordinamento propri dell’organizzazione. qualora ciò non fosse possibile, lo stato si troverà
costretto a scegliere quale obbligo adempiere e a quale regime di responsabilità e garanzie essere
sottoposto – ad oggi, di fronte alla scelta tra adempiere ad un obbligo internazionale o ad un obbligo
derivante dal diritto dell’unione, gli stati membri sono sempre più inclini a scegliere il secondo.
peraltro, il principio delle competenze di attribuzione costituisce, di fatto, un limite alla libertà
negoziale degli stati: infatti, la sussistenza di una competenza esclusiva in capo all’unione
comporta l’impossibilità per lo stato di agire sul piano internazionale; tuttavia, vi sono anche
ipotesi in cui l’unione è chiamata soltanto a svolgere un ruolo di coordinamento dell’azione degli
stati membri sul piano internazionale oppure a vagliare preventivamente la compatibilità di un
accordo che lo stato membro intende concludere con un soggetto terzo con il diritto dell’unione.
in ogni caso e qualsiasi sia la forma in cui si esplicherà la competenza esterna, l’intero iter di
stipulazione deve essere informato al principio di leale cooperazione.
occorre notare che nei trattati dell’unione non sono presenti disposizioni specifiche relative agli
accordi conclusi tra gli stati membri o tra questi e paesi terzi, eccezion fatta per la clausola di
subordinazione di cui all’art. 351 TFUE. il par. 1 di questo articolo accorda prevalenza, rispetto al
diritto dell’unione, agli obblighi internazionali derivanti per gli stati membri da accordi conclusi
con stati terzi prima dell’istituzione della comunità o prima della loro adesione all’organizzazione
= uno stato può sottrarsi agli obblighi derivanti dai trattati dell’unione qualora ciò si renda
necessario per adempiere quelli scaturenti da una convenzione stipulata in precedenza con uno
stato membro. NB il conflitto tra la norma internazionale contenuta nell’accordo precedente e la
norma di diritto dell’unione, deve essere attuale: è necessario che lo stato si trovi materialmente
nella posizione di non poter adempiere un proprio obbligo internazionale senza
contestualmente violare una norma dell’unione.
nel contempo, il par. 2 dell’art. 351 TFUE, pone in capo agli stati membri l’obbligo di eliminare
l’incompatibilità con tutti i mezzi idonei. ma sorge una questione: l’obbligo di eliminare
l’incompatibilità sorge anche per i conflitti astratti e potenziali tra accordi pre-comunitari/pre-
adesione e diritto dell’unione? la questione è emersa in una serie di casi relativi al rapporto tra
norme dell’unione e trattati bilaterali di investimento conclusi tra stati membri e paesi terzi. dalle
relative pronunce emerge che l’ambito di operatività del par. 2 dell’art. 351 TFUE è sostanzialmente
diverso rispetto a quello ascrivibile al par. 1: mentre, infatti, per il primo paragrafo è richiesta la
sussistenza di un conflitto attuale e concreto, per cui l’adempimento dell’obbligo di diritto
dell’unione comporta necessariamente la violazione di un accordo internazionale (e viceversa); per
il secondo paragrafo è sufficiente, perché debba essere eliminato, che tale conflitto sia anche solo
potenziale.
la mancata eliminazione dell’incompatibilità riscontrata si traduce in una violazione del diritto
dell’unione, come tale sanzionabile secondo le ordinarie procedure e, in particolare, secondo la
procedura di infrazione.
in ultimo, per quanto riguarda gli accordi conclusi tra stati membri, se preesistenti all’adesione
dell’unione e incompatibili con obblighi derivanti dal diritto dell’unione, sono implicitamente
abrogati, in tutto o in parte, dai trattati costitutivi in base al principio della successione nel tempo
dei trattati aventi disposizioni contrastanti.
NORME DI SECONDO LIVELLO
il sistema normativo dell’unione comprende un ventaglio di atti giuridici adottati dalle istituzioni
dell’unione nei limiti delle competenze e con gli effetti che i trattati sanciscono.
gli atti dell’unione sono destinati ad incidere in modo rilevante sugli ordinamenti giuridici interni
e sulle posizioni giuridiche dei singoli, talvolta senza che occorra un intervento formale del
legislatore e/o dell’amministrazione nazionale, altre volte imponendo all’uno e/o all’altra
un’attività normativa; il tutto, allo scopo di riversare sui singoli gli impegni stabiliti dal legislatore
dell’unione o di precisare o integrare obbligazioni solo delineate dall’atto dell’unione e lasciate
alla discrezionalità degli stati membri quanto alla determinazione definitiva del suo contenuto.
l’insieme di tali atti si definisce comunemente “diritto derivato dell’unione”, espressione che ne
coglie, da un lato, la purezza dell’origine – quella dell’unione in senso proprio e non
convenzionale, del tutto estranea ai procedimenti nazionali di formazione delle norme; dall’altro,
la forza derivata dai trattati istitutivi, in applicazione e l’attuazione dei quali gli atti dell’unione
vengono adottati NB gli atti in questione non possono avere l’effetto di restringere o modificare la
portata di una norma dei trattati o della giurisprudenza relativa a quella stessa norma.
nell’ambito del sistema finora delineato va inquadrato l’art. 288 TFUE che sancisce la tipologia degli
atti a mezzo dei quali le istituzioni dell’unione esercitano le competenze loro attribuite:
• regolamenti
• direttive
• decisioni
• raccomandazioni
• pareri.
tali atti sono poi distinti, dalla stessa disposizione, in atti vincolanti* (regolamenti, direttive e
decisioni) e atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri).
*ai sensi dell’art. 289 TFUE, gli atti vincolanti possono poi essere divisi alla luce della procedura con la
quale sono adottati in:
• atti legislativi: vengono adottati con procedura legislativa ordinaria o speciale muovendo, in
principio, da una proposta della commissione – sono soggetti al controllo di sussidiarietà ad
opera dei parlamenti nazionali.
• atti non legislativi: vengono adottati senza il ricorso alla procedura legislativa ordinaria o
speciale, ma il trattato non fornisce una definizione compiuta e precisa di “atto non legislativo”;
l’art. 297 TFUE si limita a precisare che tali atti sono firmati dal presidente dell’istituzione che li
ha emanati. è pertanto possibile affermare che rientrano in questa categoria gli atti adottati da
una singola istituzione seguendo la procedura fissata dal proprio regolamento interno.
tali atti possono essere a loro volta distinti in:
o atti non legislativi di secondo grado: vi rientrano gli atti adottati da un’istituzione sulla base
di una specifica disposizione del trattato (es. atti adottati dalla commissione nell’ambito del
suo potere autonomo di decisione, artt. 101, 106 e 108 TFUE)
o atti non legislativi di terzo grado: vi rientrano gli atti volti a rendere operative norme
secondarie, restando a queste subordinate. tra questi, distinguiamo due tipologie di atti che,
ai sensi dell’art. 290 TFUE, la commissione ha il potere di adottare sulla base di una delega
contenuta in un atto legislativo:
− atti delegati: hanno portata generale, integrano o modificano determinati elementi non
essenziali dell’atto legislativo e devono essere definiti tali espressamente nel loro titolo –
assumono pertanto la denominazione di regolamenti, direttive e decisioni “delegati”.
l’esercizio da parte della commissione dei poteri normativi delegati è soggetto al controllo
da parte del parlamento e del consiglio, che possono revocare la delega o fissarne le
condizioni.
− atti di esecuzione: essendo, in generale, l’esecuzione lasciata agli stati membri, questi, ai
sensi dell’art. 291 TFUE, sono tenuti ad adottare tutte le misure di diritto interno necessarie
a dare attuazione agli atti vincolanti dell’unione. anche questa tipologia di atti deve essere
espressamente denominata tale nel loro titolo – assumono pertanto la denominazione di
regolamenti, direttive e decisioni “di esecuzione”.
si distinguono dagli atti delegati perché sono destinati ad operare all’interno degli stati
membri e per il fatto che il controllo sull’esercizio delle competenze di attribuzione è
affidato agli stessi stati membri secondo modalità stabilite dal parlamento europeo e dal
consiglio.
in sostanza, l’atto esecutivo può essere qualificato come atto amministrativo vero e proprio,
attraverso il quale si procede all’adozione di norme di esecuzione uniformi – contiene
dunque le misure necessarie a rendere operativi gli atti giuridicamente vincolanti
dell’unione.
tanto gli atti delegati quanto gli atti di esecuzione, in quanto destinati ad integrare o a rendere
applicabile l’atto di base, sono considerati fonti di terzo grado e sono a loro volta in relazione
gerarchica: l’atto esecutivo non può derogare all’atto delegato, il quale afferisce alla funzione
legislativa seppure per i suoi profili non essenziali.
NB i tipi di atti previsti dall’art. 288 TFUE non esauriscono il panorama degli atti di diritto derivato
dell’unione, sia perché sono i trattati stessi a contemplare, in relazione a specifici settori, l’adozione
di atti diversamente qualificati; sia perché la prassi delle istituzioni è andata elaborando uno spettro
ampiamente articolato dove trovano spazio atti, talvolta anche vincolanti, non previsti dai trattati o
il cui nomen iuris non ne riflette la sostanza risultante dall’art. 288 TFUE. essi vengono sinteticamente
indicati, nella terminologia corrente, come atti atipici.
ATTI VINCOLANTI: REGOLAMENTI, DECISIONI E DIRETTIVE
regolamenti
il regolamento, nel sistema giuridico dell’unione, normalmente rappresenta l’equivalente della
legge negli ordinamenti statali.
la natura tipicamente normativa di quest’atto trova fondamento nelle particolarità che lo qualificano
e ne segnano la diversità rispetto agli altri atti dell’unione. in particolare:
− al pari della legge ha una portata generale, nel senso che si rivolge a soggetti non determinati e
non limitati, bensì considerati astrattamente - investe pertanto situazioni oggettive.
la portata generale del regolamento è spesso sottoposta alla verifica della corte di giustizia sotto
il profilo della sua impugnabilità da parte dei singoli. questi ultimi, infatti, ai sensi dell’art. 263
TFUE, possono impugnare oltre che gli atti di cui sono destinatari e che cioè li riguardano
direttamente e individualmente, anche gli atti regolamentari che li riguardano direttamente,
semprechè non comportino alcuna misura di esecuzione.
− il regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi (art. 288 TFUE): i destinatari sono tenuti a
darne applicazione completa e integrale, con conseguente illegittimità di un’applicazione
parziale. peraltro, il carattere obbligatorio del regolamento preclude agli stati la possibilità di
formulare opposizioni o riserve al momento della sua adozione – se formulate resteranno prive
di ogni effetto.
NB la generale obbligatorietà del regolamento non comporta che le sue norme disegnino
sempre una disciplina completa e autosufficiente; è anzi proprio del suo carattere astratto che
il regolamento deleghi, ai sensi dell’art. 290 TFUE, alla commissione il potere di adottare atti
delegati, non legislativi e di portata generale, che integrino o modifichino determinati elementi
non essenziali dell’atto legislativo.
− il regolamento è direttamente applicabile in ciascuno degli stati membri (art. 288 TFUE).
il regolamento deve essere pubblicato nella gazzetta ufficiale dell’unione europea ai sensi dell’art.
297 TFUE; la mancata pubblicazione non influisce sulla validità dell’atto, ma ne impedisce la
produzione di effetti obbligatori fino a quando non venga pubblicato. il regolamento entra in
vigore il giorno successivo alla pubblicazione.
decisioni
la decisione è, al pari del regolamento, atto obbligatorio in tutti i suoi elementi; pertanto, non può
essere applicato in maniera incompleta, selettiva o parziale.
per quanto riguarda la sua portata, prima del trattato di lisbona la decisione designava sempre i
destinatari e si connotava, quindi, come atto a valenza individuale; attualmente, l’art. 288 TFUE
sancisce che se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. ne consegue
che, a seconda dei casi, la decisione può avere portata individuale, generale o indefinita.
• decisione individuale: nell’ipotesi in cui sia rivolta a specifici destinatari, la decisione corrisponde,
in sostanza, all’atto amministrativo dei sistemi giuridici nazionali in quanto rappresenta lo strumento
utilizzato dalle istituzioni quando sono chiamate ad applicare il diritto dell’unione a singole
fattispecie concrete.
è un atto che crea, modifica o estingue situazioni giuridiche soggettive in capo ai destinatari, che
possono essere tanto gli stati quanto persone fisiche o giuridiche. peraltro, una decisione può
avere come destinatari anche tutti gli stati, senza con ciò perdere, almeno in linea di principio
e salvo verifica sulla sostanza dell’atto, il suo carattere individuale.
la portata dell’atto non pone alcun problema quanto alla sua impugnabilità da parte dei singoli
destinatari, proprio perché essi in quanto tali sono già, in via di ipotesi, individualmente e
direttamente investiti dall’atto ai sensi e per gli effetti dell’art. 263 TFUE.
• decisioni generali: le decisioni possono non essere indirizzate né a stati membri né a persone
fisiche o giuridiche; avere cioè una valenza generale. può trattarsi:
− di decisioni con le quali il consiglio autorizza l’avvio dei negoziati di accordi internazionali e
designa, in funzione della materia di cui trattasi, il negoziatore o il capo della squadra di
negoziato dell’unione
− di decisioni con cui approva la conclusione di accordi internazionali
− di decisioni che investono il funzionamento dell’organizzazione dell’unione
− di decisioni relative alla nomina di persone, personale delle istituzioni, istituzione di comitati
e di decisioni relative a fondi e programmi dell’unione.
le decisioni che hanno portata generale condividono con i regolamenti l’indeterminatezza e
l’obbligatorietà in tutti i loro elementi, ma non è scontato che siano anche direttamente
applicabili.
• decisioni che costituiscono titolo esecutivo: quando impone obblighi di pagamento ai singoli,
persone fisiche o giuridiche, la decisione è a tutti gli effetti un titolo esecutivo da far valere negli
stati membri attraverso le procedure nazionali rispettivamente utilizzabili. l’unica condizione che
deve essere rispettata è l’apposizione della formula esecutiva da parte dell’autorità nazionale
che il governo di ciascuno degli stati membri ha a tal fine designato, previa verifica della sola
autenticità del titolo.
la procedura esecutiva è poi regolata dalle norme nazionali; il controllo della regolarità è di
competenza dei giudici nazionali; la sospensione dell’esecuzione, invece, può avvenire solo in
virtù di una decisione della corte di giustizia.
la decisione può essere adottata dal consiglio europeo, dal consiglio o dalla commissione –
quest’ultima agisce in virtù di un potere proprio o su delega del consiglio, a seconda delle specifiche
previsioni dei trattati.
la decisione va pubblicata nella gazzetta ufficiale dell’unione europea quando sia adottata a
seguito di procedura legislativa e qualora non designi i destinatari; se ha portata individuale, invece,
deve essere notificata ai destinatari e solo da tale momento produce i suoi effetti ed è ad essi
opponibile – nella prassi sono pubblicate solo le decisioni individuali più rilevanti nella parte di
gazzetta relativa agli atti per i quali la pubblicazione non è una condizione di applicabilità; in questo
caso, infatti, la pubblicazione assolve ad una funzione semplicemente informativa e, comunque, non
esonera l’istituzione che adotta la decisione dall’onere di provvedere alla sua notificazione al
destinatario.
direttive
secondo l’art. 288 TFUE vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
la direttiva, a differenza del regolamento, non ha portata generale, ma vincola solo lo stato o gli
stati membri (anche tutti) che ne sono i soli destinatari, salvo incidere talvolta nelle situazioni
giuridiche soggettive dei singoli.
non diversamente dal regolamento e dalla decisione, anche la direttiva produce effetti obbligatori.
l’elemento qualificante è costituito dalla natura dell’obbligo imposto agli stati, che è in via di
principio un obbligo di risultato – com’è tipico degli atti posti in essere da un organo internazionale.
l’obbligo dello stato è di adottare tutte le misure necessarie per realizzare il risultato voluto dalla
direttiva; è un obbligo cogente e investe tutti gli organi dello stato, compresi gli organi
giurisdizionali NB qualora lo stato membro incontrasse difficoltà di attuazione tempestiva ha come
unico rimedio la richiesta all’istituzione di una proroga del termine.
lo stato può dare applicazione alla direttiva anche in via anticipata rispetto al termine fissato dallo
stesso atto, ma tale circostanza non può produrre effetti nei confronti di altri stati membri che alla
direttiva non si siano ancora adeguati né è consentito al singolo di invocare il principio del
legittimo affidamento prima della scadenza del termine stabilito per l’attuazione della direttiva NB
in pendenza di tale termine l’inosservanza dell’obbligo dello stato di realizzare il risultato voluto
dalla direttiva non è sanzionabile, divenendo censurabile l’inadempimento solo alla scadenza. la
corte, tuttavia, ha apportato qualche precisazione circa i doveri degli stati nel periodo tra l’entrata
in vigore della direttiva e la scadenza del termine per l’attuazione: su di essi grava un obbligo di
standstill che si configura nel tradizionale obbligo di buona fede = devono astenersi dall’adottare
disposizioni che possano compromettere gravemente il risultato prescritto dalla direttiva.
è importante poi precisare che la discrezionalità nella forma e nei mezzi che gli stati possono
utilizzare non è in realtà assoluta. infatti, sulla premessa che l’attuazione deve soddisfare in ogni
caso l’esigenza di chiarezza e certezza delle situazioni giuridiche volute dalla direttiva, lo strumento
formale prescelto dallo stato membro non sempre è stato ritenuto adeguato dalla corte – cosi è
avvenuto per semplici prassi amministrative che, sebbene in fatto non contraddicessero o
addirittura attuassero perfettamente quanto imposto da direttive, sono state dichiarate dalla corte
inadeguate a garantire una corretta attuazione, in quanto per loro natura modificabili a piacimento
dell’amministrazione e prive di pubblicità.
NB quando il risultato voluto dalla direttiva non possa essere realizzato, gli stati membri hanno
l’obbligo di risarcire i singoli degli eventuali danni derivati dalla mancata attuazione della
direttiva.
nella prassi la caratteristica peculiare della direttiva di imporre un obbligo di risultato è talvolta
venuta meno, nel senso che molti sono i casi di direttive che in fatto non lasciano spazio ad
alternative quanto ai modi e ai tempi per realizzare il risultato da esse prescritto. si parla a tale
riguardo, seppur con espressione impropria, di direttive dettagliate, la cui rilevanza si manifesta
soprattutto nell’impatto con gli ordinamenti nazionali e la sfera giuridica dei singoli, in quanto
possono assumere la stessa portata ed efficacia dei regolamenti – in dottrina è stata anche ipotizzata
l’illegittimità della direttiva in questione proprio a ragione della sua natura sostanzialmente
regolamentare; ipotesi, tuttavia, che non ha ancora avuto riscontri reali.
tradizionalmente, la direttiva, in quanto atto non dotato di portata generale e con destinatari
espressamente individuati, veniva solo notificata a questi ultimi, producendo i propri effetti
obbligatori a partire dalla data della sua notificazione. tuttavia, l’art. 297 TFUE ha imposto la
pubblicazione sulla gazzetta ufficiale; come per il regolamento, l’entrata in vigore sarà alla data
stabilita dalla direttiva stessa o, in mancanza, al ventesimo giorno successivo alla pubblicazione.
ATTI NON VINCOLANTI: RACCOMANDAZIONI E PARERI
l’art. 288 TFUE prefigura la possibilità di adottare due tipologie di atti non vincolanti; il potere di
farlo è riconosciuto, data la natura non vincolante degli stessi, a tutte le istituzioni dell’unione.
l’art. 292 TFUE disciplina la procedura di adozione delle raccomandazioni da parte del consiglio, il
cui potere è subordinato alla proposta della commissione e/o all’unanimità nei casi e nei settori
nei quali tali condizioni sono previste NB un ruolo privilegiato è tuttavia attribuito alla
commissione che formula raccomandazioni o pareri quando i trattati espressamente lo
prevedono o quando la stessa istituzione lo ritenga necessario.
le raccomandazioni e i pareri non sono facilmente distinguibili, anche in considerazione dell’ampio
e differenziato impiego che ne fanno le istituzioni. in linea generale, mentre le raccomandazioni
sono normalmente dirette agli stati membri e contengono l’invito a conformarsi ad un certo
comportamento, i pareri costituiscono l’atto con cui le stesse istituzioni o altri organi dell’unione
fanno conoscere il loro punto di vista su una determinata materia – attraverso i pareri, dunque,
l’istituzione esercita una funzione di orientamento, consigliando il soggetto circa il contegno che
questi dovrà tenere, ma senza che da ciò discenda un obbligo per lo stato cui sono rivolti.
l’assenza di carattere vincolante non consente comunque di escludere qualsiasi effetto giuridico
degli atti in esame, specialmente delle raccomandazioni. in particolare, nel pronunciarsi sul valore di
queste, la corte di giustizia, dopo aver precisato che sono in genere adottate dalle istituzioni
dell’unione quando queste non dispongono, in forza dei trattati, del potere di adottare atti
obbligatori o quando ritengono che non vi sia motivo di adottare norme vincolanti, ha affermato
che non possono essere considerate prive di effetto giuridico e che, pertanto, i giudici nazionali
devono tenerne conto ai fini dell’interpretazione di norme nazionali o di altri atti vincolanti
dell’unione.
degli atti non vincolanti il TFUE non impone la pubblicazione nella gazzetta ufficiale; tuttavia,
normalmente vengono comunque pubblicati, specie se si tratta di raccomandazioni di carattere
generale, per facilitarne la conoscenza e dunque l’efficacia.
ATTI ATIPICI
l’ampia categoria degli atti atipici ricomprende sia gli atti non prefigurati dall’art. 288 TFUE ma a
cui i trattati fanno riferimento (c.d. atti atipici in senso lato); sia atti che nascono dalla prassi delle
istituzioni (c.d. atti atipici in senso proprio). in particolare:
• atti atipici in senso lato:
− regolamenti interni delle istituzioni: hanno normalmente un’efficacia circoscritta ai rapporti
interni alle istituzioni
− programmi generali: in origine previsti per la soppressione delle restrizioni in materia di
libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, fissavano gli obiettivi e la cadenza della
liberalizzazione
− constatazione dell’avvenuta approvazione del bilancio da parte del presidente del
parlamento europeo
− atti preparatori
− misure adottate dal consiglio e previste dal TFUE in materie di politiche relative ai controlli
alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione
• atti atipici in senso proprio:
− risoluzioni del consiglio: sebbene sprovviste di efficacia vincolante, rivestono notevole
importanza in quanto esplicitano il punto di vista dell’istituzione su questioni concernenti
determinati settori di intervento dell’unione, spesso anticipando una successiva attività
normativa in senso proprio
− comunicazioni della commissione: strumenti utilizzati con notevole frequenza ed aventi
forme e contenuti diversi tanto da dar luogo a tentativi di classificazione dei differenti tipi di
comunicazione (es. comunicazione informativa, destinata ad alimentare il dialogo tra le
istituzioni su temi e materie in cui si prefigura l’adozione di veri e propri atti normativi;
comunicazioni decisorie, relative a settori in cui la commissione dispone di un potere di
decisione anche discrezionale; comunicazioni interpretative, volte a far conoscere agli stati e
agli operatori i diritti e gli obblighi ad essi derivanti dal diritto dell’unione, soprattutto alla
luce degli sviluppi giurisprudenziali registrati nel settore di cui si tratta)
− dichiarazioni comuni del parlamento, del consiglio e della commissione
− dichiarazioni a verbale del consiglio: accompagnano l’adozione di un atto e, come precisato
dalla corte, possono essere prese in considerazione al fine di chiarire la portata di una
disposizione di diritto derivato
− accordi amministrativi stipulati dalla commissione con stati terzi.

RAPPORTO TRA LE FONTI


l’ordinamento giuridico dell’unione risulta, come visto, composto da numerose norme che, in
quanto introdotte in momenti diversi e per esigenze differenti, possono confliggere tra di loro.
NB il giudice dell’unione ha stabilito una sorta di intangibilità dei principi fondamentali
dell’ordinamento, che riguarda anche le caratteristiche specifiche dell’unione: in caso di antinomia,
l’interpretazione non potrà mai spingersi al limite della rottura con tali principi e con tali
caratteristiche.
• rapporto tra norme di primo livello: in caso di antinomia la risoluzione è lasciata alla corte di
giustizia, che ha il compito di rendere compatibili le norme che, almeno apparentemente, non lo
sono o di stabilire quale regola va applicata alla fattispecie in esame
• rapporto tra atti tipici di secondo livello (regolamenti, decisioni, direttive, raccomandazioni e
pareri): dal momento in cui i trattati non istituiscono alcuna forma di gerarchia e, di
conseguenza, non si può attribuire a ciascuno di essi un rango o un valore formale, il rapporto in
questione risulta indefinito.
• rapporto tra atti tipici e atti atipici: a tal proposito è opportuno precisare che la giurisprudenza,
anzitutto, si è preoccupata di chiarire che l’applicazione uniforme del diritto comunitario è
garantita solo da atti formali adottati a norma del trattato.
in realtà, data l’incerta natura giuridica degli atti atipici e, soprattutto, la molteplicità di forme
con cui si manifestano, la corte ha finito per stabilire che i rapporti tra questi e le fonti tipiche
non sono determinabili in via generale, ma vanno definiti caso per caso.
FORMAZIONE DELLE NORME
l’articolazione delle competenze attribuite dai trattati alle singole istituzioni dell’unione mette in
evidenza con sufficiente chiarezza che la funzione normativa è esercitata congiuntamente dal
consiglio e dal parlamento europeo, fatta eccezione per talune ipotesi, espressamente disciplinate,
che accordano un ruolo preminente al consiglio o più di rado al parlamento.
tra l’altro, l’apporto dell’assemblea parlamentare europea si è andato progressivamente
accrescendo, sulla spinta dell’idea che il progresso nell’integrazione non può che andare di pari passo con
una più accentuata partecipazione dei cittadini alla formazione delle norme, e raggiungendo una
significativa consistenza per effetto del trattato di lisbona. a tal proposito è utile ricordare che il
parlamento, infatti, originariamente era dotato di minori poteri ed è passato, in modo progressivo, da una
funzione meramente consultiva ad un potere di codecisione su un piano di parità con il consiglio,
garantendo cosi la valenza democratica del procedimento stesso. nonostante ciò, la responsabilità principale in
ordine alla realizzazione degli obiettivi ricade ancora sull’insieme degli stati e dunque sul consiglio, in
quanto composto dai rappresentanti dei governi nazionali che dunque conservano una legittimazione e con
essa una responsabilità nei confronti dei cittadini.
in tale contesto, se vanno considerati con prudenza i tentativi della commissione (rappresentante
degli interessi dell’unione) di ritagliarsi spazi normativi autonomi ed esclusivi quando non siano
espressamente previsti o addirittura preclusi dai trattati, va viceversa accolto qualunque
accrescimento della presenza del parlamento europeo nel processo decisionale, anche a costo di
qualche vischiosità in più. e lo stesso dicasi per una partecipazione più consistente dei parlamenti
nazionali, spesso confinati ad un ruolo del tutto marginale e circoscritto, nella maggior parte dei
casi, alla sola fase di attuazione del diritto dell’unione europea.
in virtù delle descritte esigenze, il trattato di lisbona ha introdotto sostanziali novità quanto all’iter
di procedura di formazione degli atti. a tal proposito va innanzitutto sottolineato che ai sensi
dell’art. 14 TFUE il parlamento europeo esercita, congiuntamente al consiglio, la funzione
legislativa e la funzione di bilancio. in particolare, tale competenza può essere esercitata attraverso
la procedura legislativa ordinaria o speciale a seconda della specifica previsione dei trattati;
procedura legislativa ordinaria, che rappresenta la massima espressione del coinvolgimento del
parlamento europeo nel processo di formazione delle norme, che ormai è adottata per la
maggioranza degli atti dell’unione.
potere di iniziativa
l’adozione degli atti legislativi avviene su proposta della commissione* tranne nei casi in cui i
trattati stabiliscano diversamente; infatti, in alcune ipotesi gli atti legislativi possono essere adottati
su iniziativa di un gruppo di stati membri o del parlamento europeo su raccomandazione della
banca centrale europea o su richiesta della corte di giustizia o della banca europea per gli
investimenti (art. 289 TFUE); gli atti non legislativi, invece, sono adottati su iniziativa
dell’istituzione che ne ha la competenza alla stregua della base giuridica dell’atto.
l’art. 223 TFUE attribuisce un potere di iniziativa esclusivo al parlamento europeo per l’elaborazione
di disposizioni relative alla sua elezione, allo statuto e alle condizioni dei suoi membri; nel settore
della PESC, invece, è l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza ad essere titolare del
potere di iniziativa, mentre per l’assolvimento dei compiti del sistema europeo delle banche centrali
gli atti sono adottati direttamente dalla banca centrale europea.
*la proposta della commissione può essere sollecitata dal parlamento europeo che delibera a
maggioranza dei membri che lo compongono, dai cittadini dell’unione in numero almeno di un
milione o dal consiglio o da uno stato membro per taluni aspetti di politica economica e monetaria.
in realtà, si tratta di una pre-iniziativa, in quanto spetta alla commissione decidere se presentare o
meno un proposta di atto legislativo e, eventualmente, determinarne l’oggetto, le finalità e il
contenuto. peraltro, questo potere discrezionale della commissione, che può apparire
eccessivamente ampio, è soggetto comunque all’obbligo di motivare la decisione di non
presentare al legislatore dell’unione una proposta di atto.
NB il quasi monopolio dell’iniziativa legislativa della commissione si ritiene giustificato
dall’esigenza di promuovere l’interesse generale dell’unione.
la presentazione di una proposta da parte della commissione rappresenta l’atto finale di un dialogo,
talvolta molto lungo e faticoso, tra diversi attori. infatti, al di là degli uffici dell’esecutivo, vengono
coinvolte le parti sociali degli stati membri (associazioni di categoria, comitati, sindacati, ecc.). tale
fenomeno prende il nome di lobbying ed è molto rilevante nel quadro istituzionale europeo in quanto
si pone come possibile risposta ad una maggiore partecipazione della società civile alla politica
europea: l’attività dei gruppi che operano in modo convenzionale è una funzione utile, spesso del
tutto necessaria, per far conoscere alla commissione i bisogni di particolari categorie al fine di
trovare adeguata soddisfazione nelle decisioni.
l’importante ruolo rivestito dalla commissione nella fase di iniziativa trova conferma nel potere di
modificare la proposta finchè l’atto non sia definitivamente adottato e nei limiti che incontra il
consiglio:
− può porre emendamenti soltanto all’unanimità e senza alterarne la sostanza
− deve deliberare sempre all’unanimità sugli emendamenti presentati dal parlamento europeo
sui quali la commissione si è espressa negativamente.
la commissione può ritirare la proposta nell’ipotesi in cui non raggiunga un accordo con il consiglio
o qualora ritenga non sia più attuale. tuttavia, prima di effettuare il ritiro, l’esecutivo dell’unione
deve prendere in considerazione, nello spirito di leale cooperazione, le preoccupazioni del parlamento
e del consiglio all’origine della loro volontà di emendare la proposta.
la corte di giustizia ha espressamente riconosciuto il potere di ritiro che la commissione ha sempre
rivendicato, precisando però che se la commissione, dopo aver presentato una proposta nell’ambito
della procedura legislativa ordinaria, decide di ritirare tale proposta, deve esporre al parlamento e
al consiglio i motivi di tale ritiro che, in caso di contestazione, devono essere suffragati da elementi
convincenti. questo obbligo di motivazione consente un sindacato giurisdizionale che può
esercitarsi mediante un ricorso di annullamento della decisione di ritiro; l’esperibilità di questa
azione è giustificata dal fatto che la decisione di ritiro mette fine al procedimento legislativo iniziato
con la presentazione della proposta della commissione, impedendo al parlamento e al consiglio di
esercitare la loro funzione legislativa.
PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA
la procedura legislativa ordinaria è disciplinata dall’art. 294 TFUE. si tratta di una procedura solo a
prima vista complessa, che accentua il dialogo tra le istituzioni chiamate ad intervenire nel processo
di formazione degli atti.
proposta da parte della commissione: la procedura legislativa ordinaria, in questo caso, ha inizio
con la proposta presentata dalla commissione al parlamento e al consiglio; su tale proposta il
parlamento europeo adotta la sua posizione e la trasmette al consiglio; se il consiglio approva la
posizione del parlamento, l’atto è adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del
parlamento europeo; se invece il consiglio non approva la posizione del parlamento europeo,
esprime la sua posizione in prima lettura e la comunica al parlamento, che deve anche essere
esaurientemente informato dei motivi che hanno indotto il consiglio ad adottare quella posizione.
inizia cosi la fase di seconda lettura: il parlamento ha tre mesi di tempo per approvare la posizione del
consiglio, nel cui caso l’atto si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione
del consiglio – lo stesso accade se il parlamento non si pronuncia nei tre mesi. il quadro cambia se
il parlamento, a maggioranza dei suoi membri, dichiara di voler respingere la posizione del consiglio o
propone emendamenti: nel caso di respingimento l’atto si considera non adottato; nel caso di
emendamenti, il consiglio entro tre mesi può accoglierli e procedere all’adozione dell’atto,
modificando pertanto la previa posizione a maggioranza qualificata o all’unanimità nel caso in cui
la commissione abbia espresso parere negativo sugli emendamenti del parlamento.
nel caso in cui il consiglio non approvi l’atto in questione, entro sei settimane verrà attivato il
comitato di conciliazione. questo, composto da un numero pari di membri delle due istituzioni e
con la partecipazione della commissione, e con il compito di favorire il ravvicinamento delle posizioni
a confronto, il comitato di conciliazione viene convocato dal presidente del consiglio d’intesa con il
presidente del parlamento. se entro sei settimane il comitato di conciliazione non approva un
progetto comune, l’atto proposto si considera definitivamente non adottato; se invece il comitato
riesce a definire un progetto comune si apre la terza lettura: il progetto dovrà dunque essere
approvato definitivamente nelle sei settimane successive sia dal parlamento a maggioranza dei voti
espressi, sia dal consiglio a maggioranza qualificata, e dovrà essere firmato dai due presidenti.
in mancanza dell’approvazione di una delle due istituzioni, l’atto si considera non adottato.

proposta da parte di soggetti diversi (stati membri o parlamento europeo): nell’ipotesi in cui
l’iniziativa non parta dalla commissione, il parlamento europeo e il consiglio sono tenuti
comunque a trasmetterla all’esecutivo, unitamente alle loro posizioni in prima e seconda lettura;
la commissione può eventualmente presentare un parere di propria iniziativa o su richiesta degli
altri organi legislativi e può anche partecipare al comitato di conciliazione.
PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI
una procedura legislativa speciale si ha in tutti i casi in cui i trattati prevedono l’adozione di un atto
da parte del parlamento europeo con la partecipazione del consiglio o viceversa. le modalità di
partecipazione delle due istituzioni sono molteplici e, di conseguenza, numerose sono le procedure
contemplate dai trattati.
• soltanto in tre casi l’adozione dell’atto è attribuita al parlamento con la partecipazione del
consiglio:
− approvazione del proprio statuto
− fissazione delle modalità dell’esercizio del diritto di inchiesta del parlamento
− adozione dello statuto e delle condizioni generali per l’esercizio delle funzioni del mediatore
europeo.
• più frequenti sono i casi in cui la delibera del consiglio deve essere preceduta dalla consultazione
del parlamento, obbligatoria ma non vincolante salvo alcuni casi:
− diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’unione
− diritto di voto
− concorrenza
− armonizzazione fiscale.
in queste ipotesi la consultazione del parlamento assume il carattere di elemento sostanziale della
validità dell’atto, che dunque sarà viziato da nullità quando se ne riscontri l’omissione. la
consultazione, infatti, rappresenta uno strumento di effettiva partecipazione del parlamento al
processo legislativo dell’unione, elemento essenziale dell’equilibrio istituzionale ed espressione
di un fondamentale principio della democrazia NB il parlamento deve esprimere effettivamente
la propria posizione, non essendo sufficiente una semplice richiesta di parere da parte del
consiglio.
• in talune ipotesi l’adozione di un atto legislativo è subordinata alla previa approvazione del
parlamento europeo:
− procedura uniforme di elezione del parlamento
− conclusione di accordi di associazione
− conclusione dell’accordo sull’adesione dell’unione alla CEDU
− conclusione di accordi che determinano procedure di cooperazione o ripercussioni finanziarie
considerevoli e conclusione di accordi di ammissione di nuovi stati.
la consultazione del parlamento in tali casi, oltre che obbligatoria, è vincolante.
ALTRE PROCEDURE
• a latere delle procedure legislative e speciali di adozione degli atti, il TFUE prevede diversi
procedimenti decisionali che si differenziano tra loro a seconda del ruolo svolto dal parlamento
e/o dal consiglio, delle regole di votazione del consiglio (all’unanimità o a maggioranza
qualificata) o per la prescrizione di consultare organi ausiliari (comitato economico e sociale
europeo, comitato delle regioni, ecc.). la scelta del procedimento non è casuale né arbitraria,
dovendosi rispettare quanto indicato dalle disposizioni normative sulla cui base l’atto in
questione va adottato.
• i trattati disciplinano altresì l’ipotesi che l’atto di base preveda l’adozione di una normativa
integrativa o di esecuzione della commissione o, eccezionalmente, del consiglio – questi ulteriori
e successivi atti possono seguire una procedura semplificata nella quale interviene il consiglio o
la commissione, qualora delegata; il legislatore, infatti, può delegare alla commissione il potere
di integrare o modificare elementi non essenziali dell’atto di base nell’ottica dell’alleggerimento
dell’attività legislativa.
• esistono, poi, molteplici casi che escludono l’applicazione delle procedure legislative (ordinaria
e speciali): a titolo esemplificativo si ricorda che il consiglio europeo è chiamato a dare gli impulsi
necessari allo sviluppo dell’unione, ma non esercita funzioni legislative (art. 15 TFUE); in altre
materie, tra cui la politica estera e di sicurezza comune, è espressamente esclusa l’adozione di atti
legislativi.
• vanno inoltre tenute a mente talune disposizioni del trattato che non prevedono la partecipazione
del parlamento europeo all’adozione di un atto da parte del consiglio. tra queste rientrano le
misure di attuazione del mercato interno, la definizione della tariffa doganale comune, precise
misure in materia di agricoltura e pesca, politica economica, ecc. NB in queste circostanze non è
da escludersi che il consiglio richieda comunque il parere del parlamento; tuttavia, trattandosi
di una mera facoltà, la mancata consultazione dell’assemblea elettiva dell’unione non inficia la
legittimità dell’atto in alcun modo.
• in ipotesi specifiche, l’atto, pur avendo la veste giuridica tipica di regolamento o altro atto
vincolante, è adottato da istituzioni e secondo procedure peculiari. a tal proposito è necessario
ricordare l’art. 132 TFUE che attribuisce alla BCE, nell’ambito delle proprie competenze, il
potere di emanare regolamenti e decisioni di cui all’art. 288 TFUE; di conseguenza, si ha un
procedimento di adozione che esclude la partecipazione di altre istituzioni a qualsiasi titolo
(proposta, pareri e consultazioni) – resta comunque fermo e valido il sindacato giurisdizionale
della corte di giustizia in quanto si tratta di atti che producono effetti nei confronti dei terzi.
PROCEDURA DI APPROVAZIONE DEL BILANCIO
l’unione europea era in origine finanziata con contributi degli stati membri, cosi come l’euratom.
tuttavia, con una decisione del 1970 si arrivò ad un sistema fondato sulle c.d. risorse proprie, cosi
come prevede attualmente l’art. 311 TFUE introdotto nel 2007. in particolare, il sistema attuale è
fondato sulle seguenti risorse finanziarie:
− prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o elementi aggiuntivi, dazi della
tariffa doganale comune e altri dazi fissati dalle istituzioni sugli scambi con paesi terzi
− aliquota (0,30%) applicata sull’imponibile iva pari ad una percentuale del PNL degli stati
membri e determinata secondo regole dell’unione
− aliquota applicata sull’importo complessivo del PNL di tutti gli stati membri, da determinarsi
in funzione del bilancio e dunque anno per anno.
il sistema di finanziamento dell’unione è fondato su un meccanismo sostanzialmente
intergovernativo: la decisione che definisce l’ammontare delle risorse proprie è presa
all’unanimità ed è sottoposta alle procedure di adattamento degli stati membri – ha dunque
natura convenzionale.
le spese, ai sensi dell’art. 312 TFUE, devono essere contenute entro i limiti delle risorse proprie e
sono programmate su base pluriennale attraverso un quadro finanziario adottato dal consiglio
all’unanimità previa approvazione del parlamento europeo.
procedura, art. 314 TFUE: la procedura di approvazione del bilancio ha visto un progressivo
coinvolgimento del parlamento europeo che ha assunto, con il trattato di lisbona, una posizione
equiparata al consiglio. in particolare: il parlamento europeo e il consiglio ricevono dalla
commissione una proposta contenente il progetto di bilancio non oltre il 1 settembre dell’anno
precedente a quello di esecuzione del bilancio; il consiglio adotta la sua posizione sul progetto e la
comunica, per la prima lettura, al parlamento europeo, motivandola. il parlamento europeo, entro
quarantadue giorni, può approvare la posizione del consiglio oppure non deliberare: in entrambe
le ipotesi il bilancio è comunque adottato. inoltre, nel medesimo termine, il parlamento può
proporre emendamenti, con la maggioranza dei membri. inizia dunque la fase di conciliazione: il
presidente del parlamento, d’intesa con il presidente del consiglio, convoca il comitato di
conciliazione, chiamato a riunirsi solo se entro dieci giorni il consiglio non comunichi di approvare
tutti gli emendamenti. in questo caso, dunque, il comitato ha il compito di giungere ad un accordo su
un progetto comune, tenendo in considerazione le posizioni delle due istituzioni. se entro ventuno
giorni dalla convocazione l’accordo non viene raggiunto, la commissione deve presentare un
nuovo progetto di bilancio; viceversa, se l’accordo è raggiunto, parlamento e consiglio
dispongono di quattordici giorni per approvare il progetto comune. il bilancio si considera
definitivamente approvato se: a) entrambe le istituzioni approvano il progetto comune, non
riescono a deliberare o se una delle due approva e l’altra non riesce a deliberare b) il parlamento
europeo, approvato il progetto comune respinto invece dal consiglio, entro quattordici giorni,
decide di confermare tutti gli emendamenti presentati; qualora, invece, un emendamento del
parlamento europeo non fosse confermato, è mantenuta la posizione concordata in seno al comitato
di conciliazione ed il bilancio si considera definitivamente adottato su questa base.
quando la procedura è stata espletata, il presidente del parlamento constata che il bilancio è
definitivamente adottato. affermazione che inizialmente appariva ambigua, a seguito del trattato
di lisbona testimonia la raggiunta parità di posizione del consiglio e del parlamento europeo nella
procedura in esame.

NB in questa procedura il parlamento è tenuto ad adottare il bilancio in seduta plenaria, in quanto


la trasparenza della discussione è idonea a rafforzare la legittimità democratica della procedura
nei confronti dei cittadini dell’unione nonché la credibilità dell’azione di quest’ultima.
l’esecuzione del bilancio è curata dalla commissione in cooperazione con gli stati membri, nei
limiti dei crediti stanziati e in conformità del principio della buona gestione finanziaria.
PROCEDURA PER LA CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI
il riconoscimento all’unione di personalità giuridica ai sensi dell’art. 47 TFUE implica la sua
autonomia rispetto agli stati membri che, sul piano esterno, si traduce nella più importante attività
internazionale, ossia nella capacità di stipulare accordi con stati terzi e con altre organizzazioni
internazionali - i trattati, infatti, attribuiscono espressamente all’unione il potere di stipulare accordi
tariffari e commerciali nel contesto delle competenze relative alla politica commerciale comune,
nonché accordi di associazione con uno o più stati terzi o con organizzazioni internazionali NB il
potere di stipulare accordi si estende ben oltre l’attuazione delle politiche e delle azioni formalmente
incluse nella politica esterna. infatti, la capacità a stipulare dell’unione, in assenza di espressa
attribuzione, può risultare necessaria per realizzare un obiettivo fissato dai trattati o da atti
vincolanti o qualora possa incidere su norme comuni o alterarne la portata (art. 216 TFUE). di
conseguenza, la competenza dell’unione a stipulare accordi internazionali si estende ben oltre il
dettato delle disposizioni convenzionali. e infatti, in realtà, l’art. 216 TFUE ha codificato una
giurisprudenza consolidata: originariamente, in forza di una rigorosa applicazione del principio delle
competenze di attribuzione si riteneva che, in settori diversi da quelli espressamente prefigurati
dal trattato, l’allora comunità dovesse lasciare il campo agli stati membri ovvero dividere con essi
la competenza a stipulare accordi internazionali (c.d. accordi misti); la prassi e la giurisprudenza,
tuttavia, hanno adottato una prospettiva più ampia, riassunta nella formula del parallelismo tra
competenze interne e competenza esterna: la competenza esterna si estende fino ai limiti di
esercizio delle competenze interne; parallelismo che peraltro era già espressamente sancito da
trattato euratom che all’art. 101 conferiva alla comunità il potere di concludere accordi
internazionali nell’ambito della sua competenza.
al principio del parallelismo è stata attribuita una valenza molto ampia dalla stessa corte di giustizia
che, all’orientamento secondo cui alle istituzioni potesse essere riconosciuta una competenza a
stipulare accordi internazionali soltanto laddove avessero già esercitato la relativa competenza
interna, ha sostituito quello secondo cui tale competenza sussiste anche qualora gli atti di
rilevanza interna siano adottati solo in occasione della stipulazione e dell’attuazione dell’accordo
internazionale se la partecipazione a tale accordo risulti necessaria al perseguimento di uno degli
obiettivi fissati dal trattato.
procedura, art. 218 TFUE: l’articolo attribuisce al consiglio la fase di avvio dei negoziati, definizione
delle direttive di negoziato e autorizzazione alla firma e alla conclusione. in particolare, il consiglio
autorizza l’avvio dei negoziati su raccomandazione della commissione o dell’alto rappresentante
quando gli accordi riguardano esclusivamente o principalmente la politica estera e di sicurezza
comune. il consiglio, inoltre, designa il negoziatore o il responsabile della squadra di negoziato,
impartisce direttive e nomina un comitato speciale che deve essere consultato durante la
negoziazione dell’accordo.
anche la firma dell’accordo cosi come la sua applicazione provvisoria, prima della sua entrata in
vigore, devono essere autorizzate con delibera del consiglio, che poi adotta, con delibera a
maggioranza qualificata, una decisione relativa alla conclusione dell’accordo – è prescritta invece
una delibera all’unanimità quando l’accordo contenga disposizioni in materie per le quali è richiesta
l’unanimità per l’adozione di norme interne, per l’accordo dell’unione alla CEDU, ecc.
NB una competenza a stipulare accordi internazionali è espressamente attribuita alla commissione
e all’alto rappresentante: l’art. 6 del protocollo n. 7 sui privilegi e sulle immunità dell’unione
europea stabilisce che la commissione possa concludere accordi per far riconoscere i lasciapassare
dei membri e degli agenti delle istituzioni come titoli di viaggio sul territorio di stati terzi; l’art.
220 TFUE conferisce poi alla commissione e all’alto rappresentante la competenza a concludere
accordi con gli istituti specializzati delle nazioni unite, con l’OSCE (organizzazione per la
sicurezza e cooperazione in europa), con l’OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico) e con altre organizzazioni internazionali al fine di stabilire con esse opportuni
collegamenti.
l’art. 218 TFUE stabilisce il parlamento europeo, il consiglio o la commissione possano domandare
alla corte di giustizia un parere circa la compatibilità di un accordo con i trattati. qualora la corte
dovesse formulare un parere negativo, è previsto che l’accordo possa entrare in vigore soltanto se
modificato o a seguito di revisione dei trattati. inoltre, ai sensi dell’art. 196 del regolamento di
procedura della corte, la domanda di parere può riguardare tanto la compatibilità con le
disposizioni dei trattati di un accordo progettato, quanto la competenza dell’unione o di una sua
istituzione a concludere tale accordo.
una volta entrato in vigore l’accordo, vincola sia le istituzioni sia gli stati membri e, pertanto, non
sono richiesti atti di attuazione o di esecuzione tranne nei casi espressamente previsti dall’accordo
stesso. in sostanza, dunque, l’accordo entra automaticamente a far parte integrante
dell’ordinamento comunitario.
PROCEDURA PER L’ADOZIONE DI ATTI PESC E PSDC
relativamente alle procedure per l’adozione degli atti PESC e PSDC, vanno rilevate talune differenze
considerevoli rispetto ad altri settori dell’unione; differenze che riflettono la volontà di mantenere
le due materie nell’ambito della cooperazione intergovernativa e, quindi, di sottrarle a determinati
principi e regole di integrazione. in particolare:
• ruolo delle istituzioni: ciò che appare subito evidente è che i protagonisti sono gli stati membri
e le istituzioni che maggiormente li rappresentano, quali consiglio europeo e consiglio oltre che
l’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza; al contempo,
balza agli occhi la riduzione della funzione del parlamento ad un ruolo meramente consultivo e
la perdita del quasi monopolio della commissione europea nell’esercizio dell’iniziativa
legislativa.
• adozione degli atti: l’art. 31 TFUE impone la regola dell’unanimità per l’adozione di qualunque
tipo di decisione da parte del consiglio europeo e del consiglio, con alcuni correttivi tesi ad
attenuare la rigidità che ne deriva e a scongiurare il rischio d’immobilismo:
− è previsto che le astensioni non inficino l’adozione degli atti e non impediscano il
raggiungimento dell’unanimità
− per porre al riparo gli stati membri esitanti dagli effetti dell’atto e convincerli ad astenersi
invece di manifestare una volontà di segno negativo, è stato introdotto l’istituto della
astensione costruttiva: gli stati membri possono motivare il proprio voto attraverso una
dichiarazione formale con la quale non si obbligano all’atto in fieri, ma ne accettano gli effetti
per l’unione - inoltre, in uno spirito di mutua solidarietà, lo stato in questione si astiene dal
tenere comportamenti che possano pregiudicare l’efficacia dell’atto all’interno dell’unione,
cosi come gli altri ne rispettano la posizione. è evidente, però, che non si può giungere
all’adozione dell’atto quando l’astensione coinvolga un numero significativo di membri del
consiglio.
NB la regola dell’unanimità viene meno per gli atti esecutivi e, più in generale, per quelli che
ne presuppongono altri adottati all’unanimità.
RAPPORTI TRA DIRITTO DELL’UNIONE E DIRITTI NAZIONALI
DIRITTO DELL’UNIONE E DIRITTO INTERNO
esaminiamo ora il modo di essere e di operare delle norme dell’unione all’interno degli ordinamenti
giuridici nazionali sia sotto il profilo dell’incidenza sulle posizioni giuridiche individuali, sia sotto
il profilo della loro posizione rispetto alle norme nazionali. al riguardo rilevano i due caratteri
fondamentali del diritto dell’unione, che ne qualificano soprattutto il rapporto con il diritto
nazionale:
• primato
• effetto diretto
cui si aggiungono
• interpretazione conforme
• responsabilità risarcitoria degli stati membri per violazione del diritto dell’unione
• effettività
• equivalenza.
primato
uno dei principi fondamentali del diritto internazionale generale viene in rilievo nella relazione
delle norme del diritto dell’unione con gli ordinamenti giuridici nazionali: il primato sulle norme
interne con esse contrastanti, sia precedenti che successive e quale ne sia il rango, all’occorrenza
anche costituzionale. in particolare, tale principio impone a tutti gli stati membri di dare pieno
effetto alle varie norme dell’unione dato che il diritto degli stati membri non può sminuire
l’efficacia riconosciuta a tali differenti norme nel territorio dei suddetti stati.
il principio del primato è spesso messo in relazione ad altri principi, quale tra i tanti il principio
dell’effetto diretto: la conseguenza pratica della prevalenza della norme dell’unione dotata di
efficacia diretta è che la norma interna con essa contrastante non può essere applicata – si dice che
viene disapplicata – e quindi il rapporto resta disciplinato dalla sola norma dell’unione.
il principio del primato non era contenuto nei trattati istitutivi delle comunità europee, né è stato
inserito nel TUE e TFUE; risulta tuttavia in una dichiarazione allegata al trattato di lisbona, che
mette in risalto che il principio del primato è insito nella natura specifica dell’unione europea e che
dunque la sua mancata inclusione nei trattati non ha alcuna rilevanza, rimanendo invariata la sua
efficacia.
il trattato di lisbona ha anche introdotto l’art. 4 TUE, che si riferisce ai principi di organizzazione
dello stato: l’unione è tenuta a rispettare l’identità nazionale degli stati membri insita nella loro
struttura fondamentale, politica e costituzionale, cosi come il preambolo della carta ricorda che,
nella sua azione, l’unione deve rispettare l’identità nazionale degli stati membri. secondo alcune
corti costituzionali, l’inserimento nel testo del trattato di lisbona dell’obbligo di rispettare le identità
nazionali costituirebbe il riconoscimento normativo della teoria dei controlimiti o comunque un
limite all’ingresso delle norme dell’unione nell’ordinamento nazionale – è il caso di ricordare, al
riguardo, che nel corso degli anni sono state elaborate diverse teorie volte a limitare il principio del
primato nei casi di conflitto con norme o valori ritenuti essenziali per l’ordinamento nazionale.
tuttavia, si è precisato che il concetto di identità nazionale è una nozione piuttosto circoscritta che
dunque non coincide con quella dei controlimiti.
l’applicazione del principio del primato è stata nel corso degli anni strenuamente garantita e
consolidata dalla corte di giustizia dell’unione; ma è la stessa corte che ha contemplato la possibilità
di sospendere temporaneamente la disapplicazione della norma interna in contrasto con la norma
di diritto dell’unione, seppur in presenza di alcune condizioni dalla stessa indicate – l’eccezione
resta infatti confinata a specifici settori e con riferimento solamente ad alcune concrete operazioni
di bilanciamento di principi indicati dalla corte stessa; diversamente, si correrebbe il rischio che il
continuo e significativo ampliamento dell’ambito di applicazione di questa deroga possa invertire
la regola con l’eccezione, modificando l’attuale sistema di rapporti tra ordinamenti e mettendo cosi
in serio pericolo la supremazia del diritto dell’unione sul diritto interno, che rappresenta uno dei
cardini fondamentali del processo di integrazione.
effetto diretto
l’effetto diretto risiede nell’idoneità della norma dell’unione a creare diritti e obblighi direttamente
e utilmente in capo ai singoli, persone fisiche o giuridiche, senza che lo stato debba necessariamente
porre in essere una qualche procedura formale per riversare sui singoli gli obblighi o i diritti
prefigurati da norme esterne al sistema giuridico nazionale. in termini pratici l’effetto diretto si
risolve nella possibilità per il singolo di far valere direttamente dinanzi al giudice nazionale la
posizione giuridica soggettiva vantata in forza della norma dell’unione.
dell’effetto diretto sono provviste tutte le disposizioni dell’unione che siano sufficientemente
chiare e precise e la cui applicazione non richieda l’emanazione di ulteriori atti dell’unione o
nazionali, di esecuzione o comunque integrativi; né è necessario, perché l’effetto si produca in
capo ai singoli, che la norma sia ad essi formalmente destinata – possono infatti essere provviste di
effetto diretto anche norme indirizzate agli stati membri, in quanto ad essi impongono un obbligo
di fare o di non fare, ma la cui osservanza si collega comunque ad un diritto del singolo.
dell’effetto diretto possono essere provviste:
• le norme dei trattati: la nozione di effetto diretto e la possibilità di rilevarne la presenza in
numerose norme dei trattati hanno ampio, continuo ed ormai incontestato riconoscimento nella
giurisprudenza della corte di giustizia e delle giurisdizioni nazionali. i requisiti richiesti sono
quelli di cui sopra: la norma deve essere chiara, precisa e suscettibile di applicazione
immediata, dunque non condizionata ad alcun provvedimento formale dell’autorità nazionale.
NB essendo stato attribuito alla carta dei diritti fondamentali lo stesso valore dei trattati, sarebbe
contraddittorio escludere che possa avere la loro stessa efficacia diretta.
• gli atti dell’unione: le caratteristiche di cui sopra possono essere presenti, oltre che nelle norme
dei trattati, anche negli atti dell’unione. in particolare:
o regolamenti: in principio regolano direttamente una fattispecie senza che occorra alcun
provvedimento ulteriore, salvo eccezioni espressamente prefigurate e facilmente
identificabili.
o decisioni: sono provviste di effetto diretto anche quando il comportamento è imposto ad uno
o più stati membri. infatti, quando l’obbligo imposto da una decisione ad uno stato membro
non risulti essere stato correttamente adempiuto, può determinare in capo ai singoli una
situazione giuridica soggettiva che può essere fatta valere direttamente dinanzi al giudice
nazionale – nella giurisprudenza della corte non è infatti mancato il rilievo che negare ai
singoli la possibilità di far valere i diritti che da quell’atto conseguono sarebbe incompatibile
con la forza obbligatoria conferita alla decisione dall’art. 288 TFUE.
o direttive: il problema è più complesso. se è vero che la direttiva si rivolge ad uno o più stati
membri imponendo loro un risultato da realizzare nelle forme che sceglieranno, è vero
anche che nella prassi non mancano direttive che contengono disposizioni con le
caratteristiche tipiche delle norme provviste di effetto diretto, cioè precise e non
condizionate per la loro applicazione ad alcun intervento delle autorità nazionali. bisogna
precisare, tuttavia, che tale ipotesi non va identificata in tutto e per tutto con quella delle
direttive c.d. dettagliate, che di fatto impongono uno specifico comportamento per realizzare
certi obiettivi; e questo perché al fine di considerare una norma dotata di efficacia diretta non
rileva il grado di dettaglio, bensì l’irrilevanza di ulteriori atti ai fini della sua applicazione.
in particolare, il problema si pone nei confronti delle ipotesi di mancata o non corretta o
intempestiva attuazione delle direttive nei termini e con i provvedimenti nazionali prescritti –
nell’ipotesi di attuazione corretta e puntuale, infatti, il problema degli eventuali effetti diretti
della direttiva non si pone, dal momento che i singoli ne saranno comunque investiti attraverso
i provvedimenti nazionali di attuazione.
è bene precisare anche che l’effetto diretto della direttiva più che essere costruito come una
qualità intrinseca dell’atto, come sarebbe normale e come si verifica per le disposizioni dei
trattati e per i regolamenti, risulta collegato ad un intento pedagogico, addirittura
sanzionatorio, qual è quello di ovviare, per quanto possibile, alle negligenze e ai ritardi degli
stati membri nell’adempimento puntuale e corretto degli obblighi loro imposti da una
direttiva. in tale prospettiva, infatti, l’effetto diretto è stato concepito ed in fatto è una vera e
propria sanzione per gli stati inadempienti, nella misura in cui attribuisce al giudice nazionale
il compito di realizzare comunque lo scopo della direttiva in funzione della tutela delle
posizioni giuridiche individuali in ipotesi lese dal comportamento dello stato.
vediamo ora quali sono le implicazioni dell’effetto diretto attribuito alla direttiva:
− effetto diretto verticale: impone le disposizioni provviste di effetti diretto di una direttiva
non tempestivamente o non correttamente trasposta possono essere fatte valere dal singolo
solo nei confronti dello stato e non anche di altri individui.
tale effetto diretto verticale è in via di principio solo unilaterale, nel senso che al singolo
che fa valere il proprio diritto lo stato non può opporre la mancata trasposizione della
direttiva di cui si è reso inadempiente; relativamente invece all’ipotesi di una direttiva che
comporti un obbligo per il singolo, lo stato non potrebbe farlo valere prima della
trasposizione, in quanto la direttiva non può imporre al singolo, in base all’art. 288 TFUE e
a differenza di una norma dei trattati, obblighi in capo ai singoli indipendentemente da una
legge interna che vi abbia dato corretta e tempestiva attuazione.
− *la giurisprudenza ha invece escluso l’effetto diretto orizzontale delle disposizioni di una
direttiva, cioè la possibilità per il singolo di far valere la norma anche nei confronti di
soggetti privati, siano essi persone fisiche o giuridiche. l’argomento utilizzato dalla
giurisprudenza della corte di giustizia per giustificare una simile scelta si fonda sulla
formulazione testuale dell’art. 288 TFUE, in base alla quale la direttiva vincola solo lo stato
o gli stati cui è rivolta. la corte ha infatti rilevato che estendere la giurisprudenza sull’effetto
diretto anche all’ambito dei rapporti tra singoli significherebbe riconoscere in capo alla
comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a
carico di questi ultimi, mentre tale competenza spetta solo laddove le sia attribuito il
potere di adottare regolamenti.
• le disposizioni di accordi stipulati dall’unione con paesi terzi e le decisioni degli organi cosi
istituiti: dal testo, dall’oggetto e dalla natura della disposizione si deve rilevare una situazione
giuridica soggettiva chiara e precisa, senza alcuna subordinazione all’adozione di un atto
ulteriore.
*interpretazione conforme
le questioni sollevate dal mancato riconoscimento dell’effetto diretto orizzontale delle direttive sono
state in parte superate dalla giurisprudenza della corte di giustizia sull’obbligo di interpretazione
conforme: impone a tutti gli organi nazionali, ma soprattutto ai giudici, di interpretare il proprio
diritto interno in modo per quanto possibile compatibile con le prescrizioni del diritto dell’unione.
di conseguenza, i giudici nazionali, sebbene non possano immediatamente applicare in una
controversia tra privati le disposizioni di una direttiva senza il preventivo filtro dell’ordinamento
statale, devono in ogni caso individuare, tra tutti i significati possibili della norma interna rilevante
per il caso di specie, quello che appaia maggiormente conforme all’oggetto e allo scopo della
direttiva disciplinante la materia. in tal modo, dunque, si realizza un effetto orizzontale indiretto
delle direttive, le cui norme vengono immediatamente applicate dal giudice nazionale ai rapporti
tra privati attraverso l’interpretazione conforme del diritto interno.
NB la giurisprudenza della corte appare orientata nel ritenere che l’obbligo di interpretazione
conforme vincoli i giudici nazionali solo dopo la scadenza del termine di recepimento previsto
dalla direttiva; ciononostante, pur in pendenza di detto termine, essi devono evitare di fornire
interpretazioni del proprio diritto interno tali da pregiudicare gravemente il risultato imposto
dalla direttiva e il suo effetto utile.
responsabilità risarcitoria degli stati membri per violazione del diritto dell’unione
in diverse sentenze della corte di giustizia risalenti nel tempo si ritrova chiara l’affermazione che
quando il pregiudizio al singolo derivi dalla violazione di una norma di diritto comunitario da
parte dello stato, questo dovrà risponderne, nei confronti del soggetto leso, in conformità alle
disposizioni di diritto interno relative alla responsabilità della pubblica amministrazione.
tale giurisprudenza è stata poi definitivamente consacrata nella celebre sentenza francovich, relativa
alle conseguenze della mancata attuazione di una direttiva da parte dell’italia. in particolare, il
giudice italiano chiedeva alla corte se, di fronte all’inadempimento dello stato, i singoli potessero
far valere direttamente i benefici della direttiva, nonché e comunque pretendere dallo stato
membro il risarcimento del danno subito. a tal proposito la corte ha enunciato che sarebbe messa
a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da
esse riconosciute, se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro
diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno stato membro. e
ancora: la possibilità di risarcimento a carico dello stato membro è indispensabile qualora, come
nella fattispecie, la piena efficacia delle norme comunitarie sia subordinata alla condizione di
un’azione da parte dello stato e, di conseguenza, i singoli, in mancanza di tale azione, non possano
far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritto loro riconosciuti dal diritto comunitario.
una volta affermata l’esistenza del principio di responsabilità dello stato da mancata attuazione di
una direttiva, la corte ha precisato le condizioni per darne attuazione concreta, quali:
a) il risultato prescritto dalla direttiva deve implicare l’attribuzione di diritti a favore dei singoli
b) il contenuto dei diritti deve poter essere individuato sulla base delle disposizioni della
direttiva
c) sussiste un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello stato e il danno subito
dai soggetti lesi.
successivamente, alla corte sono state sottoposte altre e diverse ipotesi di responsabilità dello stato
nei confronti dei singoli per violazione di norme dell’unione; questo le ha dato la possibilità di
approfondire il tema arricchendolo di ulteriori precisazioni: uno dei principali punti da
approfondire dopo francovich era se la responsabilità patrimoniale dello stato membri nei confronti
dei singoli potesse essere evocata e fatta valere soltanto in presenza di una violazione di norme
prive di effetto diretto, in quanto non invocabili da parte del singolo dinanzi al giudice, o anche
quando la violazione riguardasse norme aventi effetto diretto e dunque invocabili dinanzi al
giudice. a tale quesito la corte ha dato risposta positiva: quando la norma è provvista di effetto
diretto, infatti, la tutela a favore del singolo non solo c’è già, ma è direttamente azionabile dallo
stesso singolo, con la conseguenza che resta solo da accompagnare questa tutela sostanziale e
processuale con quel minus che è la tutela patrimoniale – dunque, è molto più corretta la costruzione
giuridica quando la norma è provvista di effetto diretto e quando il singolo può quindi far valere il
suo diritto dinanzi al giudice nazionale; ad ogni modo, è ormai consolidato nella giurisprudenza
della corte di giustizia che il risarcimento dei danni costituisce un rimedio generale, a prescindere
dall’efficacia diretta o meno della norma violata.
quanto alle condizioni del diritto al risarcimento, si è innanzitutto precisato che le condizioni della
responsabilità degli stati membri non devono essere diverse, a parità di situazioni, da quelle che
sono richieste per la responsabilità dell’unione. in particolare, le tre condizioni cumulative della
responsabilità patrimoniale dello stato (e dunque anche dell’unione) sono:
a) la norma violata deve conferire diritti ai singoli
b) la violazione deve essere grave e manifesta: su questo punto la corte ha dato delle indicazioni
circa gli elementi che il giudice nazionale, cui spetta l’apprezzamento nel caso di specie, può e
deve prendere in considerazione:
− grado di chiarezza e precisione della norma dell’unione
− carattere intenzionale o involontario della trasgressione
− scusabilità o no dell’eventuale errore di diritto.
c) deve esserci un nesso causale tra violazione e danno.
effettività ed equivalenza
le azioni risarcitorie devono essere proposte dinanzi ai giudici interni, applicando le regole
procedurali nazionali. infatti, in assenza di armonizzazione da parte dell’unione delle norme
procedurali nazionali, la competenza in questo ambito spetta agli stati membri – si parla al riguardo
di autonomia procedurale degli stati membri proprio per sottolineare che è l’ordinamento giuridico
interno di ciascuno stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità
procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritto spettanti ai singoli in forza
delle norme dell’unione.
tale autonomia degli stati, tuttavia, non è assoluta, ma deve esercitarsi entro i confini fissati dal
diritto dell’unione cosi come interpretati dalla giurisprudenza della corte di giustizia. in
particolare, vengono in rilievo due principi:
• principio di equivalenza: le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti
spettanti ai singoli in forza del diritto dell’unione non devono essere meno favorevoli di quelle
che riguardano ricorsi analoghi di natura interna = la norma nazionale controversa deve essere
applicata indifferentemente ai ricorsi fondati sui diritti che i singoli traggono dal diritto
dell’unione e a quelli fondati sull’inosservanza del diritto interno aventi un oggetto e una causa
analoghi.
• principio di effettività: le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti
spettanti ai singoli in forza del diritto dell’unione non devono rendere praticamente impossibile
o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’unione =
la valutazione dell’eventuale eccessiva difficoltà di esercizio dei propri diritti deve essere
effettuata prendendo in considerazione i principi alla base del sistema giurisdizionale nazionale
in causa: tutela dei diritti della difesa, principio della certezza del diritto e regolare svolgimento
del procedimento.
tali principi trovano fondamento nel principio di leale cooperazione enunciato dall’art. 4 TUE che
impone agli stati membri di dare corretta attuazione al diritto dell’unione NB dalla giurisprudenza
della corte emerge che questi principi valgono sia sul piano della designazione dei giudici
competenti a conoscere delle azioni fondate su tale diritto, sia per quanto riguarda la definizione
delle modalità procedurali che reggono tali azioni.
DIRITTO DELL’UNIONE E ORDINAMENTO ITALIANO
la corte di giustizia è pervenuta molto presto all’affermazione della prevalenza delle norme
dell’unione sulle norme nazionali, come riconoscimento complementare a quella relativo
all’effetto diretto; non altrettanto si può dire di alcune giurisdizioni nazionali, che a quel risultato
sono per lo più arrivate con grande travaglio e percorrendo strade anche diverse da quella segnata
dalla corte. è il caso, in particolare, della corte costituzionale italiana.
vediamo quali sono stati i momenti più significativi di una dialettica alquanto vivace sfociata in un
risultato che, almeno sul piano pratico, lascia aperti pochi e irrilevanti problemi:
1. tale dialettica risale ai primi anni ’60, quando la legge italiana di nazionalizzazione dell’energia
elettrica fu contestata dinanzi al giudice conciliatore di milano sotto il duplice profilo
dell’incompatibilità con la costituzione e con il diritto comunitario. di qui il rinvio pregiudiziale
al giudice costituzionale prima e alla corte di giustizia poi:
− la corte costituzionale, sul rilievo che il rapporto era tra una legge ordinaria e una legge, quella
di adattamento al trattato, avente lo stesso rango, affermò che andava applicato il principio
vigente in materia di successione delle leggi nel tempo e che pertanto la sintonia della legge
di nazionalizzazione con il trattato non andava neppure verificata, dovendosi essa comunque
applicare in quanto successiva.
− investita a sua volta del problema, la corte di giustizia nella sentenza in questione (costa) ha
enunciato una posizione antitetica: ribadendo che il trattato ha istituito un ordinamento
giuridico proprio e integrato con quelli nazionali, il giudice dell’unione ne ha dedotto che gli
stato membri non potrebbero opporre al trattato leggi interne successive, senza con questo
far venire meno la necessaria uniformità ed efficacia del diritto comunitario in tutta
l’unione, nonché il senso della portata e degli effetti attribuiti dall’art. 288 TFUE al
regolamento. se ne è tratta dunque la conseguenza che una normativa nazionale incompatibile
con il diritto dell’unione è del tutto priva di efficacia, anche se successiva = il diritto
comunitario prevale in virtù di una forza propria.
il contrasto tra corte costituzionale e corte di giustizia, dunque, era in origine netto.
2. in seguito, la corte costituzionale italiana si è progressivamente avvicinata al risultato affermato
e costantemente sostenuto dalla corte di giustizia: l’effetto diretto e il primato come elementi
intrinseci alle norme dell’unione in quanto necessari a soddisfare l’esigenza fondamentale di
uniformità di applicazione e di efficacia all’interno dell’unione.
infatti, se nella sentenza di cui sopra la corte costituzionale aveva perentoriamente affermato la
prevalenza della legge nazionale in quanto successiva, dopo una decina d’anni, con altre due
sentenze (frontini e industrie chimiche), pervenne ad un parziale adattamento alle ragioni del
diritto dell’unione: nella sentenza frontini la corte, sviluppando un’affermazione sulla
separazione tra i due ordinamenti, riconosceva che ordinamento nazionale e ordinamento
dell’unione sono autonomi e distinti, pur se coordinati a mezzo di una precisa articolazione di
competenze; di conseguenza: dove c’è competenza dell’unione in base ai trattati, lo stato deve
astenersi dal pregiudicare l’immediata applicazione dei regolamenti.
nella sentenza industrie chimiche il giudice costituzionale affrontò specificamente il problema del
conflitto tra un regolamento e una legge interna ad esso successivo: considerandolo come un
problema di articolazione ed esercizio delle competenze e dunque di pertinenza del legislatore
rispetto a materie occupate anche da norme dell’unione, la corte costituzionale ne trasse la
conseguenza che il conflitto non potesse essere altrimenti risolto se non attraverso un giudizio
di legittimità costituzionale. dunque, il giudice nazionale, di fronte ad un conflitto tra norma
dell’unione e norma nazionale successiva, doveva sottoporlo all’apprezzamento di legittimità
della corte costituzionale e non avrebbe dunque potuto disapplicare direttamente la norma
interna successiva sul presupposto della prevalenza del diritto dell’unione.
tale soluzione affermata, tuttavia, non ebbe molti consensi. le critiche riguardavano soprattutto
l’insoddisfacente tutela dei singoli, nonchè l’appesantimento di tempi e procedure; veniva inoltre
indicata la maggiore praticità della strada della disapplicazione della norma nazionale
incompatibile già da parte del giudice ordinario.
3. la reazione decisiva venne dalla corte di giustizia nella sentenza simmenthal: affermò infatti che
l’effetto diretto e il primato delle norme comunitarie impongono che sia data loro applicazione
immediata; che le norme interne successive incompatibili non si formano validamente; che
l’efficacia del sistema di controllo giurisdizionale sul rispetto del diritto dell’unione verrebbe
ridotta se il giudice nazionale non avesse il diritto di fare immediata applicazione delle norme
dell’unione e che per questo è incompatibile una norma o una prassi nazionale che non consenta
al giudice di disapplicare subito la norma contrastante con il diritto dell’unione e lo costringesse
ad attenderne la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento
costituzionale – cosi come invece preteso nella sentenza industrie chimiche della corte
costituzionale italiana.
4. la nostra corte costituzionale è stata dunque chiamata a rimeditare sulla posizione espressa nella
sua giurisprudenza precedente; lo ha fatto nella sentenza granital del 1984: il punto di partenza è
stato ancora una volta che i due ordinamenti sono distinti e tra loro autonomi anche se coordinati,
in quanto in forza dell’art. 11 cost. sono state trasferite alle istituzioni dell’unione le competenze
relative a determinate materie. in particolare, l’autonomia tra i due ordinamenti e l’attribuzione
a livello costituzionale di determinate competenze normative all’unione, comporta che l’atto
normativo posto in essere nell’esercizio di quelle competenze impedisce alla normativa
interna eventualmente contrastante di venire in rilievo ai fini della disciplina del rapporto =
il contrasto tra le due norme fa si che la norma interna non sia suscettibile di annullamento, ma
semplicemente inapplicabile al rapporto controverso → di conseguenza, a seguito della sentenza
granital, si previde che la norma dell’unione provvista di effetto diretto andasse applicata
direttamente dal giudice comune in luogo della norma nazionale confliggente, in quanto è la
norma dell’unione che disciplina la fattispecie.
NB la corte costituzionale ha lasciato tuttavia che non si sottraessero alla sua verifica le ipotesi
di contrasto tra l’ordinamento dell’unione e il nucleo indefettibile della costituzione italiana
e dei diritti inalienabili della persona umana (c.d. teoria dei controlimiti).
5. una questione da molti posta è se lo scenario risultante dalla giurisprudenza costituzionale e
dell’unione sia in qualche modo mutato a seguito delle novità introdotte dal trattato di lisbona
nei trattati comunitari. in realtà, non vi sono stati cambiamenti sul piano dei rapporti tra diritto
dell’unione e diritti nazionali.
− è stato formalmente attribuito alla carta di nizza lo stesso rango dei trattati, anche se, in fatto,
essa aveva comunque un valore sostanziale alla luce di una ricchissima giurisprudenza del
giudice dell’unione in materia di diritti fondamentali, in grandissima parte trasposta nella
carta stessa.
− è stata prevista la possibilità, e sostanzialmente l’impegno formalizzato nell’art. 6 TUE, di
realizzare l’obiettivo dell’adesione dell’unione alla CEDU.
6. la sentenza granital ha rappresentato una svolta nella riflessione sul rapporto tra norme interne e
norme dell’unione nella misura in cui ha inteso sintonizzare tra loro le prospettive del giudice
dell’unione e di quello nazionale. qualche divergenza di fondo è rimasta, ma la prevalenza del
diritto dell’unione è stata affermata in modo chiaro, invocando proprio quelle esigenza che più
volte la corte di giustizia aveva sottolineato: esigenza di uniforme applicazione del diritto
dell’unione in tutti i paesi membri fin dal momento della sua entrata in vigore.
al contempo, la corte costituzionale ha fissato alcune restrizioni all’ingresso nell’ordinamento
interno delle disposizioni dell’unione; in questo modo ha infatti inteso salvaguardare il nucleo
irrinunciabile di valori fondamentali nelle ipotesi di eventuali conflitti con una determinata
disposizione dell’unione, quale che sia la fonte e/o il rango con cui quest’ultima entri a far parte
del nostro ordinamento.
in particolare, sulla scorta di precedenti pronunce, nella sentenza granital la corte costituzionale
ha individuato due ipotesi di conflitto in cui l’applicazione del diritto dell’unione risulta, in via
del tutto eccezionale, recessiva:
o eventuale conflitto della norma dell’unione con i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale e con i diritti inalienabili della persona umana
o presenza di norme costituzionali che, in quanto apprestano una tutela più intensa di quella
offerta da una norma della CEDU o dell’unione, sono applicabili a preferenza di quelle.
in ogni caso, sebbene la teoria dei controlimiti rappresenti un limite all’applicazione
generalizzata del primato del diritto dell’unione, occorre pure considerare lo scarso impatto
pratico di tale teoria; è solo negli ultimi anni che vi è stata una riespansione del controllo della
corte costituzionale sul rispetto dei controlimiti:
− già con un’ordinanza del 2017 era stata offerta una rivisitazione della giurisprudenza
granital, con l’obiettivo di rimarcare con maggiore forza le specificità degli ordinamenti
nazionali. in particolare, la corte costituzionale affermava che i rapporti tra unione e stati
membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco
rispetto e assistenza; di conseguenza, le parti sono unite nella diversità. infatti, non vi sarebbe
rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo dei valori su cui si regge
lo stato membro; cosi come non vi sarebbe se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo
giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui
parla il preambolo della carta di nizza.
− tale nuovo approccio trova la massima espressione in una pronuncia del 2018 con cui la corte
costituzionale elimina lo spazio di autonomia decisionale che era stato lasciato ai giudici
nazionali in una pronuncia precedente, in ordine alla possibilità di procedere alla
disapplicazione immediata della norma interna. in questo modo la corte costituzionale
statuisce che ad essa spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’unione è
in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti
inalienabili della persona. a tale scopo il ruolo essenziale che riveste il giudice comune
consiste nel porre il dubbio sulla legittimità costituzionale della normativa nazionale che dà
ingresso alla norma europea generatrice del preteso contrasto.
è del tutto evidente, quindi, che ci si trova dinanzi ad una nuova fase di assestamento dei rapporti
tra ordinamento dell’unione e ordinamento italiano, quantomeno in ordine alle ipotesi di
antinomia tra disposizioni dell’unione e principi fondamentali dell’ordinamento interno. al
tempo stesso, resta confermato che l’effetto recessivo dell’ordinamento dell’unione può
realizzarsi solo in presenza di un contrasto con i valori fondamentali dell’ordinamento nazionale,
non essendo per questo sufficiente il mero rango costituzionale della norma di diritto interno.
ad ogni modo, rimane una divergenza di vedute tra le due corti: secondo la corte di giustizia,
infatti, il fatto che uno stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale quand’anche di
rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’unione nel territorio di tale
stato; pertanto, la corte di giustizia non ha mai riconosciuto la teoria dei controlimiti anche se in
taluni casi ha valorizzato le peculiarità degli ordinamenti nazionali.
CITTADINANZA DELL’UNIONE
in vista di un’unione sempre più stretta tra i popoli europei, assume una rilevanza centrale
l’istituzione, a partire dal trattato di maastricht, della cittadinanza europea, che attribuisce ai
cittadini degli stati membri uno status privilegiato e differenziato rispetto a quello dei cittadini di
stati terzi.
va precisato che la cittadinanza europea è riservata alle persone fisiche che siano cittadini di uno
stato membro e non si estende alle persone giuridiche, pur essendo queste ultime destinatarie di
diverse norme del TUE e del TFUE. tuttavia, non si può ritenere che i diritti riconosciuti dai trattati
siano necessariamente riservati ai cittadini dell’unione, in quanto gli stati membri possono
legittimamente estendere tali diritti agli stranieri - in coerenza con questa facoltà, la corte ha
precisato che il diritto dell’unione non si oppone a che tali stati concedano autonomamente il
diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del parlamento europeo a determinate persone
che possiedano stretti legami con essi, pur non essendo loro cittadini o cittadini dell’unione residenti
sul loro territorio.
acquisto e perdita della cittadinanza dell’unione
non esiste né potrebbe ipotizzarsi una nozione europea di cittadinanza, tanto che le norme
dell’unione che ne prescrivono il possesso come presupposto soggettivo per la loro applicazione, in
realtà rinviano alla legge nazionale dello stato la cui cittadinanza viene posta a fondamento del
diritto invocato. tale rinvio al diritto nazionale lo ritroviamo espressamente anche nel TFUE, dove
si definisce cittadino dell’unione chiunque abbia la cittadinanza di uno stato membro (art. 20).
conseguenza di questo è che l’acquisto o la perdita della cittadinanza di uno stato membro comporta
automaticamente l’attribuzione o il venire meno della cittadinanza europea; altra conseguenza è che
l’unione non ha la competenza per definire i criteri di acquisto o perdita della cittadinanza europea
né per adottare norme di armonizzazione delle normative nazionali NB ciò non significa che la
competenza degli stati membri in materia di cittadinanza sia assoluta, in quanto essa deve
esercitarsi pur sempre entro taluni limiti definiti dal diritto dell’unione cosi come interpretato dalla
corte di giustizia.
diritti e doveri del cittadino dell’unione
dallo status di cittadino europeo derivano diritti e doveri: i primi sono espressamente elencati
dall’art. 20 TFUE, mentre i secondi sono enunciati senza essere indicati. inoltre, i successivi artt. 21-
24 TFUE specificano ulteriormente i diritti di cui sopra, ripresi anche dagli articoli contenuti nel
titolo V della carta dei diritti fondamentali dell’unione europea.
• diritto di libera circolazione, art. 21 TFUE: le modalità di esercizio da parte del cittadino europeo
e dei suoi familiari sono disciplinate da una direttiva del 2004 che ha riconosciuto a tutti i
cittadini dell’unione, sebbene con talune limitazioni, un diritto di soggiorno generalizzato e,
dunque, un diritto di circolare.
nota importante è che l’art. 21 TFUE, unitamente alla giurisprudenza della corte e alla direttiva
del 2004, ha sancito il definitivo superamento della concezione mercantilistica del diritto di
circolazione: non più libertà di circolazione in funzione dello svolgimento di un’attività
economica, ma libertà di circolazione e di soggiorno in quanto cittadini dell’unione. in tal senso
è stato significativamente affermato che la creazione di una cittadinanza dell’unione con il
corollario in materia di libera circolazione dei suoi titolari nel territorio di tutti gli stati membri,
indica un considerevole progresso qualitativo in quanto separa tale libertà dai suoi elementi
funzionali o strumentali e la eleva a categoria di diritto proprio e indipendente, inerente allo
status politico di cittadini dell’unione.
la corte ha tuttavia evidenziato che il diritto di circolazione e di soggiorno che l’art. 21 TFUE
conferisce al cittadino dell’unione con disposizione dotata di effetto diretto, non è un diritto
assoluto, essendo attribuito subordinatamente ai limiti e alle condizioni previste dai trattati e
dalle relative disposizioni di attuazione. tali limiti e condizioni devono però rispondere al
principio di proporzionalità: eventuali limitazioni imposte dalla normativa nazionale a tutela
dei legittimi interessi degli stati non possono andare al di là di quanto è appropriato e necessario
per l’attuazione dello scopo perseguito NB uno stato membro può adottare provvedimenti
restrittivi della libertà di circolazione e di soggiorno per motivi di ordine pubblico, pubblica
sicurezza o sanità pubblica, sempre a condizione che sia rispettato il suddetto principio di
proporzionalità.
lo status di cittadino europeo attribuisce la titolarità di altri diritti, quali:
• diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del parlamento europeo e alle elezioni comunali nello
stato membro in cui si risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto stato (art. 22 TFUE)
• diritto di godere, nel territorio di un paese terzo ove il proprio stato membro non abbia una
rappresentanza diplomatica, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi altro
stato membro, alle condizioni dei cittadini di quest’ultimo (art. 23 TFUE)
• diritto di presentare petizioni al parlamento europeo, di ricorrere al mediatore europeo e di
rivolgersi alle istituzioni, organi e organismi dell’unione in una delle lingue dei trattati e ricevere
risposta nella stessa lingua (art. 24 TFUE).
questi ultimi diritti, cumulativamente richiamati nell’elenco dell’art. 20 TFUE, non possono essere
messi sullo stesso piano, in quanto alcuni di essi non sono collegati in via esclusiva alla cittadinanza
europea, ma possono essere invocati da chiunque sia residente in uno stato membro. in particolare,
i diritti che i cittadini europei condividono con i residenti sono: diritto di petizione al parlamento
europeo, diritto di adire il mediatore europeo e diritto di rivolgersi alle istituzioni e agli organi
dell’unione in una delle lingue dei trattati e ricevere risposta nella stessa lingua.
come accade per il diritto di libera circolazione, anche per questi diritti è previsto che gli stati
membri possano legittimamente stabilire delle limitazioni all’esercizio di questi. in particolare, le
modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali sono disciplinate da
una direttiva del 1994 che attribuisce agli stati membri la facoltà di riservare ai propri cittadini la
carica di capo di un ente locale (es. sindaco), considerato che questa funzione può comportare una
partecipazione all’esercizio dei pubblici poteri e alla tutela di interessi generali.
l’elenco contenuto nell’art. 20 TFUE non è tassativo, in quanto può essere ampliato dal consiglio
deliberando all’unanimità secondo la procedura legislativa speciale. vi sono infatti dei diritti del
cittadino europeo che non sono contenuti nel suddetto elenco e che trovano il loro fondamento
nell’ordinamento dell’unione:
• principio di uguaglianza, art. 9 TUE: i cittadini europei devono beneficiare di uguale attenzione
da parte delle sue istituzioni, organi e organismi
• diritti politici:
o strumenti di democrazia rappresentativa, art. 10 TUE: i cittadini europei sono direttamente
rappresentati nel parlamento europeo e indirettamente nel consiglio europeo e nel
consiglio, che sono democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o ai
loro cittadini
o strumenti di democrazia partecipativa, art. 11 TUE: viene qui in rilievo il coinvolgimento dei
cittadini europei nell’elaborazione della proposta di adozione degli atti (novità assoluta
nell’ambito del processo di integrazione europea). tuttavia, questo strumento non è stato
ancora utilizzato con successo sia per le stringenti condizioni previste per la presentazione
dell’iniziativa (un milione di firme), sia perché i cittadini dell’unione non possono
direttamente proporre l’adozione di un atto giuridico dell’unione, essendo legittimati soltanto
a richiedere alla commissione di presentare una proposta – la commissione nel corso degli
anni ha rigettato diverse iniziative in base ad un’interpretazione del regolamento
eccessivamente restrittiva, che ha dunque vanificato lo sforzo partecipativo di molti cittadini
dell’unione.
• diritto alla buona amministrazione, art. 41 della carta dei diritti fondamentali
• diritto di accesso ai documenti, art. 42 della carta dei diritti fondamentali.
cittadini europei e cittadini di stati terzi
lo status di cittadini di stati terzi non è paragonabile a quello dei cittadini europei, in quanto i primi
non beneficiano degli stessi diritti dei secondi. in particolare, i maggiori vantaggi attribuiti ai
cittadini europei derivano proprio dalla cittadinanza europea, che ha delle implicazioni escludenti
per i soggetti che non sono cittadini di uno stato membro e che dunque non sono destinatari
dell’obiettivo fondamentale dell’unione sempre più stretta dei popoli europei. peraltro, in una
posizione intermedia tra i cittadini dell’unione e i cittadini extracomunitari si collocano i cittadini
di paesi terzi con cui l’unione abbia stipulato accordi di associazione.
in particolare, il pieno esercizio del diritto di circolazione, inteso come diritto di attraversare le
frontiere interne dell’unione senza controlli, si intreccia con la situazione giuridica dei cittadini di
stati terzi. infatti, una delle difficoltà che ancora permane alla libera circolazione delle persone è
attualmente dovuta ai controlli di polizia effettuati alla frontiera; è fin troppo evidente che la
soppressione di tali controlli esige l’adozione di misure idonee ad impedire effetti negativi per
l’ordine pubblico e la sicurezza degli stati membri e, in particolare, che i controlli siano spostati alle
frontiere esterne dell’unione.
analizziamo ora le disposizioni dedicate ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione che
rientrano nelle competenze concorrenti dell’unione. a tal proposito, l’art. 80 TFUE si preoccupa di
precisare che queste politiche sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione
della responsabilità tra gli stati membri, anche sul piano finanziario. in particolare:
• asilo: la politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea
deve essere finalizzata ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo
che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non
respingimento. ciononostante, le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, i tassi di
accoglimento delle domande di protezione e i contenuti dei provvedimenti di espulsione
cambiano notevolmente da un paese all’altro. in questo quadro variegato e non armonizzato, il
pilastro fondamentale dell’attuale sistema comune europeo di asilo è costituito dal regolamento
dublino III, che contiene un complesso di regole per determinare lo stato competente ad
esaminare le domande di protezione internazionale presentate da un cittadino di uno paese terzo
o da un apolide.
purtroppo, a causa di una serie di dibattiti che si sono aperti con riferimento ad una serie di
disposizioni contenute nel regolamento di cui sopra, si è instaurato un clima di tensione e di
sfiducia reciproca tra gli stati membri cui è conseguita la necessità di un riforma strutturale del
sistema comune di asilo. le difficoltà a modificare il regolamento dublino III, a causa
principalmente delle differenti posizioni manifestate dagli stati membri, ha condotto alcuni di
essi a trovare un accordo a malta (c.d. dichiarazione congiunta di intenti) che si auspica possa
essere esteso al maggior numero di paesi dell’unione; l’obiettivo di questo accordo è quello di
trovare delle soluzioni condivise per ottenere un maggior grado di collaborazione e solidarietà
a livello europeo.
• immigrazione: la politica comune concernente l’immigrazione deve assicurare la gestione efficace
dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti negli
stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta
degli esseri umani.
volendo tentare un rapido bilancio del percorso compiuto dall’unione fino al momento attuale, si
può ritenere che l’obiettivo di garantire al cittadino dell’unione in quanto tale la libertà di
circolare all’interno del territorio dell’unione senza alcun tipo di controllo, rappresenta un
traguardo ancora da raggiungere in modo completo; l’esigenza di una politica comune
dell’immigrazione fondata sulla solidarietà e sull’esigenza di equa ripartizione delle
responsabilità emerge con sempre maggiore evidenza.
tuttavia, una nota di particolare importanza è che l’unione si fonda sul rispetto della dignità umana,
della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti
umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; si tratta di valori comuni agli
stati membri e propri di una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione,
dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne. da tali principi
dell’ordinamento dell’unione si ricava che la tutela dei diritti umani nell’unione europea non
dipende dal possesso della cittadinanza europea, ma va riconosciuta anche ai cittadini di paesi
terzi; sotto questo profilo si è avviato, non senza difficoltà, il passaggio ad una nuova fase
caratterizzata anche dalla tutela della persona in quanto tale – è in tale prospettiva che si collocano
anche le previsioni del trattato di lisbona che attribuiscono efficacia vincolante alla carta dei diritti
fondamentali.
SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE
la specificità del sistema dell’unione rispetto ad altre esperienze di cooperazione organizzata tra
stati e, dunque, di convivenza tra diversi ordinamenti giuridici, non risiede tanto nel modo di essere
del rapporto tra norme e ordinamenti di natura e origini diverse, quanto nel meccanismo di tutela
giurisdizionale che è stato realizzato per gestire quel rapporto.
si tratta infatti di un meccanismo di tutela che non ha precedenti in altre esperienze, sia sotto il
profilo funzionale e dell’articolazione del sistema complessivamente considerato, sia sotto il
profilo degli effetti che il suo funzionamento produce sulla posizione giuridica soggettiva dei
destinatari del sistema stesso: istituzioni dell’unione, stati membri e soprattutto singoli, siano essi
persone fisiche o giuridiche. è per questo che il sistema di controllo giurisdizionale è stato l’elemento
fondamentale della “comunità di diritto”; l’espressione vuole infatti sottolineare che al controllo
giurisdizionale sul funzionamento del sistema nel suo insieme, cosi come prefigurato nei trattati e
articolato sulle funzioni della corte di giustizia dell’unione europea e dei giudici nazionali, non
devono e non possono sottrarsi né le istituzioni, né gli stati membri, né i singoli.
il sistema di tutela giurisdizionale risulta dunque essere il vero e generale strumento per garantire
il sistema giuridico nel suo complesso e per realizzare la ricordata comunità di diritto. ed è in
proposito significativo che il trattato di lisbona abbia introdotto espressamente il principio della
tutela giurisdizionale effettiva, ribadendo l’obbligo degli stati membri di stabilire i rimedi
necessari per assicurarne l’osservanza (art. 19 TUE); per il resto il trattato di lisbona ha mantenuto
inalterato il previgente sistema giurisdizionale. rimane fuori dalla competenza dell’unione l’esame
della validità e della proporzionalità di leggi penali e di operazioni di polizia concernenti il
mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna di uno stato
membro, nonché la politica estera e di sicurezza comune ad eccezione del controllo sulla legittimità
delle decisioni del consiglio che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche e
giuridiche e sulla delimitazione tra le competenze dell’unione e quelle degli stati in materia di PESC.
il sistema giurisdizionale si articola su due piani procedurali distinti, ma funzionalmente collegati:
• *controllo diretto: attivato dalle istituzioni, dagli stati membri o dai singoli; si esaurisce con la
pronuncia del giudice dell’unione.
• controllo indiretto: si tratta di una procedura pregiudiziale fondata sulla cooperazione tra giudice
nazionale e giudice dell’unione; si parla di controllo indiretto in quanto la decisione della causa
spetta al giudice nazionale.
con riferimento alla ripartizione di competenze giurisdizionali, l’art. 256 TFUE prevede la possibilità
che tutte le azioni siano trattate in primo grado dal tribunale, fatta eccezione per i rinvii attribuiti
ad un tribunale specializzato e di quelli che lo statuto riserva alla corte di giustizia; ai sensi dell’art.
51 dello statuto della corte di giustizia, in deroga a quanto previsto dall’art. 256 TFUE, sono poi
riservati alla corte di giustizia i ricorsi di annullamento e in carenza proposti da uno stato
membro contro un atto o un’astensione da pronunciarsi del parlamento europeo, del consiglio, di
queste due istituzioni che statuiscono congiuntamente o della commissione. sono di competenza
della corte anche i ricorsi proposti da un’istituzione contro un atto o un’astensione dal
pronunciarsi del parlamento europeo, del consiglio, di queste due istituzioni che statuiscono
congiuntamente, della commissione o della banca centrale europea.
*CONTROLLO DIRETTO DI LEGITTIMITA’ DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
AZIONE DI ANNULLAMENTO
l’azione di annullamento è regolata dall’art. 263 TFUE e consiste nell’impugnazione mediante
ricorso di un atto adottato dalle istituzioni dell’unione che si pretende viziato e pregiudizievole;
l’articolo in questione conferisce alla corte di giustizia la competenza esclusiva al controllo di
legittimità sugli atti dell’unione.
• atti impugnabili:
− atti legislativi
− atti del parlamento europeo e del consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei
confronti di terzi
− atti degli organi o degli organismi dell’unione destinati a produrre effetti giuridici nei
confronti di terzi
− atti del consiglio, della commissione e della banca centrale europea che non siano
raccomandazioni o pareri: l’espressa esclusione dal controllo di legittimità delle
raccomandazioni e dei pareri sta a significare che sono impugnabili unicamente gli atti
vincolanti; dunque, in via di principio, solo i regolamenti, le direttive e le decisioni NB la
giurisprudenza della corte di giustizia, ispirata al criterio di privilegiare la sostanza rispetto
alla forma, ha progressivamente precisato e ampliato la categoria degli atti impugnabili
fondandosi proprio sull’esigenza di una protezione giurisdizionale completa ed effettiva che
un sistema di controllo giurisdizionale deve poter soddisfare. in particolare, la corte ritiene
impugnabili tutti gli atti e i provvedimenti posti in essere dalle istituzioni dell’unione che
producano o siano diretti a produrre effetti vincolanti per i destinatari.
impugnabili, in generale, sono gli atti definitivi: non sono dunque impugnabili gli atti preparatori
in senso proprio in quanto e nella misura in cui, presi isolatamente, non modificano la posizione
giuridica del destinatario; lo stesso dicasi per gli atti meramente confermativi, che non
contengono nuovi elementi rispetto ad atti precedenti e quindi non li sostituiscono.
• legittimati ad impugnare:
− stati membri: anche rispetto ad atti destinati ad altri stati membri o a individui NB la
legittimazione è attribuita unicamente allo stato e non anche alle sue eventuali articolazioni
decentrate, quali le regioni o i comuni: le une e gli altri possono impugnare un atto dell’unione
solo in quanto persone giuridiche e dinanzi al tribunale – la corte ha precisato che una diversa
soluzione potrebbe minacciare l’equilibrio istituzionale.
− consiglio, commissione e parlamento.
tanto gli stati membri quanto le istituzioni sono qualificabili come ricorrenti privilegiati: possono
adire la corte di giustizia indipendentemente da una lamentata lesione di un loro specifico
interesse; a differenza, infatti, di quanto vale per i singoli, l’interesse ad agire viene rinvenuto
nell’esigenza di assicurare l’effettività dell’ordinamento giuridico dell’unione.
− corte dei conti, banca centrale europea e comitato delle regioni: sono legittimati ad adire la
corte di giustizia solo per salvaguardare le proprie prerogative e per questo possono essere
considerati ricorrenti semi-privilegiati.
− singoli, persone fisiche o giuridiche (ricorrenti non privilegiati): in primo grado dinanzi al
tribunale e in secondo grado, per motivi di diritto, dinanzi alla corte.
la nozione di persona giuridica, che è nozione comunitaria, è molto ampia e prescinde dalla
natura pubblica o privata dell’entità in questione, cosi come dalla nazionalità del ricorrente; la
stessa nozione, inoltre, è stata interpretata al di là delle qualificazioni proprie a ciascun diritto
nazionale fino a dare rilievo, ai fini dell’impugnazione, all’autonomia necessaria per agire
come entità responsabile nei rapporti giuridici, ritenendo invece irrilevante la mancanza di
personalità giuridica dell’organismo in questione.
• requisiti per l’impugnazione: il ricorrente deve dimostrare anzitutto l’interesse ad agire in
relazione all’oggetto del ricorso; tale interesse deve sussistere al momento della presentazione
del ricorso, pena la sua irricevibilità e, insieme all’oggetto, devono perdurare fino alla statuizione
della corte.
NB il singolo non è legittimato ad impugnare tutti gli atti. infatti, può impugnare solo quelli a
lui specificamente indirizzati, i regolamenti (e le direttive) e quelli di cui non sia il formale
destinatario a condizione che tali atti lo riguardino direttamente e individualmente. in
particolare:
− il ricorrente deve essere direttamente riguardato dall’atto: dalla giurisprudenza in materia si
evince che ciò si verifica quando non è richiesta alcuna misura di esecuzione per
l’applicazione dell’atto di cui si tratta, né nazionale né dell’unione; analogamente, il
ricorrente è direttamente colpito da un atto dell’unione nell’ipotesi in cui questo necessiti di
attuazione da parte dello stato destinatario, a patto che sia prevedibile, con ragionevole
certezza, che il provvedimento interno non possa che incidere sulla sua posizione.
− individualità: è stato ribadito a più riprese che chi non sia destinatario di una decisione può
sostenere che questa lo riguarda individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi
a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo
dalla generalità e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari; a ciò si aggiunge,
ovviamente, il caso in cui il ricorrente risulti espressamente nominato nell’atto.
• termini per l’impugnazione:
− due mesi a decorrere dalla pubblicazione dell’atto; il termine decorre dalla data in cui la
gazzetta ufficiale è stata effettivamente diffusa, quando non coincide con la data esposta
− due mesi dalla sua notificazione al ricorrente
− dal giorno in cui il ricorrente abbia avuto effettiva conoscenza dell’atto (criterio residuale e
subordinato).
a tali termini va aggiunto il termine c.d. di distanza di dieci giorni previsto dall’art. 51 del
regolamento di procedura della corte.
• vizi: sono quelli tradizionali del contenzioso amministrativo.
o incompetenza: è relativa quando riguarda l’istituzione che ha adottato l’atto; è assoluta
quando riguarda l’unione in quanto tale.
o violazione delle forme sostanziali:
− difetto di motivazione
− mancata consultazione di un’altra istituzione o di un organo dell’unione quando
espressamente prevista
− errata individuazione della base giuridica quando abbia conseguenze sulle condizioni di
adozione dell’atto (es. deliberazione effettuata a maggioranza, quando era richiesta
l’unanimità).
o violazione di legge, dove per legge si intende:
− norme dei trattati
− diritto derivato dell’unione
− principi generali consolidatisi nella giurisprudenza della corte: proporzionalità, non
discriminazione, legittimo affidamento, rispetto dei diritti della difesa
− norme che vincolano l’unione: norme internazionali convenzionali e consuetudinarie
− carta dei diritti fondamentali.
o sviamento di potere: si verifica quando l’amministrazione, nell’ambito della discrezionalità di
cui gode, esercita un determinato potere allo scopo esclusivo o almeno determinante di
raggiungere fini diversi da quelli per i quali il potere le è stato conferito – stesso discorso vale
con riferimento allo sviamento di procedura, cioè il caso in cui una determinata procedura
venga utilizzata a fini diversi da quelli per i quali è stata istituita.
• la proposizione del ricorso al giudice dell’unione non ha effetto sospensivo; l’art. 278 TFUE
prevede comunque la possibilità di chiedere alla corte, in via cautelare, la sospensione dell’atto
impugnato. la corte può altresi ordinare le misure provvisorie, diverse dalla sospensione, che
ritiene necessarie (art. 279 TFUE) – la domanda presuppone che il ricorso sia già introdotto o sia
introdotto contestualmente.
quanto alle condizioni che giustificano un provvedimento cautelare, esse non si discostano molto
da quelle richieste in ogni latitudine, nel rispetto dell’idea che vuole tale provvedimento
finalizzato ad evitare che l’effetto utile della sentenza definitiva sia vanificato dal tempo
occorrente per renderla; anche nel processo dell’unione, pertanto, troviamo ben radicati
l’accessorietà e la strumentalità della misura rispetto al giudizio principale nonché, rispetto
alla sentenza, la presenza di fumus boni iuris (apparenza del diritto) e periculum in mora.
• esito del giudizio: in caso di accoglimento del ricorso si avrà l’annullamento dell’atto impugnato
(dichiarazione che l’atto è nullo e non avvenuto, secondo la terminologia dell’art. 264 TFUE);
l’annullamento produce effetti ex tunc (retroattivi).
qualora l’atto esca indenne da una procedura di annullamento può essere rimesso in discussione
sotto profili e per motivi diversi in un successivo procedimento.
NB l’annullamento può essere richiesto anche solo in relazione a una o ad alcune disposizioni
dell’atto; la corte potrà annullare l’atto solo in parte, ove ciò sia possibile, lasciando vivere e
continuare ad essere perfettamente valide le parti restanti dopo la sentenza.
la sentenza della corte comporta per l’istituzione che aveva adottato l’atto annullato l’obbligo di
prendere le misure necessarie per darvi piena esecuzione (art. 266 TFUE) = l’istituzione
interessata è tenuta a prendere tutti i provvedimenti, ma solo quelli, che l’esecuzione della
sentenza di annullamento impone.
AZIONE IN CARENZA
l’azione in carenza è lo strumento che tende a porre rimedio all’illegittima inattività di
un’istituzione, organo o organismo dell’unione. tale strumento consente, infatti, di mettere in
discussione il comportamento del parlamento europeo, del consiglio europeo, del consiglio e della
commissione, della banca centrale e degli altri organi e organismi dell’unione quando, in violazione
dei trattati, si astengano dal pronunciarsi (art. 265 TFUE) - il ricorso in carenza, dunque, non
riguarda l’ipotesi di un rifiuto, che è pur sempre un provvedimento, ma quella di illegittima
assenza di decisione e tende precisamente ad una constatazione dell’inerzia dell’istituzione.
• introduzione del ricorso: perché il ricorso sia ricevibile occorre che l’istituzione o l’organo cui è
rimproverata l’inerzia sia stato formalmente invitato a prendere posizione; una tale messa in
mora deve intervenire, a giudizio della corte, entro un termine ragionevole a partire dal momento
in cui appare chiaro che l’istituzione o l’organo in questione non abbia intenzione di agire. dal
momento della messa in mora l’istituzione o l’organo dispone di un periodo di due mesi per
prendere posizione; trascorso invano tale periodo, l’autore della messa in mora può introdurre
il ricorso, a sua volta entro un termine di due mesi.
qualora invece l’istituzione o l’organo in questione rifiuti espressamente di prendere posizione,
adotti l’atto voluto dal richiedente oppure adotti qualche altro provvedimento seppur diverso da
quello sollecitato ma comunque suscettibile di essere impugnato dinanzi alla corte, è evidente
che non vi è più spazio per l’introduzione di un ricorso in carenza, dovendosi, se del caso,
attivare la normale procedura di annullamento ex art. 263 TFUE.
• ricorrenti:
− stati membri e istituzioni: possono introdurre il ricorso indipendentemente dall’esistenza di
un interesse individuale e in relazione a qualunque ipotesi di astensione che integri una
violazione dei trattati; per questo vengono considerati ricorrenti privilegiati.
− singoli: possono agire in carenza solo quando l’istituzione abbia omesso di emanare nei suoi
confronti un atto (ricorrenti non privilegiati) che non sia una raccomandazione o un parere. a
tale riguardo si è discusso se l’omissione debba riferirsi ad un atto di cui il ricorrente sia il
formale destinatario o se debba accogliersi una lettura più ampia dell’art. 265 TFUE: in un
primo momento la corte ha rivelato molta prudenza, escludendo che il singolo possa agire in
carenza rispetto a decisioni destinate a terzi; successivamente ha invece attenuato tale limite,
ammettendo un parallelismo tra l’impugnazione di atti che investono direttamente e
individualmente il ricorrente che non ne sia il destinatario e l’analoga condizione relativa
all’azione in carenza. in tal modo è stata dunque riconosciuta ai singoli la possibilità di
ricorrere nelle ipotesi in cui essi possano considerarsi direttamente e individualmente
riguardati dagli atti relativamente ai quali deducono la carenza dell’istituzione.
• misure cautelari: lo stato membro o il singolo hanno la possibilità di chiedere e ottenere
provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 279 TFUE ove ricorrano le condizioni di fumus boni
iuris e periculum in mora.
• effetti della sentenza: la sentenza di accoglimento del ricorso in carenza corrisponde ad una
pronuncia di mero accertamento, che non esclude la proposizione di un’azione di responsabilità
extracontrattuale ex artt. 268 e 340 TFUE nell’ipotesi in cui il comportamento omissivo
dell’istituzione dell’unione abbia cagionato un danno.
ECCEZIONE DI INVALIDITA’
l’art. 277 TFUE prefigura un ulteriore mezzo per far valere l’illegittimità di un atto di portata
generale adottato da un’istituzione, organo o organismo dell’unione. si tratta di un’eccezione
incidentale che le parti possono sollevare nel corso di una procedura già attivata per altri motivi
dinanzi alla corte, al fine di far dichiarare l’inapplicabilità dell’atto di cui si tratta facendo valere,
anche dopo che sia trascorso il termine di impugnazione previsto per l’azione in annullamento (due
mesi), gli stessi motivi previsti dall’art. 263 TFUE NB sono sempre stati respinti i tentativi di far
valere, dopo la scadenza dei termini, l’illegittimità di atti che il singolo, in quanto destinatario o
perché direttamente e individualmente riguardato, avrebbe potuto impugnare con normale ricorso
di annullamento = l’eccezione di invalidità non può essere utilizzata per eludere l’onere della
tempestività dell’impugnazione, dovendo restare viceversa un mezzo offerto al singolo per
contestare la legittimità di un atto dell’unione nella sola ipotesi in cui gli sia preclusa ogni altra
possibilità.
quantomeno in via di principio, l’eccezione di invalidità può essere sollevata in ogni procedura
pendente dinnanzi al giudice dell’unione all’infuori del rinvio pregiudiziale (controllo indiretto)
NB se è necessario che l’eccezione sia incidentale rispetto ad una procedura già pendente dinanzi
al giudice dell’unione, deve pur sempre esservi uno stretto collegamento tra l’atto impugnato e
quello di cui si fa valere incidentalmente l’illegittimità; ne consegue che l’irricevibilità del ricorso
di annullamento comporta inevitabilmente e per ciò stesso l’irricevibilità dell’eccezione proposta in
base all’art. 277 TFUE.
• sfera di applicazione: nel trattato della comunità europea era formalmente limitata ai
regolamenti, ma il TFUE l’ha estesa a tutti gli atti di portata generale.
• ricorrenti: la circostanza che l’eccezione di invalidità risulti collegata all’impossibilità per i singoli
di agire ex art. 263 TFUE per l’annullamento di un atto avente portata generale, non implica
comunque che ai ricorrenti privilegiati (stati membri e istituzioni) sia in goni caso impedito di
formulare una tale eccezione.
• effetti della sentenza: l’effetto di un eventuale accoglimento dell’eccezione di invalidità è, a
differenza che nella procedura ex art. 263 TFUE, l’inapplicabilità dell’atto e non il suo
annullamento; formalmente, pertanto, l’atto viene dichiarato inapplicabile alla fattispecie ma
resta pienamente in vigore – la conseguenza pratica per l’istituzione che l’aveva adottato è che
procederà comunque alla sua modificazione o all’occorrenza alla sua abrogazione.
AZIONE DI RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE
la competenza della corte in materia di responsabilità extracontrattuale dell’unione europea e il
conseguente risarcimento dei danni (art. 268 TFUE) va anch’essa collegata alla funzione di controllo
sulla legittimità degli atti dell’unione.
l’ipotesi più rilevante è quella di un pregiudizio provocato dall’applicazione di un atto normativo
dell’unione che si pretende illegittimo. la disciplina dell’art. 340 TFUE, in questi casi, si limita ad
imporre all’unione di risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli stati
membri, i danni causati dalle sue istituzioni ovvero dagli agenti nell’esercizio delle loro funzioni –
il terzo comma estende questa disciplina anche ai danni causati dalla banca centrale europea e dai
suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni, con la sola differenza che in tali ipotesi l’obbligo di
risarcimento ricade direttamente sulla BCE e non sull’unione.
• condizioni di ricevibilità: la competenza della corte sussiste solo quando il danno sia stato
cagionato da un’istituzione dell’unione o dai suoi agenti ovvero dalla banca centrale europea
o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni; si tratta di una competenza esclusiva.
per contro, la competenza appartiene esclusivamente ai giudici nazionali quando risulti che il
danno allegato è stato prodotto da organi nazionali, sia pure in conseguenza dell’applicazione
di una normativa dell’unione; è anche vero, però, che la corte ha progressivamente elaborato il
criterio della competenza efficiente, in base al quale è il giudice nazionale a dover essere adito
qualora sia nella condizione di statuire utilmente.
• rapporto tra mezzi interni di ricorso e azione di responsabilità dinanzi alla corte di giustizia: dal
momento in cui il sistema nel suo insieme deve (o dovrebbe) funzionare in modo da garantire in
ogni caso la protezione giurisdizionale del soggetto leso, consegue che, se in via di principio
l’azione di responsabilità è residuale rispetto ai mezzi interni predisposti per l’annullamento di
misure e atti nazionali, tali mezzi devono assicurare al singolo di restare indenne alle
conseguenze dannose dell’illegittimità dell’atto.
• rapporto tra azione di responsabilità, azione di annullamento ex art. 263 TFUE e azione in carenza
ex art. 265 TFUE: in un primo momento sembrò prevalere un criterio di severità e una lettura
restrittiva dell’art. 286 TFUE in relazione all’art. 340 TFUE – in una pronuncia, in particolare, la
corte dichiarò inammissibile una domanda di risarcimento fondata sull’illegittimità di un atto
in quanto non era stato previamente richiesto l’annullamento dello stesso.
successivamente, la corte ha invece affermato che l’azione di danno rappresenta un rimedio
autonomo, distinto dagli altri mezzi sia quanto alla funzione che quanto alle condizioni di
esercizio. tale evoluzione giurisprudenziale si è avuta anche con riguardo ai rapporti tra azione
di responsabilità e azione di annullamento a seguito di rinvio pregiudiziale: di fatti, se è vero che
la tendenza attuale della giurisprudenza è nel senso di non collegare l’azione di responsabilità
ad una previa pronuncia di invalidità dell’atto dell’unione di cui si tratta, non poche sono state
le occasioni in cui la corte ha considerato irricevibile tale azione proprio in ragione del mancato
esperimento delle vie di ricorso interne idonee a far dichiarare l’invalidità dell’atto in questione.
• condizioni della responsabilità extracontrattuale:
o illiceità del comportamento dell’istituzione: in questo ambito quanto più risulta ampio il
potere discrezionale dell’istituzione tanto più occorre che ai fini della sussistenza della
responsabilità sia grave la violazione dei limiti al suo esercizio – in particolare occorre che si
tratti della violazione di norme destinate a proteggere gli interessi degli stessi ricorrenti; per
converso, quando il margine di discrezionalità sia ridotto o non ve ne sia alcuno, la mera
violazione della norma può integrare l’ipotesi di violazione grave e manifesta.
o danno effettivo:
− la prova dello stesso incombe sul ricorrente
− conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli stati membri, la corte ha avuto
modo di precisare che sono risarcibili sia il pregiudizio materiale che quello morale, sia
il danno emergente che il lucro cessante
− atteso che il risarcimento è destinato a reintegrare il patrimonio del soggetto leso, si deve
tenere conto dell’effettiva svalutazione monetaria successiva all’evento dannoso
− la giurisprudenza della corte in materia di liquidazione del danno è costante nel ritenere
ammissibile la domanda di interessi moratori; il tasso è fissato, senza alcun riferimento al
tasso legale vigente nello stato membro del ricorrente, tra il 6% e l’8%.
o nesso di causalità tra comportamento dell’istituzione e danno cagionato.
è il caso di rilevare che il tribunale dell’unione ha di recente condannato, per la prima volta, l’unione
europea al risarcimento dei danni materiali e morali causati dall’eccessiva durata di un processo.
in particolare, è stato riconosciuto che il tribunale ha violato l’art. 47 della carta dei diritti
fondamentali in quanto ha ecceduto di 20 mesi il termine ragionevole di durata del giudizio,
integrando cosi una violazione sufficientemente qualificata di una norma di diritto dell’unione
intesa a conferire diritti ai singoli.
CONTENZIOSO IN MATERIA DI PERSONALE
la competenza a conoscere delle controversie tra l’unione e i suoi agenti appartiene alla corte, nei
limiti e alle condizioni determinati dallo statuto del personale e risultanti dal regime ad essi
applicabile. tale competenza, prevista dall’art. 270 TFUE è stata inizialmente esercitata in primo
grado dal tribunale fino a quando, nel 2005, è stata devoluta ad un organo giurisdizionale ad hoc:
il tribunale della funzione pubblica. tale tribunale specializzato era competente a pronunciarsi in
primo grado sulle controversie in materia di funzione pubblica, con il tribunale deputato a
conoscere delle impugnazioni in funzione di giudice di seconda istanza e la corte incaricata
unicamente di analizzare le rarissime richieste di riesame provenienti dal primo avvocato generale.
successivamente, a seguito della volontà di riorganizzare l’architettura istituzionale della corte di
giustizia, tale competenza è stata nuovamente attribuita al tribunale, con la conseguente
soppressione del tribunale della funzione pubblica a partire dal 2016. pertanto, attualmente, il
tribunale è nuovamente competente a conoscere di tale contenzioso in primo grado, mentre attiene
alla corte pronunciarsi su eventuali impugnazioni in qualità di giudice d’appello.
NB il trasferimento di competenze al tribunale ha inteso contribuire ad un miglioramento di tutela
giurisdizionale complessivamente offerto dal sistema dell’unione, soprattutto con riguardo alla
tutela dei singoli; ciò va inteso sotto un duplice profilo: doppio grado di giurisdizione e attenzione
che si deve ai fatti, alle esigenze istruttorie e ai relativi strumenti processuali. non meno
importante è anche la riduzione del numero delle cause presentate alla corte nonché l’accentuazione
del suo ruolo di giudice costituzionale in senso lato, custode dell’uniformità di applicazione del
diritto dell’unione e dunque dell’armonia del sistema nel suo insieme.
il regime del contenzioso della funzione pubblica è disciplinato dagli artt. 90 e 91 dello statuto del
personale che prevedono, in primo luogo, una specifica procedura precontenziosa; oltre ciò, la
ricevibilità del ricorso è subordinata alla circostanza che il ricorrente abbia un interesse ad agire e
che l’atto impugnato, che può anche rivestire forma verbale, sia tale da arrecargli un pregiudizio.
• oggetto del ricorso: la competenza del tribunale sul contenzioso in materia di funzione pubblica
comprende tutte le controversie che afferiscono al rapporto d’impiego: assunzioni, condizioni
di lavoro, trattamento economico e benefici sociali, disciplina delle carriere, ecc.
• ricorrenti: la possibilità di agire contro un’istituzione dell’unione è conferita, quando ricorrano le
altre condizioni, non solo ai funzionari e ad altri agenti (ad esclusione degli agenti locali per i
quali resta competente il giudice nazionale), ma anche agli aspiranti funzionari o agenti che
partecipano ad un concorso e che intendano contestarne lo svolgimento e/o i risultati.
• decorrenza del termine: il termine per agire è di tre mesi, che decorrono dal giorno della notifica
della decisione che statuisce sul reclamo.
• merito: il ricorso può essere diretto, conformemente all’art. 91 dello statuto del personale, ad
ottenere sia l’annullamento di un atto sia il risarcimento dei danni derivanti da un atto o da un
comportamento dell’istituzione di cui si tratta. attesa l’autonomia delle diverse azioni, il
funzionario può scegliere la procedura che ritenga più appropriata con il solo limite che l’azione
di responsabilità non può costituire un mezzo per eludere l’irricevibilità di un azione di
annullamento concernente l’illegalità dello stesso atto e tendente ad ottenere lo stesso
risarcimento.
• misure cautelari: il ricorrente può chiedere, insieme all’annullamento dell’atto di cui si tratta, sia
provvedimenti provvisori che la sospensione dell’atto impugnato. quest’ultima è tuttavia molto
difficile da ottenere in quanto, oltre all’esistenza dell’urgenza e di un danno grave e irreparabile,
occorre verificare che la sospensione richiesta non sia tale da ostacolare il buon funzionamento
del servizio interessato.
le azioni promosse dai dipendenti contro le istituzioni sono decisamente numerose, sicchè la
giurisprudenza in materia è molto ricca e non certo priva di elementi di estremo interesse e rilievo.
considerata però la parsimonia nell’apprezzamento dello sviamento di potere e la grande
prudenza dimostrata dal giudice dell’unione nel limitare o comunque sindacare l’ampio potere
discrezionale di cui gode l’amministrazione, ne consegue che pochi sono i ricorsi accolti; a ciò si
aggiunga che anche quando l’azione ha successo, non è comunque sicuro che ne consegua una reale
utilità della sentenza, in quanto il giudice dell’unione non ha il potere di ordinare
all’amministrazione di adottare le misure specifiche che la sua sentenza comporta.
FUNZIONE CONSULTIVA
la corte di giustizia può rendere anche pareri. in virtù dell’art. 218 TFUE, infatti, è competente a
rendere pareri in ordine alla compatibilità con i trattati di accordi previsti tra l’unione e paesi terzi
o organizzazioni internazionali.
va precisato che, sebbene il parere della corte non sia necessario ai fini della stipulazione di un
accordo internazionale, nel caso in cui venga richiesto produce effetti vincolanti: se la corte si
pronuncia nel senso dell’incompatibilità di talune disposizioni dell’accordo, quest’ultimo non può
entrare in vigore. ne consegue che se permane l’interesse e la volontà di stipularlo, esso dovrà essere
modificato di conseguenza e per quanto di ragione, oppure dovrà procedersi ad una modifica dei
trattati alle condizioni stabilite dall’art. 48 TUE; il parere negativo della corte può anche determinare
l’abbandono dell’accordo NB non è chiaro se tale ipotesi riguardi anche l’accordo di adesione alla
CEDU, già dichiarato incompatibile con i trattati; ricordiamo però che l’art. 6 TUE prevede che
l’unione sia tenuta ad aderire a tale convenzione, pertanto sarebbe necessario modificare il progetto
di accordo al fine di renderlo conforme ai rilievo mossi dalla corte.

PROCEDURA
il procedimento dinanzi al tribunale e alla corte è regolato, oltre che dalle conferenti norme dei
trattati e del protocollo sullo statuto della corte di giustizia, dai rispettivi regolamenti di
procedura, modificati a seguito della riforma delle istituzioni giudiziarie del 2016 – che ha
determinato la soppressione del tribunale della funzione pubblica dell’unione europea e
l’attribuzione delle relative competenze al tribunale.
il procedimento prevede una fase scritta e una fase orale, prima che si proceda alla decisione della
causa; la procedura bifasica assicura il rispetto del principio del contraddittorio, permettendo alle
parti di venire a conoscenza di tutti gli elementi presentati al giudice ed eventualmente di replicare.
1. fase scritta: ha lo scopo di circoscrivere il petitum e, dunque, di far conoscere precisamente alla
corte fatti, censure, mezzi, argomenti e conclusioni delle parti sulle quali è chiamata a
pronunciarsi.
• introduzione: questa fase è attivata con il deposito di un ricorso e dei documenti allegati, da
presentarsi entro due mesi, cui si aggiungono dieci giorni in ragione della distanza. il ricorso
contiene l’indicazione delle parti e dei difensori, con la precisazione del domicilio eletto,
l’esposizione dell’oggetto della controversia, dei mezzi dedotti e delle prove che
eventualmente si offrono, nonché l’esatta enunciazione della domanda.
• notifica: dal 2018 la produzione e lo scambio dei documenti giudiziari tra le parti e la corte di
giustizia avviene esclusivamente tramite la piattaforma informatica e-curia, che assicura una
maggiore immediatezza delle comunicazioni e un incremento nell’efficienza dell’intero
apparato giurisdizionale – è comunque previsto l’invio dei documenti a mezzo raccomandata,
nel rispetto del principio di accesso al giudice, qualora la procedura elettronica risulti non
disponibile per problemi tecnici.
• entro un mese dalla ricezione della domanda, la controparte può presentare un controricorso;
le parti hanno anche diritto a presentare rispettivamente una replica e una controreplica nel
termine fissato dal presidente, che può indicare anche i punti sui quali tali atti debbano vertere.
• intervento: nella fase scritta possono anche intervenire terzi che, qualora autorizzati a
prendere parte al processo, possono presentare una memoria di intervento, notificata dal
cancelliere alle parti in causa.
gli stati membri e le istituzioni dell’unione possono intervenire in tutte le procedure attivate
con ricorso dinanzi al giudice dell’unione, vuoi a supporto della domanda, vuoi per
contestarla; alle persone fisiche o giuridiche è consentito l’intervento, a condizione che
dimostrino di essere direttamente investite dalla decisione impugnata e abbiano un
interesse alla soluzione della controversia NB le parti diverse dagli stati membri e dalle
istituzioni dell’unione devono essere rappresentate da un avvocato abilitato al patrocinio in
uno stato membro, anche quando la parte sia essa stessa un avvocato.
2. fase orale, articolata a sua volta in due fasi:
• udienza di discussione: dopo l’ultima memoria ed esaurita la fase della traduzione degli atti e
dei documenti nelle lingue che occorrono, il giudice relatore, sentito l’avvocato generale,
deposita una relazione d’udienza che riassume i termini essenziali della causa, il quadro
normativo e la posizione delle parti. sulla base di questa relazione, che viene inviata alle parti
per eventuali richieste di modificazioni e integrazioni, viene deciso dal tribunale o dalla corte
nel loro insieme se è necessario un supplemento di istruttoria, di documentazione o altro; in
caso affermativo si fanno richieste o si pongono dei quesiti alle parti, si fissa la composizione
del collegio e la data dell’udienza o, in mancanza, delle conclusioni dell’avvocato generale.
• udienza di presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale: la corte può decidere, dopo
la lettura delle memorie e delle osservazioni depositate durante la fase scritta, di essere
sufficientemente edotta per statuire; pertanto, ai sensi dell’art. 20 dello statuto, le conclusioni
possono non essere presentate se, sentito l’avvocato generale, la corte ritiene che la causa non
sollevi nuove questioni di diritto.
3. conclusione: il dispositivo della sentenza della corte o del tribunale, all’esito della fase
deliberativa, viene letto in udienza pubblica, nella lingua di procedura – la traduzione nelle altre
lingue ufficiali è immediatamente disponibile.
della sentenza viene pubblicato il dispositivo nella gazzetta ufficiale.
accanto alla procedura ordinaria appena esaminata sono previsti procedimenti speciali e alternativi:
• procedimento accelerato: contemplato qualora la natura della controversia imponga una sua
rapida trattazione.
tale procedimento, richiesto con istanza di parte e deciso d’ufficio dal presidente della corte,
comporta un’abbreviazione della fase scritta. peraltro, la replica, la controreplica e la memoria di
intervento possono essere presentate solo qualora il presidente lo ritenga necessario, dopo aver
sentito il giudice relatore e l’avvocato generale; la persona e l’ente autorizzati a intervenire
possono presentare le loro osservazioni soltanto oralmente, qualora l’udienza venga fissata.
infine, la corte decide sentito l’avvocato generale (che dal 2016 può, anche in questi
procedimenti, presentare le proprie conclusioni).
• procedura di composizione amichevole: utilizzata nel caso di controversie tra l’unione e i suoi
agenti. in particolare, il tribunale può incaricare il giudice relatore di esperire un tentativo di
composizione amichevole, anche parziale della controversia, in tutte le fasi del procedimento. in
tale prospettiva, il giudice relatore può:
− invitare le parti a fornire informazioni e documenti utili
− convocare riunioni con i rappresentanti delle parti principali
− avere colloqui separati con ciascuna delle parti.
nell’ipotesi in cui venga raggiunto un accordo, le parti possono chiedere che esso abbia valore
di atto pubblico e che sia firmato dal giudice relatore e dal cancelliere; possono inoltre chiedere
che i termini del medesimo accordo appaiano nell’ordinanza di cancellazione dal ruolo.
IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA DEL TRIBUNALE
l’impugnazione della sentenza di primo grado può essere proposta entro due mesi dalle parti,
principali e intervenute.
è stato inserito un meccanismo di filtraggio delle impugnazioni proposte avverso le decisioni che
hanno già beneficiato di un duplice esame: in prima istanza da parte di una commissione di ricorso
indipendente e successivamente da parte del tribunale. in tali casi, infatti, le impugnazioni dinanzi
alla corte non saranno ammesse, a meno che non si dimostri che sollevino una questione importante
per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’unione – il filtro di ammissibilità dovrebbe
ridurre il carico di lavoro della corte, consentendole di individuare le impugnazioni che è
effettivamente opportuno esaminare e concentrarsi sulle attività principali.
• oggetto della domanda: l’impugnazione deve essere, com’è ovvio, diretta a rimediare ai pretesi
errori in diritto della sentenza di primo grado; pertanto, essa non può limitarsi ad una mera
riproposizione della domanda originaria o sollevare per la prima volta dinanzi alla corte un
motivo non fatto valere nella prima fase: deve indicare espressamente i punti della sentenza
impugnata di cui si chiede l’annullamento perché viziati. in caso contrario, infatti, il ricorso
costituisce una domanda diretta ad ottenere un riesame dell’atto introduttivo presentato
dinanzi al tribunale e non rientra nella competenza della corte.
• vizi:
− incompetenza del tribunale
− vizi di procedura che hanno causato pregiudizio al ricorrente
− violazione del diritto dell’unione.
in sostanza, al giudice di secondo grado è stata lasciata una cognizione finalizzata ad eliminare
gli errori di diritto che possono pregiudicare la coerenza dell’ordinamento e l’uniformità di
applicazione delle norme.
un elemento che ha dato luogo a qualche difficoltà è il vizio di motivazione della sentenza
impugnata. tuttavia, la mancata previsione espressa di tale vizio nell’elencazione dei vizi
censurabili con l’impugnazione non può certo condurre ad escluderne la sua qualificazione
come ipotesi di violazione del diritto dell’unione - infatti, la contraddittorietà della motivazione
e la sua insufficienza rientrano nella violazione delle forme sostanziali e costituiscono un motivo
di ordine pubblico che deve essere sollevato d’ufficio dal giudice dell’unione. tra l’altro, nella
giurisprudenza non mancano segnali dai quali si evince l’apprezzamento del difetto di
motivazione come ragione di censura della pronuncia del tribunale; specificamente, la corte ha
chiarito che la motivazione della sentenza del tribunale deve contenere, anche implicitamente,
tutti gli elementi di fatto e di diritto che permettano all’interessato di conoscere le ragioni della
decisione adottata e ad essa di esercitare il controllo giurisdizionale.
• effetti della sentenza: la sentenza della corte che accoglie l’impugnazione comporta
l’annullamento della pronuncia del tribunale (art. 61 dello statuto della corte) NB la corte può
anche decidere la controversia, qualora lo stato degli atti lo consenta; in caso contrario, la corte
rinvia la causa nuovamente al tribunale perché quest’ultimo decida. il giudice di primo grado
è, in tal caso, vincolato alla decisione della corte relativamente ai punti di diritto.
le cause del tribunale che non sono impugnate nei termini diventano definitive, in quanto passate
in giudicato. l’autorità della cosa giudicata riguarda i punti di fatto e di diritto che sono stati
effettivamente decisi con sentenza del tribunale, ma anche l’intera motivazione che costituisce il
fondamento del dispositivo.
MEZZI STRAORDINARI DI RICORSO
• interpretazione del dispositivo, art. 43 dello statuto della corte: è prevista la possibilità di chiedere
l’interpretazione del dispositivo di una pronuncia o di un suo punto specifico sia su iniziativa di
una parte principale sia di una parte interveniente. si tratta di un mezzo di ricorso straordinario
che può essere utilizzato per dissipare eventuali oscurità o ambiguità del senso e della portata
di una pronuncia qualora le parti non le attribuiscano lo stesso senso o qualora una di queste
ritenga oscuri o ambigui taluni passaggi.
• revocazione, art. 44 dello statuto della corte: istituto applicabile tanto alle pronunce del
tribunale quanto a quelle della corte entro il termine di dieci anni dalla data della sentenza.
condizione indispensabile per attivare la procedura e dunque per superare l’autorità di cosa
giudicata della decisione, è la scoperta, dopo l’emissione della sentenza, di elementi di fatto
nuovi, anteriori alla sentenza e tali che, se conosciuti e apprezzati dal giudice, avrebbero
potuto condurre quest’ultimo ad una diversa soluzione della controversia.
• riesame, artt. 62, 62bis e 62ter dello statuto della corte: è un istituto di difficile qualificazione e
classificazione giuridica, che presenta analogie sia con il ricorso nell’interesse della legge
quanto a presupposti e modalità, sia con l’impugnazione quanto ai suoi effetti.
in ogni caso, è possibile procedere ad un riesame di una decisione del tribunale, in linea di
principio definitiva, qualora sia a rischio l’unità o la coerenza del diritto dell’unione. in
particolare, il primo avvocato generale è competente a proporre alla corte il riesame della
decisione del tribunale; tale proposta deve essere presentata entro un mese a decorrere dalla
pronuncia della decisione del tribunale e la corte deve decidere, entro un mese a decorrere dalla
presentazione della proposta, secondo una procedura di urgenza, sull’opportunità di procedere
al riesame - con la sentenza di riesame la corte accerta, anzitutto, l’esistenza di errori di diritto
commessi dal tribunale; verifica che tali errori siano in grado di pregiudicare la coerenza o l’unità
del diritto dell’unione; infine, ne determina le conseguenze rispetto alla controversia.
se la corte di giustizia constata che la decisione del tribunale pregiudica l’unità o la coerenza del
diritto dell’unione, essa rinvia la causa dinanzi al tribunale, che è vincolato ai punti di diritto da
essa decisi; eccezionalmente può accadere che la soluzione della controversia emerga, in
considerazione dell’esito del riesame, dagli accertamenti in fatto sui quali è basata la decisione
del tribunale; ipotesi in cui la corte statuisce in via definitiva sostituendo la sua soluzione a quella
del tribunale.
• rinvio: l’art. 256 TFUE attribuisce al tribunale la facoltà di disporre un rinvio alla corte ove ritenga
che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità o la coerenza
del diritto dell’unione; tale rimedio è quindi subordinato alla sussistenza delle medesime
condizioni eccezionali previste per il riesame, ma è soggetto al potere discrezionale del
tribunale, atteso che a questo compete rinviare o meno alla corte la questione pregiudiziale.
PROCEDURA D’INFRAZIONE
il controllo giurisdizionale della corte di giustizia sulla puntuale applicazione del diritto dell’unione
in tutti gli stati membri mira non soltanto a verificare continuamente la compatibilità di atti e
comportamenti di tali stati con il diritto dell’unione, ma anche ad assicurare la necessaria uniformità
di applicazione delle stesse norme europee in tutti gli stati membri.
è proprio nell’ambito della corretta applicazione delle norme dell’unione negli stati membri che si colloca la
procedura di infrazione, ordinariamente promossa dalla commissione ai sensi dell’art. 258 TFUE
ed occasionalmente promossa dagli stati membri ai sensi dell’art. 259 TFUE.
• scopo: la procedura di infrazione è sostanzialmente diretta a porre termine alla violazione del
diritto dell’unione e, pertanto, a far si che il comportamento dello stato membro si modifichi e
sia coerente con il dettato delle norme conferenti, prima ancora e più che all’accertamento
dell’infrazione.
• oggetto: quanto alla natura dell’infrazione, essa consiste nella violazione di una qualsiasi
obbligazione che incomba su di uno stato membro NB è vero che l’art. 258 TFUE si riferisce agli
obblighi incombenti in virtù dei trattati, ma è chiaro che si tratta di tutti gli obblighi che derivano
dal sistema giuridico dell’unione considerato nel suo insieme, compresi gli atti vincolanti e gli
accordi internazionali da questa stipulati.
l’inadempimento può consistere in un comportamento, in un atto normativo, in una pratica
amministrativa o, spesso, nell’aver omesso di dare formale attuazione ad un obbligo dell’unione
– si pensi in quest’ultimo caso alla tipica ipotesi di mancata o non corretta o non tempestiva
trasposizione di una direttiva.
RICORSI PROMOSSI DALLA COMMISSIONE, art. 258 TFUE
1. fase precontenziosa: si svolge su impulso e sotto la responsabilità della commissione; questa
esercita un controllo sistematico sull’osservanza di alcune categorie di obblighi da parte dei paesi
membri e rileva in tal modo i casi di inosservanza e le infrazioni.
è chiaro che i mezzi e le risorse umane di cui dispone la commissione non le consentono di
svolgere un’opera completa di ricognizione e rilevazione rispetto a tutti i paesi membri, tenuto
conto del numero infinito di leggi, atti amministrativi o semplici prassi che possono essere in
contrasto con una qualche norma dei trattati o del diritto derivato dell’unione. per questo motivo,
l’attenzione della commissione risulta utilmente richiamata da interrogazioni parlamentari o
da comuni cittadini e associazioni, che indirizzano alla commissione un esposto scritto in cui
indicano i fatti che in ipotesi costituiscono un’inosservanza del diritto dell’unione.
2. lettera di messa in mora: se all’esito di una verifica la commissione ritiene che un’infrazione sia
stata commessa dallo stato membro, la stessa invia a quest’ultimo una lettera di messa in mora,
che rappresenta una prima contestazione degli addebiti – in sostanza, è un’indicazione delle
ipotesi di inosservanza del diritto dell’unione che la commissione imputa allo stato membro.
tra l’altro, lo stato destinatario della lettera di messa in mora ha la possibilità e l’onere di
rispondere alle censure della commissione facendo valere gli argomenti di fatto e di diritto
che ritiene opportuni.
3. parere motivato: il passo formale e ulteriore della commissione, qualora non ritenga adeguate le
osservazioni dello stato membro, è l’invio a quest’ultimo di un parere motivato, nel quale sono
specificate le infrazioni che ancora si ritengono commesse e gli elementi di diritti e di fatto
che sostengono la contestazione; è inoltre specificato il termine entro il quale lo stato membro è
tenuto a mettere fine all’inadempimento.
NB la lettera di messa in mora e il parere motivato costituiscono passaggi obbligati della procedura
di infrazione, in quanto valgono a definire l’oggetto della controversia e a soddisfare l’esigenza del
contradditorio. infatti, la possibilità che è data allo stato con la lettera di messa in mora di sottoporre
alla commissione le sue osservazioni fino a contestare del tutto la fondatezza degli addebiti,
rappresenta in primo luogo una garanzia fondamentale ed una condizione essenziale per la
legittimità della procedura di infrazione complessivamente considerata; in secondo luogo, la
funzione di questa fase è anche quella di stimolare per quanto possibile una soluzione non
giudiziaria, in modo da realizzare comunque il fine sostanziale della procedura di infrazione che
consiste nel far venire meno l’infrazione stessa.
4. procedura dinanzi alla corte di giustizia: se entro il termine fissato nel parere motivato lo stato
membro non si adegua a quanto richiesto dalla commissione, quest’ultima può presentare un
ricorso alla corte di giustizia.
− nel ricorso i motivi di doglianza devono corrispondere a quelli indicati nella fase
precontenziosa ed in particolare gli argomenti di diritto enunciati nel parere motivato – la
corte riconosce comunque la possibilità di contestare nel ricorso fatti ulteriori che siano della
medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e che costituiscono uno stesso
comportamento, ma solo se intervenuti successivamente al parere motivato e comunque non
noti prima alla commissione. la giurisprudenza sul punto è ben consolidata: un ricorso è
irricevibile quando, e nella misura in cui, contiene addebiti che non hanno formato oggetto
della procedura precontenziosa e sui quali pertanto non si è realizzato alcun contraddittorio
tra l’istituzione e lo stato membro interessato. d’altra parte, se la lettera di messa in mora e il
parere motivato hanno per lo stato membro quella funzione fondamentale di garanzia appena
sottolineata, è pacifico che il rispetto di tale garanzia è un presupposto altrettanto
fondamentale della legittimità della procedura.
− non è previsto un termine per la presentazione del ricorso da parte della commissione, che
dunque conserva un’ampia discrezionalità – addirittura potrebbe ritardare l’introduzione del
ricorso allo scopo di evitare il giudizio quando ritenga che lo stato membro possa adempiere
in tempi brevi, anche successivamente alla scadenza del termine fissato nel parere motivato.
più in generale, va rilevato che la commissione, secondo una consolidata giurisprudenza, non
ha un obbligo di attivare e proseguire la procedura di infrazione, ma solo una facoltà; tuttavia
tale giurisprudenza alimenta qualche perplessità, in quanto l’ampia discrezionalità lasciata
alla commissione nel corso dell’intera procedura potrebbe non essere in perfetta sintonia
con l’obiettivo di garantire un’efficace e vigile azione di repressione delle violazioni del
diritto dell’unione.
− la procedura di infrazione è condotta nei confronti dello stato membro, in quanto è allo stato
unitariamente considerato che l’inadempimento viene attribuito. ciò rileva, in particolare, con
riferimento all’adempimento di obbligazioni sancite da normative poste in essere per settori
che in qualche stato membro sono di competenza non dell’amministrazione centrale, bensì di
qualche ente territoriale, ad esempio regioni o comuni. la giurisprudenza al riguardo è ben
salda: ogni stato membro è libero di articolare le competenze interne come meglio crede, ma
una tale circostanza non può comunque essere invocata dallo stato, cui incombe l’obbligo di
assicurare il corretto adempimento degli obblighi dell’unione, per giustificare il mancato
rispetto di tali obblighi.
è dunque sempre lo stato membro ad essere dichiarato responsabile ai sensi dell’art. 258 TFUE,
senza che rilevi la circostanza che la violazione sia imputabile al potere legislativo, esecutivo
o giudiziario NB è tuttavia previsto il diritto dello stato di rivalersi nei confronti dei predetti
enti in relazione al pagamento di sanzioni pecuniarie derivanti da sentenze di condanna rese
dalla corte.
5. effetti della sentenza, art. 260 TFUE: la sentenza testualmente riconosce che lo stato è
inadempiente rispetto a una o più obbligazioni che gli derivano dai trattati o da un atto
dell’unione; si tratta dunque di una sentenza meramente dichiarativa, non esistendo la possibilità
di attuare in forma coattiva la pronuncia della corte.
fatta questa premessa, gli stati dichiarati inadempienti sono comunque tenuti a prendere i
provvedimenti che l’esecuzione della sentenza impone: abrogazione o introduzione di una
norma nell’ordinamento, trasposizione di una direttiva, modificazione di una prassi, ecc. in
particolare, la giurisprudenza della corte non ha mancato di precisare che la pronuncia che accerti
l’incompatibilità con i trattati di una legge nazionale comporta per lo stato l’obbligo di modificarla,
adeguandola alle esigenze del diritto dell’unione europea, nonché l’obbligo per i giudici di garantire
l’osservanza della norma comunitaria cosi come interpretata dalla corte NB non sono sufficienti, a tale
scopo, la pubblicazione di una circolare ministeriale o semplici prassi amministrative, in quanto lasciano
immutate la legislazione o l’atto amministrativo oggetto della dichiarazione di incompatibilità da parte
della corte.
il TFUE non fissa alcun termine per l’esecuzione della sentenza che accerti l’inadempimento; è
evidente tuttavia che l’esigenza fondamentale dell’applicazione immediata e uniforme del diritto
dell’unione europea, da soddisfare anche nel rispetto del principio di leale collaborazione sancito
dall’art. 4 TUE richiede necessariamente tempi brevi.
nella versione precedente al trattato di maastricht, l’art. 260 TFUE si fermava a questo punto, con
la conseguenza che l’ipotesi di mancata o non corretta o non tempestiva esecuzione della
sentenza era configurabile quale normale inadempimento, come tale passibile a sua volta di una
procedura di infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE (c.d. doppia condanna); il trattato di maastricht
ha aggiunto la previsione di una sanzione pecuniaria per l’ipotesi che uno stato membro non
abbia adottato le misure necessarie per dare esecuzione ad una sentenza che riconosce
l’inadempimento: in tal caso la procedura di infrazione può essere reiterata, ma la commissione
chiede alla corte anche la condanna dello stato al pagamento di una somma forfettaria O di una
penalità di mora NB nonostante la presenza della congiunzione O, l’imposizione di un’ammenda
forfettaria non è affatto alternativa alla determinazione di una penalità di mora in quanto le due
sanzioni possono essere cumulate. in particolare, è stato ritenuto ammissibile il cumulo qualora
l’inadempimento sia perdurato a lungo e tenda a persistere – rimane fermo il potere discrezionale
della corte nel decidere in merito all’irrogazione o meno della/e sanzione/i e nel determinare
eventualmente l’importo.
va segnalato che la commissione ha istituito una nuova procedura denominata eu pilot, che consiste
nello scambio di informazioni e nella risoluzione dei problemi con gli stati membri prima
dell’eventuale avvio della fase precontenziosa. tale procedura, infatti, implica una cooperazione
volontaria tra commissione e stati membri e mira tanto a verificare la corretta applicazione del
diritto dell’unione quanto a risolvere rapidamente le questioni sollevate da tale applicazione
NB l’avvio di una tale procedura non esclude comunque che la commissione possa avviare la
procedura formale a norma dell’art. 258 TFUE qualora non sia soddisfatta del dialogo con lo stato
membro interessato.
tuttavia, la commissione ha recentemente fatto un passo indietro decidendo di utilizzare tale
strumento di dialogo con gli stati membri soltanto in casi eccezionali, ridimensionando cosi un
utile meccanismo di risoluzione delle eventuali infrazioni al diritto dell’unione.
più in generale, occorre rilevare un progressivo indebolimento della procedura di infrazione, che
risulta in modo evidente dall’intenzione manifestata dalla commissione di avviare questa
procedura solo in relazione alle principali violazioni della legislazione dell’unione che incidono
sugli interessi dei cittadini e delle imprese. questo nuovo approccio della commissione europea
mira a valorizzare gli strumenti nazionali di controllo del diritto dell’unione, ma appare tutt’altro
che condivisibile vista l’importanza che questo rimedio ha assunto nel corso degli anni, anche come
deterrente, ai fini dell’uniforme e corretta applicazione del diritto dell’unione negli stati membri.
RICORSI PROMOSSI DAGLI STATI MEMBRI (art. 259 TFUE)
oltre alla procedura d’infrazione disciplinata dall’art. 258 TFUE, in virtù dell’art. 259 TFUE la stessa
procedura può essere attivata da uno stato membro per veder riconosciuto l’inadempimento di un
altro stato membro.
in particolare, nella fase precontenziosa lo stato investe la commissione della sua doglianza e
all’istituzione competono gli stessi adempimenti della procedura normale: lettera di messa in
mora e parere motivato. qualora la commissione accolga la tesi dello stato denunciante, il suo parere
sarà analogo a quello emesso nelle procedure avviate da tale istituzione, con la sola differenza
che, se lo stato inadempiente non porrà fine all’infrazione nel termine previsto, lo stato
denunciante (oltre alla commissione) potrà adire la corte di giustizia; se invece la commissione
non inviasse il parere motivato entro tre mesi dall’inizio della procedura o non ritenga violato il
diritto dell’unione, lo stato richiedente può adire direttamente la corte.
CONTROLLO INDIRETTO – RINVIO PREGIUDIZIALE
nel sistema di controllo giurisdizionale sulla corretta e uniforme applicazione del diritto dell’unione
in tutti gli stati membri, un rilievo decisivo ha assunto la cooperazione tra corte di giustizia e giudice
nazionale. per apprezzare al giusto tale cooperazione, occorre partire dalla constatazione che
l’applicazione in concreto delle norme e degli atti dell’unione è per molta parte demandata agli stati
membri e alle rispettive amministrazioni: la gran parte delle situazioni giuridiche disciplinate
direttamente o indirettamente da norme dell’unione finisce cosi per essere regolata e per avere
rilevanza pratica sul piano interno – vuoi perché è l’amministrazione nazionale ad applicare
direttamente la norma dell’unione, vuoi perché sono intervenute norme interne a regolare il
rapporto in attuazione di norme europee.
nella patologia dei rapporti giuridici, dunque, a fare applicazione del diritto dell’unione,
direttamente o nella forma dell’atto nazionale imposto da una normativa europea, è principalmente
il giudice nazionale. e mentre ciò si traduce in via di principio in una garanzia di più immediata e
completa tutela per il singolo, è ben chiaro che la stessa circostanza che i giudici di 27 paesi diversi,
dunque operanti in tanti sistemi giuridici differenti, sono chiamati ad applicare in via diretta o
mediata il diritto dell’unione europea, crea oggettivamente un problema di uniformità e per ciò
stesso di corretta applicazione del diritto dell’unione.
è in questa prospettiva che va messo a fuoco il meccanismo del rinvio pregiudiziale prefigurato
all’art. 267 TFUE che dà al giudice nazionale la facoltà, e se di ultima istanza l’obbligo, di chiedere
alla corte di giustizia una pronuncia sull’interpretazione o sulla validità di una norma dell’unione
quando siffatta pronuncia sia necessaria per risolvere la controversia di cui è stato investito. sulla
base di quanto premesso, dunque, può essere utile o necessario al giudice nazionale avere una
risposta ai seguenti possibili interrogativi:
• quale sia la corretta interpretazione e con essa la portata della norma dell’unione
• se la norma dell’unione rilevanti sia valida ed efficace
cui corrispondono il rinvio pregiudiziale di interpretazione e di validità.
funzioni
• realizzare un’interpretazione e quindi un’applicazione del diritto dell’unione uniforme in tutti i
paesi membri, in modo che esso abbia dovunque la stessa efficacia
• verificare la legittimità di una legge nazionale o di un atto amministrativo o anche di una prassi
amministrativa rispetto al diritto dell’unione. tale controllo, anche se indiretto, è stato subito e
con chiarezza affermato come momento fondamentale del sistema di tutela dei diritti che il
singolo vanta in forza del diritto dell’unione; infatti, quando un singolo ritiene di subire un
pregiudizio per effetto dell’applicazione di una norma o di una prassi nazionale assunta come
incompatibile con il diritto dell’unione, può far valere tale incompatibilità e provocarne
l’accertamento in due modi: il primo è quello della segnalazione alla commissione, che a sua volta
decider se attivare o meno la procedura di infrazione ex art. 258 TFUE; il secondo è quello di
chiedere al giudice nazionale dinanzi al quale sia stata portata la controversia di procedere al
rinvio pregiudiziale di interpretazione ex art. 267 TFUE NB non è escluso, peraltro, e anzi può
essere utile, che si proceda contestualmente nei due modi, stimolando sia l’apertura di una
procedura di infrazione da parte della commissione, sia un rinvio pregiudiziale da parte del
giudice; il risultato è che alla fine si potranno avere due sentenze della corte, una di
inadempimento ed un’altra formalmente di interpretazione ma sostanzialmente anch’essa di
inadempimento. restano comunque due procedure con oggetto e conseguenze diverse non solo
sul piano formale: l’una tende all’accertamento di una violazione da parte del diritto nazionale;
l’altra ad una lettura della norma dell’unione dalla quale potrà eventualmente dedursi
un’incompatibilità di una norma nazionale.
• completare il sistema di controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti dell’unione.
oggetto del rinvio pregiudiziale
l’oggetto del rinvio pregiudiziale è quanto mai ampio: per il rinvio di interpretazione si tratta di
tutto il sistema giuridico dell’unione (dai trattati istitutivi agli accordi di associazione, dagli atti
delle istituzioni, anche quelli non vincolanti, ai principi generali del diritto dell’unione); le questioni
pregiudiziali di validità, invece, possono avere ad oggetto solo gli atti posti in essere dalle
istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’unione.
condizioni soggettive
il rinvio pregiudiziale può essere deciso da qualunque giudice nazionale (ordinario,
amministrativo, contabile o tributario) purchè si tratti della giurisdizione di uno stato membro.
la nozione di giurisdizione ai sensi dell’art. 267 TFUE è una nozione del diritto dell’unione, si che
la sua attribuzione all’organo può anche non corrispondere alla qualificazione che ne abbia dato
l’ordinamento dello stato membro; va dunque definita, cosi come la sua sussistenza determinata,
dalla corte di giustizia, che ha provveduto in base a diversi elementi qualificanti:
• origine legale e non convenzionale dell’organo
• carattere permanente
• obbligatorietà
• applicazione del diritto
• procedimento in contraddittorio
• terzietà
• indipendenza: presuppone che l’organo di cui trattasi eserciti le sue funzioni giurisdizionali in
piena autonomia, senza vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza
ricevere ordini o istruzioni da alcune fonte, e che esso sia quinti tutelato da interventi o pressioni
dall’esterno idonei a comprometterne l’indipendenza di giudizio dei suoi membri e ad influenzare
le loro decisioni.
sono stati dunque compresi nella nozione di giurisdizione:
− giudice in sede cautelare
− giudice italiano nel procedimento ingiuntivo e il giudice istruttore
− giudice per le indagini preliminari
− organo giurisdizionale di appello competente a pronunciarsi in merito ad una decisione di un
tribunale incaricato della tenuta del registro delle imprese.
esclusi dalla nozione di giurisdizione, invece, sono: la pubblica accusa, arbitri o organi la cui
composizione sia lasciata interamente alle parti della controversia, gli ordini professionali quando
non rendono decisioni di natura giurisdizionale, la commissione tributaria con funzioni non
giurisdizionali e gli arbitrati convenzionali che traggono origine da accordi internazionali e hanno
carattere derogatorio rispetto al sistema giurisdizionale degli stati membri.
condizioni oggettive
• risulta sia dal tenore letterale sia dalla ratio dell’art. 267 TFUE che il procedimento pregiudiziale
presuppone la pendenza dinanzi ai giudici nazionali di un’effettiva controversia; pertanto, la
corte ha rifiutato di rispondere al quesito pregiudiziale sollevato in occasione di un controversia
che ha considerato fittizia: causa nella quale le parti erano perfettamente d’accordo sull’esito del
litigio e sull’interpretazione delle conferenti norme dell’unione, ma tendevano a far risultare
l’incompatibilità con il diritto dell’unione di una norma di un paese diverso da quello del foro.
tuttavia, in un momento successivo, la corte ha espressamente escluso che la concordanza tra le
parti sul risultato da ottenere nella causa principale incida sull’effettività della controversia e
dunque sulla ricevibilità del rinvio; ha affermato invece di dover esercitare una particolare
vigilanza quando la questione pregiudiziale sia diretta a far valutare la compatibilità della
normativa di un altro stato membro con il diritto dell’unione.
• la corte ha escluso di potersi pronunciare in presenza di questioni puramente ipotetiche o non
obiettivamente necessarie al giudice nazionale per risolvere la controversia dinanzi ad esso
pendente o comunque senza un collegamento sufficiente con l’oggetto della causa – argomento
di tale scelta è che lo scopo del sistema del rinvio pregiudiziale non è quello di ottenere un parere
del giudice dell’unione su questioni generali e ipotetiche, ma quello di contribuire a risolvere
una controversia effettiva e attuale.
facoltà e obbligo del rinvio
il giudice nazionale che non sia di ultima istanza ha la facoltà di sottoporre alla corte un quesito
pregiudiziale ogni volta che la risposta sia indispensabile ai fini della controversia dinanzi ad esso
pendente; quando invece si tratta di un giudice di ultima istanza (corte di cassazione, consiglio di
stato e corte costituzionale), egli ha l’obbligo di operare il rinvio - tale differenza trova giustificazione
anzitutto nella circostanza che normalmente la giurisprudenza delle corti supreme si consolida
con maggior forza e autorità; l’ulteriore giustificazione risiede nella circostanza che una pronuncia
erronea del giudice di ultima istanza comporta la lesione definitiva del diritto del singolo
conseguente alla mancata applicazione della norma dell’unione.
tuttavia, l’obbligo del rinvio pregiudiziale può venir meno in alcuni casi:
− quando la questione sia materialmente identica ad una già decisa in via pregiudiziale dalla
corte su una fattispecie analoga
− quando vi sia una giurisprudenza costante sul punto.
il rinvio pregiudiziale di validità si differenzia da quello di interpretazione sia perché ad esso non
si applicano le suddette eccezioni all’obbligo di rinvio, sia perché non solo il giudice di ultima
istanza, ma anche quello di grado inferiore è tenuto ad utilizzare il rimedio in esame nell’ipotesi
di dubbio sulla validità di una norma dell’unione, non potendone dichiarare l’invalidità – solo la
corte di giustizia, infatti, è competente a dichiarare l’eventuale illegittimità dell’atto, mentre il giudice
nazionale è legittimato soltanto a confermarne la legittimità.
conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di rinvio
individuare un rimedio per il singolo al mero rifiuto del giudice di ultima istanza di operare il rinvio
pregiudiziale quando non sia accompagnato dalla contrarietà della successiva decisione
giurisdizionale ad una norma di diritto dell’unione, appare problematico. c’è comunque da
sottolineare che la preoccupazione di incorrere in azioni risarcitorie ha spinto negli ultimi tempi gli
organi giurisdizionali di ultima istanza a incrementare notevolmente le domande pregiudiziali alla
corte di giustizia – la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, infatti, può dare origine alla
responsabilità risarcitoria degli stati membri, considerato che questi sono tenuti a risarcire i danni
causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’unione riconducibili ad organi giudiziari. a ben
vedere, però, l’inosservanza dell’obbligo pregiudiziale non è sufficiente di per sé a chiamare in
causa la responsabilità risarcitoria dello stato, in quanto non consente di dimostrare l’esistenza
delle tre condizioni sostanziali elaborate dalla corte di giustizia (norma violata preordinata a
conferire diritti ai singoli, violazione sufficientemente caratterizzata e nesso di causalità). in
particolare, l’ostacolo maggiore deriva dalla difficoltà, se non impossibilità, di provare il nesso di
causalità tra l’inadempimento dell’obbligo di rinvio pregiudiziale e danno subito, in quanto
grava sul singolo l’onere di dimostrare che l’organo giurisdizionale di ultima istanza avrebbe potuto
adottare una decisione a lui favorevole se ci fosse stato il rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia.
piuttosto, la violazione dell’art. 267 TFUE può comportate l’avvio, da parte della commissione, di
una procedura di infrazione a carico dello stato membro cui appartiene il giudice responsabile del
mancato rinvio. tuttavia, anche qui troviamo un grande limite: l’avvio di una procedura di
infrazione non è nella disponibilità dei privati, che possono soltanto sollecitare la commissione e
non impugnarne l’eventuale rifiuto o inerzia a causa della sua ampia discrezionalità.
possiamo comunque dire con certezza che nell’ipotesi di omesso rinvio di una questione
pregiudiziale alla corte di giustizia da parte di una giurisdizione nazionale di ultima istanza si
potrebbe prefigurare, ai sensi dell’art. 6 CEDU, una violazione dei diritti fondamentali ad un equo
processo e ad un giudice precostituito per legge, richiamati anche dall’art. 47 della carta dei diritti
fondamentali. ad avvalorare tale conclusione, peraltro, soccorre l’art. 19 TUE che, con specifico
riferimento al diritto fondamentale al giudice precostituito per legge, attribuisce ai giudici
dell’unione il compito di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e applicazione dei
trattati stessi.
PROCEDURA
la questione pregiudiziale può essere sollevata in ogni stato e grado di giudizio, ma spetta al giudice
interno valutare il momento più opportuno per richiedere l’intervento della corte di giustizia e
verificare che la decisione di rinvio sia stata assunta in conformità con le norme processuali
nazionali. nondimeno, le raccomandazioni rivolte dalla corte di giustizia ai giudici nazionali
suggeriscono di effettuare il rinvio pregiudiziale in una fase del procedimento in cui il giudice
sia in grado di definire con sufficiente precisione il contesto di fatto e di diritto del procedimento
principale, nonché le questioni giuridiche che esso solleva. al contempo, nell’interesse di una
corretta amministrazione della giustizia può risultare auspicabile che il rinvio venga effettuato
all’esito di un contraddittorio tra le parti, anche se ciò non costituisce un obbligo.
1. introduzione: la procedura pregiudiziale inizia dinanzi al giudice nazionale, con la sospensione del
procedimento e la rimessione di un’ordinanza alla corte di giustizia con i quesiti
(interpretazione o validità del diritto dell’unione) che richiedono una risposta ai fini della
decisione.
i requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale, oltre ad essere
richiamati nelle raccomandazioni della corte di giustizia, sono espressamente previsti dall’art. 94
del regolamento di procedura, a norma del quale ogni domanda contiene:
− un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia e dei fatti rilevanti accertati dal
giudice del rinvio o quantomeno un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si
basano le questioni
− il contenuto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e, se del vaso, la giurisprudenza
nazionale in materia
− l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi
sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’unione,
nonchè il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale
applicabile alla causa principale.
non è richiesto invece che il giudice del rinvio indichi nell’ordinanza il suo punto di vista sulla risposta
da dare alle questioni pregiudiziali, anche se tale indicazione può risultare utile alla corte, in particolare
quando essa è chiamata a decidere sulla domanda nell’ambito di un procedimento accelerato o d’urgenza.
l’ordinanza va trasmessa direttamente alla cancelleria della corte di giustizia.
2. la cancelleria provvede alla traduzione dell’ordinanza nelle lingue ufficiali e la trasmette, oltre
che alle parti, alla commissione, ad altre istituzioni dell’unione interessate e agli stati membri,
nonché non membri, nel caso di pregiudiziale su un accordo dell’unione con stati terzi
NB i soggetti appena ricordati possono presentare osservazioni scritte entro il termine di due
mesi (+ dieci giorni) e comunque partecipare all’udienza per manifestare la propria posizione
oralmente – la mancata presentazione di osservazioni scritte non ha alcuna rilevanza sulla
facoltà delle parti di partecipare all’udienza, cosi come le osservazioni presentate dalle parti
non possono incidere su quanto stabilito nell’ordinanza di rinvio del giudice nazionale né sulla
formulazione del quesito.
il giudice relatore e l’avvocato generale possono chiedere alle parti informazioni supplementari
su fatti, documento o altri elementi.
3. la fase orale non costituisce più un passaggio necessario del giudizio pregiudiziale dinanzi alla corte
di giustizia, in quanto si tende sempre più ad escluderla per accelerare i tempi di definizione
della causa. mira a consentire alla corte di perfezionare la sua conoscenza della causa mediante
l’eventuale audizione delle parti o degli interessati in occasione di un’udienza di discussione e,
eventualmente, mediante l’audizione delle conclusioni dell’avvocato generale.
4. conclusione: il dispositivo della sentenza della corte all’esito della fase deliberativa viene letto in
udienza pubblica, nella lingua di procedura – la traduzione nelle altre lingue ufficiali è
immediatamente disponibile.
della sentenza viene pubblicato il dispositivo nella gazzetta ufficiale e la cancelleria del giudice
a quo riceve copia delle conclusioni dell’avvocato generale e della sentenza.
5. effetti della sentenza: la sentenza interpretativa della corte pronunciata su rinvio pregiudiziale
vincola con tutta evidenza il giudice a quo, che dunque è tenuto a fare applicazione della norma
dell’unione cosi come interpretata dalla corte, all’occorrenza lasciando inapplicata la norma
nazionale contrastante NB tale sentenza deve essere considerata anche al di fuori del
contesto processuale che l’ha provocata proprio perché si pronuncia su punti di diritto; altri
giudici, dunque, nonché le amministrazioni nazionali, saranno tenuti a fare applicazione delle
norme cosi come interpretate dalla corte, determinando conseguentemente anche i diritti di cui i
singoli possono godere.
non è comunque esclusa la possibilità di un ulteriore rinvio pregiudiziale, vuoi per sollecitare
un ripensamento della corte sulla base di nuovi elementi o di una nuova prospettazione, vuoi
semplicemente per avere dei chiarimenti sulla pronuncia già resa.
la sentenza interpretativa obbliga anche gli altri stati membri ad adottare tutte le misure idonee
ad adeguare il proprio ordinamento alla norma di diritto dell’unione cosi come interpretata dalla
corte, pena la violazione del principio di leale collaborazione e conseguente obbligo di risarcire i
danni.
quando la corte si pronuncia nel senso della validità dell’atto dell’unione, l’effetto è strettamente
limitato al caso di specie e ai motivi specifici della censura; quando invece la corte si pronuncia
nel senso dell’invalidità dell’atto, si produce sostanzialmente lo stesso effetto di una sentenza di
annullamento ex art. 263 TFUE e dunque l’effetto della cosa giudicata sia formale che
sostanziale. l’istituzione che ha posto in essere l’atto, pertanto, potrà solo adottare un atto diverso
che tenga conto dei motivi che hanno portato la corte alla dichiarazione di invalidità.
in definitiva, pur costituendo una pronuncia incidentale, la dichiarazione di invalidità vincola
nella sostanza, oltre l’amministrazione, anche gli altri giudici dinanzi ai quali l’atto dovesse
essere ancora invocato.
procedura pregiudiziale accelerata
può essere esperita in deroga alle disposizioni del regolamento di procedura in caso di comprovata
urgenza straordinaria: viene fissata immediatamente la data d’udienza e le parti possono
presentare memorie scritte sui punti essenziali della questione pregiudiziale e partecipare
all’udienza orale; gli interessati possono depositare, entro un termine fissato dal presidente e che
non può essere inferiore a 15 giorni, memorie o osservazioni scritte; la corte statuisce sentito
l’avvocato generale.
procedimento pregiudiziale d’urgenza
può essere applicato esclusivamente nei settori del TFUE relativi allo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia. tale procedimento differisce sotto molteplici profili dalla procedura pregiudiziale classica:
− la giurisdizione nazionale che opera il rinvio deve esporre le ragioni di fatto e di diritto che
comprovano l’urgenza e giustificano l’applicazione di tale procedimento – eccezionalmente la
corte può decidere d’ufficio di sottomettere un rinvio pregiudiziale alla procedura d’urgenza.
− al fine di ridurre i termini di traduzione il diritto di depositare osservazioni scritte è riservato
solo alle parti in causa del giudizio principale, allo stato membro cui appartiene il giudice del
rinvio, alla commissione e, ricorrendone i presupposti, al consiglio e al parlamento nel caso in
cui uno dei loro atti è oggetto di causa; gli altri interessati sono autorizzati a partecipare solo alla
fase orale della procedura
− la trattazione delle cause in parola è stata affidata ad una sezione a cinque giudici,
appositamente designata; decide sentito l’avvocato generale.
PARTE SPECIALE
LIBERTA’ DI CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE E POLITICA DI
IMMIGRAZIONE
LIBERTA’ DI CIRCOLAZIONE DEI CITTADINI DEGLI STATI MEMBRI
evoluzione normativa
il riconoscimento del diritto delle persone di circolare liberamente tra gli stati membri e di
soggiornarvi ha costituito, fin dalle origini delle comunità europee, uno degli obiettivi prioritari del
processo di integrazione. infatti, il trattato CEE nel suo testo del 1957 enunciava la libertà di
circolazione delle persone come una delle quattro libertà istitutive del mercato comune, ma la
realizzazione di tale libertà è stata molto graduale e alquanto complessa.
(1) l’eliminazione dei controlli alle frontiere tra gli stati membri (c.d. frontiere interne) è risultata
assai difficile perché implicava l’esigenza di accompagnarla a misure di armonizzazione
riguardanti, tra l’altro, i visti di ingresso, il contrasto dell’immigrazione clandestina e la lotta contro
la criminalità. eliminare le frontiere interne richiede, infatti, che siano stabilite delle regole comuni
rispetto all’ingresso degli stranieri dalle frontiere esterne (quelle tra uno stato membro e uno stato
terzo).
(2) il diritto alla libera circolazione era stata attribuito in origine soltanto ai lavoratori migranti, cioè
ai cittadini degli stati membri che si spostavano in un altro stato membro per prestarvi un’attività
di lavoro – ciò rispondeva alla logica prettamente economica che aveva improntato inizialmente le
comunità europee.
(3) solo più tardi la libertà di circolazione è stata estesa ad ulteriori categorie di persone, come
studenti e turisti. tale estensione è risultata anzitutto dalla giurisprudenza della corte di giustizia,
che ha riconosciuto che il diritto di spostarsi in altri stati membri costituisce una libertà
fondamentale; inoltre, si è gradualmente affermata da parte dei governi la volontà politica di
attribuire ad ogni cittadino di uno stato membro di risiedere negli altri stati dell’unione, anche al
fine di evidenziare l’ampliamento degli obiettivi (non più solo economici) dell’integrazione europea
– tale volontà ha trovato espressione nel 1990 attraverso l’adozione di tre direttive, ora trasfuse nella
direttiva 2004/38/CE, che hanno conferito il diritto al soggiorno anche a persone che non esercitano
un’attività lavorativa (studenti, pensionati e, quando ne ricorrano le condizioni, anche coloro che
non siano beneficiari ad altro titolo delle norme del trattato sulla libertà di circolazione).
(4) un impulso determinante al fine di garantire in modo generalizzato la libertà di circolazione è
giunto dall’istituzione, con il trattato di maastricht del 1992, della cittadinanza dell’unione europea:
la libertà di circolazione viene riconosciuta infatti come un diritto che discende dallo status di
cittadino dell’unione europea*.
(5) a seguito delle modifiche apportate dal trattato di lisbona entrato in vigore nel 2009, la libertà di
circolazione viene posta al centro degli obiettivi dell’unione: all’art. 3 TUE si afferma infatti che
l’unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in
cui sia assicurata la libera circolazione delle persone; tale libertà è inoltre enunciata dalla carta dei
diritti fondamentali dell’unione europea (art. 45) che, a seguito del trattato di lisbona, ha acquisito
lo stesso valore giuridico dei trattati. occorre tuttavia ricordare che ai sensi dell’art. 52 della carta, i
diritti da essa riconosciuti per i quali i trattati prevedono disposizioni, si esercitano alle condizioni
e nei limiti dagli stessi definiti → tale libertà, benchè enunciata dall’art. 45 della carta in termini
generali, è soggetta ai limiti e alle condizioni previsti dal TFUE e dagli atti derivati.
(6) come detto precedentemente, al fine di garantire l’applicazione delle disposizioni sulla libertà di
circolazione enunciate in origine dal trattato CEE sono stati adottati vari atti normativi. attualmente
il principale di tali atti è costituito dalla già menzionata direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei
cittadini dell’unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli
stati membri; tale direttiva ha riunito in un unico strumento normativo tutte le regole concernenti
la libertà di circolazione dei cittadini dell’unione europea e ha inoltre codificato la giurisprudenza
della corte di giustizia integrando nella direttiva vari principi che la corte aveva enunciato in
sentenze rese nell’interpretazione delle disposizioni contenute nel trattato CE. pertanto, come
affermato dalla corte di giustizia, la direttiva in questione ha avuto lo scopo di semplificare e di
rafforzare il diritto di libera circolazione e soggiorno di tutti i cittadini dell’unione.
dall’applicazione delle norme sulla libertà di circolazione delle persone restano tutt’ora esclusi i
cittadini dei paesi terzi, che non beneficiano del regime di particolare favore stabilito riguardo ai
cittadini dell’unione.
la distinzione tra la situazione dei cittadini dell’unione e quella dei cittadini di stati terzi appare
molto chiaramente dalla carta dei diritti fondamentali, che prevede che la libertà di circolazione e
di soggiorno può essere accordata, conformemente ai trattati, ai cittadini dei paesi terzi che
risiedono legalmente nel territorio di uno stato membro (art. 45). tale disposizione evidenzia la
diversità di regime tra i cittadini dell’unione ai quali è riconosciuta la libertà di circolazione e i
cittadini di stati terzi ai quali l’unione può riconoscere tale libertà quando siano già regolarmente
residenti in uno stato membro.
*cittadinanza dell’unione europea e libertà di circolazione
come detto precedentemente, la libertà di circolazione costituisce un diritto riconosciuto a tutti i
cittadini dell’unione europea. in particolare, la cittadinanza dell’unione si acquista per il solo fatto
di possedere la cittadinanza di uno stato membro ed è, quindi, complementare rispetto a
quest’ultima – l’art. 20 TFUE esprime con chiarezza tale principio affermando che la cittadinanza
dell’unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce.
il diritto dell’unione europea non intende limitare la libertà degli stati membri circa l’attribuzione e
la revoca della cittadinanza: ogni stato membro mantiene, quindi, propri criteri sulla base dei quali
la cittadinanza è attribuita o revocata. tuttavia, tale libertà degli stati membri non è illimitata, poichè
deve operare, come la corte ha affermato, nel rispetto del diritto comunitario; possono dunque
essere posti dei limiti a tale libertà al fine di evitare che sia pregiudicata l’applicazione del diritto
dell’unione europea:
• prima limitazione (sentenza): qualora un soggetto possieda una doppia cittadinanza, una di uno
stato membro e una di uno stato terzo, potrà comunque beneficiare dell’applicazione delle norme
dell’unione sulla libertà di circolazione delle persone.
• seconda limitazione (sentenza): con riferimento al caso nel quale lo stato revochi la cittadinanza
al singolo che l’abbia ottenuta in modo fraudolento, la corte ha ribadito la libertà degli stati
membri e ha precisato che il giudice nazionale deve verificare se la decisione rispetti il principio
di proporzionalità per quanto riguarda le conseguenze che essa determina sulla situazione
dell’interessato in rapporto al diritto dell’unione.
peraltro, nell’enunciare il diritto di circolazione e di soggiorno del cittadino dell’unione europea,
l’art. 21 TFUE fa salve le limitazioni*** e le condizioni** previste dai trattati e dalle disposizioni
adottate in applicazione degli stessi. con particolare riferimento alle limitazioni previste dai trattati,
il TFUE consente agli stati membri di limitare l’ingresso e il soggiorno dei cittadini dell’unione per
ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica.
**condizioni per la circolazione e il soggiorno dei cittadini dell’unione europea
la direttiva 2004/38/CE riconosce a tutti i cittadini dell’unione il diritto al soggiorno per un periodo
non superiore a tre mesi senza alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di un documento di
identità; tale disposizione va coordinata con l’art. 14 della stessa direttiva nel quale si indica che i
cittadini dell’unione beneficiano del diritto di soggiorno di cui sopra finchè non diventano un onere
eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello stato membro ospitante.
per periodi superiori a tre mesi il diritto al soggiorno è riconosciuto al cittadino di uno stato membro
che:
• sia un lavoratore subordinato o autonomo nello stato membro ospitante
• segue un corso di studi o di formazione professionale e disponga di un’assicurazione malattia e
dichiari di avere risorse economiche sufficienti
• sia familiare di un cittadino dell’unione ammesso al ricongiungimento * (diritto derivante dal
diritto di libera circolazione del cittadino dell’unione).
qualora non ricorra nessuna di tali condizioni, il cittadino beneficia del diritto al soggiorno qualora
disponga di un’assicurazione malattia e di risorse economiche sufficienti; viene cosi dato rilievo alla
situazione economica del cittadino dell’unione al fine di evitare che le persone diventino, durante il
loro soggiorno, un onere eccessivo per l’assistenza sociale dello stato ospitante – la corte ha
affermato che questa disposizione mira ad evitare che i cittadini dell’unione economicamente
inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello stato membro ospitante per finanziare il
proprio sostentamento.
NB le condizioni per l’ingresso e il soggiorno devono essere interpretate in maniera restrittiva in
modo da ostacolare il meno possibile la libertà fondamentale di circolazione.
*diritto al ricongiungimento familiare
la direttiva 2004/38/CE conferisce ai familiari del cittadino dell’unione, indipendentemente dalla
loro cittadinanza, il diritto di accompagnarlo o raggiungerlo nello stato membro in cui si trasferisce:
si riconosce cosi un diritto che, pur non essendo enunciato espressamente dal trattato, ha una natura
funzionale rispetto all’esercizio della libertà di circolazione delle persone NB non ci si propone,
evidentemente, di estendere l’esercizio di tale libertà di circolazione, bensì di facilitarne l’esercizio
da parte dei cittadini di stati membri, garantendo, allo stesso tempo, il diritto fondamentale al
rispetto della vita familiare.
per “familiare” la direttiva intende:
• coniuge
• figli del cittadino dell’unione o del suo coniuge se minori di 21 anni o a carico
• ascendenti del cittadino dell’unione e del suo coniuge
• partner che abbia contratto con il cittadino dell’unione un’unione registrata sulla base della
legislazione di uno stato membro, qualora la legislazione dello stato membro ospitante equipari
l’unione registrata al matrimonio – rappresenta una novità rispetto alla normativa precedente e
la codificazione di una precedente giurisprudenza della corte. = il diritto al ricongiungimento
con il partner che abbia contratto un’unione registrata dipende, quindi, dall’assetto della
normativa nazionale dello stato nel quale il cittadino dell’unione intende soggiornare: laddove
l’unione registrata sia equiparata allo status matrimoniale dovrà essere consentito il
ricongiungimento. tale soluzione consente di evitare, conformemente all’art. 18 TFUE, una
discriminazione a danno dei cittadini di altri stati membri senza, tuttavia, incidere sulle scelte
nazionali riguardo alle relazioni familiari.
• ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, se è a carico o convive, nel paese di
provenienza, con il cittadino dell’unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se
gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell’unione lo assista personalmente; viene
incluso anche il partner con cui il cittadino dell’unione abbia una relazione stabile debitamente
attestata NB in tali casi non è posto allo stato membro l’obbligo di consentire l’ingresso, ma solo
quello di agevolarlo.
quanto alle condizioni, possiamo dire che il familiare, anche se non avente la cittadinanza di uno
stato membro, ha diritto, per un periodo non superiore a tre mesi, di accompagnare o di raggiungere
il cittadino dell’unione nello stato membro in cui quest’ultimo si sita trasferito (art. 6) – per i
soggiorni inferiori a tre mesi è esclusa qualsiasi formalità; per quelli di durata superiore, invece,
si prevede che i familiari cittadini di uno stato membro vengano iscritti, se ciò è richiesto dallo stato
membro, presso le autorità nazionali competenti ed ottengano cosi il relativo attestato di iscrizione
su semplice presentazione della carta di identità e di un documento che attesti la qualità di familiare
ammesso al ricongiungimento NB la direttiva prevede che ai familiari cittadini di uno stato membro
sia riconosciuto il diritto di soggiorno permanente qualora tale status sia stato ottenuto dal cittadino
con il quale si sono ricongiunti (art. 17) oppure quando abbiano soggiornato nello stato membro
ospitante per un periodo di almeno cinque anni.
dal momento in cui il diritto al ricongiungimento può essere esercitato anche quando il familiare
dal quale il cittadino dell’unione vuol farsi raggiungere non abbia la cittadinanza di uno stato
membro, vediamone le condizioni:
• ingresso: la direttiva 2004/38/CE chiarisce che i familiari non aventi la cittadinanza di uno stato
membro sono soggetti all’obbligo del visto – a tal proposito la direttiva richiede agli stati membri
di concerete a dette persone ogni agevolazione affinchè ottengano i visti necessari; la corte ha
peraltro affermato che, al fine di agevolare l’ingresso del familiare, il cittadino di uno stato terzo
coniugato con il cittadino di uno stato membro non può essere respinto alla frontiera qualora,
privo di un documento valido o, se necessario, di un visto, possa comunque provare la sua
identità e il legame coniugale, purchè non vi siano elementi per stabilire che rappresenti un
pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza o la sanità pubblica.
• soggiorno: la direttiva estende i limiti previsti per i cittadini degli stati membri inerenti l’ordine
pubblico, la pubblica sicurezza e la sanità pubblica anche al familiare ammesso al
ricongiungimento qualunque sia la sua cittadinanza.
in particolare, ai fini del soggiorno per un periodo inferiore a tre mesi non può essere prevista
alcuna formalità; per soggiorni superiori a tre mesi può essere richiesto il rilascio della carta di
soggiorno di familiare di un cittadino dell’unione, soggetta solo alla condizione che l’interessato
presenti il passaporto, un documento che attesti la qualità di familiare e la prova del soggiorno
nello stato membro ospitante del cittadino dell’unione che accompagna o raggiunge.
NB i familiari che non hanno la cittadinanza di uno stato membro acquistano il diritto di
soggiorno permanente dopo aver soggiornato legalmente e continuativamente per cinque anni
nello stato ospitante.
procedure relative all’ingresso e al soggiorno dei cittadini dell’unione
la direttiva 2004/38/CE detta le procedure per l’ingresso e il soggiorno di qualsiasi cittadino
dell’unione che si rechi o soggiorni in uno stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza.
• ingresso: è fatto obbligo agli stati membri di ammettere nel loro territorio il cittadino dell’unione
munito di una carta di identità o di un passaporto in corso di validità (art. 5) – tale requisito tende
evidentemente a consentire di accertare la cittadinanza della persona al fine di verificare se essa
sia titolare del diritto di ingresso NB tuttavia, nella maggioranza degli stati membri la
presentazione del documento all’ingresso non è più imposta a seguito dell’eliminazione dei
controlli alle frontiere interne – per questo motivo la direttiva, pur prevedendo il requisito del
possesso del documento di identità, non ne richiede la presentazione alla frontiera.
all’obbligo di ammissione è correlativo l’obbligo posto agli stati membri di riconoscere ai propri
cittadini il diritto di uscita dal loro territorio. in particolare, la corte ha affermato che le
disposizioni che impediscano ad un cittadino di uno stato membro di lasciare il paese d’origine
per esercitare il suo diritto di libera circolazione o che lo dissuadano dal farlo, costituiscono
ostacoli frapposti a tale libertà.
• soggiorno: la direttiva consente agli stati membri di richiedere al cittadino dell’unione europea
che soggiorni per un periodo superiore a tre mesi l’iscrizione presso le autorità competenti;
qualora l’iscrizione sia prevista, l’attestato di iscrizione deve essere rilasciato immediatamente
a condizione che il cittadino esibisca un documento di identità valido e, se soggiorna per
l’esercizio di un’attività di lavoro dipendente, una conferma di assunzione del datore di lavoro –
l’inadempimento dell’obbligo di iscrizione rende l’interessato passibile di sanzioni
proporzionate e non discriminatorie (art. 8).
la direttiva prevede inoltre un diritto di soggiorno permanente a favore di coloro che abbiano
risieduto legalmente e in via continuativa nello stato membro ospitante per almeno cinque anni:
i titolari di tale diritto possono soggiornare nello stato membro senza dover dimostrare il
possesso dei requisiti previsti ai fini dell’ottenimento dell’attestato di iscrizione.
NB in ogni caso le formalità previste ai fini del soggiorno non devono essere tali da ostacolare la
libera circolazione delle persone. in via generale, sebbene il diritto dell’unione non abbia
comunque soppresso la competenza degli stati membri ad adottare i provvedimenti atti a
consentire di essere costantemente e tempestivamente informati circa i movimenti della
popolazione sul territorio, gli obblighi posti a questo fine non devono comunque costituire un
limite alla libertà di circolazione. per questo motivo la normativa italiana che richiedeva agli
stranieri di rendere la dichiarazione di soggiorno entro soli tre giorni dall’ingresso è stata ritenuta
ingiustificatamente limitativa di tale libertà – quindi, sebbene delle misure nazionali di controllo
siano in linea di principio ammissibili, la loro compatibilità con il trattato è valutata dalla corte
alla luce del principio della proporzionalità.
***limiti all’ingresso e al soggiorno dei cittadini dell’unione
la circolazione dei cittadini dell’unione può essere limitata per motivi di ordine pubblico, pubblica
sicurezza e sanità pubblica. quando sussistano tali motivi lo stato membro può negare l’ingresso ad
un cittadino di un altro stato membro o può adottare misure limitative del soggiorno nei confronti
del cittadino già ammesso nel suo territorio. il contenuto di tali limiti è precisato nella direttiva
2004/38/CE: in particolare, mentre il limite della sanità pubblica non solleva questioni
interpretative di rilievo in quanto la direttiva indica quali malattie possono giustificare misure
restrittive, è invece alquanto problematica la definizione dei concetti di ordine pubblico e pubblica
sicurezza. occorre infatti assicurare una certa uniformità nella determinazione del significato di tali
concetti anche per evitare che un’interpretazione troppo ampia da parte di alcuni stati possa
pregiudicare la libertà di circolazione; d’altra parte occorre tuttavia lasciare una certa libertà di
apprezzamento nel valutare se la presenza di uno straniero costituisca un pericolo per la tutela
dell’ordine e della sicurezza interna dello stato stesso. la corte, per questi motivi, ha riconosciuto
l’esigenza di lasciare alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale, precisando
che la nozione di ordine pubblico varia da un paese all’altro, da un’epoca all’altra; nonostante ciò,
la giurisprudenza ha comunque fornito varie precisazioni circa il contenuto di tali nozioni dalle
quali derivano dei limiti significativi agli spazi di apprezzamento discrezionale degli stati membri:
− la corte ha anzitutto sottolineato, senza prospettare una distinzione rigorosa tra ordine pubblico
e pubblica sicurezza, il carattere eccezionale dei provvedimento restrittivi adottati sulla base di
questi motivi: il diritto alla libera circolazione può essere limitato solo se la presenza o il
comportamento dello straniero costituiscono una minaccia effettiva e abbastanza grave per
l’ordine pubblico; minaccia che deve essere attuale e deve riguardare uno degli interessi
fondamentali della collettività.
− la corte ha altresì affermato che l’ordine pubblico giustifica misure restrittive del soggiorno solo
se lo straniero abbia posto in essere un comportamento che l’ordinamento reprime anche quando
sia tenuto dal cittadino: uno stato membro non può, in forza della riserva di ordine pubblico,
allontanare dal proprio territorio un cittadino di un altro stato membro né rifiutargli l’accesso
al proprio territorio a motivo di un comportamento che, ove sia posto in essere dai suoi propri
cittadini, non dà luogo a misure repressive o ad altri provvedimenti concreti ed effettivi volti a
combatterlo – principio di non discriminazione.
NB quando sussistano le condizioni per poter adottare una misura di allontanamento lo stato
membro può, in alternativa, ricorrere a provvedimenti meno severi che costituiscano restrizioni
parziali del diritto di soggiorno, giustificati da motivi di ordine pubblico.
NB i cittadini che beneficiano del diritto di soggiorno permanente possono essere allontanati dallo
stato membro in cui soggiornano solo per gravi motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza;
coloro che abbiano soggiornato per dieci anni o siano minorenni possono essere allontanati solo per
motivi imperativi di pubblica sicurezza definiti dallo stato membro – si richiede, quindi,
un’interpretazione ancora più restrittiva delle condizioni che possono giustificare misure di
allontanamento in funzione, soprattutto, della durata del soggiorno e quindi del presumibile livello
di integrazione del cittadino nello stato ospite.
garanzie e mezzi di ricorso nei confronti di provvedimenti restrittivi dell’ingresso e del soggiorno
la direttiva 2004/38/CE impone agli stati membri di riconoscere certe garanzie a favore dello
straniero che sia sottoposto a provvedimenti di diniego dell’ingresso o restrittivi del soggiorno: in
primo luogo richiede che ogni provvedimento sia notificato per iscritto all’interessato secondo
modalità che consentano a questo di comprenderne il contenuto e le conseguenze; inoltre, il
provvedimento deve indicare in modo circostanziato e completo i motivi che giustificano l’adozione
della misura restrittiva NB a tal proposito la corte ha precisato che il provvedimento deve essere
redatto in una lingua conoscibile per lo straniero affinchè egli possa rendersi conto del suo
contenuto e dei suoi effetti e che la comunicazione dei motivi deve essere sufficientemente
dettagliata e precisa onde consentire all’interessato la difesa dei propri interessi; l’obbligo di
motivazione del provvedimento ha, infatti, un carattere funzionale rispetto al diritto di proporre
ricorso. per agevolare tale diritto il provvedimento deve altresì indicare l’organo al quale il ricorso
può essere proposto, precisando anche il termine per l’impugnazione.
la direttiva in questione richiede poi che l’interessato possa accedere ai mezzi di impugnazione
giurisdizionali e, all’occorrenza amministrativi, nello stato membro ospitante al fine di presentare
ricorso o chiedere la revisione di ogni provvedimento adottato nei suoi confronti per motivi di
ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica; in ultimo, il sistema di tutela è ulteriormente
rafforzato dalla direttiva poichè essa richiede che i mezzi di impugnazione comprendano non solo
l’esame della legittimità del provvedimento, ma anche quello dei fatti e delle circostanze che ne
giustificano l’adozione – non è perciò ammesso, come invece in precedenza, un controllo del
provvedimento limitato ai soli profili di legittimità.
dalla giurisprudenza risulta anche un limite circa gli effetti dei provvedimenti restrittivi del
soggiorno: qualora coloro che siano stati allontanati dal territorio di uno stato membro chiedano di
accedervi nuovamente, la domanda, se presentata dopo un ragionevole periodo di tempo, va
esaminata dall’autorità amministrativa competente dello stato ospitante che deve prendere in
considerazione, in particolare, le ragioni addotte dall’interessato per dimostrare il mutamento
obiettivo delle circostanze in base alle quali era stato adottato il primo provvedimento; l’autorità
competente dovrà dunque valutare se sussistano ancora, in relazione al comportamento personale
del soggetto, le condizioni di pericolosità che avevano giustificato nei suoi confronti l’adozione di
provvedimento fondati sulla tutela dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza.

CIRCOLAZIONE E TRATTAMENTO DEI LAVORATORI SUBORDINATI CITTADINI DI


STATI MEMBRI
come detto all’inizio, la principale categoria di beneficiari della libertà di circolazione prevista fin
dall’origine dai trattati istitutivi è costituita dai lavoratori dipendenti, rispetto ai quali la
giurisprudenza della corte è molto ampia e consolidata e ha enunciato principi in gran parte ormai
applicabili anche rispetto alle altre categorie di beneficiari.
l’art. 45 TFUE riconosce ai cittadini degli stati membri il diritto di spostarsi in uno stato membro
diverso da quello al quale appartengono per svolgervi un’attività di lavoro subordinato*; enuncia
inoltre il principio della parità di trattamento dei lavoratori migranti rispetto ai nazionali NB tale
principio vieta non solo le discriminazioni fondate sulla cittadinanza, bensì anche quelle indirette.
è attribuita al consiglio la competenza a svolgere l’attività normativa necessaria al fine di assicurare
l’applicazione di tali principi; attività che ha dato luogo all’adozione di vari atti normativi dei quali
sono attualmente in vigore la già citata direttiva 2004/38/CE e il regolamento 492/2011 relativo alla
libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’unione. recentemente è poi stata adottata
un’ulteriore direttiva che si propone di agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel
quadro della libera circolazione; tale nasce dalla constatazione che, nonostante gli sviluppi
normativi, l’effettivo esercizio della libera circolazione dei lavoratori non è tuttavia ancora una
realtà e molti lavoratori dell’unione spesso ignorano i loro diritti in materia di libera circolazione;
talora, inoltre, si riscontrano violazioni delle regole relative alla circolazione e al trattamento dei
lavoratori, per cui si può dire che tra la legge e la sua applicazione pratica vi è un divario che deve
essere affrontato. la direttiva che gli stati membri hanno dovuto attuare nel 2016 richiede l’adozione
di strumenti volti ad assicurare una tutela efficace dei diritti dei lavoratori migranti anche mediante
l’istituzione, in ciascuno stato membro, di organi per la promozione, l’analisi, il controllo e il
sostegno della parità di trattamento dei lavoratori dell’unione e dei loro familiari, senza
discriminazioni fondate sulla nazionalità né restrizioni.
nell’interpretazione delle disposizioni sulla circolazione dei lavoratori enunciate dal trattato e dagli
atti derivati è stato determinante l’apporto della corte di giustizia che ne ha valorizzato gli effetti e
inteso in modo ampio il contenuto. la corte, infatti, ha affermato che la libertà di circolazione dei
lavoratori costituisce una libertà fondamentale del diritto comunitario: le disposizioni che la
enunciano devono perciò essere interpretate estensivamente, mentre le deroghe all’applicazione
della stessa libertà devono essere intese in modo restrittivo.
*nozione di lavoratore dipendente
nell’applicazione delle disposizioni del trattato che concernono i lavoratori è stato anzitutto
necessario chiarire il significato di tale nozione. in particolare, la corte di giustizia ha ritenuto che la
nozione di lavoratore subordinato debba essere definita, ai fini dell’esercizio della libertà di
circolazione enunciata dal trattato, sulla base di criteri propri del diritto dell’unione e non secondo
il significato che tale nozione ha nei diversi stati membri – altrimenti, ciascuno stato potrebbe
modificare la portata della nozione di lavoratore migrante ed escludere a suo piacimento
determinate categorie di persone dalle garanzie offerte dal trattato.
la corte ha perciò fornito una definizione comunitaria precisando che, ai fini dell’applicazione del
trattato, si è in presenza di lavoro subordinato quando una persona compie, durante un certo tempo,
a favore di un’altra e sotto la direzione di questa, prestazioni in corrispettivo delle quali le spetta
la retribuzione. anche il lavoro a tempo parziale rientra nell’applicazione delle norme del trattato a
meno che si tratti di attività talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed accessorie;
cosi come il cittadino di uno stato membro che si reca in un altro stato membro al fine di ricercare**
un’attività lavorativa – in questo caso tuttavia il cittadino potrà beneficiare del principio della parità
di trattamento solo per l’accesso al lavoro, mentre non ha diritto, fino a quando non avrà iniziato a
svolgere un’attività lavorativa, agli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali / vi sono
poi particolari attività e situazioni per cui la riconducibilità alla nozione di lavoro subordinato è
apparsa dubbia: tirocinio durante il quale si forniscono delle prestazioni e si ottenga una
retribuzione; abbandono della propria attività per dedicarsi agli studi, purchè vi sia una certa
relazione tra il lavoro subordinato in precedenza svolto e gli studi intrapresi. in una sentenza la
corte ha ritenuto che anche l’esercizio di un’attività sportiva rientri nel campo di applicazione delle
disposizioni sulla circolazione dei lavoratori subordinati quando sia configurabile come attività
economica ai sensi dell’art. 2 del trattato; le disposizioni in esame, inoltre, trovano applicazione
anche al settore dei trasporti marittimi: la corte ha infatti precisato che un lavoratore che abbia
prestato attività su una nave avente la nazionalità di uno stato membro diverso da quello al quale
appartiene è soggetto all’applicazione delle norme comunitarie dal momento che, in tal caso, il
rapporto di lavoro presenta un nesso abbastanza stretto con il territorio dello stesso stato membro.
è stato poi precisato che vi sono casi particolari previsti dalla direttiva 2004/38/CE in cui il cittadino
dell’unione che abbia cessato di esercitare un’attività lavorativa non perde la qualità di lavoratore
qualora ricorrano certe circostanze: temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia o
di un infortunio, disoccupazione involontaria e frequenza di un corso di formazione professionale;
la corte ha ritenuto che tale elenco non abbia carattere esaustivo e perciò ha tratto direttamente dal
principio della libertà di circolazione dei lavoratori enunciato dall’art. 45 TFUE la conseguenza che
una donna che smetta di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate
alle ultime fase della gravidanza e al periodo successivo al parto, conserva la qualità di lavoratore
ai sensi di tale articolo, purchè essa riprenda il suo lavoro o trovi un altro impiego entro un
ragionevole periodo di tempo dopo la nascita di suo figlio / la corte ha invece escluso che possano
rientrare nella definizione di lavoro subordinato le occupazioni che non costituiscono attività
economiche reali ed effettive nonché le attività lavorative che costituiscono solo un metodo di
rieducazione o di reinserimento sociale.
**situazione delle persone in cerca di occupazione
il TFUE enuncia, come già in precedenza il trattato CE, la libertà di circolazione dei lavoratori
indicando che questa implica il diritto di rispondere ad offerte di lavoro effettive. sulla base di
questa formulazione, il diritto poteva intendersi come diretto a consentire l’ingresso soltanto a
coloro che fossero già in possesso di un’offerta di lavoro; nella normativa derivata esso è stato invece
inteso come comprensivo del diritto di spostarsi per ricercare un’occupazione – e anche la
giurisprudenza ha accolto una tale interpretazione estensiva.
la direttiva 2004/38/CE riconosce il diritto di soggiorno a favore del cittadino dell’unione che, dopo
aver esercitato un’attività lavorativa, si trovi in stato di disoccupazione involontaria e sia iscritto
presso l’ufficio di collocamento – infatti, come sopra indicato, il lavoratore che abbia smesso di
esercitare la sua attività mantiene, in certi casi, tale qualifica. la direttiva non contiene, invece, una
specifica disciplina relativa al soggiorno di coloro che ricercano una prima occupazione – non si
considera cioè la situazione di un cittadino di uno stato membro che si sia recato in un altro stato
membro per ricercare un lavoro e, dopo un certo periodo di tempo, non lo abbia trovato. a tale
proposito la corte di giustizia ha affermato in una sentenza che un termine di sei mesi previsto da
una normativa nazionale ai fini della ricerca di un impiego non è in via di principio insufficiente
poichè esso non pregiudica l’effetto utile del principio di libera circolazione; tuttavia, se trascorso
tale termine l’interessato fornisce la prova di continuare a cercare un impiego e di avere delle
effettive possibilità di essere assunto, non potrà essere costretto a lasciare il territorio dello stato
membro in cui si trova. la pronuncia non chiarisce però come possa essere valutato se il cittadino
abbia delle “effettive possibilità” di assunzione, lasciandosi cosi uno spazio discrezionale molto
ampio agli stati membri; tuttavia, in una sentenza successiva, la corte ha precisato che il diritto al
soggiorno al fine di ricercare un’occupazione viene comunque meno quando sia dimostrato che
l’interessato si trovi nell’impossibilità oggettiva di ottenere un posto di lavoro – ciò sembra
restringere l’apprezzamento delle effettive possibilità di assunzione alle sole ipotesi nelle quali il
cittadino non sia in condizione, per ragioni oggettive, di esercitare un’attività lavorativa.
accesso al lavoro
la libera circolazione comporta, secondo l’art., 45 TFUE, l’abolizione di qualsiasi discriminazione
fondata sulla nazionalità per quanto riguarda l’impiego e il diritto di rispondere ad offerte di lavoro
effettive in altri stati membri → riguardo all’accesso al lavoro deve perciò essere garantita al
cittadino di un altro stato membro una situazione di parità rispetto ai lavoratori nazionali.
in particolare, il regolamento 492/2011 con il quale è data applicazione alle norme del trattato,
precisa che il principio di non discriminazione comporta l’inapplicabilità delle disposizioni o prassi
di uno stato membro che limitino o subordino l’accesso al lavoro a condizioni non previste per i
nazionali; la norma, conformemente a quanto già risultava dalla giurisprudenza della corte, estende
il divieto anche alle discriminazioni indirette precisando che questo si applica alle normative che,
sebbene applicabili senza distinzione di nazionalità, abbiano per scopo o per effetto di escludere i
cittadini degli altri stati membri dall’impiego offerto.
inoltre, al fine di favorire la circolazione dei lavoratori, l’art. 46 TFUE prevede che debbano essere
stabiliti meccanismi idonei a mettere in contatto le offerte e le domande di lavoro e a facilitarne
l’equilibrio; opera al riguardo un meccanismo (c.d. meccanismo di compensazione) fondato
essenzialmente sulla trasmissione, da parte degli uffici competenti di ciascuno stato membro, di
informazioni relative alla domanda e offerta di impieghi e sul ruolo dell’ufficio europeo di
coordinamento incaricato di favorire il contatto tra le domande e le offerte di impiego.
limiti all’accesso al lavoro: l’eccezione degli impieghi nella pubblica amministrazione
gli impieghi nella pubblica amministrazione vengono esclusi, ai sensi dell’art. 45 TFUE,
dall’applicazione delle norme dell’unione sulla circolazione dei lavoratori. si vuole cosi consentire
agli stati membri di evitare che l’attività della pubblica amministrazione sia condotta da stranieri;
tale finalità induce ad un’interpretazione restrittiva della disposizione che non deve essere riferita,
come la sua formulazione letterale lascerebbe intendere, alla totalità degli impieghi nella pubblica
amministrazione, ma permette di escludere gli stranieri soltanto dall’esercizio di attività che lo stato
abbia uno specifico interesse a riservare ai propri cittadini.
la corte ha anzitutto chiarito che la nozione di pubblica amministrazione deve essere interpretata
ed applicata in modo uniforme nell’intera comunità e ha per questo enunciato i criteri che devono
essere a tal fine seguiti; interpretando la disposizione alla luce delle sue finalità, la corte ha affermato
che la circostanza che un impiego rientri nell’ambito della deroga dipende da se i posti di cui trattasi
siano o no caratteristici delle attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto
incaricata dell’esercizio di pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello
stato: la deroga, quindi, consente di escludere lo straniero soltanto dagli impieghi che implichino
l’esercizio di pubblici poteri.
la corte ha, di recente, ulteriormente ristretto la portata della deroga prevedendo che certi posti
possono essere riservati ai cittadini solo a condizione che i poteri d’imperio attribuiti vengano
effettivamente esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta delle loro
attività: non possono quindi essere precluse in via generale ai cittadini di altri stati membri delle
attività che implicano l’esercizio di un pubblico potere quando tale potere costituisca una parte
molto limitata e occasionale dell’attività in questione.
al fine di agevolare l’individuazione da parte degli stati membri dell’ambito della deroga, la
commissione ha elencato in una comunicazione certi settori della pubblica amministrazione (forze
armate, polizia, forse dell’ordine, magistratura, amministrazione finanziaria e diplomazia) che
rientrano comunque nella deroga prevista dal trattato; in settori diversi soltanto l’esercizio di
particolari funzioni può giustificare il ricorso alla deroga.
occorre precisare, inoltre, che l’art. 45 TFUE consente di escludere gli stranieri dall’accesso alla
pubblica amministrazione, ma non permette di riservare loro un trattamento discriminatorio
rispetto ai nazionali una volta che l’accesso ad un impiego nella pubblica amministrazione sia stato
consentito; tuttavia può essere preclusa la progressione della carriera allo straniero qualora le
funzioni di livello più elevato che egli dovrebbe svolgere implichino l’esercizio di pubblici poteri.
in ultimo, aggiungiamo che limitazioni all’accesso al lavoro possono essere ammesse per ragioni di
sicurezza dello stato nonché, ai sensi del regolamento 492/2011, le conoscenze linguistiche –
prevede infatti che il principio di parità nell’accesso al lavoro non concerne le condizioni relative
alle conoscenze linguistiche richieste in relazione alla natura dell’impiego offerto.
trattamento dei lavoratori
l’art. 45 TFUE sancisce l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità non solo
per l’accesso all’impiego, ma anche per quanto riguarda la retribuzione e le altre condizioni di
lavoro; tale norma è espressione del già ricordato principio generale del diritto dell’unione europea
che vieta ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità nel campo di applicazione dei
trattati. nel particolare settore del lavoro subordinato il divieto di discriminazioni nei confronti dei
lavoratori di altri stati membri risponde, oltre che a finalità di carattere sociale, anche ad una
funzione di tutela del mercato nazionale del lavoro: si vuole infatti evitare che la possibilità di
riservare un trattamento meno favorevole ai migranti ne possa rendere più conveniente
l’assunzione, pregiudicando cosi l’occupazione dei lavoratori nazionali.
il regolamento 492/2011 precisa il contenuto del principio di non discriminazione indicando che il
lavoratore cittadino di uno stato membro non può ricevere nel territorio degli altri stati membri, a
motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quello dei lavoratori nazionali per
quanto concerne le condizioni di impiego e di lavoro, in particolare in materia di retribuzione,
licenziamento, reintegrazione professionale i ricollocamento se disoccupato – la circostanza che il
regolamento menzioni “in particolare” alcuni aspetti del trattamento non comporta che il principio
debba applicarsi soltanto alle fattispecie espressamente considerate.
il divieto di discriminazione opera anche riguardo alla durata del rapporto di lavoro: la corte ha
chiarito che il trattato osta alla normativa di uno stato membro che limiti nella generalità dei casi ad
un anno, con possibilità di rinnovo, la durata dei contratti di lavoro dei lettori di lingua straniera,
mentre una tale limitazione non esiste, in via di principio, per quanto riguarda gli insegnanti. in
particolare, l’orientamento seguito dalla corte ha dato luogo ad una discriminazione a rovescio: la
normativa dell’unione impone di modificare la durata dei contratti concernenti i cittadini di altri
stati membri, ma non richiede di modificare la normativa interna che stabilisce una limitazione di
durata nei confronti dei lettori di cittadinanza italiana – dal diritto dell’unione deriva perciò
l’esigenza di accordare un trattamento più favorevole ai cittadini di altri stati membri rispetto a
quello riservato ai nazionali.
rispetto al calcolo della retribuzione o della pensione di anzianità, la corte ha affermato che l’art. 45
TFUE richiede che uno stato tenga conto, dei periodi di servizio che un pubblico dipendente abbia
compiuto nell’amministrazione di un altro stato membro – i periodi di lavoro in altri stati membri
devono perciò essere considerati nello stesso modo di quelli svolti nello stato nel quale lo straniero
è occupato, al fine di non ostacolare la libertà di circolazione.
con riguardo all’esercizio dei diritti sindacali da parte del lavoratore migrante, il regolamento
492/2011 enuncia il principio della parità di trattamento sia per l’iscrizione alle organizzazioni
sindacali e l’esercizio dei diritti sindacali, vii compreso il diritto di voto, sia per l’eleggibilità negli
organi di rappresentanza dei lavoratori nell’impresa. il regolamento pone, tuttavia, un limite
all’attività sindacale indicando che lo straniero può essere escluso dalla partecipazione alla gestione
degli organismi di diritto pubblico e dall’esercizio di una funzione di diritto pubblico; la corte,
accogliendo un orientamento analogo a quello seguito nell’interpretazione nella nozione di
impieghi nella pubblica amministrazione, ha interpretato tale disposizione nel senso che essa
consente soltanto di escludere eventualmente i lavoratori degli altri stati membri da talune attività
che implicano la partecipazione al pubblico potere.

POLITICA DELL’IMMIGRAZIONE
l’unione europea ha sviluppato una politica dell’immigrazione rivolta ai cittadini dei paesi terzi: ha
adottato numerosi atti normativi che riguardano un’ampia serie di aspetti tra i quali i requisiti per
l’ingresso e il soggiorno di certe categorie di stranieri, il riconoscimento dello status di rifugiato e di
altre forme di protezione internazionale nonché le modalità per il rimpatrio degli immigrati che si
trovano in condizione irregolare.
tale politica ha trovato un fondamento a seguito delle modifiche introdotte con il trattato di
amsterdam, entrato in vigore nel 1999: ha infatti posto le basi per la realizzazione della politica
dell’immigrazione conferendo all’unione le necessarie competenze normative; con il trattato di
lisbona si è poi rafforzato tale obiettivo prospettando la realizzazione di una vera e propria politica
comune dell’immigrazione (art. 79 TFUE). su queste basi si sono realizzati importanti sviluppi
normativi, anche se la realizzazione di una politica comune incontra ancora oggi rilevanti difficoltà,
soprattutto nel garantire che gli oneri dell’accoglienza dei migranti e in particolare dei richiedenti
asilo, siano condivisi tra tutti gli stati membri.
evoluzione normativa
tra gli obiettivi dell’unione figura quello di offrire ai suoi cittadini uno spazio senza frontiere interne
all’interno del quale sia consentito circolare liberamente. le disposizioni volte a realizzare
l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne all’unione sono contenute nel titolo V del TFUE
intitolato spazio di libertà, sicurezza e giustizia, espressione con cui si intende enunciare in modo
sintetico l’obiettivo perseguito da un insieme di regole concernenti non solo la libera circolazione
delle persone, ma anche la cooperazione tra le autorità di polizia e amministrative nonché la
cooperazione giudiziaria in materia sia civile che penale. si muove, infatti, dal presupposto che alla
realizzazione della libera circolazione delle persone si accompagni l’esigenza di approntare
strumenti idonei a combattere la criminalità (che può essere favorita dall’assenza di controlli alle
frontiere interne) e a facilitare la collaborazione tra le autorità amministrative e giudiziarie. l’art. 67
TFEU delinea perciò una varietà di obiettivi che consistono, oltre che nell’eliminazione dei controlli
alle frontiere interne*, anche nello sviluppo di una politica comune concernente l’asilo e
l’immigrazione e nell’adozione di misure di prevenzione e di lotta contro la criminalità, il razzismo
e la xenofobia.
nel perseguire tali obiettivi il trattato indica che devono essere rispettati di diritti fondamentali.
benchè l’esigenza di conformità a tali diritti già derivi in via generale dalla carta dei diritti
fondamentali, le cui disposizioni si rivolgono in gran parte anche agli stranieri, e dai principi
generali enunciati dalla corte di giustizia, è significativo che ciò sia ribadito in relazione alle
specifiche disposizioni sull’immigrazione a motivo della particolare incidenza che queste possono
avere sui diritti fondamentali delle persone; il TFUE richiede inoltre che nello sviluppo della politica
dell’immigrazione siano assicurati la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei
cittadini di stati terzi regolarmente soggiornanti, nonché la prevenzione e il contrasto
dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani. un criterio generale è altresì enunciato
dall’art. 80 che prevede che le politiche dell’unione relative all’asilo, alle frontiere e all’immigrazione
devono essere governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra
gli stati membri, anche sul piano finanziario.
*il TFUE specifica l’obiettivo dell’eliminazione delle frontiere interne attribuendo all’unione la
competenza a sviluppare una politica volta a garantire l’assenza di qualsiasi controllo sulle
persone, a prescindere dalla nazionalità, all’atto dell’attraversamento delle frontiere interne (art.
77). tale disposizione evidenzia con chiarezza che i controlli alle frontiere interne dell’unione
devono essere eliminati rispetto a tutte le persone - a motivo di questa esigenza, la realizzazione
della libertà di circolazione delle persone ha presentato difficoltà certamente maggiori rispetto a
quelle che hanno accompagnato il riconoscimento di altre libertà enunciate dal trattato. infatti,
l’eliminazione dei controlli rispetto ai cittadini di stati terzi presuppone che siano stabilite delle
norme comuni o quanto meno armonizzate riguardo all’attraversamento, da parte degli stessi, delle
frontiere esterne: soltanto stabilendo dei controlli di pari efficacia alle frontiere esterne di tutti gli
stati membri, questi ultimi possono essere disposti ad accettare che il cittadino di uno stato terzo,
entrato in un qualsiasi altro stato membro, possa poi liberamente fare ingresso nel loro territorio NB
è comunque consentito, qualora ricorrano determinate condizioni e nel rispetto di particolari
procedure, il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne; tra le ragioni che giustificano
il ripristino figura la presenza di circostanze eccezionali in cui il funzionamento globale dello spazio
senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio a seguito di carenza gravi e persistenti nel
controllo di frontiera alle frontiere esterne.
(1) rispetto all’armonizzazione dei controlli alle frontiere esterne i progressi sono stati molto lenti a
causa principalmente della riluttanza di alcuni stati membri ad attribuire alla comunità delle
competenze riguardo all’ingresso e al soggiorno di cittadini di stati terzi. per superare tale
situazione, certi stati membri hanno preferito procedere a livello intergovernativo, al di fuori
dell’ambito comunitario: ciò si è tradotto nel 1990 nella conclusione della convenzione di
applicazione dell’accordo di schengen. in origine vi partecipavano solo la francia, la germania e i
tre paesi del benelux, ma vi hanno via via aderito tutti gli stati allora membri della comunità ad
eccezione del regno unito e dell’irlanda. con la convenzione si è prevista l’abolizione dei controlli
sulle persone alle frontiere tra gli stati parti, stabilendo principi uniformi per il controllo delle
frontiere esterne ed enunciando i presupposti comuni per l’ingresso dei cittadini di stati terzi per
periodi di soggiorno non superiori a tre mesi.
(2) a livello dell’unione, invece, solo con il trattato di amsterdam del 1997 sono state attribuite alla
comunità ampie competenze in materia di immigrazione; inoltre, tale trattato ha provveduto a
ricondurre nell’ambito dell’unione europea le regole che alcuni stati membri, come detto, aveva
concordato al di fuori di essa attraverso la convenzione di schengen. è stato possibile raggiungere
tale risultato grazie all’orientamento generale improntato alla flessibilità che è stato seguito nelle
negoziazioni del trattato di amsterdam: si è consentito a tre stati membri (regno unito, irlanda e
danimarca) di non accettare il trasferimento di competenze in materia di immigrazione.
(3) le misure necessarie per eliminare i controlli alle frontiere interne dovevano essere in gran parte
adottate entro il termine di cinque anni dall’entrata in vigore del trattato di amsterdam; al fine di
raggiungere tale obiettivo sono stati adottati vari programmi di azione e atti normativi: in
particolare, il consiglio europeo straordinario di tampere tenutosi nel 1999 aveva indicato le linee di
sviluppo di tale attività normativa nei c.d. capisaldi di tampere. tuttavia, muovendo dalla
constatazione che non tutti gli obiettivi erano stati realizzati, il consiglio europeo ha adottato, nel
2004, un nuovo programma (programma dell’aia) e nel 2008 il c.d. patto sull’immigrazione e l’asilo,
che ha espresso la volontà, poi prevista nel TFUE a seguito delle modifiche introdotte dal trattato di
lisbona, di realizzare una politica comune dell’immigrazione.
tale politica è attualmente in corso di progressiva realizzazione e ha portato recentemente
all’adozione di vari atti normativi.
regime applicabile ai cittadini di stati terzi
normativa sull’ingresso
l’art. 79 TFUE prevede che l’unione sviluppi una politica comune in materia di immigrazione.
benchè le specifiche competenze attribuite all’unione in tale materia non differiscano in modo
sostanziale da quelle che erano previste dal trattato CE, l’articolo in questione, enunciando il nuovo
obiettivo di una politica comune, prospetta certamente un livello di integrazione più forte di quanto
in precedenza stabilito.
tra le competenze attribuite all’unione vi è quella di determinare le condizioni alle quali è consentito
l’ingresso di cittadini di stati terzi alle frontiere esterne degli stati membri per soggiorni di lunga
durata: anzitutto spetta all’unione stabilire l’elenco dei paesi terzi i cui cittadini devono essere in
possesso del visto di ingresso per l’attraversamento delle frontiere esterne, nonché predisporre un
modello uniforme di visto. le varie normative concernenti i visti sono state integrate in un
regolamento che detta delle regole procedurali per la concessione dei visti, dunque armonizzate; lo
stesso, tuttavia, non si può dire con riguardo ai requisiti per l’ottenimento del visto in ingresso,
rispetto ai quali sono state adottate normative che concernono solo categorie particolari di stranieri:
studenti, lavoratori altamente qualificati e quelli trasferiti temporaneamente in sedi di altri stati
membri della stessa società multinazionale da cui dipendono, lavoratori stagionali e familiari degli
immigrati. mancano, è evidente, normative di armonizzazione concernenti l’aspetto di maggiore
rilevanza, cioè quello relativo alle condizioni che consentono in via generale l’ottenimento di un
visto di ingresso per motivi di lavoro. peraltro, sulla base delle modifiche introdotte dal trattato di
lisbona, il TFUE pone un limite alla competenza dell’unione stabilendo che le disposizioni del
trattato non incidono sul diritto degli stati membri di determinare il volume di ingresso nel loro
territorio dei cittadini di paesi terzi allo scopo di cercarvi un lavoro indipendente o autonomo - ciò
manifesta con evidenza le resistenze degli stati membri nello stabilire una politica comune
dell’immigrazione riguardo all’ingresso dei lavoratori di stati terzi.
normativa sul soggiorno
in merito al soggiorno dei cittadini di stati terzi il TFUE attribuisce all’unione la competenza a
stabilirne le condizioni, nonché ad adottare le norme sul rilascio da parte degli stati membri di visti
e di titoli di soggiorno di lunga durata, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento
familiare.
nell’esercizio delle analoghe competenze in precedenza conferite dal trattato CE, è stata adottata
una direttiva di notevole rilievo ai fini della tutela dei diritti dei cittadini di stati terzi che
soggiornano in uno stato membro: si è infatti stabilito, con la direttiva 2003/19/CE, uno status di
particolare favore per i cittadini di pesi terzi che siano residenti di lungo periodo, cioè che abbiano
soggiornato legalmente ed ininterrottamente per almeno cinque anni nel territorio di uno stato
membro; per ottenere lo status il richiedente deve altresì dimostrare di possedere risorse stabili e
regolari, sufficienti anche per il sostentamento dei familiari, e di disporre di un’assicurazione
malattia. in particolare, ai soggiornanti di lungo periodo è rilasciato un permesso di soggiorno
valido per almeno cinque anni, automaticamente rinnovabile, ed essi possono essere espulsi solo se
costituiscono una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica
sicurezza – motivi per cui il riconoscimento dello status in questione può essere rifiutato ab origine
NB sotto il profilo del trattamento, la loro condizione è tendenzialmente assimilata a quella dei
cittadini dell’unione europea che risiedono in uno stato membro diverso da quello di appartenenza:
parità di trattamento rispetto ai nazionali.
normativa sul trattamento dei lavoratori di stati terzi
una competenza più specifica in relazione ai lavoratori è prevista dall’art. 153 TFUE in base al quale
l’unione sostiene e completa l’azione degli stati membri riguardo alle condizioni di impiego dei
cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell’unione; tuttavia, ad oggi non
sono ancora stati adottati atti normativi fondati su tale disposizione. alcune regole relative al
trattamento dei cittadini di stati terzi si riscontrano in varie fonti normative: in primo luogo si
prevede il principio della parità di trattamento rispetto ai nazionali; in secondo luogo, la direttiva
2011/98/UE ha previsto che in relazione a varie condizioni di lavoro i cittadini di stati terzi ammessi
a svolgere regolarmente un’attività in uno stato membro beneficiano dello stesso trattamento
riservati ai cittadini dello stato membro in cui soggiornano; ulteriore realizzazione rilevanti
concerne poi la sicurezza sociale: un regolamento ha infatti esteso ai lavoratori di paesi terzi
regolarmente occupati in uno stato membro l’applicazione dei regolamenti in materia di sicurezza
sociale applicabili ai cittadini dell’unione; si vuole cosi concedere ai lavoratori di stati terzi un
insieme di diritti uniformi quanto più possibile analoghi a quelli di cui godono i cittadini
dell’unione europea.
normativa sul rimpatrio
l’art. 79 TFUE prevede che siano adottate normative sull’immigrazione e sul soggiorno irregolari,
compresi l’allontanamento e il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare. riguardo tali
normative si pone l’esigenza che sia assicurato il rispetto degli obblighi derivanti da convenzioni
vincolanti per gli stati membri: protocollo n. 7 della convenzione europea dei diritti dell’uomo e art.
13 del patto delle nazioni unite sui diritti civili e politici che richiedono agli stati di consentire allo
straniero ammesso al soggiorno di far valere le ragioni che si oppongono alla sua espulsione; inoltre,
alcuni limiti all’espulsione derivano dalla tutela dei diritti fondamentali enunciati dalla carta e dalla
convenzione europea dei diritti dell’uomo che, come interpretata dagli organi della convenzione,
non consente l’espulsione quando questa comporti una violazione del diritto alla tutela della vita
privata e familiare e vieta l’espulsione verso uno stato nel quale lo straniero potrebbe essere
sottoposto a trattamenti proibiti dalla convenzione stessa.
nell’esercizio di tale competenza sono state adottate sia alcune misure di carattere essenzialmente
organizzativo nell’ambito delle quali svolge un ruolo rilevante l’agenzia frontex, sia una direttiva
sul rimpatrio. in particolare quest’ultima, pur lasciando un ampio spazio discrezionale agli stati
membri, si propone di stabilire alcune regole comuni in materia di rimpatrio dei cittadini di stati
terzi che si trovano in situazione irregolare: senza incidere sulla libertà di ciascuno stato membro di
stabilire le condizioni che consentono allo straniero di soggiornare nel rispettivo territorio, la
direttiva prevede che in via di principio tutti gli stranieri in situazione irregolare debbano essere
rimpatriati. a tal fine gli stati membri devono anzitutto consentire allo straniero di partire
volontariamente entro un certo termine; qualora lo straniero non si allontani volontariamente entro
il termine previsto, lo stato membro può adottare le misure necessarie affinchè sia eseguita la
decisione di rimpatrio. inoltre, lo stato membro può, in attea di provvedere al rimpatrio, disporre il
trattenimento del cittadino dello stato terzo in un centro di permanenza temporanea, qualora non
siano applicabili misure meno coercitive – nell’interpretare tale disposizione la corte di giustizia ha
affermato che il trattamento ai fini dell’allontanamento può essere mantenuto solo per il tempo
necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio, purchè sia necessario ad
assicurare che l’allontanamento sia eseguito; inoltre, quando il periodo massimo di trattenimento
è scaduto, la direttiva non consente di trattenere ulteriormente l’interessato per il fatto che questi
tiene un comportamento aggressivo e non dispone di mezzi di sussistenza propri né di un alloggio
o di mezzi forniti dallo stato membro a tal fine.
la direttiva prevede altresì alcune garanzie di carattere procedurale in relazione alla decisione di
rimpatrio: oltre all’obbligo della forma scritta e della traduzione della decisione in una lingua
comprensibile dallo straniero o che si può ragionevolmente supporre tale, è previsto che lo straniero
deve poter disporre di mezzi di ricorso effettivi di fronte all’autorità giudiziaria, amministrativa o
ad un altro organo imparziale e indipendente.
diritto di asilo e gli istituti della protezione temporanea e sussidiaria
l’art. 78 TFUE attribuisce all’unione europea la competenza a sviluppare una politica comune in
materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea; l’art. 78 TFUE attribuisce
all’unione anche la competenza a stabilire norme sia sull’accoglienza dei richiedenti asilo e
protezione sia sulle procedure per l’attribuzione e la revoca dello status di rifugiato: in attuazione
delle disposizioni in precedenza enunciate dal trattato CE che prevedevano però solo l’adozione di
norme minime, erano state adottate riguardo all’asilo tre direttive che sono state sostituite da nuovi
atti normativi dopo l’entrata in vigore del trattato di lisbona; direttive che affrontano diversi aspetti
della disciplina dell’asilo: stabiliscono infatti norme sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di
persona altrimenti bisognosa di protezione, sull’accoglienza dei richiedenti asilo e sulle procedure
applicate negli stati membri al fine del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
• asilo: la carta dei diritti fondamentali richiede che il diritto di asilo sia garantito conformemente
alle stesse fonti internazionali ed enuncia il principio del non-refoulement secondo il quale nessuno
può essere allontanato, espulso o estradato verso uno stato in cui esiste un rischio serio di essere
sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.
• protezione sussidiaria: forma di tutela complementare rispetto a quella derivante dal
riconoscimento dello status di rifugiato. il carattere integrativo di tale protezione rispetto a quella
offerta sulla base della convenzione di ginevra è reso ben evidente in quanto si prevede che la
protezione in questione sia concessa a chi non possieda i requisiti per essere riconosciuto come
rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese
di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno – nell’interpretare l’analoga
disposizione della precedente direttiva, la corte ha affermato che affinchè sia provata l’esistenza
di tale rischio non è necessario che il richiedente fornisca la prova di essere specifico oggetto di
minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale; tale condizione sussiste
anche quando durante un conflitto armato vi sia un grado di violenza indiscriminata tale da far
ritenere che un civile rientrano nel paese in questione, o se del caso, nella regione in questione,
correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire
la detta minaccia.
• protezione temporanea: deve essere garantita agli sfollati, espressione con cui si designano
coloro che, pur non rientrando nella definizione di rifugiato di cui alla convenzione di ginevra,
siano ritenuti comunque meritevoli di protezione in ragione di fenomeni (conflitti o calamità
naturali) che li costringono a lasciare lo stato terzo di appartenenza.
LIBERTA’ DI STABILIMENTO
premessa
nell’impianto sistematico del TFUE il nomen di libertà di circolazione dei lavoratori è riservato ai
soli lavoratori subordinati; al contrario, la disciplina della libertà di circolazione del lavoratore
autonomo o indipendente è dettata con riferimento al duplice tipo di collegamento che il cittadino
proveniente da uno stato membro instaura con il territorio del diverso stato membro in cui esercita
o verso il quale dirige i risultati della propria attività e, formalmente, non è espressamente dedicata
alle persone che ne fruiscono (i lavoratori), ma alle libertà di per sé considerate e disciplinate: diritto
di stabilimento e prestazione di servizi. in particolare, mentre le norme sul diritto di stabilimento
disciplinano il diritto dei cittadini di un paese membro di svolgere la loro attività indipendente, in
modo continuativo e tendenzialmente permanente, all’interno del territorio di un diverso stato
membro nel quale hanno dislocato la propria attività produttiva in modo, appunto, stabile, quelle
sulla libera prestazione di servizi hanno ad oggetto il diritto del cittadino dell’unione di esercitare
la propria attività in uno stato membro o verso uno stato membro diverso da quello in cui è
stabilito in modo permanente.
evoluzione normativa
l’abolizione delle restrizioni frapposte dagli stati all’esercizio del diritto di stabilimento doveva
essere realizzata gradualmente e presupponeva, almeno nelle intenzioni originarie, l’intervento
attivo delle istituzioni al fine di eliminare per via normativa i principali ostacoli esistenti.
(1) il trattato CEE prevedeva, in modo analogo a quanto disposto per la libera circolazione dei
lavoratori, sia il divieto per gli stati di introdurre nuove restrizioni allo stabilimento, sia l’adozione
di un programma generale, da emanare entro la fine della prima tappa del periodo transitorio,
attraverso il quale fissare, per le singole categorie di attività, le condizioni generali per l’attuazione
della libertà di stabilimento e in particolare le tappe di tale attuazione.
(2) il programma generale fu adottato nel 1961, ma le direttive di attuazione non intervennero con
la sollecitudine e la completezza auspicate dal trattato. nonostante il carattere apparentemente
programmatico delle norme del trattato CEE, tale per cui l’adozione delle direttive di attuazione
sembrava necessaria per concretizzare gli obblighi in esso genericamente definiti, la corte di
giustizia seguì una diversa interpretazione: dal momento in cui era evidente che l’assenza di
direttive di attuazione avrebbe potuto compromettere la realizzazione del diritto di stabilimento, a
svantaggio della libera circolazione delle persone, la corte interpretò il riferimento al periodo
transitorio contenuto nel trattato riconoscendo sì l’obbligo delle istituzioni comunitarie di adottare
i necessari provvedimento normativi, ma anche ritenendo che, alla scadenza, la mancata adozione
delle direttive non poteva essere di ostacolo all’applicazione del trattato CEE e in particolare dell’art.
45 che sancisce il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità ed è norma dotata di effetto
diretto.
(3) la normativa derivata relativa al diritto di stabilimento si è limitata a poche direttive: la direttiva
73/148/CEE definiva il diritto per ogni cittadino di uno stato membro (e dei suoi familiari) di
lasciare il territorio dello stato di origine o di provenienza per recarsi in un altro stato dove esercitare
attività di lavoro autonomo, nonché il diritto di ingresso e soggiorno nello stato ospite; la direttiva
74/34/CEE estendeva invece al lavoratore autonomo che avesse cessato la sua attività per anzianità
o invalidità (e ai suoi familiari) il diritto di soggiorno, in analogia con quanto il trattato prevedeva
per il lavoratore dipendente; entrambi i provvedimenti, poi, ampliavano il campo di applicazione
della direttiva 64/221/CEE divenuta cosi la disciplina unitaria degli effetti dell’ordine pubblico,
della sicurezza pubblica e della sanità pubblica sul rilascio e rinnovo del documento di soggiorno.
(4) tutte le menzionate direttive e altre norme egualmente rilevanti per l’esercizio del diritto di libera
circolazione e soggiorno dello stabilito sono state abrogate dalla direttiva 2004/38/CE che ha
dettato una disciplina unitaria del diritto dei cittadini dell’unione e dei loro familiari di circolare e
soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri a prescindere dal titolo in virtù del quale
il soggetto circoli o soggiorni.
diritto di stabilimento, libera prestazione dei servizi e libertà di circolazione dei lavoratori
la libertà di stabilimento presenta tanto elementi in comune quanto elementi di differenziazione
rispetto alle libertà di circolazione del lavoratore subordinato e di prestazione di servizi.
in particolare, con la libertà di circolazione del lavoratore il tratto distintivo è il carattere non
subordinato dell’attività svolta dall’operatore che, al contrario, accomuna lo stabilito al prestatore
di servizi; l’elemento comune tra i due è invece rappresentato dalla presenza permanente o
tendenzialmente permanente dello stabilito, come del lavoratore, all’interno dello stato membro
destinatario.
rispetto alla libertà di prestazione dei servizi il diritto di stabilimento di caratterizza per la presenza
tendenzialmente permanente dell’operatore proveniente da uno stato membro all’interno di un
diverso stato membro destinatario.
situazioni puramente interne
definiti i limiti interni tra la libertà di stabilimento e le altre libertà di circolazione delle persone,
occorre definire quella stessa libertà anche all’esterno dell’ordinamento dell’unione, identificando i
casi in cui la libertà di circolazione dell’operatore economico indipendente resta sottratta alle regole
dei trattati e affidata alla competenza dell’ordinamento nazionale.
per aversi stabilimento occorre un elemento di interstatualità nella fattispecie, dal momento che
l’assenza di ogni elemento di estraneità rispetto al contesto puramente nazionale preclude la
rilevanza della norma dell’unione quale regola della vicenda concreta. va peraltro osservato che la
giurisprudenza della corte ha mostrato una certa flessibilità nell’individuare all’interno della
fattispecie elementi che consentano di attribuirvi rilevanza comunitaria bastando, a tal fine, che il
soggetto abbia acquisito la propria qualificazione professionale in un diverso stato membro per
potersi avvalere delle norme dell’unione sullo stabilimento anche nei confronti dello stato di cui è
cittadino.
va peraltro precisato che la competenza dello stato sulle situazioni puramente interne non esclude
che il diritto dell’unione possa assumere qualche rilevanza nella disciplina della fattispecie: le
restrizioni allo svolgimento di una determinata attività, infatti, nella misura in cui danno luogo a
disparità di trattamento, possono essere rimosse mediante politiche di armonizzazione delle
istituzioni dell’unione che, per tale via, condizionano le scelte del legislatore nazionale anche con
riferimento a situazioni che non presentano collegamenti con l’ordinamento dell’unione; peraltro,
laddove manchi la misura dell’armonizzazione, il diverso trattamento riservato dal diritto nazionale
alla situazione meramente interna diviene censurabile alla luce del principio costituzionale di
eguaglianza, assumendo come parametro di raffronto la posizione soggettiva garantita dal diritto
dell’unione che, per questa via, finisce comunque con l’influenzare le scelte del legislatore nazionale
verso standard di trattamento più elevati anche in favore dei propri cittadini.
campo di applicazione
ratione personae
per quanto le norme del TFUE sembrino considerare, anzitutto, la posizione delle persone fisiche,
destinatarie delle norme sul diritto di stabilimento sono tanto le persone fisiche quanto le persone
giuridiche.
• persone fisiche: l’art. 49 TFEU richiede, con riferimento alla persona fisica, che il soggetto sia
cittadino di uno stato membro e, quindi, cittadino dell’unione.
il requisito della cittadinanza non è in alcun modo derogabile, a differenza di quanto accade in
materia di libera prestazione di servizi, laddove l’art. 56 TFUE ammette che, attraverso strumenti
di diritto derivato adottati dal parlamento europeo e dal consiglio, l’ambito di applicazione della
liberalizzazione possa essere esteso ai cittadini di un paese terzo a condizione che siano stabiliti
all’interno dell’unione: in tal caso è l’elemento del previo stabilimento a garantire l’inserimento
dell’operatore economico nel tessuto economico-sociale dell’unione e quindi a garantire
l’esigenza di protezione del mercato europeo; nel caso del diritto di stabilimento, invece,
l’estensione della libertà ai cittadini dei paesi terzi implicherebbe il venir meno della
fondamentale, per quanto criticata, distinzione tra comunitari ed extracomunitari nella fruizione
di una libertà fondamentale garantita dai trattati in vista di una maggiore integrazione europea.
• persone giuridiche: anche ad esse il TFUE riconosce il diritto di stabilimento, che comporta,
secondo l’art. 49, la costituzione e la gestione di imprese, in particolare di società ai sensi dell’art.
54 secondo comma TFUE. l’art. 54 equipara infatti le società alle persone fisiche aventi la
cittadinanza di uno stato membro a condizione che si tratti di società costituite conformemente
alla legislazione di uno stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il
centro di attività principale all’interno del territorio dell’unione → l’art. 49 TFUE richiede quindi
per le persone giuridiche, come per quelle fisiche, un certo legame con l’ordinamento dell’unione
che, se per le seconde è dato dal possesso della cittadinanza di uno stato membro, per le persone
giuridiche è dato dalla loro costituzione secondo la legge di uno stato membro e da un
collegamento effettivo che valga a localizzarne il centro di interessi all’interno del territorio
europeo – l’art. 54 precisa poi che per società si intendono le società di diritto civile o di diritto
commerciale, ivi comprese le società cooperative e le altre persone giuridiche contemplate dal
diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro.
ratione materiae
l’art. 49 TFUE non contiene alcuna indicazione, neppure esemplificativa, delle attività che possono
essere esercitate in regime di stabilimento, limitandosi ad affermare che esso comporta l’accesso e
l’esercizio di attività autonome: ne discende un ampio campo di applicazione delle norme sullo
stabilimento, certamente sovrapponibile a quello della libera prestazione di servizi del cui oggetto
l’art. 57 fornisce un’indicazione (attività industriali, commerciali, artigiane e libere professioni)
ritenuta non esaustiva.
dovrà comunque trattarsi di un’attività economica, nel senso di attività finalizzata alla produzione
di beni o servizi al fine di trarne vantaggi patrimoniali, ma la corte di giustizia ha dato, di tale
requisito, un’interpretazione assai ampia: sono cosi stati considerati coperti dalla libertà di
stabilimento anche le attività commerciali dei componenti di una comunità spirituale nella misura
in cui questa fornisce in corrispettivo prestazioni ai propri membri; non diversamente da quanto
accade con riferimento al lavoro subordinato quanto alla figura del tirocinante, anche l’attività di
formazione necessaria per accedere ad una professione, se comporta l’esercizio di attività
normalmente retribuite rientra nell’ambito di applicazione del diritto di stabilimento.
l’art. 51 TFUE esclude dal campo di applicazione del diritto di stabilimento le attività che nello stato
ospitante partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri – la norma è,
notoriamente, espressione di un principio generale che investe tutta l’area della libera circolazione
delle persone: infatti, oltre ai servizi, con riferimento ai lavoratori la liberalizzazione è esclusa per
gli impieghi nella pubblica amministrazione.
in effetti, gli stati, attraverso le richiamate disposizioni, hanno inteso riservare ai propri cittadini
attività, non importa se esercitate a titolo di lavoro subordinato o autonomo, con insediamento
stabile o meno, ritenute particolarmente sensibili per gli interessi generali del paese e tali da
richiedere, pertanto, nel lavoratore la manifestazione di obblighi e fedeltà verso lo stato che solo nel
legame della cittadinanza possono trovare fondamento.
l’identità di ratio sottesa alle varie disposizioni appena richiamate ne ha giustificato
un’interpretazione sostanzialmente omogenea: derogando al principio generale della libera
circolazione, l’eccezione in esame deve essere oggetto di interpretazione restrittiva strettamente
funzionale agli obiettivi della deroga, sì da escludere dalla liberalizzazione le sole attività in cui si
manifesta una partecipazione diretta e specifica all’esercizio del pubblico potere NB l’indagine
andrà comunque condotta caso per caso, avendo riguardo alle disposizioni nazionali che, nello stato
membro considerato, disciplinano l’organizzazione e l’esercizio dell’attività in questione; non sono
quindi ammissibili esclusioni generali e aprioristicamente determinate con riferimento ad una certa
professione, dovendosi piuttosto accertare se, all’interno della professione considerata, non sia
possibile individuare un nucleo centrale e caratterizzate di attività che non comportano l’esercizio
di pubblici poteri.
modalità di esercizio della libertà di stabilimento
il diritto di stabilimento può essere esercitato a titolo principale ovvero a titolo secondario.
• stabilimento a titolo principale: la persona fisica originaria di uno stato membro insedia il proprio
centro di attività principale in un altro stato membro senza che, oltre alla cittadinanza, il diritto
dell’unione gli imponga ulteriori condizioni. dal punto di vista concreto, lo stabilimento a titolo
principale può manifestarsi secondo le più svariate modalità: avvio di un’attività professionale
con apertura di uno studio, acquisto di un’azienda e costituzione o gestione di imprese e in
particolare società alle condizioni previste dalla legislazione del paese di stabilimento per i
propri cittadini; anche l’acquisto di una partecipazione societaria può rappresentare una
modalità di esercizio del diritto di stabilimento in questione.
• stabilimento a titolo secondario: l’art. 49 TFUE prevede che il diritto di stabilimento comporti il
divieto di restrizioni all’apertura di agenzie, succursali o filiali * da parte di cittadini di uno stato
membro stabilito sul territorio di un altro stato membro. la norma, quindi, configura un’ipotesi
di esercizio del diritto di stabilimento che si risolve nel mantenimento di due distinti centri di
attività: l’uno nello stato di stabilimento originario o principale, l’altro in quello di apertura
dell’agenzia, succursale o filiale. è quest’ultima l’ipotesi di c.d. stabilimento secondario nel senso
che, come precisato dalla corte, la libertà in esame non si limita al diritto di stabilirsi una sola
volta nell’ambito della comunità, ma implica il diritto di creare e mantenere più di uno
stabilimento all’interno del territorio dell’unione, sia pur nel rispetto di regole nazionali che siano
destinate a tutelare esigenze degne di essere salvaguardate.
NB lo stabilimento secondario non implica necessariamente che l’ulteriore centro di attività abbia
carattere subordinato al primo, ben potendo verificarsi l’inverso.
*l’art. 49 TFUE, menzionando il caso di agenzie, succursali o filiali, evoca lo stabilimento
secondario come una forma di stabilimento esercitato dalle società, ma, in assenza di una
limitazione nel trattato, esso è stato ritenuto applicabile anche alle professioni liberali e, quindi,
alle persone fisiche.
peraltro, l’apertura in un diverso stato membro di agenzie, succursali o filiali deve ritenersi
un’indicazione meramente esemplificativa e non esaustiva delle modalità di stabilimento
secondario cui può ricorrere la società stabilita in altro stato membro.
il TFUE non definisce però cosa debba intendersi per agenzia, per succursale o per filiale: la corte
ha chiarito che per succursale, agenzia o filiale ai sensi della disposizione in esame, deve
intendersi un centro operativo che si manifesti in modo duratura verso l’esterno come
un’estensione della casa madre, provvisto di direzione e materialmente attrezzato in modo da
poter trattare affari con terzi, anche se l’eventuale rapporto giuridico si stabilirà con la casa
madre avente sede all’estero. deve peraltro sottolinearsi come il ricorso a tale giurisprudenza non
appaia del tutto soddisfacente, essendo la stessa elaborata nell’obiettivo di individuare
semplicemente un criterio di collegamento territoriale tra una controversia e la sede secondaria
della società, senza la finalità di distinguere tra i diversi tipi di sede secondaria che, anzi, vengono
sostanzialmente accomunati tanto nella formulazione normativa quanto nell’interpretazione
della corte.
contenuto della libertà di stabilimento
la disciplina del diritto di stabilimento, quanto al contenuto della libertà garantita dai trattati, si
ispira al principio del trattamento nazionale e, quindi, dell’assimilazione dello straniero
comunitario al cittadino dello stato membro di stabilimento, quanto ad accesso ed esercizio
dell’attività. sono quindi vietate, anzitutto, le limitazioni o i condizionamenti all’esercizio
dell’attività laddove le stesse interdizioni e gli stessi oneri non siano imposti anche ai cittadini – ci
si trova di fronte, dunque, ad una classica applicazione del divieto di discriminazioni fondate sulla
nazionalità, previsto in linea generale per tutto il campo di applicazione dei trattati dall’art. 18
TFUE. tale divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità implica, in primis, l’incompatibilità
con il diritto dell’unione di tutte quelle disposizioni restrittive di carattere normativo,
regolamentare o amministrativo che trovano nella cittadinanza straniera del soggetto il loro
presupposto di applicazione; per questa via divengono incompatibili non soltanto le disposizioni
che precludono o rendono maggiormente oneroso direttamente l’accesso ovvero all’esercizio
dell’attività economica considerata, ma anche quelle norme nazionali che discriminano gli stranieri
nella fruizione di strumento o facilitazioni, anche indirettamente connessi con un migliore esercizio
dell’attività economica – in questa più ampia prospettiva sono state ritenute contrarie al diritto di
stabilimento le normative nazionali che riservavano ai soli cittadini il diritto di accedere alla
proprietà immobiliare o il diritto di accedere alle agevolazioni pubbliche per l’acquisto di alloggi ad
uso abitativo, trattandosi di diritti che costituiscono il complemento necessario della libertà di
stabilimento.
la regola del trattamento nazionale, tuttavia, ha ben presto evidenziato i propri limiti nel consentire
una piena affermazione del diritto di stabilimento. infatti, negli ordinamenti nazionali si rinvengono
disposizioni che, per quanto applicabili indifferentemente agli stranieri come ai cittadini e quindi
sulla base di un presupposto diverso dalla nazionalità, di fatto realizzano, in maniera dissimulata,
una discriminazione in danno degli stranieri. si tratta, in altre parole, di norme che richiedono a
colui che intenda esercitare il diritto di stabilimento il possesso di determinati requisiti, diversi dalla
nazionalità, che sono però, nella normalità dei casi, propri del cittadino e non dello straniero – un
esempio sono le norme fiscali che esigono la residenza fiscale all’interno dello stato per la
concessione di rimborsi di imposte non dovute che di fatto sfavoriscono le società straniere che
esercitano lo stabilimento a titolo secondario, posto che tali società frequentemente hanno la
residenza fiscale nello stato di stabilimento principale.
eccezioni alla libertà di stabilimento
abuso del diritto
il diritto di stabilimento, come le altre libertà garantite dai trattati, conosce delle restrizioni, in parte
previste dalla stessa lettera del TFUE, in parte ammesse dalla giurisprudenza della corte.
in linea generale, le libertà attribuite ai singoli dalle norme dell’unione non possono essere oggetto
di un’utilizzazione abusiva in danno di interessi protetti dalle legislazioni nazionali e ritenuti
meritevoli di tutela anche dall’ordinamento dell’unione. in particolare, uno stato membro ha il
potere di adottare misure volte ad impedire che, grazie alle possibilità offerte dai trattati, i suoi
cittadini tentino di sottrarsi all’imperio delle proprie leggi nazionali.
va però osservato che non ogni intento elusivo della più severa normativa nazionale può essere
considerato abuso del diritto comunitario: in una sentenza la corte ha infatti escluso che il fatto che
un cittadino di uno stato membro che desideri creare una società, scelga di costituirla nello stato
membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali negli altri stati
membri, possa di per sé costituire un abuso del diritto di stabilimento. si tratta, infatti, di una
specifica modalità di esplicazione del diritto di stabilimento garantita dal TFUE che, in quanto tale,
non può essere qualificata come abusiva anche nell’ipotesi, com’era nel caso di specie, in cui ad essa
le parti abbiano fatto ricorso per eludere la normativa più severa dello stato membro nel quale
operano attraverso una succursale.
restrizioni discriminatorie
sul piano delle eccezioni consentite al diritto di stabilimento, il diritto dell’unione distingue
nettamente tra misure discriminatorie e non discriminatorie.
con riferimento specifico alle misure discriminatorie, le sole eccezioni consentite sono quelle
espressamente previste dall’art. 52 TFUE: sono pertanto ammesse misure nazionali discriminatorie
fondate su motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. si tratta di clausole di
eccezione che percorrono trasversalmente l’intera area della libera circolazione, trovando
applicazione anche in materia di servizi e di libera circolazione dei lavoratori – le nozioni di ordine
pubblico e di pubblica sicurezza non sono state definite né dai trattati né dalla direttiva 64/221,
risultando cosi consentita agli stati una certa discrezionalità nelle relative valutazioni, pur sempre
soggetta al controllo da parte delle istituzioni dell’unione circa l’uso non arbitrario della deroga.
peraltro, le numerose precisazioni interpretative che la corte di giustizia ha elaborato sulla nozione
di ordine pubblico, soprattutto nell’ottica di limitare la discrezionalità degli stati nel darne
contenuto, sono state in parte codificate dalla già menzionata direttiva 2004/38/CE relativa al
diritto dei cittadini e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati
membri NB l’art. 27 della direttiva di cui sopra prescrive, a carico degli stati, il rispetto del principio
di proporzionalità nell’adozione di provvedimenti limitativi della libertà di circolazione fondati su
ordine pubblico o pubblica sicurezza e, comunque, si chiarisce che il comportamento personale
dell’interessato deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da
pregiudicare un interesse fondamentale della società.
la sostanziale unitarietà della disciplina che ne deriva ha consentito al legislatore dell’unione di
adottare un unico strumento di attuazione: la direttiva di armonizzazione delle norme nazionali che
prevedono tali restrizioni.
infine, è ovvio, ma va comunque precisato, che risolvendosi in deroghe a libertà fondamentali
garantite dai trattati, le misure fondate su tali giustificazioni devono essere oggetto di
interpretazione restrittiva, che non ne determini la portata oltre quando strettamente necessario alla
protezione degli interessi tutelati.
restrizioni non discriminatorie
l’art. 49 TFUE, al secondo comma, prevede il divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità e,
pertanto, codifica il principio del trattamento nazionale. in una prima fase la giurisprudenza della
corte di giustizia ha fatto di tale principio il cuore del diritto di stabilimento, riducendo le restrizioni,
ugualmente vietate al primo comma della medesima disposizione, alle sole discriminazioni riferite
alle condizioni di accesso e di esercizio delle attività economiche; successivamente, la corte ha
riconosciuto l’incompatibilità anche delle c.d. misure indistintamente applicabili, e quindi non
discriminatorie, in sostanza ampliando l’area di tutela assicurata allo stabilito; in una sorta di ideale
terza fase dell’evoluzione giurisprudenziale, nella nozione di restrizione vietata sono quindi finite
col rientrare tutte le misure nazionali suscettibili di ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà
fondamentali garantite dai trattati.
l’espansione che ne è derivata del controllo dell’unione sulle misure nazionali attinenti l’accesso o
le condizioni di esercizio delle attività ha però condotto la corte ad ammettere che tali misure
possano trovare giustificazione in esigenze nazionali degne di tutela, per quanto non riconducibili
a quelle espressamente menzionate dal TFUE dell’ordine pubblico, della pubblica sicurezza e della
sanità pubblica. alla base di tale teoria vi è dunque l’individuazione di interessi statali meritevoli di
tutela, interessi peraltro destinati a mutare e anzi a restringersi, con l’avanzare dell’integrazione
comunitaria attraverso il coordinamento dei diversi sistemi giuridici nazionali con la conseguenza
che, almeno in prospettiva, dovrebbe verificarsi una tendenziale, anche se non completa,
coincidenza dei valori protetti in ogni sistema al punto da ridurre al minimo le cause di
giustificazione di misure restrittive.
le misure nazionali indistintamente applicabili e comunque in grado di impedire o anche solo di
rendere meno attraente l’esercizio del diritto di stabilimento devono, per essere ammissibili,
rispondere a quattro condizioni definite dalla giurisprudenza della corte:
1. devono applicarsi in maniera non discriminatoria, essendo in caso contrario ammissibili solo in
presenza delle giustificazioni espressamente previste dal trattato
2. devono trovare giustificazione in ragioni imperative di interesse generale: l’individuazione
dell’interesse generale è rimesso alle scelte della giurisprudenza dell’unione, che dovrà tenere
conto dello stato di integrazione in quel momento e, soprattutto, dell’esistenza di misure di
armonizzazione. in linea generale può dirsi che gli interessi di cui la giurisprudenza consente la
protezione sembrano essere quelli ammessi dal TFUE, anche se non può essere esclusa la
considerazione di valori differenti.
3. devono essere oggettivamente idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo di protezione che
si prefigge: sul punto la corte ha stabilito che, per soddisfare il requisito dell’idoneità, le misure
restrittive devono perseguire l’obiettivo di interesse generale in modo coerente e sistematico.
4. non devono imporre restrizioni superiori rispetto a quanto strettamente necessario per il
conseguimento dell’obiettivo di protezione voluta dalla norma = laddove lo stesso risultato sia
conseguibile mediante una misura meno restrittiva in termini di sacrificio imposto all’esercizio
del diritto di stabilimento, la misura meno restrittiva dovrà essere preferita.
quest’ultima condizione, peraltro, garantisce la conformità della norma al principio di
proporzionalità, principio generale del diritto dell’unione che presiede all’esercizio delle
competenze statali nei settori retti dall’ordinamento dell’unione.
misure destinate a facilitare l’esercizio del diritto di stabilimento: riconoscimento delle
qualifiche professionali
la regola del trattamento nazionale impone, in linea di principio, che lo stabilito che intenda
accedere ad un’attività il cui esercizio sia subordinato nel paese di stabilimento al possesso di una
determinata qualifica professionale o comunque di un certo titolo di studio in conformità con le
previsioni dell’ordinamento interno, soddisfi tale condizione percorrendo il necessario curriculum
nello stato ospitante. è evidente tuttavia che la rigida applicazione di tale regola rappresenterebbe
un serio ostacolo alla libertà di stabilimento, pur nel formale rispetto del divieto di discriminazioni
fondate sulla nazionalità.
l’importanza della materia è segnalata direttamente dall’art. 53 TFUE che prevede che il parlamento
europeo e il consiglio, al fine di agevolare l’accesso alle attività autonome e l’esercizio di queste,
stabiliscono direttive intese al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati e altri titoli e al
coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri
relative all’accesso alle attività autonome e all’esercizio di queste.
dopo complesse vicende normative è stata adottata la direttiva 2005/36/CE relativa al
riconoscimento delle qualifiche professionali che, oltre ad abrogare tre precedenti direttive relative
al sistema generale di riconoscimento, interviene razionalizzando il tessuto normativo composto
dalle numerose direttive settoriali, abrogandone alcune e sostituendole con discipline speciali
semplificate e meglio coordinate – più di recente la materia è stata ulteriormente rivista con
l’adozione della direttiva 2013/55/UE.
in ogni caso, per effetto del riconoscimento, il beneficiario potrà accedere, nello stato ospitante, alla
stessa professione per la quale è qualificato nello stato membro di origine ed esercitarla alle stesse
condizioni dei cittadini dello stato membro ospitante, a condizione che le attività coperte dalle due
qualifiche siano comparabili.
la direttiva 2013/55/UE, cosi come quelle che ha sostituito, concerne esclusivamente i cittadini degli
stati membri e non anche i cittadini di paesi terzi. ora, posto che in virtù della tradizionale
giurisprudenza della corte di giustizia la disciplina sul riconoscimento dei diplomi si applica anche
al cittadino dello stato membro che invochi dinanzi a tale stato il riconoscimento di un diploma
ottenuto in un altro stato membro, per effetto del principio di parità di trattamento imposto dalla
direttiva sui soggiornanti di lungo periodo anche i cittadini di paesi terzi hanno diritto a vederci
riconosciuto il diploma ottenuto in un altro stato membro alle condizioni applicabili ai cittadini
dell’unione sì che, in un certo senso, la normativa sul riconoscimento delle qualifiche possiamo dire
applicabile alla qualifica in quanto tale oggettivamente considerata e nella misura in cui sia stata
rilasciata dall’autorità di uno stato dell’unione e restando invece irrilevante la circostanza della
cittadinanza del suo titolare.
la direttiva in questione, come la precedente, inoltre, detta alcune minime garanzie procedurali che
assistono il richiedente nel riconoscimento nello stato membro ospitante: innanzitutto lo stabilito è
tenuto ad attivare nello stato membro di destinazione un apposito procedimento suscettibile di
condurre al riconoscimento della sua qualifica – il riconoscimento, dunque, non opera
automaticamente; è poi stata introdotta una novità al fine di realizzare un sistema di riconoscimento
dei titoli più semplice, efficiente e trasparente: viene prevista la tessera professionale europea,
utilizzabile sia per la prestazione occasionale di servizi che per l’esercizio stabile della professione
in un diverso stato membro; assume infatti la forma di un certificato elettronico contenete tutte le
informazioni reputate necessarie per accertare il diritto del titolare all’esercizio della professione
per la quale la tessera è rilasciata. questo nuovo strumento, pensato come alternativo e opzionale al
meccanismo generale di riconoscimento delle qualifiche, interesserà solamente le professioni che
saranno selezionate dalla commissione una volta verificato che vi sia un sufficiente interesse da
parte dei soggetti coinvolti, che la mobilità dei professionisti abbia un potenziale notevole e che la
professione sia regolamentata in un numero significativo di stati membri.
il sistema delineato dal diritto derivato appare tutto sommato chiaro: i diplomi conseguiti a seguito
di un percorso formativo armonizzato dal diritto dell’unione sono automaticamente riconosciuti;
gli altri diplomi professionali sono invece oggetto di una procedura di riconoscimento definita dal
diritto dell’unione e affidata alle autorità nazionali.

Potrebbero piacerti anche