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La Pratica e l’Insegnamento dello Yoga


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IL TERZO OCCHIO

di
Paolo Proietti

Estratti delle Lezioni del Corso di Formazione per Insegnanti Yoga Citrā Padova, riconosciuto da
Yoga Alliance International® e Ginnastica Yoga CSEN diretto da Laura Nalin e Paolo Proietti
Biennio 2019–2021

A.S.D. Yoga Citra – Via del santo 30, 35123 Padova.


Telefono: +39 333 4145 141 – www.asdyogacitra.com - Email:
asdyogacitra@gmail.com
5

Paolo Proietti

IL TERZO OCCHIO

A.S.D. Yoga Citra Padova


Formazione, Promozione e Divulgazione dello Yoga
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7

Indice

INTRODUZIONE...................................................................................9
IL TERZO OCCHIO.............................................................................21
TRA POLITICA E FANTASCIENZA....................................................27
IL SEGRETO DEL FIORE D’ORO......................................................35
SCIENZA MEDIOEVALE....................................................................43
LA GHIANDOLA PITUITARIA............................................................49
ALCHIMIA INTERIORE......................................................................57
LA PRATICA DELLO ṢAḌAṄGAYOGA..............................................71
LA REALIZZAZIONE DEI DIECI SEGNI............................................77
ENERGIE SOTTILI..............................................................................81
IL CICLO NASALE..............................................................................89
I DUE EMISFERI CELEBRALI...........................................................95
PRĀṆĀYĀMA.....................................................................................103
I CINQUE SOFFI VITALI..................................................................107
CONCLUSIONE:...............................................................................115
TESTI DI RIFERIMENTO.................................................................125
LO YOGA DEI NATH........................................................................128
ṢAṬKRIYĀ..........................................................................................130
ṢAḌAṄGA..........................................................................................130
NOVE CAKRA DEI NATH.................................................................131
SEDICI ĀDHĀRA..............................................................................132
TRILAKṢYA.....................................................................................133
LE CINQUE STANZE (VYOMA PAÑCAKA)................................133
BIBLIOGRAFIA.................................................................................136
8
9

INTRODUZIONE
Il Mito della Pineale

Nella cultura post new age la ghiandola pineale viene


identificata con il terzo occhio delle divinità hindu e si
ritiene che la sua “attivazione” porterebbe all’emergere
di particolari poteri psichici ed alla cosiddetta
“illuminazione”. Questa credenza, alimentata da una
folta letteratura pseudoscientifica, nasce dalla errata
interpretazione e dalla rielaborazione di teorie già
ritenute infondate da Galeno1 nel II secolo della nostra
era. Galeno, riconosciuto come uno dei padri della
medicina moderna, descrive la ghiandola pineale nel
testo “De usu partium”, dove spiega, tra l’altro che il
suo nome deriva dalla somiglianza, per forma e
dimensioni, con un pinolo, e la riconosce come una delle
ghiandole che, secondo le sue teorie, avevano la
funzione di sostenere i vasi sanguigni. Prima di Galeno
1
Galeno di Pergamo (129 d.C.– 201d.C. circa) è stato un medico greco
i cui studi hanno influenzato la medicina occidentale fino
al Rinascimento. Dal suo nome deriva la galenica, l'arte di preparare i
farmaci.
10

si credeva invece che la pineale regolasse il flusso dello


“spirito”, ovvero ciò che oggi chiamiamo liquido
cerebrospinale e che all’epoca si reputava essere una
sostanza gassosa.

Ghiandola Pineale: Fonte: Fonte: Anatomography maintained by Life Science


Databases (LSDB)

Con il tempo, a causa delle diverse valenze della parola


spirito, si creò l’equivoco dell’identificazione della
pineale con il “Terzo Occhio” o, come affermava
Cartesio, con la “sede dell’anima”; un equivoco
generato dal fatto che in filosofia lo “Spirito” viene
inteso come una “forza vitale distinta dalla materia e
che tuttavia interagisce con essa”2 oppure come una
“forma dell’essere radicalmente diversa dalla materia”3

2
M. Pancaldi, M. Trombino, Maurizio Villani, “Atlante della Filosofia:
gli autori, le parole, le opere”. Hoepli editore, 2006.
3
Op. Cit.
11

talvolta identificata con “l’assoluto”, ovvero con


l’insieme di ogni genere di manifestazione.

Galeno in una litografia di Pierre Roch Vigneron (1789–1872). Fonte:


https://it.wikipedia.org/wiki/File:Galen_detail.jpg.
Galeno di Pergamo (Pergamo, 129[1] – Roma, 201 circa) è stato un medico greco
antico, i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale per tredici secoli,
fino al Rinascimento, quando cominciarono lentamente e con grande cautela a essere
12

messi in discussione, per esempio dall'opera di Vesalio. Dal suo nome deriva
la galenica, l'arte di preparare i farmaci da parte del farmacista in farmacia.

Gli attuali new ager interpretano la credenza antica che


vedeva nell’epifisi l’organo che regola il “flusso dello
spirito”, sulla base dell’identificazione dello spirito con
l’assoluto - tipica dell’idealismo tedesco – continuando
ad alimentare il mito della ghiandola pineale quale
anello di congiunzione tra il mondo degli uomini e
quello degli dei, un mito diffuso, come vedremo, alla
fine del XIX secolo dalla Società Teosofica.
Paradossalmente le teorie e le osservazioni dei medici
antichi erano più in linea con le moderne neuroscienze
delle concezioni dei teosofi e degli attuali new ager: già
due secoli dopo Galeno, le sue teorie furono riprese e
sviluppate dal vescovo Nemesio di Emesa (350 – 420
circa) che nel suo “De cogitazione e De memoria”, dopo
aver affermato, come già Galeno, che la “regolazione
dello spirito avveniva non grazie alla ghiandola pineale,
ma tramite il “verme cerebellare”- ovvero la parte
mediana del cervelletto – si spinse fino a teorizzare la
cosiddetta “localizzazione ventricolare”, ovvero la
corrispondenza di ogni parte del cervello ad una precisa
facoltà, anticipando in un certo qual modo le scoperte
degli scienziati moderni. In particolare, secondo
Nemesio:
- Al ventricolo anteriore sarebbe associata la
facoltà dell’immaginazione;
13

- Al ventricolo mediano sarebbe associata la


ragione;
- Al ventricolo posteriore la memoria.
Nel Medioevo divennero molto popolari le teorie del
medico bizantino Qusta ibn Luqa (820-912) che
riprendendo gli studi di Galeno e Nemesio non solo
attribuì il compito della regolazione dello spirito/liquido
cerebrospinale al verme cerebellare, ma mise appunto
una specie di “tecnica operativa” per attivare a
piacimento il flusso di coscienza piuttosto che il
pensiero razionale. Secondo Qusta ibn Luqa coloro che
volevano immergersi nella memoria guardavano in alto,
in modo che la valvola del verme cerebellare si aprisse
al flusso dei ricordi. Al contrario coloro che volevano
attivare il pensiero razionale guardavano in basso allo
scopo di chiudere il passaggio al flusso di coscienza e
mantenere incontaminato lo “spirito della ragione”.
14

Qusta Ibn Luqa (Costa figlio di Luca). “Portrait of Qusta ibn Luqa, famous arab
mathematician and scientist”. Autore: Paolo Giovio (1483-1552). Fonte:
https://it.wikipedia.org/wiki/Qusta_ibn_Luqa#/media/File:Qusta_ibn_Luqa.jpg

Qualche secolo più tardi Mondino de’ Luzzi (1275


-1326) - docente di medicina dell’università di Bologna
e primo scienziato occidentale a riprendere la pratica
delle dissezioni del corpo umano iniziata da Erofilo nel
III secolo a.C. e abbandonata durante l’era cristiana,
chiamò il verme cerebellare “pinea”, e questo originò
ulteriore confusione nei non addetti ai lavori, tanto che
ancora oggi molti non conoscono né l’esatta posizione
dell’epifisi nel cranio né le sue reali funzioni.
15

Nel XVI secolo l’anatomista Niccolò Massa (1489-


1569) scoprì che lo “spirito” che riempiva i ventricoli
cerebrali secondo i medici antichi era in realtà un
liquido, il liquido cerebrospinale, e il suo
contemporaneo Andrea Vesalio (1514 -1564)
ridimensionò l’importanza sia della pineale sia del
verme cerebellare, dimostrando l’infondatezza delle
teorie precedenti che riconoscevano nell’una o nell’altro
delle valvole in grado di regolare il flusso di coscienza4.
Il mito della pineale come sede dell’anima fiorisce pochi
anni più tardi, con Cartesio. René Descartes (1596-
1650) non era né un medico né un anatomista, ma,
essenzialmente, un matematico. Ciò nonostante si
avventurò nello studio del cervello umano in ben due
trattati - “De homine” e “Le passioni dell’anima” - nei
quali, mostrando una scarsissima conoscenza
dell’anatomia, riprende delle tesi già considerate
superate ai tempi di Galeno.

4
A. Vesallus, “De Humani corporis fabricaLibri septem”, 1543.
16

René Descartes (1596-1650): L’homme de René Descartes, et la formation du foetus….


Paris: Compagnie des Libraires, 1729. Fonte: McLeod - Historical Medical Books at
the Claude Moore Health Sciences Library, University of Virginia; “L'interazione tra
mente e corpo in due illustrazioni di Cartesio: nella prima gli stimoli esterni
verrebbero trasmessi dagli organi sensoriali alla ghiandola pineale nel cervello, e in
tal modo recepiti dallo spirito immateriale; quest'ultimo a sua volta, nel secondo
disegno, impartisce un comando veicolato agli arti.

Scrive Cartesio ne “Le passioni dell’anima”, parte


prima, articoli 31,32:
“[…] come si vede che questa ghiandola è la principale sede
dell’anima. Mi sono convinto che l’anima non può avere in
tutto il corpo altra localizzazione all’infuori di questa
ghiandola, in cui esercita immediatamente le sue funzioni,
perché ho osservato che tutte le altre parti del cervello sono
doppie, a quel modo stesso che abbiamo due occhi, due mani,
due orecchi, come infine, sono doppi tutti gli organi dei nostri
sensi esterni. Ora, poiché abbiamo d’una cosa, in un certo
momento, un solo e semplice pensiero, bisogna di necessità che
ci sia qualche luogo in cui le due immagini provenienti dai due
17

occhi, o altre duplici impressioni provenienti dallo stesso


oggetto attraverso duplici gli organi duplici degli altri sensi, si
possono unificare prima di giungere all’anima, in modo che
non le siano rappresentati due oggetti invece di uno: e si può
agevolmente concepire che queste immagini, o altre
impressioni, si riuniscano in questa ghiandola per mezzo degli
spiriti che riempiono le cavità del cervello; non c’è infatti
nessun altro luogo del corpo dove esse possano essere così
riunite, se la riunione non è avvenuta in questa ghiandola.”

René Descartes, Pineale. Fonte: https://philosophykitchen.com/wp-


content/uploads/2015/12/Descartes-pineal.jpg

Per Cartesio il corpo umano è una macchina nella quale


la ghiandola pineale, sede dell’anima, gestisce le facoltà
della percezione, dell’immaginazione, della memoria e
della motricità. Le sue supposizioni non si fondavano né
su osservazioni sperimentali né sulle concezioni della
18

sua epoca, ma su una serie di personali teorie assai


fantasiose. La ghiandola pineale secondo Descartes
sarebbe sospesa in mezzo ai ventricoli cerebrali e
pullula di “spiriti animali”, dall’aspetto di un “vento
molto fine” o di “una fiamma pura e vivace che gonfia i
ventricoli”.
Nessuno scienziato serio prenderebbe in considerazione
le bizzarre teorie di Cartesio, ma nel XIX secolo,
sull’onda dell’Orientalismo e del diffondersi delle
moderne “scienze esoteriche” alcuni filosofi e maestri
spirituali ripresero la favola della “pineale sede
dell’anima”. Cominciò a diffondersi la voce che l’epifisi
fosse una reliquia filogenetica, ovvero i resti un terzo
occhio dorsale che l’essere umano avrebbe perso nel
corso dell’evoluzione e la maestra spirituale Helena
Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica -
sovrapponendo questa errata credenza5 alle fantasie di
Cartesio - identificò proprio nella ghiandola pineale il
“terzo occhio di Śiva”, l’organo della “visione
spirituale” che, purtroppo “si era atrofizzato nell’uomo
moderno, ma per fortuna poteva essere riattivato grazie
alle pratiche dello yoga6”.

5
Una reliquia filogenetica è, per definizione, un organo corporeo che ha
perso la sua funzione ed esiste ancora perché non sussiste una
particolare esigenza della selezione naturale che porti alla sua
scomparsa; dato che la ghiandola pineale ha un sua funzione,
importantissima, nell’organismo umano, non può essere definita
reliquia filogenetica.
6
H.P. Blavatsky, “La Dottrina Segreta”, 1888.
19

Rudolf Steiner, allievo di Blavatsky, sosteneva invece


che la pineale fosse la reliquia filogenetica di un organo
che avrebbe permesso ai Lemuriani, nostri progenitori,
di discriminare il caldo dal freddo. I Lemuriani, nella
concezione della Teosofia e dell’Antroposofia,
sarebbero stati degli ermafroditi molto evoluti
spiritualmente; provvisti di un corpo informe, bianco e
molliccio che li rendeva incapaci di correre o
camminare sulla terra, ma, in virtù dei loro poteri
psichici sarebbero stati in grado di viaggiare con il
corpo astrale nel tempo, nello spazio e nelle indefinite
dimensioni di cui si compone l’Universo.

Elena Blavatsky, terza a destra della terza fila dal basso, al Convegno della Società
Teosofica del Dicembre 1884. Fonte:
https://www.blavatskyarchives.com/hpbphotos19.htm
20

Le teorie teosofiche e antroposofiche appaiono ai nostri


occhi piuttosto bizzarre, come bizzarri possono apparire
gli esercizi per attivare la pineale/Terzo Occhio proposti
sia da Blavatsky sia da Steiner. Steiner, tra l’altro
affermava che la “visione dei mondi superiori è
ostacolata dalla volontà di riconoscerli dopo averli
visti” per cui prima bisognava comprendere l’esistenza
di tali mondi attraverso il sano pensare”; sarebbe
proprio il “sano pensare” a evocare “forze importanti
dell’anima, le quali conducono alla veggenza”7. Tale
veggenza, intesa come “visione degli archetipi
spirituali”, sempre per Steiner, sarebbe accompagnata
da suoni, percepibili tramite lo sviluppo di un analogo
“orecchio sovrasensibile”, il Terzo Orecchio8.
Non è ben chiaro cosa sia il “sano pensare” di cui parla
il pensatore austriaco, ma viene quasi da supporre che si
tratti di una forma di immaginazione creativa.
Comunque sia grazie alla diffusione delle teorie di
Steiner, della Blavatsky e di Annie Besant – personaggi
che, nel bene e nel male, hanno influenzato tutta la vita
politica e culturale del ’900 - il mito della pineale si
diffuse negli ambienti esoterici e nei salotti della ricca
borghesia dell’epoca, e in seguito, come spesso accade
in questi casi, per un effetto “di rimbalzo”, fu accolto
7
Rudolf Steiner, “Teosofia. Un’introduzione alla conoscenza
sovrasensibile del mondo e del destino dell’uomo”; traduzione italiana
di Emmelina de Renzis, pagina 10; Carlo Aliprandi editore, Milano
1922.
8
Rudolf Steiner, opera citata, pagina 46.
21

anche in India, negli ambienti più vicini alla cultura


occidentali, sovrapponendosi – e a volte sostituendosi-
alle concezioni originarie dell’induismo e del
buddhismo tantrico.
.
22
23

IL TERZO OCCHIO

Nel 1956 uscì il libro “The Third Eye” - il Terzo Occhio


– presentato come l’autentica autobiografia di un Lama
tibetano e definito dal Times una “straordinaria
testimonianza della vita e della spiritualità tibetana”. In
pochi mesi divenne un successo mondiale, venne
pubblicato in trenta paesi diversi e spinse molti
occidentali a convertirsi al buddhismo tibetano.
L’autore, Tuesday Lobsang Rampa, ad un certo punto
descrive la tecnica che gli avrebbe aperto il Terzo
Occhio, mettendolo in grado di “vedere l’aura delle
persone” e, quindi, di cogliere con un solo sguardo il
loro stato di salute e i loro pensieri profondi: la
trapanatura dell’osso frontale. Questa incredibile
rivelazione – per aprire il Terzo occhio ti devi fare un
buco nella testa – ed una serie di incongruenze e dettagli
bizzarri fecero irritare alcuni dei più noti tibetologi
europei - tra cui Hugh Richardson, capo della missione
britannica a Lhasa dal 1936 al 1945, Heinrich Harrer,
24

l’alpinista tedesco autore di “Sette anni in Tibet”, e


l’alpinista ed esoterista Marco Pallis - affidarono ad un
investigatore privato di nome Clifford Burgess, il
compito di indagare sull’autore dl Best Seller.

Cyril Henry Hoskin, alias Tuesday Lobsang Rampa,nei panni del medico tibetano
"Dottor Carl Kuon Suo". Fonte: http://skepdic.com/rampa.html
25

Burgess scoprì che Tuesday Lobsang Rampa si


chiamava in realtà Cyril Henry Hoskin, era il figlio di un
idraulico del Devonshire e prima di darsi alla carriere
letteraria, lavorava in una fabbrica di corsetti. Dopo il
successo, mondiale, del “Terzo Occhio” lo pseudo
monaco - che non conosceva una sola parola in tibetano
- si era trasferito in Irlanda dove, sotto il nome di Carl
Kuon Suo – poi trasformato in Doctor Kuan Su –
esercitava la professione di veggente-guaritore. Il
truffatore non si perse d’animo e tra il 1957 e il 1960
scrisse altri tre libri, “My Visit to Venus”, “Il medico
venuto da Lhasa” e “Storia della mia vita” nei quali
oltre a deliziare i lettori con la cronaca dei suoi viaggi
astrali interplanetari, rivelava uno “stupefacente
segreto”: il suo corpo – racconta lo pseudo monaco
buddhista - è sì quello di Cyril Henry Hoskin, ma il suo
spirito è quello di Lobsang Rampa, Lama guaritore, che
dopo aver combattuto eroicamente insieme all’esercito
cinese contro i giapponesi ed essere stato torturato dai
russi era tornato in Tibet dove, su consiglio del suo
maestro, aveva lasciato le sue spoglie mortali per
infilarsi, appunto nel corpo di Cyril. Durante il
trasferimento qualcosa era andato storto e il tibetano
aveva perso la capacità di parlare la sua lingua, ma la
sua conoscenza - e quindi la capacità di portare avanti la
sua missione divina - era intatta.
Nonostante la storia fosse meno verosimile del viaggio
di Astolfo sulla Luna, il pubblico si schierò dalla parte
del falso monaco. Cyril Henry Hoskin - alias Carl Kuon
26

Suo alias Tuesday Lobsang Rampa - scrisse in seguito


altri sedici libri di successo, morì ricco e, si suppone,
felice nel suo Ashram a Calgary, in Canada, il 25
gennaio del 1981.
“Il Terzo Occhio”, è tutt’oggi nella classifiche dei libri
più venduti nonostante i più grandi orientalisti e
tibetologi del XX secolo lo abbiano giudicato un falso
clamoroso.
Scrive Agehananda Bharati, monaco buddhista e
orientalista di fama internazionale a cui venne
sottoposto il testo di Hoskin prima della pubblicazione:
“Il Terzo Occhio sa di sciocchezze blavatskyane e post
blavatskyane. Le prime due pagine mi convinsero che lo
scrittore non fosse un tibetano, le dieci successive che non era
mai stato né in Tibet né in India e che non sapeva
assolutamente niente del buddhismo.”9

Il successo duraturo delle fantasie letterarie di Lobsang


Rampa e delle bizzarre teorie di Steiner, Blavatsky e
Besant è difficilmente spiegabile; non è nostra
intenzione negare la possibilità che alcuni o molti esseri
umani abbiano vissuto esperienze straordinarie, ma è
abbastanza sconvolgente pensare alla facilità con la
quale milioni di persone decidono di credere - senza
nessuna esperienza diretta e al di là di ogni evidenza
storica, scientifica o archeologica – a viaggi astrali nel
passato e nello spazio profondo, monaci che volano su
enormi aquiloni trascinati da straordinariamente dolci
brezze tibetane, incontri con l’abominevole uomo delle
9
Vedi: https://Skeptic.com/rampa.html
27

nevi e con mummie secolari in cui gli iniziati


riconoscono precedenti incarnazioni o cruente
operazioni chirurgiche che aprono, appunto, “il Terzo
Occhio” donando agli adepti il potere di esplorare il
passato, il futuro e le innumerevoli dimensioni spazio-
temporali. L’attitudine a credere alle balle spirituali e la
diffusione di certe bizzarre teorie potrebbero forse
essere spiegate con la sorprendente naïveté del pubblico
occidentale, da sempre alla disperata ricerca del
misterioso e del sublime, ma è probabile che il vero
motivo sia da ricercare nella “Teoria del Complotto
Globale” che, almeno dalla fine del XIX secolo, riempie
gli scaffali delle librerie esoteriche e ravviva le serate
nei salotti pseudoculturali: Il mondo che vediamo,
secondo i “Complottisti” è un illusione, e qualcuno –
identificato di volta in volta con gli alieni, una
misteriosa razza terrestre ma immortale, gli illuminati di
Baviera o generiche forze del male – tiene schiavo
l’essere umano impedendogli di esprimere tutte le sue
potenzialità. L’idea di essere qualcosa di più di ciò che
appare è presente nella maggior parte di noi e le nostre
insoddisfazioni, le nostre frustrazioni, l’innata ansia di
incompiutezza sono un terreno assai fertile per le teorie
del complotto: se non fosse per “Loro” - le forze oscure
che godono nel tirar fuori il peggio dagli esseri umani -
saremmo tutti dei grandi eroi, dei maghi, degli angeli
caduti e degli dei annichiliti. Ognuno di noi, in fondo in
fondo, pensa di essere una creatura eccezionale, mal
compresa, impossibilitata ad esprimere i propri talenti,
per cui quelle che Agehananda Bharati definisce
28

“sciocchezze blavatskyane e post blavatsyane” hanno


sicuramente una valenza consolatoria, addirittura
terapeutica; per molte persone, ma dando credito a storie
di fantasia come quelle di Lobsang Rampa si rischia di
smarrire il senso degli insegnamenti originari dello yoga
e, in genere, delle discipline psicofisiche orientali.
29
30

TRA POLITICA E FANTASCIENZA

Il Terzo Occhio - detto a volte, in Occidente “Occhio


Ariano-Atlantideo” – al di là del significato simbolico –
o alchemico – che gli viene attribuito negli insegnamenti
originari, diviene nell’ambito esoterico-complottista del
XIX e del XX secolo l’emblema dalla “liberazione dalle
Forze Oscure”.
Le Forze Oscure rappresenterebbero un gruppo di potere
che governa il mondo da secoli e che – secondo le teorie
complottiste – cerca di evitare a tutti i costi che si
diffondano le tecniche di attivazione dell’Occhio
Spirituale. Qualora gli esseri umani, grazie all’apertura
del Terzo Occhio si “risvegliassero” e scoprissero di
essere degli dei annichiliti o, meglio ancora, dei
discendenti dei “semidei atlantidei” la civiltà moderna
cadrebbe a pezzi e dopo qualche decennio di morte e
distruzione le forze del bene prenderebbero il
31

sopravvento e avrebbe inizio una nuova Età dell’Oro


definita sin dagli inizi del ‘900 “New Age”10.
Tutti movimenti complottisti e la maggior parte delle
correnti esoteriche del XX e del XXI secolo fanno
riferimento alle “sciocchezze blavatskyane e post
blavatskyane” di cui parlava Agehananda Bharati,
ovvero ad un bizzarro sistema di interpretazione della
realtà e della storia dell’umanità basato su una serie di
romanzi di fantascienza cui, per andare incontro ai gusti
dell’epoca, si sono mescolati elementi veri, verosimili o
completamente inventati tratti dalla filosofia orientale.
Uno dei “libri-maestri” dell’élite intellettuale
ottocentesca – e in seguito dell’élite nazista11 - fu senza
dubbio “The Coming Race” (dalla seconda edizione
“Vril, The Power of Coming Race) di sir Edward George
Earle Bulwer-Lytton. “The Coming Race”, in Italiano
“La Razza che Verrà”12 non parla specificamente del
Terzo Occhio, ma descrive l’incontro fortuito del
protagonista con una razza umanoide che vive in
10
“The New Age” è il nome di una rivista fondata nel 1894 da Joseph
Clayton, un attivista Socialista cristiano, con lo scopo di diventare il
trait d’union tra le istanze sociali dell’epoca e la cultura cristiana. Ben
presto “The New Age” divenne un punto di riferimento per le
avanguardie artistiche europee. Nel 1907 fu acquistata, con il denaro
messo a disposizione da Georges Bernard Shaw, da un allievo di
Gurdjeff, Alfred Richard Orage e progressivamente i suoi contenuti
virarono verso l’esoterismo e il misticismo che oggi riconosciamo negli
attuali movimenti spiritual-complottisti.
11
Vedi il nostro “Liberamente Schiavi”; Edizioni Writeup Site. Roma
2019.
12
https://www.amazon.it/razza-verr%C3%A0-Edward-Bulwer-
Lytton/dp/8889993081
32

gigantesche caverne sotto la superficie terrestre. Gli


abitanti del mondo sotterraneo, dotati di poteri psichici,
sono altissimi, di bell’aspetto, e grazie ad un fluido
energetico chiamato Vril dispongono di una tecnologia
avanzatissima (volano grazie ad appendici meccaniche
poste sulle scapole), e sono immuni dalle malattie
(sempre grazie al Vril).
Lytton, massone e membro della camera dei Lord, zio
del viceré dell’India13, fu uno dei romanzieri e
drammaturghi più famosi del 1800. Lo potremmo
definire il Dan Brown della sua epoca. Il suo libro “Gli
Ultimi Giorni di Pompei” ebbe un successo mondiale
(basti pensare che, dal 1908 al 1958, ne furono tratti ben
sette film) e negli Stati Uniti viene ancora oggi studiato
all’università come esempio di cattiva scrittura (“Era
una notte buia e tempestosa”, incipit dei maldestri
esperimenti letterari del bracchetto Snoopy, è una frase
di Lytton). Quando sir Litton pubblicò “The Coming
Race”, per gettare sulla sua opera un alone di mistero,
usò un espediente assai comune all’epoca: raccontò di
esserne solo l’editore e di aver ricevuto il manoscritto da
un anonimo iniziato appartenente alla segretissima
confraternita dei Rosacroce (nota ai nostri giorni anche
grazie alla fiction degli anni ’60 “Belfagor, Il fantasma
del Louvre”, con Juliette Greco). La finzione divenne
più vera del vero: i teosofi Helena Blavatsky, Annie
Besant, Charles Webster Leadbeater, Rudolf Steiner e
13
Edward era il fratello di Lord Dalling, anch'egli politico,
drammaturgo e romanziere. Il figlio di Lord Dalling, Robert fu viceré
dell'India dal 1876 al 1880.
33

soprattutto William Scott-Elliot, presero – a quanto pare


– “The Coming Race” per una testimonianza, anziché
per una fiction. Scott-Elliot pubblicò ben tre libri
sull’argomento:

- The Story of Atlantis: A Geographical, Historical


and Ethnological Sketch, 1896.
- The Lost Lemuria, 1904.
- The Great Law: a Study of Religious Origins and
of the Unity Underlying Them, London and New
York: Longmans, Green, and Co., 1899. Scritto
con lo pseudonimo di W. Williamson.

La Blavatsky14, da parte sua, riprese anche le teorie del


“Continente perduto di Bailly15” (Histoire de
l'astronomie ancienne” e “Lettres sur l'Atlantide de
Platon”) e le inserì nel suo manoscritto “Le Stanze di
Dzyan”, parte integrante del suo libro più celebre, “La
Dottrina Segreta”16.
“Le Stanze di Dzyan” sarebbe un libro fondamentale per
far luce sulle origini dell’umanità che, purtroppo andò
perduto diverse migliaia di anni fa, ma i teosofi, grazie
14
https://it.wikipedia.org/wiki/Helena_Blavatsky
15
Jean Silvain Bailly (1736 – 1793), astronomo francese fu autore di
due libri su Atlantide, “Histoire de l'astronomie ancienne” del 1775
e “Lettres sur l'Atlantide de Platon” del 1779, in cui univa il mito di
Atlantide a quello di Iperborea, narrato da Erodoto, e si diceva certo che
il continente perduto fosse in Siberia.
16
The Secret Doctrine, the synthesis of Science, Religion and
Philosophy, 1888.
34

all’apertura del Terzo Occhio erano dei chiaroveggenti e


avevano il potere di andare avanti e indietro, in stato di
trance, nella storia dell’universo, consultando i “Registri
Akashici” - una specie di biblioteca universale delle idee
e dei fatti che galleggerebbe in una dimensione sottile,
non accessibile in condizioni ordinarie – per cui erano
riusciti a recuperarlo.
Tra l’altro i teosofi erano – così dicevano e dicono
tutt’ora - in contatto con dei maestri invisibili, alieni
appartenenti ad altre dimensioni, o anime disincarnate di
maestri antichi, che li istruivano sulla Vera Scienza,
sulla Vera Dottrina e in genere sulla Verità, una verità
che era stata nascosta per millenni da un complotto
ordito da creature malvagie appartenenti al nostro e ad
altri mondi. Così, grazie ai teosofi, “Le stanze di Dzyan”
erano miracolosamente ricomparse e la loro lettura,
insieme agli insegnamenti dei maestri invisibili, avrebbe
permesso agli esseri umani di comprendere il loro
passato e costruirsi un futuro radioso.
Ma vediamo qual è il passato dell’umanità secondo i
teosofi17 (il grassetto è nostro):
“Le epoche evolutive della Terra vengono suddivise in
Globi, Ronde e Catene e sono contraddistinte da forme di
vita che gradualmente si densificano fino a raggiungere
lo stato fisico attuale, per poi ritornare gradualmente a
forme sempre più sottili. Il Globo è una forma planetaria
costituita - in progressione - da:

17
http://www.scienzenoetiche.it/raphael_project/inc_162.htm e
http://fohat.clarence.com/permalink/185776.html.
35

1. calore,
2. calore + gas,
3. calore + gas + liquidi,
4. calore + gas + liquidi + solidi per poi invertirsi.
L'onda di vita passa quindi da un Globo all'altro in 7 cicli
di milioni di anni (Ronde), che a loro volta si ripetono per
7 volte (Catene), ulteriormente ripetute per 7 (1 Ronda =
7 Globi / 1 Catena = 7 Ronde = 49 Globi / 1 Schema
Evolutivo completo = 7 Catene = 49 Ronde = 343 Globi).

I 7 globi sono definiti come: Saturno, Sole, Luna, Terra


(l'attuale), Giove, Venere, Vulcano, mentre le 7 epoche
relative al Globo attuale sono le seguenti:
- Polare,
- Iperborea,
- Lemurica,
- Atlantidea, che fanno parte del nostro passato.
Poi c'è l'attuale epoca Ariana e altre due future ancora
senza nome.
Nell'ambito dell'epoca Ariana (o post-Atlantica) che
stiamo vivendo ci sono poi 7 ulteriori suddivisioni:
1) un periodo iniziale guidato da un'antichissima civiltà
dell'India,
2) periodo Persiano,
3) periodo Egizio-Caldaico,
4) periodo Greco-Romano,
5) periodo attuale Anglo-Sassone a cui seguiranno due
periodi futuri (il prossimo sembra di matrice Russo-
Slava) che concluderanno l'epoca Ariana.
Per riassumere sinteticamente, attualmente ci troviamo
dunque nel quarto Globo (Terra), quinta epoca (Ariana) e
quinto periodo di civiltà (Anglo-Sassone).
Alle 7 grandi epoche contenute in ogni ciclo di Globo
corrispondono quelle che la Teosofia chiama Razze-
Radice o Razze-Madri:
36

La prima Razza-Radice, detta Polare in quanto


localizzata per lo più ai poli, aveva una forma umana
astrale-eterica non ancora discesa sul piano fisico, di
natura filamentosa, asessuata, fluttuante nell'atmosfera
densa e ribollente della Terra ancora in via di
solidificazione.
Nella seconda epoca, Iperborea, convivevano due forme
umane: una simile a quella precedente mentre l'altra con
una struttura fisica un poco più densa. In queste forme
non c'era alcuna divisione sessuale, ma una procreazione
per gemmazione.
La vita si svolgeva per lo più nel continente Iperboreo
(nell'attuale estremo Nord del pianeta) che a quel tempo
godeva di un clima tropicale.
Una forma umana simile a quella attuale comincia con
l'apparire della razza della Lemuria (situata in Asia
orientale): più evoluta, sempre più solida ma ancora
flessibile e quindi non ancora in grado di assumere la
stazione eretta. La riproduzione avveniva sempre per
emissione diretta, gli esseri presentavano una struttura
androgina, ma di forma umana - con pelle scura - che
gradualmente arriva a scindersi in due distinti caratteri
sessuali (da tale razza derivano gli aborigeni australiani
e i boscimani dell'Africa).
La quarta epoca, Atlantidea, si sviluppò nel continente di
Atlantide, il quale andò incontro a successivi cataclismi
che lo frammentarono fino a lasciare due grandi isole
chiamate Ruta e Daitya al centro dell'Atlantico, sommerse
definitivamente circa 12.000 anni fa.
L'uomo atlantideo - di pelle rossa - era dotato di una
naturale e istintiva chiaroveggenza e fondò una grande
civiltà dotata di avanzate tecnologie, comunque molto
diverse dalle nostre. Verso la fine dell'epoca atlantica, i
colossali cataclismi che portarono alla totale scomparsa
del continente costrinsero infine i superstiti ad emigrare
37

verso tre direttrici: ovest (da cui originano le razze rosse


amerinde), nord-est (attuali popoli europei) e sud-est
(colonizzando il Nord Africa fornirono le basi della civiltà
Egizia). Ulteriori visioni sulla storia perduta del pianeta
vengono dalla Cosmogonia di Urantia, dalle già ricordate
rivelazione fatte da Thoth a Drunvalo e dalle svariate
canalizzazioni telepatiche provenienti dalle dimensioni
extraterrestri.”

Ovviamente non esiste una sola prova archeologica né


una qualche documentazione che possa avvalorare
queste teorie. Si tratta, fino a prova contraria
naturalmente, di fantasiose credenze nate, chissà come,
negli ambienti esoterici del XIX secolo che sono andate
a creare quell’insieme di “sciocchezze blavatskyane e
post-blavatskyane”, come le definiva Agehananda
Bharati, che, sorprendentemente – secondo noi – hanno
fatto breccia nella mente di alcuni dei maggior
intellettuali del ‘900 finendo per influenzare buona parte
della cultura occidentale e, per l’effetto boomerang cui
abbiamo accennato, la cultura orientale degli ultimi 150
anni.
38
39

IL SEGRETO DEL FIORE D’ORO

L’influenza dell’esoterismo occidentale sulle discipline


ha prodotto un progressivo allontanamento dagli
insegnamenti originali: se per lo Yoga tradizionale e nel
Sāṃkhya – la filosofia ateistica che sta alla base sia
dello Yoga sia dello Āyurveda – tutto ciò che riguarda
l’essere umano - compresi pensieri, emozioni e ciò che
noi definiamo anima individuale - fa parte della
manifestazione intesa come sfera materiale, nelle
moderne concezioni si è creato un dualismo spirito-
materia o mente-corpo più vicino alle teorie del
neoplatonismo e dello gnosticismo cristiano che alle
concezioni indiane.
Per tornare al tema della nostra trattazione, nello Yoga
moderno - e nelle visioni contemporanee del taoismo,
del buddhismo, del misticismo Sufi e della “New
Qabbalah”, oggi considerati quasi delle variazioni sul
tema dello Yoga - “apertura del terzo occhio” significa
avere la possibilità di accedere a dimensioni e stati di
40

coscienza extra-ordinari e di acquisire poteri


paranormali.
La causa di questo evento sarebbe il risveglio di
Kuṇḍalinī, l’energia della creazione che giace,
dormiente, dentro di noi fin quando – in seguito all’uso
di droghe, pratiche di alchimia interiore o eventi fortuiti
– non si risveglia riportando alla coscienza dell’essere
umano la sua natura divina e liberandolo dai vincoli –
fisici, psicologici e culturali – che lo tengono incatenato
al mondo della materia. Questa visione di Kuṇḍalinī e
dell’apertura del Terzo Occhio ricorda da vicino - forse
troppo - la cosmogonia della Gnosi cristiana, con l’eone
Sophia che viene imprigionata nella materia dai sette
Arconti emanati dal Demiurgo, suo figlio per così dire
illegittimo, e dovrà attendere la discesa dal Pleroma – la
dimensione dell’entità spirituale – della sua controparte
maschile chiamata Logos o Cristo. Grazie all’energia
vitale definita Pneuma gli esseri umani potranno così
risvegliarsi alla luce della conoscenza e, una volta
liberati dalle catene dalla materia, sotto forma di anime
pure potranno far ritorno alla “casa del padre”, il regno
dell’Uno senza secondo e dei suoi eoni.

La somiglianza o addirittura l’identità delle attuali teorie


sullo Yoga alchemico – definiamo così le tecniche
psicofisiche finalizzate al cosiddetto risveglio di
Kuṇḍalinī – con la teorie gnostiche è spiegabile solo in
due maniere:

1. Si tratta di brandelli di un unico insegnamento


antico come l’essere umano – la Tradizione con la
“T” maiuscola di cui parlano i fratelli Huxley,
41

Mircea Eliade, Julius Evola ed in genere teosofi,


esoteristi e new-ager occidentali;
2. Si tratta del frutto della manipolazione - o per lo
meno dell’adattamento - del sapere orientale allo
gnosticismo e al neoplatonismo occidentale
operata negli ultimi 150 anni da teosofi, massoni
e new ager.

In virtù della mia esperienza personale – ho praticato


yoga e tecniche psicofisiche cinesi quasi esclusivamente
con maestri orientali almeno fino al 2010 – pur non
escludendo la possibilità dell’esistenza di una
Tradizione unica, propendo per la seconda ipotesi;
ovvero per una generale manipolazione del sapere
orientale operata nel XIX e nel XX secolo per
alimentare la credenza di una religione unica di origine
non umana. La mia ovviamente non è una certezza e,
sono pronto a cambiare idea di fronte a ad eventuali
evidenze archeologiche o sperimentali, ma la sensazione
è che le tecniche psicofisiche indiane e, di conseguenza
– vista la provata trasmissione di teorie e pratiche
attraverso la “via della Seta” e le rotte marittime – le
discipline di alchimia interiore cinesi e giapponesi siano,
rispetto all’esoterismo occidentale – più legate alla
realtà fisica e a quella che oggi definiamo scienza.
Se è vero che alcune pratiche di “evocazione”
rintracciabili nello yoga alchemico indiano e nel Qi
Gong Wai Dan possono ricordare quelle della teurgia
occidentale, occorre considerare che le divinità o gli
spiriti invitati a scendere in oggetti e parti del corpo o
addirittura ad impossessarsi del praticante nel tantra e
nell’alchimia interiore taoista, non appartengono a
42

dimensioni extra mondane, ma sono la rappresentazione


di vibrazioni o energie naturali che appartengono alla
sfera delle possibilità di esperienza dell’essere umano.
43

La simbologia di Kuṇḍalinī inserita nell'Albero delle Sephirot Qabalistico, tipico


esempio della contaminazione culturale della New Age. Fonte:
https://www.pinterest.it/pin/703898616733735059/
44

Per tornare al “terzo occhio” e agli effetti “psichedelici”


legati al cosiddetto “risveglio di Kuṇḍalinī”, la mia
opinione è che si tratti di fenomeni fisici, sperimentabili
da tutti coloro che siano in possesso della giusta chiave
di lettura degli insegnamenti antichi.
Si legge, ad esempio ne "IL SEGRETO DEL FIORE
D'ORO", traduzione di R. Wilhelm (pag. 118
dell'edizione italiana a cura di Boringhieri):

"Non occorre far altro che far cadere la luce nell'udito


[...]. Si tratta del risplendere proprio della luce oculare.
L'occhio guarda solo all'interno e non verso l'esterno.
Percepire un chiarore senza guardar fuori, questo è
sguardo interiore".

Frontespizio della prima edizione inglese de "Il Segreto del Fiore d'Oro",con la
traduzione di Richard Wilhelm18.

18
Richard Wilhelm (1873 – 1930) è stato un orientalista, teologo e
missionario tedesco. La sua opera più famosa è la traduzione del “Yi
Jing”, il “Libro dei Mutamenti”.
45

“Il Segreto del fiore d’Oro” è un interessantissimo libro


di meditazione taoista del XVIII secolo, ristampato in un
migliaio di copie, negli anni '20 e tradotto in Occidente,
per la prima volta da Wilhelm, amico e collaboratore di
Gustav Jung.

L’autore, un certo Lu Tzu, dichiara prima di tutto che


non c’è alcuna differenza tra buddhismo, taoismo,
confucianesimo, a voler significare sia che la
conoscenza prescinde dai credi religiosi, sia che le
“tecniche operative” sono le medesime. Poi dà una serie
di precise indicazioni sul come sedersi per praticare
meditazione, ovvero dove posare lo sguardo – sulla
“gobbetta” del naso, non sulla punta come si afferma di
solito – in che misura abbassare le palpebre– gli occhi
non devono essere né chiusi né “spalancati”, ma deve
filtrare giusto un raggio di luce – ecc. Si tratta
evidentemente di indicazioni per ottenere “l’apertura
del Fiore d’Oro”, ovvero la “Realizzazione”, tramite
tecniche esclusivamente fisiche.

Non c’è traccia, nel libro di Lu Tzu, né di devozione né


di speculazione filosofica; sarebbe impossibile ad
esempio interpretare la frase sullo “sguardo interiore”
che abbiamo citato come un invito a praticare
l’autoanalisi - del genere “Chi sono io” - o a ricercare
l’origine di pensieri ed emozioni, metodi di
“meditazione” che tanto vanno di moda nell’ambito
dell’attuale yoga “post–new age”. Il “Guardarsi dentro”
del “Segreto del Fiore d’Oro” è un osservare con
l’occhio fisico l’interno del proprio corpo (e, molto
46

probabilmente, utilizzare i muscoli oculari per stimolare


la produzione di neuro ormoni):
"[...] L'occhio guarda solo all'interno e non verso
l'esterno. Percepire un chiarore senza guardar fuori,
questo è sguardo interiore."

In altre parole “sguardo interiore” significa esattamente


guardare dentro il corpo, e questo porta a considerare la
possibilità che molti dei simboli della tradizione cinese e
della tradizione indiana non siano rappresentazioni di
particolari stati mentali o di alterazioni percettive, ma la
visione di determinati organi e di processi fisiologici
innestate dalla stimolazione di tali organi.

Il “Palazzo di Giada” dei taoisti o la “serpentessa


Kuṇḍalinī” dei tantrici sono, a quanto pare, “realtà
fisiche”, e non allegorie da interpretare in chiave
esoterica o psicologica.
47
48

SCIENZA MEDIOEVALE

Lo Yoga medioevale – che oggi spesso viene definito


Tantra – e le pratiche taoiste raggiungono il momento di
massima diffusione nell’era moderna, tra il 700 e il 1700
dell’era cristiana, un’epoca in cui la conoscenza della
fisica, della chimica e della fisiologia in Cina e in India
erano paragonabile a quella dei nostri scienziati
rinascimentali o dei loro colleghi arabi:
Sia indiani sia cinesi, tra l’altro, avevano la capacità di
costruire aerostati per uso militare, navi in grado di
varcare gli oceani, armi di ogni genere e strumenti di
precisione. I medici sezionavano cadaveri, facevano
esperimenti di ogni genere e si riunivano per confrontare
i risultati delle loro ricerche sia nelle numerose
università dell’epoca – la prima università indiana,
quella di Taxila, è stata fondata prima dell’arrivo di
Alessandro Magno nella Valle dell’Indo, nel IV secolo
a.C. – sia alle corti di sovrani, illuminati.
49

Lo smembramento sia di cadaveri sia di esseri viventi


era una pratica più diffusa di quanto si possa credere.
In India, nonostante la riforma dell’Induismo e la
parziale riscrittura dei testi classici e della storia delle
discipline psicofisiche attuate nel XIX secolo
dall’aristocrazia bengalese – Tagore, Vivekananda,
Aurobindo, Yogananda, per citare solo i più famosi –
tesa a dare un’immagine edulcorato dello Yoga, dai miti
e dai racconti emerge il ricordo di pratiche che
prevedevano, oltre allo smembramento dei cadaveri, il
cannibalismo, la tortura – spesso autoinflitta – il
sacrificio umano.
Per ciò che riguarda la Cina basta ricordare il lingchi (凌
遲 o, in cinese moderno 凌迟) detto anche shā qiān dāo
( 殺 千 刀 o in cinese moderno 杀 千 刀 ), nome che
dovrebbe ricordare la lenta ascesa di un monte.
Il lingchi era una particolare forma di tortura, praticata,
con altri nomi, a partire dal III secolo a.C. (dinastia Qin)
fino al 1905 – anno della sua abolizione – cui venivano
condannati coloro che si erano resi colpevoli di stragi,
matricidio o parricidio, omicidi di maestri spirituali o
tentativi di sovvertire l’ordine “cosmico”.
Il condannato dopo aver assunto grandi quantità di
oppio, veniva legato, nudo, ad un palo, in un luogo
pubblico – di solito la piazza principale della città – e
fatto a brandelli con estrema perizia da un carnefice
“specializzato” che aveva il compito di far sopravvivere
la vittima il più a lungo possibile in modo da
costringerla ad assistere alla” messa a nudo dei suoi
muscoli degli organi interni, e al taglio delle ossa.
50

Le procedure per il lingchi variano a seconda delle


attitudini del carnefice, ma in genere si cominciava dal
taglio delle palpebre, delle orecchie, del naso, dei
genitali, e delle dita delle mani e dei piedi; quindi si
passava allo spellamento e all’asportazione dei muscoli
di grandi dimensioni (cosce, glutei, dorsali) e, infine al
taglio delle ossa. Talvolta, per pietà o per le tangenti
pagate dalla famiglia delle vittima, il condannato veniva
ucciso in pochi minuti con un colpo al cuore o alla gola,
e la mutilazione avveniva solo dopo la morte, ma in
alcuni casi la tortura durava per ore o addirittura per
giorni.
La carne, i testicoli e gli organi interni, venivano poi
utilizzati, probabilmente, per preparazioni medicinali; il
resto, dopo essere stato esposto al pubblico, veniva
bruciato e le cenere disperse.
51

Martirio di Joseph Marchand, Vietnam 1835. Fonte: PHGCOM – Own work by


uploader, personal photograph of 1860 painting at the MEP.
52

La tradizione millenaria del lingchin, testimoniata da


fotografie del primo novecento che suscitarono
l’interesse morboso degli studiosi occidentali 19, ci dà,
innanzitutto, la misura del livello di crudeltà cui può
giungere l’essere umano, ma ci mostra pure come sia
possibile che gli antichi maestri tantrici e taoisti
avessero una conoscenza approfondita dell’anatomia e
della neurofisiologia: potevano osservare direttamente
gli organi interni e i processi fisiologici di esseri umani
in vita, e avevano modo di osservare le modificazione
causate dall’uso di droghe, dalla sofferenza o dal
piacere. Questo genere di conoscenza avrebbe posto le
basi di ciò che possiamo definire “Alchimia Interiore”,
una serie di tecniche finalizzate alla modificazione del
corpo e della mente tramite l’utilizzazione di sostanze
prodotte dall’organismo.
Tornando alla frase de “Il Segreto del Fiore d’Oro” che
abbiamo citato in precedenza, è più che probabile che
riguardi la possibilità di osservare con l’occhio fisico,
organi e processi fisiologici all’interno del corpo
provocando, tramite un utilizzo non ordinario dei
muscoli oculari, la stimolazione di determinate
ghiandole – probabilmente la ghiandola pituitaria posta
sulla sella dell’osso sfenoide in linea con il chiasma

19
Vedi.
Georges Dumas, “Nouveau Traité de psychologie”, Paris, 1930-1943;
George Bataille “L'expérience intérieure” (1943);”Le coupable“(1944)
e “Le Lacrime di Eros” (1961);
Suan Sontag, Davanti al Dolore degli Altri (2003).
53

ottico – e la conseguente produzione di determinati


ormoni.
Il “guardarsi dentro” di cui parlano tantrici e taoisti
potrebbe quindi essere la visione dell’universo interiore”
inteso non come un insieme di idee, emozioni e ricordi,
ma come una serie di organi che vengono rappresentati
simbolicamente con divinità, palazzi, mostri e animali
mitici; quasi che il corpo fosse costituito da una
comunità di esseri viventi che lavorano insieme per dar
forma a ciò che definiamo all'essere umano.
Immaginiamo, per un attimo, che ci sia una città dentro
di noi, abitata da diecimila o centomila persone.
Ogni abitante avrà una sua fisionomia, un ritmo
corporeo, dei pregi e dei difetti caratteriali, ma ci
saranno degli eventi che annullano le differenze: una
musica festosa, il vento di primavera, il tramonto o
l'uragano, che spaventa, ma unisce.
I mantra, le posizioni, le mudrā per gli abitanti della
“città–corpo” non sarebbero altro che gli eventi che
rinsaldano la comunità, spingendo gli esseri che abitano
in noi a vivere in armonia.
Se "gli esseri che ci abitano" avessero la capacità di
scegliere, di avere paura, di armonizzarsi con gli altri,
non potremmo dire che ognuno di loro ha una propria
coscienza?
Se così fosse i moti della nostra anima non sarebbero
altro che la risultante delle relazioni che si stabiliscono
trai nostri organi corporei.
54

LA GHIANDOLA PITUITARIA

Talamo. Fonte: Anatomography maintained by Life Science Databases (LSDB).

Nella figura precedente è evidenziato in scuro il


“glande” del tronco encefalico, formato da talamo,
ipotalamo, pituitaria, si appoggia sul tronco encefalico, e
55

si lega al midollo spinale, che discende nella colonna


vertebrale fino ad uscirne come Filum Terminale.
In direzione del Chiasma Ottico, sulla faccia anteriore
del tronco encefalico, è posta la ghiandola Pituitaria o
Ipofisi, che si attiva con la luce, mentre sulla faccia
posteriore è posta la ghiandola Pineale o Epifisi, che si
attiva invece con l’oscurità–

Ghiandola Pineale o Epifisi. Fonte: Anatomography maintained by Life Science


Databases (LSDB).

Nella cultura New Age e Post New Age si tende a


riconoscere il cosiddetto “Terzo Occhio” nell’Epifisi,
ma dato il rapporto tra Kuṇḍalinī, e l’energia sessuale
sarebbe forse più indicato individuarlo nell’Ipofisi.
L’Ipofisi o ghiandola Pituitaria è una ghiandola di
piccole dimensioni – ha un peso non superiore ai 9
grammi – posta sulla “sella turcica dell’osso Sfenoide” –
l’osso a forma di falena che fluttua al centro del cranio
al ritmo delle maree del liquido cerebro–spinale – nelle
56

vicinanze del chiasma ottico. È separata dall'encefalo da


una porzione della dura madre, che la sovrasta ad
ombrello ed è collegata all’ipotalamo da un “peduncolo
vascolo–nervoso”. Intorno alla sella turcica si trovano
i seni cavernosi da cui defluiscono le carotidi interne e i
nervi cranici III, IV, V e VI; cosa spiega il motivo per
cui un cattivo funzionamento dell’Ipofisi possa
riflettersi negativamente sulle funzioni visiva, vascolare
e neurologica.

Posizione della Ghiandola Pituitaria rispetto al chiasma ottico. Fonte


https://it.wikipedia.org/wiki/Ipofisi#/media/File:Pituitary_gland.png

La compromissione dell’Ipofisi – o la sua parziale


rimozione (ipofeisectomia) durante gli esperimenti sulle
57

cavie da laboratorio – causa una diminuizione


dell’attività di tutte le ghiandole endocrine:
- La tiroide, e le surrenali si atrofizzano;
- Le gonadi vengano compromesse con scomparsa
della spermatogenesi nel maschio e
dell'ovulazione nella femmina;
- Aumenta la sensibilità all'insulina per la
compromissione delle isole pancreatiche, e può
insorgere una articolare forma di diabete;
- Provoca un arresto dello sviluppo somatico, con
alterazioni scheletriche e muscolari.
Se osserviamo adesso la lista degli ormoni prodotti da
questa minuscola ghiandola vedremo che l’ipotesi di un
suo legame con ciò che viene definito “Terzo Occhio”, è
un’ipotesi tutt’altro che da scartare.
Le varie cellule dell’Ipofisi, a seconda della loro
“specializzazione” producono infatti:

1. L’ormone della crescita, o l'ormone somatotropo


– ormone GH o STH – che produce la
deposizione del calcio nel tessuto osseo e la
proliferazione delle cellule cartilaginee, aumenta
la massa dei muscoli scheletrici e stimola
la sintesi proteica;
2. La prolattina – PRL – che agisce sulla ghiandola
mammaria e stimola la secrezione di latte dopo il
parto;
3. L'ormone melanotropo – MSH – ha effetto trofico
– ovvero di stimolazione e accrescimento
58

– sui melanociti, responsabili della pigmentazione


della pelle;
4. L'ormone tireotropo – TSH – che agisce
sulla tiroide, favorendo la liberazione degli
ormoni tiroidei – tiroxina e triiodotironina – che
regolano i processi metabolici ed il consumo di
energia dell’intero organismo;
5. L'ormone adrenocorticotropo (ACTH) determina
a sua volta la sintesi e la secrezione molto rapida
degli ormoni della corteccia surrenale e stimola
il metabolismo lipidico.
6. Gli ormoni “follicolo–stimolante – FSH – e
luteinizzante – LH – agiscono sulle gonadi.
Nelle ovaie  il primo stimola la formazione dei
follicoli e la secrezione degli estrogeni, il secondo
la formazione del “corpo luteo” e la secrezione
del progesterone; nei testicoli, l'LH agisce invece
sulle “cellule interstiziali, promuovendo
la spermatogenesi e la secrezione dell'ormone
testicolare – il testosterone – mentre l'FSH
favorisce la sintesi di una proteina (ABP) che
“legando” il testosterone, attiva gli spermatozoi;
7. L’ Ossitocina detta “ormone dell’amore”, che
viene prodotta durante il rapporto sessuale,
l’allattamento e il parto;
8. L’ ADH, o “ormone della paura.

Avendo l’Ossitocina e l’ADH caratteristiche opposte – il


primo stimola la produzione di sperma, latte materno,
fluidi genitali, mentre il secondo funge da antidiuretico
facendo, cioè, trattenere i liquidi – la ghiandola
Pituitaria non può produrli contemporaneamente:
59

O viene secreto l’ormone della paura o viene secreto


l’ormone dell’amore.
Questo, rammentando un insegnamento tradizionale
ripreso da Osho – “il contrario dell’amore non è l’odio,
ma la paura” – potrebbe essere fonte di interessanti
riflessioni, ma quel che ci preme, in questo contesto, è
analizzare la possibilità che ciò che viene definito “terzo
occhio” sia in realtà, semplicemente, la ghiandola
Pituitaria, o Ipofisi, o, altra ipotesi, l’insieme di Talamo,
Ipotalamo e Pituitaria.

L’Ipofisi, come abbiamo accennato, è posta sotto il


Talamo Il Talamo a sua volta entra in contatto con il
midollo spinale grazie al tratto spino–talamico mediante
il quale vengono trasmesse le informazioni sugli stimoli
tattili, sul dolore e sulla temperatura. Sopra al talamo
troviamo poi una delle strutture più importanti del
cervello: il Corpo Calloso.
Il Corpo Calloso, congiunto al chiasma ottico attraverso
una sottile lamella grigia detta “lamina terminale” –
collega tra loro i quattro lobi celebrali – lobo frontale,
temporale, parietale e occipitale – garantendo il
trasferimento delle informazioni trai due emisferi e,
quindi, la loro coordinazione.

Possibile che gli antichi maestri tantrici e taoisti abbiano


messo a punto tecniche psicofisiche per stimolare
volontariamente le funzioni del Talamo, dell’Ipotalamo
e soprattutto della ghiandola Pituitaria?

Se così fosse il fenomeno definito “risveglio di


Kuṇḍalinī” o “apertura del Terzo Occhio” consisterebbe
60

“semplicemente” nella iperstimolazione degli ormoni –


responsabili della crescita, del metabolismo, dell’energia
distribuita nel corpo, del piacere e della fertilità.

Corpo Calloso (in rosso). Fonte: Anatomography maintained by Life Science


Databases (LSDB).
61
62

ALCHIMIA INTERIORE

Nello Yoga e nel Taoismo le testimonianze di pratiche


basate sulla stimolazione “diretta” del sistema endocrino
in genere e della ghiandola Pituitaria in particolare,
attraverso, ad esempio particolari movimenti dei bulbi
oculari che porterebbe alla la visione della “luce
interiore” o alla “apertura del Terzo Occhio” sono
tutt’altro che rare. Un tipico esempio di questo genere di
“Alchimia interiore” – collegata all’utilizzazione
dell’energia sessuale - è lo Yoga del Sesso medioevale,
diffuso nell’XI secolo in Tibet e Nepal dalla coppia
tantrica Nigumā e Nāropā – conosciuto come “Yoga
delle sei membra” o “Ṣaḍaṅgayoga”20.

I “sei passi” di Nāropā – che differiscono sensibilmente


dai “sei passi” insegnati dalla sua sposa mistica Nigumā
– sono parte integrante del Kālacakratantra, una serie di
testi e commentari che, formano, nel loro insieme un

20
Ṣaḍaṅgayoga è un termine usato comunemente per indicare il
percorso dello Haṭḥayoga medioevale. Vedi “CONCLUSIONE”.
63

dettagliatissimo manuale di yoga e di “fisiologia


sottile”21.
Prima di addentrarci nella descrizione delle specifiche
tecniche operative crediamo sia necessario accennare ai
principi generali su cui si basano il Kālacakratantra e,
in genere, le pratiche di Alchimia interiore dello yoga
medioevale:

21
La traduzione più attendibile del testo pare sia quella di Raniero
Gnoli e Giacomella Orofino - pubblicata nel 1994 da Adelphi con il
titolo “Nāropā, INIZIAZIONE, KĀLACAKRA” – alla quale faremo
riferimento in questo capitolo.
64

Sukhasiddhi, allieva di Nigumā, fondatrice del lignaggio tantrico Shangpa Kagyu.


Fonte: https://www.yogapaoloproietti.com/2020/01/i–riti–erotici–di–sambhala.html

Il praticante di “Ṣaḍaṅgayoga” innanzitutto deve essere


in grado di far circolare l’energia nei canali e nei plessi
che fanno parte del – o vengono influenzati dal –
cosiddetto “corpo sottile” definito Liṅga śārīra o
Sūkṣma śarīra.
Nei testi si parla, in genere di 72.000 canali – nāḍī – che
conducono il soffio vitale – prāṇa – in tutte le parti del
corpo. In genere –vedi
65

I canali più importanti, secondo lo Ṣaḍaṅgayoga, sono


sei:
Tre sopra la “ruota dell’ombelico” e tre, che
rappresentano delle modificazioni dei tre superiori, nella
zona sotto l’ombelico.
Il primo dei tre canali chiamato avadhūtī, khagamukhā,
suṣumṇā o taminī (“la tenebrosa”) – che potremmo
identificare con uno dei canali del midollo spinale –
parte dalla fontanella anteriore e scende lungo la
colonna vertebrale fino all’altezza dell’ombelico dove
piegandosi a destra, dà luogo ad un altro canale –
considerato una modificazione del canale centrale –
chiamato śaṅkhinī, che svolge la funzione di emissione
del seme.
Lungo questo canale centrale (formato in realtà dal
canale mediano superiore e dal canale di destra
inferiore) sono situati sei plessi energetici – cakra – da
cui si diramano altri canali, considerati petali (dala), che
raggiungono il numero totale di 156.
- Il primo cakra – dal basso – è nella zona dei
genitali. Secondo la dottrina del Kālacakratantra
è di colore azzurro (verde in altri tradizioni) ed ha
32 petali;
- Il secondo è nella zona dell’ombelico, è di colore
giallo ed ha 64 petali;
- Il terzo è nella zona del cuore, è nero (blu secondo
altre tradizioni) ed ha 8 petali;
- Il quarto è nella gola, è rosso ed ha 32 petali (16
secondo altre tradizioni);
66

- Il quinto, identificabile secondo noi con la


ghiandola pituitaria – è nella zona della fronte,
sopra le sopracciglia; è bianco ed ha 16 petali (32
secondo altre tradizioni);
- Il sesto è nella parte più alta del cranio (nel
buddhismo uṣṇīṣa o “ciuffo di Buddha”), è verde
ed ha 4 petali.
A sinistra e a destra del canale centrale – nella zona
sopra l’ombelico, ci sono altri due canali, chiamati
lalanā – detto anche iḍā – e rāsanā – detto anche
piṅgalā – che si avvolgono intorno ai cakra.
In questi canali associati al Sole – canale di destra – e
alla Luna – canale di sinistra – circola il soffio vitale
durante l’inspiro e l’espiro (N.B. i due canali sono
relativi al ciclo giorno–notte, e quindi potremmo trovare
facilmente delle corrispondenze con le strutture del
cervello con simili funzioni, come la ghiandola pineale).
I tre canali fondamentali – avadhūtī, lalanā e rāsanā –
al cakra dell’ombelico si intrecciano, formando un nodo,
quindi scendono verso il basso cambiando posizione:
Avadhūtī, che in alto si trovava al centro, in basso è
posizionato a destra e, con il nome di śaṅkhinī, svolge la
funzione dell’emissione del seme;
Lalanā, che si trovava a sinistra, si trova adesso al
centro e svolge la funzione dell’escrezione delle feci;
Rasanā, che si trovava a destra, si trova adesso a sinistra
e svolge la funzione di escrezione dell’urina.
67

Al di sopra dell’ombelico il “soffio vitale” che scorre


nei tre canali principali viene definito prāṇa, al di sotto
dell’ombelico prende il nome di apāna.

Lo scopo della pratica dello yoga è quello di arrestare


(nirudh–) la circolazione del “soffio vitale” nei canali
laterali – del Sole e della Luna – per convogliarlo nel
canale centrale, detto avadhūtī.

Questo processo – l’arresto del soffio nei canali del Sole


e della Luna ovvero l’interruzione del sistema di
regolazione del ciclo giorno notte – viene paragonato
alle eclissi, ragion per cui il canale mediano viene
associato al “nodo settentrionale della Luna”, Rāhu –
considerato responsabile, appunto, delle eclissi – e
prende il nome di Taminī, “la Tenebrosa”.

Per provocare “l’eclissi di Sole e Luna” lo yogin pratica


il prāṇāyāma, o “controllo del soffio”, variando la
direzione, l’intensità e la durata di tre fasi associate ai
tre momenti respiratori, ovvero:

- Pūraka associato alla inspirazione;


- Kumbhaka associato all’apnea;
- Recaka, associato alla espirazione.

Pūraka, kumbhaka e recaka, sono simboleggiati dalle


sillabe OṂ, ĀḤ e HŪṂ, la cui recitazione, detta
vajrajāpa o “recitazione del diamante” viene identificata
con il prāṇāyāma stesso.
68

Nella teoria del kālacakratantra, il soffio vitale è il


“veicolo” della mente, per cui “dal controllo del soffio si
ottiene il controllo della mente”.
Dal controllo della mente a sua volta deriva il controllo
del seme definito bindu (in tibetano thig le).

Il bindu, definito anche bodhicitta – “pensiero del


risveglio” o “mente del risveglio” – risiede nella parte
più alta del cranio, sotto la fontanella posteriore
chiamata nello yoga buddhista uṣṇīṣa, che potremmo
individuare come il “glande” del tronco encefalico.

Una volta attivato il desiderio sessuale – ovvero “una


volta attivate le ghiandole che secernono gli ormoni
sessuali” – il bindu cola lungo il canale centrale per
arrivare, al glande del pene detto “gemma del vajra” o
vajrāgra.

In questo percorso discendente penetra in tutti i centri


energetici – cakra – assumendo, in quattro di essi,
caratteristiche e nomi diversi:

- Alla gola diviene conoscenza, jñāna;


- Al cuore diviene mente/memoria, citta;
- All’ombelico diviene parola, vac;
- Ai genitali diviene corpo, kaya.

Jñāna, citta, vac e kaya vengono considerati quattro


semi – bindu – diversi, che, durante la fase detta di
“concentrazione” o “ritenzione” – dharana – devono
essere “fissati” nei rispettivi cakra.
69

Lo “scioglimento” del seme è causato dal “fuoco del


desiderio” – kāmāgni – che giace nell’ombelico nella
forma, ovviamente simbolica, di una giovane donna di
bassa casta – caṇḍālī – chiamata in tibetano Gtum mo o
“Fiera dama”.
Caṇḍālī, rappresentata talvolta come una giovane
vedova seduta sulla riva di un fiume (il canale mediano)
in un certo senso è un energia che viene attivata “per
risonanza” dalla presenza fisica di una yoginī, oppure da
un’immagine che ritrae una donna – da sola o intenta a
far l’amore con il partner – o da un immagine
visualizzata22.
Spesso con il termine Caṇḍālī si indica anche il canale
mediano, “vivificato” dall’energia femminile pura.

22
È bene a proposito fare delle precisazioni:
Nei testi tantrici non si fa menzione di tecniche analoghe per attivare
caṇḍālī nelle donne, ma si accenna a tecniche di autoerotismo e a
“danze serpentine” che insorgono spontaneamente (Vedi. Drimé
Kunga,“The Life and Visions of Yeshé Tsogyal: The Autobiography of
the Wisdom Queen”, Snow Lion Publisher (2017). ISBN- 10
1611804345) il che, secondo noi, significa che per le concezioni
tantriche la yoginī ha in sé una capacità di attivare naturalmente e di
utilizzare le energie del desiderio.
L’uso del termine caṇḍālī - che indica propriamente una donna
appartenente alle caste più basse -viene di solito spiegato con la
necessità del tantrico di andare oltre i principi del bene e del male, del
puro e dell’impuro ecc. L’appartenenza delle più importanti maestre
tantriche – come Yeshe Tsogyal, Ma gcig Lab sgron e Nigumā - alle
classi abbienti e il loro essere donne di altissima preparazione culturale
lascia intravedere nell’uso termine caṇḍālī, più che l’indicazione di una
determinata provenienza sociale, la capacità di abbandonarsi ad istinti,
tra virgolette, “bassi” e di compiere azioni e assumere posizioni che,
allora come oggi, in certi ambiti vendono considerate “squalificanti”.
70

“Caṇḍālī” – si legge nell’Hevajratantra – “s’infiamma


nell’ombelico, e brucia i cinque Tathāgata, brucia
Locanā ecc. e, bruciatili, la luna, cioè il suono HAṂ,
comincia a fluire”.23
Dove per Tathāgata si intendono i cinque elementi,
“Locanā ecc.” sono i cinque sensi e gli oggetti di
percezione, mentre il verbo bruciare deve essere inteso
nel senso di “ridurre ad uno stato di non azione”.
Il seme, disciolto grazie all’energia del desiderio, come
si è detto, comincia a colare lungo il canale mediano
facendo sperimentare al praticante quattro diverse
condizioni di piacere o ānanda, ognuna delle quali è, a
sua volta, suddivisa in quattro gradi definiti “piacere del
corpo”, “piacere della voce”, “piacere della mente” e
“piacere della conoscenza”:
- Il primo piacere è detto prathamānanda –
“godimento iniziale” – e corrisponde alla discesa
del seme dalla fontanella al punto in mezzo alle
sopracciglia;
- Il secondo piacere è detto paramānanda –
“sommo godimento” – e corrisponde alla discesa
del seme dal centro della gola a quello del cuore;
- Il terzo piacere è detto viramānanda o
vivindharamaṇānanda – “godimento dalle molte
forme” – e corrisponde alla discesa del seme
dall’ombelico al centro dei genitali;

23
Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e
Gabriella Orofino. Pag. 71. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994).
71

- Il quarto piacere è detto sahajānanda –


“godimento innato” o “godimento dello stato
naturale” – e si sperimenta sul glande al momento
dell’emissione.
Alla fine del processo di discesa del seme –
caratterizzato da rāga inteso qui come “emozione del
desiderio sessuale” – si ha un processo inverso detto
virāga – “sazietà” – in cui il praticante sperimenta a
ritroso il percorso precedente – ovvero sahajānanda,
viramānanda, paramānanda, prathamānanda – fino ad
arrivare ad uno stato di totale assenza di desiderio detto
naṣṭacandra o “assenza della Luna” che indica la
cosiddetta Luna nera, fase finale della Luna calante.
L’uso del termine naṣṭacandra ci rivela che il percorso
discendente e ascendente del desiderio corrisponde alle
sedici fasi della Luna. Nel percorso discendente infatti:
- Il “primo godimento” – prathamānanda – diviso
in quattro gradi – piacere del corpo”, “piacere
della voce”, “piacere della mente” e “piacere della
conoscenza” – coincide con il primo quarto della
Luna crescente;
- Il “secondo godimento” – paramānanda – con i
suoi quattro gradi coincide con il secondo quarto
della Luna crescente;
- Il “terzo godimento” – viramānanda – con i suoi
quattro gradi coincide con il terzo grado della
luna crescente;
72

- Il “quarto godimento” – sahajānanda –con i suoi


quattro gradi coincide con l’ultimo grado della
Luna crescente.
Con l’orgasmo, ovvero il plenilunio, ha termine la
“quindicina chiara” o “quindicina del desiderio
sessuale” – ovvero il periodo di Luna crescente – ed ha
inizio la “quindicina scura” o “quindicina del non
desiderio sessuale” – ovvero periodo di luna calante –
che nel percorso a ritroso, a partire dal plenilunio,
passerà tutte le fasi precedenti fino ad arrivare alla fase
della “assenza di Luna” – naṣṭacandra – o Luna nera,
uguale e contraria al plenilunio.
L’insieme delle due quindicine costituisce il Saṃsāra;
Per nirvāṇa con base – prathiṣṭita – si intende l’orgasmo
ordinario;

Per nirvāṇa senza base – aprathiṣṭita –si intende


l’orgasmo della mente conseguente alla risalita
dell’essenza del seme che avviene durante la pratica
yogica;

Visto che ciò che viene definito saṃsāra è il continuo


alternarsi dei due periodi – quindicina del desiderio e
quindicina del non desiderio – lo yogin per interrompere
questo processo “naturale” dovrà cercare di eliminare la
“quindicina scura” ovvero la fase di assenza del
desiderio sessuale.
73

Immaginiamo che il desiderio crescente sia un liquido


bianco e il desiderio decrescente un liquido nero.
Se nella fase crescente il liquido bianco, dapprima in
quiete nel punto più alto della testa, scende sempre più
velocemente fino ad uscire dalla punta del pene
(plenilunio), nella fase discendente il liquido nero –
l’assenza del desiderio – salirà sempre più velocemente
fino a riempire il punto più alto della testa (Luna nera).
Per invertire il processo naturale lo yogin dovrà
controllare la fuoriuscita dell’essenza del seme –
bodhicitta – e farla risalire lungo il canale centrale in
luogo del liquido nero ovvero della “assenza di
desiderio”.
Nel kālacakratantra lo scioglimento del seme a fini
yogici – e non quindi a fini di riproduzione o di ricerca
del piacere – è definito “yoga del bindu”, mentre la sua
risalita è definita sūkṣmayoga o “yoga sottile”.
La risalita del seme – sūkṣmayoga – avviene in quattro
momenti distinti, vere e proprie operazioni alchemiche
che avvengono nei centri dell’ombelico, del cuore, della
gola e, infine, della testa:

1. Niḥsyanda, emanazione (ombelico);


2. Vipāka, maturazione (cuore);
3. Puruṣakāra, attività (gola);
4. Vaimalya, purezza (testa).

Questi quattro momenti sono accompagnati dai “canti


delle dee”, con cui si indicano sia i canti reali eseguiti
74

dalle yoginī che partecipano ai riti, sia i suoni interiori,


di vario genere, percepiti dal praticante durante lo stato
meditativo.

Durante la pratica dello “yoga del bindu” e dello “yoga


sottile” il vajra del praticante deve essere mantenuto
costantemente in erezione grazie alla presenza – fisica o
visualizzata – della yoginī.
Questo processo è descritto chiaramente nei versi del
Mūlakālacakratantra un testo oggi perduto, ma citato in
molti commentari del Kālacakratantra24:

“Fissato che abbia il vajra nel loto, egli dovrà


applicare il soffio vitale ai bindu, i bindu ai vari centri e
[infine] arrestare il movimento dei bindu nel vajra.”

“Lo yogin dovrà stare sempre in erezione, dovrà avere


il seme rivolto verso l’alto e, grazie all’unione con la
mudrā, sarà visitato [N.d.A. avrà visioni di esseri
divini] […] e […] diverrà vajrasattva in persona”.

L’arrivo del seme al centro della testa coincide con


l’interruzione della circolazione del soffio nei due canali
laterali (Sole e Luna) e questo porterà al progressivo
rallentarsi delle fasi respiratorie fino all’ottenimento di
una apnea spontanea. Questa progressiva soppressione
degli atti respiratori – come dice Abhinavagupta nel
Tantrāsara – conduce al “divoramento del tempo” che
molti identificano con la realizzazione finale (o
comunque con un indizio della realizzazione).
24
Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e
Gabriella Orofino. Pag. 75. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994).
75

La soppressione di un atto respiratorio durante la pratica


tantrica corrisponde ad un istante di “godimento
supremo”. Dopo un certo numero di questi istanti –
1800 secondo il Kālacakra, permette di entrare in una
serie di terre spirituali dette bhumi –probabilmente da
intendersi come particolari stati di coscienza – che sono
da considerarsi luoghi fisici, disposti, in corrispondenza
dei vari cakra. Le terre spirituali vanno “esplorate”
progressivamente, dal cakra dei genitali sino alla
fontanella, ed ogni tappa è scandita da un numero
progressivamente più elevato di sospensioni di atti
respiratori e, quindi di istanti di beatitudine.

Alla fine dell’intero percorso, avverrà una


trasformazione completa del corpo fisico, che prenderà
il nome di “corpo di conoscenza”, o Jñānadeha.
76
77

LA PRATICA DELLO ṢAḌAṄGAYOGA25

Lo Ṣaḍaṅgayoga, come dice il nome, è formato da sei


“membra” o parti:
1. Pratyāhāra, o “ritrazione”;
2. Dhyāna, o “meditazione”;
3. Prāṇāyāma, o “controllo della respirazione/dei
soffi vitali”;
4. Dhāraṇā, o “ritenzione/fissazione”;
5. Anusmṛti, o “applicazione mnemonica”;
6. Samādhi, o “contemplazione”.

Questi sei passi nel kālacakra sono a loro volta


organizzati in quattro diversi momenti:
- Sevā, o “pratica devota”, che comprende
Pratyāhāra e Dhyāna;

25
Vedi: “Sekkodeśa stanze 24-92”, in Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A
cura di Raniero Gnoli e Gabriella Orofino. Pag. 253 e
seguenti. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994
78

- Upasādhana, o “realizzazione inferiore”, che


comprende Prāṇāyāma e Dhāraṇā;
- Sādhana, inteso come “realizzazione”, che
corrisponde all’Anusmṛti;
- Mahāsādhana, o “grande realizzazione”, che
coincide con il Samādhi.
Il primo passo, Pratyāhāra, consiste nell’isolarsi dalla
realtà circostante portando l’attenzione sul vuoto. Dal
vuoto emergono dieci segni (N.B. la visione dei dieci
segni è collegata, secondo noi, a particolari movimenti e
posizioni degli occhi):
1. Visione del fumo;
2. Visione di un miraggio (definito come “visione di
acqua in movimento”):
3. Una luce simile a quella emessa da una lucciola;
4. Una luce simile a quella emessa da una lampada;
5. Una fiamma;
6. La Luna;
7. Il Sole;
8. Un disco nero (visualizzazione di Rāhu, nodo
lunare settentrionale/canale mediano);
9. Un lampo;
10.Un disco azzurro (visualizzazione del bindu).
Dopo il manifestarsi del decimo segno appare, secondo
il kālacakra, un’immagine “immateriale e ineffabile”26
definita “forma del Buddha”, “forma dei Buddha” o

26
Vedi Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e
Gabriella Orofino. Pag. 95. Biblioteca Orientale 1. Adelphi 1994).
79

“corpo di fruizione del Buddha”, che contiene “tutti i


tempi e tutte le cose”.
Il secondo passo dello Ṣaḍaṅgayoga è la meditazione,
Dhyāna durante la quale il praticante deve “consolidare”
l’immagine apparsa dopo la manifestazione dei dieci
segni.
Più propriamente bisognerebbe parlare di meditazione
dell’immagine o bimbabhāvanā, che nel kālacakra
viene divisa in due fasi: antecedente (o preliminare) e
finale (o susseguente).
La “meditazione dell’immagine preliminare”, consiste
nell’insorgere dell’immagine dopo la realizzazione dei
dieci segni (fumo, miraggio, lucciola ecc.). Si legge a
questo proposito nella Laghutantraṭīka di Vajrapāṇi27:
“Vista l’immagine e posto [il pene] nella vulva, si ha la
meditazione susseguente, allo scopo di accrescere il
supremo immoto piacere. Quindi ancora, dopo aver
abbandonato la mudrā dell’azione e della conoscenza,
lo yogin deve realizzare meditando la grande mudrā
allo scopo di accrescere il grande piacere”.

Il secondo “passo”, dhyāna, è articolato in cinque


diversi momenti:
1. Vitarka, ovvero “esame”;

27
Vedi: Cicuzza, C. (1994), La Laghutantraṭīkā di Vajrapāṇi, tesi di
laurea, Università La Sapienza di Roma.
80

2. Vicāra, ovvero “analisi”;


3. Prīti, ovvero “gioia”;
4. Sukha, ovvero “piacere”;
5. Cittaikagratā, ovvero “concentrazione della
mente in un punto”.
Nel primo momento – vitarka – si ha una visione
“descrittiva”, in senso lato “razionale” della realtà
(dell’immagine realizzata dopo i dieci segni).
Nel secondo momento – vicāra – si ha una visione
d’insieme o meglio “intuitiva” della realtà
(dell’immagine realizzata dopo i dieci segni).
Nel terzo momento – prīti – il praticante si trova
immerso in uno stato di pace e tranquillità mentale che
lo conduce alla gioia.
Dalla gioia scaturisce la completa distensione del corpo
che si accompagna ad una condizione di piacere diffuso
definita sukha (quarto momento).
Nel quinto momento – cittaikagratā – il praticante è
completamente immerso nello stato definito prajña, o
saggezza.
Il terzo passo – prāṇāyāma – è il controllo del respiro e
dei soffi vitali intesi come veicolo della mente e il suo
scopo è quello di interrompere la circolazione delle
energie nei due canali laterali (rāsanā a destra e lalanā a
sinistra) per immetterle nel canale di centro (Avadhūtī).
81

Il quarto passo – dhāraṇā – consiste nella


concentrazione – o fissazione – del soffio vitale nella
parte più alta delle testa – nel luogo del bindu –
conseguente all’arresto della circolazione delle energie
nei due canali laterali (arresto realizzato grazie alla
pratica del prāṇāyāma). Tramite l’eccitazione
dell’energia sessuale, caṇḍālī sale lungo il canale
centrale e discioglie il seme (bindu).
Il seme, come si è visto, è legato a quattro diversi tipi di
piacere e durante la pratica di dhāraṇā viene fissato nei
diversi cakra:
- Il cosiddetto “bindu corporeo” – Kāyabindu –
viene fissato al cakra dei genitali;
- Il “bindu della voce” al cakra dell’ombelico;
- Il “bindu della mente” al cakra del cuore;
- Il “bindu della conoscenza” al cakra della gola.

Il quinto passo – anusmṛti – lo possiamo definire


“meditazione susseguente” o “meditazione finale”. La
risalita della caṇḍālī si accompagna di nuovo alla
manifestazione dei dieci segni – “fumo, miraggio,
lucciola, lampada, fiamma, Luna, Sole, disco nero,
lampo e disco azzurro” – dopo i quali appare la “divinità
desiderata” – Heruka, Hevajra, Kālacakra ecc. –
accompagnata da una luce diffusa. La caṇḍālī – con cui
si intende sia la yoginī che partecipa al rito, sia la sua
immagine visualizzata, sia l’energia dell’eccitazione sia
il canale in cui scorre – viene quindi identificata con la
82

“grande mudrā” e viene divinizzata, nel senso che si


trasforma nell’incarnazione fisica delle energie che
assumono i nomi delle varie dee. Lo yogin colto da un
potentissimo desiderio, passa quindi attraverso dieci
stati emotivi – messi in relazione con i dieci segni – detti
dieci stati di Kāma:
1. Pensiero fisso (fumo);
2. Desiderio (miraggio dell’acqua in movimento);
3. Febbre (lucciola);
4. Pallore del volto (lampada);
5. Inappetenza (fiamma);
6. Tremore (Luna);
7. Follia (Sole);
8. Vertigine (disco nero);
9. Confusione mentale (lampo);
10.Insensibilità (disco azzurro).

Il desiderio si trasforma in azione sfociando nel rapporto


sessuale – fisico o visualizzato – e provoca la discesa
del seme la cui essenza, attraverso il canale mediano,
risale verso la testa anziché essere disperso all’esterno.
Il sesto passo – samādhi – è caratterizzato dallo stato di
beatitudine permanente o “piacere onnipervadente” –
ānanda – ed è definibile come condizione del “due in
uno”. Si realizza in altre parole l’identità tra yogin e
yoginī, tra essere umano e divinità, tra interno ed
esterno.
83

LA REALIZZAZIONE DEI DIECI SEGNI

Vediamo adesso, come viene descritta nei testi del


kālacakra la manifestazione dei dieci segni28, ovvero:
1. Visione del fumo;
2. Visione di un miraggio (definito come “visione di
acqua in movimento”):
3. Una luce simile a quella emessa da una lucciola;
4. Una luce simile a quella emessa da una lampada;
5. Una fiamma;
6. La Luna;
7. Il Sole;
8. Un disco nero (visualizzazione di Rāhu, nodo
lunare settentrionale/canale mediano);
9. Un lampo;
10.Un disco azzurro (visualizzazione del bindu).

28
Vedi: Nāropā, Iniziazione Kālacakra. A cura di Raniero Gnoli e
Gabriella Orofino. Pag. 253 e seguenti. Biblioteca Orientale 1. Adelphi
1994
84

“24. Di questa [realtà lo yogin dovrà mettere in atto la


realizzazione con apparizioni inconcepibili, ossia i
segni del fumo ecc., immagini della saggezza, simili
all’etere,”
“25. Trascendenti l’essere e il non essere, esperienze
testimoniate dalla sua propria mente, completamente
prive di aggregati materiali[…].”
“26. [Queste immagini sono] il fumo, il miraggio, la
lucciola, la lampada, la fiamma, la Luna, il Sole, la
tenebra, il lampo, il grande bindu, l’immagine
universale, chiarolucente.”
“In primo luogo appare come una nuvola e, in secondo
luogo, l’immagine del fumo. Il miraggio ha[…]
l’aspetto di acqua in movimento. [Gli altri due segni…
hanno] l’aspetto di una lucciola e di una lampada
[…].”
“[…questi] quattro segni nascono nelle tenebre e
costituiscono lo yoga notturno detto anche yoga dello
spazio [chiuso].
“In seguito, preceduta dall’apparizione di un cielo
senza nuvole, si ha un’apparizione vuota, chiarolucente,
che ha l’aspetto del fuoco. Le apparizioni della Luna e
del Sole sono ben note. La tenebra è la luce di Rāhu,
un’apparizione simile a una gemma nera. Kalā è
l’apparizione del lampo. Il grande bindu è
un’apparizione che ha l’aspetto di un orbe lunare
azzurrino, che illumina tutte le cose[…].
85

“Questi sei segni [N.d.A. la fiamma, la Luna, il Sole, il


disco nero, il lampo, il disco azzurro] nascono nella
luce di un cielo senza nuvole e costituiscono […] lo
yoga diurno detto anche yoga dello spazio aperto.
Subito dopo in unione con la visione dell’immagine del
Buddha […] in mezzo al bindu [N.d.A il disco azzurro]
si ha, in un singolo istante, l’immagine […] di tutte le
cose, in tutti i loro aspetti […] pura come l’acqua nel
cavo della mano.”
“27. Con gli occhi mezzo chiusi e mezzo aperti,
quell’immagine che appare nel vuoto, come un sogno
[…] lo yogin dovrà sempre meditarla.”
“[…] questa immagine […] lo yogin dovrà […]
consolidarla con quel membro dello yoga chiamato […]
dhyāna.”
La meditazione sull’immagine che insorge dal disco
azzurro è ciò che nel buddhismo viene definita “retta
visione”.
Occorre chiarire che la meditazione viene intesa come
“conoscenza della realtà”, e la conoscenza si ottiene in
due modi:
Con la percezione – con “l’occhio di carne” dicono i
testi del Kālacakra, ovvero con l’esperienza diretta detta
pratyakṣa – o con il ragionamento detta anumāna. Ma
solo l’esperienza diretta può condurre all’illuminazione.
“Di esse due la percezione diretta è esclusa da ogni
impurità […] e, essendo in congiunzione con la realtà
86

[…] [brilla] come un cerchio di stelle nel cielo […] ed è


percepibile con l’occhio di carne […] simile a
un’illusione o a un sogno […].”
“qui dapprima lo yogin […] vede con l’occhio di carne
l’immagine di tutte le cose […]. Successivamente vede
con l’occhio divino […] dopo ancora […] con l’occhio
del risvegliato[…]; quindi con l’occhio della saggezza
[…] e dopo ancora, con l’occhio della conoscenza,
essendo pervenuto alla condizione di perfetto
risvegliato […]”.
“[…] In assenza della percezione diretta […] il
ragionamento è come un corpo senza vita, […] come un
cadavere[…]”:

Se si legge il testo con attenzione vedremo che ci sono


indicazioni precise sull’utilizzazione della vista, della
luce che entra tra le palpebre – “Con gli occhi mezzo
chiusi e mezzo aperti” – e dei globi oculari come tecnica
operativa.
Il penultimo verso che abbiamo trascritto è
particolarmente importante da questo punto di vista:
“dapprima lo yogin vede con l’occhio di carne
l’immagine di tutte le cose. Successivamente vede con
l’occhio divino […] dopo ancora […] con l’occhio del
risvegliato[…]; quindi con l’occhio della saggezza […]
e dopo ancora, con l’occhio della conoscenza, essendo
pervenuto alla condizione di perfetto risvegliato […]”.
87

Si tratta evidentemente di una trasformazione della


realtà percepita che si accompagna ad una progressiva
trasformazione dell’occhio di carne.
Una trasformazione che, secondo noi ha – avrebbe –
luogo grazie alla stimolazione volontaria del sistema
endocrino realizzata attraverso l’utilizzazione non
ordinaria dei muscoli oculari e dei muscoli sottili degli
organi genitali.
Un processo alchemico che potremmo definire, a ragion
veduta, “Visione Interiore”.
88

ENERGIE SOTTILI

Le indicazioni “operative” del “Ṣaḍaṅgayoga” – e in


genere di tutti i testi dello Yoga medioevale - non sono
di facile comprensione, ma anche coloro che non hanno
una esperienza nello yoga possono facilmente
comprendere che si tratta di tecniche che riguardano
delle realtà fisiche, ovvero processi fisiologici da
“ascoltare” e da – inteso tra virgolette – “controllare”.
La definizione “energia sottile” – collegata a ciò che
chiamiamo kuṇḍalinī, caṇḍālī o genericamente śakti –
non indica una vaga sensazione né l’onnipresente, e non
descrivibile, energia cosmica della new age, ma un
qualcosa di reale, oggettivo, che sta alla base della
pratica dello haṭhayoga.
Senza la percezione delle energie sottili diventa difficile,
se non impossibile, comprendere pienamente la pratica
degli āsana e delle mudrā, perché la “valenza operativa”
dello yoga consiste sulla possibilità – tutta da dimostrare
ovviamente – di intervenire sul sistema linfatico, il
sistema circolatorio, il sistema nervoso e il sistema
endocrino, per mezzo di una serie di tecniche che
89

necessitano, appunto della percezione e


dell’utilizzazione delle “energie sottili”.
Le tecniche respiratorie – apnea, inversione o comunque
alterazione del ciclo nasale, allungamento delle fasi di
inspirazione o di espirazione o entrambe ecc. servono
per mutare la chimica del corpo.
L’espirazione forzata chiamata kapālabhātī, ad esempio
è finalizzata alla diminuizione della percentuale di CO2
nel sangue inducendo nel praticante lo stato detto
“ipocapnia”. I sintomi della ipocapnia indotta da
kapālabhātī sono:

1. Riduzione della frequenza del respiro;


2. Accelerazione della frequenza cardiaca;
3. Leggera alterazione cerebrale con vaso
costrizione e produzione di effetti visivi anomali.
4. Insorgere di uno stato di eccitazione mentale o di
leggera ansietà.

Un altro esercizio respiratorio molto praticato nello yoga


è bhastrika che consiste in veloci inspirazioni ed
espirazioni forzate. Questo secondo caso, alla
diminuizione della concentrazione di CO2 si
accompagna la diminuizione della concentrazione di
ossigeno nel sangue. Visto che nel corpo umano la
necessità di assumere ossigeno viene indotta
dall’aumento della percentuale di anidride carbonica,
essendoci poca CO2 nel sangue il praticante non sentirà
la necessità di inspirare più profondamente e
sperimenterà i sintoni di una leggera “ipossia”, ovvero
90

di una diminuzione della percentuale di ossigeno nel


sangue.
I sintomi dell’ipossia sono:

1. Progressivo abbassamento della frequenza dei


battiti cardiaci (dopo un iniziale aumento);
2. La diminuizione del metabolismo, con una
sensazione di tranquillità e sonnolenza:
3. La sensazione di leggera ebrezza (successiva alla
sonnolenza) con distorsioni percettive;
4. Restringimento del campo visivo.

L’apnea forzata, assai utilizzata anche in molti esercizi


respiratori di base – esempio: si inspira in 4 tempi, si
trattiene l’aria per 64 tempi e si espira per 16 tempi –
provoca infine ipercapnia, ovvero un aumento della
percentuale di anidride carbonica, con l’insorgere di un
leggero stato di letargia, riconoscibile da questi sintomi:

1. Sonnolenza;
2. Scarsa reattività agli stimoli esterni;
3. Diminuizione dell’attività mentale.

È ovvio che questi esercizi vanno praticati con cautela e


vanno appresi da istruttori esperti che, se sono autentici
haṭhayogin, saranno consci delle possibili utilizzazioni
degli effetti di ipocapnia, ipossia e ipercapnia.
L’aumento della percezione della propria vitalità, gli
effetti luminosi, o sonori, che portano il praticante a
portare l’attenzione “all’interno del proprio corpo”, il
rilassamento e la diminuzione di attività psichica che
predispongono alla meditazione possono essere indotti
91

negli allievi al fine di migliorare il loro rapporto con il


corpo, aumentando le capacità di “ascolto interiore”,
ridurre il livello di stress e permettere loro di usufruire
della pratica fisica per migliorare innanzitutto il proprio
stato di salute; ma, ovviamente, collegare gli stati indotti
dalle tecniche respiratorie a pratiche e credenze religiose
può al contrario, secondo me, portare degli effetti
negativi, con l’insorgere di disturbi cognitivi e fisici di
vario genere.
La sensazione di piacevolezza derivante da una seduta
di meditazione o da una riuscita pratica di prāṇāyāma,
dipendono dall’alchimia del corpo umano, e non, ad
esempio, dalla fede in un guru o in un maestro spirituale.
Un conto è, per esempio la preghiera, intesa come atto
di devozione, un altro è quello di affrontare gli esercizi
dello yoga alchemico – elaborazione medioevale del
sapere tradizionale indiano – animati dalla fede cieca.
Un ricercatore conscio del lavoro “alchemico” che sta
facendo, riuscirà a rendersi conto dei limiti cui può
spingersi con se stesso o con gli allievi, durante la
pratica di esercizi non esattamente innocui come le
tecniche di prāṇāyāma.
Un devoto animato da fede cieca può da un lato invece
avere il desiderio di spingersi oltre i limiti stabiliti dalla
propria anatomia e dal proprio stato di salute, dall’altro
può arrivare a collegare ad esempio, le distorsioni
percettive causate dalla diminuizione della percentuale
di ossigeno, con visioni di esseri celestiali o messaggi di
esseri di altre dimensioni.
Per ciò che riguarda gli āsana bisogna essere coscienti
che si tratta in genere di tecniche per favorire il flusso
dei cinque principali fluidi del corpo umano:
92

1. Sangue venoso;
2. Sangue arterioso;
3. Linfa;
4. Liquidi sinoviale;
5. Liquido cefalo–rachidiano.

Di questi il più importante dal punto di vista yogico è la


linfa, detta un tempo “sangue bianco”, che grazie
all’enorme diffusione di vasi linfatici nel corpo umano
interagisce con tutti gli altri fluidi corporei,
Gli effetti piacevoli riscontrati dopo una buona pratica
di haṭhayoga sono attribuibili in gran parte al
miglioramento della circolazione dei fluidi corporei.
L’aumento della scioltezza articolare ad esempio, sarò
dovuto in genere, alla migliore distribuzione del liquido
sinoviale. Avete fatto caso alla facilità con cui, durante
un’intensa, e ben condotta, pratica di yoga,
“scrocchiano” le vertebre e le articolazioni?
Lo “scrocchio” è dovuto all’esplosione di bolle d’aria
contenute nel liquido sinoviale.
Quando le due estremità di un articolazione sono mal
disposte o comunque sottoposte ad una eccessiva
pressione, il liquido sinoviale – responsabile della
scioltezza articolare – è mal distribuito e ristagna,
creando delle bolle d’aria.
Allungando le due estremità dell’articolazione con gli
esercizi yoga si crea una zona di “vuoto”, le bolle
scoppiano e l’articolazione, dopo il crack, ritorna al suo
stato naturale.
Per far vuoto tra le due estremità dell’articolazione si
dovrà lavorare sul processo di contrazione e
93

rilassamento dei muscoli, processo legato


indissolubilmente alla circolazione del liquido linfatico.
Il flusso linfatico a sua volta dipende dal funzionamento
dei diaframmi (diaframma toracico, diaframma
urogenitale, diaframma della sella turcica ecc.) delle
vere e proprie pompe che hanno la funzione di regolare
la pressione delle zone in cui si trovano, in genere, i
gruppi di linfonodi. La linfa non si muove
autonomamente nel corpo, ma ha bisogno di una
sollecitazione esterna.
La pressione all’interno dei vasi linfatici è assai bassa,
per cui di fronte ad una resistenza causata da una
contrazione muscolare o a una rigidità dei diaframmi
crea a sua volta dei ristagni.
La maggior parte degli āsana sono finalizzati
all’aumento della pressione nei canali linfatici tramite la
riduzione delle tensioni presenti nel sistema fasciale,
strettamente connesso all’asse dei diaframmi. Il
movimento fisico, i bandha, l’uso di manipolazioni e la
respirazione “consapevole” tipici delle tecniche yoga,
aumentano la pressione nei vasi linfatici favorendo la
circolazione della linfa e, di conseguenza, di tutti i fluidi
corporei e del sistema endocrino.
L’altro sistema su cui lavora lo Yoga è il sistema
nervoso, e si suppone che uno yogin sviluppi a tal punto
le capacità percettive da riuscire ad avvertire il
passaggio delle informazioni elettrochimiche dalla
periferia al cervello (funzione afferente dei nervi) e dal
cervello alla periferia (funzione efferente). Lo
haṭhayogin in altre parole deve sviluppare la tecnica
dell'ascolto interiore (che non ha niente a che vedere con
l'esame di coscienza o l'auto–analisi!), spostando
94

l'attenzione della mente sulla percezione interna, o


enterocettività, fino a sviluppare progressivamente una
sensibilità "febbrile" per le percezioni tattili in modo da
percepire lo scorrere dei fluidi corporei, il loro stagnarsi,
e addirittura lo scorrere delle informazioni lungo i nervi.
Sono queste le energie sottili di cui si parla nello Yoga: I
fluidi corporei e le correnti di informazioni nervose. Il
vero yogin dovrebbe essere in grado di percepire la
quantità di ossigeno (prāṇa), azoto ecc. che circola nel
suo corpo, il flusso del liquido linfatico o quello del
liquido cerebro spinale, e dovrebbe conoscere le
tecniche per aumentare o diminuire la percentuale dei
gas e la velocità dei fluidi corporei.
Il primo passo per la corretta pratica dello yoga sarà
quindi quello di sviluppare l’ascolto interiore inteso
come percezione delle energie sottili, una specie di tatto
interno.
All’inizio si sentiranno dei leggeri formicolii, sensazioni
di caldo e freddo che si spostano da una parte all’altra
del corpo ecc. In seguito si diventerà in grado di
percepire la circolazione dei fluidi come vibrazioni,
imparando a distinguerne il ritmo e la direzione.
95
96

IL CICLO NASALE

Āsana, bandha, mudrā, prāṇāyāma sono tecniche


“alchemiche”, finalizzate all’ascolto, all’utilizzazione
e, in molti casi, all’alterazione di naturali processi
fisiologici. La respirazione a narici alternate, ad
esempio, si basa sulla conoscenza e la volontaria
alterazione del “ciclo nasale” ovvero la naturale
tendenza dell’organismo a “aprire” periodicamente
l’una o l’altra narice, attivando uno dei due emisferi
cerebrali alla volta.
In occidente29 le prime osservazioni storicamente
documentate sul ciclo nasale vennero compiute alla
fine del XIX secolo dal fisiologo tedesco Richard
Kayser30. Gli studi di Kayser furono ripresi nella
seconda metà del XX secolo nell’ambito delle ricerche
29
Vedi: “IL CICLO NASALE, L’ATTIVITA’ CEREBRALE E IL
SISTEMA NERVOSO AUTONOMO”, adattamento e traduzioni di
Andrea Di Chiara, Odontoiatra, Ortopedia Cranio-Cervico-
Mandibolare e Terapia Ortopedica Dentale delle Disfunzioni Posturali,
www.aipro.info.
30
Richard Kayser: Die exakte Messung der Luftdurchgängigkeit der
Nase. Arch.
Laryng. Rhinol. (Berl.) 8, 101 (1895).
97

orientate alle terapia delle “ostruzioni nasali


croniche3 1 ” e si arrivò a collegare l’alternarsi del
funzionamento delle narici all’attività delle
innervazioni del sistema simpatico e del sistema
parasimpatico presenti nelle mucose nasali:

“Il predominio del simpatico sulla narice destra causa


la sua vasocostrizione e la conseguente
decongestione, facendo aumentare il flusso d’aria;
tale predominio si accompagna al prevalere del
parasimpatico nella narice sinistra che ne provoca la
congestione”32.

Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80


cominciarono le ricerche per dimostrare il legame tra
l’alternanza delle narici nel processo respiratorio e la
cosiddetta “dominanza emisferica cerebrale”, ovvero il
predominio di un emisfero celebrale rispetto all’altro.
Tra il 1983 e il 1987 un equipe guidata da David S.
Shannahoff–Khalsa – un discepolo di Yogi Bhajan,
attualmente membro del “Center for Integrative
medicine della University of California di San Diego –
dimostrò sperimentalmente la possibilità di attivare
volontariamente uno o l’altro dei due emisferi cerebrali
decongestionando la narice del lato opposto del corpo.

31
Mirza, N., Kroger, H., Doty, R.L., 1997. Influence of age on the
'nasal cycle'.
Laryngoscope. 107(1), 62-66.
32
Tratto da “IL CICLO NASALE, L’ATTIVITA’ CEREBRALE E IL
SISTEMA NERVOSO AUTONOMO”, adattamento e traduzioni di
Andrea Di Chiara; Op. Cit.
98

Le modalità degli esperimenti di Shannahoff–Khalsa e


del team di ricercatori che lo coadiuvava sono descritte
in numerose pubblicazioni scientifiche333435 e i risultati
delle loro ricerche, tutt’oggi considerati attendibili,
gettano, tra l’altro, una nuova luce sulle tecniche
operative dello Haṭḥayoga medioevale dimostrando
come sia possibile, modificando la postura, alterare i
“ritmi ultradiani” del corpo umano.
Per “ritmo ultradiano” si intende un ciclo biologico che
si ripete regolarmente all’interno del “ritmo circadiano”,
ovvero dell’alternarsi di luce e buio nell’arco delle 24
ore, così come per “ritmo infradiano” si intende un ciclo
biologico di durata superiore alle 24 ore, come ad
esempio, il ciclo mestruale.
Questi tre ritmi – infradiano, circadiano e ultradiano –
seguono l’andamento “dell’onda”, nel senso che sono
caratterizzati da una fase ascendente – “luminosa”,
“attiva”, “Yang” – ed una fase discendente – “oscura”,
“ricettiva”, “Yin” – che nascono l’una dall’altra e negli
“organi pari” – ovvero quelli formati da due strutture
simmetriche come i reni, le gonadi o gli emisferi
celebrali – si alternano secondo la logica della
33
Werntz DA, Bickford RG, Shannhoff-Khalsa DS, “Selective
Hemispheric Stimulation by Unilateral Forced Nostril Breathing”,
Human Neurobiology (1987),6:165-171.
34
Werntz DA, Bickford RG, Bloom FE, Shannahoff-Khalsa DS:
“Alternating Celebral Hemispheric Activity and the Lateralization of
Autonomic Nervous Function”. Human Neurobiology, 1983, 2:39-43.
35
Shannhoff-Khalsa DS, “Lateralized Rhytms of the Central and
Autonomic nervous Systems, International Journal of
Psychophysiology, 1991, 11:225-251.
99

lateralizzazione: se la narice destra, ad esempio, è


congestionata – fase “yin” – la sinistra viene
decongestionata – fase “yang” – e viceversa.
Questo fenomeno viene definito dominanza nel senso
che per un periodo definito di tempo “domina” l’organo
pari di sinistra e per un eguale periodo di tempo
“domina” invece l’organo pari di destra.
Esempi di ritmi ultradiani sono:
6. Il ciclo di 90 – 120 minuti delle fasi del sonno del
sonno (REM – Rapid Eyes Movement – e non
REM;
7. Il ciclo della circolazione sanguigna;
8. Il battito delle ciglia;
9. Il battito del polso;
10. La frequenza cardiaca;
11. La minzione;
12. Le attività intestinali;
13. La secrezione ormonale;
14. Il ciclo nasale.
La cosa interessante, per ciò che riguarda il lavoro fisico
dello yoga, è che questi cicli possono essere facilmente
alterati con un semplice spostamento di peso e, in
genere, con la pressione su determinati punti del corpo;
in altre parole l’essere umano ha la possibilità di rendere
volontariamente “dominante”, ad esempio, la narice
sinistra rispetto alla narice destra per un tempo
indefinito.
100

Provate, ad esempio, a rimanere in equilibrio sulla


gamba destra volgendo leggermente lo sguardo a
sinistra: immediatamente si decongestionerà la narici
sinistra che resterà “dominante fino a quando non
cambieremo posizione.
Le implicazioni di questa osservazione – la possibilità di
rendere volontariamente dominante una narice rispetto
all’altra – sono maggiori di quanto si possa immaginare:
il team di Shannahoff–Khalsa ha infatti dimostrato
sperimentalmente che alla dominanza della narice
sinistra corrisponde una maggior attività dell’emisfero
cerebrale destro e, di conseguenza, una probabile una
alterazione di tutti i ritmi ultradiani, compreso, quindi il
ciclo delle secrezioni ormonali.
101

I DUE EMISFERI CELEBRALI

Aree sensitivi e motorie dei due emisferi celebrali. Fonte:


https://medicinaonline.co/2018/03/09/differenze– tra– emisfero–
destro– e– sinistro– del– cervello/
102
103

Il Sistema Nervoso Centrale, che ha il compito di


ricevere, esaminare e rispondere agli stimoli interni ed
esterni provenienti dal Sistema Nervoso Periferico, è
formato dall’encefalo e dal midollo spinale posto
all’interno della colonna vertebrale.
L’encefalo è costituito dal cervello, dal tronco
encefalico –formato a sua volta da mesencefalo, ponte e
bulbo – e dal cervelletto.
Il cervello a sua volta è suddiviso in telencefalo e
diencefalo; è il telencefalo ad essere costituito dai due
emisferi celebrali, due masse speculari che creano la
caratteristica forma a noce che possiamo notare nelle
raffigurazioni anatomiche.
L’emisfero destro controlla i movimenti e riceve le
sensazioni del lato sinistro del corpo, mentre l’emisfero
sinistro controlla i movimenti e riceve le sensazioni del
lato destro, ma hanno anche funzioni generali diverse:
L’emisfero sinistro ad esempio, è specializzato nella
“organizzazione del linguaggio” e nella “conoscenza
distintiva”, ovvero nella capacità di analizzare i
particolari, mentre l’emisfero destro è specializzato nella
comprensione “globale”, ovvero la capacità di percepire
un quadro, un paesaggio, una situazione nel suo insieme.
Banalizzando si può dire che l’emisfero cerebrale destro
è il nostro “cervello poeta”, mentre l’emisfero celebrale
sinistro è il nostro “cervello ingegnere”.
Le “specializzazioni del cervello ingegnere” sono:

- I processi linguistici;
- I processi sequenziali, ovvero nella comprensione
e nella gestione degli eventi che si susseguono nel
tempo;
104

- La concatenazione logica del pensiero (anch’essa


ovviamente un “processo sequenziale”);
- La gestione del rapporto causa– effetto;
- La percezione analitica della realtà (esamino la
foglia e non ho la visione dell’albero).36

Le “specializzazioni del cervello poeta” sono invece:

- La percezione e l’elaborazione delle informazioni


visive;
- L’organizzazione spaziale e quindi anche la
comprensione degli stimoli che permettono il
movimento nello spazio;
- La comprensione e condivisione delle emozioni;
- La creatività;
- La “visione d’insieme” (non osservo
analiticamente la singola foglia, ma ho la
percezione dell’albero).

Le differenze funzionali tra i due emisferi, banalizzando,


si possono schematizzare in questo modo:

1. L’emisfero destro è sintetico (unisce le parti


formando un tutto) e il sinistro è analitico
(analizza il tutto nelle sue parti);
2. Il destro vede somiglianze oggettive, il sinistro
comprende le metafore;
3. Il destro è “irrazionale”, il sinistro è razionale;
4. Il destro è impulsivo, il sinistro è logico;

36
https://medicinaonline.co/2018/03/09/differenze-tra-emisfero-destro-
e-sinistro-del-cervello/
105

5. Il destro trova soluzioni creative, il sinistro trova


soluzioni “lineari”.

Queste differenze provocano il fenomeno della


“dominanza”. In pratica quando un emisfero non è
competente a “svolgere un particolare compito” l’altro
emisfero diviene, appunto “dominante”.
Quando leggiamo, scriviamo o dialoghiamo la
dominanza è l’emisfero sinistro ad essere dominante,
quando invece disegniamo o contempliamo un quadro o
un tramonto utilizziamo capacità riservate all’emisfero
destro.
Ciò non significa che i due emisferi funzionino in
maniera separata: in ogni azione, pensiero, progetto i
due lavorano “in sinergia” essendo messi in
comunicazione da un fascio di fibre nervose posizionato
sopra al talamo: il “corpo calloso”, che media e integra
continuamente le elaborazioni dei due emisferi.
Le diverse funzioni dei due emisferi sono state definite
grazie all’osservazione degli effetti di lesioni in uno o
l’altro dei due “cervelli”.
Una lesione nelle aree dei processi linguistici – emisfero
sinistro – provoca una perdita di comunicare
verbalmente, per fare un esempio posso utilizzare
perfettamente un utensile ma non sono in grado né di
descriverlo né di dargli un nome.
Nel caso di una lesione dell’emisfero cerebrale destro
potrò invece descrivere perfettamente un oggetto e le
sue funzioni, ma non riuscirò ad utilizzarlo, per fare un
esempio posso riconoscere la tastiera di un computer e
leggere i simboli, i numeri e le lettere, ma non sono
106

assolutamente in grado di utilizzarla per scrivere un


testo.
La descrizione delle differenze tra “cervello poeta” e
“cervello ingegnere” non deve tuttavia farci pensare che
agiscano separatamente o che, rendendo dominante uno
piuttosto che l’altro, io possa sviluppare talenti e
capacità che ignoravo di possedere.
Se utilizzando le tecniche dello yoga attribuisco
volontariamente, per lungo tempo all’emisfero cerebrale
sinistro, non mi scoprirò improvvisamente un genio
matematico, né diverrò improvvisamente un grande
artista “attivando” l’emisfero destro.
Ciò è dovuto al fatto che i due emisferi sono
costantemente in comunicazione tra loro grazie alle
funzioni di mediatore ed equilibratore del corpo calloso,
formato in gran parte da materia bianca telencefalica,
che gestisce il passaggio delle informazioni trai due
emisferi e, in genere, tra essi e le strutture subcorticali
(ovvero quelle situate sotto la corteccia cerebrale).
Se è vero quindi che naturalmente – in accordo con i
ritmi ultradiani, o volontariamente – con le tecniche
yogiche – un emisfero è messo in una condizione di
dominanza rispetto all’altro, è anche vero che in genere
agiscono contemporaneamente: un musicista, per fare un
esempio, quando studia un brano lo ascolterà, per così
dire, con l’emisfero cerebrale sinistro in modo da
apprezzarne la costruzione ritmica e melodica; se invece
vorrà abbandonarsi alle sensazioni e alle emozioni
generate dal brano, inconsciamente attiverà l’emisfero
cerebrale destro.
Ad ogni modo non si può negare che una predominanza
dell’emisfero destro favorisce il rilassamento e
107

predispone alle pratiche meditative e alle attività


creative, mentre una predominanza dell’emisfero
sinistro favorisce le attività intellettuali.
Può essere interessante a tale proposito notare che le fai
del ciclo – ultradiano – del sonno sono legate al ciclo
nasale e, di conseguenza all’alternanza del predominio
dei due emisferi: la fase REM – Rapid Eyes Movement
–corrisponde ad un periodo di maggior attivazione della
narice destra – quindi dell’emisfero sinistro – mentre
una maggior attivazione della narice sinistra – e quindi
dell’emisfero destro, corrisponde alla fase di sonno
profondo – o non REM – e al sonnambulismo.
In genere possiamo riconoscere nell’emisfero sinistro –
collegato alla narice destra e, nello yoga alla principale
Nāḍī di destra del corpo tutto ciò che riguarda il
linguaggio – linguaggio verbale, pensiero, linguaggio
simbolico – e nell’emisfero destro legato alla narice
sinistra e, nello yoga, alla Nāḍī sinistra del corpo, tutto
ciò che riguarda le sensazioni e le emozioni.
In altre parole le scoperte del team di David S.
Shannahoff–Khalsa37 sembrerebbero – il condizionale è
sempre d’obbligo in questi casi – confermare le
intuizioni degli yogin medioevali, o, comunque,
mostrano l’esistenza di profonde analogie tra le moderne
neuroscienze e l’impianto teorico dello yoga.
Come abbiamo visto nel capitolo “Alchimia Interiore”,
nello yoga si parla di tre canali principali:
Il canale centrale, chiamato avadhūtī, khagamukhā,
suṣumṇā o taminī viene identificato con la “Mente” ed è
37
Vedi capitolo precedente, “Il Ciclo Nasale”.
108

la via attraverso la quale l’anima entrerebbe nel corpo al


momento della nascita e ne uscirebbe al momento della
morte. Lungo questo canale centrale sono situati dei
plessi energetici – in numero variabile a seconda delle
varie scuole, che vengono definiti cakra;
A sinistra del canale centrale troviamo il canale “della
Luna” chiamato iḍā o lalanā che viene identificato con
il principio “Corpo”;
A destra troviamo il canale “del Sole” – detto piṅgalā o
rāsanā che viene identificato con il principio “Parola”.
La relazione con Sole e Luna potrebbe indicare la
conoscenza delle influenze dei cicli circadiani nel corpo
e non è difficile interpretare “Corpo” con
sensazioni/emozioni, e “Parola” con Linguaggio.
I due canali, Corpo e Parola, nello yoga tradizionale
indiano si incrociano all’altezza del cakra della fronte –
il cosiddetto terzo occhio – chiamato Ājñā cakra, ovvero
“ruota dell’ordinatrice”.
109

Ājñā cakra
110

Il plesso della fronte – Ājñā cakra – sembrerebbe


mostrare delle affinità con il corpo calloso – è bianco
come le fibre del corpo calloso, è posto in mezzo ai due
emisferi ed ha la funzione di “ordinatrice” ovvero di
coordinamento delle informazioni e delle risposte agli
stimoli – ma si tratta ovviamente di un’ipotesi
indimostrabile;
Più interessante per ciò che ci riguarda è il legame tra i
due canali ai cicli di Sole e Luna – ritmo circadiano – il
loro essere riferiti a “Parola” – linguaggio – e “Corpo” –
sensazioni – ed il loro dipendere dal ciclo della
respirazione e, quindi, dal ciclo nasale.
Sia per la scienza contemporanea che per lo yoga, a
quanto sembra di capire, le funzioni dei due emisferi
celebrali – i due petali del cakra della fronte? – possono
essere stimolate grazie alla decongestione di una narice
o dell’altra.
Vediamo adesso cosa dice lo Yoga tradizionale sulle
pratiche respiratorie conosciute con il nome di
prāṇāyāma.
111

PRĀṆĀYĀMA38

Il prāṇāyāma non è solo una “ginnastica respiratoria”,


ma una vera e propria tecnica di “Alchimia interiore”.
Per semplificare si insegna spesso che il prāṇāyāma è
un metodo per controllare le tre fasi respiratorie, ovvero:
- Pūraka inteso come inspirazione;
- Recaka, inteso come espirazione;
- Kumbhaka, inteso come apnea;

Ma basta munirsi di un dizionario di lingua sanscrita per


rendersi conto che le cose stanno in maniera diversa;
In sanscrito “inspirazione” non si dice si dice pūraka,
ma आन āna; “espirazione” non si dice recaka ma पान
pāna o एतन etana e “Apnea” non si dice kumbhaka ma
श्वासरोध śvāsarodha.
38
Nel capitolo “ALCHIMIA INTERIORE” ci siamo riferiti alla
fisiologia sottile descritta nel Kālacakratantra, testo basato sui “Sei
Yoga di Nāropā. Adesso ci rifaremo alla fisiologia sottile come viene
insegnata nello yoga moderno indiano, che differisce in alcuni dettagli –
per esempio la struttura dei cakra - da quella del Kālacakratantra.
112

पूरक Pūraka letteralmente indica invece, genericamente,


l’atto di “riempire” anche nel senso “completare” o
“soddisfare” – e quindi come “inspirazione” ci potrebbe
anche stare – ma se cerchiamo il significato, per così
dire, in “gergo yogico”, ovvero l’uso che se fa nei testi
filosofici e nei manuali pratici, vedremo che significa:

1. Flusso39;
2. Palla di cibo offerta alla fine di particolari
cerimonie;

Raramente, secondo il dizionario Monier– Williams,


pūraka può anche indicare una:

3. Pratica yogica che consiste nel chiudere la narice


destra con un dito e quindi aspirare aria
attraverso la sinistra, poi nel chiudere la narice
sinistra e aspirare attraverso la destra.

रेचक Recaka, che letteralmente significa “purga”,


“svuotamento”, “spurgo”, “catartico” (quindi ci può
anche stare come “espirazione”) si trova nei testi classici
con i significati di:
1. “Siringa” (uno strumento simile al “flauto di
Pan”)40;
2. “Girare in tondo” (in questo caso è usato
sinonimo di bhramaṇa), “rivoluzione”, “orbita (di
un pianeta)”41;

39
Fonte: Bhāgavata Purāṇ a.
40
Fonte: Bhāgavata Purāṇ a.
41
Fonte: Mahābhārata
113

3. Un particolare passo di danza o un particolare


movimento del piede42;

Infine nell’अमृतबिन्दु उपनिषद् amṛtabindu upaniṣad indica:


4. “Uno dei tre prāṇāyāma eseguiti durante
saṃdhyā che consiste nell’emettere il respiro da
una sola narice”.

Per ciò che riguarda il termine कु म्भक Kumbhaka in


genere viene usato nell’accezione di:

1. Pentola;
2. Base della colonna;
3. Parte prominente del cranio dell’elefante;

Ma in alcuni testi “tecnici”, come il वेदान्तसार vedāntasāra,


kumbhaka è usato nel senso di:

4. “Fermare il respiro chiudendo la bocca e


chiudendo le narici con le dita della mano destra”.

In definitiva non è sbagliato a priori chiamare la


inspirazione pūraka, la espirazione recaka e l’apnea
kumbhaka, ma indagando sui vari significati delle tre
parole e sull’uso del termine prāṇāyāma come “rito da
celebrare durante i saṃdhyā, potremmo accedere,
probabilmente ad un livello diverso, più “sottile” della
pratica.
Prāṇāyāma, evidentemente, non ha nello yoga – solo –
il significato generico di “fare esercizi respiratori”, ma si

42
Fonte: Viṣṇ u Purāṇ a.
114

tratta di una parte dei rituali da compiere durante le


saṃdhyā – parola che indica sia i “tre momenti di
passaggio del giorno”, alba, mezzogiorno e tramonto,
sia particolari meditazioni (saṃ – dhyai) che hanno
come oggetto i soffi vitali – vāyu –che circolano in due
dei principali canali – nāḍī – del corpo chiamati iḍā e
piṅgala. Le tecniche di prāṇāyāma riguardano quindi
sia la respirazione ordinaria, sia un insieme di processi –
che, è bene precisarlo, hanno luogo durante i crepuscoli
e sono quindi legati ai ritmi circadiani- in cui si
percepiscono e “si fanno agire” le “energie sottili”,
spesso definite genericamente prāṇa. In questo senso il
termine più corretto da usare per questo genere di
tecniche sarebbe non prāṇāyāma, ma प्राणसंयम
prāṇasaṃyama43, dove saṃyama per lo yogin è una
particolare “abilità” che consiste nel saper indirizzare
dei flussi energetici o vibrazioni in varie parti del corpo
o, si dice, all’esterno del corpo fisico. L’abilità definita
saṃyama viene acquisita dopo l’esperienza del
samādhi, inteso sia come condizione temporanea sia
come condizione acquisita (o stabilizzata) in cui si
sperimenta uno stato di coscienza considerato “non
ordinario” collegabile alla cosiddetta “risalita di
Kuṇḍalinī” e alla “apertura del Terzo Occhio”.

43
Vedi: “Yājñavalkya Smṛti”.
115

I CINQUE SOFFI VITALI

Vediamo adesso cosa si intende per energie sottili


facendo riferimento ai testi tradizionali; Nell’Agastya
Saṁhitā (अगस्त्य संहिता)44, attribuito al ṛṣi Agastya – lo
yogin considerato il creatore delle arti marziali del sud
dell’India – troviamo a questo proposito dei brani
sorprendenti, come quelle che sembrerebbero
indicazioni per produrre idrogeno e far volare palloni
aerostatici:

संस्थाप्य मृण्मये पात्रे ताम्रपत्रम् सुसंस्कृ तम् ।


छादयेत शिखिग्नीवेनार्दाभिः काष्ठपांसुभिः ॥
saṃsthāpya mṛṇmaye pātre tāmrapatram susaṃskṛtam ।
chādayeta śikhignīvenārdābhiḥ kāṣṭhapāṃsubhiḥ II

दस्तालोष्ठो निघातव्यः पारदाच्छादितस्ततः ।


संयोगात जायते तेजो मित्रावरुण संज्ञितम् ॥
dastāloṣṭho nighātavyaḥ pāradācchāditastataḥ ।
saṃyogāta jāyate tejo mitrāvaruṇa saṃjñitam II

अनेन जलभंगोस्ति प्राणोदानेषु वायुषु।

44
Il testo integrale è scaricabile gratuitamente a questo link:
https://archive.org/details/AgastyaSamhita
116

एवम् शतानाम् कुं भानाम् संयोगः कार्यकृ त्स्मृतः ॥


anena jalabhaṃgosti prāṇodāneṣu vāyuṣu।
evam śatānām kuṃbhānām saṃyogaḥ kāryakṛtsmṛtaḥ II

वायु बंधक वस्त्रेण निबद्धो यंमस्तके l


उदान: स्वलघुत्वे बिभर्त्याकाश यानकम ll
vāyu baṃdhaka vastreṇa nibaddho yaṃmastake l
udāna: svalaghutve bibhartyākāśa yānakama II

La traduzione di questo brano fatta da alcuni scienziati


indiani45 in italiano suonerebbe pressappoco così:
"Prendi un vaso di terracotta, stendici un foglio di
rame, e mettici il Solfato di rame. Poi, spalma con
segatura bagnata, mercurio e zinco. Quindi, se si
uniscono i fili, si produrrà una energia (Tejas)
chiamata Mitrāvaruṇa. Questo porterà alla
scissione dell'acqua in prāṇa vāyu e udāna vāyu. 

Una catena di un centinaio di vasi produce una


forza molto attiva ed efficace. Udāna Vāyu così
prodotto può con la giusta tecnica essere immesso
in un panno a tenuta d'aria. Così grazie all'azione
antigravitazionale di udāna vāyu, è possibile
costruire una struttura in grado di volare in aria "

Il riferimento alla scissione dell’acqua per produrre


idrogeno può sorprendere, ma bisogna considerare che
l’Agastya Saṁhitā è parte integrante del Garuḍa
Purāṇa – uno dei 18 Mahāpurāṇ – testo forse sottoposto
a parziale riscrittura tra il XIX e il XX secolo, che viene
45
Vedi: A K Shukla* and T Prem Kumar, “A SHORT HISTORY OF
ELECTROCHEMISTRY IN INDIA”. Indian Journal of History of
Science, 49.4 (2014) 424-427. (Received 10 June 2014; revised 12
October, 2014)
117

datato tra il X e l’XI secolo della nostra era, un epoca in


cui l’uso dei palloni aerostatici a scopo militare era assai
diffuso46; molto più interessante, secondo me è la
possibile identificazione di udāna vāyu e prāṇa vāyu –
due dei “soffi vitali definiti genericamente prāṇa – con
due realtà fisiche ben definite: idrogeno e ossigeno.
Vediamo adesso come vengono definite le “energie
sottili” in un altro testo, adesso, il विवेकचूडामणि
Vivekacūḍāmaṇi, trattato medioevale attribuito ad आदि
शङ्कराआचार्य Ādi Śaṅkarācārya (nella versione anglofona
“Shankara”)47;
Versetto 95:
प्राणापानव्यानोदानसमान भवत्यसौ प्राणः I
स्वमेव वृत्तिभेदाविकृ तिभेदात्सुवर्णसलिलादिवत् II
prāṇāpānavyānodānasamāna bhavatyasau prāṇaḥ I
svameva vṛttibhedāvikṛtibhedātsuvarṇasalilādivat II

“Lo stesso prāṇa diviene prāṇa, apāna vyāna,


udāna, samāna in accordo alle loro funzioni [o
secondo le modificazioni che subisce] come
[avviene per] l'oro, per l'acqua.”

Se consideriamo il prāṇāyāma –o meglio


prāṇasaṃyama – non una serie di esercizi di
respirazione, ma una pratica, tra virgolette, “alchemica”,

46
Vedi l’uso documentato di mongolfiere di carta, lanterne Kongming
per segnalazioni militari, nella Cina del III secolo d.C.
47
Il testo integrale è scaricabile a questo link:
https://estudantedavedanta.net/VivekaChudamani-of-Sri-
Shankaracharya.pdf
118

potremmo comprendere più profondamente il suo


significato e le sue valenze “operative”.
Nella tradizione indiana, cui lo yoga fa riferimento, ci
sono in dieci tipi di prāṇa o vāyu (quattordici secondo
alcuni), ma in questa breve descrizione parleremo solo
dei cinque “soffi” principali, analizzandone le funzioni,
il ritmo e le direzione:
- Prāṇa "domina" la zona che va dal naso al cuore
ed è in rapporto con la parola, il cuore ed i
polmoni. È caratterizzato da un “ritmo alternato”,
e disegna una specie di doppia spirale su un piano
orizzontale facilmente sintonizzabile con il ritmo
respiratorio; una delle sue funzioni è appunto la
respirazione. Lo si collega solitamente al V° cakra
(viśuddhi cakra, plesso della gola).
- Vyāna è l'energia vitale che pervade tutto
l'organismo. È il "tipo" di prāṇa che circola
uniformemente nelle nāḍī. Segue i ritmi cosmici
di giorno e notte. La sonnolenza e il risveglio
possono essere considerati sue funzioni. Si
espande e si ritrae. Ed è collegabile al IV° cakra
(anāhata cakra, plesso cardiaco).
- Samāna domina la parte del corpo che va dal
cuore all’ombelico) e riguarda il nutrimento e
l'assorbimento del cibo. È collegato allo stomaco
e al III° cakra (maṇipūra cakra, plesso
dell’ombelico). La secrezione è una delle sue
funzioni e si potrebbe visualizzare come un
119

movimento su un piano orizzontale, dall'esterno


all'interno e viceversa.
- Apāna è il prāṇa dell'intestino. La sua funzione è
la escrezione e riguarda la parte del corpo che va
dallo stomaco ai piedi, collegabile al II° e al I°
cakra (svadhiṣṭhāna cakra e mūlādhāra cakra). È
visualizzabile come un movimento verticale
discendente, dall'alto verso al basso.
- Udāna si trova tra il naso e la fontanella ed è in
rapporto con il VI° cakra (ājñā cakra), con il
naso, gli occhi e il cervello. È visualizzabile come
un movimento verticale verso l'alto. Udāna è
l'energia che porta lo sperimentatore “fuori dal
corpo” (ovvero oltre la percezione del corpo
fisico) durante il samadhi e dopo la morte. È
responsabile del movimento degli occhi verso il
centro della fronte (Śāmbhavī mudrā)
I cinque prāṇa sono in rapporto tra di loro e, secondo lo
yoga la consapevolezza del movimento ascendente di
udāna avrebbe la possibilità di reindirizzare tutte le aree
vitali del corpo. Questo cambiamento di direzione dei
soffi vitali – che pare essere in relazione con ciò che
nell’Alchimia occidentale veniva definito “rettificazione
mercuriale”, una inversione del flusso del mercurio,
inteso come energia vitale - viene rappresentato
“simbolicamente” dal cambio di direzione, dal basso in
alto, dei petali del fiore di loto che rappresenta
graficamente il cakra del cuore.
120

Il “loto del cuore”, a differenza degli altri cakra, è infatti


rappresentato con i petali verso il basso, a significare la
discesa dell’energia vitale – le tre gocce di ojas poste nel
cuore al momento della nascita – dall’alto verso il basso.
La durata della vita umana sarebbe scandita dal
progressivo consumarsi dell’energia vitale – ojas – per
cui la “rettificazione mercuriale”, intesa come cambio di
ritmo e direzione dei soffi vitali, provocherebbe una
inversione, si suppone temporanea, del processo di
utilizzazione dell’energia vitale.
Secondo lo Yoga tutti i processi psicofisici possono
essere considerati come il prodotto dell'azione
combinata dei vari prāṇa. Il praticante potrà osservare e
analizzare in base alla teoria dei soffi vitali, il processo
dell'eccitazione sessuale, o dell'addormentarsi o dello
starnutire o dello sbadigliare fino a percepire i diversi
ritmi e funzioni dei prāṇa e infine, ad indirizzarli sia
all'interno sia –si dice –all’esterno del corpo.
Per favorire la percezione dei “cinque venti”
estremamente “sottile” ma non immaginaria – nel senso
che si tratta di una percezione oggettiva, fisica – nello
yoga si utilizzazione tecniche di visualizzazione in cui si
chiede al praticante di immaginare i soffi vitali come
fluidi densi come il mercurio liquido, con colori e
caratteristiche diversi:
- Il Prāṇa ad esempio lo si visualizza come un
fluido di colore blu zaffiro essenzialmente diretto
verso l'interno;
121

- Apāna è scuro (color "nuvola del tramonto") e il


suo movimento è discendente;
- Udāna è color del fuoco e il suo movimento è
ascendente;
- Samāna è color bianco latte e la sua azione è
quella propria del “solvi et coagula”;
- Vyāna è color argento ed è onnipervadente.
Tutti i soffi - detti sia genericamente prāṇa sia vāyu -
hanno natura "rajasica" in quanto si fanno derivare dalla
porzione rajasica di ognuno dei cinque elementi sottili o
tanmātra, ovvero:
- Suono; Udāna
- Tangibilità; Prāṇa
- Luce/forma; Samāna
- Sapore; Vyāna
- Odore; Apāna.
Per ciò che riguarda le modalità operative per realizzare
la cosiddetta “risalita di kuṇḍalinī” e “apertura del
Terzo Occhio”, si può dire che lavorando sulle energie
sottili lo yogin, re-indirizzando i cinque vāyu
provocherebbe l’attivazione di due altri soffi vitali –
considerati una modificazione di apāna vāyu – definiti
“portatori di bastone” e percepibili come due “tensioni”
parallele all’asse verticale del corpo nella zona dello
stomaco e del ventre,
Grazie alle modificazioni – biochimiche e posturali –
create da questi due “soffi” od “energie”, kuṇḍalinī
viene “attratta dall’alto” e dopo aver girato in senso
122

anti– orario nella zona del perineo risale lungo il canale


centrale della colonna vertebrale dove, secondo la
fisiologia yoga, si celerebbero sūrya svarūpa –la “vera
forma del Sole” – e candra svarūpa – la "vera forma
della Luna”,
Sūrya svarūpa e candra svarūpa rappresentano
probabilmente l’insieme delle informazioni celate nel
patrimonio genetico del praticante – il “fattore terreno”
rappresentato dalle 50 sillabe dell’alfabeto sanscrito
inscritte nei petali dei sei cakra tradizionali dello yoga
moderno – e nei raggi della creazione “deposti al
momento della nascita nei cakra” - il fattore celeste
rappresentato dai 360 marīci provenienti dalle 27 case
lunari: dette nakṣatra.
Trasportate e vitalizzate dall’energia di kuṇḍalinī – che
potremmo definire tejas svarūpa o vera forma del fuoco
– le due “correnti di informazioni” arrivano alla
coscienza con la conseguenza di rendere effettivi tutti i
talenti e le abilità dell’essere umano rimaste fino a quel
momento allo stato potenziale.
Il lavoro preparatorio a questo processo energetico è lo
scioglimento dei blocchi – fisici, emotivi e mentali – che
normalmente impediscono la risalita di kuṇḍalinī -
chiamata altrove “apertura del Terzo Occhio” - uno
scioglimento che può avvenire tramite la pratica delle
purificazioni e degli āsana, delle mudrā, dei bandha e
dei mantra, a patto che questi – āsana, mudrā, bandha e
mantra – vengano eseguiti con la consapevolezza della
123

circolazione dei soffi vitali acquisibile solo mediante il


prāṇasaṃyama, strumento indispensabile per la vera
pratica dello yoga.
124

CONCLUSIONE:
Lo Haṭḥayoga

Cosa è, quindi il “Terzo Occhio”?


La ghiandola Pineale?
La Pituitaria?
Il “Corpo Calloso”?
Il controllo dei “Soffi Vitali”?
Probabilmente, al di là delle “sciocchezze blavatskyane
e post blavatskyane” cui accennava Agehananda
Bharati, non si tratta di un organo fisico – o almeno non
solo di un organo fisico – ma di una condizione del
corpo umano raggiungibile attraverso la pratica
alchemica definita Haṭḥayoga. Lo Haṭḥayoga, così
come il Qi Gong Nei dan che probabilmente dallo
Haṭḥayoga deriva –è infatti una pratica di Alchimia
Interiore finalizzata alla modificazione di processi
naturali del corpo e all’utilizzazione di una o più
sostanze chiamate “Amṛta” o “Soma”: queste sostanze
vengono prima accumulate nel corpo e poi utilizzate per
ottenere il ringiovanimento, l’aumento della vitalità e
della resistenza alle malattie ed in genere uno stato di
costante beatitudine - Ānanda – che allontana l’essere
125

umano dalla sua innata ansia di incompiutezza. La


percezione e l’utilizzazione di Amṛta, secondo gli yogin
medioevali, è accompagnata dall’insorgere di particolari
abilità fisiche e psichiche – siddhi – come l’acquisizione
di una forza sovrumana, la capacità di comprendere e
parlare tutte le lingue, o il potere di attrarre
sessualmente ogni persona dell’altro sesso. Queste
“abilità”, che nella nostra epoca vengono considerate
suggestioni da film di fantascienza, per gli autori indiani
di epoca medioevale e moderna – dall’XI al XVIII
secolo - erano i frutti ordinari della pratica dello
Haṭḥayoga; si legge ad esempio nel Gorakṣa Paddhati
(X-XI secolo):
(G.P. 2.48) “Se la lingua [di uno yogin] tocca
costantemente l'apice dell'ugola, provocando il flusso di
un succo [Amṛta} che [può avere] sapore salato, caldo o
acido e (può essere simile al] latte, miele o burro
chiarificato [avrà luogo] la scomparsa delle malattie,
l'annientamento della vecchiaia, la recitazione
[spontanea] degli śāstra e degli agama [ovvero i testi di
insegnamento tradizionali], l'immortalità connessa con le
otto [siddhi], e si attrarranno irresistibilmente le “donne
perfette.”48
48
Testo in sanscrito: चुम्बन्ती यदि लम्बिकाग्रमनिशं जिह्वा रसस्यन्दिनी
सक्षारं कटुकाम्लदुग्धसदृशं मध्वाज्यतुल्यं तथा |
व्याधीनां हरणं जरान्तकरणं शास्त्रागमोद्गीरणं
तस्य स्यादमरत्वमष्टगुणितं सिद्धाङ्गनाकर्षणम् || ४८ ||
cumbantī yadi lambikāgram aniśaṃ jihvā rasa-syandinī
sa-kṣāraṃ kaṭukāmla-dugdha-sadṛśaṃ madhv-ājya-tulyaṃ tathā |
vyādhīnāṃ haraṇ aṃ jarānta-karaṇ aṃ śāstrāgamodgīraṇ aṃ
tasya syād amaratvam aṣṭa-guṇ itaṃ siddhāṅ ganākarṣaṇ am || 2.48 ||

Traduzione letterale:
126

Il Gorakṣa Paddhati non è un caso isolato: dal IX al


XVII secolo vengono scritti e diffusi decine di manuali
di Haṭḥayoga,-sia hindu sia buddhisti, in cui si
descrivono i processi di produzione e utilizzazione
dell’Amṛta e la conseguente acquisizione di poteri
psichici quali “normali” conseguenze del percorso
yogico. Ciò, ovviamente, non significa che gli eventi
straordinari promessi o descritti da quei testi
cumbantī  : toccato, baciato;
yadi: se;
lambika: palato/ugola;
agram: l'estremità, la "punta";
aniśam  : costantemente, senza fine;
jihvā: la lingua;
rasa: succo, estratto, elisir;
syandinī: Flusso;
kṣāram: salato;
kaṭukāmla-dugdha-sadṛśam : simile a caldo o acido (gusto o latte
paragonabile a…;
madhu: miele;
ājya: burro chiarificato;
tulyam: come;
tathā  : allo stesso modo;
vyādhīnām  : (le sue) malattie
haraṇam: scomparsa, distruzione;
jara: vecchiaia;
antakaraṇam: l'annientamento, processo che pone fine;
śāstra: scritture tradizionali;
agama: manuali tantrici, a volte i veda;
udgīraṇam: il racconto, la recitazione;
tasya: questo;
syāt: è (concesso);
amaratvam  : immortalità, divinità;
aṣṭa: otto;
guṇitam: connesso con;
siddhāṅgana: donna perfetta, femmina perfetta;
akarṣaṇam: l'attrazione irresistibile;
127

corrispondano alla realtà, e in un’epoca come la nostra


affollata da falsi maghi e prestigiatori mascherati da
guru, è lecito sospettare che quello del “Terzo Occhio” –
e dei poteri che deriverebbero dalla sua “apertura” - sia
un mito o una favola da raccontare nelle sere d’inverno,
né più né meno di certe miracolose guarigioni e
trasformazioni che riempivano le cronache dell’Europa
medioevale.
L’unica possibilità per sciogliere i dubbi, secondo noi,
sarebbe quella di verificare personalmente gli effetti
delle pratiche descritte negli antichi testi di Haṭḥayoga.
Ma cosa è lo Haṭḥayoga?
Si tratta di una domanda tutt’altro che futile.
Nel corso della mia ormai cinquantennale esperienza di
praticante e insegnante, ho assistito ad una progressiva
modificazione delle tecniche, della nomenclatura e,
addirittura, della maniera stessa di intendere lo Yoga.
Quando ho iniziato a praticare ad esempio, difficilmente
si parlava di stili o di scuole: facevamo “Yoga”, senza
suffissi e prefissi, una disciplina psicofisica basata su un
numero limitato di “Tecniche di purificazione” - definite
Ṣaṭkriyā, Ṣaṭkarma o semplicemente Kriyā, brevi
sequenze, fondate su un numero limitatissimo di āsana,
e soprattutto su una intensa pratica che noi definivamo
di meditazione, che consisteva in genere nel sedersi a
gambe incrociate o in ginocchio, aspettando il vuoto
mentale o effetti luminosi mentre venivamo guidati in
tecniche di visualizzazione e di controllo della
respirazione accompagnate dalla recitazione –mentale o
“borbottata”, di mantra e sillaba seme.
Rispetto all’incredibile varietà di tecniche e posture e
alla complessità delle teorie filosofiche – o sarebbe
128

meglio dire “delle interpretazioni filosofiche” - che


vengono proposte oggi, si trattava di una pratica
abbastanza elementare. La differenza tra quello yoga,
per me, delle origini e lo yoga odierno si nota soprattutto
nel numero degli āsana; le posture che studiavamo
all’epoca, che chiamavamo quasi sempre con i loro
nomi in italiano, erano non più di dieci/quindici. A
questo nucleo di base alcuni aggiungevano le varianti,
ma in genere, dopo una serie di esercizi di scioglimento
e di allungamento, si praticavano sempre le medesime
posizioni:
1. Posizione del “Loto”, con le sue varianti (“mezzo
loto”, Loto legato ecc.);
2. Posizione in ginocchio, simile al seiza
giapponese, con le sue varianti (talloni in contatto
con gli ischi, piedi ai lati delle cosce, schiena
allungata indietro o rilassata in avanti ecc.);
3. Posizione del “Cobra”, con le sue varianti
(braccia tese, braccia a 45°, braccia appoggiate
sui glutei, punte dei piedi a terra, dorso del piede
appoggiato a terra…tutte posizioni che
chiamavamo “Cobra”);
4. Posizione della “Locusta”, con le sue varianti;
5. Posizione dell’Arco, con le mani alle caviglie e il
dondolio ritmico a ritmo della respirazione;
6. Posizione della Spaccata sia sagittale sia frontale
sia in equilibrio sugli ischi, accompagnata dagli
allungamenti che oggi chiamiamo
Paschimottanāsana e Janu shirshāsana);
129

7. Posizione del “Ponte”, con le sue varianti


(appoggio sulle spalle, sulla testa o sulle braccia);
8. Posizione in “Verticale” – definizione nella quale
facevamo rientrare tutte le varianti della verticale
sulla testa, la verticale sui gomiti (“Scorpione”) e
la verticale sulle braccia – preceduta dall’Aratro e
dalla “Candela”;
9. Posizioni in torsione, tra cui “Matsyendrāsana”,
che facevamo prima di salire in piedi per
“sistemare” la colonna vertebrale;
10.Posizione in piedi, che assumevamo passando per
“Uttanāsana” e trasformavamo in posizioni di
equilibrio, di solito l’Albero”, che consideravamo
una specie di test, dato che eravamo convinti che
una buona pratica aumentasse l’equilibrio.
Dopo la pratica fisica, che riguardava di solito non più
di due o tre delle dieci posizioni con le loro varianti e i
movimenti preparatori, ci sdraiavamo nella posizione
del “Cadavere” e dopo cinque dieci minuti di
rilassamento profondo praticavamo “lo Yoga”, ovvero
meditavamo cercando di sospendere il respiro e di
mantenere la lingua sul palato o, i più esperti, a contatto
con il palato molle e aspettavamo l’insorgere di “effetti
luminosi” e del “suono interiore”, la cui percezione,
secondo i miei istruttori, si sarebbe accompagnata alla
discesa nel palato di un liquido dolce: l’Amṛta.
130

Se pensiamo ad esempio alle più di 200 posture


insegnate da Iyengar49 o all’assenza, nella mia antica
pratica, del Saluto al Sole, ripetuto – nelle sue varianti –
fino a 108 volte in alcune scuole, bisogna ammettere che
si trattava di un lavoro elementare, tanto è vero che, per
colmare le mie lacune, a partire dal 2000, mi sono
impegnato per imparare decine e decine di posizioni e
sequenze diverse, e centinaia di definizioni in sanscrito.
Poi, poco tempo fa mi è capitato di leggere una versione
in inglese – credo sia la prima traduzione in una lingua
occidentale, o comunque una delle prime, di questo testo
- del Gorakṣa Paddhati (गोरक्षपद्धति), il “Sentiero di
Gorakṣa” detto anche Gorakṣa Saṃhitā (गोरक्ष संहिता) o
“Raccolta di Gorakṣa”, che descrive una pratica ancora
più “elementare” di quella che ha caratterizzato gli inizi
della mia “carriera” di yogin
Il Sentiero di Gorakṣa consiste in una raccolta di versi,
divisi in due sezioni chiamate in sanscrito śataka - 100,
“un centinaio – e attribuiti allo yogin Gorakṣanāth o
Gorakhnāth, considerato il fondatore dello Haṭḥayoga.
Si tratta probabilmente del più antico testo di Haṭḥayoga
giunto ai nostri giorni, ed i suoi insegnamenti potrebbero
essere la base di tutti o quasi i manuali di yoga scritti
nelle epoche successive.
Cosa insegna Gorakṣa?
Poche posizioni di facile esecuzione, descritte
dettagliatamente, un numero limitato di bandha, due o
tre tecniche di ritenzione del respiro, alcune

49
Vedi: B,K,S, Iyengar, “Teoria e Pratica dello Yoga”, Edizioni
Mediterranee.
131

visualizzazioni e la ripetizione di sette suoni finalizzata


all’ascolto del suono interiore e alla discesa dell’Amṛta.
A leggere quello che sembra essere il primo manuale di
Haṭhayoga che sia stato scritto – e comunque il più
antico che sia arrivato fino ai nostri giorni – la mitica
“apertura del Terzo Occhio” non pare certo un traguardo
irraggiungibile; basterebbe, secondo l’autore, dedicarsi
completamente alla pratica dello Haṭhayoga un periodo
non lunghissimo della nostra vita;
Si parla di infatti di:
- Tre mesi per purificare completamente i canali
sottili del corpo;
- Sei mesi per allontanare per sempre tutte le
malattie;
- Sei mesi per acquisire la conoscenza assoluta;
In un anno e tre mesi di esercizi fisici e di
visualizzazioni non di difficilissima esecuzione, secondo
Gorakṣa, uno yogin raggiungerebbe la condizione di
“Siddha”, in altre parole l’apertura del “Terzo Occhio”.
Sarà vero?
Basterebbe provare per saperlo, e decidere di dedicare
completamente allo yoga, 24 ore al giorno, per quindici
mesi della nostra vita. Se pensiamo che grazie alle
pratiche, di non eccessiva difficoltà, descritte nel
Gorakṣa Paddhati, si potrebbero ottenere la mitica
apertura del Terzo Occhio e poteri paragonabili a quelli
dei super eroi Marvel si tratterebbe di un ben piccolo
132

sacrificio, ma siamo sicuri di volerlo veramente? Se le


istruzioni del Paddhati Gorakṣa non funzionassero
cadrebbe una volta per tutte, almeno per noi, il mito del
“Terzo Occhio”, e perdere illusioni e speranze non è mai
una bella cosa.
Se, al contrario, la “Grande Opera” avesse successo,
dovremmo dare l’addio a tutto ciò che è stata la nostra
vita fino a quel momento – i testi sono chiari in
proposito – e ricordi, affetti, speranze, sogni e,
soprattutto, quel concetto di individualità che in
Occidente è sacro svanirebbero come la nebbia al primo
sole.
Fare davvero yoga significa tendere alla realizzazione di
uno stato di non dualità, uno stato in cui non esiste più
differenza tra Io e l’altro da me, tra noi e la Natura.
Pensiamoci: una cosa è parlare sui social o alle cene tra
amici dello Stato di Flow, dell’abbandono alle leggi
della natura e dell’annichilimento dell’Ego; un’altra è la
perdita della coscienza individuale o – come lo definiva
Osho – il “disciogliersi nell’Oceano dell’Esistenza”.
Supponiamo che le istruzioni di un testo come quello di
Gorakṣa conducano davvero al’ ’Illuminazione”: siamo
sicuri di volerla davvero?
Un sorriso,
P.
133
134

TESTI DI RIFERIMENTO

1. Il Gorakṣa Paddhati (गोरक्षपद्धति) – “Sentiero di Gorakṣa” –


detto anche Gorakṣa Saṃ hitā (गोरक्ष संहिता) – “Raccolta di
Gorakṣa” – consiste in una raccolta di circa 200 versi
divisi in due sezioni chiamate in sanscrito śataka - 100,
“un centinaio” – attribuita allo yogin Gorakṣanāth o
Gorakhnāth, considerato il fondatore dello Haṭḥayoga 50.
Dato che i più importanti manuali di Haṭḥayoga conosciuti
ai nostri giorni sono sostanzialmente degli estratti del
“Sentiero di Gorakṣa" – come le due versioni del गोरक्षशतक
Gorakṣa Śataka, lo योगमार्तण्ड Yoga Mārtaṇ ḍ a, il विवेकमार्तण्ड
Viveka Mārtaṇ ḍ a, la योगचूडामण्युपनिषद् Yoga Cūḍ āmaṇ y
Upanisad – o ne citano i versi e la descrizione delle
tecniche – हठयोगप्रदिपिका Haṭha Yoga Pradīpikā e घेरण्ड संहिता
Gheraṇ ḍ a Saṃ hitā – si può supporre che il “Gorakṣa
Paddhati” sia il più antico testo di Haṭḥayoga giunto ai
nostri giorni. Nello Haṭha Yoga Pradīpikā di Svātmārāma,
ad esempio, dopo aver citato due volte il nome di Gorakṣa
all’inizio del testo – vedi H.Y.P. 1. 4-5) – l’autore cita gli
insegnamenti del Gorakṣa Paddhati nel IV capitolo, a
proposito della “meditazione sul Suono interiore” o
अनाहतनाद Anāhata Nāda (H.Y.P. 4. 65):

aśakya-tattva-bodhānāṃ mūḍhānām api saṃmatam |


proktaṃ gorakṣa-nāthena nādopāsanam ucyate || 4.65 ||

50
La versione cui facciamo riferimento è quella di Swami
Vishnuswaroop pubblicata da “Divine Yoga Institute, Kathmandu
2017” (https://www.amazon.it/Goraksha-Samhita-Known-Paddhati-
English-ebook/dp/B00QTCGI7W), Revisionata secondo l'edizione di
Laxmi-Venkateshwar Press, Bombay
135

“Adesso viene spiegato il metodo di meditazione sul


suono interiore (nādopāsamna) insegnato da Gorakṣa
Nāth che è stimato (saṃmatam) anche (api) dagli
ignoranti (mūḍhā) per i quali la conoscenza della Realtà
(tattva) è impossibile (aśakya)”

2. Amṛtasiddhi (https://en.wikipedia.org/wiki/Amṛtasiddhi)
3. Il  Dattātreyayogaśāstra testo vaisnava probabilmente
composto nel XIII secolo d.C., descrive un ottuplice yoga
identico agli “Otto Passi” di Patañjali, che l’autore
attribuisce a Yajñāvalkya e ad altri, nonché otto mudrā che
si dice siano state ideate dal rishi Kapila e da altri ṛishi.
Il Dattātreyayogaśāstra descrive: mahāmudrā, mahā-
bandha, khecarīmudrā , jālandharabandha , uḍ ḍ iyāṇ aband
ha, 
mūlabandha , viparītakaraṇ ī, vajrolī, amarolī e sahajolī;
4. Il Vivekamārtaṇḍa contemporaneo
al Dattātreyayogaśāstra, descrive nabhomudrā
(cioè khecarīmudrā), mahāmudrā, viparīta-karaṇ ī e i tre
bandha. Descrive anche sei Cakra e il risveglio
di Kuṇḍalinī per mezzo dello "yoga del fuoco"
(vahniyogena).
5. Goraksaśatakạ, un testo Nāth dello stesso periodo,
insegna śakticālanīmudrā (definita “stimolazione
di Sarasvatī”) insieme ai tre bandha.  La "stimolazione di
Sarasvatī" viene eseguita avvolgendo la lingua in un
panno e tirandola, stimolando la dea Kuṇḍalinī che si dice
dimori all'altra estremità del canale centrale. 
6. Śārṅgādhārapaddhati, un'antologia di versi compilata nel
1363, descrive l'Haṭha yoga, inclusi gli insegnamenti di
Dattātreyayogaśāstra sulle cinque mudrā.
7. Khecarīvidyā descrive solo il metodo di khecarīmudrā,
che ha lo scopo di dare accesso alle riserve di amrta nel
136

corpo e di elevare Kuṇḍalinī tramite “la penetrazione dei


sei cakra”. 
8. Yogabīja descrive tre bandha e śakticālanīmudrā allo
scopo di risvegliare Kuṇḍalinī. 
9. Amaraughaprabodha descrive tre bandha
come l'Amṛtasiddhi  e lo Yogabīja;
10. Śivasamhitā. Insegna tutte e dieci le mudrā insegnate
nelle opere precedenti così come le pratiche Śākta come la
ripetizione dello Śrīvidyā mantrarāja e l'adozione della
posizione yonimudrā; il suo scopo è il risveglio
di Kuṇḍalinī in modo che perfori vari fiori di loto e nodi
mentre sale verso l'alto attraverso il canale centrale.
11. Haṭhayogapradīpikā è uno dei testi più influenti
dell'Haṭha yoga.  Fu compilato da Svātmārāma nel XV
secolo d.C. Il testo elenca 35 grandi siddha a partire da
Adi Natha, trai quali Matsyendranath e Gorakshanath. 
Include informazioni sugli Ṣatkarma (sei purificazioni),
15 Āsana  pranayama (respirazione) e kumbhaka
(ritenzione del respiro), mudrā (pratiche energetiche
interiorizzate), meditazione, cakra (centri di energia),
nadanusandhana e tecniche sessuali.
12. Amaraughasāsana è un manoscritto di Sharada che viene
citato e copiato nel 1525 d.C. Frammenti di questo
manoscritto sono stati trovati anche vicino
a Kuqa nello Xinjiang (Cina). Il testo
discute khecarimudrā, ma lo chiama saranas .  Collega la
posizione accovacciata utkatāsana, piuttosto che l'uso
delle mudrā e con il risveglio di Kuṇḍalinī.
13. Haṭha Ratnavali è un testo del XVII secolo che afferma
che l'Haṭha yoga consiste di dieci mudrā, otto metodi di
pulizia, nove kumbhaka e 84 Āsana.
14. Haṭhapradīpikā Siddhantamuktavali è un testo dell'inizio
del XVIII secolo che amplia lo
Haṭhayogapradipikạ  aggiungendo istruzioni pratiche e
citazioni di altri testi.
137

15. Gheraṇḍa samhitā è un testo del XVII o XVIII secolo


che presenta l'Haṭha yoga come "ghatastha
yoga". Descrive sei metodi di purificazione, trentadue
āsana, 25/26 mudrā e dieci pranayama.
16. Jogapradīpikā un testo in lingua Braj del XVIII secolo di
Ramanandi Jayatarama che presenta l'Haṭha yoga
semplicemente come "yoga". Descrive sei tecniche di
purificazione, 84 āsana, 24 mudrā e otto kumbhaka. 

LO YOGA DEI NATH


हठ haṭhayoga  letteralmente “yoga della forza”, “yoga della
potenza” o “yoga dello stupro” si intende un sistema di tecniche
fisiche51 finalizzate:
1. Al raggiungimento e al mantenimento della salute;
2. Al ringiovanimento e alla longevità;
3. All’ottenimento di poteri psichici denominati “siddhi”;
4. All’illuminazione – o “apertura del Terzo Occhio” -
intesa come realizzazione dello “stato naturale” –
“Sahaja” - definito talvolta come “liberazione dalla catena
delle rinascite” o identificazione con un Principio
Assoluto o una divinità.
In genere lo Haṭhayoga si pone come insieme di tecniche che
hanno il fine di “risvegliare “Kuṇḍalinī” intesa come energia
primaria della manifestazione o –vedi Gopi Krishna –
“intelligenza della manifestazione”.

Le tecniche per risvegliare Kuṇḍalinī si basano principalmente


sull’utilizzazione dell’Amṛita – detto anche Soma - parola che si
51
Vedi: Mallinson, James (2011). Knut A. Jacobsen ed altri autori;
“Haṭha Yoga” in Brill Encyclopedia of Hinduism, Vol. 3. Brill
Academic.ISBN 978-90-04-27128-9.
138

può tradurre con “nettare”, “Ambrosia” od “Elisir” e che indica


il principio, o meglio, l’essenza della vita dell’essere umano.
L’ Amṛita esprime la sua azione attraverso l’energia maschile,
Bindu che si può intendere anche come “seme” - e l’energia
femminile – Raja- inteso come sangue mestruale.
Bindu e Raja, quando si parla di fisiologia sottile, sono presenti
sia nel corpo della donna sia nel corpo dell’uomo: lo sperma e i
fluidi genitali femminili emessi durante il rapporto sessuale, ad
esempio sono definiti entrambi Śukra – “sperma” e vengono
prodotti da “Bindu”; Raja –inteso anche come sangue mestruale –
è invece la “fonte” della pelle (tvac) e del sangue (rakta).
Secondo lo Haṭhayoga - semplificando - durante la vita
dell’essere umano il “seme” discende dalla “Luna” - posta a
seconda delle diverse scuole nel plesso della fronte, sopra il
palato o in corrispondenza della fontanella superiore –e discende
nel sole –posto nel plesso dell’ombelico o sotto di esso – dove
viene utilizzato - e quindi consumato-come “carburante” dei
processi vitali.
Questa discesa è scandita dal ritmo del sole e della Luna, ovvero
dalla circolazione delle energie nei due canali - Nāḍī - di destra e
di sinistra del corpo, chiamati Piṅgalā e Iḍā. Questi due canali
sono soggetti a consunzione per cui quando, a causa del
deterioramento dei canali, le energie cominciano a circolare
troppo velocemente o troppo lentamente in uno dei due,
sopraggiungono la malattia, la vecchiaia e la morte.
Per accedere all’energia illimitata di Amṛita ed “ingannare la
morte” lo Haṭḥayogin deve “invertire il processo naturale, ovvero
impedire al “seme lunare” di “discendere fino al sole”; in altre
parole deve arrestare la circolazione ordinaria delle energie
chiudendo i due canali laterali - Piṅgalā e Iḍā - ed attivare la
circolazione “Non ordinaria” nel canale centrale detto Avadhūtī o
Suṣumṇā - identificato con la colonna vertebrale, asse centrale del
corpo.
139

Il percorso per ottenere l’inversione del processo naturale – detto


a volte “inversione dell’acqua e del fuoco” – si articola in genere
in “sei passi o membra” - Ṣaḍaṅgayoga – preceduti da pratiche di
purificazione sia interne definite le “sei azioni”, Ṣatkarma o
Ṣaṭkriyā.
140

ṢAṬKRIYĀ
1. Netī - Lavaggio delle narici con acqua salata.
2. Dhautī - pulizia-con aria, acqua e vari strumenti, degli
intestini, dei denti, del palato, della lingua, degli intestini,
dell’esofago;
3. Naulī - automassaggio degli organi interni grazie
all’utilizzazione dei muscoli addominali;
4. Basti – lavaggio del colon mediante un tubo o grazie al
controllo dei muscoli dello sfintere anale.
5. Kapālabhātī - purificazione del cranio, letteralmente “luce
nel cranio” o “lucidatura del cranio” che consiste in una
serie di espirazioni forzate, energiche e veloci, seguite da
inspirazioni involontarie;
6. Trāṭaka – Purificazione degli occhi che consiste nel
fissare lo sguardo su un punto fisso, un oggetto o la
fiamma di una candela.

ṢAḌAṄGA
1. Āsana – una serie di posture, per lo più sedute,
-accompagnate da gesti e movimenti di vario genere,
fissate in un numero totale di 84, che hanno lo scopo
principale di allontanare le malattie e mantenere il corpo
giovane. La pratica degli Āsana collegata a quello delle
Mudrā e dei Bandha, parole che in alcuni testi possono
essere usate con lo stesso significato;
2. Prāṇasaṃrodha (Prāṇāyāma) – letteralmente “bloccare il
Prāṇa”, generalmente tradotto con “controllare il Prāṇā”.
Esercizi di ritenzione del respiro collegati a particolari
visualizzazioni e alla recitazione mentale di mantra e Bīja
Mantra (lettere seme);
141

3. Pratyāhāra – Nello Haṭḥayoga significa “ritiro dei sensi


dagli oggetti di senso”, ma può essere inteso come
“trattenere il nettare interiore”;
4. Dhāraṇā – Concentrazione, intesa come visualizzazione
della circolazione del “seme”, in vari punti del corpo;
5. Dhyāna – Meditazione, evoluzione di Dhāraṇ ā con la
visualizzazione dei simboli degli elementi – quadrato,
mezzaluna, triangolo, sfera o esagono, e uovo – di vari
colori e sillabe dell’alfabeto sanscrito.
6. Samādhi – Assorbimento, fase finale della pratica.

Per intraprendere i “sei passi dello Yoga” - Ṣaḍaṅgayoga – il


praticante deve conoscere:
1. I Cakra – talvolta in numero di sei e talvolta in numero di
nove;
2. Gli Ṣoḍaśādhāra (16 ādhāra) - punti o pilastri di
meditazione di cui fanno parte anche i cakra;
3. I Trilakṣya – ovvero le “tre modalità di visualizzazione;
4. I Vyoma kam – Le “cinque stanze” o “cinque vuoti”.

NOVE CAKRA DEI NATH


1. Brahmā Cakra - corrisponde al Mūlādhāra Cakra;
2. Svādhiṣṭāna Cakra " – “centro di supporto del sé", “la sua
propria dimora”;
3. Nābhi Cakra "centro dell'ombelico";
4. Hṝdayādhāra "centro del cuore";
5. Kaṇṭha Cakra "centro della gola";
6. Tālu Cakra "Centro del palato";
7. Bhrū Cakra – “Centro tra le sopracciglia" corrisponde
ad Ajñā Cakra;
8. Nirvāṇa Cakra corrisponde al Brahmārandhra;
9. Ākāṣa Cakra "centro dello spazio".
142

SEDICI ĀDHĀRA
I sedici ādhāra ("supporti" o punti di concentrazione) sono
elencati nel Siddha Siddhanta Paddhati nel seguente ordine (2.10-
25):

1. Pādāṅguṣṭhādhāra - "centro dell'alluce”;
2. Mūlādhāra - "radice, centro base";
3. Gudādhāra -"sopra il centro base"
4. Medhrādhāra - "centro del pene", corrisponde per alcuni
al Svādhiṣṭāna Cakra;
5. Odyanādhāra – in relazione con Uddiyana Bandha (sotto
l’ombelico);
6. Nabhyādhāra "centro dell'ombelico" - corrisponde
al Manipura Cakra;
7. Hṝdayādhāra - "centro del cuore", corrisponde
ad Anahata Cakra;
8. Kaṇṭhādhāra - "centro della gola", corrisponde
al Vishuddha Cakra;
9. Ghantikādhāra - "centro dell'ugola”;
10. Talvādhāra - "Centro del palato”;
11. Jihvādhāra - "centro della lingua";
12. Bhrūmadhyādhāra -"centro delle sopracciglia",
corrisponde ad Ajñā Cakra
13. Nasādhāra - "centro della punta del naso";
14. Kavatādhāra -  letteralmente "centro dell'ala della porta",
cioè "centro della radice del naso" (Nasamula);
15. Lalatādhāra - "centro della fronte" o “centro del palato”;
16. Ākāṣa Cakra - "centro spaziale" (corrispon-de
a Brahmārandhra (Fontanelle) o a Sahasrara Cakra.
143

TRILAKṢYA
Tre modalità di visualizzazione

1. Antarlakṣya: "dentro", dentro il corpo, ovvero organi


interni ecc.
2. Bahirlakṣya: "fuori", fuori dal corpo ovvero sia oggetti
esterni – statue, grafici ecc. – sia la punta del naso, le
mani, ecc.;
3. Madhyama Lakṣya: "neutro, medio", cioè né
interiormente né esternamente: si visualizzano un certo
colore o una forma geometrica o un simbolo grafico senza
localizzarlo né nel corpo né all’esterno.

LE CINQUE STANZE (VYOMA PAÑCAKA)


Nel Siddha Siddhanta Paddhati 2.30 sono cinque (Pañcaka)
stanze (Vyoman):

1. Ākāṣa, "spazio";
2. Parākāṣa, "spazio supremo";
3. Mahākāṣa, "grande spazio";
4. Tattvākāṣa, "spazio della realtà” o “spazio del principio”;
5. Suryākāṣa "spazio del sole".

Il Siddha Siddhanta Paddhati fornisce la seguente breve


descrizione della visualizzazione delle cinque stanze:

"Si visualizza all'esterno (Bahya) e all'interno


(Abhyantara) uno spazio (Ākāṣa) completamente
immacolato (Nirmala), senza forma (Nirakara). Oppure si
visualizza all'esterno e all'interno di uno Spazio Supremo
(ParĀkāṣa) che è uguale all'oscurità perfetta
(Andhakara).
144

(O) si visualizza all'esterno e all'interno di una grande


stanza (MahĀkāṣa) simile al fuoco della morte
(Kalanala) . (O) si visualizza all'esterno e all'interno di
uno spazio di realtà (TattvĀkāṣa), la sua essenza
(Svarupa) come la propria realtà. Oppure si visualizza
uno  spazio del sole (SuryĀkāṣa) simile a dieci milioni
(Koti) di soli (Surya) all'esterno e all'interno . In questo
modo, visualizzando ("guardando", Avalokana dei cinque
spazi) si diventa uguali allo spazio ".
145
146

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151

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