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La

storia di un’amicizia favolosa


© 2019 Rai Com S.p.A.
Rai Libri
Via Umberto Novaro, 18 - 00195 Roma
ISBN ebook 978889316025-4
ISBN stampa 978883971764-1
Grafica e impaginazione
Make id S.r.l. - Roma
Art Director Copertina
Giacomo Callo
Graphic Designer Copertina
Davide Nasta
Foto Copertina
Sara Petraglia
Elaborazione grafica
KMSTUDIO
I personaggi e le storie di questo libro sono ispirati
alla serie La Compagnia del Cigno
scritta da Ivan Cotroneo e Monica Rametta
Una produzione Indigo Film in collaborazione con Rai Fiction
Nessun albero è stato abbattuto per la realizzazione di questo e-Book.
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Passione, determinazione, disciplina e dedizione. Matteo, Barbara,
Domenico, Sara, Robbo, Sofia e Rosario, i protagonisti della
Compagnia del Cigno, sanno che solo così potranno primeggiare nel
liceo musicale e conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Ma ognuno
di loro ha una storia personale: intimo, sociale, tenero o triste che sia,
ogni racconto rivela l’intensità e la freschezza dell’adolescenza, un
amore smisurato per la musica e lo sguardo fiducioso verso il futuro.
Sinossi
Matteo è un adolescente e la sua vita è stata segnata dallo stesso
sisma che ha distrutto anche la città di Amatrice, dove viveva.
Quando arriva a Milano per studiare violino nel prestigioso
Conservatorio Giuseppe Verdi, non si aspetta di incontrare sei ragazzi
speciali come lui: Domenico suona il pianoforte e il clarinetto, Barbara
il fagotto e il pianoforte, Sofia il violoncello, Sara il violino, Robbo
l’oboe e Rosario le percussioni. Ognuno di loro, a modo suo, sta
vivendo un piccolo, grande terremoto interiore.
A metterli sulla stessa strada è il maestro Luca Marioni, da tutti
conosciuto come “il Bastardo”, che dirige l’orchestra del Conservatorio.
Accortosi immediatamente del talento di Matteo, ma anche della sua
inesperienza, decide di formare un gruppo che possa aiutarlo a
emergere: la Compagnia del Cigno, composta proprio di quei sette
ragazzi che impareranno, sopra ogni altra cosa, che insieme è più
facile mettere in gioco se stessi senza più paure.
A raccontare questa favolosa storia di amicizia è la direttrice del
Conservatorio che, un po’ in disparte un po’ in prima linea, ha seguito
le vicende di quei sette ragazzi, emozionandosi insieme a loro come
mai le era successo.
Prologo
Ho sempre un brivido quando penso che tra queste mura, in passato,
hanno studiato e insegnato musicisti come Giacomo Puccini, Pietro
Mascagni, Claudio Abbado e Riccardo Muti.
Ho quasi una vertigine quando penso che questi personaggi, insieme
a molti altri, hanno camminato per i corridoi che io stessa percorro
ogni mattina, che hanno accordato i propri strumenti in queste sale, in
cui io ogni tanto entro a controllare che tutto vada per il verso giusto…
Questo luogo, la cui storia ha ormai più di due secoli, ha qualcosa di
magico, di speciale.
Forse è per questo che amo così tanto il mio lavoro. Sì, sono davvero
fortunata a essere la direttrice del Conservatorio Giuseppe Verdi. Sono
l’erede di colui che tanti, tanti anni fa lo diresse per la prima volta: il
compositore Bonifazio Asioli, il primo direttore di quello che ancora si
chiamava Real Conservatorio di Musica.
Già, perché Verdi all’epoca non era ancora nato. E poi una delle
leggende vuole che, nel 1832, un giovane Giuseppe Verdi avesse
sostenuto l’esame di ammissione al Conservatorio, ma che il suo
immenso talento non fosse stato riconosciuto.
Sì, avete capito bene. Verdi, proprio quel Giuseppe Verdi che poi
avrebbe dato il nome a questa prestigiosa istituzione, una delle più
importanti al mondo per lo studio della musica, non venne ammesso.
Ma, visto che alle leggende non bisogna crederci tanto, vi racconto
tutta la verità: il regolamento prevedeva delle norme molto stringenti
sulla provenienza degli allievi e anche sull’età, e il giovane Giuseppe
non le rispettava. Senza contare che la commissione ebbe anche
qualcosa da ridire sulla postura della sua mano. Sentite un po’ cosa si
legge nella motivazione: “Il suddetto Verdi avrebbe bisogno di
cambiare posizione della mano, locché attesa l’età di diciotto anni si
renderebbe difficile”.
Ecco, quindi è vero, Verdi non venne ammesso, ma poi, col tempo, si
sarebbe preso una bella rivincita, diventando il nume tutelare di tutte le
generazioni di musicisti a venire.
Interessante, vero? Oppure… vi sto annoiando?
Non preoccupatevi, anche se sono la direttrice di una scuola, oggi
scenderò subito dalla cattedra. Ho altri progetti per voi…
Essere direttrice di un’istituzione tanto prestigiosa, per me, non è solo
un onore, ma l’occasione di vedere vite e destini che si intrecciano.
A volte mi capita di incontrare talenti davvero straordinari, che mi
auguro possano trovare la loro strada nel mondo, ma anche di
assistere alla nascita di storie d’amore tra gli studenti che frequentano
questa scuola.
La storia che sto per raccontarvi è solo in parte una storia d’amore; è
sicuramente la storia di un’amicizia ma, sopra ogni cosa, è una storia
straordinaria, forse la più straordinaria a cui mi sia capitato di assistere
da quando sono arrivata qui.
È la storia della Compagnia del Cigno, un gruppo di sette ragazzi che
hanno trovato proprio nell’amicizia e nell’amore per la musica il loro
punto d’incontro.
Non è stato facile ricomporre questa storia per intero, perché i
ragazzi hanno i loro segreti.
Ma ci tenevo così tanto a conoscerne ogni dettaglio che, piano piano,
chiacchierando con i suoi protagonisti, sono riuscita a scoprire tutto. O
quasi.
Credo che ci siano cose di cui rimarrò per sempre all’oscuro. Ma
quale narratore, dopotutto, conosce fino in fondo i suoi personaggi?
Ora basta, però. L’ouverture può finire così.
Che la storia della Compagnia del Cigno abbia inizio.
1
Ogni storia, anche la più bella, comincia con un cambiamento. E i
cambiamenti, si sa, possono essere dolorosi, infliggere ferite
insanabili, con le quali si può solo sperare di imparare, un giorno, a
convivere.
Matteo Mercanti, il protagonista di questa storia, viveva nel cuore
ancora pulsante di una grande ferita, prima che la vita lo portasse a
Milano, fino al Conservatorio che io dirigo.
Questa ferita aveva, e ha ancora, un nome terribile: terremoto.
Quello che aveva colpito, distruggendolo, il paesino di Amatrice nella
notte tra il 23 e il 24 agosto 2016.
Era una mattina d’inverno quando Matteo, un ragazzo con pochi
amici, riservato e gentile – così come l’ho conosciuto io quando è
entrato per la prima volta nel mio ufficio – partì lasciando la villetta
prefabbricata in cui era finito a vivere dopo quella notte di un anno e
mezzo prima.
Uno zaino caricato su una spalla e il suo violino chiuso nella
custodia, uscì dalla porta per ritrovarsi nel buio. Il sole, infatti, a
quell’ora non era ancora sorto.
Suo padre Antonio, che ora lo seguiva, nel silenzio della notte,
trascinando un grande trolley fino alla macchina, aveva pensato che
solo portandolo fisicamente via dai brutti ricordi Matteo sarebbe
riuscito a ritrovare un po’ di serenità. L’importante era che potesse
continuare a suonare, perché la musica era la sola cosa che sembrava
essere rimasta intatta nella sua esistenza a pezzi.
Salirono entrambi in macchina.
«Sei contento?» gli chiese suo padre.
«Sì… sì… sono contento».
Ma chissà se Matteo Mercanti era davvero contento mentre l’auto
partiva, allontanandosi dalle costruzioni prefabbricate, e passava di
fianco alla frazione di Retrosi, dove cartelli e nastri rossi delimitavano
un’area pericolosa, tuttora non accessibile. La loro vecchia casa, o
meglio, il suo scheletro, era ancora lì, insieme alle tante buttate giù dal
terremoto.
Matteo si voltò di scatto: guardare quello spettacolo era troppo
doloroso per lui, non ce la faceva. Là c’era tutta la sua vecchia vita, di
cui non rimanevano che macerie.
«Quando tornerai sarà tutto diverso, vedrai» gli mormorò suo padre.
Il sole stava sorgendo proprio in quel momento, e aveva rischiarato
appena il cielo quando giunsero alla stazione ferroviaria da cui Matteo
sarebbe partito alla volta di Milano, dove viveva suo zio Daniele,
fratello di sua madre.
«Chiamami dopo il cambio, per dirmi che ce l’hai fatta. E carica il
telefono. Zio ha detto che si fa trovare già lì, viene in stazione dopo il
lavoro…».
Suo padre era un fiume in piena di raccomandazioni.
«Me l’hai già detto, papà» rispose Matteo, sistemandosi nello zaino il
sacchettino di carta con dentro i due cornetti che l’uomo gli aveva
preso al bar.
Aveva diciassette anni, un treno lo sapeva prendere, e poi suo zio lo
aspettava a Milano. Ce la poteva fare…
Alla fine quasi lo dovette cacciare: «Vai, adesso. Devi tornare e aprire
lo studio».
Si diedero un ultimo, imbarazzato abbraccio. Non erano abituati,
padre e figlio, a questi slanci emotivi.
Matteo salì sul vagone e si ritrovò da solo. Chi mai altro poteva
partire a un’ora simile da quella stazioncina sperduta nel Centro Italia?
Si infilò le cuffie e fece partire l’ouverture del Barbiere di Siviglia nel
lettore mp3.
La musica, aveva ragione suo padre, era la sola cosa che il
terremoto non aveva distrutto. Quando le note riempivano la sua testa,
allora tutto scompariva.
E fu proprio la musica ad accompagnare Matteo per tutto il viaggio
che quel giorno lo condusse alla Stazione Centrale di Milano.
2
Per chi è abituato a vivere in un piccolo paese come Amatrice,
l’impatto iniziale con Milano non dev’essere semplice.
Mi sono spesso chiesta come debba essersi sentito Matteo, quel
pomeriggio, uscendo dal Frecciarossa e ritrovandosi sotto le immense
navate nere della Stazione Centrale.
Lì, in quel frenetico lunedì, mentre le persone correvano trafelate da
una parte all’altra, parlando al telefono, vestite come forse ad Amatrice
la gente non si vestiva mai, Matteo cercava con gli occhi suo zio
Daniele. Aveva detto che sarebbe venuto a prenderlo.
Di lui, però, nessuna traccia, anche se non era certo facile
individuare qualcuno in tutta quella folla. Provò a chiamarlo al
cellulare, mentre superava il varco d’uscita, ma il telefono squillò a
vuoto per un po’.
Evidentemente se n’era dimenticato, pensò. Che fare adesso? Lì alla
stazione non poteva certo restare, e visto che non era più un bambino
e soprattutto aveva l’indirizzo di casa di suo zio, via Paolo Sarpi,
decise che poteva benissimo arrangiarsi.
Consultò brevemente una mappa sul cellulare, poi afferrò il manico
del suo trolley e si diresse fino alla metropolitana.
Chissà com’era questa via Paolo Sarpi…
Sapeva che si trattava del quartiere cinese di Milano, ma mai avrebbe
immaginato di trovarsi di fronte a tante insegne con ideogrammi
incomprensibili e di vedere una così alta concentrazione di ristoranti il
cui menu proponeva riso cantonese, taro alla piastra, pollo ai cinque,
sette o addirittura nove sapori, maiale in agrodolce. Via Paolo Sarpi,
poi, era nel pieno del suo esotico splendore: si stava infatti
avvicinando il Capodanno cinese e la strada era addobbata con
festoni e luminarie.
Suo zio abitava in una casa di ringhiera e quando Matteo suonò al
suo citofono, per poco non rimase di sasso: «Matteo? Sei già arrivato,
ma che ora è?».
«È molto tardi» fu la risposta di Matteo che, una volta entrato, dovette
sentirsi la trafila di scuse dello zio: «Scusa, scusa, scusa, Matteo
scusa, dopo la banca sono passato a casa, ho detto: “Mi stendo
cinque minuti”, ho pure messo la sveglia sul telefono perché volevo
farmi una doccia, venirti a prendere, darti il benvenuto a Milano… e
invece, che palle…».
Matteo poteva facilmente immaginare cos’era successo. Suo zio
Daniele, probabilmente, la sera prima aveva fatto tardi in qualche
locale gay alla moda e si era addormentato come un sasso. Era
fidanzato con un tipo di nome Lorenzo, ma le sue relazioni non erano
mai durature. Ogni tanto, quando ci parlava al telefono, Matteo sentiva
nominare qualcuno di nuovo. Insomma, era uno che la sera era
spesso in giro a divertirsi. Su questo non ci pioveva.
Perlomeno, però, era riuscito a preparargli la camera in cui Matteo
sarebbe stato per i mesi successivi. Era piccola, ma molto carina.
Per cena, invece, annunciò lo zio, avrebbero preso dei ravioli al
ristorante cinese sotto casa.
«Ti piacciono i ravioli?».
«I ravioli italiani sì, quelli cinesi non lo so, non li ho mai mangiati»
rispose Matteo.
«Sono buoni, fidati. Poi domani cucino io».
Suo zio Daniele non era un uomo di casa, e Matteo sospettava che
anche l’indomani avrebbe ordinato qualcosa. Ma poco importava. Tirò
fuori dalla tasca grande dello zaino la brochure illustrata del
Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. La sola cosa che gli premeva
era che dall’indomani avrebbe cominciato a frequentare quell’istituto
tanto prestigioso.
Era un po’ agitato, ma sull’agitazione, forse, vinceva la curiosità.
Come si sarebbe trovato in quella nuova scuola?
3
Non fu facile, per Matteo, raggiungere il Conservatorio, in quella sua
prima mattina di lezioni.
Suo zio Daniele aveva promesso di accompagnarlo ma poi, all’ultimo
momento, aveva avuto un contrattempo. Così Matteo si era dovuto
arrangiare, ma aveva preso il tram nella direzione sbagliata e si era
ritrovato a superare il Cimitero Monumentale. Quindi era sceso, aveva
attraversato la strada e aveva aspettato il successivo.
Risultato: il primo giorno di scuola era già in ritardo.
All’ingresso del Conservatorio – quando finalmente ci arrivò – c’era
una gran confusione. Bella, però, piena d’energia.
Le bacheche erano affollate dei manifesti degli ultimi concerti, tra i
quali una serata rossiniana con l’ouverture del Barbiere di Siviglia
eseguita dall’orchestra del Conservatorio. Alcuni ragazzi reggevano il
loro strumento, e tutti tiravano fuori il loro badge per superare i tornelli.
Ma Matteo, il badge, non ce lo aveva, e quello era un problema. Si
piazzò goffamente davanti al tornello d’uscita, sperando che da lì
potesse entrare ugualmente, e per poco non bloccò tutto il flusso degli
studenti.
Ci pensò Michele, il custode, a risolvere la situazione e a mandarlo
da me, nell’ufficio della direzione, la prima tappa di quel suo primo
giorno come studente del Verdi di Milano.
Di lui sapevo ciò che avevo letto sulla sua scheda e quello che aveva
raccontato la sua vecchia insegnante al liceo musicale di Rieti, Ada
Santoro, in un video che ci aveva inviato. Le sue parole mi avevano
commosso: “Del talento di Matteo non c’è bisogno che vi parli, penso
che la sua esecuzione parli da sola. È di lui, di lui come… come
persona… come ragazzo… che voglio parlarvi. Matteo non ha bisogno
di maestri migliori di me. Matteo ha bisogno di essere aiutato. È un
ragazzo fragile. Quello che è successo lo ha cambiato molto. Lo ha
reso… diverso”.
La donna parlava poi del terremoto e di tutte le conseguenze che
aveva avuto sulla vita del ragazzo. Conseguenze terribili che noi, noi
che avevamo visto quelle immagini solo su uno schermo televisivo,
potevamo esclusivamente sforzarci di immaginare.
Non lo trattenni a lungo, ma comunque abbastanza per far sì che la
professoressa Parise, che insegnava italiano, lo riprendesse: «Ha dei
motivi di giustificazione validi?» gli chiese quando lui varcò la soglia
dell’aula.
Matteo cercò di spiegarle quanto era successo, ma la Parise non si
lasciò commuovere.
«E crede che per le prossime lezioni dovremo affidarci alla puntualità
di suo zio, o lei sarà in grado di arrivare all’orario stabilito?».
«Credo che… credo che sarò in grado».
«Ce la può fare?» domandò lei. «Non vorrei che si sopravvalutasse».
La Parise, quando vuole, sa essere davvero acida, lo so.
«Credo che… credo che sarò in grado» rispose Matteo mentre
qualcuno ridacchiava.
«Bene. Cosa fa lì in piedi?» proseguì la Parise senza addolcire il
tono, e lo fece sedere nel banco vuoto accanto a quello di Sara
Loffredi.
In quel momento, nessuno dei due lo sapeva ancora, ma entrambi
sarebbero entrati in quella che prese il nome di “Compagnia del
Cigno”.
Sara è una ragazza che non ha peli sulla lingua, e non ne ebbe
neanche quella mattina.
«Ciao. Io sono Sara, violino, tu invece sei?».
«Ah. Matteo. Violino anche io».
«Sì, ma tu sei bravo».
«Non lo so» mormorò Matteo timidamente.
«Non era una domanda, era un’affermazione. Devi essere bravo per
forza. Non prendono nessuno a metà anno scolastico. A meno che tu
non sia un genio. Sei un genio?».
Matteo sollevò le sopracciglia, un po’ stranito da quell’atteggiamento.
«Non credo proprio. A me “genio” non me l’ha mai detto nessuno».
«E sei carino?».
Sara, da che la conosco, ha sempre avuto la capacità di mettere a
disagio le persone sfruttando il fatto che è ipovedente. Lo faceva coi
suoi genitori Ines e Giulio e con quello che all’epoca era il ragazzo che
frequentava: Gigi. Biondo, alto, motociclista, e che lei – non proprio
gentilmente, diciamolo – chiamava “Gigi Lamento”.
Fu infatti con un certo disagio che Matteo chiese: «Come, scusa?».
«Sei carino, fisicamente? Come sei messo? Per me sei solo
un’ombra scura con un accento strano».
Di fronte alla confusione di Matteo, Sara glielo spiegò più
chiaramente: «Sono quasi cieca. Diciamo che sono “ipovedente”», per
poi rivolgergli una domanda dopo l’altra, neanche fosse un terzo
grado, fino a: «È vero che vieni da uno di quei paesi distrutti dal
terremoto? L’ho sentito dire da Mattozzi, quello di matematica».
Nel giro di un paio di minuti, Matteo aveva già perso la pazienza:
«Sara, sai che c’è? Fatti bastare quello che senti dire dagli altri, va
bene?».
Sara, quando ci si mette, può diventare insopportabile. E Matteo
Mercanti ne aveva appena avuto un assaggio.
4
Più sereno, rispetto a quello con Sara, fu il primo incontro con
Domenico, un altro dei ragazzi che sarebbe diventato, di lì a non
molto, uno dei membri della Compagnia del Cigno.
Domenico Abbate, dopo la morte della madre, viveva da solo con il
padre nella periferia nordorientale della città ed era uno dei più grandi
talenti che il mio Conservatorio avesse mai avuto. A diciassette anni
aveva già vinto qualche concorso ed era un po’ la gloria dell’istituto.
Durante la lezione, aveva lanciato a Matteo uno sguardo complice
mentre la Parise chiedeva al nuovo arrivato a che punto del
programma di italiano fossero nel suo vecchio liceo.
Dopo che Matteo ebbe fatto una figura non proprio brillante, non
ricordando quale fosse esattamente l’ultimo canto della Divina
Commedia che aveva studiato, Domenico gli spiegò: «La Parise vuole
che studiamo davvero italiano e storia. Dice che siamo già
avvantaggiati perché facciamo solo tre giorni di scuola ordinaria.
Secondo lei, come musicisti dobbiamo anche saper parlare, scrivere, e
pensare bene».
«Ma dobbiamo prima di tutto sapere suonare, no?» chiese Matteo.
Forse questo è uno dei casi in cui, da direttrice e narratrice di questa
storia, dovrei immischiarmi e dire la mia. Invece, vi dirò soltanto che
non dev’essere facile insegnare in una scuola in cui la musica è
sempre messa al primo posto e fa automaticamente passare in
secondo piano tutte le altre materie. Tra cui la letteratura italiana.
Ma torniamo alla storia, e a un momento decisivo. Quello in cui
Matteo conobbe quasi tutti gli altri componenti della futura Compagnia
del Cigno.
Erano volti che aveva già visto in classe o ancora prima incrociato nei
corridoi, ma che allora acquisirono per lui anche un nome e un’identità.
E, a eccezione di Sara, con cui Matteo aveva già avuto il suo primo
scontro, erano tutti membri dell’orchestra del Conservatorio.
Erano tutti riuniti al bar, dove Domenico lo accompagnò a comprare
una bottiglietta d’acqua.
«Lui è Rosario» cominciò Domenico indicando un ragazzo con una
folta chioma di capelli castani, mossi. «Percussioni» precisò.
Rosario non aveva alle spalle una situazione familiare facile. Sua
madre, in quel momento, stava cercando di redimersi dalla
tossicodipendenza, e lui non la vedeva da sei mesi. Da Firenze si era
trasferito a Milano, dove abitava insieme a Clelia e Roberto, suoi
genitori affidatari da un anno e mezzo circa. Lui non li chiamava
“mamma” e “papà”, perché una mamma, perlomeno, ce l’aveva, ma
con loro aveva instaurato uno splendido rapporto. Lavoravano
entrambi in un supermercato e vivevano tutti assieme nella zona della
Martesana.
C’era poi Sofia, che nell’orchestra suonava il violoncello. Una
ragazza bellissima che però, in passato, era stata presa di mira dai
compagni di classe per i suoi pochi chili di troppo. Per questo, ancora
adesso, il suo aspetto fisico la metteva in imbarazzo, specialmente
quando entrava nei negozi per comprarsi un vestito nuovo. Si sa, le
ragazze a volte possono essere crudeli, e quelle che quando lei
superava i tornelli d’ingresso del Verdi la chiamavano “carroarmato” o
“elefante” lo erano, purtroppo.
Sofia viveva insieme alla madre Nicoletta, una bella donna che
gestiva un ristorante in zona Sempione, e al fratello diciannovenne
Andrea, da tutti soprannominato “Scheggia”. Il padre li aveva
abbandonati da qualche anno per un’altra donna.
Robbo, invece, nell’orchestra suonava l’oboe.
«E pure pianoforte» specificò lui. Poi, rivolto a Domenico, disse:
«Anche se meno bene di te, ma perché sono più piccolo».
Robbo abitava a pochi passi dal Politecnico di Milano e la sua era,
all’apparenza, una famiglia perfetta: il padre Luigi lavorava in uno
studio di commercialisti, Miriam era editor in una casa editrice, e poi
c’era la sorellina Chiara, che ogni mattina cercava di inventarsi una
scusa per non andare a scuola. A quanto pare, negli ultimi tempi la
maestra la voleva addirittura morta!
Mancavano ancora due degli elementi della futura Compagnia del
Cigno.
Con uno, Matteo aveva già avuto un incontro ravvicinato, mentre
l’altro, in quel momento, non poteva essere lì, e a Matteo sarebbe
toccato attendere un po’ prima di conoscerlo.
Anzi, di conoscerla.
5
Quella mattina, mentre Domenico cercava di introdurre Matteo nel
gruppo di amici, Robbo era nervoso, e da Domenico aveva bisogno
non che gli presentasse delle nuove persone ma di una mano per
capire l’attribuzione delle parti della sinfonia che l’orchestra doveva
provare quel pomeriggio: «Marioni ci aveva detto di controllare, che
sennò oggi si incazza».
E il maestro Luca Marioni, il tutor dell’orchestra, quando si arrabbiava
lo faceva sul serio.
Non era un caso che tutti chiamassero Luca Marioni “il Bastardo”.
Soltanto il giorno prima, i cinquanta studenti che facevano parte
dell’orchestra del Verdi, infatti, si erano beccati una ramanzina coi
fiocchi.
«Sapete, come so io, che la vostra esecuzione finale del Barbiere è
stata penosa».
Aveva cominciato così, senza usare, come al suo solito, mezzi
termini. Poi, dopo aver annunciato che quel giorno avrebbero iniziato
ad applicarsi sulla Terza Sinfonia di Brahms, aveva rincarato la dose.
«Se non sapete stare in un’orchestra, andate a fare i solisti. Qui
dovete lavorare con gli altri e per gli altri. Dovete essere un gruppo.
Invece, col cazzo che finora lo siete stati. Vi suonate addosso, non vi
parlate, non vi ascoltate. Non siete un’unità. Siete cinquanta persone
sole. Se oggi mi vedete lasciare il posto e uscire, vuol dire che fate
così schifo che non ho intenzione di ascoltarvi un secondo di più
mentre massacrate una sinfonia così bella. È chiaro?».
Era proprio di questo che parlava il sonetto di Shakespeare che, in
quel suo primo giorno di scuola, dopo aver conosciuto quelli che
sarebbero diventati i suoi nuovi amici e aver trascorso un po’ di tempo
seduto da solo sotto il grande albero in un angolo del chiostro del
Conservatorio, Matteo ascoltò dalla voce del suo nuovo insegnante di
inglese, il professor Martini:
Tu che sei sol musica, perché l’ascolti con disdegno?
Dolcezza ama dolcezza e gioia di gioie si diletta:
perché vuoi ascoltare qualcosa che ti annoia
o forse hai piacere nell’essere annoiato?
Se l’armonioso suono di note ben accordate
in un perfetto assieme, offendono il tuo orecchio,
esse t’accusan solo gentilmente perché confondi
in singola armonia quanto scindere dovresti.
Guarda come ogni corda dolcemente unita all’altra
vibra ognuna su ognuna in ordine reciproco,
sembrando padre e figlio e felice madre
che tutti insieme cantano la stessa dolce nota:
queste mute voci, riunite in un sol coro,
all’unisono ti dicono: “Solo, non sarai nessuno”.
A quanto pareva, però, Matteo era l’unico che stesse ascoltando
quelle parole.
Tutti erano troppo preoccupati delle prove dell’orchestra che si
sarebbero tenute di lì a poco.
Cosa che non era certo passata inosservata al professor Martini: «So
che quando, dopo di me, avete le prove dell’orchestra, non ho tutta la
vostra attenzione, per usare un eufemismo. Ma siccome non esiste
solo il maestro Marioni…».
Luca Marioni, però, incuteva un tale timore che per i ragazzi era
impossibile pensare ad altro. Anche Gabriella Bramaschi, maestra di
pianoforte e vecchia amica di Marioni, se n’era accorta.
«Che gli hai fatto ieri?» gli chiese quel giorno quando si incontrarono
in aula professori. «Oggi Robbo non voleva quasi sedersi al
pianoforte. È ossessionato dal concerto, pensa solo all’oboe».
«Io non gli faccio niente» fu la risposta di Marioni. «Voglio che
imparino a suonare bene, o che scelgano di fare altro nella vita. Lo
faccio per loro. Non allevo cavalli zoppi».
A una parete dell’aula professori era appesa, e lo è ancora oggi, una
vecchia fotografia degli anni Ottanta che ritrae il maestro Costanzi,
una delle istituzioni di questo Conservatorio, insieme a un gruppo di
studenti. Tra loro ci sono anche Marioni e la Bramaschi.
Quel giorno Gabriella la indicò e disse a Luca: «Sei diventato uguale
a lui. Io gli ho augurato la morte più volte fino al diploma e anche dopo.
E lo odiavi anche tu».
«Be’, siamo sopravvissuti a Costanzi. E forse siamo diventati
musicisti migliori».
«Siamo sopravvissuti perché eravamo insieme, io, te, Massimo,
Diego, la Manu. Altrimenti non ce l’avremmo fatta. E invece questi
ragazzi sono soli, lo sai anche tu. Non sanno fare gruppo. E da soli
non ce la possono fare a reggerti».
Era chiaro a cosa stesse alludendo la Bramaschi.
A Giacomo. Uno dei capitoli più tristi della recente storia del
Conservatorio Verdi.
La storia di Giacomo, violinista e compositore, la conoscevano tutti.
Marioni lo aveva messo talmente sotto pressione che l’anno prima era
crollato davanti a tutti durante il saggio finale. Era letteralmente fuggito
via dal palco mentre si esibiva al violino.
Era per questo che, a partire da quel momento, avevo cominciato a
tenere sott’occhio Marioni per assicurarmi che i suoi metodi e i suoi
modi non fossero troppo duri, e che un episodio del genere non si
ripetesse più.
«Stai dicendo che per sopportare me devono formare tipo
un’associazione?» chiese Marioni alla Bramaschi.
«Per sopportare te?» scherzò lei. «Devono essere tipo un’armata».
E se ne uscì dall’aula stampandogli un affettuoso bacio sulla guancia.
6
Chissà se fu in quel momento che al maestro Luca Marioni venne in
mente l’idea di creare una compagnia.
Sicuramente, però, fu solo dopo aver sentito Matteo suonare per la
prima volta che decise che anche lui avrebbe fatto parte dell’orchestra
che dirigeva.
Matteo era appena entrato nella stanza spoglia e angusta in cui
avrebbe studiato violino.
«Questa sarà la nostra aula, come stai?» gli aveva chiesto il suo
nuovo maestro di violino, Guido Sestieri.
«Bene».
«L’ho visto il tuo video, sai? Quello per la tua ammissione. Ero nella
commissione che doveva decidere se farti entrare al liceo qui».
«Ah. Grazie, allora».
«Quanti anni sono che studi?».
«Sei. Non tanti».
«Dipende da come li hai usati. Vuoi accordare?».
Matteo aveva annuito, aveva dato il La con l’archetto, quindi il
maestro Sestieri lo aveva invitato a suonare un pezzo a sua scelta.
Il destino fa brutti scherzi, ma a volte è gentile, perché proprio in quel
momento passava di là il maestro Marioni, diretto alla sala Verdi.
Camminava spedito, ma si fermò di colpo quando udì Matteo che
suonava la Sonata n. 1 per violino in Sol minore di Bach.
Senza pensarci due volte, entrò nell’aula spalancando la porta e,
dopo essersi fatto dire dal collega chi fosse quel ragazzo che fino a un
attimo prima stava suonando il violino in modo tanto straordinario,
disse: «Portamelo nella Verdi. Tra poco inizio le prove», e il tono era a
tal punto autoritario che anche Sestieri sapeva che non si sarebbe
potuto opporre.
«Chi era?» gli chiese Matteo quando se ne fu andato.
«Il maestro Marioni».
«Marioni… quello dell’orchestra? Il tutor?».
«Il Bastardo, sì. Anche se sei arrivato solo stamattina, sono sicuro
che ne hai già sentito parlare dai tuoi colleghi. La sua fama lo precede.
Dai, prendi il tuo violino. Dobbiamo andare».
Fu così che, poco dopo, Matteo si ritrovò, un po’ intimidito, sul palco
della sala Verdi, il suo zaino e il giubbotto posati per terra ai suoi piedi.
Tutti erano seduti in attesa che cominciasse a suonare. C’erano
Sofia, Rosario, Robbo, Domenico, ma anche Nathan, il primo violino
dell’orchestra, che Matteo aveva incontrato poco prima della sua
lezione con Sestieri e che si era già fatto conoscere dicendogli: «Ci
sono già tanti violini qui dentro, lo sai? Invece, di viole ce ne sono
poche. Sei appena arrivato, fai in tempo a cambiare».
C’era pure Barbara, il settimo elemento della futura Compagnia del
Cigno.
Matteo aveva già incrociato anche lei, per la verità, e non gli era
passata affatto inosservata. L’aveva vista mentre se ne stava solo
soletto nel chiostro del Conservatorio e subito era stato colpito dal suo
fascino.
Se al bar insieme a Domenico e gli altri lei non c’era, era perché, al
contrario degli altri, la mattina non frequentava il liceo musicale ma un
prestigioso liceo classico milanese. Era la figlia di un importante
avvocato e la sua famiglia si era trasferita da Roma qualche anno
prima. Sua madre si aspettava sempre molto da lei, e Barbara faceva
di tutto per non deluderla, compreso ammazzarsi di studio.
Sacrificando tutto il suo tempo libero.
«Sentite, io domani ho il compito di greco e devo studiare. Pensate
che proveremo oggi o no?» disse infastidita da quel fuori programma,
ma sperando che Marioni non la sentisse.
Intanto, Matteo cominciò a suonare, con gli occhi di tutti puntati
addosso.
Marioni gli si avvicinò. «Sì, va bene», gli disse piano in modo che lo
potesse sentire soltanto lui, «si capisce che sei bravo tecnicamente.
Ma devi sapere che io della sola tecnica non ci faccio un cazzo. Hai
capito, Matteo? Non mi devi dimostrare quanto sei bravo, mi devi far
sentire che hai un cuore. Che hai del sangue. Una parvenza di anima.
Ce l’hai? O sei solo uno studentello secchione? Eh?».
Matteo proseguì, cercando di non farsi distrarre. Forse questo,
pensò, era un modo che aveva il maestro – quello che tutti
chiamavano “il Bastardo” – per metterlo alla prova.
Ma Marioni era imperterrito: «Smettila di essere qui, smettila di
suonare con questa sicurezza, fatti portare dalla musica. Vattene!
Staccati, imbecille. Staccati, non lo vedi che così non vai da nessuna
parte? Quant’è vero Iddio, se non ti stacchi, col cazzo che ti prendo
nell’orchestra. Vai, Matteo!».
E Matteo, allora, andò veramente.
In un attimo si ritrovò nella sua terra devastata dal terremoto, quella
stessa terra che aveva lasciato soltanto il giorno prima. Vide la
piazzetta distrutta, le case crollate… e di colpo si fermò.
Marioni lo fulminò con gli occhi: «Perché hai smesso?!».
Matteo rispose d’impulso: «Perché non ce la facevo più. Non…
dovevo smettere».
«Qui lo dico io, quando si inizia e quando si smette. Asciugati» ordinò
Marioni.
Matteo non se n’era reso conto, ma aveva il viso rigato di lacrime.
Sofia, nella platea, si preoccupò di fargli arrivare un fazzoletto di carta,
tra gli sguardi stupiti degli altri studenti e quello impensierito del
maestro Sestieri.
Che già temesse di avere di fronte un nuovo caso come quello di
Giacomo?
Alla fine, Marioni sentenziò: «Va bene. Un po’ di vita ce l’hai messa.
Poca. Ma c’era. Vediamo adesso tutti insieme. Vediamo se ce la fai».
Poi, rivolto al primo violino Nathan: «Lasciagli il posto».
«Maestro…» provò a protestare quello.
«Cosa, Nathan? Lo so, ti ho messo io lì. Adesso però lasci il primo
violino, passi al concertino e vediamo se Matteo ce la fa come primo, o
crolla. Non sei curioso di vedere? Io molto…».
Accadde così che Matteo Mercanti entrò – all’improvviso, come forse
mai era capitato da quando io ero diventata direttrice – a far parte
dell’orchestra degli studenti del Conservatorio Verdi.
Quella sera lo raccontò a suo zio Daniele, prima che lui uscisse col
suo fidanzato Lorenzo – ma guai, in realtà, a chiamarlo “fidanzato”! –
davanti a un piatto di spaghetti alla carbonara.
«Papà l’ha detto che entro ventiquattro ore me li avresti cucinati.
Sono l’unica cosa che sai fare» commentò.
E lo scrisse anche alla madre Valeria, che era una cardiologa.
Matteo, da che era partito, le scriveva sempre messaggi, la
chiamava, ci parlava raccontandole tutto quello che di nuovo gli stava
accadendo in quella città sconosciuta.
Sua madre era, tra le persone che aveva lasciato partendo per
Milano, quella che più gli mancava.
7
Nella vita si cambia.
Si cambia perché il percorso di ognuno di noi non è mai un rettilineo.
Anzi, le deviazioni e gli ostacoli ci sono sempre. Ci sono, anche se
forse impercettibili, perfino nella vita di un adulto abitudinario, che non
rinuncerebbe mai alla sua routine. A maggior ragione, quindi, ci sono
nella vita di un ragazzo ancora alla ricerca di se stesso.
Essere direttrice di una scuola particolare come un Conservatorio mi
ha permesso, negli anni, di vedere ragazzi trasformarsi letteralmente
sotto i miei occhi. Li ho visti trovare, perdere e poi ritrovare il loro
entusiasmo, la voglia di imparare, li ho visti mettere più volte alla prova
il proprio talento.
Ma mai mi era capitato di assistere a qualcosa di così rapido e
strabiliante come ciò che accadde a Matteo Mercanti.
Un giorno, infatti, era di colpo diventato il primo violino dell’orchestra
del Verdi. Il giorno dopo già quel posto non ce lo aveva più, ed era
stato retrocesso tra i violini di fila…
Ed era un miracolo che Luca Marioni non lo avesse cacciato del tutto.
Le prime vere prove a cui partecipò Matteo, infatti, non andarono per
niente bene come quel suo ingresso fulminante avrebbe fatto
immaginare.
I ragazzi stavano suonando da qualche minuto nel grande auditorium
quando, con un gesto secco della mano destra, Marioni interruppe
bruscamente l’esecuzione.
«No!» urlò.
I ragazzi si fermarono tutti all’istante, preoccupati dell’espressione
infuriata del maestro e dei suoi pugni chiusi. Seguì qualche attimo di
silenzio finché lui, con tono neutro, chiese:
«Chi ha sbagliato?».
Si rivolse a uno studente che nell’orchestra suonava il contrabbasso.
«Carlo, sto guardando te. Dimmi chi ha sbagliato».
«Maestro… per favore…».
Il tono si fece improvvisamente secco: «Dimmi. Chi. Ha. Sbagliato».
Carlo, anche se a disagio, diresse il suo archetto verso Mercanti.
«Matteo» riprese Marioni. «Il nostro primo violino da Amatrice.
Esatto. E perché ha sbagliato?». Si rivolse direttamente a lui. «Perché
hai sbagliato, Matteo?».
Matteo, però, non gli rispose.
Lo fece Marioni al posto suo: «Perché segui la musica per conto tuo.
Ma qui il tempo lo do io e solo io. La vostra esecuzione è nelle mie
mani. Dovete guardate queste», disse sollevandole appena, «se
volete suonare qui, altrimenti ve ne state a casa e fate danni nelle
vostre stanzette, è chiaro? Questa non è una democrazia. Qui
comando io, voi rispondete solo a me».
Quindi richiamò Nathan al suo posto di primo violino, ma fu proprio in
quel momento che, come preso da un’intuizione, ebbe l’idea di creare
il gruppo che avrebbe unito sette ragazzi in un’avventura unica.
«Matteo è arrivato di corsa» disse una volta riacquistata la calma.
«Dovete aiutarlo. Non perché ne ha bisogno lui. Perché ne ho bisogno
io, per far funzionare l’orchestra. Non è gentilezza. È necessità.
Quindi…», e scandagliò i ragazzi come alla ricerca del più adatto,
«Domenico ovviamente… Rosario… Roberto… e Sofia».
I quattro drizzarono le antenne.
«Vi eserciterete con lui» continuò Marioni. «Quando verrete alle
prove, io mi renderò conto di quanto avete lavorato insieme. Da
questo momento, Matteo è responsabilità vostra. Se lui non ce la fa,
va fuori dall’orchestra, e insieme a lui andate fuori tutti. È chiaro?».
Loro lo fissarono quasi inebetiti.
«Ve lo rispiego come se foste imbecilli. Se non vedo progressi con
Matteo, vi caccio tutti fuori dall’orchestra».
I quattro si scambiarono delle occhiate, senza però il coraggio di
controbattere nulla.
«Non è giusto?» disse Marioni come intercettando i loro pensieri.
«Certo che non è giusto. La vita non è giusta».
Si girò verso Barbara, che poco prima aveva ripreso perché, come al
solito, secondo lui aveva la testa troppo immersa nello studio e troppo
poco in ciò che stava suonando.
«E Barbara, ovviamente, ci sarai anche tu con loro. Sì, lo so che hai
tante cose da fare, e questo è un impegno in più. È proprio per questo
che te lo affido».
I ragazzi non la presero bene. Quando, a parte Barbara, che era
appunto dovuta scappare a esercitarsi col fagotto – suo secondo
strumento dopo il pianoforte – i cinque si ritrovarono al bar del
Conservatorio, i meno entusiasti erano Rosario e Robbo, in fila
insieme a Sofia. Domenico e Matteo si erano accomodati a un tavolino
poco distante e li aspettavano.
«Non mi pare che abbiamo tutta questa scelta» disse invece Sofia.
«Dobbiamo far funzionare Matteo, o siamo fuori dall’orchestra».
«Farlo funzionare. Mica è una lavatrice» disse Rosario.
«Ma perché ha scelto proprio noi?» protestò Robbo che, soffrendo di
celiachia, aveva appena ordinato il suo solito panino senza glutine.
«Perché dobbiamo perdere tempo noi?».
«Perché siamo in classe con lui».
Quando giunsero al tavolino, Domenico – che a pranzo mangiava
sempre ciò che il padre gli preparava dentro contenitori di plastica –
annunciò: «Ho creato un gruppo su WhatsApp, così ci possiamo
parlare lì e prendere gli appuntamenti per vederci».
«No, ma io non posso» fu la risposta, prontissima, di Robbo. «Ho
troppo da fare in questi giorni e non posso!» ribadì.
«Be’, provaci almeno» disse Domenico. «Matteo mi ha dato il suo
numero, così adesso potete vederlo anche voi. Tirate fuori le vostre
agende e vediamo quand’è che nessuno di noi ha lezione».
«Facile. Mai» disse Rosario.
Ci voleva forse l’ingresso di un nuovo elemento in questo gruppo
perché le cose cominciassero a funzionare. E, in quel momento,
l’elemento mancante stava seguendo una lezione individuale di
violino: una bella ragazza, coi capelli legati in due codini sulla parte
superiore della testa e che a volte si divertiva a tormentare le persone
che aveva intorno – i suoi genitori in primis – giocando sul fatto che
fosse ipovedente.
Sì, proprio Sara.
Marioni la stava aspettando fuori dall’aula. Quando gli arrivò davanti,
Sara si girò a centottanta gradi e fece per andarsene via.
«Sara» disse lui alzandosi in piedi. «A volte mi chiedo se non ci vedi
benissimo e ci prendi in giro tutti».
Sara, che già aveva percorso qualche passo, si fermò. «Chi è…?».
Rimase in silenzio per un secondo. «Ah, maestro Marioni. Buon
pomeriggio».
Lui la raggiunse. «Lo sapevi benissimo che ero io. Mi hai sentito. Non
so… forse ho un’ombra particolare. Forse è il mio odore. Non so come
fai».
Sara sorrise. «Avverto le vibrazioni. È un superpotere. Compensa la
mancanza della vista».
«Hai conosciuto il nuovo arrivato?».
«Matteo. Sì, certo».
«Non ce la fa da solo. Mi tira giù tutta l’orchestra. È troppo
inesperto».
«E allora perché non lo sostituisce, scusi?».
«Perché ha talento, anche se non ha esperienza. Mi serve. Tu sei in
classe con lui, anche se non sei nell’orchestra. Voglio che lo aiuti,
insieme agli altri».
«Che lo aiuti a fare cosa?».
Marioni si avvicinò a lei. «A capire come funziona questa scuola. A
orientarsi. Voglio che lo si aiuti soprattutto a diventare più resistente,
più forte. Capace di stare nell’orchestra». Si avvicinò ancora di più e
quasi le sussurrò: «Sara, insomma… voglio che gli insegni a essere
stronzo, a diventare figlio di puttana».
«Sta dicendo che sono stronza e figlia di puttana?».
Sì, Marioni lo stava proprio dicendo. Ma insieme a questo stava
anche riponendo in Sara, in quella ragazza così intelligente e
sfacciata, una fiducia immensa.
8
Quelli che Luca Marioni aveva appena messo insieme erano sette
ragazzi che all’apparenza avevano poco in comune, se non l’amore
per la musica.
Sarebbe bastato a unirli in un momento così delicato della loro vita?
L’unico in quel periodo che, almeno apparentemente, non aveva
problemi era Domenico.
Aveva una ragazza, Gloria, con cui pareva andare d’amore e
d’accordo. E soprattutto era quello che Marioni, per scherzare,
chiamava “Champions League”, talmente era talentuoso sia nel
pianoforte, suo primo strumento, sia nel clarinetto, che suonava invece
nell’orchestra.
Giorgio, il proprietario di un importante negozio di strumenti musicali
di Milano, lo adorava, e pretendeva che andasse a suonare da lui il più
possibile: «Se ti mettessi tutto il giorno a suonare qui, sai quanti
pianoforti venderei? Tu fai venire voglia di suonare anche ai sordi».
Ma la verità era che se lui andava lì era perché un bel pianoforte a
coda a casa non poteva permetterselo. Ne aveva solo uno verticale, e
in più pure malridotto. Così come non poteva permettersi di comprare
tutti i giorni il pranzo al bar. Ecco perché suo padre gli preparava
sempre quella che a Milano viene chiamata la “schiscetta”. Lo stesso
valeva per gli enormi cappotti vintage con cui veniva a scuola, ereditati
da parenti, e che facevano sorridere alcuni dei suoi coetanei. A
Domenico, però, non importava tutto questo. Era così felice di poter
suonare che il resto passava in second’ordine. Guardarlo al pianoforte
era un piacere, specialmente quando, alla fine di ogni esecuzione,
sorrideva così tanto che pareva ridere. E a volte rideva davvero.
Robbo, invece, si era appena ritrovato di fronte a uno spettacolo a cui
mai avrebbe pensato di dover assistere.
Era pomeriggio tardi e stava tornando a casa in tram insieme alla
sorellina Chiara, che sotto il cappottino aveva il tutù della lezione di
danza.
Ogni mattina, per convincerla ad andare a scuola – a dire della
bambina, la maestra che la voleva morta era una specie di drago
sputafiamme – Robbo le prometteva che l’avrebbe portata in un certo
posto. Quella mattina le aveva promesso che l’avrebbe portata fuori, e
ora lei gli stava presentando il conto:
«Avevi detto che andavamo al parco».
«Lo so. Ma il Bastardo ci ha tenuto un sacco. Ti devo un parco».
A un tratto, l’attenzione di Robbo era stata colpita da qualcosa oltre il
vetro del finestrino. O meglio, da qualcuno.
Mentre il tram avanzava piano, infatti, Robbo aveva visto una bella
donna quarantenne che, con un bacio appassionato, stava salutando
un uomo davanti al portone di un palazzo.
Quella donna era sua madre, e quell’uomo non era suo padre.
Anche Chiara se n’era accorta: «Ma era mamma, quella? Sembrava
mamma».
«No» aveva risposto Robbo tutto serio. «Non era mamma. Mamma è
al lavoro. Stasera finiva tardi per una riunione, ce l’aveva detto».
«Ma sembrava mamma. Anche il cappotto era come il suo…».
«Ti ho detto che non era mamma» l’aveva interrotta bruscamente il
fratello.
Ma questo non era bastato a convincere la bambina, anche perché,
pochi giorni dopo, la sentirono entrambi mentre, chiusa in bagno,
parlava e rideva insieme a qualcuno, quando dopo cena si erano
ritrovati seduti sul piano basso del letto a castello.
«Era al telefono con quel signore, è vero?» domandò Chiara. «Con
quello che la baciava per strada».
«Non lo so. Credo di sì».
«Che succede adesso? Mamma lascia papà? Ci porta via con lei? Ci
separano, me e te?».
«Chiara, non lo so. Non lo so. Non lo so proprio che succede».
Robbo era talmente agitato da quella situazione che il giorno dopo,
durante la lezione della Parise, vomitò di fronte a tutti, lì, nel mezzo
della classe.
«Mi sento strana anch’io» gli disse la sorella quando si ritrovarono
quel pomeriggio a casa da soli. E poi: «Non dobbiamo pensarci, vero?
A mamma, dico».
«Vieni qui» le disse Robbo invitandola a venire sotto le coperte
insieme a lui.
«Ma è presto per andare a dormire!» protestò Chiara.
«Non andiamo a dormire. Andiamo in un posto speciale».
Robbo aveva un dono, oltre al talento musicale. Un dono davvero
speciale: riuscire ad astrarsi dal mondo, inventando luoghi meravigliosi
in cui rifugiarsi quando la realtà intorno a lui gli sembrava troppo cruda
e inospitale.
«Sei pronta per viaggiare?» disse alla sorella.
«Per viaggiare dove?».
«In un posto bellissimo».
«E dov’è?».
«È qui vicino, e anche molto lontano. È un posto speciale dove
andavo quando ero molto piccolo e tu non eri ancora nata, e io mi
sentivo molto solo».
Le sussurrò nell’orecchio il nome segreto di questo luogo, un nome
che lei non avrebbe mai dovuto pronunciare ad alta voce, ma solo
ripetere nella sua mente. In questo modo ci si sarebbero potuti
trasportare insieme.
Un nome che non posso riportarvi perché neanche io, nel rimettere
insieme i fatti per raccontare questa storia, sono riuscita a scoprirlo.
Era un segreto, e tale è rimasto.
Comunque sia, fratello e sorella lo pronunciarono ed ecco che,
all’improvviso, si ritrovarono in una foresta fitta di alberi altissimi,
immersi in una tenue luce blu.
«Ma dove siamo?» chiese Chiara emozionata.
«Nel posto segreto di cui non si può pronunciare il nome. Qui ci
siamo solo io e te. Non ci sono altri esseri umani. E decidiamo tutto
noi. Queste sono le regole».
«Ho capito. Ci siamo solo noi e questi alberi altissimi. Ma perché non
mi ci hai portato prima, in questo posto?».
«Perché prima non ce n’era bisogno. Prima… stavamo bene».
Questo, dunque, era quanto in quel periodo stava rendendo
l’esistenza di Robbo complicata.
Per colpa dei commenti crudeli degli altri, Sofia, invece, aveva iniziato
a vivere un disagio legato al suo fisico, disagio che si acuiva quando il
fratello Scheggia le faceva conoscere le sue nuove fidanzate: ragazze
sempre perfette, alla moda, magrissime.
L’ultima, Ilaria, aveva un blog, sognava di diventare una influencer ed
era più perfetta che mai. Praticamente odiosa.
Ci sono ricordi che a volte ci si conficcano dentro come spine, e
alcuni, per Sofia, erano proprio così.
Non riusciva a dimenticarsi, per esempio, la scritta “Sofia palla di
grasso” sulla lavagna della sua aula, alle scuole elementari, ma
neanche gli appuntamenti dal dietologo, quando lei doveva rimanere in
mutandine e canottiera e il medico le misurava l’altezza e la
circonferenza delle gambe e dell’addome. Ricordava di quando, in
tutù, provava a ballare nella sua stanza ma poi, vedendosi riflessa
nello specchio, si arrabbiava e buttava via tutto, o di quando, in
palestra, correva senza fiato dietro agli altri bambini o restava appesa
come un salame al quadro svedese, senza avere la forza per
proseguire la scalata verso il soffitto. E sicuramente non riusciva a
dimenticarsi di quel foglio di carta appallottolato che era arrivato fino al
suo banco. Quando lo aveva aperto, ci aveva letto: “Cicciona!!!”, con
tre punti esclamativi, come a evidenziare quanto fosse grave, e senza
speranza, la sua situazione.
Quando suo fratello Scheggia, l’unico che poteva chiamarla
“polpettina” senza che lei si arrabbiasse o ci restasse male – l’amore
che Sofia nutriva per lui, infatti, era sterminato – le chiedeva di
lasciargli la casa libera, allora lei si rifugiava sul terrazzo condominiale,
da dove si poteva godere la vista di tutta la città, e lì si metteva a
suonare il suo violino. A volte questo bastava per darle serenità, a
volte no, e piangendo urlava: «Vaffanculo, mondoooooo!!!».
Questo non risolveva niente, certo, ma l’aiutava a sfogarsi.
Chi, al contrario, non aveva mai la forza e il coraggio di urlare il suo
disagio era Barbara.
Non era facile, per lei, mantenere alto il suo rendimento, sia al liceo
che al Conservatorio. E questo non passava inosservato agli
insegnanti.
«Sei tesa come una corda di violino. Preoccupata. Ho l’impressione
che non ti diverti mai, Barbara. Che non sei mai dentro quello che fai»
le aveva detto una volta la Bramaschi, la sua insegnante di pianoforte,
alla fine di un’esercitazione insieme a Domenico che, al contrario,
quando suonava sembrava sempre sprizzare gioia.
Ma come spiegarle che, oltre alla stanchezza, a impensierire Barbara
era anche il sentimento che, da qualche tempo, aveva cominciato a
provare proprio per Domenico. Peccato che lui, però, avesse la sua
Gloria, e che a Barbara sembrava proprio non pensarci.
Senza contare che lei aveva nel cuore una ferita che risaliva ai tempi
in cui abitava a Roma. Sua madre ogni tanto glielo ricordava, come se
quello potesse essere uno sprone per non lasciarsi mai andare:
«Dobbiamo essere molto fiere io e te. Solo noi lo sappiamo quanto è
stato duro questo trasferimento. Quello che ti sei lasciata dietro…
quello che hai perso…».
Se dovessi scrivere di tutte le storie d’amore che, come direttrice, mi
è capitato di veder nascere, morire e magari poi resuscitare all’interno
delle mura del Verdi, ne verrebbe fuori un’epopea infinita…
Sara, in questo contesto, era una ragazza che aveva particolarmente
successo.
I suoi problemi, nella vita di tutti i giorni, erano evidenti, purtroppo. Lei
riusciva a vedere qualche ombra, a distinguere le forme più vicine, ma
si fermava lì.
Nell’amore, invece, sembrava proprio che problemi non ne avesse.
Anzi, la sua più grande preoccupazione era come tenere lontani i suoi
ammiratori più insistenti, uno fra tutti proprio Gigi “Lamento”, che da lei
voleva qualcosa di più che una semplice storiella.
Rosario, dopo le tante famiglie affidatarie da cui era passato, si
trovava bene con Clelia e Roberto. Ma anche nel suo caso stava per
accadere qualcosa che avrebbe potuto mettere a repentaglio quella
serenità.
Ancora lui non lo sapeva, ma sua madre era appena uscita
dall’istituto in cui si trovava, e Clelia e Roberto stavano cercando di
contattarla, invano, per capire cosa avesse intenzione di fare con suo
figlio.
«E se sparisse? Se ci lasciasse Rosario per sempre?» era la
speranza di Clelia.
«Sarebbe bellissimo. Ma non sarà così» le rispondeva Roberto che,
per quanto si fosse affezionato a Rosario, sapeva che era giusto che
lui e la madre avessero una possibilità di ricongiungersi.
E Matteo… be’, lui si era appena trasferito in una città nuova, così
diversa dalla sua minuscola Amatrice di cui non restavano che
macerie, e pensava ogni giorno a sua madre e a ciò che si era lasciato
alle spalle.
Anche lui, poi, aveva inserito il suo tassello nella grande epopea
d’amore del Conservatorio di Milano, prendendosi una cotta fulminante
per Barbara.
Sì, erano sette vite, quelle di questi ragazzi, tutte messe alla prova.
Ma il destino le aveva fatte incontrare, ed era solo l’inizio di una storia
che le avrebbe cambiate profondamente.
Più di quanto loro avrebbero mai immaginato.
9
Il gruppo WhatsApp che Domenico aveva creato si chiamava
“Aiutiamo Matteo”.
La prima a mandare un messaggio vocale fu Sara, e forse sarebbe
stato meglio che non l’avesse mai inviato.
«Ciao a tutti. Cioè, fatemi capire quindi, questa chat l’ha fatta
Domenico perché il Bastardo ci costringe a prestare soccorso al
terremotato?».
Quando Matteo l’ascoltò – era pure lui già dentro il gruppo – gli si
gelò il sangue nelle vene, anche perché Sara, con cui già aveva avuto
un piccolo scontro al suo arrivo in Conservatorio, aveva preso a
chiamarlo “Amatrice”, il che non era esattamente piacevole.
Mentre gli altri componenti del gruppo intervenivano per sottolineare
la gaffe di Sara, Matteo registrò un messaggio vocale:
«Ciao a tutti. Sì, ci sono anche io. Mi… mi dispiace se questa cosa vi
fa perdere tempo e vi dà una noia in più. Non è stata un’idea mia.
Comunque non mi piace che mi chiamate “il terremotato”. Io non vi
chiamo “il fiorentino” o “la cieca”. Ciao, a domani».
Non un buon inizio, dunque, per quella chat comune.
Ma quello che più stava mettendo alla prova Matteo era il rapporto col
maestro Marioni.
Il giorno dopo, infatti, io lo sorpresi mentre, dopo aver corso
nervosamente per il corridoio, tirava un calcio alla sedia, facendola
finire proprio ai miei piedi.
Quando mi vide, Matteo sbiancò in volto. «Mi scusi…» sussurrò.
«Matteo…?» dissi, allibita.
«Sì. Sì. Buongiorno, direttrice».
«Tutto bene?».
«Sì… sì… bene».
Ma non può andare tutto bene, pensai, quando qualcuno ha così
tanta rabbia dentro da dover tirare un calcio a una sedia per riuscire a
sbollirla.
«Che succede? Dovresti essere in classe. Che stai facendo qui?» gli
domandai.
Lui, che aveva appena rimesso in piedi la sedia, mi rispose soltanto:
«Non lo so. Mi… veniva da scappare via».
Quando, un attimo dopo, lo guidai fino alla presidenza e lo feci
accomodare davanti a me, mi raccontò per filo e per segno quello che
era successo.
Stava suonando il violino davanti al maestro Marioni – un brano di
Telemann, per essere precisi – quando lui lo aveva fermato
chiedendogli cosa voleva fare della sua vita.
«Voglio suonare. Voglio… imparare a suonare bene».
«E quindi, in cosa sei diverso dagli altri ragazzi che frequentano
questo Conservatorio?».
«Non lo so».
«Te lo dico io. In niente. Sei abbastanza bravo da avere preso il
posto di Nathan appena arrivato. Sei abbastanza scarso da averlo
perso subito dopo. Hai talento. Un po’ di talento».
«Gr-grazie…».
«Non è un complimento. È una constatazione. E non è merito tuo. Il
talento è ingiusto. A volte va a chi non se lo merita. Tu te lo meriti?».
Marioni si era alzato in piedi. «Non mi importa niente di quello che ti è
successo prima di venire qui. Non mi importa se le persone ti
compatiscono per quello che è accaduto ad Amatrice. Da me non
avrai sconti. Io non ti faccio studiare solo perché sei un ragazzino
sfortunato, per poi farti diventare un ventenne fallito. Ti faccio smettere
prima. Con la forza, se è necessario. Non sono qui per rendervi la vita
facile. Sono qui per farvi capire se avete davvero talento. E se non ce
l’avete, sono qui per farvi mollare, per non farvi perdere altro tempo, e
non farlo perdere a me…».
Detto questo, lo aveva spedito via dall’aula, proprio dove adesso lo
avevo incontrato, ancora sconvolto.
«È vero, è il più severo» gli dissi per cercare di tranquillizzarlo. «Non
è una cosa personale contro di te».
«Veramente non sembrava una cosa di gruppo. Sembrava molto
personale. Eravamo solo io e lui. E le cose che mi ha detto sono…
sono dure».
Sospirai. «Matteo, ascoltami. Io… io so tutto di te. So quello che hai
affrontato».
Matteo, però, sembrava insofferente alle mie parole. Così mi alzai, mi
avvicinai a lui, gli misi una mano sulla spalla.
«Coraggio» gli dissi. «Sei appena arrivato e hai passato quello che
hai passato. Non devi stare in orchestra. Dirò a Marioni di non
seguirti».
A quel punto, però, lui si risvegliò e di scatto disse: «No. Non voglio».
Lo guardai stupita.
«Ce la farò» mi ribadì lui. «Non si preoccupi. Mi dispiace per la sedia.
Posso andare adesso?».
Lo lasciai andare, ma per me quella questione non finiva lì. Il
comportamento di Luca Marioni stava cominciando a preoccuparmi. Di
nuovo.
Decisi di chiamarlo in ufficio, avevo bisogno di parlare con lui. Lui che
in quel periodo era messo alla prova dalla vita, esattamente come i
suoi ragazzi.
Luca e Irene, infatti, si stavano separando. Irene era stata una delle
insegnanti di pianoforte del Conservatorio, e loro due si erano
innamorati da giovani, proprio mentre studiavano musica. Ora lei era
andata a vivere a Como, mentre lui era rimasto a Milano. E se anche
si vedevano ancora, e sicuramente l’amore fra loro due non era finito,
lei non voleva più saperne di tornare a casa. C’era un grande dolore,
tra loro due, che però ancora non riuscivano ad affrontare.
In quel momento, però, Marioni avrebbe dovuto affrontare me.
«I genitori di Nathan hanno scritto una mail. Le risparmio i particolari,
ma in sostanza si lamentano perché il nuovo arrivato rallenta lo
studio».
«È perché Nathan ha paura di perdere il posto da primo violino»
disse Marioni, azzeccandoci in pieno. «Li ha mandati a quel paese,
spero».
«Non si può, e lo sa. Matteo, d’altra parte, è terrorizzato. Da lei».
«Deve essere terrorizzato. Ha davanti un compito difficilissimo. Deve
crescere. Speriamo che ce le faccia. E farlo crescere non significa
proteggerlo».
Feci un sospiro. «Aveva detto una cosa simile anche di Giacomo».
Vidi comparire sul volto di Marioni una smorfia di disprezzo.
«Giacomo non era nato per fare il musicista, per esibirsi di fronte a
un pubblico. Poteva essere un bravo compositore, non un solista. Mi
dispiace per quello che ha fatto. Ma era solo. Nessuno è stato capace
di aiutarlo, non solo io. Non sono responsabile delle sue fragilità. Io
sono quello che gli ha dato forza. Lo capirà negli anni, lui. Non so se
suo padre, che voleva a tutti i costi un figlio genio, lo capirà mai. O lei,
quanto a questo».
Tirare fuori la storia di Giacomo era ogni volta doloroso. Non ne
parlammo più, ma io mi sentii in dovere di dire: «Non posso
permettere che succeda di nuovo una cosa del genere qui dentro».
Ed era quello che mi premeva maggiormente.
10
Ma forse una speranza c’era davvero che Matteo non si ritrovasse
isolato così come si era ritrovato Giacomo, arrivando poi a fare ciò che
aveva fatto.
Quando uscì dal mio ufficio, infatti, Matteo trovò ad accoglierlo
Rosario, che era stato, insieme a Robbo, il meno entusiasta quando
Marioni aveva annunciato la creazione di quel bizzarro gruppo.
«Ciao, devi entrare?» gli chiese Matteo.
«No, ti stavo aspettando» rispose Rosario. «So che hai fatto lezione
con il Bastardo. E so come ci si sente dopo. Adesso tu vieni con me».
Con decisione, gli fece strada fino alla sala percussioni, il suo regno.
«Io, quando sono nervoso, vengo qui, mi chiudo dentro» disse.
«Suoni?» chiese Matteo.
«Suono… e soprattutto urlo».
«…Urli?».
«Urlo come un assassino. Tanto nessuno mi può sentire. Adesso
togliti il giaccone, molla lo zaino a terra, appoggia il violino dove ti
pare».
E lì, tra quelle quattro mura insonorizzate, mentre Rosario pestava
più forte che poteva sulla batteria, i due cominciarono a urlare a pieni
polmoni, ognuno scaricando la propria rabbia. Matteo prima lo fece
timidamente, poi con sempre più energia.
Poco dopo li raggiunse anche Robbo. «Ciao. Serve anche a me,
oggi» annunciò.
«Studio o famiglia?» chiese Rosario.
«Diciamo famiglia. Ma preferirei non parlarne, grazie. Puoi
riattaccare?».
E in quel momento fra loro tre si strinse un legame nuovo, che non
fece che crescere quando, per la prima volta, la domenica successiva,
il gruppo di sette ragazzi creato dal maestro Marioni si ritrovò al di fuori
del Conservatorio, a casa di Sofia, anzi su quel terrazzo dove lei si
esercitava al violino e ogni tanto sfogava la sua tristezza e urlava la
sua rabbia al mondo.
«Com’è quassù, è bello? Si vede tutta la città? Mi sto perdendo
molto?» chiese Sara.
La vista era spettacolare ma Sofia, dopo essersi scambiata uno
sguardo d’intesa con gli altri, rispose: «Niente di che».
«Così così» le fece eco Robbo.
«Non si vede nulla» disse Rosario.
«Bugiardi» sibilò Sara.
A quel punto, prese la parola Barbara: «Che ne dite se cominciamo?
Giusto per non passare tutta la giornata qui». Come al solito, lei aveva
sempre un sacco da studiare per il liceo, e aveva fretta di tornare a
casa a un orario decente.
Ma non è facile che un gruppo di ragazzi di quell’età che si
incontrano fuori dalla scuola pensino subito allo studio. E infatti, a uno
a uno, cominciarono a raccontarsi dei loro problemi.
Barbara parlò della madre che le stava sempre col fiato sul collo,
Robbo del fatto che la sua, di madre, ora aveva un amante, e così
via…
Finché, e ormai era passato un po’ di tempo senza che nessuno
suonasse una nota, Sara disse: «Secondo me, non era esattamente
quello che Marioni si immaginava quando ci ha chiesto di esercitarci
insieme. Cioè, che ci mettessimo a parlare di noi».
«Posso dire una cosa?» saltò su Robbo. «Chi se ne frega di quello
che vuole Marioni».
E così il resto di quella domenica la trascorsero giù, in casa di Sofia,
a chiacchierare, ridere, mangiare.
Quando, la sera dopo, ripensando a quel pomeriggio, Matteo prese il
telefono e aprì la loro chat, si sentì come a casa.
A un certo punto, tra i messaggi vocali di tutti, lui propose: «Possiamo
cambiare il nome di questo gruppo? Non mi piace che si chiami
“Aiutiamo Matteo”. Sembra che mi state facendo un favore».
«Be’, un po’ te lo stiamo facendo» rise Sara. Vero, Amatrice?».
«No, basta» protestò Matteo. «Io propongo che ci chiamiamo “La
Compagnia del Cigno”».
«Ma che cazzata è?» sbottò Sara.
Sofia, invece, disse: «Cuoricino e mi piace».
«Bello», fece Robbo, «ma perché?».
«Come Verdi, il Cigno di Busseto. Bravo, Matteo. Bello» disse
Domenico.
«Vi avviso» riprese la parola Sara. «Se insistete con questa cazzata,
ne pagherete le conseguenze».
«Sara, rassegnati. Mi sa che è deciso» disse Barbara. «La
Compagnia del Cigno».
E la Compagnia del Cigno fu.
11
Erano cinque anni che, come direttrice del Conservatorio Verdi di
Milano, cercavo di convincere a venire a suonare coi miei studenti lo
spagnolo Ruggero Fiore, una delle personalità più in vista del
panorama musicale internazionale.
Fiore aveva lavorato nei più importanti teatri del mondo, era stato
direttore d’orchestra a Vienna, New York, Salisburgo e anche alla
Scala, e io avevo sempre pensato che per i ragazzi della nostra
orchestra sarebbe stata un’occasione d’ineguagliabile valore formativo
poter essere diretti, anche solo per una volta, da lui.
Puntualmente, però, qualche impegno del maestro faceva saltare
questa possibilità.
Almeno fino a quel febbraio, quando finalmente Ruggero Fiore
accettò, e tutto il Conservatorio entrò in fibrillazione.
Anzi, non avrei mai pensato che questo evento avrebbe creato tanto
scompiglio e avrebbe avuto tante piccole, grandi conseguenze sulla
mia vita dei miei ragazzi. In particolare, su quelli della Compagnia del
Cigno.
Loro lo vennero a sapere tramite una mail di Luca Marioni con cui,
con toni decisamente minatori, il maestro li convocava subito in
auditorium.
L’agitazione era palpabile, quella mattina, al bar del Conservatorio,
sempre affollato di studenti. Molti di loro, infatti, stavano controllando
la loro posta elettronica sui cellulari, e avevano l’aria di essere
parecchio, parecchio agitati.
«Avete ricevuto la convocazione anche voi…?» chiese Domenico,
che era lì insieme a Robbo, Sofia e Rosario.
«Sì, noi tre, tutti e tre…» rispose Rosario. «Se chiama noi, ha
chiamato te almeno quattro volte».
«Perché siamo così agitati?» fece Sofia. «Dice solo di andare in sala
prove, no? Non significa niente… no?».
«Il Bastardo non si agita mai così tanto», disse Domenico, «non
scrive “Urgente” nell’oggetto a meno che non ci sia qualcosa di
grosso».
E, visto che l’arrivo di Fiore era nell’aria da tempo, Robbo ipotizzò:
«Questo vuol dire che ci sono riusciti. E noi ci siamo dentro. È
fantastico!».
«Dentro cosa?» saltò su Sofia. «Ma qui non c’è scritto niente, non
fatemi sperare inutilmente, per piacere!».
Robbo, però, ci aveva azzeccato, e la conferma la ebbero loro,
insieme a tutti gli altri componenti dell’orchestra, poco dopo, quando
Marioni, sul palco, lo annunciò davanti a quella platea in fermento.
«Evidentemente si deve essere creata una possibilità improvvisa,
forse gli è saltata una data. Non lo so e non mi interessa. Arriva
sabato e farete le prove. Domenica ci sarà il concerto qui, a teatro
aperto».
Il fermento si trasformò in mormorii eccitati. Uno dei ragazzi più
grandi – Vittorio, che suonava il corno – alzò la mano per chiedere la
parola.
«Dimmi, Vittorio».
«Maestro, volevo chiederle…» cominciò quello timidamente. «Io non
ho ricevuto la mail, penso che ci sia stato un errore e allora…».
«Nessun errore, Vittorio» lo interruppe Marioni. «Puoi accomodarti
fuori. Il corno non lo suoni tu, al concerto. Lo suona Martina».
«Ma io…».
«Tu stai per diplomarti e a Martina mancano ancora due anni, e una
buona parte di preparazione. Inoltre, tu morivi dalla voglia di suonare
con Fiore». Marioni fece una pausa, sicuramente sadica. «E allora?
Decido io. Vai pure fuori».
Mentre Vittorio, soffocando un’imprecazione, che avrebbe solo
peggiorato la situazione, se ne andava via dalla sala, Marioni continuò
a spiegare cosa i ragazzi avrebbero dovuto affrontare: «Sul tavolo
trovate gli spartiti. Il programma l’ho definito con le indicazioni
dell’assistente di Fiore. Eseguirete l’Incompiuta di Schubert».
Questa volta fu Sara a prendere la parola: «Quindi, io devo essere
stata convocata per sbaglio». Lei, infatti, non faceva parte
dell’orchestra.
«No, Sara. Ci saranno tre esibizioni soliste. Lo ha chiesto Fiore, e
quelle le ho decise io».
Marioni spiegò che Sara, per l’appunto, si sarebbe esibita in
Massenet, che aveva già studiato; Barbara e Domenico avrebbero
suonato insieme la sonata di Mozart su cui si stavano esercitando
insieme alla Bramaschi; mentre Matteo avrebbe proposto la Terza
sonata di Bach.
Questo con grande delusione di Nathan, che, seppure nell’orchestra
sarebbe stato primo violino, da sempre sognava di esibirsi davanti a
una personalità di spicco come Ruggero Fiore.
Ma si sa, i piani di Marioni sono ineluttabili, e Nathan preferì non
polemizzare. Anche perché Marioni aveva in mente un vero e proprio
piano d’attacco per arrivare preparati a quell’appuntamento.
«Da oggi, e compreso oggi, abbiamo cinque giorni per provare prima
dell’arrivo del maestro. Cancellate tutti i vostri impegni, a cominciare
da quelli scolastici. Siete esentati dalla frequenza al liceo. Sarete qui
con me tutto il giorno».
Si fermò un attimo, fissando l’intera platea davanti a lui.
«Sì, reclusi, perché se devo fare brutta figura con Fiore, e
presentargli una banda di paese, piuttosto annullo il concerto».
Cercò Barbara e le puntò gli occhi addosso.
«Barbara, ti voglio sempre qui e se ti vedo con un libro del tuo
stramaledetto liceo classico in mano, anche mentre siamo in pausa, ti
caccio a calci fuori dall’orchestra. E non solo per il concerto. Per tutto
l’anno».
12
E fu proprio Barbara ad accusare maggiormente il colpo con l’arrivo di
Ruggero Fiore.
La prima cosa che fece, quando uscì dall’auditorium, fu scrivere un
messaggio a sua madre Vittoria. Quello in cui Marioni la stava
cacciando era un problema, un grosso problema.
«È tutto a posto, stai tranquilla» le disse invece sua madre quando lei
entrò nel loro grande e prestigioso appartamento in piazza Duse, a
pochi passi dai Giardini Montanelli.
«Hai visto il messaggio?» chiese Barbara sconsolata. «Sarà così per
tutta la settimana… Come faccio con la scuola?».
«E qual è il problema? Parlerò io coi tuoi professori spiegandogli la
situazione…».
«No, mamma, no!» la interruppe Barbara. «Non si può fare. Sono
sicura che loro non capirebbero e ricomincerebbero a starmi addosso
con la storia che devo lasciare la musica».
Barbara viveva così. Da una parte Marioni, che quell’anno l’aveva
presa nell’orchestra e non faceva altro che dirle che avrebbe dovuto
concentrarsi esclusivamente sulla musica. E dall’altra i suoi professori
al liceo, per cui invece la musica non poteva che essere una passione
secondaria, quasi un passatempo.
Lei era in mezzo, strizzata come un panno bagnato.
«D’accordo! Se ti fa stare più tranquilla», disse sua madre, «allora ci
facciamo fare una bella giustificazione medica dal dottor De Martini.
Hai l’influenza. Con i professori ci parlo io, ogni giorno prendo i compiti
da fare e li rassicuro che tra una settimana sarai perfettamente in
regola con il programma. Va meglio così?».
Barbara annuì, ma era lo stesso preoccupata. «E se lo scoprono, che
sono al concerto?».
Vittoria scoppiò a ridere. «Barbara, non è mica il Kgb. Non lo
scopriranno. L’importante è che tu, ogni giorno, dopo le prove, ti metta
in pari con il programma del liceo. Ti aiuto io. Stai tranquilla».
Fantastico, pensò Barbara. Dopo ore di prove al Conservatorio
avrebbe dovuto ancora studiare. Le si prospettava una vera e propria
settimana d’inferno.
Ma sua madre aveva fiducia in lei: «Tu ce la puoi fare, lo sai. Tu sei
speciale e lo stai dimostrando. E poi pensa che soddisfazione, sarai
diretta da Ruggero Fiore. Va nel tuo curriculum. Allegra!».
Le cose, però, non andarono lisce come aveva pronosticato la madre
di Barbara.
Le difficoltà, per Barbara, cominciarono alle prime prove con il
maestro Marioni, quando lui chiamò lei e Domenico al pianoforte e si
mise in platea per osservarli.
«No!» li bloccò immediatamente. «Barbara, sei meccanica, sei
distante. A che stai pensando?».
«Al… pezzo» rispose lei timorosa.
In realtà, chissà quali pensieri le si agitavano dentro: la scuola, ma
anche il fatto di suonare accanto a Domenico.
I due ripartirono col brano, e Marioni, dopo poche note, li bloccò di
nuovo.
«No! No! Non puoi cominciare così!» sbottò, sempre rivolto a
Barbara. «Non è un esercizio, non è una lezione, è un concerto, non
devi farmi vedere quanto sei brava, devi incantarmi. Ripartiamo».
Ma fu un’altra falsa partenza.
«No! Adesso chiamo la Bramaschi e mi faccio dire se questo è quello
che ti ha insegnato. È questo? Questa cantilena? Questo strazio
insopportabile? Questo è Mozart! Sapete chi è, o avete solo visto il film?
Sapete che è morto per la sua arte? Che il suo genio era troppo per un
essere umano solo? E tu lo ripaghi così? Suonando da schifo?».
Quel pomeriggio, Barbara tornò a casa più demoralizzata che mai.
Sulla scrivania, oltretutto, la aspettavano le lezioni del liceo da
recuperare, e infatti trascorse tutta la sera, e parte della notte, china
sul libro di filosofia, facendo fatica a concentrarsi anche su questo.
Quando, alla fine, andò a dormire era esausta.
Ed esausta era anche la mattina dopo, quando si trovò di nuovo
nell’auditorium del Verdi a riprovare il pezzo di Mozart insieme a
Domenico.
Questa volta Marioni non li interruppe, lasciandoli suonare fino
all’ultima nota, circondati dagli altri ragazzi tutti alle loro postazioni, e
tutti molto nervosi.
Quando il brano finì, nella sala c’era un silenzio di tomba. Marioni
scese dal suo podio, si avvicinò a Nathan facendogli segno di alzarsi.
Prese la sua sedia e la trascinò fino al pianoforte di Barbara. Si mise
seduto di fronte a lei, a cavalcioni.
«È un disastro» le disse guardandola fisso negli occhi. «E questo lo
sappiamo sia io che te, vero?».
«Sì» rispose lei con un filo di voce.
«Non è questo quello che mi interessa. Mi interessa sapere perché.
Oggi è peggio di ieri. Mi hai fatto perdere tempo. A me e agli altri».
Il silenzio, se possibile, si fece ancora più profondo e carico di
tensione. Barbara non rispose.
«Voglio sapere cosa hai fatto ieri sera quando abbiamo finito le
prove» continuò Marioni. «Cosa hai fatto da ieri sera fino a stamattina
alle otto».
«Ho studiato, maestro».
«Non ho sentito. Dillo a voce alta».
«Ho studiato!».
«Cosa hai studiato, Barbara? Sicuramente non hai studiato Mozart, o
sbaglio?».
Lei, ancora una volta, non rispose.
«Cosa hai stu…».
«Filosofia!» esplose Barbara in un impeto di rabbia, come mai le era
successo prima. Specialmente con un insegnante.
Marioni era furioso. «Ti ho chiesto una settimana, una settimana di
impegno totale. E tu non me l’hai data. Hai fatto perdere tempo a me,
a Domenico, a tutti i tuoi colleghi. Sei un’irresponsabile.
Un’incosciente. Noi ti abbiamo dato tutti fiducia. Abbiamo investito
queste ore per migliorare. Hai passato la notte a studiare filosofia e
oggi sei inservibile. Non mi servi Barbara, non servi a niente».
«Maestro», prese la parola Matteo, «forse Barbara può riposare ora e
possiamo provare noi, così intanto…».
Marioni si voltò verso di lui. «Un’altra parola, Matteo, solo un’altra
parola e quant’è vero Iddio ti rispedisco giù fra i terremotati, in mezzo
alle macerie».
Matteo si gelò, e con lui tutti gli altri, impressionati dalla violenza di
quelle parole.
Ormai era deciso. Domenico si sarebbe esibito da solo –
Rachmaninoff, op. 16, n. 4 – mentre Barbara era ufficialmente fuori dal
concerto. E non c’era niente che potesse far cambiare idea a Marioni.
Quando Barbara si alzò per andarsene, lui le disse: «Barbara.
Guardami. Tu sei una ragazza intelligente. Dimmi se ho ragione o
torto. Se faccio bene o male a mandarti via».
Lei lo guardò, rimanendo per un attimo in silenzio.
«Fa bene, maestro, ha ragione lei».
Quel pomeriggio, però, rientrando nel suo appartamento non ebbe il
coraggio di dire la verità a sua madre. L’avrebbe soltanto delusa, come
aveva deluso il maestro Marioni, e come stava deludendo i suoi
professori del liceo.
Così come stava deludendo anche se stessa.
13
Tutta questa storia di Fiore e delle estenuanti prove a cui Marioni stava
sottoponendo gli studenti che si sarebbero dovuti esibire al cospetto
del maestro aveva scatenato anche le ire di alcuni insegnanti.
La più furiosa di tutte era la Parise, di italiano, che un giorno – dopo
aver visto i banchi vuoti di Domenico, Rosario, Matteo, Robbo, Sofia e
Sara – chiese di vedermi.
«Marioni si sta comportando in modo inaccettabile!» esordì quando ci
ritrovammo insieme nel mio ufficio.
«Non è un modo inaccettabile» la bloccai subito io. «Fiore ha deciso
di venire a dirigere qui, e i ragazzi sono impegnati. Marioni li aiuta».
Sapevo benissimo che quest’occasione era, per i miei studenti, la
cosa più importante che in quel momento potesse capitargli.
«Li tiene reclusi dieci ore dentro la sala» proseguì la Parise, che era
un fiume in piena. «Mi è giunta voce che non li fa uscire nemmeno per
andare al bagno».
«Sono ovviamente esagerazioni» puntualizzai.
«Certo» rispose lei quasi sbuffando. «Cosa ha intenzione di fare?
Aspetta un altro caso Giacomo? Vuole che stavolta non ce la caviamo
solo con delle mani bruciate?».
A quelle parole mi raggelai. Sì, la professoressa Parise aveva
ragione, un caso come quello di Giacomo non poteva e non doveva
ripetersi.
Dopo essere fuggito dal palco su cui si stava esibendo, infatti,
Giacomo era andato a casa e si era messo le mani sopra una piastra
bollente, rovinandosele per sempre. Era stato mandato in cura, e a
scuola non ci era venuto più. Non aveva resistito alle pressioni di
Marioni e la sua strada nella musica si era interrotta bruscamente. Ma,
pure con la lontananza, la sua rabbia verso il vecchio maestro non si
era ancora spenta.
Il giorno prima, infatti, Giacomo aveva squarciato con un coltellino
una delle ruote della macchina del suo vecchio maestro, poi lo aveva
aspettato, a poca distanza da lì, con ancora l’arma nella mano. Forse
per vedere se quel gesto avrebbe causato una qualche reazione.
Luca, non appena lo aveva visto, lo aveva rincorso per tutta via
Borgogna, fino ad arrivare a piazza San Carlo, vicino a San Babila,
dove il ragazzo si era seduto sui gradini della chiesa. Si era avvicinato
a lui e, dopo un attimo di esitazione, gli si era accomodato accanto.
«Come stai?» gli aveva chiesto.
Giacomo non aveva risposto, continuando a fissare dritto davanti a
sé.
«Mi dispiace, Giacomo» gli aveva detto Marioni. «Mi dispiace molto.
Tu lo sai. Io vorrei che tu ricominciassi, che ti mettessi tutta questa
storia alle spalle. Sei un ragazzo. Hai tutta la vita davanti a te, devi
smetterla di farti ossessionare da quello che è successo. Lascia
andare tutto, liberati di questa storia. Vai avanti. Una volta mi
ascoltavi».
Gli aveva preso le mani, per assicurarsi che non ci fossero segni di
ferite recenti.
«Sono contento che non ti fa più male. Perché non ti fa più male, è
vero?».
Giacomo si era voltato verso di lui e guardandolo negli occhi aveva
scosso piano la testa.
«Mi ascolti? Allora mi ascolti…».
«Sì. Dov’era, maestro? Dov’era?».
Ma proprio in quel momento era arrivato il padre del ragazzo:
«Giacomo, per favore, vieni. Vieni che ti porto a casa. Andiamo, per
favore».
Quando suo figlio si era alzato per raggiungerlo, l’uomo si era rivolto
verso Marioni.
«Lei non deve avvicinarsi più a mio figlio» aveva detto furioso. «Ha
già fatto abbastanza per rovinargli la vita. Mi ha capito bene? Spero
che almeno si senta una merda per tutto quello che gli ha fatto. Spero
che dorma male, che si faccia schifo quando si guarda allo specchio».
I due si erano scambiati ancora qualche battuta, Marioni aveva
cercato di spiegare la sua posizione, dicendogli che Giacomo era un
ragazzo troppo fragile, che non sarebbe mai riuscito a sopportare una
vita del genere, fatta di concerti ed esibizioni, e che invece avrebbe
dovuto concentrarsi sulla composizione, in cui eccelleva. Ma, alla fine,
l’uomo aveva sbottato: «Sa che c’è? Mi sono rotto i coglioni di starla
ad ascoltare. Le ripeto, non si avvicini mai più a mio figlio. Altrimenti le
metto le mani addosso».
La risposta di Marioni non si era fatta attendere. «Suo figlio è venuto
a squarciarmi le ruote dell’auto. Lo tenga lei lontano da me. E ha un
coltello in tasca, glielo tolga, per il bene degli altri, e per il suo bene.
Invece di pensare a me, pensi a fare il suo dovere di padre».
Sì, non doveva mai più ripetersi un caso simile a quello di Giacomo,
su questo io e la Parise – più stizzita che mai lì di fronte a me –
eravamo d’accordo. Ma adesso si trattava di dare ai ragazzi
un’opportunità incredibile. Non volevo interferenze di alcun tipo.
«Ascolti, professoressa» le dissi. «Lei tiene molto a che i ragazzi,
anzi i musicisti, che studiano qui, imparino anche bene la loro lingua, e
la storia della loro letteratura. E io la appoggio in questo. Ma sul futuro
di questi ragazzi, su come lavoriamo sul loro talento musicale, non
accetto discussioni».
Lei mi ascoltava, ma le leggevo sul viso l’indignazione.
«Ho dato io al maestro Marioni la guida dell’orchestra di questo
Conservatorio», proseguii mentre sentivo che stavo per perdere la
pazienza, «me ne assumo tutte le responsabilità e non accetto
intromissioni. E non accetterò mai più nessun riferimento a Giacomo.
È chiaro? Adesso, ha altri quindici ragazzi in classe, se non sbaglio.
Vada a fare lezione a loro. La nostra discussione finisce qui».
Lei si alzò, ma prima di uscire dal mio ufficio si girò verso di me e
disse: «Non finirà qui. Vedrà che non finirà qui, purtroppo».
14
Intanto, parallelamente al grande sforzo richiesto loro dal maestro
Marioni in vista del concerto con Ruggero Fiore, le vite dei ragazzi di
quella che ormai si chiamava la Compagnia del Cigno, proseguivano.
Sofia, sempre sull’onda dei commenti delle malelingue, continuava a
sentirsi inadeguata, e guardava Matteo a distanza, senza avere il
coraggio di fare qualche passo in più per avvicinarlo.
La convivenza di Matteo con suo zio Daniele, nel frattempo, andava
avanti. Matteo gli rimproverava scherzosamente di essere troppo
protettivo e “chioccia” con lui, troppo “femmina”, e ascoltava divertito i
racconti sulla sua movimentata vita sentimentale. Pareva, infatti, che
lo zio conoscesse in maniera approfondita – insomma, sì, che avesse
fatto sesso – con tantissime persone, e che molte delle sue relazioni si
fossero fermate solo a questo.
Era strano per lui, che non ancora non aveva avuto una ragazza. Il
suo primo bacio lo aveva dato solo da qualche giorno, e per scherzo.
Era stata Sara praticamente a rubarglielo, con tanto di lingua.
«Coraggio. Ci siamo passati tutti» gli aveva detto Domenico.
«In che senso?».
«Nel senso che Sara ci ha baciati tutti, così, tanto per fare. Tranne
Rosario. Se fossi in lui, quasi mi offenderei».
Sara, da parte sua, era sempre alle prese con la corte serrata di Gigi,
per lei sempre più “Gigi Lamento”.
Gli aveva persino raccontato di essersi fidanzata con Matteo, pur di
allontanarlo, ma Gigi, deciso a riconquistarla, aveva composto una
canzone per lei – e non poteva essere che per lei, visto tutte le volte in
cui ripeteva il suo nome – e si era messo a suonarla in mezzo alla
strada, facendole una vera e propria serenata per chiederle scusa di
essere stato troppo insistente: «Sara, io ho pensato… forse sono stato
veramente troppo… troppo…».
Tanto che lei si era lasciata convincere a dargli un’altra possibilità:
«Senti… se c’è una persona che apprezza la testardaggine, quella
sono io. Facciamo così, vieni a casa mia. Ma non stasera, che devo
stare con i miei amici. Ti chiamo io, va bene?».
Non era stato di certo l’appuntamento che Gigi si era sognato. Nel
soggiorno di casa di Sara, di fronte ai suoi genitori Ines e Giulio, il
ragazzo si era esibito nella canzone che aveva scritto per lei.
«Bravo!» esclamò Ines applaudendo.
«Molto buono, davvero» le fece eco Giulio.
«Grazie» disse Gigi un po’ timidamente.
«E pensate che l’ha composta per me» disse Sara tronfia. «Grazie,
Gigi. Veramente. Nessuno mi aveva mai dedicato una canzone prima.
Me la ricorderò». Fece una pausa. «Adesso scusaci, ma dobbiamo
metterci a tavola. Se vuoi risistemare la chitarra nella custodia…».
Ci fu un momento di gelo. Gigi era incredulo.
«Cioè, mi stai mandando via?».
«Sì» fu la risposta, secca, di Sara.
«Ma mi hai detto tu di venire!».
«Volevo far sentire la canzone ai miei» spiegò candidamente lei. «È
una bella canzone, mi piace sul serio, ti volevo dare soddisfazione.
Però non è che una canzone può cambiare le cose, Gigi. Noi non
possiamo stare insieme, pensavo fosse chiaro. Se non sono stata
chiara, adesso te lo ufficializzo davanti ai miei genitori, così non ne
parliamo più».
Una dimostrazione in più che Marioni aveva ragione quando aveva
chiesto a Sara di insegnare a Matteo a essere più “stronzo” e “figlio di
puttana” – parole sue, ovviamente.
Chi invece aveva problemi più seri era Robbo. Quando la sorella
Chiara aveva scoperto che il fratello maggiore avrebbe dovuto
trascorrere tutto quel tempo chiuso in Conservatorio a provare, non
l’aveva presa affatto bene.
«Ma come faccio io tutti i pomeriggi senza di te?».
«Penso che papà chiederà un paio di permessi al lavoro. Mamma
dice che non ce la fa» le aveva risposto Robbo.
«Certo. Mamma è tanto è impegnata con quel signore che bacia…».
Non era servita neanche la proposta di Robbo di portarla di nuovo nel
loro posto segreto per tranquillizzarla. Chiara si sentiva triste e
arrabbiata, ed era arrabbiata anche con lui.
Forse fu proprio per quello che si lasciò sfuggire qualcosa di troppo
con il padre.
«…Ho fatto un guaio» annunciò al fratello qualche giorno dopo.
«Che guaio?».
«Con papà. Gli ho detto di mamma. Che l’abbiamo vista con quel
signore in strada. E che si baciavano».
«Ma perché? Perché gliel’hai detto?».
Chiara alzò la voce, nervosa. «Perché mi dispiaceva per papà. E poi
perché voleva sapere come mai ero triste! E poi perché tu non c’eri!
Ho fatto un guaio, ho fatto un guaio grandissimo, è vero?».
Robbo la abbracciò, mentre la sorellina scoppiava a piangere.
«Shhh… tu non hai fatto niente» le sussurrò.
«Che succede adesso?» chiese lei.
«Non lo so. Vedremo».
I loro genitori si erano chiusi in camera e avevano cominciato a
litigare cercando di non alzare troppo la voce per non farsi sentire. Ma
poi non ce l’avevano più fatta e i loro litigi erano arrivati fino alle
orecchie dei figli.
«Perché non hai avuto nemmeno il coraggio di dirmelo in faccia, ecco
perché. Perché hai dovuto aspettare che fossero i bambini ad
accorgersene!».
«Basta! Basta! Che senso ha continuare così?».
«Non lo so. Dimmelo tu!».
Le loro voci cercavano di sovrastarsi a vicenda, le parole si
intrecciavano, la rabbia cresceva di intensità.
E allora Robbo aveva di nuovo portato Chiara nel loro posto segreto,
sotto un cielo di stelle brillanti.
Lei era a bordo di una barchetta a remi che solcava un lago scuro. A
pochi passi dalla riva, sotto degli alberi addobbati con lampadine
colorate, c’era un piccolo palco di legno.
Su quel palco c’era proprio suo fratello, seduto a un pianoforte, che
cominciò a suonare qualcosa per lei, sperando che la musica riuscisse
a portare lei, ma anche se stesso, lontano dal terremoto che si era
appena scatenato tra le mura della loro casa.
Fu quella stessa notte che una macchina nera si accostò davanti al
Conservatorio Verdi e fece scendere l’uomo che, indirettamente,
aveva portato tanto scompiglio nelle vite di questi ragazzi.
Ruggero Fiore era appena arrivato a Milano, e voleva dare una
prima, veloce occhiata al luogo che lo avrebbe accolto di lì a qualche
giorno.
Un luogo che solo di notte spegneva la sua musica.
15
Non finirà qui. Vedrà che non finirà qui, purtroppo.
Mi aveva detto così la professoressa Parise, e la sua profezia si era
rivelata fondata, perché qualche giorno dopo quella discussione nel
mio ufficio era arrivata – con la scuola in copia conoscenza – una
diffida: il maestro Luca Marioni non si sarebbe più potuto avvicinare a
Giacomo. Il padre del ragazzo aveva infatti deciso di rivolgersi alle
Forze dell’ordine.
Giacomo, in quei giorni, era quindi un tasto ancora più dolente di
prima, per il maestro Marioni. Che a quel punto era, però, alle prese
con un altro studente il cui destino gli interessava molto: Matteo
Mercanti.
Quel giorno si trovavano nella sala Verdi e Matteo stava suonando la
Partita n. 3 per violino solo di Bach.
Poche note ed ecco che Marioni lo aveva subito interrotto: «Più
morbido. Non è una zappa quella che hai in mano. Riprendi».
Matteo obbedì e riprese da dove si era fermato.
«No», lo bloccò di nuovo Marioni, «dall’inizio, quando dico “riprendi”
vuol dire “riprendi dall’inizio”. Altrimenti dico il numero della battuta.
Riprendi».
Matteo girò allora il foglio sullo spartito, poi fece appena in tempo a
posare l’archetto sulle corde, che Marioni lo interruppe di nuovo.
«Sei rigido, non guardare lo spartito. Le note le devi sapere a
memoria, buttalo in terra, strappalo, facci quello che vuoi ma toglilo da
lì!».
Matteo lo buttò a terra con un gesto rabbioso.
«Non ci riuscirà» disse. «Può fare quello che vuole, io la fine di
Giacomo non la faccio! Ha capito? Non la faccio!».
Al sentire quel nome, Marioni si irrigidì.
«Che ne sai tu di Giacomo, eh? Cosa ne sai?».
«Quello che mi hanno raccontato tutti, e poi l’ho visto!».
C’era anche Matteo, infatti, quando Marioni era corso dietro a
Giacomo fino a San Babila.
«Non è un racconto, Giacomo. È una persona. Non ti permetto di
trattarlo come una storiella da corridoio. Tu non sai niente. E adesso
togliti da qui, vattene, non ti voglio più vedere. La tua lezione è finita,
sarai contento».
«Arrivederci» gli disse Matteo andandosene.
E in quel momento Marioni si accorse che nella sala c’era la maestra
Irene, che aveva deciso di rimettere piede, dopo tanto tempo, nel
Conservatorio in cui insegnava.
«Non ti aspettavo. Non eri più venuta qui» la accolse Luca.
Irene gli sorrise. «Perché pensavo che oggi ne avessi bisogno».
Luca ci pensò un attimo su. Aveva chiesto a Gabriella Bramaschi,
che era un’amica comune, di non dirle niente, ma evidentemente lei lo
aveva tradito.
«No, non è stata Gabriella» disse Irene. «Mi ha chiamato Sestieri. Il
tuo secondo angelo custode».
Luca scosse la testa. «Ma perché mi stanno così addosso? Di che
hanno paura?».
«Ti vogliono bene». Irene fece una pausa. «Tu come ti senti?».
«Male. È umiliante ricevere una lettera di quel genere, e mi fa
incazzare. Anche se non posso farci niente. Nessuno sa la verità su
Giacomo. E tutti si permettono di parlarne. Hai visto» aggiunse
riferendosi a Matteo, che se n’era appena andato.
«Chi era?» chiese lei.
«Matteo, il ragazzo nuovo».
«Non ti eri nemmeno accorto che ero entrata» gli fece notare Irene.
«Ti piace. Lo segui. Gli stai vicino. A tuo modo, ma gli stai vicino».
Luca rimase in silenzio.
«La verità è che a te piacciono i tuoi ragazzi», riprese Irene, «gli vuoi
bene. Anche a Giacomo volevi bene. È per questo che ti fa soffrire. Ti
preoccupi per loro».
«È il mio lavoro».
«Era anche il mio» disse Irene abbassando il tono della voce. «Lo so
che significa. Ma adesso io li odio quei ragazzi. Quando li guardo, non
ce la faccio a non pensare che loro sono sopravvissuti. Che ce l’hanno
fatta, ce la stanno facendo… che hanno una vita da vivere davanti a
loro… mentre…».
Il dolore che aleggiava sempre tra Marioni e la maestra Irene, quello
che li aveva fatti separare – proprio loro che si erano amati alla follia
quand’erano ragazzi e che ancora, nonostante tutto, continuavano ad
amarsi – aveva un nome.
Era un dolore di nome Serena e con la forma di una bambina morta
due anni e mezzo prima, all’età di soli cinque anni.
Un’automobile che usciva da un parcheggio e la colpiva…
Lei che… cadeva e sembrava non essersi fatta niente…
Poi, qualche ora dopo, le cose che precipitavano svelando la realtà
su un trauma cerebrale che se l’era portata via nel giro di poco…
Il matrimonio, sopraffatto da tutto quel dolore, non aveva retto,
sgretolandosi in macerie che sembrava impossibile ricomporre.
Era stato così che Irene aveva deciso di lasciare l’insegnamento, di
lasciare anche Milano e di trasferirsi a Como, sul lago, per cercare di
stare lontano il più possibile dai luoghi in cui era stata felice. Perché
ricordarli la faceva sprofondare ancora di più in un abisso
profondissimo.
«Non è colpa loro. Non c’entrano niente» le disse Marioni.
«Lo so. Ma non posso farci niente. E odio anche te che li aiuti a
crescere».
«Resta qui», le disse lui dolcemente, «stai con me in questi giorni.
Stai con noi. Ascoltali suonare. Guardali».
«Io non sono più così. Nemmeno più alla musica riesco ad
avvicinarmi. Si è spezzato tutto».
«No. Tu non sei più così perché hai paura. Provaci, Irene».
Ma Irene, in quel momento, non riusciva nemmeno a provarci. Non
riusciva a trovare nessun appiglio che potesse aiutarla a risalire
dall’abisso in cui era precipitata.
16
E in un abisso stava precipitando anche Barbara.
Da quando Marioni l’aveva cacciata dall’orchestra, escludendola
dall’evento che sua madre attendeva con tanta ansia, lei, non potendo
neanche tornare a scuola, dove la credevano malata, lasciava la
custodia del suo fagotto da un fruttivendolo – che, neanche troppo
velatamente, le faceva la corte – e trascorreva le sue giornate in giro
per Milano, confondendosi tra i turisti che a quell’ora visitavano il
Duomo, salivano sulla sua terrazza e da lì potevano ammirare tutta la
città.
Loro facevano fotografie, cercavano gli altri monumenti laggiù in
basso. Lei, invece, si sentiva sola e sperduta.
Finché, un pomeriggio, lesse sulla chat della Compagnia del Cigno
un messaggio di Domenico: “Finalmente, riposo!”.
Insieme al messaggio c’era una foto della Rotonda della Besana.
Barbara controllò la mappa sul cellulare e decise che avrebbe potuto
raggiungerlo lì. Non aveva mai smesso di pensare a lui e tutta quella
situazione le faceva ancora più male perché la costringeva a stargli
lontano.
L’amore non era stato gentile con lei e la ferita che aveva dentro,
inferta dalla sua vecchia storia a Roma, era ancora aperta. Domenico,
però, sembrava diverso… e comunque non riusciva a non averlo
sempre in testa.
Così si mise a camminare, decisa a fargli una sorpresa.
Ma la sorpresa che attendeva lei a destinazione era di quelle che non
avrebbe mai voluto ricevere.
Alla Rotonda della Besana, infatti, Domenico non era solo, ma
insieme alla sua ragazza Gloria. Erano seduti vicini, e si parlavano, si
baciavano.
Barbara distolse lo sguardo, e in quel momento si sentì ancora più
sola e sperduta di prima.
Era come se fosse finita dentro un gorgo da cui non sapeva come
uscire.
«Penso che dovresti parlare con tua madre. Dirle quello che sta
succedendo, che hai troppe cose da fare, che non ce la fai a stare
dietro a tutto… e magari è la volta buona che capisce».
Con queste parole la accolse Matteo, che era passato da casa sua
per sapere come stava e, non trovandola, aveva deciso di aspettarla
giù davanti al portone.
Ma cosa ne voleva sapere Matteo? Lui non aveva una madre come
la sua.
Una che, quando lei rientrò in casa, stava ascoltando la Sonata K448
per due pianoforti di Mozart, proprio quella che lei avrebbe dovuto
suonare insieme a Domenico.
«Questa sonata…», disse alla figlia, «è di una bellezza struggente,
era da un po’ che non l’ascoltavo e non vedo l’ora di sentirtela
suonare… come sono andate le tue prove?».
«Bene» mentì Barbara. «Il maestro oggi mi ha fatto i complimenti. È
la prima volta che succede».
Sua madre sorrise. «Arriveremo a farceli fare tutti i giorni questi
complimenti. Sono sicura».
Barbara se ne andò verso la sua stanza senza risponderle. Entrò, si
chiuse la porta alle spalle e vide sulla scrivania i libri di greco e,
accanto, l’elenco degli esercizi che doveva svolgere.
No, non ce l’avrebbe mai fatta.
In quel momento, il telefono si illuminò. Era un messaggio della chat
della Compagnia del Cigno, a cui ne seguirono subito altri.
Fino a quello di Sofia: “Perché non parliamo di un’altra cosa tutti
insieme? Barbara, come stai? Dove sei? Uhuh!”.
Barbara restò per qualche istante con il cellulare in mano, indecisa se
rispondere o meno, se valesse la pena o meno farlo.
Poi, all’improvviso, chiusa nella sua stanza e con la prospettiva di
passare la serata china alla scrivania, prese una decisione: selezionò
il gruppo e lo cancellò dalla sua lista di conversazione,
abbandonandolo.
Che per lei l’avventura dentro la Compagnia del Cigno fosse già
terminata?
17
Non ho mai visto tanta confusione al Conservatorio Verdi come il
giorno in cui Ruggero Fiore vi mise piede per la prima volta.
Gli occhiali scuri sul viso, affiancato dalla sua assistente Jennifer,
avanzava deciso nei corridoi, con gli studenti che lo guardavano
curiosi ed emozionati dalle porte delle aule.
Rivolse loro uno sguardo e disse: «Buongiorno, ragazzi. Ci vediamo
giù?».
Uno studente della IV A, a cui stava facendo lezione la professoressa
Parise, gli rispose: «Non con noi. Solo con i più bravi».
Al che Fiore si fermò e guardandolo serio negli occhi gli disse: «Devi
avere fiducia in te stesso. Oggi non sei in orchestra, domani ci sei,
dopodomani sei già a Tokyo. Dipende tutto da te». Per poi sparire
lungo il corridoio, mentre la Parise, dall’interno dell’aula, andava a
riprendere il ragazzo e, come a volerlo riportare con i piedi per terra,
gli diceva: «Andiamo, Miraglia. Prima di salire sull’aereo per Tokyo mi
devi parlare di Pascoli».
Fiore, intanto, era atteso sul palco della sala Verdi. Quando arrivò,
davanti a lui erano schierati tutti i ragazzi dell’orchestra, seduti alle loro
postazioni e con accanto i propri strumenti.
Fiore si tolse il giubbotto rimanendo in T-shirt.
«Staremo poche ore insieme» esordì fissandoli col suo sguardo
magnetico e padrone di sé. «Ma ci conosceremo profondamente,
intimamente. Non nel senso banale del termine. Io non voglio sapere i
vostri nomi. A me basta ascoltarvi. Io ascolto la vostra musica e
capisco. Vedo i colori della vostra musica. Non dovete avere paura di
me. Io non urlo, non minaccio, io vi sento. Non mi piacciono quelli che
salgono qui sopra e si sentono infallibili. Sono coglioni. Deboli.
Frustrati».
Chissà cosa devono aver pensato i ragazzi in quel momento, abituati
com’erano ai modi di Marioni. E chissà cosa deve aver pensato
Marioni stesso, seduto in platea vicino al maestro Sestieri.
«Io sono come voi» proseguì Fiore. «Io sono uno di voi. Credo
nell’energia, nella vostra energia che passate a me, e nella mia
energia che passerò a voi. Per favore, diamoci le mani».
I ragazzi si guardarono l’un l’altro spaesati, senza reagire.
«È per l’energia» intervenne Jennifer. «Un flusso unico che vi unisce
al maestro Fiore. Prego. Porgete le mani».
Un po’ titubanti, i ragazzi obbedirono. Tutti allungarono la mano e la
diedero al proprio vicino. Matteo la diede a Nathan, che era vicino a
lui. Sofia a Domenico, e così Rosario, Robbo e tutti quanti, fino a che il
cerchio fu completato.
Dopo un attimo di silenzio, Fiore disse: «Sento la vostra forza.
Faremo un bel lavoro, ne sono sicuro! Sentite? Sentita questa scossa?
Io la sento. Dobbiamo avere fiducia. Iniziamo».
E così cominciarono davvero.
Le prove con Fiore erano tutta un’altra cosa rispetto a quelle con
Marioni.
Il maestro parlava di energie, chiedeva loro di accarezzare il proprio
strumento, perché lo strumento è “come un amante che più si conosce
e più si impara ad amare”. Parlava di libertà, di ispirazione, di amore.
«…A me piace. Mi piace molto» disse Robbo uscendo dal
Conservatorio.
«Sì…» fece Matteo. «Parla di libertà e di amore… in fondo, è proprio
quello che provo quando suono».
Sofia era più scettica: «Sì, è vero… oddio, questa cosa di
accarezzare lo strumento, però, mi imbarazza un po’».
«E al Bastardo, avete visto», disse Matteo, «proprio non va giù.
Perché Fiore è la prova che si può essere un bravo insegnante senza
per forza farti sputare sangue».
«Tu pensi che il Bastardo non sia un buon insegnante?» chiese
Sofia.
«Non lo so. Chiedilo a Barbara, Sofia…».
Barbara, intanto, non era più rientrata nella chat della Compagnia del
Cigno, e ancora trascorreva le sue giornate in giro per la città,
aggiungendo bugie alle bugie che aveva già detto.
Finché il destino si mise sulla sua strada.
Stava uscendo dal fruttivendolo dove aveva recuperato la custodia
del suo fagotto quando, all’improvviso, vide, a soli pochi metri da lei,
un professore del liceo, il più giovane tra i suoi insegnanti, a cui lei,
messa alle strette, aveva raccontato di aver abbandonato la musica
per concentrarsi solo sulla scuola.
Si guardarono e lei si paralizzò, incapace di fare o dire qualcosa. Fu
lui a raggiungerla.
«Ciao, Barbara» le disse fissandola negli occhi.
«Buongiorno, professore…» rispose Barbara, che dopo qualche
istante fu costretta ad abbassare lo sguardo.
«Immagino che sia solo per caso se sei in giro quando dovresti avere
l’influenza, e se hai il tuo strumento quando dovresti aver smesso con
il Conservatorio, giusto?».
Barbara non rispose, rimanendo con gli occhi fissi sull’asfalto.
«Mi dispiace» disse il professore. «Avrei pensato a qualcosa di
meglio da parte tua. Ma mi hai deluso. Sei una bugiarda».
Dopodiché, lui le diede le spalle e se ne andò per la sua strada
lasciando Barbara da sola a pensare al mare ancora più profondo di
guai in cui ormai stava affogando.
Quando rientrò a casa, tutto si aspettava fuorché di trovare, seduti in
salotto insieme a sua madre, Domenico, Matteo, Sofia, Rosario,
Robbo e Sara. Sì, lei si era allontanata cancellandosi dalla chat e
quindi erano stati loro ad andare da lei. Adesso erano proprio tutti lì.
«Be’, allora?» esordì sua madre Vittoria. «Si può sapere perché non
me l’hai detto?».
Barbara ebbe un brivido. Rivolse uno sguardo a Matteo,
immaginando che lui avesse spifferato tutto a sua madre. Non le
aveva detto, l’altra sera, che parlarne con lei sarebbe stata la cosa
migliore da fare?
«Io volevo…» mormorò. «Ma… non…».
«Bastava un messaggio, sai, anche se ti sei trattenuta a parlare col
maestro, me l’hanno detto».
Barbara alzò lo sguardo e guardò i suoi amici. Di cosa stava parlando
sua madre?
«A me fa piacere che inviti i tuoi amici a casa dopo le prove. Qual è il
problema?» continuò sua madre.
«Forse se n’è dimenticata, signora» disse Matteo.
«Hai ragione. Probabile, anzi, è sicuro… così come si è dimenticata
di dirmi la data del concerto di Fiore».
«Scommetto che adesso però lo sai» disse sarcastica Barbara.
Vittoria le disse che sì, i suoi amici glielo avevano detto, ma che tanto
l’aveva già saputo dai giornali. Poi invitò tutti a cena e uscì dalla
stanza.
«Che cazzo di idea vi è venuta?» sbottò Barbara non appena sua
madre se ne fu andata, per nulla contenta di quella improvvisata.
«Voglio…» disse Matteo. «Cioè, vogliamo solo aiutarti, Barbara.
Questa è la tua occasione per…».
«Ma tu che ne sai di me?» fece lei stizzita. «Nemmeno mi conosci!».
Anche gli altri le dissero che quello era un buon momento per venire
allo scoperto e per risolvere finalmente la situazione dicendo a sua
madre che intendeva mollare il liceo per concentrarsi solo sul
Conservatorio.
«Questa è la mia vita, non è la vostra» disse Barbara. «Non voglio il
vostro aiuto, non me ne faccio niente».
Aveva già un piano: il giorno del concerto si sarebbe fatta male alla
mano e avrebbe detto che non avrebbe potuto suonare nell’orchestra.
«E adesso», concluse, «inventatevi una cazzata prima che mia
madre allestisca il banchetto di Natale e andatevene via, per favore».
«Volevamo solo aiutarti» intervenne Domenico. «Non c’è bisogno che
ti arrabbi. Abbiamo solo investito un po’ del nostro tempo per venire da
te. Abbiamo sbagliato».
Al che lei si lasciò sfuggire: «Già. Potevi startene tranquillo alla
Rotonda della Besana con la tua ragazza senza perdere tempo. Mi
dispiace».
Era qualcosa che si sarebbe dovuta tenere per sé. Ma ormai era
fatta. Che Domenico pensasse quello che voleva… tanto, ormai,
peggio di così non poteva andare.
18
Per una grande occasione come il concerto con una personalità
d’eccezione quale Ruggero Fiore, ci voleva un vestito adatto.
E fu proprio di questo che, il giorno prima dell’evento, i ragazzi
dovettero occuparsi.
Matteo, che non aveva con sé a Milano vestiti eleganti, si fece aiutare
da Domenico, o meglio da suo padre Vincenzo che, scoprì, aveva la
collezione delle giacche con cui il figlio si era esibito. Su ogni giacca
era appeso un bigliettino.
Vincenzo ne prese una, tirò fuori gli occhiali dal taschino della sua
giacca, li inforcò e lesse: «Duemilatredici… eri piccolo, e infatti si vede.
Guarda che spalle strette».
Ma quella che alla fine andò bene a Matteo era un’altra.
«Rachmaninoff» disse Vincenzo, sempre leggendo il relativo
bigliettino, «concerto della parrocchia di Quarto Oggiaro.
Duemilasedici. È caduto giù il teatro. Hai preso una delle migliori.
Porta bene».
Sofia si provò l’abito davanti allo specchio e si disse che in fondo
poteva andare, anche se continuava a temere i commenti dei soliti
idioti.
Sara, invece, passò quasi mezz’ora a lamentarsi che l’abito da sera
che sua madre aveva scelto per lei non le stava bene, e che nel suo
armadio non ce ne fossero altri papabili per una serata del genere.
Cosa che le confermò anche sua madre Ines, intendendo che si
sarebbe dovuta accontentare di quello che aveva già indosso.
«Però, se non ricordo male», disse Sara, «tra i tuoi dovrebbe esserci
qualcosa…».
«Tra i miei?» esclamò Ines.
«Un abito di Gucci, nero laminato con lo scollo a barca. Lo avevi
messo quando ero piccola, la prima volta che mi hai portato alla Scala.
E, dal momento che ora non credo tu possa entrarci più, mamma, con
tutto il rispetto… potresti passarlo a me».
La solita Sara, insomma.
Chi ci mise meno tempo a vestirsi furono Rosario e Robbo. Il primo
indossò un vestito elegante sotto gli occhi commossi di Clelia, stupita
di vederlo già così grande, mentre il secondo si cambiò addirittura in
Conservatorio.
Ecco, erano tutti pronti, e c’era anche Barbara che aveva finalmente
preso una decisione riguardo a sua madre: «Stasera la faccio
schiantare contro un muro. Mi ero persa. Ma adesso ho ritrovato la
mia Compagnia» disse ai suoi amici. Il videomessaggio di Domenico
che la invitava a non lasciarsi scappare l’opportunità di fare chiarezza
con sua madre aveva avuto effetto, e le aveva fatto capire che forse
anche lui teneva a lei.
C’ero anch’io, quella sera, e ovviamente mi ero vestita come ci si
veste per le grandi occasioni come quella.
Mi trovavo nel foyer quando mi venne incontro Marioni.
«Maestro… buonasera» gli dissi.
«Direttrice… buonasera» mi rispose lui.
E senza troppo preamboli prese il suo telefono, lo avvicinò a me e
attivò il vivavoce.
Sentii qualcuno che diceva: «Niente ci potrà ostacolare. Gli elfi sono
con noi. Li sentite, ora, sulle vostre spalle?».
La voce mi era familiare, ma nel brusio non ero ancora riuscita a
riconoscerla.
«… Cos’è?» chiesi allibita.
«Chi è, piuttosto» rispose Marioni trionfante. «Questo è il nostro
grande maestro che motiva i ragazzi con gli elfi della musica».
Praticamente, era successo che Fiore aveva radunato i ragazzi prima
dell’inizio del concerto e aveva annunciato: «Prima di lasciar entrare i
nostri spettatori, dobbiamo fare una cosa molto importante. Questo rito
propiziatorio mi è stato insegnato da uno stregone a Taos, nel New
Mexico. Qualcuno di voi crede nella stregoneria?».
I ragazzi si erano guardati pieni di imbarazzo.
«Male» aveva risposto Fiore. «Chi è musicista deve credere per forza
nel potere della magia e della stregoneria».
Matteo aveva lanciato un’occhiata a Domenico e gli aveva
sussurrato: «Mi sa che dobbiamo delle scuse a qualcuno».
Era così che aveva deciso di chiamare Marioni per fargli ascoltare le
immense assurdità che gli stava raccontando quella star della musica
internazionale.
E ora Marioni aveva deciso di farle ascoltare a me.
«Facciamo così», mi disse, «la prossima volta, vediamo che il
direttore ospite, oltre ad avere suonato al Metropolitan o a Salisburgo,
magari ci stia pure con la testa, va bene?».
In effetti, qualche sospetto avrei dovuto averlo quando aveva preteso
che il pubblico fosse composto solo di novantanove persone, non una
di più, non una di meno. E tutto questo per questioni di Kabbalah.
Senza contare che gli spettatori, come poi avrei visto accomodandomi
in platea e guardandomi indietro, erano disposti a formare una
piramide.
Certo che di fissazioni quel Fiore ne aveva parecchie… Un’altra, fra
tutte: voleva che i ragazzi dell’orchestra, prima che cominciasse
l’esibizione collettiva, sfogassero i propri polmoni insieme a lui in un
potente urlo: “Uuuuuh!”. Una cosa decisamente originale, non c’è che
dire…
I ragazzi, comunque, erano tutti elegantissimi e carichi di emozione.
Stavano facendo qualcosa di straordinario, ed era questa la cosa più
importante, a prescindere dalle piccole, grandi follie dell’ospite che ci
stava facendo l’onore della sua presenza.
Su quel palco stava accadendo qualcosa di unico.
Ma qualcosa di unico stava accadendo anche nella platea, perché
quando Vittoria si mise a cercare sua figlia tra i ragazzi non la trovò.
Se la vide invece accanto, pronta a raccontarle tutta la verità: di aver
detto al liceo di aver lasciato la musica, di essere stata cacciata
dall’orchestra dal maestro Marioni e che quella sera non si sarebbe
esibita con Ruggero Fiore.
«Perché non me lo hai detto?» domandò Vittoria incredula.
«Non lo so perché. Non volevo deluderti, credo» rispose Barbara.
«Solo che ora non ce la faccio più. Non ho i superpoteri, non sono
invincibile, non so fare tutto, e se passo tutta la sera a studiare
filosofia, il giorno dopo suono uno schifo. Sono lenta, perdo il ritmo,
non ascolto. Voglio provare a vivere, mamma, ad avere diciassette
anni e non quaranta come delle volte mi sembra di avere. Voglio solo
essere come tutti gli altri, voglio essere normale. Ma forse non sono
così coraggiosa nemmeno per provarci».
Era stata un fiume in piena, ma finalmente aveva tirato fuori tutto ciò
che aveva dentro, e ora poteva assistere all’esibizione dei suoi amici
con un enorme peso in meno sul cuore. Poi, certo, lei e sua madre
avrebbero dovuto discuterne, ma come si sentiva già più leggera,
adesso…
Il primo a salire sul palco fu Matteo, poi fu il turno di Domenico, quindi
quello di Sara.
Fu un momento magico. La sua esibizione al violino sul pezzo di
Massenet fu bellissima e straziante. E chissà se fu proprio in quel
momento che Sara prese una decisione che avrebbe cambiato per
sempre la sua storia all’interno del Conservatorio: era stanca di esibirsi
da sola, voleva suonare insieme agli altri, nell’orchestra. Magari
Marioni non lo avrebbe accettato, ma lei glielo avrebbe chiesto, e
avrebbe insistito come solo lei sapeva fare.
«Lo so che sembra impossibile e dovrò combattere contro tutti» disse
a Gigi, che era venuto ad ascoltarla. «Ma ce la posso fare. Ce la farò.
Ora metto su un casino».
Dopo le tre esibizioni soliste fu il turno dell’orchestra. Per fortuna, mi
verrebbe da dire, i ragazzi si vergognarono troppo – o forse furono
troppo intelligenti – per urlare “Uuuuuhhh!” insieme al maestro Fiore –
che si ritrovò a farlo da solo lasciando tutti un po’ interdetti – ma
regalarono un’esibizione fantastica, che emozionò chiunque aveva la
fortuna di trovarsi lì dentro. Perfino il maestro Marioni.
Alla fine di tutto, dopo che Fiore se ne fu andato infastidito dal fatto
che i ragazzi non lo avessero assecondato nelle sue follie, Luca
intercettò Robbo che si stava cambiando nella sala di Arte Scenica e
gli disse: «Speravo di trovarvi tutti qui. Vuol dire che lo riferirai tu agli
altri. Siete stati bravi. Avete suonato bene. Robbo, noi non ci
scegliamo i maestri che incontriamo nella vita. Ci capitano. A volte li
odiamo. A volte li chiamiamo bastardi. A volte ci chiedono di fare cose
assurde. Questo non è importante».
Robbo ascoltava senza fiatare mentre finiva di cambiarsi.
«L’importante», proseguì Marioni, «è che noi, stando con loro,
scegliamo cosa è giusto e cosa no. Cosa vogliamo veramente e cosa
ci fa vergognare. Pensiamo con la nostra testa. E voi questo avete
fatto stasera. Siete stati bravi. Dopodiché… Da domani si torna ai
sistemi normali. Niente riti, niente elfi, niente catene dell’energia e
molto studio. Dillo a tutti. Buonanotte».
E senza aspettare risposta, se ne uscì dalla stanza, lasciando Robbo
allibito.
Davvero Marioni gli aveva detto che erano stati bravi?
19
Molte cose erano cambiate da quella sera.
Barbara si era finalmente aperta con la madre, le aveva confessato
quanto si sentisse sotto pressione su qualsiasi fronte – scuola,
musica, famiglia – e quanto tutto questo la stesse facendo star male.
Vittoria si era mostrata comprensiva, più di quanto lei avrebbe mai
immaginato, e così Barbara aveva iniziato a frequentare le lezioni al
liceo musicale, insieme a tutti gli altri.
Questo per la felicità della Parise, che adesso aveva una
studentessa modello in grado recitare una poesia del Petrarca come si
deve, ma anche di commentarla senza andare a recuperare qualche
scarna informazione in uno sperduto anfratto della memoria.
Un po’ meno felici erano i suoi compagni, che ora avevano un nuovo
parametro verso l’alto a cui la Parise faceva riferimento e una strada
decisamente più in salita.
Ma, tra i sette componenti della Compagnia del Cigno, colei che più
era stata scossa da quell’evento con Ruggero Fiore era stata Sara.
“Scossa” forse non è la parola giusta, perché niente sembrava poter
scuotere una ragazza come lei, ma vedere i suoi amici su quel palco
l’aveva resa sempre più determinata nel perseguire il suo proposito:
entrare a far parte dell’orchestra del Conservatorio.
«Sì, lo so che non ci sono precedenti, ma questo non vuol dir
niente…» mi disse una mattina.
Era seduta nel mio ufficio, sulla sedia davanti alla mia scrivania.
Dietro di lei c’erano anche i suoi genitori, Ines e Giulio.
«Ascolta, Sara, qualcosa vorrà dire…» cercai di farla ragionare.
Confesso, infatti, che al momento quell’idea mi sembrava una pura
follia. Eppure provavo ammirazione nei suoi confronti.
«La difficoltà della tua richiesta è evidente» continuai. «E comunque
devo parlarne prima con Marioni».
«Benissimo» fece lei. «Ma se questa scuola si limita a fare solo
quello che sa di poter gestire, vuol dire che è una scuola alla quale
non importa crescere. Una scuola come tante altre che sono fuori di
qui. E invece, noi qui dentro siamo diversi, o almeno è così che
dovremmo sentirci, no? Il maestro Marioni ce lo ripete tipo martello
pneumatico».
La guardavo tra l’allibito e lo strabiliato. Sara stava facendo una
ramanzina… a me?
«E poi», riprese, «sarebbe un’esperienza importante da un punto di
vista didattico, che aiuterebbe a crescere tutti, non solo me… Non le
pare?».
Rivolsi uno sguardo ai suoi genitori, cercando un appoggio.
«Non li guardi, sono innocenti» mi bloccò Sara.
«È vero, è una sua idea», disse sua madre, «ma noi crediamo che
Sara abbia tutto il diritto di provare a suonare con l’orchestra».
«Non l’abbiamo condizionata minimamente in questa scelta»
sottolineò suo padre. «Però naturalmente la appoggiamo».
Sorrisi. «Che fosse un’idea di vostra figlia, non ne ho dubitato
neanche per un attimo. Sara… riesce sempre a sorprenderci».
Anche Sara sorrise. «Stavolta, allora, mi sorprenda lei. I problemi si
superano e io ne sono la prova vivente… non pensa?».
Sì, in effetti lo pensavo, così come pensavo che non avevo mai avuto
una studentessa tanto impertinente quanto lei.
Va bene, le avrei dato questa possibilità. Da sola, però, non potevo
decidere nulla. C’era uno scoglio da superare, e questo scoglio si
chiamava Luca Marioni.
20
«No, Sara, te l’ho già detto e te lo ripeto. No».
Come previsto, il maestro Marioni non era stato per nulla entusiasta
all’idea che Sara entrasse nell’orchestra. Anzi, diciamo che si era
dimostrato assolutamente contrario.
Lei, però, non si lasciava scoraggiare.
«Per la direttrice non ci sarebbe nulla in contrario».
«Ma sono io quello che decide. Tu non ci vedi ma ci senti benissimo,
e la mia risposta l’hai già sentita. Ho lezione adesso, scusami».
Marioni fece per andarsene, ma Sara lo seguì, imperterrita.
«Mi vuole mettere alla prova, vero? Vuole vedere quanto ci tengo,
per questo sta facendo resistenza».
«Non sto facendo resistenza. Sto dicendo che tu non puoi suonare
insieme all’orchestra perché non sei in grado di farlo. Non si può
rallentare il lavoro di un’intera orchestra per il capriccio di un singolo».
«Il mio non è un capriccio» protestò Sara. «La mia è un’esigenza e
un diritto. E io non mollo. Io divento la sua ossessione. Le telefono,
l’aspetto sotto casa, la seguo con il bastone per la scuola finché non
l’ho convinta. E sa che posso farlo!».
Sì, Sara poteva davvero farlo e infatti quando, un’ora dopo, Marioni
uscì nell’aula in cui era entrato lasciandola fuori con la porta quasi
sbattuta sul naso, Sara era ancora lì.
«Mi sono informata», riprese come se nulla fosse, quasi avessero
interrotto un discorso non più di qualche secondo prima, «lei lo sa che
esiste un’orchestra in Egitto composta solo di donne non vedenti?».
«Se stai pensando di andare a suonare con loro, potrebbe essere
un’ottima idea, Sara».
Neanche Marioni, però, pareva aver intenzione di mollare.
«Era solo per farle capire che niente è impossibile e che tutto si può
fare. Basta avere volontà».
Il maestro Marioni sospirò, poi rimase in silenzio un tempo
abbastanza lungo perché Sara cominciasse a dubitare che si fosse
volatilizzato all’improvviso. «Mi sta guardando o se n’è andato?»
chiese.
«Albinoni, l’Adagio in Sol minore» disse finalmente Marioni. «Conosci
la storia di questo pezzo?».
«Certo. L’ha costruito Giazotto sulla base di frammenti di Albinoni.
Ma poi quei frammenti non sono mai stati trovati. Insomma,
probabilmente l’ha scritto Giazotto».
«Cioè, si potrebbe dire anche che è la storia di un inganno» continuò
Marioni. «Di qualcuno che ha fatto qualcosa che non poteva fare».
«Cos’è, un messaggio per me?».
«Prima dell’inizio delle prove ti faccio avere gli spartiti in braille».
A Sara sfuggì un sorriso trionfante, che Marioni volle spegnerle già
sul nascere.
«Non c’è niente da sorridere, Sara. Tu non puoi nemmeno
immaginare in che guaio ti sei cacciata. Preparati».
Forse davvero non lo poteva immaginare, ma se c’era una cosa a cui
Sara era sicuramente preparata era la reazione di Nathan e di altri
ragazzi come lui, interessati solo a primeggiare.
Le prime prove con Sara all’interno dell’orchestra erano state un
disastro. Lei, infatti, non riusciva a mantenere il tempo con gli altri, che
erano costretti a fermarsi di continuo.
«Ci mettiamo il triplo del tempo, cazzo… e alla fine l’esecuzione sarà
uno schifo…» era l’idea di Nathan.
«…Manco al primo!» gli aveva fatto eco Alberto.
Quello a cui Sara non era preparata, però, era che a unirsi alle
lamentele sarebbe stato un suo amico, membro anche lui della
Compagnia del Cigno.
Era il secondo giorno di prove per Sara e lei, dopo essere stata
strigliata a dovere da Marioni, aveva passato ore e ore con le dita sugli
spartiti in braille per memorizzarli.
Ed eccola lì, sul palco, a suonare più concentrata che mai. Dopo
alcune interruzioni, tutto sembrava andar bene, quando un rumore di
passi la distrasse. Lei non poteva vederla, ma la professoressa
Gabriella Bramaschi era appena entrata nella sala Verdi.
Questo era bastato perché in un attimo lei perdesse il tempo e fosse
costretta a bloccarsi.
«Sara!» disse Marioni. «Che succede adesso? Perché ti sei
fermata?».
La maggior parte degli altri ragazzi, nel frattempo, avevano
continuato a suonare – tutti tranne Domenico, Robbo, Matteo e
Barbara.
«Fermatevi!» urlò Marioni. «Siete diventati sordi? Fermatevi, ho
detto!».
«Che palle!» strillò Nathan, che ormai aveva perso del tutto la
pazienza.
Marioni si girò nella sua direzione, rivolgendogli uno sguardo gelido.
«Cos’hai detto, Nathan?».
«Ho detto che palle, maestro. E non sono l’unico che lo pensa qui
dentro, anche se sono l’unico che lo dice!» rispose lui, talmente
esasperato da non temere una delle proverbiali ritorsioni di Marioni.
«Perché non prova con Sara da sola e intanto noi andiamo avanti?».
Marioni rimase qualche istante in silenzio, quindi si alzò.
«C’è qualcun altro che la pensa come Nathan?».
Ci fu ancora un breve silenzio. Quindi presero la parola altri ragazzi.
«Andiamo lentissimi, ci fa perdere un sacco di tempo».
«È la decima volta, oggi pomeriggio, che ci interrompiamo per colpa
sua!».
Sara si girò da dove arrivava la voce dell’ultimo che aveva parlato:
«E da quand’è che, durante le esercitazioni, calcoliamo le interruzioni,
fammi capire?».
La sorpresa, per Sara, arrivò proprio in quel momento, perché a
intervenire questa volta fu Rosario. «Questa non è un’esercitazione,
Sara» disse nervosamente. «Dobbiamo fare un concerto e così è uno
strazio!».
«Benissimo, Rosario! Cambia orchestra e suona solo con musicisti
vedenti che non ti fanno perdere tempo!».
A chiudere la discussione fu il maestro Marioni che, come suo solito,
annunciò ai ragazzi che per i giorni successivi non sarebbero usciti da
quella sala fino a sera tarda.
«E da adesso in poi, il primo che si azzarda a parlare, a fare un
commento, giuro che lo sbatto fuori dalla sala prove. Ma non per
questo concerto, per l’anno intero. Mi sono spiegato?».
21
A discolpa di Rosario, posso dire che quello non era un periodo facile
per lui. Per niente.
Solo qualche giorno prima, infatti, appena dopo il concerto con
Ruggero Fiore, i suoi genitori affidatari gli avevano comunicato che
sua madre Antonia era uscita dal centro in cui si stava disintossicando.
Aveva contattato direttamente loro senza rivolgersi al tutore e aveva
espresso la volontà di incontrarlo al più presto.
«Quando è uscita?» aveva chiesto Rosario.
«Due settimane fa. Ci ha cercato lei» aveva risposto Clelia,
spiegandogli anche di averla già incontrata e di averla vista bene.
«A voi non dà fastidio se la vedo?» aveva chiesto Rosario.
«No. Scherzi?» aveva risposto Roberto. «Antonia è tua madre e tu
devi sentirti libero di fare quello che vuoi».
«Okay. Allora va bene, la incontro» aveva risposto tranquillamente.
Così tranquillamente da aver lasciato spiazzati Clelia e Roberto, che
si aspettavano da parte sua un po’ più di trepidazione, se non di
agitazione.
Anche la mattina del giorno in cui lui e Antonia si sarebbero rivisti,
mentre faceva colazione Rosario era stranamente calmo.
A essere agitati erano più Clelia e Roberto.
«Ci andiamo a fare una passeggiata tutti insieme…» disse Clelia.
«E poi, se ti va, vi potremmo lasciare un po’ da soli» continuò
Roberto. «Così parlate un po’. Tua madre vorrà sapere tante cose. Ha
chiesto di stare con te. Senza tutore, senza controlli, da soli».
«Ma potremmo anche restare insieme…» intervenne Clelia. «Anzi,
forse è meglio, essendo il primo incontro…». Poi, dopo che Roberto le
ebbe rivolto un’occhiata quasi di rimprovero, aggiunse: «Solo se ti fa
stare più tranquillo. Insomma, scegli tu».
Rosario si alzò in piedi. «Va bene. Ci vediamo dopo allora».
Dopo, però, quando alle quattro, come stabilito, Clelia e Roberto
andarono a prenderlo al Conservatorio, Rosario disse che
all’appuntamento con sua madre non poteva più andarci.
«Ma ti avevamo fatto la giustificazione per uscire prima» disse
Roberto, sporgendosi verso il finestrino aperto della sua auto.
«Lo sapete com’è Marioni» disse Rosario, in piedi lì fuori. «Oggi si è
svegliato con il piede sbagliato. In più, Sara si è messa in testa di
suonare con noi. Se io adesso me ne vado, mi butta fuori
dall’orchestra. Me l’ha detto proprio chiaro e tondo!».
Roberto e Clelia si guardarono senza sapere cosa pensare.
«Oh! Dai, su, non fate quelle facce» disse Rosario cercando di
mostrarsi spiritoso. «La vedo un’altra volta mamma. Insomma, ha
aspettato tanto, vuol dire che aspetterà un altro po’. Okay?».
Ma quella su Marioni era una bugia. La verità era che Rosario aveva
paura di rivederla. Aveva paura di provare di nuovo quel senso di
precarietà che provava quando viveva insieme a lei, ora che la sua
vita sembrava così tranquilla.
Ma allora perché si era comportato a quel modo con Sara e perché
continuava a essere così convinto di non trovarsi dalla parte del torto?
«Sara non può fare sempre come le pare, è arrogante, è dispotica»
disse a Domenico, Matteo e Robbo, che erano venuti a trovarlo in sala
percussioni per convincerlo a fare un passo indietro e chiederle scusa.
«Vi rendete conto che sta rovinando tutta l’orchestra? Oppure no?».
«Te lo chiediamo per l’ultima volta. Tu sei sicuro di quello che dici?»
gli chiese Domenico.
«Certo che ne sono sicuro» rispose lui. «È inutile che state qui,
andatevene. Tanto io non mi muovo».
Gli altri si guardarono un attimo, come per coordinarsi.
«Okay, l’hai voluto tu!» disse Matteo.
Poi prese la fodera nera che serviva da custodia ai piatti e, insieme a
Domenico e Robbo, gliela calò sulla testa, come un cappuccio.
«Ehi, ma che cazzo!» strillò Rosario. «Ma siete matti… levatemelo!».
«E adesso suona» disse Domenico. «Avanti, facci sentire quanto sei
bravo!».
«Suona senza vedere niente» rincarò la dose Robbo. «Suona e
basta! Come lei!».
«Piantatela! Soffoco! Toglietemelo!» si lamentava Rosario,
cercandosi di togliersi quel cappuccio dalla testa.
Ma gli altri tre glielo impedirono.
«Chi se ne frega se ci rallenta», disse Domenico, «se ci fa perdere
tempo. Per Sara è importante. Vuole sentirsi come noi! Perché le stai
facendo questo?».
Rosario smise di colpo di agitarsi, tanto che per un momento Robbo
ebbe paura di averlo soffocato.
Un attimo dopo, per fortuna, Rosario si era levato il cappuccio di
dosso. Aveva il volto stravolto e gli occhi lucidi.
«Vi dovete togliere dalle palle, chiaro?» disse. «Stavo meglio quando
non avevo amici».
«Oh!» fece Robbo.
«Si può sapere che ti prende? Tu non sei così» disse Domenico.
Rosario restò per un attimo in silenzio, poi sputò il rospo: «Ho
problemi con mia madre. La mia madre vera. Ma non voglio parlare.
Potete uscire, per favore?».
Robbo, però, aveva da dire la sua. «Senti, mio padre se n’è andato di
casa, io e Chiara stiamo di merda».
Ed era proprio così. Solo qualche sera prima, il padre Luigi aveva
portato fuori in pizzeria i suoi due figli e gli aveva annunciato che
sarebbe andato via di casa quella sera stessa. «È solo una pausa,
Robbo» gli aveva detto. «Gli ultimi giorni sono stati pesanti per tutti e,
sinceramente, penso che possa fare bene anche a voi». La madre
aveva cercato di spiegargli una situazione che per Robbo, e
specialmente per Chiara, era senza senso, terribile: «È che a volte le
cose nella vita non vanno come avevamo pensato o desiderato. È
come se improvvisamente si perdesse la strada. E io adesso ho un po’
perso la strada, ecco. E ho bisogno di fermarmi per ritrovarla, per
capire che direzione prendere».
Rosario lo guardò per un istante, poi disse: «Bravo. Tu sei bravo. Io
no. Adesso uscite per favore?».
22
Rosario non andò neppure alla cena che Matteo aveva deciso di
organizzare a casa sua.
«Ho invitato qualche amico a mangiare qui, stasera» aveva
annunciato a suo zio Daniele quella mattina stessa.
«Con “qualche amico” cosa intendi?».
«Sei, anzi sette con me. Tutta la Compagnia… Ti prego, non puoi
dirmi di no, zio. Gliel’ho già detto e ho detto pure che gli cucinavi la
carbonara. È importante per me».
«Ma potevi avvertirmi, almeno!» aveva protestato Daniele. «Devo
vedermi con Lorenzo. Quello non ha nessuna pazienza con voi
ragazzi».
Ed era vero: la sera del concerto con Fiore se n’era andato appena
dopo l’esibizione di Matteo e per tutto il tempo non aveva fatto altro
che guardare il cellulare.
Certe cose, a una direttrice come me, non sfuggono.
«Infatti non lo invitare, che ci rovina la serata» aveva detto Matteo.
E così era stato, niente Lorenzo. Ormai lo stesso Daniele cominciava
a rendersene conto di non tenerci più di tanto. Dalla sua, Lorenzo
aveva solo il pregio di essere un bellissimo ragazzo. «Non troverò mai
un altro bello così. È come una trappola» diceva Daniele.
Lorenzo, però, non fu l’unico assente quella sera. Neanche Rosario e
Sara avevano accettato l’invito. Anzi, non rispondevano nemmeno ai
messaggi in chat.
Quella che forse nella mente di Matteo era una cena che avrebbe
ricompattato la Compagnia, si trasformò invece in un capitolo
particolarmente succoso dell’infinita epopea di storie d’amore che io,
come direttrice di una scuola popolata di adolescenti, potrei scrivere
se solo volessi. Ne ho viste così tante di storie d’amore nascere,
morire, rinascere…
Ma torniamo al nostro caso. Riassumendo, le dinamiche sentimentali
all’interno della Compagnia del Cigno erano le seguenti.
A Sofia piaceva Matteo, le piaceva dal primo giorno in cui lo aveva
visto entrare in Conservatorio. Così, in occasione di quella serata a
casa sua, era andata in un negozio del centro per comprare un bel
vestito, che facesse un po’ di scena. La commessa, una di quelle
magre e con la puzza sotto il naso, le aveva consigliato di provare
qualcosa di “più morbido”, ma Sofia, quasi per ripicca, aveva deciso di
comprarlo lo stesso. Adesso, però, se lo sentiva addosso troppo
aderente. E no, non era proprio a suo agio.
A Matteo, però, piaceva Barbara. E nei giorni precedenti aveva
cercato in ogni modo di farglielo capire. Sperava che anche lei
provasse il suo stesso sentimento e pensava di avere tutte le ragioni
per crederlo, dal momento che, dopo l’ingresso della ragazza nella sua
stessa classe, lei si era offerta di prestargli tutte le sue dispense di
letteratura italiana per aiutarlo a mettersi in pari col programma, e
l’aveva addirittura fatto salire in casa sua. Avevano parlato, erano
entrati un po’ più in confidenza, Matteo le aveva raccontato di sua
madre Valeria, le aveva detto che faceva la cardiologa e che era una
mamma straordinaria. Che gli mancava moltissimo.
A Barbara, però, piaceva Domenico, e non riusciva a smettere di
pensare a lui.
Domenico, che pure si era accorto che in lui stava nascendo un
nuovo sentimento per Barbara, stava però con Gloria – o almeno così
sapevano tutti.
Perché in quei giorni era successo qualcosa, e Domenico lo
annunciò proprio quando, per ultimo, arrivò a casa di Matteo.
«E Gloria? Pensavo venissi con lei» gli chiese Sofia.
Domenico si prese una piccola pausa prima di rispondere: «Con
Gloria abbiamo rotto. Cioè, veramente sono stato io a rompere. Non
funzionava. Ecco. Meglio dirvelo subito, così non me lo chiedete più».
Tutti stettero in silenzio. Barbara abbassò lo sguardo.
«Niente di grave» si sentì in dovere di dire lui. «Non mi guardate
così. Succede».
Ma ormai le acque si erano già smosse quando Daniele entrò nel
soggiorno con in mano un’insalatiera colma di pasta e i ragazzi
cominciarono a prendere rumorosamente posto.
«Ecco», disse Daniele, «non sono soddisfattissimo, mi sembra un po’
scotta… sbrigatevi a mangiarla».
Quando tutti si furono seduti, Domenico si alzò in piedi e disse:
«Volevo fare un brindisi a noi, alla Compagnia che stasera si è persa
qualche pezzo…».
I bicchieri vennero sollevati.
«Ma noi non ci arrendiamo» proseguì Domenico. «Uniti e vicini.
Malgrado il Bastardo!».
I bicchieri tintinnarono cozzando piano fra loro.
«Avanti, datemi i piatti» disse Daniele armeggiando con un mestolo.
«Uno alla volta, uno alla volta. Calma!».
In questa grande epopea amorosa, va detto, una parte, quella sera,
ce l’aveva anche Daniele. A un certo punto, infatti, il campanello aveva
suonato e quando lui era andato ad aprire si era ritrovato davanti il suo
nuovo vicino con in braccio Chiara, la sorella di Robbo, che era venuta
insieme a lui ma che, alla prima occasione, era sgattaiolata fuori di
casa.
«Deve essere vostra…» aveva detto quello, che Daniele già qualche
volta si era soffermato a guardare con un certo interesse, maledicendo
il fatto che, con tutti i gay che c’erano a Milano, di fianco a lui si
dovesse essere trasferito proprio un eterosessuale insieme alla sua
fidanzata.
Quella sera, però, in un colpo solo Daniele aveva scoperto due cose.
La sua fidanzata non era in realtà la sua fidanzata, e non era neppure
una donna, almeno non alla nascita: si chiamava Olga ed era una
transessuale in transizione. Due, il suo vicino si chiamava anche lui
Daniele, ed era gay.
E questo, decisamente, rimescolava tutte le carte in tavola.
Nel frattempo, mentre dal salotto provenivano le voci degli altri,
Matteo e Barbara si ritrovarono da soli nella sua stanza.
«Dici che è troppo vuota, eh?» le chiese lui. «Dovrei metterci
qualcosa in più… certo, in confronto alla tua…».
Era imbarazzatissimo, ma sentiva che quella poteva essere una
buona occasione per dichiararsi. Si sentiva vicino a lei come mai si era
sentito prima.
Barbara rise. «Ma no, è bella così».
Matteo si fermò a guardarla, incapace di dire altro.
«Cosa c’è?» fece lei.
«Niente… è che…» e così dicendo le si avvicinò e provò a baciarla.
Ma lei, con delicatezza, si allontanò. «No, Matteo…».
Lui ci rimase come una statua di sale.
«Scusami» andò avanti Barbara. «Ma no… non sciupiamo tutto…
restiamo amici… per favore…» e poi uscì dalla stanza per ritornare
dagli altri.
Matteo non se lo aspettava, non se lo aspettava proprio. Gli era
parso di ricevere così tanti segnali nei giorni precedenti…
evidentemente, però, si era sbagliato. Sì, doveva essersi sbagliato.
E ora, come si sarebbe levato di dosso tutta quella tristezza?
In quei giorni, suo zio Daniele non parlava di altro che delle sedute
dalla psicoterapeuta a cui Matteo avrebbe dovuto sottoporsi per
cercare di superare i traumi relativi a ciò che era successo ad
Amatrice in quella maledetta notte di fine estate di un anno e mezzo
prima.
Erano tante le ferite che Matteo aveva dentro. Cose che neppure lui
riusciva bene a ricordare. Ma sentiva che andare da una
psicoterapeuta non lo faceva stare meglio. Ci era andato quando era
ancora ad Amatrice, e Daniele lo aveva obbligato ad andarci fin da
quando Matteo era arrivato a Milano. Ma dopo la prima seduta lui non
aveva più voluto.
Lei si chiamava Carolina Carli e la prima domanda che gli aveva fatto
era come si trovasse col suo vecchio analista.
«Parlava lui. Io non ho mai parlato tanto» era stata la risposta di
Matteo.
«Quindi mi stai dicendo che farai parlare molto anche me?».
Matteo non aveva risposto.
«Immagino che questo voglia dire sì» aveva ripreso lei. «Ma guarda
che a me non piace molto parlare, quindi alla fine, se non vuoi che
passiamo due ore a settimana in silenzio, come due scemi, dovrai
parlare anche tu».
«Lo faceva anche lui questa specie di ricatto. Ma io ho parlato poco
comunque».
«Allora comincio io. Ovviamente, ho letto qui di quello che è
successo e…».
Matteo l’aveva interrotta: «Senta, io non voglio parlare di quello che è
successo a casa. Lei lo sa. Io lo so. Se devo venire qui per riparlare di
tutto, per raccontare un’altra volta come mi sento, non ci vengo più.
Non ho cambiato città per ricominciare con lei».
Le volte dopo aveva sempre trovato una scusa per non andarci, e di
scuse, studiando al Conservatorio, ce n’erano sempre, specialmente
quando si è parte dell’orchestra diretta dal maestro Marioni.
Quella sera, dopo la cena, quando andò a dormire aveva nella testa
solo Barbara. Ripensava al momento in cui lei si era allontanata,
rifiutando il suo bacio, e questo lo faceva stare male.
A un certo punto, gli sembrò di avere sua madre accanto, seduta sul
letto che gli accarezzava i capelli.
«Non devi essere triste» gli diceva.
«Perché no?».
«Perché a volte succede così. Si comincia da un’amicizia. Ma non è
detto che non possa diventare amore. Ti fidi di me?».
Matteo la vedeva dappertutto, le telefonava, le scriveva messaggi.
Sua madre era ciò che più gli mancava della sua vecchia vita.
Ed era proprio di lei che non voleva parlare con nessun analista.
Perché parlarne avrebbe significato ammettere che sua madre non
c’era più.
Ma questo era troppo doloroso da accettare. No, non l’avrebbe
accettato mai e poi mai.
Per lui, sua madre era ancora lì.
Anche se purtroppo – ed era questa la verità – quella maledetta notte
di un anno e mezzo prima, Matteo l’aveva persa per sempre.
23
Chi, invece, quella sera decise di compiere un passo in avanti per
affrontare i propri fantasmi fu Rosario.
Si era reso conto del male che aveva fatto a Sara, e aveva provato a
chiamarla.
Lei, però, non aveva mai risposto. E non aveva tutti i torti: Rosario si
era comportato da vero stronzo, non c’erano altri modi, in effetti, per
definire la sua condotta.
Così si era chiuso nella sua stanza, rifiutandosi di mangiare.
Non poteva saperlo, ma anche Sara stava trascorrendo una serata
simile, sdraiata a letto, con le cuffiette in testa, ascoltando musica e
piangendo come mai si sarebbe permessa di fare in pubblico.
Era ormai tardi quando Rosario raggiunse Clelia e Roberto in salotto.
Si fermò sulla soglia, mentre loro guardavano la Tv accomodati sul
divano.
«Ciao, finalmente sei comparso. Vuoi mangiare qualcosa?» gli
chiese Clelia.
Roberto abbassò subito il volume del televisore.
«No» rispose Rosario, secco.
«Come stai?» gli domandò lei con tono dolce.
«Insomma… Ho fatto una cazzata, credo, e ne pago le conseguenze.
Ma non ho voglia di parlarne adesso».
Clelia e Roberto annuirono.
«Invece volevo dirvi che…», proseguì Rosario, «che ho deciso.
Mamma la vedrò. Ma voglio farlo a modo mio, cioè da solo. Cioè
senza di voi, se non vi dispiace».
«No. Certo che non ci dispiace», si affrettò a rispondere Roberto, «se
è quello che vuoi».
Rosario, sempre rimanendo affacciato alla porta, sorrise.
«Grazie» mormorò.
E in quel momento pensò che Clelia e Roberto erano i migliori
genitori affidatari che gli potessero mai capitare.
Però una mamma ce l’aveva, ed era giusto che finalmente la
riabbracciasse.
Perché, allora, tutta quella paura?
24
La notizia ci raggiunse il mattino.
Nella notte, il maestro Luca Marioni aveva avuto un incidente
stradale: la sua auto era uscita di strada ed era andata a schiantarsi
contro un palo. Il parabrezza si era infranto in una pioggia di cristalli, il
cofano si era accartocciato, ma per fortuna Marioni ne era uscito quasi
illeso.
Quasi perché in realtà gli si era incrinata una costola, aveva dovuto
mettere un tutore sulla mano e il polso destro, e sulla fronte aveva
riportato una leggera escoriazione.
Marioni aveva immediatamente chiamato Gabriella Bramaschi e lei,
senza chiedergli il parere, aveva altrettanto immediatamente
telefonato a Irene, che ora era lì all’uscita del pronto soccorso ad
aspettarlo.
«Come stai?» gli chiese.
«Hanno cercato in tutti i modi di diagnosticarmi qualcosa di grave. Ma
niente da fare. Sto benissimo. Ce la faccio da solo, non c’è bisogno
che mi accompagni. Anzi, non c’era bisogno che venissi».
«Sicuro?» domandò Irene. «Mi sono spaventata».
«Prenditela con la tua amica Bramaschi. Ho fatto uno stupido
incidente, non sono un malato terminale. Poi ho già chiamato un taxi».
«Richiama e di’ che non ne hai più bisogno».
Luca la guardò per un istante, indagando nei suoi occhi.
«Irene… sto bene, ma sono stanco. Non mi va che mi accompagni
sotto casa nostra e poi vai via. Perché è questo che farai, giusto? O
sei qui perché hai ripensato a quello che ci siamo detti?».
Nelle ultime settimane, Marioni e Irene avevano continuato a vedersi,
o a Como, dove ormai lei viveva e lavorava come commessa in un
negozio di abbigliamento, oppure a Milano, ma in un albergo che non
potesse ricordare a lei di quando loro due vivevano sotto lo stesso
tetto con la loro figlia Serena.
Lui più volte le aveva detto che così non potevano andare avanti, e
che lei avrebbe dovuto provare a mettere da parte il dolore e tornare
insieme a lui, nella stessa casa, nella stessa vita che era andata in
frantumi proprio come il parabrezza della sua macchina.
«Ci ho ripensato…» rispose lei rivolgendogli uno sguardo straziato.
«Ma non ho cambiato idea».
«Allora torna a Como. Davvero».
Ma a Como, quella volta, Irene non ci tornò. Sapeva che Luca aveva
bisogno di lei, e che dietro quell’incidente si nascondeva qualcos’altro,
qualcosa che lui non voleva raccontarle.
Prese una stanza in albergo a Milano, e quella sera stessa lo
richiamò.
«Ciao, come va?».
«Va bene… tutto a posto. Tu?».
«Sono rimasta a Milano. Avevo delle cose da sbrigare e… ho
pensato che magari potevi avere bisogno di aiuto. Sei in difficoltà?».
«Stai dicendo che sei rimasta a Milano per me?».
«No, per niente» si affrettò a specificare lei.
«Va bene. Allora…».
«Luca, senti… non c’è niente di male a chiedere aiuto».
«Ma non mi serve aiuto».
«Va bene. Scusa. Come vuoi tu. Buonanotte».
«Buonanotte a te» chiuse la conversazione Marioni, innalzando
ancora di più il muro che c’era fra di loro.
Un muro che però Irene era decisa ad abbattere, almeno per quanto
riguardava ciò che era successo la notte dell’incidente.
Gli scrisse ancora, pregandolo di raggiungerla nello stesso albergo in
cui, da mesi ormai, si incontravano per delle parentesi di amore
disperato dopo le quali entrambi tornavano alle loro vite di solitudine e
dolore.
Il portiere di notte ormai lo conosceva e lo lasciava passare senza
problemi. Marioni percorse la hall, salì per le scale e raggiunse la
stanza.
«Perché continui a insistere?» chiese Luca quando lei aprì la porta
per farlo entrare.
«Perché penso che hai il braccio impedito, e che posso darti una
mano».
«Perché non torni a casa tua? Che ci stai a fare qui? Che vuoi?».
Irene lo fissò per uno, tre, sei, dieci secondi. Uno sguardo
lunghissimo con cui avrebbe voluto dirgli chissà quante cose. «Io lo
so» disse soltanto alla fine.
«Cosa sai?».
«So che non è stato un incidente. Non è stato un caso. Tu con la
macchina sei andato fuori strada volontariamente».
Marioni rimase in silenzio. Poi disse: «No, sei pazza».
«Non sono pazza».
«È stato un incidente».
Irene scosse la testa. «No. Non capisci perché lo so, Luca? Sei mesi
fa ci ho provato anch’io. Al lago. E alla fine mi è mancato il coraggio».
Marioni entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle. «Perché?»
disse. «Perché non mi hai chiamato quando ti è venuto in mente?».
«Per lo stesso motivo per cui tu non hai chiamato me» rispose lei.
«Non volevo la tua pietà. Non volevo essere salvata. Non volevo che
venissi a stare con me qualche ora per dimenticare tutto. Perché tanto,
poi, la realtà torna. Torna sempre».
Luca la guardò, poi annuì piano. Le prese il volto tra le mani e la
baciò. «Io ti perdono. Perdona anche tu me».
«Non farlo mai più» gli disse Irene.
«Mai più. E nemmeno tu».
«Non te ne andare. Per favore, non te ne andare» lo supplicò Irene.
«Lo so che non volevi tornare qui, lo so che questa storia dell’albergo
è assurda. Ma non andare via, stanotte».
Luca, quella notte, rimase.
Irene aveva ragione. Quell’incidente non era stato un caso, lui fuori
strada ci era andato apposta.
Quello che Irene non sapeva è che quella notte Luca era uscito di
strada solo perché all’ultimo non se l’era sentita di andare con la sua
macchina contro il motorino che guidava Marco.
Marco. Un nome che solo a pensarlo lo faceva stare male.
Perché Marco era colui che, uscendo dal parcheggio, aveva colpito la
bicicletta di sua figlia Serena, facendola cadere a terra.
Sì, lui era sceso dall’auto, ma quando aveva visto che la bambina
non si era fatta apparentemente nulla, se n’era andato quasi
scocciato.
Delle ore seguenti, Luca ricordava ogni singolo particolare.
Ricordava la cena durante la quale, all’improvviso, Serena si era
addormentata quasi con la testa dentro al piatto.
Ricordava poi, all’ospedale, Irene con le braccia strette intorno al
petto come per proteggersi.
Ricordava le parole del medico uscito dalla porta del reparto: «Mi
dispiace… era… era troppo tardi, il versamento dovuto alla caduta era
diventato importante, e non siamo riusciti a… mi dispiace».
Da quel giorno, Marco era diventato la sua ossessione. Marioni
aveva scoperto chi era, dove abitava, lo seguiva, lo osservava a
distanza. Aveva aperto un profilo Facebook fasullo con cui si fingeva
una certa Claudia, e sotto quell’identità più volte gli aveva scritto,
instaurando con lui una conoscenza.
Non sapeva bene a cosa lo avrebbe portato tutto questo. La rabbia
che nutriva nei suoi confronti era pari, se possibile, al dolore che
provava per la morte di sua figlia.
Sarebbe mai riuscito ad andare avanti? E ce l’avrebbe fatta Irene?
Ce l’avrebbero fatta insieme?
25
Ai ragazzi della Compagnia del Cigno la notizia dell’incidente del loro
maestro giunse appena dopo pranzo dalla voce della Bramaschi, che
entrò in sala Verdi tra gli applausi.
Gli applausi non erano per lei, ma per Domenico e Barbara, che si
erano appena esibiti in un duetto sulle note di How Can You Mend a
Broken Heart.
Barbara era entrata nella sala mentre Domenico stava cominciando a
suonare.
«Lo conosco questo pezzo» aveva detto. «Piace a mia madre».
«Veramente anche a mio padre» aveva aggiunto Domenico.
E poco dopo erano lì insieme che lo suonavano, in un crescendo di
emozioni e di complicità.
«Buongiorno, ragazzi» esordì la Bramaschi. «Solo una
comunicazione veloce. Oggi pomeriggio siete liberi, le prove
dell’orchestra sono annullate. Il maestro Marioni ha avuto un incidente
d’auto. Niente di grave, ma non può venire. Da domani verrà sostituito
per le prove successive, riceverete una mail con tutti i dettagli».
I dettagli li avevo decisi io come direttrice, anche perché c’erano da
portare avanti le prove per il concerto che Marioni aveva deciso di
organizzare per sancire ufficialmente l’ingresso di Sara nell’orchestra.
In assenza di Marioni, sarebbe stato il maestro Sestieri a dirigere
l’orchestra, e dal giorno successivo le prove sarebbero ricominciate.
Detto questo, uscì dall’aula, lasciando tutti a guardarsi increduli, un
po’ felici e un po’ smarriti.
«Oddio, mezzo pomeriggio libero… vi rendete conto?» esclamò
Sofia. «Non è mai successo in tre anni che sono qui».
In effetti, era un evento più unico che raro per chi faceva parte
dell’orchestra del Conservatorio diretta da Marioni.
I ragazzi si ritrovarono poco dopo nel chiostro, a gruppetti.
Parlottavano fra loro.
A Rosario venne un’idea, anzi due, su come avrebbe potuto sfruttare
quel pomeriggio.
Per prima cosa, inviò un messaggio ai suoi genitori affidatari Clelia e
Roberto, dicendogli che avrebbe voluto vedere sua madre Antonia
quel pomeriggio stesso.
E poi, si disse, quello poteva essere un buon momento per cercare di
fare pace con Sara.
Le si avvicinò e le disse timidamente: «Ciao».
«Chi sei?» chiese Sara.
«Lo sai benissimo…».
«Allora non ho voglia di parlare con te».
«Non so che mi è preso» fece Rosario imbarazzato. «È che sono
nervoso in questi giorni. Mi dispiace di essermi messo con gli altri».
«Se l’hai fatto è perché lo pensavi, e in fondo non hai nemmeno
torto».
«Ma no, non è vero, non pensavo niente».
«Non pensi che vi faccio perdere tempo? Che sono presuntuosa, che
per colpa mia non andate avanti e dovete ripetere all’infinito?» insisté
Sara.
«No… cioè, un po’ è vero che si rallenta però… non…».
«Ecco, appunto» lo interruppe lei. «Vaffanculo, Rosario. Peggiori solo
la situazione. E adesso lasciami in pace. Anzi, lasciatemi in pace
tutti».
Detto questo, si allontanò mettendosi in disparte.
«Sentite», propose Domenico per cercare di risolvere la situazione,
«visto che abbiamo il pomeriggio libero, e siamo tutti qui, vi va di fare
qualcosa insieme?».
«Magari…» rispose Sofia. «Io a casa ho mio fratello con la blogger
assassina. Tu che dici, Matteo?».
Matteo rivolse uno sguardo a Barbara.
«Sì, va bene…» rispose.
«No, grazie» disse invece Sara. «Io resto qui a studiare. Così domani
non dovrete rallentare per colpa mia. Divertitevi!», poi rientrò nel
Conservatorio senza aggiungere altro.
«Cavolo, ma perché fa così?».
«Scusate, ma anche io non posso venire» intervenne Barbara.
«No, ma perché?» disse Domenico.
«Ho già preso un impegno con mia madre» rispose Barbara, e,
salutandoli tutti quanti, se ne andò.
Rimasero soltanto Domenico, Sofia, Matteo e Rosario.
Fu allora che Rosario prese la parola: «Io ho una cosa da chiedervi».
Tutti si voltarono nella sua direzione, ansiosi di sapere cosa aveva da
dirgli.
«Cioè, mi rendo conto che non è proprio come andare a fare una gita
e che in questo momento l’unione, be’… non è al massimo… ma ho
bisogno di voi».
Clelia gli aveva appena risposto: sua madre Antonia lo aspettava, di
lì a poco, sul Naviglio Grande.
26
Stretto nel suo giubbotto, lo zaino sulle spalle, Rosario cercava in
mezzo alle persone che passavano davanti a bar e negozi. Il Naviglio
Grande è sempre gremito di gente, e lo era anche quel pomeriggio.
I suoi amici erano affacciati alla balaustra di un ponte di pietra poco
lontano.
«Vuoi che accompagniamo anche te, quando tua madre ti viene a
trovare?» chiese Sofia a Matteo.
Lui sussultò. A tutti aveva raccontato che sua madre era ancora viva,
e che se non veniva a trovarlo era solo perché era molto occupata col
suo lavoro all’ospedale.
«No, non c’è bisogno» rispose.
«Ma viene per il concerto, questa volta?» insisté Sofia.
«Non ce la fa. Ha il turno all’ospedale».
«La senti spesso, però…».
«Sì». Non sapeva più come troncare quel discorso.
«Ecco. Ecco» annunciò a un certo punto Domenico.
Una giovane donna si era avvicinata a Rosario e lo stava salutando.
Indosso aveva un giacca con il collo di pelliccia colorata e un abito
forse troppo leggero per la stagione, ma anche a quella distanza si
vedeva il suo sorriso.
«Ciao, piccolo mio» disse a suo figlio.
«Ciao, mamma» rispose Rosario, per poi lanciarsi verso di lei e
abbracciarla forte.
Restarono così per qualche istante, ad assaporare le emozioni che si
agitavano dentro di loro.
«Come ti sei fatto grande, Sario mio» disse Antonia quando si
staccarono. «Un altro po’ e sei più alto di me. E come ti sbaciucchio?
Mi arrestano, tra un po’. Intanto, ne approfitto…» e lo strinse di nuovo
a sé, sbaciucchiandoselo tutto.
Rosario non si ribellò. Era troppa la felicità di avere di nuovo sua
madre lì con lui.
«Che ti va di fare?» gli chiese lei quando si staccarono di nuovo.
«Andare in giro con te» rispose deciso Rosario.
«Allora non perdiamo tempo».
Dal Naviglio Grande si diressero verso il centro. Si divertirono a dare
un nome a ciascun passante, specialmente a quelli dall’aspetto più
bizzarro. Antonia si fermò a guardare le vetrine dei negozi di
abbigliamento, immaginandosi quali vestiti le sarebbero stati meglio e
quali avrebbe potuto indossare Rosario per sembrare ancora di più un
ometto.
Camminarono, camminarono, camminarono fino a giungere al
Castello Sforzesco. Avevano così tanto di cui parlare. All’inizio, però,
l’imbarazzo li frenava, e preferirono scherzare evitando gli argomenti
seri.
Finché, quando la loro antica confidenza riemerse calda e unica
come un tempo, cominciarono a parlare di Clelia e Roberto.
Rosario raccontò del loro lavoro al supermercato, del fatto che
Roberto fosse stato promosso caporeparto, e che fossero una bella
coppia, molto unita.
«…E ti trovi bene con loro?» chiese Antonia.
Rosario esitò. «Sì… sono bravi». Sollevò gli occhi verso di lei. «Ma tu
come stai, mamma?».
«Tu come mi vedi?» chiese lei.
«Ti vedo… ti vedo meglio».
«Ho diminuito i farmaci. No… non soffro più come prima».
«Stai prendendo ancora tutto quel metadone?».
Antonia sbarrò gli occhi. «Non me lo dire. Mi fa impressione quando
lo dici».
«Come lo devo chiamare?» chiese lui.
Antonio abbassò lo sguardo, incupita. «Certe volte penso che per
colpa mia sei cresciuto troppo in fretta».
«Non è stato per colpa tua» disse lui.
«E per colpa di chi? C’eravamo solo noi due. Sempre stati soli, io e
te. La gente diceva sempre: Rosario e Antonia, Antonia e Rosario».
Lui non le rispose e anche sua madre restò per qualche attimo in
silenzio. Poi, voltandosi di scatto verso di lui, gli sorrise e disse:
«Voglio sapere tutto della scuola».
«Della scuola? Va bene. Sono nell’orchestra, devo fare l’esame del
quarto a fine anno…».
«No, non mi importa di questo. Dimmi dei tuoi amici».
«I miei amici…». Rosario sorrise ripensando a Matteo, Sofia e
Domenico su quel ponticello, che avevano aspettato che sua mamma
arrivasse. «Sono forti i miei amici. Sono belli».
E le raccontò di tutti quanti, anche di Sara, con cui Rosario sperava
presto di ricucire il rapporto.
Quindi il pomeriggio si fece sera, e Rosario e sua madre si ritrovarono
in metropolitana, seduti in attesa del treno. Il binario, a quell’ora, era
quasi deserto, e Antonia si tolse le scarpe, rimanendo a piedi nudi.
«Sono contenta che ti tieni l’orecchino che ti avevo fatto io…» disse.
Ma Rosario guardava i suoi piedi nudi. «Perché non ti rimetti le
scarpe?».
«Perché mi piace» rispose lei. «Mi è sempre piaciuto stare scalza.
Non ti ricordi? Ti facevo stare sempre scalzo anche a te, tutte le volte
che potevo».
«Ma a me non piaceva. Non mi piace nemmeno adesso».
«Allora a Firenze ti farò stare con le scarpe anche in casa, pure se
non è igienico».
A Rosario mancò un respiro. «… A Firenze?».
Antonia sorrise con fare enigmatico.
«Mamma…?» la incalzò lui.
«A Firenze, sì. Sto cercando una casa per tutti e due. Possiamo
tornare a vivere insieme. I medici hanno detto che sono perfettamente
in grado di badare a te».
Rosario restò come paralizzato, senza sapere cosa dire.
«Non sei contento?» gli chiese sua madre.
«Certo… Certo che sono contento. Vuol dire che stai bene. Ma
quando la vuoi prendere questa casa?».
«Appena possibile» rispose Antonia.
E il mondo di Rosario ebbe quasi una scossa.
27
Nel frattempo, l’amore continuava a fare brutti scherzi all’interno della
Compagnia del Cigno.
Matteo aveva raccontato a Domenico di aver baciato Barbara, la sera
che era andato da lei a prendere le dispense di italiano, anche se in
realtà questo non era mai accaduto. E lo aveva fatto perché aveva
compreso che fra loro stava nascendo qualcosa di più di un’amicizia –
e d’altronde era impossibile non accorgersene, specialmente dopo che
davanti a tutti avevano suonato insieme quella vecchia canzone dei
Bee Gees.
Le bugie, però, hanno le gambe corte e Domenico era venuto a
saperlo proprio da Barbara, e adesso Matteo si era ritrovato ad aver
allontanato due persone in un colpo solo.
Tutto questo senza rendersi minimamente conto che Sofia
continuava ad avere un debole per lui.
Marioni, nel frattempo, non resistette più di tanto a casa a non fare
niente.
Un paio di giorni dopo, infatti, i suoi studenti lo videro ricomparire fra i
corridoi del Conservatorio Verdi. Aveva ancora il braccio legato al
collo, ma sembrava in perfetta forma.
Il primo a incontrarlo fu Robbo. «Maestro!» esclamò sorpreso.
«Come sta?».
«Benissimo» rispose lui come se niente fosse. «Ci vediamo
regolarmente alle due in sala Verdi. Avvisate anche gli altri. Dobbiamo
preparare il concerto di Sara e siamo già indietro».
Ma era proprio Sara ad avere bisogno di parlargli, perché in quei
giorni aveva riflettuto su una cosa molto importante. Quando lo vide
passare lo fermò: «Maestro…».
«Dimmi, Sara».
Lei gli chiese però di andare in un posto più appartato, dove
potessero parlare senza essere sentiti.
«Non ho tempo» tagliò corto Marioni. «Dimmi qui quello che mi devi
dire».
«Non voglio andare avanti con le prove» sputò il rospo Sara. «Faccio
fatica e la faccio fare anche agli altri. Non è giusto. Finiamola qui.
Aveva ragione lei, sarà contento».
Marioni rimase chiuso in un silenzio enigmatico.
«Maestro…?» chiese Sara.
«No. Le prove continuano regolarmente, e tu farai bene a presentarti.
Ci vediamo alle due» e detto questo fece per andarsene.
«Maestro!» lo fermò lei. «Sono io che gliel’ho chiesto, e adesso sono
io a dirle che non voglio continuare. Lei ha fatto il possibile, nessuno
potrà dirle niente. Sono io che rinuncio».
«Se non ti presenti oggi alle due, se boicotti questo concerto, in
questa scuola hai chiuso. Lo sai che posso farlo. Lo sai che posso
ostacolarti in mille maniere. Non vuoi avermi contro, ne sono sicuro».
Sara sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
«E non piangere, è inutile. Fai fronte ai tuoi impegni. Fai fronte a
quello che tu hai chiesto. Non si torna indietro. Ci vediamo alle due»
ribadì Marioni.
E alle due Sara era lì, nella sala Verdi. Ma non è che le cose
andarono meglio del solito. Marioni era tutto un «No, no. Sara, sei
lenta. Ripartiamo da 105», «Daccapo», «No. Sara, così non funziona.
Devi sentire gli altri».
Finché Nathan, già esasperato dalle volte precedenti, a voce bassa si
lasciò sfuggire: «Ma la rottura di coglioni infinita?».
Al che Rosario, che aveva sentito tutto, esplose: «Che cazzo vuoi?
Pensa a suonare il tuo».
«Oh, microbo» reagì Nathan. «Io faccio quello che mi pare, chiaro? O
perché facciamo assistenza alla cieca, dobbiamo essere tutti bravi e
sensibili?».
La reazione di Rosario fu di quelle che nessuno, là dentro, si sarebbe
aspettato. Si alzò dal suo posto alle percussioni e, senza dire una
parola, andò da Nathan e gli tirò un pugno in faccia.
Sì, proprio un pugno in faccia.
In breve, i due iniziarono a fare a botte, il tutto mentre Marioni
leggeva lo spartito facendo finta di nulla, anche quando qualcuno si
rivolse a lui per chiedergli di intervenire.
Alla fine, ci dovettero pensare Matteo, Robbo e Domenico a
separarli, altrimenti chissà cosa sarebbe successo.
Ma Rosario aveva tanta, tanta rabbia dentro. Insieme alla paura che
davvero sua madre lo avrebbe potuto portare via da una vita, quella a
Milano, che aveva imparato ad amare e in cui, finalmente, si sentiva
bene.
Questo, però, Marioni non poteva saperlo. Ciò che più gli importava,
adesso, era che Sara non si arrendesse così facilmente.
«Questa è solo una piccola, piccolissima prova generale di quello
che sarà la tua vita, anche se non suonerai mai in mezzo a
un’orchestra» le disse. «Fuori sono peggio di me, cosa pensi? Che ti
renderanno la vita facile? Cresci. E cresci in fretta».
28
Forse fu allora che Marioni ebbe quell’idea.
Un’idea che io stessa, quando per la prima volta la ascoltai, giudicai
folle.
Folle, sì, ma geniale.
Era qualcosa di totalmente nuovo nella storia delle esecuzioni
musicali nel nostro Conservatorio, e c’era bisogno di apportare alcune
modifiche in sala Verdi per renderla praticabile.
Ma si trattava di un’idea che era stata ispirata a Marioni proprio da
Sara. Quindi non potei che accogliere una simile proposta: ero sicura
che per i ragazzi sarebbe stata un’occasione estremamente formativa.
Quello che si stava per svolgere era davvero un concerto fatto in suo
onore. Perché nessuno, questa volta, avrebbe visto il direttore, né gli
altri musicisti. Proprio come non li poteva mai vedere Sara.
Sul palco, dove solitamente si trovava l’intera orchestra, c’erano solo
le sedie per gli archi, mentre quelle per gli altri musicisti erano state
disposte nella sala: i fiati a metà e le percussioni in fondo. Gli invitati
erano una cinquantina in tutto.
E questa volta, Daniele, lo zio di Matteo, non era più in compagnia di
Lorenzo, ma del suo affascinante, omonimo vicino. Perché sì, nel
frattempo, tra loro era scattata più di una scintilla – tutto questo senza
che lui avesse avuto ancora il tempo, diciamo così, di parlarne col suo
fidanzato ufficiale. Di sicuro, però, Daniele il vicino era molto più
contento di essere lì rispetto a quanto non lo fosse stato Lorenzo.
C’era anche la maestra Irene, venuta per stare accanto a Luca in un
momento tanto particolare.
Lui, intanto, raggiungeva Sara. «Quanto sei nervosa?» le chiese.
«Un milione» rispose lei.
«Va bene così. Ma stasera ti posso assicurare che suonerete ad armi
pari. Tu non mi vedrai. Ma non mi vedranno nemmeno gli altri».
«Così può scappare se facciamo schifo?» scherzò Sara.
«Dopo tutta questa fatica, non mi perdo questa serata per niente al
mondo. Non fare cazzate e tutto andrà liscio».
Dopodiché, si diresse sul palco. Era il momento di introdurre la
serata.
«Quello di stasera è un concerto speciale» disse. «È speciale perché
è un concerto impossibile, e non solo in quanto i musicisti saranno
intorno a voi e non sul palco. È speciale perché è un concerto che è
nato solo dalla testardaggine o dalla follia di una ragazza. Io non
dirigerò i ragazzi stasera» spiegò. «E non perché ho un tutore al
braccio. Ma perché uno di noi, un componente dell’orchestra, non può
seguirmi. È ipovedente, che è un modo un po’ ipocrita per dire che è
praticamente cieca. Quindi, se Sara non può vedermi, ho deciso che
non mi vedrà nessuno. Anzi, che questa sera nessuno vedrà niente.
Per una volta, saremo tutti dalla stessa parte. Ascolteremo. Senza
riferimenti. Senza orientamento. Non dite a nessuno quello che
succede stasera qui. Perché non si fa. E per questo noi lo facciamo».
Dal palco in cui si trovava, Luca fece un cenno in direzione di Matteo.
Lui si alzò in piedi, imitato dagli altri violini, poi, un po’ esitante, diede
il La. Gli altri ragazzi accordarono gli strumenti su di lui.
Luca annuì. «Buon lavoro. E buon ascolto a tutti».
Poi scese in platea e andò a sedersi accanto a Irene.
Ed ecco che le luci nella sala si spensero.
Mentre i suoi ragazzi suonavano l’Adagio di Albinoni in maniera
sicuramente non impeccabile, ma creando un’atmosfera unica,
meravigliosa, la mente di Marioni fu attraversata da una carrellata di
immagini, come un film fatto di flash e visioni.
Vide l’automobile di Marco che urtava leggermente la bicicletta di
Serena, e lei che cadeva a terra, battendo la testa.
Vide se stesso che correva da lei, la faceva rialzare e le toglieva il
caschetto. Marco, intanto, scendeva dall’auto: “Cosa si è fatta?”
chiedeva. “Io l’ho appena toccata…”.
“Spero niente. Fammi vedere, Serena…”.
“Non è niente, papà, arriviamo fino al parco. Dai”.
Ma lui, questa volta, non si faceva convincere. Le dava una carezza
e le diceva: “No, Serena. Dobbiamo andare al pronto soccorso” e poi
costringeva Marco a portarli immediatamente all’ospedale.
Poi vedeva se stesso e Irene in attesa davanti alla sala operatoria.
Un medico veniva nella loro direzione e diceva: “È tutto a posto. C’era
un piccolo versamento, ma siamo intervenuti in tempo… nulla di
grave, glielo assicuro. Ha fatto benissimo a venire”.
“È andato tutto bene, vero, dottore?” diceva Irene.
E il medico ribadiva: “State tranquilli. Tra qualche ora potrete
riabbracciare vostra figlia”.
Come avrebbe voluto sentirsi dire davvero quelle parole. E quante
volte ci aveva pensato, sperando di poter cambiare il corso degli
eventi. Se avesse davvero portato sua figlia all’ospedale, ora lei
sarebbe stata ancora viva, e lui e Irene sarebbero stati ancora felici,
insieme.
In quel momento, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Irene se ne
accorse e gli prese la mano, gliela strinse forte. E quando le note
dell’Adagio di Albinoni terminarono e tutti i ragazzi andarono ad
abbracciare Sara, anche lei in lacrime, il maestro Marioni stava ancora
singhiozzando.
«Ho sbagliato tutto» disse a Irene. «È stata colpa mia. È stata solo
colpa mia, potevo salvarla…».
Lei lo prese per mano. «Andiamo. Andiamo a casa» gli disse.
Forse poteva farcela, si disse Irene in quel momento. Sì, forse poteva
trovare un modo per sopravvivere alla tragedia che aveva colpito la
loro vita, ma doveva farlo insieme a lui.
Aveva preso la sua decisione: avrebbe lasciato Como e sarebbe
tornata a Milano, nella casa in cui aveva vissuto con Luca.
E con la loro splendida bambina che ormai non c’era più.
29
Il mattino dopo quel concerto, quando Sara si svegliò aveva in mente
una cosa sopra tutte le altre: festeggiare insieme ai suoi amici.
E c’era molto da festeggiare: l’esibizione in sé, certo, ma anche il
fatto che lei e Rosario avessero fatto pace e che il gruppo si fosse
ricompattato.
Si trovava in una pasticceria, davanti a un banco affollato di dolci,
quando prese il telefono e registrò un messaggio vocale per la chat
della Compagnia del Cigno che agli altri dovette suonare tanto
misterioso quanto minatorio: «Stamattina, limitatevi: niente colazioni
abbondanti, fiocchi, latte, biscotti e tutte quelle cose da bambini che,
sono sicura, vi fanno mangiare al mattino».
Poi cominciò a dare indicazioni alla pasticciera, che stava
cominciando a riempire un cabaret di pastarelle: «No, però, scusi,
eh… non quelli davanti, prenda quelli dietro… si sa che dietro ci sono i
più freschi che vendete dopo. Okay, magari lei è una di quelli che non
lo fa, ma nel dubbio…».
La donna scosse la testa, ma non le disse niente. Si limitò a eseguire
e alla fine si mise a incartare il vassoio.
«Ho pensato che dovevamo festeggiare» spiegò Sara ai suoi amici,
sempre col telefono vicino alla bocca. «C’è stata una specie di
burrasca, ma adesso è passata e la Compagnia è sempre in piedi, e
anche più unita di prima, quindi siamo fighi certificati, non c’è che dire.
Ci vediamo tra poco allora… sì, lo so che “ci vediamo” non è il termine
giusto per me, ma tanto il concetto non cambia».
Sara uscì dalla pasticceria col suo bottino di delizie e si diresse verso
la macchina di suo padre, che la stava aspettando là fuori.
Era talmente di buon umore che aveva più voglia di scherzare del
solito: «Scusa, sei mio padre, sì? Non è che ho sbagliato macchina e
sto andando via con uno sconosciuto? Magari bòno?».
Il padre sorrise. Ormai era abituato a sua figlia, così come ci eravamo
abituati tutti, me compresa.
Un attimo dopo erano partiti. Destinazione, il Conservatorio Verdi.
Quella che però Sara trovò al suo arrivo non era un’atmosfera di festa
e di unione. Sì, Rosario era lì davanti ai dolci, smanioso di prenderne
uno prima che Sara desse il via, ma c’era come una tensione nell’aria.
«Tu sei sicura che siamo usciti dalla bufera?» le chiese Robbo. «No,
perché a me sembra che ci siamo proprio nel mezzo. O almeno ci
stanno questi tre» aggiunse indicando con lo sguardo Matteo,
Domenico e Barbara.
Domenico, infatti, non aveva ancora perdonato Matteo per avergli
raccontato quella bugia su lui e Barbara nel tentativo di scoraggiarlo. E
lei, per la grande paura che aveva di soffrire ancora, stava tenendo
lontano Domenico proprio quando lui stava dimostrando interesse per
lei. Come se ancora non fosse pronta ad aprire di nuovo il suo cuore a
qualcuno.
Questo essere tenuto a distanza da Barbara addolorava
profondamente Domenico, che non riusciva a spiegarsi il
comportamento della ragazza, mentre a lei dispiaceva aver perso un
amico. Matteo le era sempre piaciuto, lo trovava un ragazzo piacevole,
gentile. Concentrata com’era a pensare a Domenico, non aveva mai
pensato che Matteo potesse nutrire per lei qualcosa di più di un
semplice sentimento di amicizia. E le dispiaceva se poteva avergli
dato un’idea simile, illudendolo.
Quella stessa mattina, incontrandolo nel cortile, lo aveva fermato:
«Ehi… Matteo».
Lui si era voltato verso di lei, ma non le aveva risposto.
«Non è che mi piace tanto questa situazione» aveva continuato lei.
«Insomma, perché io e te non possiamo essere solo amici? Mi
manchi…».
Matteo l’aveva fissata con uno sguardo pieno di rabbia, poi aveva
detto: «Perché non possiamo, Barbara. Non mi va, non lo voglio io».
E senza aspettare un altro secondo, se n’era andato, lasciandola lì
da sola.
30
La realtà era che la vera bufera si stava scatenando proprio dentro
Matteo.
La sera del concerto, suo zio Daniele si era fermato a scambiare due
chiacchiere con Sofia e lei, a un certo punto, aveva detto: «Stasera è
stato veramente un peccato che non ci fosse la mamma di Matteo. Lui
sarebbe stato felice. Mi ha spiegato che per lei è difficile lasciare il
lavoro. D’altra parte, quando uno fa il medico…».
Daniele l’aveva fissata per qualche istante, spiazzato.
«Che c’è?» aveva chiesto lei.
«Scusa, Sofia. Che ti ha detto Matteo…?».
«Che… che la sua mamma lavora in ospedale, giù. E che non sa
quando potrà venire a vedere un concerto qui a Milano».
Daniele si era scurito in volto.
«Che c’è? C’è qualcosa…?» si era affrettata ad aggiungere Sofia,
temendo di aver detto qualcosa di sbagliato. «Ma non è triste per
questo. La sente sempre, ho visto anch’io che la chiama tanto, al
telefono…».
Daniele era tornato a casa pieno di tristezza e aveva deciso di
affrontare subito il nipote.
«Matteo, dobbiamo parlare» gli aveva detto mentre lui, nella sua
stanza, si stava sfilando la giacca e il cravattino nero che aveva
indossato per il concerto.
«Di cosa?».
Lo zio aveva sospirato, poi aveva detto tutto d’un fiato: «Perché
racconti ai tuoi amici che Valeria è giù a casa, che un giorno verrà a
sentirti suonare?».
Matteo si era irrigidito all’istante. «Non voglio parlare di questo».
«Mi hanno detto che la chiami».
«Non voglio parlare di questo».
«Ci parli al telefono, ti hanno sentito».
Matteo aveva alzato la voce: «Zio, non voglio parlare di questo!».
«Matteo…».
Ma in quel momento lui aveva cominciato a urlare: «Ho detto che non
voglio parlare di questo! Hai capito?». E dopo aver spinto via lo zio e
avergli assestato un pugno in faccia, era scappato di casa.
La notte l’aveva trascorsa su una panchina in piazza Sant’Eustorgio
coprendosi con tutto quello che aveva a disposizione, stretto nel suo
giubbotto e con la sciarpa intorno al collo. Come cuscino, aveva
semplicemente usato le sue mani.
Così lo aveva trovato all’alba suo zio – per fortuna, a sua insaputa,
aveva installato un localizzatore sul telefono del nipote – e aveva
capito che era arrivato il momento di porre un serio rimedio a quella
situazione: suo nipote doveva riprendere a frequentare un’analista, e
doveva farlo almeno due volte alla settimana. Anche a costo di saltare
le prove con l’orchestra.
Lo avrebbe chiesto lui stesso a me.
Matteo accettò, a patto che suo zio non rivelasse il vero motivo di
quelle sue assenze.
Quella stessa mattina, Daniele rimandò tutti i suoi impegni e venne a
parlarne in prima battuta con me. Mi raccontò – questa era la versione
concordata con Matteo – che il nipote aveva bisogno di seguire due
volte alla settimana delle ripetizioni d’italiano, la materia in cui era più
scarso.
Sapevo cosa avrebbe detto la Parise: erano ripetizioni necessarie. Ma
sapevo anche cosa avrebbe detto Marioni, ovvero che mai e poi mai
un membro dell’orchestra poteva saltare le prove per un motivo del
genere, e così lo mandai direttamente da lui.
Come previsto, Marioni era stato categorico: «Si può essere
esonerati dalle prove solo per eventi eccezionali e mi sembra che
queste ripetizioni di suo nipote non rientrino in nessun modo nella
categoria. Quindi, adesso, se mi vuole scusare…».
Daniele, però, non poteva arrendersi così facilmente. Prese un
respiro, poi di getto disse: «Senta, maestro Marioni, Matteo ha un
problema».
Luca alzò la testa, lo trafisse col suo sguardo, uno sguardo che era
capace di raggelare qualsiasi studente del Conservatorio, ma che in
quel momento mise a disagio anche un ragazzone cresciuto come
Daniele.
«Con l’italiano, me l’ha già detto… Non è di questo che si tratta?».
«No» si arrese Daniele. «Matteo deve seguire una terapia… sì, una
terapia di sostegno psicologico… per… per tutto quello che è
successo giù e…».
«Sì», lo interruppe Marioni, «ho visto un video della sua insegnante
quando lo abbiamo ammesso qui. Non mi deve raccontare niente. So
di sua madre. So tutto». Lo disse senza un minimo di compassione,
senza nemmeno aggiungere un “mi dispiace” o una parola di conforto.
«Allora» riprese Daniele, impressionato da quell’atteggiamento così
duro. «Mio nipote non sta bene e ha bisogno di quella terapia. Non ci
va volentieri e trova sempre qualche scusa per evitarla. In particolare,
usa lei come scusa, dice che nessuno si può assentare dalle sue
lezioni, ed è per questo che sono qui a parlagliene… Con lei Matteo
ha mai parlato di sua madre?».
«No, mai» rispose Marioni secco.
«Con i suoi amici invece lo ha fatto. Più di una volta. Ha detto a tutti
che Valeria, mia sorella… sua madre… è viva. Ci parla al telefono
davanti a loro. Dice che verrà a vedere i suoi concerti».
Marioni si alzò e posò di nuovo il suo sguardo di ghiaccio su di lui,
senza parlare.
Daniele non si lasciò scoraggiare: «Pensa che questa situazione
possa rientrare tra gli eventi eccezionali? Non deve dire a Matteo che
lo sa. Altrimenti si chiude, lo perde, non mi parla più. E io non posso
permetterlo».
Quelle parole erano bastate.
Nessuno poteva permettersi di perdere Matteo, nessuno poteva
permettersi che succedesse anche a lui ciò che era successo a
Giacomo.
31
Giacomo era sempre nei pensieri del maestro Marioni, e lo fu anche
quando decise di assegnare le esercitazioni ai suoi musicisti riuniti
nella grande sala Verdi, tutti con i loro strumenti sul palco.
Mancava solo Matteo, che quel pomeriggio aveva il suo
appuntamento dalla psicoterapeuta che lo seguiva.
Dopo aver distribuito gli spartiti tra i ragazzi, Marioni annunciò: «Oltre
all’esecuzione di gruppo, alcuni di voi si eserciteranno su altri pezzi.
Matteo e Sofia avranno da studiare una composizione di un ex allievo.
Per violino e violoncello».
Non disse che quell’ex allievo era proprio Giacomo. Forse glielo
avrebbe detto dopo. Ora voleva solo che quel brano prendesse
finalmente vita dopo che la sua esecuzione era stata così
bruscamente interrotta l’anno prima.
«Sofia», disse, «ci pensi tu ad avvertire Matteo?».
Lei annuì, visibilmente contenta. Quella notte se l’era addirittura
sognato: lei e Matteo che suonavano assieme… e adesso quel sogno
si stava per realizzare, pensò.
«Gli altri pezzi», continuò Marioni, «sono la Settima di Beethoven che
eseguiremo tutti insieme… e poi la Danza Ungherese di Brahms, a
quattro mani, la numero 5. Domenico e Barbara, su questo voglio
sentire voi due».
Barbara sbiancò, abbassando lo sguardo.
Domenico allora si voltò verso di lei e continuò a fissarla finché lei
non distolse lo sguardo.
Solo allora le disse: «Be’… adesso sarà difficile evitarmi, credo».
Ed era così. Pochi minuti dopo, lui e Barbara erano seduti l’uno
accanto all’altro ed erano impegnati a seguire le note della Danza
Ungherese n. 5 di Brahms.
Barbara era concentrata, non staccava gli occhi dalla partitura, come
chiusa nel suo mondo. A essere in difficoltà, questa volta, era
Domenico. Quella vicinanza fisica, a cui però si accompagnava un
distacco da parte di Barbara, che sembrava quasi aver innalzato un
muro fra di loro, lo metteva terribilmente a disagio. E non riusciva a
suonare come sempre: era come se quel muro lo bloccasse di
continuo.
Se ne accorse anche Marioni. «Domenico, che hai? In questi anni
non ti ho mai sentito suonare così. E non ho intenzione di cominciare a
farlo adesso». Si rivolse poi a Barbara: «Va abbastanza bene, il ritmo
era pulito, sciolto, senza esitazioni. Sei anche riuscita a non perdere la
concentrazione e a rallentare quando Domenico correva come un
centometrista». Fece una pausa. «Ma, se non vi fosse chiaro, questa
è un’esecuzione a quattro mani. Domani la riprendiamo dall’inizio, ma
voi dovete continuare a esercitarvi insieme, e molto. Adesso andate
via, per favore».
Barbara annuì, evitando di incrociare lo sguardo di Domenico, si alzò,
e prese le sue cose. Quindi mormorò: «Grazie, ci vediamo domani.
Arrivederci» e se ne andò.
Anche Domenico stava per andarsene, ma Marioni lo fermò dicendo:
«Hai suonato uno schifo».
«Il concetto è chiaro, maestro», rispose Domenico, «non c’è bisogno
che me lo ripeta».
«Invece sì, te lo ripeto. E sai perché?». Quasi lo trafisse col suo
sguardo. «Perché tu ci pensi. Perché pensi ai motivi che non ti fanno
suonare bene».
Chi invece, fin dalle prime prove, mostrò un affiatamento sorprendente
fu l’altra coppia creata per l’occasione dal maestro Marioni: Matteo e
Sofia.
Seduti l’uno accanto all’altra, entrambi concentrati, i loro archetti si
muovevano rapidi sui loro strumenti, e parevano perfettamente
accordati, in sintonia, guidati da Marioni che, muovendo le braccia, li
sosteneva a voce alta: «Così… meno, Sofia… più lento, adagio,
adagio, Sofia, guardami… Matteo, ora tu, non leggere, senti, ascolta,
guarda me… vai ora così, più forte… cresci, cresci… anche tu, Sofia,
così… così!».
Alla fine dell’esecuzione, Matteo e Sofia erano seduti, quasi col
fiatone mentre posavano l’archetto.
«Sì!» esplose Marioni. «Che avete oggi voi due, eh? Ero pronto a
massacrarvi e invece mi avete fregato! Abbiamo azzeccato il pezzo?
Vi siete messi a studiare? Che succede? Sembrate fatti per suonare
insieme. Bravi!».
Matteo sorrise. Sofia arrossì.
«Eravate intonati, vi sentivate» proseguì Marioni. «Vi dovete
esercitare ancora e ancora, non mi interessa dove, a che ora, quante
ore al giorno. Adesso questa è la vostra priorità. Chiaro?».
Sofia e Matteo annuirono.
«Per oggi finiamo qui, non voglio stancarvi».
Prima di andarsene, Marioni chiese a Matteo: «Sai chi ha composto
questo pezzo?».
«Un ex allievo del Conservatorio, no?».
«Sì, Giacomo» rispose Marioni. «Tu lo hai conosciuto… Vi ho visti
insieme».
Qualche giorno prima, infatti, Giacomo era di nuovo tornato nei pressi
del Conservatorio. Quando Matteo gli aveva rivolto la parola, quello gli
aveva soltanto detto di stare attento al maestro Marioni. In un modo
che a Matteo aveva messo i brividi.
«Ti ha detto qualcosa di me?».
Matteo abbassò gli occhi. «No, maestro» mentì.
«Ti ha parlato di quello che gli è successo?».
Matteo scosse la testa.
«E tu cosa pensi? Ti sarai fatto un’idea di questa storia».
«Cosa devo pensare? Non so molto».
«Sai che ha lasciato tutto. Sai che ha sofferto di un esaurimento
nervoso. Sai che io non posso avvicinarlo».
«Sì, questo lo so».
«Non era capace di reggere la tensione. Era un bravo musicista, ma
dentro… Dentro aveva troppi fantasmi. Cose da cui non riusciva a
liberarsi…».
Matteo cominciò a capire che quelle parole, adesso, erano rivolte a
lui.
«…E che l’hanno trascinato giù», stava proseguendo Marioni, «lui e il
suo talento. Io non sono riuscito ad aiutarlo. Può capitare molto più
spesso di quello che credi, Matteo».
Sì, Marioni sapeva molto di più di quanto avrebbe dovuto sapere. In
un attimo fu sicuro che suo zio Daniele gli aveva parlato dicendogli
tutto, compreso il fatto che andasse da una psicoterapeuta.
Quando Sofia, entusiasta, si mise a dirgli: «Il Bastardo ci ha detto che
siamo stati bravi! Io non gli ho mai sentito pronunciare
quell’aggettivo», Matteo quasi non la sentì. Era lontano, distratto.
Pensava soltanto all’ultimo incontro con la dottoressa Carli.
«Non voglio fare pena ai miei amici» le aveva detto.
«Perché è questo il sentimento che susciteresti tra i tuoi compagni se
sapessero quello che è successo a tua madre?» gli aveva chiesto lei.
Dalla finestra del suo studio si vedevano i rami di un albero mossi dal
vento, ma le finestre chiuse impedivano di sentire qualsiasi rumore.
Sembrava di stare dentro una bolla, lontana e isolata dal mondo reale.
«Sì, certo, è questo. Ne sono sicuro. Lo so benissimo che mia madre
è morta, se vuole le posso dare anche i dettagli. Lo sa che non è
morta sul colpo? È morta lentamente, mentre arrivavano i soccorsi.
Anzi, mentre non arrivavano».
La dottoressa lo guardava senza dire nulla.
«È morta» aveva continuato lui. «Non penso di parlare con lei o di
sentirla al telefono, come dice mio zio. L’ho fatto solo quella volta con
Sofia perché non volevo che sentisse con chi ero. E allora ho
inventato il primo nome che mi è venuto in mente. Daniele ha messo
su questo casino per niente».
Avevano parlato anche di altro. Di come aveva ingannato Domenico,
per esempio. «Sono stato uno stronzo, mi sono comportato male. Ho
inventato delle cose. Sono stato geloso, forse lo sono ancora».
«Matteo, l’importante è che tu sappia che qui con me puoi mollare.
Con me non devi fingere» aveva concluso l’analista.
«Io non fingo».
Quando giunse in via Paolo Sarpi, davanti al portone dove abitava zio
Daniele, sua madre Valeria, però, era ancora lì insieme a lui, all’altro
capo del telefono che ora lui teneva incollato all’orecchio.
«Vogliono fregarmi… non ci riusciranno…» le diceva.
«Nessuno cerca di fregarti, amore mio… e poi oggi, con la tua
analista, sei stato molto bravo».
«Hai visto? Ho scelto le parole giuste».
Valeria, nella sua mente, rideva. «Le parole non ti mancano, l’hai
proprio convinta, Matteo. E adesso devi stare tranquillo e tornartene a
casa, dove hai tante cose da fare, devi studiare…» .
«Sì, va bene» rispose Matteo sorridendo. «Ciao, mamma».
Sorrise ancora, era come se avesse preso una boccata d’ossigeno e
adesso stesse finalmente meglio.
32
Rosario, nel frattempo, non aveva fatto altro che pensare a ciò che gli
aveva detto sua madre a proposito del loro imminente ritorno a
Firenze, e alla fine aveva preso una decisione: lui sarebbe rimasto a
Milano, almeno fino alla fine di quell’anno al Conservatorio. E,
sperava, anche oltre.
Ora però doveva dirlo anche a lei: sperava solo di riuscire a
convincerla senza ferirla. Perché ferirla era l’ultima cosa che
desiderava.
Le scrisse un messaggio e quel pomeriggio stesso si videro in centro.
Non le aveva voluto dire cosa avrebbero fatto di preciso, era una
sorpresa.
«Allora, non me lo vuoi proprio dire dove stiamo andando?» gli
chiese Antonia quando Rosario, dopo aver passeggiato un po’,
partendo da piazza Duomo e arrivando fin dalle parti di Porta Romana,
la invitò a salire su un tram.
Rosario sorrise. «Da nessuna parte. È una circolare, questa. Fa il
giro e torna allo stesso punto da cui siamo partiti. Attraversa quasi
tutta la città. Cioè, uno degli anelli, perché Milano non è costruita a
pianta quadrata, è come una serie di cerchi… sì, come quando butti
una pietra in un lago. Se sbagli una strada, continui a girare in tondo
come uno scemo».
Antonia guardava fuori dal finestrino, sembrava contenta.
«Be’, un giro in tram era da un sacco di tempo che non lo facevo. Poi
insieme a te… grazie».
«Conosco tutte le fermate» proseguì Rosario. «Ho imparato i nomi a
memoria. Quando sono arrivato qui e ancora non conoscevo nessuno,
lo prendevo perché non avevo voglia di tornare subito da Clelia e
Roberto. Mi sembrava di disturbare in casa loro. Salivo, mi mettevo
seduto e andavo, ma senza una direzione, come noi adesso… mi
faceva sentire bene».
Continuarono a parlare. Rosario raccontava di Milano, di come fosse
afosa d’estate, ma fredda d’inverno, e di come adesso gli piacesse
anche quando pioveva.
«Io sto bene qui, in questa città dove ci sono i miei amici, c’è la mia
musica, la mia scuola…».
«Non è casa tua, Rosario» lo interruppe sua madre. «Clelia e
Roberto sono stati molto bravi… ma la famiglia siamo io e te, no? Gli
amici si rifanno, la scuola… mi sono informata, è una buonissima
scuola…».
Ora fu Rosario a interromperla: «È la mia vita, mamma… e non me
ne voglio andare, voglio restare qui» disse sostenendo lo sguardo di
sua madre.
Solo alla fine disse, quasi in un mormorio: «Mi dispiace».
Chissà se in quel momento poteva immaginarsi che sua madre non
si sarebbe arresa tanto facilmente, e che anzi si sarebbe arrabbiata al
punto di andare nel supermercato dove lavoravano Clelia e Roberto e
prenderli a male parole: «Vi sbagliate se pensate di tenervelo.
Qualsiasi giudice mi darà ragione. Io sono sua madre e voi due non
siete un cazzo. Magari ve lo siete dimenticato. Ma è così. Non siete un
cazzo».
Sara, solo qualche giorno prima, aveva voluto festeggiare il fatto che
la Compagnia del Cigno si fosse ricompattata, ma la verità è che
problemi e preoccupazioni stava tenendo quei sette ragazzi lontani
l’uno dall’altro.
Ciascuno aveva i propri mostri da affrontare, mostri che avevano a
che fare col passato, come quelli di Matteo e di Barbara, con un futuro
da arrestare, come quello di Rosario, o con un presente instabile,
come quello che stava affrontando Robbo mentre i suoi genitori
sembravano sempre più distanti e sua sorella Chiara aveva
ricominciato a soffrire delle crisi d’asma che l’avevano colpita
quand’era piccola.
Forse, allora, non poteva che essere un altro mostro a ricompattare la
Compagnia. Un mostro talmente grande che anche solo pronunciare il
suo nome metteva paura a chiunque.
Un mostro con cui stava per fare conoscenza Sofia.
Qualche settimana prima, aveva dato per scherzo una ginocchiata a
suo fratello Scheggia, e lui per poco non si era messo a piangere dal
dolore a causa di una specie di livido che aveva sulla gamba. Questo
livido, col tempo, invece di migliorare era peggiorato, e alla fine se
n’era accorta anche la loro madre che, preoccupata, aveva obbligato
Scheggia a seguirla dal dottore. Il dottore aveva ordinato degli esami
urgenti e ora, a quanto pareva, i risultati erano arrivati.
Nico e i suoi due figli erano nel ristorante dove lei lavorava, ormai
completamente vuoto, se non per l’unico tavolo apparecchiato dove
erano seduti loro. La donna aveva chiesto ai ragazzi di raggiungerla
per cena.
«Ci devi dire qualcosa, immagino» esordì Scheggia. «Tipo che ti sei
fidanzata, o aspetti un fratellino per noi… o, più probabilmente, che ti
hanno chiamata dall’ospedale».
Sofia, al sentire quella parola, mise giù le posate.
«Sì, mi hanno chiamato dall’ospedale» confermò sua madre.
«Andrea, sono arrivati i risultati della tua biopsia».
Scheggia e Sofia rimasero per un istante come sospesi.
«Dobbiamo combattere una battaglia, ragazzi, tutti insieme» disse
Nico con tono deciso, senza mostrare il minimo tentennamento. «È un
sarcoma. Un cancro. Non devi avere paura, Andrea, e nemmeno tu
Sofia. Purtroppo, è una cosa seria e le analisi che hanno fatto non…».
Sua madre le aveva detto che non doveva spaventarsi, eppure in un
attimo la paura si era impadronita di Sofia. Era come se le avesse tolto
l’udito, la vista, tutto. Dentro e fuori di lei esisteva soltanto lei, la paura,
anzi un terrore che l’aveva come precipitata dentro un vortice di
oscurità.
Non era riuscita a trattenersi. Si era alzata da tavola ed era corsa in
bagno a piangere disperata.
Un attimo dopo, sua madre era lì, davanti a lei, e le stava tirando un
ceffone, facendo di colpo riprendere i contorni al mondo che la
circondava.
«Non ti permettere mai più, hai capito?» le disse, il tono di chi non
ammette repliche. «Non piangere mai più davanti a tuo fratello, non
farti vedere spaventata mai più! Ascoltami bene, Sofia. Questa è la
prima e l’ultima volta che succede. Se devi piangere, fai come me,
chiuditi da qualche parte dove non ti vede nessuno e piangi pure
l’anima. Ma non davanti a lui. E adesso asciugati le lacrime, torna a
tavola, finisci di mangiare, sorridi e di’ ad Andrea che andrà tutto
bene».
Sua madre aveva ragione, Sofia lo sapeva, ma le mancavano le
forze; per questo, quella sera stessa, scrisse un messaggio nella chat
della Compagnia del Cigno chiedendo a tutti di raggiungerla,
immediatamente, sulla terrazza del suo condominio, quella terrazza
dove si erano riuniti per la prima volta fuori dal Conservatorio e dove
adesso, forse, il loro gruppo poteva davvero ricompattarsi attorno a lei.
Almeno, era questo di cui Sofia aveva più bisogno in quel momento.
Risposero all’appello tutti. C’erano Sara, Robbo, Rosario, ma anche
Domenico, Matteo e Barbara.
Sofia era in mezzo a loro. «Scusate…», disse, «ma proprio non ce la
facevo ad aspettare fino a domani».
«Hai fatto benissimo», disse Barbara, «sennò che Compagnia del
cavolo siamo?».
Sofia dovette sforzarsi di non piangere per continuare a dire quello
che doveva dire.
«Scheggia ha un tumore» rivelò alla fine. «Si chiama “Sarcoma di
Ewing”. Deve fare la chemio, e poi, se va bene… l’asportazione
chirurgica».
«Oh, cazzo» si lasciò sfuggire Robbo.
«Hai paura, vero?» le chiese Matteo.
«Sì, di tante cose» rispose lei. «Ho paura che sia più grave di quello
che dice mia madre. E poi ho paura di non essere capace, io…
insomma, lo so che non sono io a essere malata ma mio fratello…
però… ho paura di non essere forte, di non sapere come fare».
«Lo diventi» disse Matteo. «Forte, dico. Alla fine lo diventi per forza».
«E comunque, hai sempre la tua musica» intervenne Robbo. «E ci
siamo noi».
«Non è poco» aggiunse Rosario. «Cioè, non è che possiamo guarire
tuo fratello».
«Però possiamo stare insieme» disse Sara. «Questo è buono».
Tutti si lanciarono uno sguardo d’intesa.
«Non mi lasciate sola» mormorò Sofia, la voce incrinata
dall’emozione. «Non ce la posso fare da sola».
Sara le si avvicinò e la strinse in un abbraccio. Lentamente, gli altri
fecero lo stesso.
«Ecco» disse Sofia. «E adesso, se piango?».
«Non piangi» le sussurrò Barbara. «Siamo qui per questo».
E quei sette, fantastici amici, rimasero abbracciati per un tempo che
a tutti loro parve infinito, mentre lì davanti le luci della città formavano
un firmamento terreno che rischiarava quella notte di inizio primavera.
La Compagnia del Cigno, adesso, era più unita che mai.
33
Quella sera, sul terrazzo di Sofia, i ragazzi si erano ritrovati e avevano
fatto scudo attorno a lei, per sostenerla in un momento tanto delicato,
ma una delle fratture che crepava la Compagnia del Cigno, quella fra
Domenico e Barbara, proprio quella sera stessa si fece ancora più
profonda di prima.
Lei stava aspettando il taxi per tornare a casa, mentre Domenico
stava slegando la sua bicicletta. Tutti gli altri, in un modo o nell’altro,
se n’erano già andati.
Anche Domenico se ne stava andando senza far compagnia a
Barbara. Anzi, aveva già percorso una cinquantina di metri, quando
decise di fare dietrofront e di affrontarla una volta per tutte.
«Senti, basta» le disse quando giunse con la bici proprio davanti a
lei. «Mi vuoi spiegare perché mi eviti?».
«Non ti evito» rispose lei, ora costretta a considerarlo.
«Benissimo. Parliamo un momento, allora».
«Di cosa?».
Domenico scese dalla bicicletta. «Di noi».
«No, per favore. Voglio andare a casa».
«Non sai nemmeno cosa ti voglio dire».
«Non mi importa».
Lui le si fece ancora più vicino. Aveva la voce e gli occhi pieni di
rabbia. «Ma mi spieghi cosa ti ho fatto? Ho sbagliato qualcosa? Eh?»
tre domande come altrettanti proiettili sparati uno dopo l’altro.
Barbara si allontanò, al che lui la afferrò per un braccio. «Aspetta…».
«No, non mi toccare!» urlò lei. «Vattene, Domenico. Lasciami
andare!».
«Ma non ti ho fatto niente, Barbara!».
«Vattene, ho detto! Vattene! Stai lontano da me!».
Ormai Barbara urlava talmente forte che il tassista, che con la sua
vettura era arrivato proprio in quel momento, scese e chiese se
andava tutto bene.
«Sì, nessun problema» rispose lei salendo sul taxi. «Mi porti a casa,
per favore. Piazza Eleonora Duse».
Un attimo dopo, l’auto se ne stava andando e quella barriera si era
trasformata in un muro invalicabile. Tanto invalicabile da sconvolgere
perfino Domenico, che fra i ragazzi della Compagnia si era sempre
mostrato il più tranquillo di tutti.
Il giorno dopo non si presentò in Conservatorio, né a lezione né alle
prove di Marioni. Ma il maestro lo incontrò nel luogo dove meno
pensava di poterlo incontrare: casa sua.
Quando entrò, sentì che qualcuno stava suonando il pianoforte, e
sorrise al pensiero che potesse essere Irene. Sapeva quanto era stata
lontana dalla musica per colpa di ciò che era successo.
Invece, nel momento in cui mise piede in sala, vide che a suonare in
quel modo così fluido e sicuro era proprio il suo studente migliore, che
un tempo era stato allievo di pianoforte di Irene.
«Buonasera, maestro» gli disse Domenico smettendo di suonare.
«Gli ho chiesto io di suonarmi qualcosa» disse Irene. «Mi mancava la
sua musica. È sempre bravissimo».
«Solo quando lo decide lui» ribatté Marioni, poi rivolto a Domenico:
«Perché non sei venuto, oggi?».
«Vi lascio da soli» annunciò Irene, ma mentre usciva dalla porta,
sussurrò a Marioni: «Non ti arrabbiare e ascoltalo, per favore». E, a
voce ancora più bassa: «Se ricordo bene come è cominciata la nostra
storia… tu lo puoi capire».
Detto questo, Irene li lasciò davvero soli. Domenico si alzò dallo
sgabello del pianoforte e Marioni, fissandolo, chiese: «Allora?».
«Non volevo incontrare Barbara» rispose lui deciso. «Non voglio più
suonare con lei».
«Non è possibile. Avete il pezzo insieme che vi ho assegnato».
«Io lo so che è lei a decidere quale pezzo assegnare e a chi
assegnarlo», disse Domenico, «ma io non ce la faccio. Io, da solo con
Barbara, non posso più suonare. Sarebbe solo una perdita di tempo».
«Se è una perdita di tempo lo stabilisco io, Domenico» ribatté
Marioni. «Tu non decidi un bel niente. Sei in una scuola».
«Io lo so perché suono male» spiegò Domenico. «Quando ti innamori
di qualcuno, suoni uno schifo. Soprattutto se quel qualcuno nemmeno
ti guarda in faccia. Nemmeno vuole sentirti accanto… che sembra
quasi che gli dai fastidio…».
Il maestro Marioni rimase in silenzio.
«Per favore, non mi faccia fare la figura del cretino ancora di più» lo
supplicò Domenico. «Mi aiuti. Mi sostituisca. Le chiedo solo questo.
Almeno per il pezzo a due, almeno su quello lo può fare».
Finalmente Marioni prese la parola. «No. Tu sei un pianista. Studi per
tenere concerti davanti a un pubblico. Al pubblico non interessa se ti
batte il cuore, se hai ammazzato qualcuno, se tuo padre è morto
schiacciato sotto un tram. Al pubblico interessa che suoni bene,
punto».
«Io non ce la faccio» disse Domenico.
«È una tua scelta» concluse Marioni. «Allora come pianista sei fuori
dal saggio finale».
Domenico lo guardò attonito. Era come una doccia fredda, non si
sarebbe mai aspettato una risposta del genere, perché il maestro
Marioni sembrava aver sempre avuto un occhio di riguardo nei suoi
confronti.
Ma forse, si rese conto in quel momento, era stato così solo finché lui
si era comportato in maniera professionale e inappuntabile, mettendo
la musica al primo posto.
Una cosa che adesso Domenico non stava facendo.
34
Dalle minacce, Marioni passò direttamente ai fatti. Non sarebbe stato
Marioni altrimenti.
Quando, il giorno dopo, Barbara raggiunse l’aula delle prove, seduta
al seggiolino del pianoforte, vide una ragazza. La conosceva di vista,
si chiamava Arianna, ma non sapeva cosa ci facesse lì.
La prima cosa che le venne in mente fu che aveva sbagliato aula,
oppure orario.
«Scusa…» mormorò facendo per andarsene.
«No, non hai sbagliato» si affrettò a dire Arianna. «Proviamo qui. Il
Bastardo ha chiamato me».
«Che significa?».
«Mi ha scritto una mail stamattina dicendo che avrei suonato il pezzo
di Brahms a quattro mani con te» rispose Arianna. «Non so altro».
Barbara non ebbe neanche il tempo di realizzare cosa stesse
succedendo, che in quel momento nell’aula entrò il maestro Marioni.
«Buongiorno» disse. «Barbara, accomodati».
Lei si posizionò al pianoforte, in attesa di sentire cosa avrebbe detto
Marioni. Era destabilizzata.
«Domenico non vuole suonare con te» spiegò lui. «Quindi non si
esibirà al saggio».
Barbara sgranò gli occhi, sorpresa e turbata.
«Non te lo aspettavi?» chiese Marioni.
«N-no…» balbettò lei.
«Bene, ora lo sai» disse lui col tono di chi non intende perdere altro
tempo. «Ricominciamo dall’inizio».
Più turbati ancora di Barbara erano gli altri membri della Compagnia.
«Non posso credere che non parteciperai al saggio» disse Sara.
Domenico sollevò le spalle. «È andata così».
«Ma perché volevi cambiare il pezzo da suonare?» domandò Robbo.
«Perché non mi viene bene» mentì Domenico.
Si erano riuniti tutti in palestra, e aspettavano l’arrivo di Rosario. Non
so come ci fossero riusciti, ma si erano procurati un mazzo di chiavi
del Conservatorio – qualcosa che all’epoca ovviamente non potevo
sapere, altrimenti sarei stata costretta a sospendere, se non espellere,
i colpevoli. Per la precisione, proprio Rosario.
Lui, quel pomeriggio, aveva l’appuntamento col curatore che era
stato nominato per la sua situazione, una donna sulla quarantina dal
sorriso accogliente e i modi informali.
La mattina, Rosario aveva provato con Sara il discorso che aveva
intenzione di fare a lei: voleva dirle che preferiva rimanere a Milano,
perché finalmente aveva cominciato a sentirsi bene, aveva degli amici,
eccetera eccetera.
Gli si era avvicinato e gli aveva accarezzato il viso. Con tono più
fermo, aveva continuato: «Mi dispiace che devi affrontare anche
questo. Ti voglio bene, Rosario, non te lo dimenticare mai. Siamo io e
te. Siamo sempre stati io e te. Non ascoltare nessuno. Non farti
portare lontano. Io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me, lo sai».
Quelle parole mandarono Rosario in confusione, e quando raggiunse
gli altri nella palestra del Conservatorio aveva l’aria abbattuta. Non era
andata bene, annunciò.
«Ma quando stamattina hai provato con me sei stato bravissimo. Ci
avevi convinto tutti!» esclamò Sara.
«Non sono stato bravo» disse lui scuotendo la testa. «Non sono stato
convincente. Mi sono sentito uno scemo. Non volevo dire male di
mamma, non volevo… insomma, un casino».
Rosario raccontò come si era svolto l’incontro, di come il curatore gli
avesse più volte precisato che sua madre aveva espresso il desiderio
di vivere con lui e che questo era un suo diritto, visto che era stata
dichiarata perfettamente in grado di riprendere il suo ruolo e di
svolgerlo nel modo migliore.
«E quand’è che si saprà qualcosa?» chiese Domenico.
«Non lo so…» rispose Rosario. «Il curatore parlerà con il giudice, poi
lui deciderà, ci sarà una specie di processo».
Era ormai tardi, e i ragazzi fecero per andarsene, prima che qualcuno
li scoprisse là dentro.
Stavano uscendo, quando Sara si avvicinò a Domenico e gli chiese:
«Posso dirti una cosa che mi sta qui da qualche giorno? Barbara non
è quello che sembra… lo sai, vero?».
«Cioè non è così stronza, lontana, e non è vero che mi detesta e non
vuole nemmeno che mi avvicini? No, non lo so».
«Forse è tutte queste cose messe insieme. Ma è solo perché ha
paura».
«Non faccio paura, io» replicò Domenico.
«A me neanche un po’. A lei invece sì, e parecchio anche».
Ma quella spiegazione a Domenico non bastava. Per Barbara stava
soffrendo, per Barbara aveva rinunciato all’esibizione del saggio di fine
anno… ma ne valeva davvero la pena?
Ora, nei suoi confronti, provava rabbia, delusione e ancora rabbia. Sì,
così tanta rabbia che il giorno dopo, quando Barbara lo fermò in
corridoio durante l’ora di pausa, a malapena la ascoltò.
«Domenico…» lo chiamò lei.
Lui si voltò dalla sua parte, ma rimase in silenzio.
«Senti… mi dispiace…».
«Di cosa?».
«Del fatto che te ne sei andato. Che non suonerai al saggio».
«Cosa ti dispiace? Che non suoneremo più insieme?» sbottò
Domenico. «Mi sembrava che fosse quello che volevi, Barbara, me
l’hai fatto capire bene. Molto bene, anzi. Mi hai detto di starti lontano.
Mi hai trattato come uno stronzo, come uno che nemmeno
conoscevi».
«Non lo so che mi è preso» mormorò lei.
«Non ho capito che hai detto» disse lui duramente. «Parli troppo
piano».
Barbara sollevò il viso, i loro sguardi si incrociarono, nessuno
abbassò il proprio.
«Posso fare qualcosa per… scusarmi con te?» domandò infine lei,
ora a voce più alta. «Io non volevo… non doveva entrarci la scuola, la
musica… in tutto questo».
Domenico esitò solo per un istante, poi in tono deciso rispose: «No…
non puoi fare niente, no. Mi dispiace» e la lasciò lì da sola.
Ma evidentemente ci ripensò perché, quel giorno, la aspettò all’uscita
del Conservatorio e quando la vide la fermò prendendola per un
braccio.
«Senti…» le disse. «Mi hai chiesto se c’era qualcosa che potevi fare
per me».
Barbara annuì, aveva il cuore che batteva a mille.
«La vuoi fare ancora?».
«Sì…».
«Va bene. Vieni con me, per favore».
Barbara non sapeva dove Domenico avesse intenzione di portarla,
ma lo seguì senza battere ciglio, tanto era felice che lui le stesse di
nuovo rivolgendo la parola.
Lo seguì fino alla stazione della metropolitana più vicina, e poi in un
lungo tragitto sotterraneo, forse il più lungo che avesse mai fatto. Lei
studiava e abitava in centro, era raro che dovesse prendere la
metropolitana, tantomeno fare tragitti del genere.
Uscirono a una fermata della linea verde e si ritrovarono, quando
ormai era già buio, di fronte a dei palazzoni tutti uguali.
«Che ci facciamo qui?» chiese Barbara.
«Io qui ci abito» rispose Domenico. «Vieni».
La guidò fino in casa, e quando aprì la porta, a voce più alta chiese:
«Papà?».
Suo padre Vincenzo si affacciò in corridoio. Aveva la camicia un po’
fuori dai pantaloni e l’atteggiamento di chi non si aspettava
minimamente degli ospiti. Quando vide Barbara, si irrigidì:
«Buonasera».
«Buonasera» rispose lei.
«Papà, Barbara si ferma a cena con noi» annunciò Domenico. «Non
è un problema, vero?».
«No, certo… prego. Vieni, Barbara».
Lei, dal canto suo, stava morendo di imbarazzo, ma aveva promesso
a Domenico di non preoccuparsi, così si accomodò al tavolo della sala
che subito Vincenzo si affrettò ad apparecchiare per tre.
«Se volete un goccio…» disse l’uomo mostrando la bottiglia di vino.
«Non so se lei beve…» aggiunse accennando a Barbara. Poi saltò su:
«Mi sono dimenticato di mettere i bicchieri per il vino!».
«Papà, non preoccuparti» disse Domenico.
«Come non preoccuparti…» replicò lui alzandosi da tavola per
tornare poco dopo con tre bicchieri, ognuno diverso dall’altro, e un’aria
mortificata in faccia. «Sono pure spaiati… ma guarda tu, mi
dispiace…».
«Non si preoccupi» disse Barbara per cercare di toglierlo da un
imbarazzo che forse era più grande di quello che provava lei. «Io non
bevo nemmeno. Davvero».
«Ecco, hai sentito?» fece Domenico in tono quasi autoritario.
«Adesso puoi metterti tranquillo e sederti, per favore?».
Quando suo padre si fu seduto, gli disse: «Senti, facciamo una cosa,
papà, sennò tu non ti rilassi… facciamo come se Barbara non ci
fosse… come se fossimo io e te».
«Che stupidaggine» protestò Vincenzo.
Ma poi, sotto lo sguardo incuriosito di Barbara, l’uomo cominciò a
rispondere alle domande del figlio a proposito della sua giornata.
«Il legno che abbiamo scelto per il parquet dei Marra, alla fine era
giusto» raccontò Vincenzo stando al gioco. «Stagionato, non ci ha
dato problemi…».
Barbara sorrise, cominciando a mangiare la sua pasta. E sorrise
ancora di più quando l’uomo chiese a Domenico: «E allora tu, figlio?
Raccontami com’è andata la tua giornata».
«Piena» rispose lui. «Piena di cose. C’è stata una novità, però. Ti
ricordi Gloria, papà? La mia ex fidanzata, la te la ricordi?».
«Sì, certo».
«Te l’ho mai detto perché è finita con lei? Perché l’ho lasciata?».
Il padre, dopo aver messo in bocca una forchettata di pasta, fece
segno di no con la testa.
«Perché improvvisamente mi sono accorto che non mi importava più
niente di lei» proseguì Domenico. «La guardavo, ma non la vedevo
più. Anzi, no, è che vedevo un’altra persona. Quando stavo con lei io
vedevo il viso di Barbara».
Lei ebbe un brivido, poi si paralizzò, mentre Domenico andava
imperterrito avanti a parlare.
«Viene a scuola con me, Barbara. Suona il piano e fino a poco tempo
fa eravamo amici. Solo che poi, improvvisamente… io non lo so come
succedono queste cose, papà… ma lei non era più un’amica qualsiasi.
Stavo con gli altri e vedevo solo lei. Me lo dicevi anche tu, ti ricordi?
Che anche con mamma ti era capitato nello stesso modo, che voi già
vi conoscevate prima di innamorarvi. Forse è un fatto di famiglia
perché a me è successa la stessa cosa».
Domenico continuava, mentre sia suo padre che Barbara lo
ascoltavano allibiti e ognuno imbarazzato a suo modo.
«Mi batte il cuore quando mi sta vicino e avrei voglia di stare sempre
con lei, tutti i momenti della giornata e di vederla e di parlarle e di dirle
tutto questo… di dirle che sono qui e che non me ne vado se lei non
mi aiuta a capirci qualcosa. Perché io lo sento che anche lei pensa a
me. Perché non è possibile che tutto questo amore lo provi una
persona sola… che uno si possa inventare tutto, fare tutto da solo…».
Era troppo. Barbara si asciugò le labbra col tovagliolo e si alzò di
scatto in piedi.
«Scusate. Scusi… io… è meglio che adesso vada via», e senza
neanche ascoltare quello che Vincenzo le stava dicendo corse fuori
dalla stanza. Un attimo più tardi, la porta di casa si era chiusa, e
Domenico e suo padre si ritrovarono da soli, come stavano sempre la
sera, a cena.
«C’ho provato, papà…» disse Domenico sconsolato di fronte a quello
che gli era parso un rifiuto in piena regola.
«Mi… mi dispiace. Sembra… molto diversa da te» disse Vincenzo
cercando di consolarlo.
«Già…» mormorò Domenico amareggiato. «Forse l’amore è così, chi
lo sa».
Non finirono neppure di mangiare, Domenico non aveva più fame,
così si offrì di portare giù l’immondizia.
La notte, fuori, era fresca. Due passi non gli avrebbero fatto male, si
disse, forse lo avrebbero aiutato a schiarirsi le idee.
Si stava incamminando quando sentì: «Scusami…».
Si voltò e la vide. Barbara era lì, sconvolta, e stava tremando.
Domenico le andò incontro in silenzio. Sempre senza dire una parola,
Barbara avvicinò il proprio viso al suo e lo baciò. Domenico l’abbracciò
forte, ricambiando quel bacio. Non gli sembrava vero che stesse
succedendo sul serio. Barbara, la sua Barbara, era stretta fra le sue
braccia.
«Io ho paura» sussurrò lei. «Ho tanta paura».
«Di cosa?»
«Di stare male. Di soffrire. Mi è successo già una volta. Non voglio
che succeda più».
«Giuro che non ti farò mai soffrire» disse Domenico baciandola di
nuovo, e il suo tono era serio, il tono di chi si sarebbe impegnato con
tutto se stesso a mantenere le proprie promesse.
35
Chi invece stava soffrendo era Matteo.
Che avesse dei problemi e delle ferite interiori, lo sapevo io come
direttrice e lo sapevano tutti i suoi insegnanti fin dal momento in cui lo
avevamo ammesso al Conservatorio nel corso dell’anno.
D’altronde, non si può passare indenni attraverso una tragedia come
quella che aveva vissuto lui: all’improvviso si era ritrovato senza più
una madre e con tutta la sua vita letteralmente in macerie.
Ma ancora non sapevamo che la rabbia che covava dentro di sé
poteva essere qualcosa di distruttivo, sia per se stesso che per le
persone e le cose che lo circondavano.
Me ne resi conto soltanto quando il custode Michele mi chiamò per
portarmi a vedere cos’era successo nell’aula di violino dove, fino a
poco tempo prima, Matteo si stava esercitando insieme al maestro
Marioni.
Mi fermai sulla porta, sgomenta. Davanti a me c’erano sedie
rovesciate, spartiti in terra, un violino fracassato e addirittura del
sangue sul pavimento.
«Non ho toccato niente» mi disse Michele.
«Hai fatto bene» risposi. «Dio mio…».
Per capire perché si era arrivati fino a quel punto bisogna tornare
indietro di qualche giorno a quando, nel bel mezzo delle prove in sala
Verdi, il maestro Luca Marioni interruppe l’esecuzione dell’orchestra e,
rivolgendosi a Matteo, chiese: «Potresti dirci per favore chi, o cosa,
stai guardando?».
Tutti si voltarono verso Matteo, l’archetto tra le mani e il violino
sospeso tra il collo e la spalla, in attesa della sua risposta.
Lui, in quel momento, non l’avrebbe ammesso mai, ma stava
immaginando di suonare apposta per sua madre Valeria, seduta da
qualche parte in platea.
«Allora?» lo incalzò Marioni.
«Nessuno» rispose lui.
Ma Marioni non si era fatto bastare quella risposta e lì, davanti a tutti,
proseguì: «Sei sicuro? È da quando abbiamo cominciato che guardi
qualcosa o qualcuno lì in platea». Fece una pausa. «È tua madre
quella che guardi, Matteo?».
Lui sbiancò e per un attimo rimase senza parole.
«È lontana e quindi posso immaginare che ti manchi e pensi a lei…»
proseguì Marioni senza rivelare agli altri ragazzi la verità di cui lui era
a conoscenza. «Ma in questo modo ti distrai».
Chi avesse osservato attentamente Matteo Mercanti in quel
momento, si sarebbe accorto di un leggero tremito che attraversava le
sue mani. Era il primo segno di qualcosa che stava per esplodere
dentro di lui.
Un paio di giorni dopo, Marioni, finalmente liberatosi del tutore al
braccio che aveva dovuto tenere per un po’ di tempo dopo l’incidente,
era andato a prenderlo mentre faceva lezione col maestro Sestieri.
«Matteo, oggi proviamo insieme» annunciò.
Lui lo aveva guardato stupito, e un po’ a disagio. «Ma… Sofia non
c’è…».
«E allora? Ci sono io. Ho anche il braccio libero. Non sei contento?».
Matteo restò in silenzio.
«Cosa c’è, hai paura di ritrovarti solo con me? Matteo», proseguì
senza aspettare la sua risposta, «io so già tutto di te. E non solo
perché ti capisco. Qui, al momento della tua iscrizione, c’è stato inviato
un video, lo sai?».
Matteo annuì, ancora senza dire una parola.
«Parlava di te, delle tue enormi capacità, ma diceva anche tante altre
cose. Lo abbiamo visto tutti noi. Sappiamo della tua famiglia,
sappiamo cosa è successo giù ad Amatrice. Non devi nasconderti,
Matteo».
«Non mi nascondo» disse finalmente lui.
«Meglio così. Ci vediamo tra un’ora in sala Verdi, allora, e vediamo
come te la cavi solo con me».
Matteo non osò controbattere, ma corse a chiudersi in bagno. Era più
agitato che mai. Faceva addirittura fatica a respirare, così si sbottonò
la camicia, cercò di deglutire, si portò una mano al petto: il cuore gli
batteva a mille. Era come paralizzato dalla paura.
Scivolò a terra, accovacciandosi su se stesso. Prese il telefonino e
digitò un messaggio: “Mamma, dove sei?”. Di solito questo bastava a
calmarlo, ma quel giorno no. La sua paura era sempre lì, e ci rimase
anche quando si ritrovò, col violino in mano, da solo col maestro
Marioni sul grande palco della sala Verdi.
«Quale pezzo vuoi provare?» gli chiese Marioni.
«La composizione di Giacomo», rispose Matteo, «il brano che sto
suonando con Sofia. Non è quello che dobbiamo provare?».
Marioni annuì, poi, fissandolo negli occhi, gli domandò: «Dove si
siede, in genere, Matteo? Nelle prime file… o nelle ultime, quelle poco
illuminate?».
Matteo deglutì. «Non so di cosa parla, maestro».
«Tu sai benissimo di cosa sto parlando, Matteo. Perché non me lo
racconti, perché non mi dici davvero come stanno le cose?».
Chissà se qualcosa sarebbe già successo quel pomeriggio se proprio
allora non fosse entrata la maestra Gabriella Bramaschi che, informata
da Sestieri di quella lezione a due, aveva come annusato il pericolo.
Di sicuro, quello scambio di battute non lasciò Matteo indifferente
perché quando giunse in via Paolo Sarpi e, davanti al suo portone
trovò ad aspettarlo Sofia, si comportò con lei come non si era mai
comportato prima.
Vedendolo con qualcosa di strano nello sguardo, lei aveva sorvolato
sul fatto che si fosse dimenticato che dovevano provare insieme – non
era così importante, dopotutto – e gli aveva chiesto: «È Marioni, è
ancora lui? Ti ha detto di nuovo qualcosa su tua madre?».
Lui si era voltato e, pieno di rabbia, le aveva urlato: «Sofia, lascia
perdere mia madre!».
Era entrato in casa e si era chiuso in camera, senza mangiare nulla
di quello che suo zio Daniele gli aveva lasciato pronto prima di uscire.
Sofia però non lasciò perdere. Si mise alla scrivania e cominciò a
scrivergli una lettera, una lettera che consegnò a Matteo mentre lui si
dirigeva alla sala violino per una lezione con Marioni, più agitato che
mai, con ancora il cellulare in mano. Aveva appena scritto alla madre
un messaggio: “Perché non ci sei più?”.
«… Matteo?» lo chiamò.
Lui alzò lo sguardo e se la vide davanti.
«Ciao…» disse.
Sofia gli si avvicinò e gli allungò la lettera. «Matteo… be’… senti, ho
scritto tutto su questo foglio. È inutile che parlo tanto… è solo per farti
sapere che ci sono… io ci sono, ecco».
Si guardarono per un istante negli occhi, poi Sofia se ne andò,
lasciando Matteo da solo con la lettera che lei gli aveva scritto.
Cominciava così:
Ciao Matteo, mi dispiace perché ho capito solo adesso quanto deve
essere difficile per te…
Il cuore di Matteo mancò un battito, perché poco sotto lesse il nome di
“Valeria”.
Sofia aveva scoperto tutto. Tutto.
Piegò velocemente il foglio, come se non riuscisse più a leggere
altro, e con quest’animo entrò nella sala violino, quella che io poi avrei
trovato completamente sottosopra.
Luca Marioni e Matteo erano di nuovo da soli. L’uomo aveva
intenzione di star dietro a quel ragazzo come non lo era stato con
Giacomo. Non voleva che anche Matteo si potesse sentire solo,
sperduto, non compreso.
Era per questo che, mentre Matteo apriva la custodia del suo violino
evitando volutamente di incrociare gli occhi del maestro, lui gli disse:
«Non te l’ho mai chiesto. Piaceva a qualcuno della tua famiglia, è per
questo che hai cominciato a suonare, vero?».
«Sì» rispose semplicemente Matteo.
«È sempre così. Si comincia per caso, quasi per fare un piacere agli
altri, e poi diventa la tua vita». Fece una pausa. «Piaceva a tua
madre».
«Sì».
«Suoni per lei e probabilmente non lo fai solo qui alle prove, vero?».
Matteo aveva alzato gli occhi su di lui, lo fissava immobile.
«Nella tua stanza, per strada… lei ti accompagna, ti sta vicina…
adesso è qui? Dov’è, Matteo? Cosa fa quando la vedi?».
«Maestro, voglio suonare», il tono era a metà tra la supplica e la
minaccia.
Marioni, però, insistette: «Ti sorride e ti consola quando le cose non
vanno come devono andare, quando ti senti troppo fragile, quando
vorresti scappare?».
«Maestro, per favore, voglio suonare».
Il maestro proseguì imperterrito: «Hai anche tu tante paure, come
Giacomo? Hai anche tu qualche segreto, che non ti lascia andare, che
non ti fa crescere? Che ti tiene bloccato?».
«Per favore…».
«Devi affrontare la realtà. Tua madre è morta, Matteo. Non puoi
vederla. Non puoi parlare con lei, lei non esiste più e devi smetterla
con…».
Marioni non riuscì a completare la frase, perché fu in quel momento
che Matteo sollevò il braccio col violino e, d’improvviso, tutto nella sua
testa si fece nero. Era come se una rabbia ancestrale si stesse
scatenando, togliendogli ogni coscienza di sé.
Quando si risvegliò, la sala era come io poi l’avrei trovata e dal naso
del maestro Marioni stava colando del sangue.
Matteo scosse la testa, come non credendo neanche lui a ciò che
aveva appena fatto, e scappò via, correndo per i corridoi di questo
Conservatorio, fino a rifugiarsi nella penombra della sala Verdi
deserta.
Fu qui che lo trovarono Barbara e Domenico.
«Che è successo?» gli chiese lui. «Che gli hai fatto?».
«No… non lo so bene» rispose Matteo. «Penso di averlo aggredito.
Di avergli spaccato il violino in faccia».
«Cosa…?» fece Domenico.
«Che ti ha fatto?» intervenne Barbara allarmata.
Gli occhi di Matteo si fecero lucidi. «Non c’entra lui. Lui è stato solo…
Io vi ho raccontato un sacco di bugie».
In quel momento, fragile come non si era mai mostrato, Matteo disse
per la prima volta la verità: «Mia mamma. Mia mamma è morta. Quasi
due anni fa».
E insieme a quelle parole riemersero, più dolorosi che mai, anche
tutti i ricordi di quella notte, il 24 agosto 2016.
Ricordò di come si era svegliato, sentendo il letto muoversi. Rivide
sua madre che entrava nella sua stanza in camicia da notte, lo
prendeva e lo portava via mentre una mensola piena di fumetti e libri
crollava e il lampadario si agitava sopra le loro teste.
Ricordò di come erano usciti di casa e quando la terra aveva smesso
di tremare, lei gli aveva detto che aveva bisogno di rientrare un
secondo. Matteo risentì la paura che aveva provato in quel momento,
si rivide mentre cercava di trattenere sua madre Valeria mentre lei
oltrepassava il portone.
Poi, una nuvola di polvere di bianca, e la palazzina crollata. Lui che
scavava con le mani sanguinanti tra le macerie, lui che cercava di
spostare un lastrone, chiamando sua madre e piangendo.
«Non l’ho vista più… non l’ho vista più…».
Matteo cominciò a singhiozzare, stretto fra le braccia di Barbara e
Domenico. «Quando l’hanno… l’hanno ritrovata… papà non ha voluto
che la vedessi… mamma…».
«Piangi, Matteo… piangi» gli sussurrò Domenico stringendolo ancora
più forte.
Lo stringeva così forte che sembrava non volesse farlo andare più
via.
36
Quello che era successo non poteva non avere conseguenze.
In quanto direttrice del Conservatorio Giuseppe Verdi, tra le istituzioni
musicali più prestigiose d’Italia, non potevo fingere che non fosse
accaduto nulla – visto che, ahimé, c’erano dei precedenti. E quella
diffida indirizzata al maestro Luca Marioni dal padre di Giacomo era lì
a ricordarmelo.
Per quanto io lo avessi sempre appoggiato, perché convinta che
fosse tra i migliori insegnanti che la mia scuola potesse avere, decisi di
convocarlo: quella situazione non poteva andare avanti.
Lo raggiunsi in sala prove proprio mentre Nathan, il primo violino
dell’orchestra, si stava alzando rabbioso dal suo posto afferrando la
custodia del suo strumento.
In quel momento non potevo ancora saperlo – me lo avrebbe
raccontato Nathan in persona di lì a poco – ma Marioni aveva
cominciato quella sessione di prove con una delle sue famose
ramanzine: «Manca poco più di un mese al saggio finale e nessuno di
voi ha fatto un miglioramento appena accettabile, non dico per
passare l’anno… ma almeno per evitare di far sfigurare questa scuola
e me. A questo punto dell’anno dovremmo stare qui a parlare della
Divina Commedia, del Paradiso, e invece passiamo il tempo a
esercitarci con le stanghette dell’alfabeto… Un salto di qualità. Questo
è quello che pretendo da voi, e che invece non vedo».
Parole sacrosante, su questo non avrei avuto nulla, ma proprio nulla
da obiettare.
Marioni aveva poi annunciato che non aveva deciso cosa fare per le
esibizioni soliste, doveva ancora decidere quali pezzi assegnare e a
chi.
«A parte Domenico, che quest’anno è fuori dai giochi, come ormai
sapete tutti» aveva aggiunto.
A quel punto, aveva preso la parola proprio Nathan: «Maestro, però
così avremo meno tempo per prepararci».
«A volte la tua arguzia mi stupisce, Nathan…» aveva risposto Marioni
in tono ironico. «Per te questo è un punto a sfavore, per me a favore».
«Nella valutazione finale non interessa a nessuno quanto tempo
abbiamo avuto per prepararci, conta il risultato».
«Allora tu pensa al risultato finale. Studia, lavora, esercitati, e non
perdere tempo a lagnarti».
Gli altri ascoltavano in un silenzio raggelato.
«Ma se lei non mi assegna il pezzo, io come faccio a…».
«Va bene» lo aveva interrotto Marioni. «Non ti voglio qui, oggi.
Fuori».
«In che senso?» aveva chiesto stupito Nathan.
«Nel senso che conosci e che è noto a tutti» aveva risposto Marioni,
mantenendo ancora la calma.
«Maestro, io non capisco…».
Marioni aveva alzato la voce, in uno scatto d’ira: «Nathan, quando ti
dico di uscire da questa sala tu devi uscire, subito, in silenzio e senza
polemiche. E non disturbarti a tornare. Per oggi le tue prove finiscono
qui! Sono stato chiaro?».
Sì, lo era stato, perché Nathan se ne stava andando, ma anch’io, mi
dissi, adesso dovevo essere chiara con il maestro Luca Marioni.
Incrociai le braccia e mi diressi verso il palco.
«Buongiorno» mi disse lui quando mi vide arrivare. «C’è qualche
problema?».
«Svariati. Ho bisogno di parlare con lei».
«Allora ne parleremo a fine prove» replicò lui. «Ora iniziamo», disse
rivolto ai ragazzi, «che abbiamo poco tempo. Forza, avete davanti gli
spartiti. Il grande Ludovico, Sinfonia n. 7. E cerchiamo di metterci un po’
di anima! Siamo qui per fare musica».
Lasciai Marioni e gli studenti alla Settima di Beethoven e uscii insieme
a Nathan.
Lo ritrovai, poco più tardi, in aula professori mentre stava richiudendo il
suo armadietto.
«È successa una cosa grave con Matteo» gli dissi senza preamboli
raggiungendolo alle spalle. «Dobbiamo parlarne».
Lui si voltò. «È successo quello che è successo. La cosa più grave,
adesso, è non pensare al saggio dei ragazzi. Matteo sta bene, ci ho
parlato stamattina».
Era vero, quella mattina, come accade dopo una violenta tempesta,
tra loro due era come scesa una quiete piena di sole.
«Buongiorno, maestro» lo aveva salutato Matteo, incontrandolo
all’inizio delle scale che conducono alla sala Verdi.
«Ciao, Matteo. Come stai?».
«Bene… e lei?».
«Bene. Diciamo che… non mi hai procurato danni permanenti».
«Mi… mi dispiace per quello che è successo. Ma mi è servito. Ho
parlato con i tutti i miei amici. Ora sanno la verità. Mi sento più
leggero. Più libero» aveva detto Matteo, e sul suo volto aveva un
sorriso nuovo.
«Deve solo trovare un violino nuovo. D’altra parte, non sono stato io
a spaccarlo» proseguì a dirmi Marioni, guardandomi fisso negli occhi.
«Io devo preparare le parti per il concerto finale a cui lei tiene tanto.
Immagino avrà chiamato i suoi colleghi da mezza Europa, e dobbiamo
presentare i nostri ragazzi. Mi lasci lavorare. Non succederà
nient’altro. Si fidi».
Era proprio questo il problema: potevo ancora fidarmi del maestro
Luca Marioni?
Prima la storia di Giacomo, poi questa di Matteo, quindi le lamentele
di Nathan… mancava giusto una goccia, anche minuscola, per far
traboccare il vaso.
E questa arrivò sotto forma di un uomo sulla cinquantina, brizzolato,
dal piglio apparentemente duro, di nome Vincenzo Abbate, il padre di
Domenico.
La sera prima, il figlio gli aveva annunciato di aver rinunciato a
suonare in coppia con Barbara nel saggio finale. «Lo so che per te è
un dispiacere».
«I tuoi nonni hanno già comprato i biglietti per salire da giù» gli aveva
detto incredulo l’uomo. «Io voglio vederti al pianoforte su quel palco,
Domenico, io lavoro tutto l’anno per quel momento…».
«Farò l’esame di composizione, mi concentrerò su quello, e i nonni
potranno venire lo stesso. Mi vedranno insieme agli altri in orchestra».
«Dome’», era sbottato Vincenzo, «non dire cazzate, non è la stessa
cosa se suoni in mezzo a cinquanta persone o se fai il concerto da
solo. Mi vuoi prendere in giro?».
«Papà, mi dispiace. Marioni mi ha chiesto di scegliere, e io ho scelto.
Non c’è niente da fare».
«Marioni non può decidere le regole come gli pare».
Questa frase, Vincenzo Abbate l’aveva ripetuta anche a me, ed era
stato allora che avevo deciso di convocare ufficialmente Marioni.
Avevo qualcosa di importantissimo da comunicargli.
Non appena si presentò nel mio ufficio, gli chiesi: «Perché Domenico,
che è il nostro allievo migliore, è fuori dall’esibizione finale?».
«È stato lui a sceglierlo. Domenico sapeva perfettamente a cosa
stava rinunciando» rispose lui senza perdere la calma anche se, era
evidentemente esasperato dal lungo discorso che gli stavo facendo e
che ora stava arrivando al nodo.
«E lei pensa che fosse proprio necessario metterlo di fronte a questa
scelta?».
«Finché io sono qui dentro, non possono essere loro a decidere con
chi suonare o quando. O se lo fanno, devono affrontarne le
conseguenze. Se non capiscono questo, non cresceranno mai. E
Domenico, questo lo ha capito, glielo assicuro. Sono io che li metto
insieme, io che decido quando e cosa possono suonare. Io che li
preparo per diventare musicisti».
Il suo discorso non faceva una grinza, lo ammetto, ma io, in qualità di
direttrice, avevo il compito di badare alle esigenze di tutti.
«E il fatto di cacciare dall’aula un ragazzo solo perché non le piace
come risponde, rientra nei suoi metodi formativi, immagino» rilanciai.
«Ieri Nathan si è lamentato con me. Mi aspetto un’altra lettera anche
dai suoi genitori».
«Nathan deve imparare a stare al suo posto. E quello che succede
nelle mie ore è solo affare mio».
«No, si sbaglia» lo fermai. «Questa è la scuola che io dirigo e quello
che succede qui dentro è prima di tutto un mio affare! E lei è a me che
deve rispondere, anche di quello che è successo con Matteo. Le
conseguenze…».
«Le conseguenze sono che Matteo sta meglio e adesso stiamo tutti
in pace. Come ci siamo arrivati è solo affar nostro».
In quel momento, persi la pazienza. Se fino ad allora avevo lasciato
aperto uno spiraglio per il maestro Marioni, con quelle parole e con
quell’arroganza stava mettendo lui stesso fine alla questione.
«I suoi metodi sono più che discutibili e io non posso rischiare che la
scuola passi altri guai» dissi con tono secco. «Matteo, Domenico,
Nathan… senza contare i professori del liceo che si lamentano.
Michele il custode, che ha visto il sangue per terra e il violino rotto e ne
ha parlato con tutti…». Presi un respiro. «Ho deciso. Sarà Sestieri a
portare i ragazzi al saggio finale».
Marioni si fermò a guardarmi, poi si lasciò sfuggire una risata
beffarda.
«Cos’è, uno scherzo?» chiese.
«Sto parlando seriamente».
«Sestieri è un amico», disse Marioni con fare aggressivo, «ma quei
ragazzi sono miei!».
«Torneranno suoi» lo corressi io. «Ma dopo questa pausa. Non ora.
Per adesso lei non li seguirà più».
Marioni si alzò. «Sa cosa le dico? Faccia come vuole. Affronterà lei le
conseguenze».
Detto questo, uscì dal mio ufficio senza salutarmi. Io mi lasciai
andare a un sospiro di sollievo.
Era stato faticoso fargli quel discorso, anche perché sapevo che
insegnante straordinario potesse essere, ma si era rivelato necessario.
E una direttrice non può non fare ciò che è necessario.
37
C’era un’altra donna che, in quegli stessi giorni, stava affrontando una
scelta ben più difficile, ben più dolorosa. Quella donna io la conoscevo
bene perché per anni era stata una delle insegnanti più amate qui al
Conservatorio Giuseppe Verdi.
Tanto dolce era lei, tanto a volte insopportabile Luca Marioni, eppure
insieme formavano una coppia che, alla fine, dopo una parentesi di
lontananza, aveva resistito a una tragedia immensa come la perdita di
una figlia.
Ora, però, c’era una novità che stava per sconvolgere di nuovo le
loro esistenze.
Irene, infatti, aveva appena scoperto di essere rimasta incinta, e
quella che per quasi tutte le donne è una notizia piena di gioia, per lei
era come un terremoto dentro un cuore che aveva da poco ritrovato un
po’ di serenità.
Ne aveva parlato anche con la sua amica Gabriella Bramaschi, a cui
era bastato un attimo per capire di essere la sola, per il momento, a
saperlo.
«A Luca non l’hai detto» le disse una mattina quando si videro in
corso Sempione per fare colazione insieme.
«Non so nemmeno se voglio dirglielo» rispose Irene.
La Bramaschi la fissò con uno sguardo stupito, quasi destabilizzato.
«Io non ho dubbi, Gabriella», riprese Irene, «so quello che voglio fare
e so che Luca non sarebbe d’accordo».
«Non puoi fare tutto senza di lui, Irene… Come fai a
nasconderglielo? Questa cosa finirebbe per dividervi. È anche suo
figlio».
«Non usare quella parola, per favore… non la voglio sentire. Va
bene?».
«D’accordo, non la uso, ma tu pensaci per favore».
Irene evidentemente ci pensò, perché una sera, mentre discutevano
di scuola e Marioni si lamentava del modo in cui lo avevo trattato, lei si
mise a fissarlo, quasi senza ascoltarlo.
«…Cosa c’è?» le domandò lui.
Irene attese qualche attimo prima di dirglielo, aveva gli occhi lucidi di
chi aveva pianto da poco.
«Sono incinta, Luca».
Lo disse senza preamboli, fu come se una pallottola fosse esplosa
nel silenzio della stanza, impiantandosi nella testa di Marioni e
illuminandogli il volto di una gioia inaspettata.
Quella luce, però, durò soltanto un istante, perché subito Irene
aggiunse: «Io non voglio. Non posso tenerlo».
«Come non lo vuoi?» disse lui piano, cauto, col tono di chi ha paura
di dire qualcosa di sbagliato. «È una possibilità bellissima, Irene. È la
nostra seconda possibilità».
«…Che io non voglio avere. Come non voglio avere questa
discussione con te. Non sono pronta. Ho troppa paura, capisci?».
«Ma non sei sola, siamo in due, Irene» protestò lui. «Ci sono io, qui
con te».
«Lo so. Ma questo non c’entra. Tu c’eri anche prima, Luca, ci sei
sempre stato… eppure non è servito a evitare niente…».
Luca si immobilizzò. Come se un altro proiettile fosse esploso nella
stanza, ma mentre l’altro si era rivelato una pioggia di fuochi d’artificio,
questo lo aveva colpito dritto nel cuore.
«Scusami, non voglio ferirti…» disse Irene. «Ma per favore non ne
parliamo, non adesso».
E lo stesso atteggiamento Irene lo aveva mantenuto anche nei giorni
seguenti finché, di fronte alle insistenze del marito, decise di chiudersi
del tutto: «Ho sbagliato. Non avrei dovuto dirti niente.
Ma per Marioni questa era la più grande frustrazione: avere
l’opportunità di diventare ancora padre e vederla sfumare senza che
potesse far nulla per impedirlo.
In quel momento non gli importava di nulla: del Conservatorio, del
saggio finale, di quello che gli avevo detto…
Il suo unico pensiero divenne quello.
38
Credo che il legame che unisce un genitore al proprio figlio, e
viceversa, sia tra quelli che più difficilmente possano spezzarsi.
Matteo era riuscito a raccontare a se stesso che sua madre non era
ancora viva come a volte gli capitava di immaginare, ma che invece
era morta sotto le macerie della palazzina in cui abitavano ad
Amatrice.
Per ricordarsi ogni giorno dell’amore che li aveva uniti, Matteo aveva
stampato una foto che lo ritraeva insieme ai suoi genitori Valeria e
Antonio, e suo zio Daniele l’aveva inserita in una cornice che
conteneva una foto di Lorenzo, che nel frattempo era diventato il suo
ex fidanzato.
Eh sì, Daniele lo aveva lasciato nel bel mezzo di una cena, e quasi
contemporaneamente era stato mandato al diavolo dal suo omonimo
vicino, che aveva scoperto il doppio gioco che aveva retto fino a quel
momento. Insomma, non era un buon momento per lo zio di Matteo, la
sola cosa positiva era che quella cornice si era liberata per uno scopo
migliore.
C’era poi una madre che non avrebbe mai permesso che il figlio
potesse ancora vivere lontano da lei, e questa era Antonia.
Un pomeriggio aveva chiesto a Rosario di raggiungerlo in piazza
Duomo e lì, mentre mangiavano un panzerotto preso da Luini,
all’ombra delle palme piantate proprio davanti alla facciata della
cattedrale, avevano parlato di quello che stava succedendo fra di loro.
Attendevano, infatti, di sapere cosa il giudice avrebbe deciso sul
destino di Rosario: lo avrebbe fatto rimanere a Milano con Clelia e
Roberto o lo avrebbe fatto tornare a Firenze insieme a sua madre?
Antonia, però, qualunque cosa fosse successa, ci teneva a dirgli una
cosa, e dalla sua espressione pareva essere un discorso importante,
di quelli che un figlio avrebbe dovuto ricordare per tutta la vita.
«Qualsiasi cosa decida il giudice, tu devi sapere… devi sapere
quanta forza mi hai sempre dato. Anche quando stavo male, ma male
che quasi non riuscivo ad alzarmi dal letto per quanto ero fatta, c’era
sempre una parte di me che diceva che non potevo finire così… che in
qualche modo dovevo farcela perché c’eri tu, da qualche parte, che mi
stavi aspettando… Sei stato tu a salvarmi».
«Non ho fatto niente» ribatté Rosario.
«C’eri. Esistevi. Eri un pensiero potente. Non sarei sopravvissuta se
non avessi avuto te. Hai fatto tantissimo».
Rosario le rivolse uno sguardo pieno d’amore. «È stata così…
dura?».
«Sì, amore, sì, durissima. Ma ho superato tutto per riunirmi con te e
avere una vita normale, solo per questo… Capisci adesso perché non
posso lasciare andare le cose? Perché devo ascoltare me stessa, oltre
quello che desideri tu?».
Rosario annuì.
«Non mi odiare mai, Rosario… a questo sì, che non sopravvivrei».
Chissà quali paure si agitavano, invece, dentro Nico, mentre insieme
a Sofia portava il figlio in ospedale a fare la risonanza magnetica.
Lui che di solito era così spavaldo, ma che già aveva cominciato a
mostrare le sue debolezze quando la sua ragazza Ilaria, la blogger, lo
aveva lasciato perché incapace di reggere una situazione così
delicata, dentro quella macchina non ci voleva entrare, e si era di
colpo come ritrasformato in un bambino: «No, ve lo scordate proprio…
io dentro quella bara non ci entro».
«Andrea, smettila! Fai l’adulto».
Ma l’“adulto Andrea” aveva avuto bisogno di Sofia, la sua
“polpettina”, come la chiamava lui, per affrontare quella prova. Dopo
aver chiesto consulto all’infermiera sempre più spazientita, i due fratelli
erano entrati insieme nella stanza dell’apparecchio per la risonanza.
Sofia non lo avrebbe mai abbandonato, nemmeno lì dentro.
«Si vogliono molto bene i suoi figli…» aveva commentato l’infermiera.
«Sì…» aveva risposto Nico. «Si insultano, litigano tutto il tempo e
spesso si prendono a mazzate… sono proprio inseparabili…».
In quel momento, in un’altra parte di Milano, c’erano invece due fratelli
che temevano di essere separati dopo che i loro genitori avevano
deciso di non vivere più insieme.
A Robbo questa paura era cresciuta settimana dopo settimana, ma
ora che quella crisi matrimoniale sembrava essere diventata definitiva,
e non soltanto qualcosa di passeggero, si era trasformata in un’ansia
sottile, che lo accompagnava dovunque andasse.
Una sera, mentre suo padre Luigi e sua sorella Chiara lo stavano
aspettando in pizzeria, aveva proposto alla madre di raggiungerli
insieme. Lei aveva risposto: «A tuo padre non farebbe piacere che io
mi presentassi così a sorpresa, credimi. Vai tu. Io sto qui. Ci vediamo
dopo».
Al che Robbo, con la scusa che avevo molto da studiare, aveva
deciso di rimanere a casa con lei, ma prima le aveva chiesto:
«Mamma… sarà sempre così adesso? Che dovremo dividerci, che
Chiara starà con papà e io con te per non dispiacerti?».
«No, non sarà sempre così. È solo che è troppo presto per capire
come fare. Troveremo un equilibrio. Te lo prometto».
Quell’equilibrio, però, tardava ad arrivare. Anzi, ora si stava creando
una frattura anche fra i due fratelli perché Chiara non aveva preso
bene che Robbo cercasse in qualche modo di consolare la loro madre:
«Perché la difendi sempre, adesso?».
Si trovavano nel loro luogo segreto, quel lago fantastico che
compariva nella loro mente quando si rifugiavano entrambi sotto le
coperte.
«Non la difendo, mi scoccia solo lasciarla da sola» rispose Robbo.
Come la volta prima in pizzeria, ora non voleva andare a cena da suo
padre.
«Papà vuole solo farci vedere la sua casa nuova» protestò Chiara.
Era la prima volta che litigavano mentre si trovavano sulle rive del
loro lago segreto.
«E io non la voglio vedere, Chiara, non mi interessa».
«Mi ha detto che c’è la stanza per noi!».
«Senti, non mi va! Se tu ci tieni tanto ad andarci, allora vacci da
sola!».
Chiara gli rivolse uno sguardo pieno d’odio.
«Tu non vuoi lasciare mamma da sola», gli urlò, «e non ti importa
niente di me. E allora, anche io non ci voglio più venire qui! Io lo odio
questo posto… questo posto non esiste, è tutto finto! È brutto e triste,
mi fa schifo!».
E di colpo sollevò le coperte per andarsene e il lago fatato
scomparve.
Robbo non aveva scelte, se non voleva rischiare di perdere sua
sorella per sempre: doveva accompagnarla a vedere la nuova casa di
papà.
Ci andarono quel pomeriggio stesso, per scoprire che non si trattava
di una vera e propria casa, era più un residence, con lunghi corridoi
eleganti su cui si affacciavano delle porte.
«…Ma è come un albergo?» chiese Chiara un po’ spaesata
guardandosi attorno.
«No, qui ci abitano delle persone» spiegò suo padre. «Sono come
delle piccole case. Guardate…».
Erano arrivati proprio davanti alla sua porta, che lui aprì per guidare i
suoi figli dentro un grande salone pieno di luce.
«Questo è il salotto», disse l’uomo, «con la cucina e il bagno, e
sopra, come se fossero le cabine di una nave, ci sono due stanze da
letto, una per me e una per voi. Che dite, vi piace?».
Chiara sorrise. «A me molto…».
«Sì, anche a me» le fece eco Robbo, sebbene la sua espressione
non fosse molto convinta.
«È ancora provvisoria, certo…» proseguì Luigi. «Ma ci portiamo un
po’ di cose vostre per renderla più allegra, per personalizzarla un
po’…». Poi, guardandoli, si accorse che c’era qualcosa di strano e
disse: «Ma cosa c’è, ve ne state lì in silenzio, non dite niente… non vi
piace la casa?».
«No, la casa ci piace» rispose Chiara. «È che abbiamo litigato, per
questo non parliamo tanto. Però io voglio vedere le stanze della nave»
e così dicendo si arrampicò per le scale.
«Sì, abbiamo discusso un po’» disse Robbo a suo padre quando
rimasero da soli. «Ma adesso è passata. Non ti preoccupare, papà. Liti
normali tra fratello e sorella… Davvero. Bello qui… mi piace…».
Poi andò ad aprire la porta del bagno. Si accorse che, in un bicchiere
poggiato sul lavandino, c’erano due spazzolini da denti.
E due spazzolini potevano significare una cosa soltanto: in quella
casa qualcun altro – o meglio, qualcun’altra – ci dormiva abbastanza
spesso da giustificare la presenza di uno spazzolino in più.
Al momento, Robbo non volle chiedere nulla, ma quella sera, mentre
stava apparecchiando per mangiare le pizze ordinate a domicilio e suo
padre disse: «Vedrete che la prossima volta mi organizzo meglio… e
riuscirò perfino a cucinarvi qualcosa», lui rispose: «Magari ti puoi far
aiutare…».
Luigi alzò il viso verso suo figlio.
«In bagno ci sono due spazzolini», continuò Robbo, «e ho pensato
che… ti vedi con qualcuna».
Anche Chiara sollevò il viso, e piantò uno sguardo stupito negli occhi
di suo padre.
«Be’…» sorrise lui. «Ve lo avrei detto io, ma visto che Robbo si è
messo a fare il detective… sì, mi vedo con una donna. E qualche volta
si ferma a dormire qui. Spero che questa cosa non vi dispiaccia».
Robbo annuì, mentre Chiara rispondeva: «No, visto che mamma ha
un fidanzato, è giusto che anche tu ce ne hai una… no, non mi
dispiace».
«Grazie, amore mio» disse Luigi.
«E da quanto tempo la vedi?» chiese Robbo mentre tagliava degli
spicchi di pizza e li metteva dentro i piatti. «Da prima che succedesse
il casino con mamma?».
Luigi ebbe un attimo di esitazione, poi rispose: «No. L’ho conosciuta
da poco. Un mesetto, più o meno…». Quindi cercò di cambiare
discorso: «Mi sembra che ci sia tutto, no? Anche l’aranciata per
Chiaretta… Avanti, allora sedetevi che mangiamo, altrimenti si
fredda…».
Robbo gli lanciò un’occhiata, e un dubbio gli si impiantò nella testa:
suo padre era stato sincero con lui?
39
Quella che di sicuro non era stata sincera era Antonia.
Rosario lo aveva scoperto la sera stessa di quel loro incontro in
piazza Duomo, all’ombra delle palme.
«Ciao! Scusate il ritardo…» disse rientrando in casa. Clelia era uscita
nel corridoio per venire ad accoglierlo. «È passata a prendermi
mamma e sono stato con lei fino ad ora».
Clelia abbozzò un sorriso, mentre Roberto li raggiungeva lì
all’ingresso.
«T-ti ha parlato?» chiese lei con un’aria spaventata.
«Sì, fino a poco fa. Di un sacco di cose. E veramente non ho
nemmeno tanta fame, scusate» disse Rosario, che ancora aveva il
panzerotto nello stomaco.
«Rosario, tua madre non ti ha detto niente di quello che succederà?»
chiese Roberto.
«No… perché… che mi doveva dire?» domandò Rosario sospettoso.
Clelia scosse soltanto la testa. Fu Roberto a rispondere: «Il curatore
ha chiamato stamattina, ha parlato con il giudice… Dovrai… dovrai
andare con lei. È solo questione di tempo».
Rosario cambiò di colpo espressione.
«Pensavamo che te l’avesse detto… alla fine dovrai partire. Il giudice
è stato… è stato chiaro sulla decisione che prenderà».
Rosario non seppe controllarsi, e tirò un violento calcio contro la
porta. Se adesso fosse stato dentro la sua sala percussioni, avrebbe
saputo come sfogare la rabbia che sentiva dentro.
«Lo sapeva!» urlò. «Oggi lo sapeva e non mi ha detto niente,
cazzo… perché?».
Che sua madre non fosse stata sincera era forse la cosa che lo
faceva arrabbiare di più.
Solo qualche giorno prima, i sette ragazzi della Compagnia del Cigno
si erano riuniti e, dopo che Matteo aveva confessato il segreto a
proposito di sua madre, scusandosi di non essere stato onesto con
loro, Domenico aveva detto: «Adesso basta parlarne… Tutti diciamo
delle bugie qualche volta… tutti abbiamo dei segreti».
Era stato come dare il La a una confessione collettiva.
«Io ce ne ho uno grosso come una montagna» aveva detto Robbo.
«Escluso che sia più grosso del mio» aveva rilanciato Rosario.
«E va bene», aveva detto Sara, «se vogliamo fare una gara… bugie,
paure…».
Tutti si erano guardati sorridendo.
La prima a cominciare era stata Sofia: «Io ho una paura terribile che
Scheggia muoia. Non posso dirlo a nessuno, soprattutto a mia madre.
Ma è così».
Poi era stato il turno di Robbo: «Io ho paura che mi separino da mia
sorella».
Rosario: «Io non so cosa sarà di me… cioè, quale sarà il mio futuro,
e non è una bella sensazione».
Domenico e Barbara avevano annunciato a tutti che si erano messi
insieme, anche se nessuno, a dir la verità, si era mostrato sorpreso.
La loro travagliata storia d’amore, in fondo, era sempre stata sotto gli
occhi di tutti – compresi quelli di Sara, che aveva capito ogni cosa
ancora prima degli altri.
«Io vi batto», aveva preso la parola proprio Sara, «ho la migliore di
tutte. Ogni mattina, quando mi sveglio nel letto, faccio degli esercizi di
memoria. Penso al passato, a quando ci vedevo. Perché… ho paura di
dimenticarmi le cose, i colori, le forme, i dettagli del viso dei miei».
Tutti erano rimasti in silenzio.
«Questa non si batte, eh? Fa sempre effetto».
Nessuno si sarebbe mai aspettato si sentire queste parole da Sara,
lei che si mostrava sempre così caustica, così dura, invincibile.
Invincibile, invece, lei non lo era per niente, e per la prima volta dopo
tanto tempo se ne rese conto un pomeriggio quando, attraversando la
strada senza bastone – perché le era appena scivolato di mano –, una
macchina per poco non l’aveva investita.
Quella sera, quando i suoi genitori Ines e Giulio insistettero per
capire cosa ci fosse che non andava, lei fu sincera in modo straziante:
«Io ho problemi perché non ci vedo, cazzo! Ed è inutile che faccio finta
di niente, che nascondo il bastone, che provo a suonare
nell’orchestra… alla fine, la realtà è questa».
Sì, la realtà era questa, ma era abbastanza per fermare la Sara che
conoscevo io?
40
Ero appena entrata nel mio ufficio e mi stavo ancora togliendo la
giacca, quando Luca Marioni mi raggiunse e, senza neanche dire
“buongiorno”, buttò una cartella sulla mia scrivania.
«Qui ci sono i pezzi per le esibizioni da solista» spiegò. «L’orchestra
al completo ha cominciato a preparare la Settima di Beethoven. Sestieri
ha già tutto».
Feci per dire qualcosa, ma Marioni non me ne lasciò neppure il
tempo.
«Ai ragazzi lo dirò io stamattina» proseguì. «Li ho già convocati, non
voglio che lo sappiano da altri».
Detto questo se ne tornò verso l’uscita.
«Come vuole» gli dissi soltanto.
Sapevo che in quel momento niente lo avrebbe convinto che la scelta
che avevo fatto fosse quella più sensata per il bene dell’intero
Conservatorio.
«No. Come ha voluto lei» replicò infatti lui rivolgendomi un sorriso
beffardo. «E sa che saranno i ragazzi a pagarne le conseguenze. Il
saggio finale sarà quello che sarà… Se ne accorgerà dalle prove».
«Cos’è?!» esclamai. «Si è messo d’accordo con il maestro
Sestieri?».
«Non ce n’è bisogno».
Sempre sicuro di sé, pensai.
I suoi studenti, invece, non sapevano cosa pensare, in particolare
Matteo, che quella mattina raggiunse Marioni al bar mentre stava
discutendo con la Bramaschi. L’argomento: la gravidanza di Irene e la
paura che la bloccava e che l’aveva portata alla decisione di abortire.
Luca continuava a non capire, mentre Gabriella stava dalla parte
dell’amica: «La paura è un sentimento potente, terribile. Mi dispiace,
Luca, e ti capisco, ma io sono con lei e non ho intenzione di
convincerla a fare niente che non voglia fare».
«Ciao, Matteo…» gli disse Marioni quando si accorse di lui.
«Buongiorno, maestro… abbiamo ricevuto questa comunicazione
urgente… che succede?».
«Ne parliamo dopo in sala Verdi. La convocazione è lì, non qui al bar,
mi sembra di averlo scritto chiaramente» rispose Marioni con un tono
così secco da lasciare Matteo interdetto.
Prima ancora di Marioni, però, c’era qualcun altro che doveva dare
una comunicazione alla Compagnia del Cigno.
Rosario aveva deciso di trasferirsi, di lì a qualche giorno, a vivere
nell’appartamentino che sua madre Antonia aveva preso in affitto a
Milano per stare vicino al figlio in attesa che si trasferissero a Firenze.
«Io c’ho pensato, mamma…» le aveva detto quella mattina stessa
facendole una sorpresa fuori dalla porta. «E va bene, partirò con te,
non voglio il processo, non voglio aspettare la decisione del giudice e
tutto il resto. Verrò a Firenze e vivremo insieme».
Sul viso di Antonia era comparso un sorriso. C’era un “ma”, però.
«Ma non ora» aveva continuato. «Io non posso andarmene via
adesso. Non posso lasciare i miei amici. Voglio finire l’anno, voglio
partecipare all’esame, al concerto finale, e per farlo devo restare qui. È
troppo importante per me».
E così era stato stabilito. Rosario sarebbe potuto rimanere ancora un
paio di mesi coi suoi amici, ma sarebbero stati “amici a termine”.
«Be’, ma che significa “amici a termine”?» chiese Robbo alla fine del
suo racconto lì in sala Verdi, mentre tutti attendevano l’arrivo di
Marioni.
«Quello che ho detto» rispose Rosario. «Ho ottenuto una deroga tipo
carcerato, vado via a luglio. Quindi, se dobbiamo fare altre cazzate
tutti insieme, dobbiamo sbrigarci perché poi non ci vedremo più».
Tutti si scambiarono uno sguardo dispiaciuto, poi uno per uno
tentarono di tirargli su il morale.
«Ehi, senti», fece Domenico, «comunque te ne vai a Firenze, mica in
Papuasia».
«Ci vedremo ancora», disse Sofia, «e poi da qui a luglio c’è un sacco
di tempo».
«Se conti le ore», aggiunse Matteo, «vedrai che sono tantissime…
tipo centinaia».
«No, non capite» disse Rosario. «È diverso sapere che finirà».
«Senza contare il fatto che oggi Marioni potrebbe sempre farci fuori e
dirci che nessuno di noi parteciperà all’esame» intervenne Robbo. «E
allora tutta vita!».
«Questa convocazione è strana» disse Sara. «La mail è arrivata
anche a me che col saggio finale dell’orchestra non c’entro niente».
«Il tuo radar che dice?» chiese Rosario.
«Il mio radar momentaneamente è fuori servizio. Tipo schermo rotto.
Non chiedetemi niente perché non funziona. Vi dovete arrangiare».
Il momento di difficoltà di Sara proseguiva. Dopo aver rischiato di
essere investita da quell’auto tutto sembrava farle paura, anche le
cose che prima faceva tranquillamente da sola. Quella mattina, per
esempio, aveva chiesto a Sofia di accompagnarla a scuola. «Mi è
venuta paura e mi sembra di non saper fare più niente, pure le cose
più stupide, che palle!» le aveva spiegato.
In sala Verdi arrivò anche Barbara. «Ciao, buongiorno a tutti» disse, e
la prima cosa che fece fu andare verso Domenico e dargli un bacio.
Poi lo prese in disparte e gli sussurrò: «Mamma sa tutto di noi e non ti
dico come fa a saperlo, sennò non ti riprendi più dall’imbarazzo».
Le cose erano andate così.
Dopo vari tentennamenti, Barbara aveva deciso di superare le sue
paure, e lei e Domenico avevano fatto l’amore in camera sua. Peccato
che in quel momento stesse entrando in casa Vittoria, di ritorno da una
serata a teatro. La donna si era avvicinata alla porta e aveva subito
capito cosa stava succedendo – anche se era convinta che il ragazzo
in compagnia fosse Matteo, perché era con lui che l’aveva vista
insieme negli ultimi tempi, era persino venuto a casa loro. Era subito
scesa da suo marito, che cercava parcheggio, e gli aveva detto che
aveva voglia di stare ancora un po’ fuori.
La mattina dopo le aveva raccontato tutto, ma quando aveva
scoperto che con Barbara c’era Domenico e non Matteo, ci era rimasta
di sasso, e non per Domenico in sé, ma perché sua figlia aveva
dimostrato di non avere fiducia in lei.
«I tuoi silenzi, la tua ribellione, il fatto che hai voluto cambiare
scuola… come mi guardi, anche» le aveva detto. «Non hai voluto dirmi
niente del ragazzo che ti piaceva davvero… Mi hai parlato di Matteo,
invece. L’ho capito. Hai avuto bisogno di metterti contro di me. Di
pensare che io non potessi capirti. Di fare da sola. Forse mi hai anche
odiato. E va bene. Va bene se ti è servito per fare le tue scelte. È la
tua vita. Lo studio, gli amici… adesso Domenico. Sei tu che scegli. Sei
sempre stata tu. Io ho cercato di consigliarti, ma non ti ho mai imposto
niente. Io voglio solo il tuo bene».
«Io… ho avuto paura di deluderti» le aveva detto Barbara, scossa da
quel lungo discorso, così carico di emozione, della madre. «Di non
essere all’altezza di quello che tu volevi».
«Di deludermi? No, Barbara. Tu non mi puoi deludere. Sei la mia
bambina. La mia piccola donna. Tu mi deludi solo se non ti fidi di me.
Se mi tieni fuori. Se pensi che io non possa capire. Così mi deludi».
«Mi ha chiesto di metterla alla prova» raccontò Barbara a Domenico
la mattina dopo, lì in sala Verdi. «E io ti ho invitato a cena».
«Io a casa tua, con i tuoi?» saltò su Domenico. «Ma sei pazza?».
Non ebbero tempo di proseguire il discorso perché, proprio in quel
momento, nella sala entrò il maestro Luca Marioni.
Ora tutti avrebbero finalmente scoperto il motivo di quella
convocazione.
41
«Facciamola breve» esordì Marioni dopo aver guadagnato il centro
della sala, ma anche il silenzio di tutti i presenti. «Vi ho convocato qui
stamattina per dirvi che non sarò io a portarvi all’esame finale…».
I volti di tutti i ragazzi si riempirono di stupore.
«Da oggi, il maestro Sestieri prenderà il mio posto» continuò Marioni.
«Lavorerete sui pezzi che ho scelto e che vi ho assegnato, e sarà lui a
farveli avere».
I ragazzi erano ancora più increduli.
«Ma… maestro… perché… è successo qualcosa?» chiese Sara.
«Per il momento, non seguirò più quest’orchestra» replicò
semplicemente Marioni. «E non voglio domande da parte vostra. Mi
dispiace, ma non c’è altro da dire» e si diresse verso la porta.
«C’entra mio padre, vero?» disse Domenico alzandosi in piedi. «È
venuto qui a parlare con la direttrice, me l’ha detto stamattina…».
«No, Domenico» gli rispose Marioni. «Non c’entri tu e nemmeno tuo
padre. Buon lavoro, ragazzi. Il maestro Sestieri vi seguirà da domani».
E questa volta se ne andò per davvero. Matteo gli corse subito dietro.
«Maestro… Maestro, aspetti per favore» gli gridò.
«Cosa vuoi, Matteo?».
«È colpa mia… è per colpa mia che adesso se ne deve andare».
«Matteo, vattene».
«È per quello che è successo l’altro giorno, è così? Il nostro litigio…
per quello? Sono stato io».
Marioni finalmente si fermò e lo guardò negli occhi. «Sì, anche per
quello. Perché mi hai rotto il violino in faccia. E sei stato la prova che
serviva alla direttrice per darmi addosso».
A quelle parole, Matteo sbiancò in viso. «Mi dispiace, io… non
volevo… non…».
«Piantala di balbettare come un idiota» gli disse Marioni aggressivo.
«Non si può tornare indietro. Adesso l’unica cosa che devi fare è
studiare e lavorare come e più degli altri, superare l’esame e andare
avanti. Il resto non ti deve riguardare». Fece una pausa e abbassò
lievemente il tono. «Risolvi il problema del tuo violino».
Matteo gli raccontò che quello lo aveva risolto. Dopo che lo
strumento fornito dalla scuola si era rivelato un po’ scadente, Barbara
si era offerta di prestargli quello del nonno, che loro tenevano in casa
senza usarlo mai.
«Me lo farai sentire e ti dirò se va bene» disse Marioni. «Adesso
basta».
Detto questo, se andò via, lasciando Matteo solo e avvilito. Era
strano che Marioni si comportasse a quel modo: doveva avere
qualcosa, si disse, qualcosa di così grave da non farlo lottare per
restare insieme a loro fino alla fine dell’anno.
Chi invece avrebbe continuato a lottare erano proprio i ragazzi della
Compagnia del Cigno, che di lì a poco si presentarono in massa nel
mio ufficio.
«Cos’è adesso, L’attimo fuggente? Datevi una calmata» esclamai
quando me li ritrovai tutti schierati davanti a me.
«Vogliamo sapere perché non abbiamo più il maestro Marioni» disse
Domenico. «Credo sia un nostro diritto».
«Domenico, proprio tu me lo chiedi» obiettai. «Mi sembra che il
maestro ti abbia riservato un bel trattamento».
«Nessun trattamento. È stata una mia scelta quella di non suonare
all’esibizione finale».
«Non è quello che pensa tuo padre» replicai, e poi, rivolta a Matteo:
«Tu cosa mi dici, cos’è successo l’altro giorno?».
«Gliel’ho già detto» disse lui. «Sono stato io a spingere il maestro,
sono stato io a colpirlo, a dargli un pugno, a rompere il mio violino».
«E questo non è accettabile. Non è normale che succedano cose del
genere durante le sue lezioni».
«Non succede solo questo…» si intromise Sofia.
«Se non era per lui, noi sette probabilmente non saremmo nemmeno
diventati amici» aggiunse Sara.
«Noi non vogliamo un altro direttore» disse Robbo.
«È un anno che studiamo con Marioni, che ci facciamo maltrattare da
lui» prese la parola Rosario. «Il fatto che lo chiamiamo bastardo o
pezzo di merda o stronzo, non vuol dire che lo odiamo, anzi…».
Mi schiarii la voce, non era un’abitudine che dentro il mio ufficio si
sentisse quella terminologia. Ma sorvolai.
«Mi commuove», dissi, «che siate tutti qua a difenderlo inutilmente.
Marioni è un ottimo maestro, sono d’accordo con voi, ma i suoi metodi
di insegnamento sono…», cercai le parole giuste, «sono oltre il limite.
E io non posso più permetterlo. Quindi non cambio idea, e adesso per
favore uscite di qui».
Dovetti risultare convincente perché tutti rimasero in silenzio e poco
dopo, così come erano arrivati, se ne andarono.
42
Ci volli essere anche io alle prime prove dell’orchestra insieme al
maestro Sestieri, seduta in prima fila. Sara, che non avrebbe fatto
parte dell’orchestra nell’esibizione finale, era a poche poltrone di
distanza da me.
Ascoltai tutta la Settima di Beethoven, osservando i ragazzi che
suonavano seguendo i movimenti armonici del loro nuovo direttore.
Alla fine dell’esecuzione, Sestieri disse: «C’è molto da lavorare. Il
ritmo era lento. Archi, attenzione, siete entrati molto indietro, sul
crescendo. Ma è tutto l’ensemble che non funziona. Dobbiamo darci
da fare, tirare fuori determinazione ed energia…».
Tutti annuirono, me compresa. I ragazzi della Compagnia del Cigno
con meno entusiasmo rispetto agli altri.
«Sapete quanto ci tenga la scuola al vostro esame finale e sapete
anche quanta gente importante per voi e per il vostro futuro sarà
presente quel giorno…».
Esatto, pensai, Sestieri aveva proprio centrato il punto, ecco perché
volevo che il saggio finale si svolgesse senza problemi: solo l’anno
prima, Giacomo era fuggito dal palco proprio di fronte a chi avrebbe
potuto decidere del suo destino.
«Io sono arrivato in corsa. A sostituire un mio amico, e non è una
cosa che faccio con piacere. Ma lo faccio per voi, e ho bisogno del
vostro aiuto». Prese fiato un istante. «Il programma, oltre alla sinfonia,
prevede anche delle sonate soliste che concorreranno al premio finale
della scuola. I pezzi per quelli di voi che parteciperanno sono stati già
scelti dal maestro Marioni, ma naturalmente, se avete qualche dubbio
o perplessità, possiamo anche parlarne insieme…».
Chiese persino a Domenico se intendeva tornare a esibirsi al
pianoforte, oltre a suonare il clarinetto nell’orchestra e a presentare il
brano composto da lui, ma lui rispose di no: «Ho dato la mia parola a
un maestro che rispetto».
Ai ragazzi Marioni mancava, inutile girarci attorno. Mi era bastato
assistere a quelle singole prove per rendermene conto.
Decisi che forse potevo fare un mezzo passo indietro, ma solo
mezzo, e richiamai il maestro nel mio ufficio.
«Diriga i ragazzi insieme al maestro Sestieri» gli proposi. «Siete
amici, andrete d’accordo. I ragazzi avranno una possibilità in più».
«E lei potrà dire ai loro genitori che io sono sotto sorveglianza, che
possono stare tranquilli. No, grazie» ribatté lui.
Mi innervosii. «Allora non dica più che vuole bene ai suoi ragazzi.
Che pensa al loro interesse. Lei è solo un narciso, che vuole il potere
di fare quello che gli pare».
Marioni mi fissò con un atteggiamento di sfida. Alla fine, mi disse:
«Sa che c’è? Pensi quello che vuole, non me ne frega un cazzo. Io la
conduzione a due non la accetto».
E senza lasciare altro spazio alla discussione uscì dalla stanza.
Là fuori lo aspettava Matteo.
«Maestro…» gli disse.
«Che c’è?» domando Marioni brusco.
«Devo farle sentire il volino che mi ha prestato Barbara. Me lo aveva
promesso».
Marioni annuì, non se l’era dimenticato, e insieme si recarono
nell’aula di violino. Qui il maestro tirò fuori lo strumento dalla sua
custodia e si mise a osservarlo con attenzione, rigirandoselo fra le
mani.
Matteo era in piedi davanti a lui, lo guardava soddisfatto. «Non è
straordinario?».
«Straordinario devi esserlo tu quando lo suoni», disse Marioni, «ma è
un bellissimo strumento…».
«Spero… spero di usarlo bene, adesso. Con il maestro Sestieri…
non è la stessa cosa».
«Meglio così» disse secco Marioni armeggiando col cellulare.
«Senta, maestro» riprese Matteo dopo un attimo di silenzio. «Parlo a
nome di tutti, almeno di tutti noi sette. Lei deve tornare. Non può
lasciarci da soli. Non riusciamo a suonare bene, non riusciamo a dare
il massimo come ci ha sempre chiesto lei di fare e…».
Marioni stava guardando verso la sua parte, ma aveva lo sguardo
assente, come se neppure lo vedesse.
«Maestro…? Mi sta ascoltando?».
Lui chiuse di scatto il telefono e, come se avesse d’improvviso
ripreso il controllo di sé, gli rispose: «E invece dovrete riuscirci da soli
perché io non tornerò, dovrete farcela senza di me».
«Ma abbiamo bisogno di lei».
«Matteo, piantala».
«Non può finire così» disse Matteo, incapace di arrendersi. «Lei ci ha
aiutato. Ha aiutato me. Io sono cambiato, grazie a lei, e adesso non ci
può abbandonare in questo modo solo perché la direttrice…».
«Basta» lo interruppe Marioni lanciandogli uno sguardo di ghiaccio.
«Non rompermi più i coglioni. Non è stata solo la direttrice. Sono
anche io che non voglio più seguirvi. Potrei farlo insieme a Sestieri, ma
non voglio. Non sei più un bambino. Accetta il fatto che non ci sarò».
Matteo restò a guardarlo in silenzio, scuotendo leggermente la testa.
No, quello non poteva essere davvero lo stesso maestro Marioni che
lo aveva aiutato ad affrontare i suoi fantasmi… doveva essergli
successo qualcosa, Matteo ne era sempre più sicuro.
E non si sbagliava. Quando, poco prima, Marioni stava controllando il
cellulare, a scrivergli era stato Marco, l’uomo che con la sua auto
aveva fatto cadere la bicicletta di sua figlia Serena.
Marco, la sua ossessione.
Qualche giorno prima, dopo aver discusso con Irene, Marioni gli
aveva di nuovo scritto sotto le mentite spoglie di Claudia. Era tutta
colpa di Marco, si diceva, se ora Irene non riusciva ad accettare l’idea
di poter essere di nuovo madre. E per questo doveva pagare.
Quando aveva letto su Facebook un messaggio con cui lui
annunciava a Claudia che aveva organizzato una grande festa a casa
sua, a cui era invitata anche lei, Marioni aveva risposto “Ci sarò”. Poi
aveva aggiunto: “Marco, perché non ci vediamo prima io e te da soli,
così ti faccio gli auguri e ti do il regalo?” e lui, proprio mentre Marioni
stava parlando con Matteo, aveva risposto “Super! Dove vuoi che ci
vediamo e a che ora?”.
Marioni non sapeva bene cosa avrebbe fatto, ma sapeva che Marco
aveva distrutto troppa felicità per poterla passare così liscia.
Aveva ucciso una bambina, e ora stava uccidendo un’altra creatura
prima ancora che potesse nascere.
Quando fu da solo, Marioni gli rispose: “Domani, alle sette, al parco
sotto casa tua”.
Poi chiuse il telefono di scatto, la mano gli tremava.
43
Matteo, uscito di lì, continuò a rimuginare sul comportamento del
maestro Marioni. Non riusciva a darsi pace, e decise che voleva
vederci più chiaro.
Quindi, se Marioni non voleva tornare nell’orchestra, voleva dire che
sarebbe andato lui a casa sua.
E lo fece quella sera stessa. Il maestro abitava vicino all’Arco della
Pace, non lontano da via Paolo Sarpi. Matteo aveva anche una scusa
per quell’improvvisata: gli avrebbe raccontato che il violino gli era
caduto in tram e che aveva bisogno che lui gli desse una controllata.
Suonò al citofono e gli rispose una voce femminile: «Sì, chi è?»,
probabilmente Irene, si disse.
«Buonasera signora, sono Matteo. Ho bisogno di parlare con il
maestro Marioni».
«Secondo piano, Matteo. Sali».
Qualche minuto dopo, in salotto, Marioni stava provando il violino del
nonno di Barbara sotto gli occhi attenti di Matteo.
«Non c’è niente che non vada» fu il suo responso.
«Mi scusi. È che… non volevo… so che è un violino che vale tanto, e
non è mio…».
Marioni glielo restituì. «È tutto a posto», ribadì, «e potevi capirlo da
solo».
«Forse sì… ma l’ansia…» disse Matteo. «Anzi, mi scusi per… per
l’invadenza».
Luca lo fissò come per scrutare nella sua mente. Irene se n’era
andata in un’altra stanza.
«Cosa vuoi, Matteo?» gli chiese. «Siamo solo io e te. Parla. Stai
sicuro che Irene non ci disturberà».
«Voglio sapere che succede» sputò il rospo Matteo.
«Ho litigato con la direttrice» rispose Marioni. «Mi ha proposto di… di
accettare un controllo sulla mia direzione d’orchestra. Non ho
accettato. Fine della storia».
«Non è vero. C’è qualcos’altro».
«Mi stai dando del bugiardo?» Fece un sospiro. «Matteo, qualunque
cosa io stia attraversando, sono fatti miei. Tu non hai il diritto di venire
qui a tormentarmi. Lasciami in pace. Cresci. Fa’ il tuo lavoro. Adesso
prendi il violino e tornatene a casa».
«Mi dispiace se l’ho disturbata» disse Matteo mortificato. Poi, con
una nota di speranza, aggiunse: «Ci vediamo domani. Abbiamo
lezione, si ricorda?».
«Domani non faccio lezioni» disse secco Marioni. «Vengo a scuola
solo a prendere le mie cose».
Per Matteo fu come un pugno dritto nello stomaco. Senza aggiungere
più nulla, se non un «arrivederci», se ne andò, uscendo tristemente
dalla porta.
Quando arrivò a casa, a malapena salutò suo zio Daniele.
Gli disse: «Qui è tutto sbagliato, capito? Tutto sbagliato!», quindi
entrò nella sua stanza sbattendo la porta.
Si sedette sul letto, prese il cellulare e registrò un messaggio vocale
per la chat della Compagnia del Cigno: «Qui serata assurda. Ho visto
Marioni. Gli hanno offerto di tornare insieme a Sestieri. Ma lui non lo
farà. Dice che non accetta controlli».
«Allora, ho ragione io. Non ci tiene abbastanza» rispose Sofia, che
già nei giorni scorsi era stata l’unica a mostrarsi un po’ scettica verso
l’atteggiamento di Marioni. «Comunque, io oggi sono stata male. A
Sara, invece, è andata meglio».
In questa seconda parte del messaggio c’era il riassunto di tutta la
sua ultima settimana.
Una sera, Matteo l’aveva raggiunta al ristorante di sua madre per
farle una sorpresa dopo che lei aveva postato un messaggio in cui
diceva di essere lì a cena da sola. Avevano chiacchierato a lungo e
alla fine Matteo le aveva detto quant’era bello avere un’amica come
lei, che lo comprendeva e con cui si sentiva a proprio agio.
Quelle parole erano state per Sofia come la conferma che non
sarebbe mai riuscita a conquistarlo. Forse aveva ragione suo fratello
Scheggia quando le aveva detto che lui sceglieva le ragazze soltanto
in base al fisico. Così, Sofia si era messa a dieta: una dieta a base di
beveroni multivitaminici che, sì, forse la stavano facendo dimagrire,
ma le stavano anche facendo perdere le forze.
Anzi, le forze le aveva già perse, perché un pomeriggio era pure
svenuta in mezzo alla strada.
Aveva chiesto a Sara di aiutarla a vendicarsi della commessa di un
negozio che l’aveva trattata male, facendola sentire – come spesso le
accadeva – una ragazza troppo grassa per potersi permettere certi
vestiti.
Sara, armata del suo bastone, aveva cominciato a far cadere vestiti a
destra e a sinistra e alla fine le aveva pure spiaccicato un cono gelato
sulla camicetta.
Più che soddisfatta, aveva poi raggiunto Sofia, che l’aspettava in una
viuzza poco distante, e le aveva raccontato tutto quello che aveva
fatto, finché non l’aveva più sentita parlare: sentendosi svenire, infatti,
Sofia era caduta a terra come una pera matura lì in mezzo alla strada.
Sara aveva chiamato un’ambulanza ed era stata tutto il tempo con lei
in ospedale, dove le avevano ordinato di ricominciare a mangiare
immediatamente. Alla fine, l’aveva accompagnata a casa e lì aveva
conosciuto Andrea con cui, be’… nel giro di un quarto d’ora Sara era
finita a letto.
L’avevo detto, no, che Sara in ambito amoroso non aveva
nessunissimo problema se non quello di tenere a bada i suoi
ammiratori?
«Non infierire» intervenne Sara nella chat di gruppo. Quindi, tornando
a ciò che aveva detto Matteo, chiese: «Che vuol dire che l’hai visto?
Che hai fatto con Marioni?».
«Voglio sapere tutto», si intromise Barbara, «ma non posso parlare.
Non ci credo che Marioni non ci voglia. Qui mio padre non molla,
Domenico è esaurito… domani vi racconto!».
Alla fine, infatti, la cena a casa di Barbara si era fatta, nonostante il
papà di Domenico si fosse mostrato contrario. Secondo lui, infatti, per
colpa di Barbara suo figlio aveva rinunciato all’esibizione di fine anno.
Chi, invece, a quanto pare, lo stava facendo esibire fino allo sfinimento
era il padre di Barbara, Eugenio, che gli aveva chiesto di suonare
qualcosa per loro.
I ragazzi si scambiarono ancora qualche messaggio. L’unico che non
scrisse nulla, quella sera, fu Rosario. Non aveva voglia di rispondere
ai suoi amici, e questo non passò inosservato a Clelia, che in quel
momento stava lavando i piatti e aveva ascoltato i loro messaggi
vocali.
«Be’, come mai non rispondi?» gli disse la donna. «Non vuoi sapere
di Marioni?».
Rosario si alzò senza rispondere neppure a lei.
«Rosario!» lo richiamò la donna. «Da quand’è che nemmeno mi
rispondi? Cosa c’è? Sono due giorni che sei strano. È perché domani
vai da Antonia?».
Finalmente, Rosario cominciò a parlare: «È che mi sembra di fare
tutto per l’ultima volta, e non mi piace. Anche questa cena qui, anche
questo momento».
«Ma tu potrai venire a cena qui quando ti pare».
«Non è la stessa cosa. Non sarà mai la stessa cosa. Anche a scuola,
con i miei amici… Loro continueranno a vedersi, a fare le cazzate
insieme…».
«Mentre tu conoscerai altri amici, un’altra scuola…».
«Ma qui la vita andrà avanti lo stesso e io non ci sarò… il bar qui
sotto, la spesa al supermercato… e loro suoneranno, rideranno,
continueranno a scriversi su questa stupida chat. E allora, cosa ci sto
a fare qui dentro adesso, che gli rispondo a fare, se tanto prima o poi
lo so che finisce? Se tanto è tutto a scadenza?».
Clelia lo osservò per un istante, poi si asciugò le mani con una
pezzuola.
«Vieni con me, non fare domande» disse. «Qui finirò dopo, devo
prima farti vedere una cosa…».
Quando Rosario era arrivato a stare da loro, i primi giorni non parlava
molto. Ci era voluto del tempo perché cominciasse ad aprirsi, e
persino a scherzare.
Molto avevano contribuito le serate che lui, Clelia e Roberto
passavano sul divano guardando un film. Per prima cosa c’era la
scelta, che spesso non metteva tutti d’accordo. Poi, alla fine, insieme
lo commentavano, gli davano i voti, pensavano al prossimo da vedere.
Quella sera fu Clelia a decidere. Gli avrebbe fatto vedere Stand by Me
– Ricordo di un’estate.
«È solo un film, su dei ragazzi e sulla loro amicizia… e a volte le
immagini fanno più di un sacco di parole».
Quelle immagini funzionarono perché il giorno successivo, dopo
essersi trasferito ufficialmente a casa di sua madre, Rosario registrò
un lungo messaggio per tutti i suoi amici della Compagnia del Cigno:
«Ciao, eccomi qui. Come vedete non sono sparito, e se non la
smettete di mandarmi tutti quei messaggi, mi sa che la chat va in tilt.
Volevo dirvi che in questi giorni ho pensato che ci sono un sacco di
cose a termine nella vita e lo continuo a pensare. Ma ho capito che
l’amicizia non è una di queste, che gli amici sono per sempre, dico gli
amici veri, insomma quelli come noi… e non mi voglio far rovinare
queste ultime settimane insieme a voi, che potrebbero essere le più
belle della mia vita e che poi potrei ricordare all’infinito e portare con
me…».
44
C’era qualcun altro, adesso, che però aveva bisogno di un amico, un
amico vero. E non era uno dei ragazzi della Compagnia del Cigno.
Tutto sommato, infatti, loro stavano bene. Qualche mese prima
sarebbe sembrato incredibile, ma tutti avevano attraversato un periodo
difficile e ne erano usciti cambiati, più forti.
Persino Robbo e Chiara avevano fatto pace dopo che la bambina
aveva scoperto, ascoltando una conversazione al telefono, che il
padre aveva quella nuova fidanzata già da prima che lui e la mamma
si separassero.
Chi invece era giunto a un punto morto, senza alternative, era il
maestro Luca Marioni.
E Matteo lo sapeva il pomeriggio in cui lo raggiunse in aula violino.
«Salve, maestro».
«No, Matteo… te lo avevo detto. Niente lezione oggi. Non posso» lo
fermò subito Marioni.
Matteo era rimasto a fissarlo, aveva cercato di capire, guardandolo
negli occhi, cosa gli stesse succedendo.
E quando Marioni se ne andò, decise di seguirlo fino alla sua
macchina.
«Sto male… non so cosa mi succede… ma mi manca il respiro…»
disse aprendo lo sportello passeggero per impedirgli di partire.
«Matteo, io devo andare, ho un impegno…».
Lui lo supplicò di non lasciarlo. Sì, è vero, stava male: vedere Marioni
in quelle condizioni gli aveva accelerato il respiro, mettendogli
addosso una paura che non sapeva spiegarsi. Ma soprattutto aveva la
sensazione che Marioni stesse andando a fare qualcosa di stupido.
Qualcosa di brutto.
La sua sensazione non era sbagliata: proprio in quel preciso istante,
Marco stava aspettando Luca Marioni – o meglio, stava aspettando
una fantomatica Claudia, e continuava a scriverle: “Ehi, Claudia, che
fine hai fatto? Ti sto aspettando…”. Solo che Claudia, adesso, non
poteva raggiungerlo.
Erano insieme già da un po’, fermi nel parcheggio del Cimitero
Monumentale, in piedi fuori dall’auto, quando Matteo chiese a Marioni:
«Sta tanto male per sua figlia, vero? È arrabbiato».
Luca lo guardò, come bloccato.
«I suoi occhi…» proseguì Matteo emozionato. «Il suo sguardo… io lo
conosco… è lo stesso che aveva papà quando mia mamma è morta…
è lo stesso che sento di avere io quando penso a lei, quando penso
che non c’è più… e c’è una rabbia così forte che mi viene da dentro e
che mi fa tremare… e che mi fa venire voglia di far male a qualcuno».
«Basta, Matteo» gli intimò Marioni.
Ma Matteo continuava: «Io non lo cos’è questo appuntamento, ma so
che lei sta andando a fare qualcosa di brutto…».
Ecco, finalmente glielo aveva detto.
«Cosa ne sai tu di quello che mi passa per la testa?» sbottò Marioni.
«Io lo vedo. È disperato, e non voglio che si faccia del male…».
«Perché, Matteo, perché?» chiese a voce più bassa. «Cosa ti
importa di me?».
«Perché non voglio che anche lei sparisca dalla mia vita! Non voglio.
Adesso non mi può lasciare, ha capito? Non può farlo!».
Marioni sentì gli occhi inumidirsi, quasi non riusciva a sostenere lo
sguardo di quel ragazzo. Per la prima volta, dopo tanto tempo, si sentì
finalmente capito.
Non si trasformò in Claudia. Non andò all’appuntamento con Marco.
Restò ancora con Matteo e quando lo accompagnò a casa, prima di
salutarlo gli consegnò uno zainetto e gli ordinò: «Buttalo nel primo
cestino».
Matteo annuì. «Sì, buonanotte, maestro».
Quando Matteo fece per buttarlo, decise prima di aprirlo. Dentro lo
zainetto c’era un sacchetto nero, pieno di bulloni e pezzi di ferro.
A cosa servivano?
Matteo se lo chiedeva, ma dentro di sé aveva già la risposta. Era una
risposta che gli metteva i brividi.
Senza aspettare oltre, spaventato, Matteo lo rovesciò dentro al
cestino.
Sperava che anche Marioni, con quel gesto, si fosse liberato per
sempre dei suoi fantasmi proprio come lui era appena riuscito a
liberarsi dei propri.
Non so se i suoi fantasmi potessero sparire tanto facilmente, ma una
cosa, di sicuro, quella sera, rientrando a casa, Marioni la fece.
Prese una decisione: non voleva più vivere in un limbo.
Andò da Irene e le disse, senza mezzi termini o giri di parole: «Voglio
che vai via. Subito. Domani. Non possiamo stare insieme così. Se
questa è la tua decisione, sono io a non farcela».
45
La luce del mattino portò una novità nella sala Verdi del Conservatorio,
dove i ragazzi dell’orchestra, dopo aver accordato i propri strumenti,
erano tutti schierati sul palco in attesa che il maestro Guido Sestieri
desse l’avvio.
La porta dell’aula si aprì all’improvviso, e il maestro Luca Marioni fece
il suo ingresso. Tutti lo seguirono allibiti mentre, a passo deciso,
raggiungeva Sestieri.
«Be’, cosa sono quelle facce stupite?» chiese. Non era quello che
volevate?». Poi, rivolto a Sestieri che aveva ancora la mano sollevata,
disse: «Ho avuto bisogno di un po’ di tempo per pensarci… ma accetto
la conduzione a due».
«Ah, bene…» sorrise Sestieri. «Sono molto felice».
«Meglio così» replicò Marioni. «Adesso, avanti, lavoriamo, che
abbiamo già perso troppo tempo. Sul saggio finale vi giocate la
carriera. Cominciamo a fare musica, qui dentro!».
I ragazzi della Compagnia del Cigno furono quelli che accolsero la
notizia con maggiore entusiasmo, ma le prove di quel giorno non
furono esaltanti, né per Marioni né per Sestieri, che già aveva
espresso a tutti quanto ci fosse ancora bisogno di lavorare.
Marioni, come suo solito, non si limitò in alcun modo nei giudizi.
«Allora, ragazzi», esordì il giorno dopo, «io e il maestro Sestieri ci
siamo confrontati dopo le prove di ieri sera. Ed è opinione condivisa
che con la sinfonia di Beethoven siamo a un livello di esecuzione
infame. Degradante. Per voi e per noi».
I ragazzi si guardarono l’un l’altro imbarazzati.
E un po’ imbarazzato lo era anche Sestieri: «Io non ho detto
esattamente questo».
«Con parole più gentili», ammise Marioni, «ma comunque il concetto
è lo stesso. Da questo momento in poi, tutte le vostre energie
dovranno essere votate esclusivamente al saggio finale. I pezzi da
solista vi sono già stati assegnati. Avete il calendario con gli orari delle
prove con i vostri rispettivi maestri. Rimane solo una questione in
sospeso».
Quella questione aveva un nome: Domenico.
Tutti – io, la Bramaschi, Sestieri e perfino Marioni – eravamo
d’accordo che Domenico sarebbe dovuto rientrare nell’esibizione
finale, non solo come membro dell’orchestra e nella sezione
composizione, per cui lui avrebbe presentato una sua creazione
originale. Se non voleva suonare con Barbara, bene, ma almeno
avremmo tutti voluto che si esibisse come solista.
«No, mi dispiace» fu la risposta di Domenico. «Ma ho fatto una scelta
quando me ne è stata data la possibilità».
«Avevi una borsa di studio assicurata» gli fece notare Sestieri.
«Pazienza, la prenderò l’anno prossimo» disse Domenico, più deciso
che mai ad andare avanti per la sua strada.
«Bene» disse Marioni. «Allora sarà un problema della Bramaschi
trovare qualcuno che si esibisca per il saggio di pianoforte».
E c’era anche chi sapeva già su chi sarebbe ricaduta la scelta.
«Io una mezza idea ce l’ho» disse Sara al bar, quando le prove
furono terminate. «Ma non ve la dico, sennò pensate che io sia
davvero troppo più intelligente di voi e vi avvilite».
«Ma che significa?» chiese Matteo, seduto accanto a Sofia e
Rosario.
«Che siamo in una situazione tipo Assassinio sull’Orient Express.
Questa scuola non può presentarsi senza un solista al piano. E la
vittima è uno di noi. Uno della Compagnia».
Sara era perspicace come al solito. C’era, infatti, un motivo preciso
perché Robbo, in quel momento, non era con loro al bar: si trovava
nell’aula di pianoforte insieme alla maestra Bramaschi, che gli aveva
appena annunciato la novità.
«Ma no, no, non è possibile, no!» protestò Robbo. «Io non ce la
posso fare… non se ne parla!».
«Ce la farai, invece» ribatté lei. «Sei perfettamente in grado, in
quest’ultimo anno sei migliorato tantissimo».
«Non così tanto da presentarmi da solo sul palco e suonare il mio
secondo strumento! Ma siete così disperati? No!».
«Ascolta, Robbo, io sono la tua maestra e decido io» proseguì la
Bramaschi. Porterai la Fantasia-Improvviso op. 66 di Chopin che stai già
studiando. Sarai tu il nostro solista» aggiunse raggiante, nel tentativo
di motivarlo e indorargli la pillola.
«Bene» mormorò Robbo in tono amaro. «Grazie tante, Domenico».
«Non c’entra Domenico» precisò la Bramaschi. «Avrei potuto
scegliere un altro studente, e invece scelgo te. Capisco che tu sia
nervoso, ma è una grande opportunità».
«No. Se fossi preparato, sarebbe una grande opportunità. Con così
poco tempo, invece, ho solo l’opportunità di fare una pessima figura».
La Bramaschi non voleva più sentirne parlare. «È deciso» disse. «Ci
vedremo tutti i giorni fino al concerto».
«Benissimo. Vado a legarmi al pianoforte» brontolò Robbo e, preso lo
zaino, se ne andò per nulla felice di quella novità.
In quel momento stava entrando Irene. E se si trovava lì, era perché
io stessa l’avevo convocata.
Quando mi raggiunse nel mio ufficio insieme alla Bramaschi, le
spiegai nel dettaglio qual era la mia idea: Irene si sarebbe occupata
dei ragazzi della Bramaschi, mentre lei avrebbe preparato Robbo per il
saggio finale.
Irene accettò immediatamente, e io mi sentii subito più rilassata.
Il Conservatorio, e lo si poteva percepire, era già in fibrillazione per la
fine dell’anno.
E io volevo che tutto andasse per il verso giusto.
46
Qualcosa, invece, non stava andando come doveva nella classe della
professoressa Parise.
Era impossibile, infatti, dire che fra le priorità dei suoi studenti ci
fosse lo studio della letteratura italiana, e lei aveva deciso di fare un
discorsetto a tutti quanti. L’ennesimo di una serie, che però non
avevano sortito alcun effetto: la preparazione dei suoi studenti era
lontana, anzi lontanissima, dalla sufficienza. Anche considerando che
quello era un liceo musicale, e non il liceo classico da cui veniva
Barbara.
«Mi sembrava di essere stata molto chiara l’ultima volta», esordì in
piedi davanti alla cattedra, «ma forse non abbastanza, visto che
ancora qualcuno di voi non ha capito la situazione disastrosa in cui
versa… Allora lo farò adesso».
Si prese una pausa, durante la quale, stranamente, nessuno fiatò.
Forse anche la classe sentiva il peso della fine dell’anno scolastico.
«Sara…» disse.
Lei sollevò il viso, sorpresa di essere stata chiamata. «Sì, prof?».
«Sara, tu, per esempio, sei cosciente del fatto che verrai bocciata e
dovrai ripetere l’anno?».
«In che senso, scusi?» saltò su lei.
«Nel senso che ti boccio, Sara… cosa ti aspettavi?».
«Ah… in questo senso proprio».
Il silenzio che la Parise aveva conquistato si frantumò in una risata
collettiva.
«D’altra parte», soggiunse la Parise prendendo in mano il registro e
aprendolo, «dati alla mano, non posso fare diversamente».
«No, però, scusi, professoressa, parlando seriamente…» disse Sara,
che ancora aveva sul volto un’espressione stupita, come se quella
conversazione non stesse davvero accadendo.
«Io sono serissima Sara», la interruppe la professoressa, «mai stata
così seria, al contrario dei tuoi amici che ridacchiano laddove non c’è
niente da ridere, perché questa situazione riguarda anche buona parte
di loro. Tu, Sara, sei solo la punta di diamante di una classe
disastrosa, forse la più disastrosa che mi sia capitata».
«Ma io non posso essere bocciata» protestò Sara, anche lei seria.
«Non starei più qui insieme ai miei amici, cambierebbe tutto. Non è
possibile».
La Parise sollevò le sopracciglia. «Se questo è il tuo modo per
chiedermi se puoi rimediare, ti dico che non puoi farlo».
Sara scattò in piedi. «Come non posso farlo?!» esclamò. «C’è ancora
un sacco di tempo. Mi farò interrogare».
«E per tutto il corpo insegnante sarebbe un piacere, oltre che un
onore, sentire la tua voce, visto che è ciò che hai evitato di fare per
tutto l’anno. Ma non dovresti limitarti a farti interrogare, Sara, dovresti
anche prendere buoni voti, almeno in quelle che vengono considerate
le materie principali di questo liceo: letteratura, storia, matematica…
pensi sia una cosa possibile?».
«Ma sì, sì, certo» rispose Sara con decisione. «Assolutamente».
La Parise rivolse un sorriso a tutta la classe. «L’avete sentiva anche
voi» disse. «Benissimo. Sono qui e aspetto fiduciosa, Sara… Adesso
andiamo avanti con il programma di storia. Sentiamo, allora, Tozzi…».
A quel punto Rosario si alzò in piedi. «Eh no, però!» la interruppe.
«Non ci può massacrare così, noi dobbiamo preparare il saggio».
«È vero», intervenne Matteo, «qui dentro siamo gli unici a stare
anche nell’orchestra».
«E quindi?» li sfidò la Parise.
«E quindi basta, lei non ci può interrogare» rispose Robbo.
«Quello che abbiamo fatto, abbiamo fatto» aggiunse Domenico.
Perfino Barbara prese la parola: «Hanno ragione. Queste
interrogazioni dovrebbero saltare».
«Fatemi capire» disse la Parise allibita. Mai, infatti, le era successo
qualcosa del genere. «In quanti, qui dentro, condividono questo bel
pensiero?».
Ad alzarsi furono in sette, i sette componenti della Compagnia del
Cigno.
Com’era prevedibile, poco dopo me li ritrovai tutti fuori dall’ufficio
della presidenza, mentre aspettavano che io parlassi con il maestro
Marioni, accorso a perorare la loro causa.
Alla fine, ascoltato tutto, sospirai. «Posso intercedere per gli altri»,
dissi al maestro, «visto che sono impegnati alle prove. Ma non per
Sara. Lei rischia davvero di perdere l’anno».
«Noi dobbiamo dargli una formazione musicale, prima di tutto» fece
Marioni. «Mi faccia parlare con la professoressa di italiano».
«No, mi dispiace» risposi. «Io tengo quanto e più di lei che i ragazzi
facciano una bella figura al saggio. Ci saranno i direttori delle principali
scuole europee. Sara può anche decidere di perdere l’anno al liceo,
ma lei sa cosa significa. Impiegherà un anno in più a iniziare il corso
accademico».
«E quindi non potrà partecipare in tempo ai concorsi» completò la
frase Marioni con un’aria preoccupata. «È una trappola».
«Sì, lo è» confermai io.
Non c’era altra scelta, quindi. Sara doveva impegnarsi nello studio, e
doveva impegnarsi sul serio se non voleva compromettere tutta la sua
vita.
47
Se Sara voleva farcela, aveva bisogno di aiuto. Di tanto, tanto aiuto.
E i ragazzi della Compagnia erano pronti a darglielo. Peccato che
l’unica che minimamente potesse davvero darle una mano a
recuperare qualcosa era Barbara.
Anche Barbara, però, si rese presto conto che era una missione
quasi impossibile.
«Bene, ripassiamo il Neoclassicismo» le disse quando quella sera
Sara andò fino a casa sua per mettersi all’opera. «Sai dirmi cos’è,
prima di tutto?».
Erano sul divano, e Barbara aveva un libro di testo aperto sulle
ginocchia.
«Ehm… è un movimento culturale che nasce intorno al Settecento-
Ottocento…».
«Sono cento anni di differenza, Sara!» esclamò Barbara. «Non puoi
dire “intorno”. Pensaci un momento… abbiamo detto che il
Neoclassicismo è una reazione allo stile eccessivo del Barocco e del
Rococò e che…».
In quel momento, sul cellulare di Barbara arrivò un messaggio.
«E che…» mormorò Sara. Poi, cambiando di colpo tono: «Chi è,
scusa? No, perché ti sento distratta e perdo la concentrazione».
«Domenico…» rispose Barbara. «Non sappiamo che fare. Sta
insistendo, ma suo padre non vuole venire a cena qui. L’idea di mia
madre non ha funzionato».
Il padre di Domenico, infatti, aveva continuato nella sua linea dura nei
confronti della relazione del figlio con Barbara, anzi si era persino
inasprito. Ora non voleva nemmeno che Barbara mettesse piede in
casa loro, così i due neofidanzati trascorrevano moltissimo del proprio
tempo lì, in piazza Eleonora Duse. Quando però la madre di Barbara
aveva scoperto il motivo per cui Domenico era sempre lì, aveva deciso
di intervenire e di mandare un invito scritto a Vincenzo. Invito che però
Vincenzo aveva rifiutato categoricamente.
«Questo fa sul serio, allora? Non lo capisco proprio» commentò
Sara. «Se i miei sapessero che sono fidanzata con uno più ricco di
me, sparerebbero i botti, ne sono sicura».
«Purtroppo, non sono tutti come i tuoi, Sara».
«Non potete fregarvene e basta?».
«Adesso è più difficile» rispose Barbara. «Mia madre ci resterà male,
magari si offenderà e questo rischia di diventare un affare di Stato, che
palle».
«Meglio stare da sola», fece Sara, «io l’ho sempre detto. Amici,
eventualmente un po’ di sesso in giro e basta così…». Fece una
pausa, quindi abbassò la voce. «E comunque, adesso, se sei troppo
turbata per continuare lo capisco. Dai, chiudiamo».
«Non ci provare, Sara, mi devi ancora dire le date del
Neoclassicismo».
Sara lasciò cadere la testa sulla spalliera del divano, poi si portò le
mani sul viso. «Non hai pietà di una povera non vedente?».
Barbara scoppiò a ridere.
«No, non ce l’hai, né tu, né la Parise. Porca miseria!».
E a dirla tutta non ce l’avrebbe avuta neppure Mattozzi, il prof di
matematica.
Fu per questo che Sara chiamò una delle persone a cui meno
avrebbe immaginato di rivolgersi, e che meno avrebbe immaginato di
poter richiamare, e invitare addirittura a casa.
Il giorno dopo, “Gigi Lamento” era lì nella sua stanza, seduto sul letto
con l’aria smarrita.
Sara si sedette accanto a lui e gli prese la mano. «Perché ti guardi
intorno, scusa?» gli chiese.
«Come fai a saperlo?».
«Lo sento. Perché lo fai?».
«Perché penso sia uno scherzo e che ci sia una telecamera
nascosta».
«Ascolta, Gigi, non dire sciocchezze come al tuo solito».
«Perché mi hai chiamato?».
«Devo farti una domanda. Tu mi vuoi bene, vero?».
Gigi restò un attimo in silenzio. Poi disse: «Sì, purtroppo».
«Ecco, allora devi sapere che mi stanno per bocciare» vuotò il sacco
Sara. «E tu mi puoi aiutare. Se ben ricordo, mi hai detto che a scuola
eri bravo in matematica».
«Sì, avevo otto. Invece, nelle altre materie…».
«Le altre materie non ci importano. È in matematica che ho bisogno
di aiuto perché sono una pippa» spiegò Sara senza, come di
consueto, tanti giri di parole. «Tu mi puoi dare delle ripetizioni, sì?».
«I-io… sì…» balbettò lui.
«Questo non significa che noi ci rimetteremo insieme, però, voglio
essere onesta» precisò lei. «Questo non succederà mai».
«Quindi non ci uscirà niente?» fece lui un po’ interdetto.
«No, Gigi, niente di niente. Il nulla cosmico. Lo fai per me e basta.
Perché mi vuoi bene. E dovremmo anche cominciare subito».
Gigi sospirò. «Dove sono i libri?» chiese.
Così Sara seppe di aver trovato il suo insegnante privato di
matematica – un insegnante che non avrebbe neppure dovuto pagare.
Praticamente, aveva fatto tombola.
48
Da quando era arrivato a Milano, ormai qualche mese prima, Matteo
non aveva più rimesso piede nella Stazione Centrale.
Ora, ritrovarsi sotto quelle immense arcate nere gli dava un’emozione
strana. Quant’era cambiato in così poco tempo… Tutto quel
movimento, tutte quelle persone vestite alla moda, adesso non gli
facevano più impressione, non lo facevano più sentire come un
ragazzino perso in una grande metropoli.
Era riuscito, grazie alla musica, grazie al suo maestro, grazie ai suoi
amici, a riprendere possesso di sé.
Eppure, era agitato mentre aspettava l’arrivo di suo padre Antonio,
che, per la prima volta, aveva deciso di salire a trovarlo.
Quella notte lo aveva anche sognato. Nel sogno, lui e il padre
stavano camminando lungo una strada, in silenzio. A un certo punto,
l’uomo gli aveva messo una mano sulla spalla, ma Matteo l’aveva
spostata bruscamente.
Si era svegliato di scatto, in un bagno di sudore, come se avesse
appena fatto un incubo, anche se in realtà non aveva sognato nulla di
che – o almeno gli sembrava.
Ora, mentre lo aspettava alla Stazione Centrale, era così nervoso
che pure suo zio Daniele non poté non accorgersene.
«Tutto bene?» gli chiese.
Matteo annuì, ma ebbe un sussulto quando lo zio annunciò:
«Eccolo!» e lui, voltandosi, vide suo padre che, con una valigia in
mano, stava attraversando il varco e gli stava venendo incontro con un
sorriso.
«Matteo…!» esclamò l’uomo.
«Ciao, papà…» rispose Matteo.
Poi si abbracciarono. Un abbraccio breve, dal quale Matteo si staccò
quasi subito.
Fu in quel momento che nella sua mente apparve un’altra immagine,
come la continuazione del sogno che aveva fatto quella notte.
Vide ancora se stesso e suo padre. Dopo avergli scostato
bruscamente la mano dalla spalla, Antonio lo aveva abbracciato, ma
Matteo si era come sentito a disagio.
Era un sogno? Oppure un ricordo? Matteo era confuso.
«Madonna, hai un’altra faccia. Sembri più grande…» disse Antonio
guardandolo.
«Insomma, dai…», rispose Matteo, «sono sempre lo stesso…».
«Hai visto?» intervenne Daniele come se si fosse accorto che il
nipote non era del tutto tranquillo. «Sarà stata la mia pasta a farlo
maturare… come stai, Anto’? Hai fatto buon viaggio?».
«Ciao, Daniele» lo salutò Antonio, che fino a quel momento aveva
avuto occhi solo per suo figlio. «Sì, bene… sono contento».
«Anche noi, molto… Dai, andiamo, ti porto a casa, che Matteo deve
andare a scuola».
Matteo venne al Conservatorio, fece le sue prove, vide i suoi amici, ma
quando tornò a casa, quel sottile disagio per la presenza di suo padre
c’era ancora.
Era una sensazione che non riusciva bene a spiegarsi. Era per colpa
di quel sogno – o piuttosto di quel ricordo? – o perché suo padre
aveva portato con sé un pezzo di un mondo in frantumi che ancora lo
faceva soffrire?
Quella sensazione non lo abbandonò per tutto il pomeriggio, e poi
durante la cena, e ancora quando fu il momento di andare a letto.
Suo padre avrebbe dovuto dormire con lui, ma Matteo non riusciva a
prendere sonno. A un certo punto, era già sera tardi, andò a bussare
alla porta di suo zio Daniele. O meglio, non bussò, aprì semplicemente
la porta, beccando lo zio impegnato in una videochiamata con l’altro
Daniele, con cui nel frattempo era riuscito a risolvere la situazione.
O meglio, a risolverla erano stati Matteo e Olga, la sua coinquilina.
Avevano teso a entrambi una trappola, rinchiudendoli da soli in casa. I
due erano stati costretti ad affrontarsi, e di lì a poco avevano fatto
pace come la farebbero due persone innamorate e irresistibilmente
attratte l’una dall’altra.
E non fatemi scendere nei dettagli, perché sono pur sempre la
direttrice del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano…
«Ehi, ciao… che succede?» chiese Daniele a Matteo, vedendolo lì
sulla soglia della sua stanza.
«No, niente, scusami…» tentennò un po’ Matteo. «Posso dormire qui
con te?».
«Sì, certo… ma… come mai?».
Matteo sollevò le spalle. «Non lo so… non riesco a dormire con papà,
forse ho perso l’abitudine» minimizzò lui.
Daniele gli sorrise, facendogli segno di accomodarsi nel suo letto. «E
vieni… tanto sono solo…».
«Ma che, ti imbarazzi di Daniele perché c’è papà?».
«Ma no, figurati…» rispose lo zio. Poi, facendosi quasi piccato: «La
smetti di essere così… così… così che capisci tutto? Mi fai paura, mi
fai…».
Scoppiarono a ridere, e quella risata dissipò la tensione che Matteo
aveva accumulato fin da quando, quella mattina, era andato alla
stazione ad aspettare l’arrivo di suo padre.
Perché si sentiva così?, si chiese ancora.
Il giorno dopo, però, quell’umore nero sembrava come scomparso.
Matteo portò addirittura suo padre a vedere il Conservatorio, gli fece
conoscere Marioni – che però non volle perdere tanto tempo in
chiacchiere – e anche la seduta dall’analista, che per lui non era mai
qualcosa di piacevole, passò in un attimo.
«Oggi mi è sembrata più veloce del solito, delle volte invece il tempo
non passa mai…» disse alla dottoressa Carli alzandosi dalla poltrona
per andarsene.
L’analista gli sorrise e si alzò anche lei per accompagnarlo alla porta.
«Generalmente, dipende dagli argomenti che si toccano o anche
semplicemente dall’umore del paziente», spiegò lei, «e il tuo oggi mi
sembrava molto buono».
«Sì, è vero», confermò Matteo, «se poi stasera riesco a convincere
Daniele a fare una cena anche con papà e i vicini, diventa ottimo».
L’analista si fermò. «Tuo padre viene a Milano?».
«È arrivato ieri, per il saggio finale» rispose Matteo.
La dottoressa lo scrutò. «Non è strano che in un’ora di seduta questa
cosa non sia mai uscita fuori?».
«Cosa?».
«Be’, il fatto che tuo padre fosse a Milano. Non me l’hai detto».
«Che dovevo dire…? Sono contento che sia qui, che sia venuto a
trovarmi… anche se stanotte non sono riuscito a dormire con lui».
Prima che l’analista potesse aggiungere qualcosa, disse: «È perché mi
imbarazza, credo… forse perché sono diventato grande… non sono
abituato…».
La dottoressa gli aprì la porta, e dandogli una mano gli disse:
«Magari la prossima volta ne parliamo un po’… tu però intanto
pensaci. D’accordo?».
Matteo annuì e uscì da quella stanza con addosso la strana
sensazione che aveva provato per tutto il giorno precedente.
Sì, la dottoressa aveva ragione, doveva rifletterci: perché si sentiva
così con suo padre?
49
La cena di cui Matteo aveva parlato con l’analista, alla fine si
organizzò, ma lui dovette annullare le prove con Sofia. Le mandò un
messaggio veloce e poi si mise all’opera: c’erano tantissime cose da
fare, e il tempo era poco.
Ma all’ora del loro appuntamento, il campanello della casa di suo zio
Daniele suonò ugualmente.
Matteo corse ad aprire chiedendosi chi potesse essere adesso, e si
ritrovò davanti il volto sorridente di Sofia.
«Ciao…».
«Sofia? Ciao…» disse lui stupito. «O cazzo… non hai ricevuto il mio
messaggio?».
«Che messaggio…?» chiese lei.
«Cavolo, scusami…» disse lui mortificato. «No, è che… che c’è mio
padre, qui, stasera… è una cosa importante».
Proprio in quel momento, dietro di lui comparve l’altro Daniele:
«Matteo, vieni, appena puoi, che tuo zio sta completamente nel
panico…».
Matteo annuì. «Per questo ti chiedevo di rimandare» disse con uno
sguardo eloquente a Sofia. «Mi dispiace…».
«Va bene, ho capito» disse Sofia improvvisamente nervosa. «Non ce
l’ho con te. Però prendi, sposti, fai, come se io fossi a tua
disposizione».
«No, scusa, è che…» balbettò Matteo spaesato da quella reazione.
«Senti, non è che sei uno stronzo», proseguì Sofia, «è che io per te
non esisto proprio… Non è colpa tua, non lo fai apposta. Scheggia ha
sempre ragione…».
In quel momento, Sofia ripensò a tutte le volte che suo fratello l’aveva
avvertita: ad andare dietro a Matteo si sarebbe schiantata contro un
muro, era troppo bello per lei, diceva. E adesso stava succedendo
proprio questo: si stava proprio schiantando contro un muro.
Quindi si girò e fece per andarsene via.
«No, Sofia, aspetta…» le disse Matteo.
Lei si rivoltò verso di lui. «Lascia stare, Matteo. Io ho capito tutto, ma
tu risparmiami queste cazzate, va bene? Basta. Adesso basta».
E questa volta corse giù per le scale con il violoncello sulle spalle.
Matteo rimase a fissarla, non sapendo cosa fare, finché Olga venne a
prenderlo sottobraccio per trascinarlo dentro, in sala da pranzo.
«Carina… chi era?» gli domandò.
«È una mia amica…».
«Ragazzi, è ufficiale», disse Olga, «Matteo è pieno di femmine».
Tutti scoppiarono a ridere, e la cena proseguì fra altre risate, battute
e, ovviamente, la carbonara di zio Daniele.
Quando Daniele e Olga se ne furono andati, come la sera prima
Matteo andò a dormire in camera dello zio.
Non riusciva però a prendere sonno, forse per colpa della carbonara,
così a un certo punto si alzò per andare in cucina.
Lì trovò suo padre, che beveva un bicchiere d’acqua.
«Non dormi neanche tu, Matteo?» gli chiese.
«Non lo so perché… mi è passato il sonno».
«Dicono che quando il sonno non viene non bisogna aspettarlo.
Bisogna far finta di niente. Pensare ad altro».
Matteo lo guardò, e l’occhio gli cadde su una cicatrice che il padre
aveva sul braccio.
«Ti fa ancora male?» gli domandò.
«No, solo qualche volta quando cambia il tempo» rispose Antonio. «È
per via del chiodo… me l’avevano detto che sarebbe successo».
«È per quella caduta… quando sei scivolato».
«Sì, certo… quando sono scivolato… Te lo ricordi?».
«Sì, insomma… io di quei mesi mi ricordo molto poco. Anzi, non mi
ricordo quasi niente».
Antonio gli si avvicinò, fece per passargli la mano fra i capelli, ma si
fermò a dargli una leggera carezza sulla guancia.
«Meglio così…» disse. «Sono stati mesi duri, e la mia è stata una
brutta caduta».
Non si dissero più nulla. Si diedero la buonanotte e tornarono a
dormire.
Il sonno, finalmente, arrivò.
La giornata di Matteo, l’indomani, fu particolarmente impegnativa, in
particolare con Marioni, che durante le prove lo riprese più e più volte.
«Improvvisamente», raccontò alla dottoressa Carli nel pomeriggio, «a
sentire Marioni non funziona più niente, non riusciamo a suonare
come vorrebbe. E alla fine, anch’io ho questa sensazione di non
riuscire a suonare come vorrei».
«Ed è una sensazione che ti fa arrabbiare?» gli chiese la dottoressa.
«Sì, molto…» rispose lui. «Mi fa arrabbiare, ma è diverso da… cioè,
da quando ho quei momenti. Anche se Marioni, delle volte, è
veramente bastardo!».
«Questa è una rabbia che riesci a contenere, però… in cosa è
diversa dall’altra?».
Matteo ci rifletté un istante.
«Non lo so…» sorrise imbarazzato. «Non mi viene da spaccare tutto,
ecco… e nemmeno ho voglia di fare male alle persone che ho
davanti».
«Che sono figure importanti nella tua vita» si intromise l’analista.
«Tuo zio Daniele, il maestro Marioni…». Fece una pausa. «Con tuo
padre è mai successo?» chiese poi diretta. «Hai mai provato rabbia
verso di lui?».
Matteo la guardò stupito. «Contro papà…» mormorò.
«Sì… non hai mai avuto reazioni violente contro di lui?».
Matteo restò in silenzio.
Poi rispose deciso: «No, no… con papà non è mai capitato. No».
Uscito da lì, andò da Sofia. Doveva farsi perdonare. Provò con lei,
suonò – mentre Nico e in particolare Scheggia si divertivano a
prendere in giro la ragazza, sempre più innamorata di lui – e alla fine
si avviò verso casa.
A casa, chiuso nella sua stanzetta, continuò a esercitarsi sul brano
scritto da Giacomo.
Finché, a un certo punto, vide suo padre che passava fuori dalla
finestra, sul pianerottolo.
E fu allora che un nuovo frammento di quel sogno – che un sogno
non era, ma la realtà, ormai ne era certo – si inserì prepotente nei suoi
pensieri.
Risentì suo padre che, dopo averlo abbracciato, gli diceva: “Mi
dispiace così tanto per mamma, così tanto…”.
Rivide se stesso mentre cominciava a tremare, e poi mentre a forza
allontanava il padre, e lo spingeva ancora, lungo il ciglio della strada,
verso un precipizio.
Poi, solo il nero.
Lasciò il suo strumento e si precipitò fuori di casa, si mise a correre
più veloce che poteva, diretto dalla sola persona che, in quel
momento, poteva comprenderlo.
Luca Marioni stava tornando dalla sua corsa quando lo vide
rannicchiato a terra, con le spalle contro il muro, sconvolto.
«Matteo… che succede?» gli chiese. «Che ci fai qui?».
«Volevo… ho cercato… ma lei non rispondeva al citofono… non
c’era…» farneticò Matteo.
Marioni, spaventato, gli domandò: «Matteo, parla, che è successo?».
«Io mi sono ricordato…», cominciò a dire lui, «dopo la morte di mia
madre… ho fatto del male a mio padre… gli ho fatto male… ho cercato
di… perché lui quella notte non c’era… e io ero arrabbiato… e allora
ho cercato di… di… di…».
D’impulso, Marioni lo abbracciò stretto, strettissimo, più che poteva.
«Credo…», riprese Matteo, «di aver cercato di ammazzarlo…».
E scoppiò a piangere, lì, tra le braccia del suo maestro.
Mai e poi mai avrebbe immaginato di scoprire una verità tanto
terribile su di sé.
50
C’è sempre un momento, nella vita di ciascuno di noi, in cui la paura
diventa la nostra consigliera. Una consigliera a volte preziosa, perché
ci fa scampare un pericolo, ma spesso frettolosa, perché ci impedisce
di vedere delle occasioni, facendocele perdere per sempre.
La paura può impedirci di dire una parola, di compiere un gesto,
oppure al contrario può spingerci verso una strada che mai avremmo
pensato di prendere.
Una strada che a volte, però, può rivelarsi senza uscita.
Aveva paura Irene, per esempio, che aveva fissato l’appuntamento
con il ginecologo per la sua interruzione di gravidanza.
«Non sono un obiettore» le aveva detto il suo medico. «L’aborto le è
garantito per legge. Lo so bene. Ho praticato altre interruzioni di
gravidanza per garantire questo diritto. Noi ci conosciamo da anni, e
sa che ho rispetto per la sua tragedia. Però lei sta decidendo di non
avere questo figlio per paura. E non si rinuncia a un figlio per paura.
Non si fa».
Ma questo non era bastato a farle cambiare idea. La paura, adesso,
era la sola cosa che riuscisse a sentire dentro di sé, e offuscava tutti
gli altri sentimenti.
«Sono sola, dottore» gli aveva risposto lei. «E sono troppo fragile.
Non può farmi questo. Non può dirmi queste parole. Non è giusto. Non
le avrebbe dette a sua moglie, se avesse perso un figlio come l’ho
perso io».
Disse questo, ma in fondo al suo cuore, e forse già lo sentiva, c’era
ancora un desiderio che la paura non riusciva a sopprimere del tutto.
Per tutto il giorno continuò a pensarci.
La paura le stava sottraendo la possibilità di tornare a essere felice?,
si chiedeva. E dopo si sarebbe pentita di questa sua scelta?
Se c’era qualcuno che poteva mettere a tacere tutto questo, quello
era suo marito Luca.
«Me lo devi assicurare. Ne devi essere certo. Che a questo figlio, a
questo bambino o bambina non succederà niente» gli disse un giorno,
presentandosi a casa sua senza preavviso.
Marioni si stava preparando un caffè quando sentì un rumore
all’ingresso. Si precipitò a vedere cosa fosse e si ritrovò davanti lei,
che lo fissava con lo sguardo smarrito.
«Che nascerà sano. Che io avrò la forza di guardarlo e crescerlo
senza pensare a Serena» continuava Irene. «Che lo amerò per quello
che è, e non per la bambina che abbiamo perso. Luca, io… non posso
pensare a tutte le cose che potrebbero andare male. Dimmi che non
sarà così».
Lui le si avvicinò. Sapeva che avrebbe dovuto usare le parole giuste,
ma sapeva anche che non avrebbe dovuto mentirle.
«No, Irene», le disse, «non posso. Non posso giurartelo. Non posso
assicurarti niente. Posso dirti che io lo voglio, questo bambino. E che
dobbiamo rischiare, come si rischia sempre nella vita. Ma questo è
quello che penso io. E credo che la decisione debba essere anche tua,
hai ragione».
«Non mi dici niente che mi aiuti» mormorò lei.
«Posso aiutarti solo se hai preso la tua decisione. Un figlio non si può
far nascere con una riserva mentale. Io lo so. So che lo amerò, e lo
veglierò, e lo lascerò libero, o libera. So che non gli farò pesare tutto
quello che abbiamo perso, che non crescerà con l’ombra di Serena.
Che sarò per lui un padre nuovo. Questo so di me. Di te so che saresti
una madre meravigliosa. Se vuoi esserlo».
A quelle parole Irene cominciò a piangere.
«Mi dispiace» disse Luca. «Forse non sono le cose che volevi sentirti
dire».
«No, hai ragione. Hai ragione». Sollevò gli occhi verso di lui. «Lo so
che in questo momento mi odi. Ma mi puoi abbracciare? Per favore.
Ho freddo. Ho bisogno di sentire il tuo odore».
Luca esitò per qualche istante, poi si avvicinò a lei e la strinse fra le
sue braccia. Sempre più forte, mentre Irene singhiozzava e lasciava le
sue lacrime libere di fluire.
«Il tuo odore…» gli sussurrò. «È l’odore di casa».
Ma quell’odore sarebbe riuscito a diventare una guida più forte della
sua paura?
51
Mancavano pochissimi giorni alla conclusione dell’anno scolastico,
ormai, e quando Michele affisse alle bacheche il programma completo
del concerto finale, fu proprio la paura a serpeggiare fra moltissimi dei
ragazzi che di quel concerto sarebbero stati i protagonisti.
Uno, in particolare, parve come raggelarsi quando su quei manifesti,
accanto al brano che avrebbe dovuto suonare, la Fantasia-Improvviso
op. 66 di Chopin, lesse il proprio nome: Roberto Turchi.
«Mi sento male. Malissimo» disse Robbo, fissando quel manifesto.
Accanto a lui c’era Rosario. «Ti capisco» disse. «Io non vorrei mai
starci lì con il mio nome. Almeno non adesso, a sedici anni. Nemmeno
pagato, guarda. Mi viene la pelle d’oca solo a pensarci. No, no».
«Grazie, Rosario. Mi sei tanto d’aiuto» disse Robbo allontanandosi.
Rosario gli corse dietro. «Magari d’aiuto no. Ma sono sincero! Fra
amici è importante!».
«Ma vaffanculo!» urlò Robbo.
Era semplicemente disperato: com’era possibile che si fosse cacciato
in quel guaio? Anzi, a essere precisi non ci si era cacciato lui, era stata
tutta colpa della Bramaschi e prima ancora di Domenico, e anche di
Barbara che lo aveva fatto innamorare. Insomma, maledetti tutti
quanti!
Robbo era talmente agitato che quel pomeriggio si dimenticò persino
di andare a prendere sua sorella Chiara a scuola, e lei fu costretta a
tornarsene a casa da sola.
E poi, quando rientrò in Conservatorio per le prove con le Bramaschi,
fu ancora peggio. Continuava a interrompersi e a riprendere, finché la
maestra lo bloccò: «Aspetta, Robbo».
Lui però continuò a suonare, come se non l’avesse neppure sentita.
«Ti ho detto di aspettare, fermati. Devi fermarti!».
«Perché?» chiese Robbo sollevando finalmente le dita dal pianoforte.
«L’avevo ripreso, potevo continuare!».
«No! Non puoi suonare così, sei troppo teso» gli disse lei, «non
ascolti me e non ascolti nemmeno te stesso».
«Va bene, ricomincio».
«No!».
«Ma che devo fare?» sbottò lui. «Sono qui per esercitarmi, fra
mezz’ora finiamo, abbiamo troppo poco tempo!».
«Ascoltami, Robbo» disse la Bramaschi facendosi seria. «Se questo
è il tuo atteggiamento, possiamo anche rinunciare al concerto».
«Rinunciare? Ma è pazza?» esclamò lui. «No, io non rinuncio
adesso. Non voglio».
«Non puoi farcela. Hai troppa paura».
«Certo che ho paura. Ma non rinuncio».
«Questo non è il modo giusto di affrontare questa sfida».
«Ah sì? E qual è il modo giusto? Al concerto ci saranno un sacco di
persone importanti, io non voglio fare una brutta figura e non voglio
compromettere la mia carriera. Mi faccia studiare».
«Devi prenderla semplicemente come un’occasione» disse la
Bramaschi cercando di tranquillizzarlo. «Fino a qualche giorno fa,
questo era il tuo secondo strumento».
«Appunto» disse Robbo. «È stata lei a dirmi che ce la potevo fare. Io
le ho creduto. Non penso ad altro. Che è successo ora? Che mi vuol
dire? Che si è sbagliata? Non mi importa, a questo punto anche se si
è sbagliata mi porta su quel palco a suonare davanti a tutti.
Ricominciamo», disse ancora più deciso, «e finché non ho capito
questo passaggio, io, qui dentro, sbarro la porta e non faccio entrare
nessuno».
La Bramaschi lo guardò. Poi, con un mezzo sorriso, disse: «Va bene.
Non mi sono sbagliata con te. Ora mi è chiarissimo. Riprendi».
Robbo era intenzionato a farcela, anche la paura si stava
trasformando, ora dopo ora, in un’ossessione: non faceva altro che
pensare al pezzo di Chopin e al momento in cui sarebbe salito sul
palco davanti a tutte quelle persone.
Ma sua sorella, a modo suo, era intenzionata a dargli una mano, e
per farlo, il giorno dopo si mise d’accordo con sua madre: «Devi
chiamare papà. Non è per farvi tornare insieme, ormai l’abbiamo
capito che non vi volete più bene. Ma è importante che ci sia anche
lui».
Quando Robbo vide qual era la sorpresa che gli aveva organizzato la
sua famiglia, per poco non svenne lì sul colpo.
«E questo che significa, adesso?».
Il suo pianoforte, infatti, non era più lì al solito posto.
Si precipitò in cucina, dove, seduti attorno al tavolo, c’erano sua
madre Miriam, suo padre Luigi e sua sorella Chiara.
«Che ci fate tutti qui?» chiese. «Che c’è, si è ricomposta
magicamente la famiglia felice?».
«No, sono qui per un’emergenza» rispose Luigi serio.
«Che emergenza?».
«Tu».
«Dov’è finito il mio pianoforte?» domandò Robbo, più agitato che
mai.
«È un’idea mia», intervenne Chiara, «tu adesso non devi suonare più
fino al concerto».
«Ti eserciti solo a scuola» spiegò Luigi. «Ora si sta insieme e si
mangia insieme».
«Voi siete pazzi!» gridò Robbo. «Pensate che sia un gioco, non avete
capito quanto è importante per me!».
«Abbiamo capito che ti stai ammalando» disse Miriam. «Quindi, si fa
quello che ha deciso Chiara».
«D’altra parte, il pianoforte non c’è più» soggiunse Luigi. «Che vuoi
fare? Suonare sul bordo della vasca da bagno?».
Robbo poggiò sconsolato la testa sul tavolo. «Voi non vi rendete
conto» disse. «Non vi rendete assolutamente conto».
«Adesso mangiamo» annunciò Miriam. «Magari dopo vediamo anche
un film. Mi dai una mano, Luigi?».
Miriam e Luigi si alzarono per cominciare ad apparecchiare. Chiara
allungò una mano per toccare il braccio del fratello.
«Lasciami. Tutta colpa tua» sbraitò Robbo.
«Un giorno mi ringrazierai» disse lei con un sorriso.
Il suo piano aveva funzionato.
52
La più grande paura di Domenico, in quel momento, non erano i giorni
di clausura che avrebbe dovuto affrontare per la prova di
composizione.
Era previsto che gli studenti, infatti, passassero settantadue ore
chiusi in una celletta senza vedere nessuno, da soli con il loro
pentagramma.
La sua più grande paura era che suo padre non accettasse che lui e
Barbara, semplicemente, un giorno si erano innamorati e avevano
deciso di stare insieme.
Vincenzo aveva rifiutato l’invito a cena che Vittoria gli aveva inviato,
ma quando lei venne a trovarlo fino a casa, determinato a invitarlo di
nuovo, lui non poté più rifiutare.
E ora eccolo lì, insieme a suo figlio, in quell’appartamento
prestigioso, uno di quelli che a volte gli capitava di ristrutturare per
lavoro.
«Buonasera, signor Vincenzo, grazie di essere venuti» li accolse
all’ingresso Vittoria. «Purtroppo, stasera mio marito non c’è, aveva un
impegno di lavoro. Vi dovrete accontentare di me…».
E così dicendo, li guidò dentro casa.
La cena cominciò con qualche tensione. Vincenzo non perdeva
occasione per rimarcare le differenze tra la sua famiglia e quella di
Barbara, ma Vittoria cercò ogni volta di sdrammatizzare.
Alla fine disse: «Insomma, su. Sono contenta».
«Di cosa…?» chiese Vincenzo, che invece non aveva ancora mai
abbassato la guardia.
«Be’, che lei sia qui…» rispose la donna. «Che abbia visto che non
c’è niente di cui spaventarsi, in fondo. Non siamo così pericolosi…
vero?».
Barbara e Domenico iniziarono ad agitarsi.
«Pericolosi?» disse Vincenzo.
«Papà non hai mai pensato questo» intervenne Domenico. «È solo
che…».
«Ce la faccio da solo» lo interruppe Vincenzo. «Signora, io non sono
spaventato. Solo non voglio che mio figlio si abitui a quello che non si
può permettere. Un salotto da cinquanta metri quadri, un violino da
prestare a un amico che costa quarantamila euro… Noi viviamo in un
altro mondo. Domenico va a suonare in un negozio perché noi, il
pianoforte buono, a casa non ce l’abbiamo. Lei lo sa questo, sì?».
«Lo so, ma che c’entra?» disse Vittoria. «Può venire qui a suonare,
adesso, se è quello che intende».
«No, non è quello che intendo. Ma non voglio che mio figlio si debba
vergognare di quello che ha. Anche se è poco, è stato guadagnato
onestamente».
«Vabbè, papà, dai… abbiamo capito» fece Domenico sperando che
la conversazione morisse lì.
«Ma nessuno ha mai detto che…» disse Vittoria, che ora si era
agitata. «Ma scusi, cosa vuol dire, che adesso mi devo vergognare io
per quello che abbiamo? O che non siamo onesti?».
«Nessuno le dice di vergognarsi» rispose Vincenzo. «Ma prima di
stasera, io, in una casa così, c’ero entrato solo a mettere il parquet».
«Va bene. Va bene. Ma non è colpa nostra» disse Vittoria alzando la
voce. «Guardi che anche mio marito lavora, sa? Cos’è, le dobbiamo
fare l’applauso perché lei fa un lavoro più umile?».
«Mamma!» esclamò Barbara.
La situazione si stava facendo insostenibile. Domenico si alzò da
tavola, rivolse uno sguardo a Barbara e in un attimo si compresero.
Un attimo dopo erano fuori in strada.
Che cosa cambiava, in fondo, se i loro genitori non andavano
d’accordo?
L’importante è che loro si amassero, che loro ci fossero l’uno per
l’altra.
Presero un taxi fino a casa di Domenico, dove lui preparò in un
attimo la valigia per la “clausura”, e poi andarono al Conservatorio,
dove si diedero un bacio d’arrivederci.
Per qualche giorno non si sarebbero visti, ma Domenico era sicuro
che, uscendo, avrebbe trovato Barbara lì ad aspettarlo, ancora più
innamorata di prima.
La “celletta” era una stanza con una brandina, un piccolo pianoforte a
muro e una scrivania con dei fogli di pentagramma.
«La mattina alle otto, colazione» gli spiegò il maestro Sestieri,
«all’una pranzo, alle otto cena. Quando hai bisogno di andare al
bagno, o per qualsiasi altra necessità, lì c’è il campanello per chiamare
Michele».
Gli fu requisito anche il telefono: nessun contatto col mondo esterno
era consentito.
«Bene» concluse Sestieri. «Ci vediamo tra settantadue ore. Il brano
che dovrai comporre è per un quartetto d’archi. E come sai, verrà
eseguito dai ragazzi diplomati al concerto finale».
«Benissimo» disse Domenico.
«Buon lavoro» disse Sestieri.
E le porte si chiusero.
Ora Domenico era faccia a faccia soltanto con la sua musica.
53
Da quando a Matteo sembrava di aver ricordato quelle cose su suo
padre, non riusciva più a darsi pace. Continuava a ripensarci: aveva
davvero fatto qualcosa di simile?
E allora cos’era, un mostro?
Non riusciva neppure più a suonare.
«Mi dispiace, non ce la faccio» disse una mattina al maestro Marioni,
l’unico con cui avesse osato condividere quella sua terribile paura.
Erano nell’aula violino e se ne stavano seduti l’uno di fronte all’altro.
«Tu lo sai perché» gli disse Marioni.
Matteo abbassò lo sguardo.
«Devi andare a fondo» proseguì Marioni. «Devi scoprire la verità».
«No. Ho paura».
«Di cosa, Matteo, di cosa hai paura?».
«Di averlo fatto davvero. Di aver spinto mio padre giù nel dirupo».
«Devi chiederlo a lui».
«E pensa che me lo direbbe, se lo avessi fatto davvero? Lei gliela
direbbe mai a suo figlio, una cosa così?».
Matteo, accortosi di quanto aveva appena detto, restò un attimo in
silenzio. «Mi scusi…» mormorò.
«Se avessi un figlio, glielo direi» rispose alla fine Marioni. «Se
pensassi che gli serve a crescere. Se pensassi che gli serve a
diventare uomo. Sì, Matteo, non ce l’ho più un figlio, ma conosco
comunque la risposta. Io te lo direi. Tuo padre è qui, è venuto a
Milano, cerca di starti vicino. Devi dargli questa possibilità. E devi darla
a te stesso. Se non conosci la verità, non cresci». Poi aggiunse: «E
non suoni, nemmeno».
Ed era la verità. Le prove con l’orchestra, infatti, furono un disastro.
Matteo non era più in grado di stare dietro alla musica.
Marioni li interruppe esasperato: «No, no, basta. I fiati non ci sono. E
dei violini non voglio nemmeno parlare. Suonate ognuno per conto
suo».
Poi, voltandosi verso Nathan, al proprio posto nel concertino accanto
a Matteo, gli chiese: «Nathan, di’ quello che succede».
«È Matteo» rispose quello senza pensarci su un attimo. «Ci fa
sbagliare tutti».
«È vero, ha ragione» ammise Matteo. «Ripartiamo».
«No, è inutile» disse Marioni. «Oggi non ce la fai. Vai a casa».
«Posso riprovare» insistette lui.
«Vattene, Matteo. Nathan, prendi il suo posto».
«Non voglio andare a casa».
«Non andarci, allora» sbottò Marioni. «Puoi anche perderti nella città,
se non vuoi vedere tuo padre, non mi interessa. Basta che scendi da
questo palco. Adesso».
«Che c’entra suo padre?» chiese Rosario spaesato, mentre Matteo,
innervosito, faceva per andarsene.
Poi, nel silenzio dell’aula, si udì all’improvviso la voce di Sofia: «Ha
detto che vuole riprovarci… possiamo farlo, no, almeno una volta?».
Marioni la trafisse con lo sguardo.
«Matteo, va’ via. Sofia vieni, adesso» ordinò.
Sofia esitò un istante prima di raggiungerlo sul palco, dove Marioni la
fece posizionare dietro il podio, dove si trovava lui fino a un istante
prima.
«Che succede?» chiese spaventata, mentre Matteo, sul fondo della
sala, si fermò per assistere alla scena.
«Hai delle idee, no? Vuoi dirigere tu?» le disse Marioni minaccioso.
«Vuoi lasciare il tuo strumento, che peraltro oggi stai suonando
malissimo, e dirigere al posto mio? Accomodati. Facci vedere quanto
sei brava. Forza».
«Maestro, io non…».
«Non balbettare come una bambina! Voi avete capito male se
pensate di potere decidere qui dentro. O esprimere i vostri pareri su
quello che succede. Qui dentro c’è un’unica guida, e sono io. Funziona
in una maniera molto semplice, e pensavo l’aveste capito. Io do
istruzioni e ordini. Voi vi sforzate di eseguire per quello che il vostro
talento vi permette. Senza pensare». Le si avvicinò. «O credete di
sapere meglio di me cosa è giusto fare?».
«No. Ma non siamo delle macchine» ribatté Sofia, andando a
pescare chissà quale coraggio dentro di sé.
«Certo. Avete una sensibilità. Infatti non attaccate le suole alle
scarpe. Suonate uno strumento. Ma la vostra sensibilità sta nella
musica. Tutto il resto non mi interessa e deve rimanere fuori di qui. È
chiaro?».
Rosario, Barbara e Domenico si scambiarono un’occhiata.
«Amori, tradimenti, disperazione, problemi con i genitori… l’amicizia!
Tutte quelle cose banali che pensate di vivere voi per la prima volta,
che pensate vi rendano unici e speciali. Di tutta questa roba, da
adesso fino alla fine del concerto, non me ne frega niente. Avete dei
sentimenti? Bene, sono contento per voi, siete uguali agli altri sette
miliardi di persone su questo pianeta. Prendete questi sentimenti e
metteteli al servizio della musica, o vi sbatto fuori. Sofia ritorna al
posto. Ricominciamo dalla battuta 251. Nathan».
Solo in quel momento, in un’atmosfera che si era fatta di piombo,
Matteo uscì dalla sala.
Doveva andare a casa. Doveva sapere. Doveva mettere da parte le
sue paure.
E per farlo aveva solo un modo.
Lui e suo padre stavano apparecchiando per la cena, quando Matteo
si avvicinò a lui e d’improvviso gli scoprì il braccio, mostrando la
cicatrice.
«Voglio sapere bene dell’incidente» disse prima che la paura gli
togliesse la voce. «Di quando sei caduto».
Il padre sgranò gli occhi. «Perché adesso?».
«Perché lo voglio sapere».
«Non c’è niente da sapere» rispose l’uomo. «Sono scivolato nella
scarpata e mi sono rotto il braccio».
«È andata bene. La scarpata è profonda. Poteva andarti peggio».
«Sì, poteva andarmi peggio».
Matteo si girò verso lo zio. «Tu c’eri?» gli domandò.
«No… non c’ero» rispose lui, ma un po’ titubante.
«Ero da solo quando sono scivolato» ribadì Antonio. «È stato il
giorno del funerale di Valeria. Tu ti eri allontanato verso l’albergo dove
stavamo appoggiati. Io sono rimasto indietro».
«Perché ti avevo lasciato da solo?» chiese Matteo.
«Non lo so. Eri triste, volevi stare per conto tuo».
«Poi io l’ho trovato mentre rientravo» disse Daniele, riferendosi ad
Antonio. «Ero dietro, più di tutti. Come sempre…», cercò di buttarla sul
ridere.
Ma dentro Matteo quel racconto stava portando alla superficie
qualcosa.
D’improvviso, come un fulmine che squarcia il cielo, si aggiunse
un’altra immagine a quelle che erano come divampate nella sua mente
nei giorni precedenti.
Vedeva la scarpata, e intravedeva il corpo del padre laggiù. Ed ecco
Daniele che correva verso di lui, che gli diceva: “Matteo… che hai
fatto? Matteo?”.
Il piatto che reggeva fra le mani gli cadde a terra, e Matteo ritornò,
sconvolto, alla realtà.
«No… non è vero» cominciò a dire. «Io c’ero. Sono stato io. Sono
stato io a spingerti, volevo farti male. Ce l’avevo con te per mamma,
perché ci avevi lasciati soli».
Qualche tempo prima del terremoto, infatti, Antonio aveva deciso di
lasciare Valeria e da alcune settimane non abitava più insieme a loro.
«Sono stato io» ripeté Matteo.
«Matteo… ascoltami…» gli disse suo padre.
«È così, non è vero?».
«Devi stare calmo…» intervenne Daniele. «Non è importante».
«Perché fate finta di niente?» gridò Matteo. «Perché non me l’avete
detto?».
Antonio si alzò e andò verso di lui.
«Non sei un mostro e non hai fatto niente di orribile».
Cercò di avvicinarsi a lui, ma Matteo si allontanò. «No… no…»
continuò a ripetere.
Finché andò all’ingresso, aprì la porta e uscì di corsa.
Proprio in quel momento, fuori da casa sua, c’era un’altra persona che
aveva deciso di affrontare una propria paura, quella di essere rifiutata.
Sofia era lì, quando Matteo come una furia stava uscendo dal
palazzo.
«Matteo!» lo chiamò.
Lui si bloccò, ansante.
«Dove corri?» gli chiese Sofia avvicinandosi a lui. «Stavo venendo da
te».
Nelle mani aveva un cd, glielo porse.
«L’ho fatto per te» disse. «Lo so che ti potevo fare una compilation su
Spotify, una roba moderna. Ma io non sono tanto moderna. Ti volevo
dire che non so che succede, perché sei in difficoltà, ma comunque io
ci sono…».
Matteo la guardò per un solo istante, poi esplose: «Non devi stare
vicino a me, Sofia. Io sono una persona cattiva, io faccio delle cose
brutte e non me ne rendo nemmeno conto».
Lei sgranò gli occhi, incredula. «Ma che dici, Matteo, sei impazzito?».
«È la verità. Scusami, mi dispiace. Scusami» e riprese a correre,
lasciando Sofia lì, col suo cd fra le mani.
E mentre Matteo fuggiva chissà dove, lei se tornò a casa più
sconsolata che mai.
Era a letto, chiusa nel silenzio, quando sua madre Nico andò a sedersi
accanto a lei e le accarezzò i capelli, senza dire niente.
«Io non ci capisco più niente» mormorò Sofia. «Ma perché è così
complicato con i ragazzi?».
«Non lo so» rispose sua madre. «In genere, non lo è. Cioè, in genere
gli uomini sono molto semplici. Prendi vostro padre. Ha trovato una
bòna che aveva vent’anni e gli piaceva di più? E dopo un mese se n’è
andato… Tipo uno più uno fa due. Elementare. Bassi istinti. Forse
Matteo è più complicato di così. Questo è buono».
«Ma’, che buono? Questo invece è un guaio. È un guaio che mi piace
così tanto».
«Sì, lo so. Ma che ci puoi fare? Te lo puoi togliere dalla testa? No. Lo
puoi costringere a stare con te? No. Sai cosa? Sai la soluzione? Ti
devi augurare che si metta subito con un’altra, così fai prima a
odiarlo».
«Ma’!» esclamò Sofia.
«Eh, lo so» sospirò Nico. «Strategie di sopravvivenza. Guarda che
quando tutto il resto manca, funziona anche questo. Però, nel
frattempo, ti dico una cosa… se ti capita l’occasione, fatti avanti tu».
«Gli ho portato un cd, stasera».
«Eh, il cd…» sospirò Nico. «Sofia, se ti dico fatti avanti, fatti avanti,
non con la musica, capisci?».
«E se mi allontana? Non è che è veramente troppo bello per me?».
«Sofia, amore mio» disse Nico dolcemente. «Ma tu sei la più bella
del mondo. E lo penserei anche se non fossi mia figlia. Te lo giuro su
chi vuoi tu».
Sofia sorrise, ma mai come allora si era sentita brutta. Troppo brutta
per uno come Matteo.
54
Il localizzatore installato da Daniele sul cellulare di Matteo funzionò
ancora, come la prima volta in cui era scappato di casa.
Daniele trovò il nipote seduto di fronte alla chiesa di San Lorenzo.
«Ti va di parlare?» gli chiese, sedendosi accanto a lui.
«Non lo so» rispose Matteo senza guardarlo.
«Allora parlo io» fece Daniele. «Sì, è vero, sei stato tu a spingere tuo
padre nella scarpata».
Matteo chiuse gli occhi, sentendo una fitta al cuore. Già lo aveva
capito, ma sentirselo dire era dura. «Sono una persona orribile. Sono
un mostro».
«No».
«Potevo ucciderlo».
«Forse. Non lo so. Era il giorno del funerale di Valeria. Eri sconvolto.
Ce l’avevi con lui».
«Ma perché, tu quando sei sconvolto cerchi di uccidere qualcuno?
Cerchi di far male a tuo padre?».
«No».
«Lo vedi?».
«Ma tu non sei me, e allora eri un’altra persona, Matteo» disse
Daniele cercando di trovare le parole migliori. «Ora sei una persona
diversa. Ora sei in cura. Ora ti sei ricordato quello che hai fatto. Lo hai
capito, lo hai affrontato. Pensi che sia un caso?».
Matteo rimase un istante in silenzio, poi, con la voce spezzata, disse:
«Mi vergogno. Non riesco a voler veramente bene a papà».
«Forse c’è solo bisogno di tempo. C’è bisogno che di queste cose ne
parli con lui».
«Non ce la faccio. Adesso no».
«Va bene» disse Daniele. «Adesso no, rimaniamo qui».
Sopra di loro c’era qualche stella, quella notte. Stelle che di rado
Matteo aveva visto a Milano e che invece ad Amatrice, quando il cielo
era sereno, si vedevano a decine, a centinaia.
Ci avrebbe provato, si disse Matteo. Sì, avrebbe provato a voler bene
a suo padre.
55
Il poco tempo che separava dalla fine dell’anno i sette ragazzi della
Compagnia del Cigno, ma anche tutti noi che avevamo vissuto quei
mesi così intensi all’interno del Conservatorio, passò velocemente.
E fu un tempo denso di eventi importantissimi. D’altronde, la vita è
così: per mesi o anche anni non succede apparentemente nulla e poi,
d’improvviso, tutto accade, e tu non sei preparato. Anche alle cose più
belle.
Antonia organizzò per Rosario una cena insieme a Clelia e Roberto,
in cui gli annunciò che avrebbe provato a cercare un lavoro a Milano, e
che il suo futuro sarebbe potuto essere lì, in quella città in cui lui aveva
ritrovato la serenità.
Sara superò con successo la prova di matematica e si fece
interrogare in italiano dalla Parise, che aprì per lei uno spiraglio per la
promozione.
Irene decise di non andare in ospedale a sottoporsi all’interruzione di
gravidanza, facendo di Marioni l’uomo più felice del mondo. Aveva
ancora paura, ma con lui accanto si disse che quella paura poteva
affrontarla.
Dall’ospedale, per Scheggia, arrivarono buone notizie: la terapia
stava funzionando. E questo fu il più grande sollievo sia per Nico che
per Sofia.
Matteo, poi, decise di far conoscere il padre alla sua analista,
cominciando a riaprire il suo cuore per lui.
La paura, in qualche modo, non aveva vinto con nessuno di loro.
Era la sera prima del concerto, quando, sulla chat della Compagnia –
una chat che aveva seguito, momento per momento, le montagne
russe delle vite di questi ragazzi – Rosario registrò un messaggio
vocale: «Ciao, compagnia. Siete convocati tutti alle undici davanti al
Conservatorio. È un segreto. Ed è urgente».
Tutti, nessuno escluso, raccolsero l’invito.
Sara aveva dovuto chiedere aiuto ai suoi genitori: «Se non volete
farmi sentire un’handicappata, dovete accompagnarmi davanti al
Conservatorio e fare finta di niente», ma ora eccola lì insieme agli altri
mentre di nascosto entravano, in quell’ultima notte prima di ciò che per
loro era un banco di prova, il giorno in cui si giocavano tutta la loro
vita, dentro le mura del Verdi.
Chissà come aveva fatto, Rosario, a procurarsi quel mazzo di chiavi
che gli permetteva di aprire ogni porta del “castello”.
Sono la direttrice del Conservatorio e quindi queste sono cose che
non dovrei sapere, né tantomeno raccontare. Le ho scoperte molto
tempo dopo, e forse è un bene, perché di sicuro avrei impedito che
venissero portate a compimento.
Non so bene, quindi, cosa sia successo là dentro, quella notte,
quando il Verdi, nel buio, diventò ancora di più la loro casa: una casa
in cui emozionarsi, spaventarsi, sentirsi davvero liberi.
So solo che fu una notte speciale per loro. Una notte da cui
riemersero tutti cambiati.
Forse grazie all’amore, chissà… dopotutto, a quell’età, l’amore fa
miracoli.
L’amore che unì sempre di più Domenico e Barbara, e quello che
sbocciò fra Sofia e Matteo, che finalmente si accorse che la ragazza
che aveva davanti poteva essere qualcosa di più che una semplice
amica. O quello che per la prima volta sperimentò Rosario insieme a
Sara.
Ma basta, non racconterò altro di quella notte perché è un capitolo di
questa storia che spetta solo ai cuori di questi ragazzi raccontare.
Battendo più forte che mai.
Epilogo
«Buonasera e benvenuti. Questa per noi è una serata molto speciale e
non solo perché in platea sono seduti i più importanti rappresentanti
delle istituzioni europee e americane. Questa è una serata importante
perché i nostri ragazzi vi faranno vedere quello di cui sono capaci».
Cominciai con queste parole il discorso introduttivo della serata
conclusiva di quell’anno scolastico al Conservatorio Giuseppe Verdi.
Davanti a me c’era una platea gremita di persone che applaudivano.
Tutti, in un modo o nell’altro, erano stati partecipi della storia di quei
ragazzi ed erano ansiosi di sentirli esibire. Me compresa.
«Il loro talento, il loro impegno, la loro determinazione» continuai.
«Ma anche qualcos’altro, che tiene tutto quanto insieme. L’amore per
la musica. Quello che li fa svegliare ogni mattina presto per studiare il
loro strumento. Quello che fa sopportare loro sacrifici e rinunce, quello
che li fa essere un po’ diversi dagli altri. Hanno lavorato. Hanno
seguito i loro maestri. A volte si sono ribellati a loro, come è giusto che
sia. Altre volte hanno capito che… che anche se i metodi dei loro
maestri erano… audaci, tutto veniva fatto per loro. Perché potessero
stare in piedi da soli. Perché la gente avesse rispetto di loro, delle loro
persone, del loro talento. Questi sono i nostri figli. Questi ragazzi e
ragazze sono il nostro futuro. Vi prego di salutarli come si meritano».
Mentre i cinquanta ragazzi dell’orchestra andavano a prendere i
propri posti sul palco in mezzo agli applausi, io scesi e mi accomodai
nel posto riservatomi in prima fila.
Poco distante da me c’era Sara. Pensai che anche lei era speciale
come quei cinquanta che ora stavano là sopra, se non di più, e come
in fondo speciali erano tutti i ragazzi che studiavano al Verdi.
Accanto a Sara c’era il suo “Gigi Lamento” – perché, ebbene sì, Sara
alla fine aveva capito che se proprio doveva stare con un ragazzo,
quello doveva essere lui. «Tutti i grandi amori nascono tormentati, si
sa dalla storia, dai film e dalla letteratura. E poi io forse ho fatto un po’
di lotta con me stessa perché non mi volevo arrendere» gli aveva
confessato solo qualche attimo prima dell’inizio del concerto.
E intanto, anche il maestro Luca Marioni era salito sul palco, elegante
come erano tutti i suoi cinquanta ragazzi, ora impegnati ad accordare i
propri strumenti.
Ci fu un attimo di silenzio, e l’emozione era così palpabile che anche
io, che di saggi finali ne avevo visti già così tanti, mi sentii il cuore
balzare in gola.
Poi Marioni diede il La a Nathan, il primo violino, e le note della
Settima di Beethoven si diffusero nell’auditorium.
Fu l’inizio di una magia.
Nel corso delle ultime prove, il maestro Marioni aveva fatto loro un
discorso importante.
«C’è qualcosa di magico, nelle ultime ore di prove» aveva detto. «E
io adesso devo fare appello a questo. Una specie di atto di fede. Il
lavoro fatto finora mi fa vergognare. Ma il percorso delle prove non è
un percorso lineare. Noi, in due giorni, possiamo recuperare. Non
resteremo nella storia, magari. Ma possiamo far sì che qualcuno di voi
venga notato. Che l’orchestra venga presa sul serio. Che i direttori
delle scuole straniere che sono qui vi invitino per l’estate. Abbiamo
tanto in gioco. Questo è il vostro futuro. Vi ho insegnato il lavoro, ora
dobbiamo fare una magia. E questa magia riesce solo se pensiamo
tutti insieme. Come un gruppo. Sostenetevi. Fidatevi gli uni degli altri.
Coprite gli errori di chi vi sta vicino. E sentite la responsabilità di
essere un corpo solo. Può darsi che vi odiate. Per ora dovete mettere
tutto da parte. Siamo una cosa sola».
E una cosa sola quei ragazzi lo erano davvero.
Come lo furono anche Sofia e Matteo durante la loro esibizione.
Suonarono l’uno per l’altra, aiutandosi. Se questo non è amore, allora
io non saprei proprio come definirlo.
Quando mi voltai verso il resto della platea a osservare l’effetto di
quella magia sugli spettatori, mi accorsi che, fra il pubblico, c’era
anche Giacomo, insieme a suo padre.
Come avrei poi scoperto, era stato Marioni a invitarli: voleva che
Giacomo sentisse quanto potente e bella potesse essere una sua
creazione.
Lo vidi sorridere, felice. Forse Marioni aveva ragione, Giacomo non
era fatto per esibirsi in pubblico, ma era uno straordinario compositore,
capace di regalare emozioni immense. E magari la sua strada,
adesso, poteva ricominciare da dove l’aveva abbandonata così
bruscamente.
Anche Robbo suonò con decisione, come se si fosse lasciato alle
spalle tutte le sue paure. Chissà se in quel momento si trovava nel
bosco incantato in cui aveva portato tante volte sua sorella e che,
tempo prima, era stata sua madre Miriam a fargli conoscere.
Poi, a conclusione di quella serata splendida, salì sul palco
Domenico. Insieme a lui c’era un quartetto d’archi già pronto per
suonare.
Eravamo tutti curiosi di scoprire cosa quelle settantadue ore che
aveva trascorso chiuso in solitudine avessero potuto produrre in lui.
«Buonasera» esordì. «E scusate se sono molto emozionato».
E che lo fosse, si vedeva, ma lo erano anche tutti i suoi amici che lo
osservavano con gli occhi lucidi dalla platea.
«Quella che state per sentire», proseguì, «è la mia prima
composizione musicale. Si chiama Friendship, Amicizia. La cosa più
importante del mondo, secondo me. Ed è dedicata ai miei amici, i
ragazzi e le ragazze della Compagnia, senza i quali tutto questo non
esisterebbe. Buon ascolto».
Mentre le note di nuovo riempivano l’auditorium, sono sicura che i
sette fantastici membri della Compagnia del Cigno ripensarono ai
momenti più belli di quella loro ancora breve, ma straordinaria
amicizia.
Un’amicizia che non sarebbe mai esistita senza una persona. E
quella persona, ora, meritava di essere ringraziata.
Era già tardi quando tutti insieme andarono a bussare alla porta della
sala professori, dove Marioni stava riordinando le sue carte.
«Avanti…» disse.
I sette ragazzi entrarono. Erano impacciati, coi visi arrosati, pieni di
emozione.
«Tutto bene, mi sembra, no?» fece Marioni, freddo come sempre.
Loro rimasero in silenzio.
«Che succede?» li incalzò lui.
«Insomma…» prese la parola Domenico. «Grazie».
«Io ho fatto solo il mio lavoro» disse Luca in tono secco.
«Io non credo» intervenne Sara.
«Nemmeno io» le fece eco Matteo.
«C’è stato sempre lei, dietro tutto» disse Barbara.
«Anche dietro il modo in cui abbiamo affrontato le altre…» disse
Rosario. «La vita, voglio dire».
«Sì» fece Sofia.
Marioni li guardò per qualche istante. «Siete pazzi. Il concerto vi ha
dato alla testa. E, a proposito, non avete fatto una grande esecuzione.
Ve lo dico. Non so se qualcuno di voi verrà chiamato per gli stage
fuori».
«Non ci importa», disse Robbo, «Matteo ha già detto dove saremo
quest’estate».
«Bene» disse Marioni. «Allora che ci fate qui? Andate a godervi la
serata».
«Volevamo dirle…» aggiunse Matteo.
«Avete già detto. Su, forza, che ho da fare. State bene» tagliò corto
Marioni.
«Arrivederci, maestro…» disse Domenico.
Quindi uscirono tutti quanti, pronti a godersi davvero quella serata e
ad assaporare tutta l’adrenalina che ancora avevano in corpo.
Ma pronti anche all’estate che li attendeva, e a un appuntamento in
particolare: il concerto che Matteo desiderava organizzare ad Amatrice
insieme a tutti loro.
I suoi amici, insieme al maestro Marioni, lo avevano aiutato a
ricostruire le macerie che aveva dentro. Ora era suo dovere portare il
dono che aveva ricevuto, sotto forma di musica, alla sua città.
Sperando che potesse rinascere così com’era rinato lui.

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