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I giardini dell’ingegnere
Maurizio Rebaudengo
Per comprendere i confini entro i quali si muoverà l’indagine sul topos del
giardino in Gadda, è utile ricorrere alla definizione estetica data da Rosario
Assunto in un articolo pubblicato nel 1981 su Città e società:
Nel giardino coincidono il piacere vitale, poiché la vita può godere di sé nel
momento stesso del suo viversi, e il godimento estetico, disinteressato, poiché
la natura diventa opera d’arte, non soggetto di interpretazione o modello di
artistica mimesi. Nell’universo teorico gaddiano il giardino è la concrezione
dell’«istinto della combinazione», enucleato nel Racconto italiano di ignoto del
novecento: luogo in cui sussiste «l’equilibrio» come «affermazione cosciente
della combinazione tra una polarità morale» (SVP 407) – il piacere estetico
disinteressato – e l’abnorme, da intendersi come immoralità secondo il senso
comune o il piacere a fini utilitaristici.
Per procedere ad una analisi minuta della presenza topiaria nell’opera del Gran
Lombardo, nelle pagine seguenti si privilegerà un percorso diacronico,
prestando attenzione – nei limiti del possibile – alla compresenza di luogo
fisico e iconografia di Eden arcadico elaborato dall’Umanesimo cristiano. Tale
percorso storico segue una traccia sollecitata da una notazione di Gadda in una
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è ovvio che un esposto biografico (il quale fosse un’analisi, non una
dolce oleografia) potrebbe riuscir d’ausilio grandissimo a determinare o
a commentare certi aspetti di quest’arte, così apparentemente semplice,
così lontanamente motivata: potrebbe darci la chiave del giardino
chiuso, che par disegnato, a travederlo dai cancelli di tenuità riposata e
leggiadra, ed è sparso invece di spazi di malinconia: e piantato d’alberi,
tragici e soli. (SGF I 740)
Come si rapporta il giardino con la realtà del paesaggio, per Gadda? In uno
scritto pubblicato su Le Vie d’Italia del 3 marzo 1940, quasi alla vigilia della
nefasta entrata in guerra, Gadda enuncia una definizione storica di paesaggio,
funzionale – certo – alle necessità celebratrici della pubblicazione, ma
sinceramente condivisa dall’autore: «Il paesaggio italiano, questo elemento
vivificatore e consolatore della nostra anima, è la resultante di superficie della
storia geologica d’Italia, il termine al quale è pervenuta la serie delle vicende di
profondità, oggi così felicemente archiviate nelle nostre cognizioni
stratigrafiche» (Terreno, piogge, fiumi e impianti idroelettrici nell’atlante
fisico-economico della Consociazione Turistica Italiana, SGF I 171). Il
giardino, in quanto elemento del paesaggio, ne esemplifica la stratificazione
storica: luogo ambito per la sua apparente immutabilità, non è in realtà esente
dalla legge del «metodo» enunciata nel cap. XIV (Impossibile chiusura) della
Meditazione milanese; al dato che implica «certezza e stabilità» si preferisce
l’empirica evidenza della deformazione di ciò che accade, dell’evento. Le
trasformazioni imposte dalla Storia al paesaggio e di conseguenza al giardino
non si limitano, però, ad un repertorio fenomenico scientificamente
catagolabile ed analizzabile, ma ne straziano le caratteristiche con la violenza
rovinosa propria delle certezze totalitarie.
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Con gli anni Trenta – già a partire dalla Madonna dei filosofi – per Gadda il
giardino diventa elemento insostituibile del paesaggio lombardo ed italiano, e,
nella prospettiva data dal regime, mediterraneo. Durante la crociera attraverso
il Mediterraneo, infatti, a bordo del Conte Rosso compiuta nel luglio del 1931 e
documentata in Crociera mediterranea, lo scrittore, approdato con la comitiva
in Sicilia, visita le Latomìe; il resoconto dell’escursione è leggibile in Dal Golfo
all’Etna (L’Ambrosiano, 6 agosto 1931), ove l’autore introduce un elemento fino
ad ora non così evidente dell’idea di giardino, e cioè il sincretismo, non
meramente floreale. Le Latomìe sono poco lontane dal luogo ove avvenne la
prima dei Persiani di Eschilo e dalla cripta della santa a cui fu negata la luce,
Lucìa. Le Latomìe sono la testimonianza concreta di ciò che dovette essere il
giardino d’Armida, e divengono pertanto, pur con una varietà arborea limitata,
il luogo che libera turgori e policromìe tali da distanziarlo culturalmente sia
dalla poesia civile dell’unico tragico degno, secondo Aristofane, di risalire post
mortem sulla terra per guidare – sia pur solo poeticamente – la polis, sia dal
rigore assoluto del martirio. Il fico, infatti, l’albero maledetto e seccato da
Cristo per non avere soddisfatto la Sua fame (Mt 21,18; Mc 11,12), è florido,
poiché non deve più prestare il proprio fogliame alla significazione di qualche
parabola. (5)
Per tornare alla Madonna dei filosofi, Gadda si scusa nel presentare il «folto e
superbo» giardino di casa Ripamonti, perché sa di «dare nel convenzionale»:
esso appartiene ad una villa secentesca prospiciente un naviglio, che, seppure
puzzolente, presenta il fluire delle acque, segno concreto del tempo umano,
contrapposto a quello del mito rappresentato dalle erme (RR I 81). Le statue
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[…]
Mute guardano l’erme in su le fronti
De le ville il fornir de l’aratura
E lunghi fuochi accender gli orizzonti
Donde ogni volo ai mesti dí si fura
Nel Viaggio delle acque si solca la pianura veneta, sui cui corsi d’acqua si
affacciano i modelli architettonici della civiltà rinascimentale, dotati di giardini
che interagiscono con le acque fluenti verso l’Adriatico. L’infiltrarsi ordinato e
costante delle acque nella vegetazione realizza lo studiato bilanciamento tra il
tempo eracliteo – costantemente attivo – e l’illusoria sospensione temporale
vigente nell’artefatto hortus; a ricordare l’imperfezione derivante dalla vanitas
si ergono le statue camuse, epifania velata del tempo, protese ad un’impossibile
mimesi con il regno vegetale. (6)
è significativo che nel corso di questi anni Gadda avesse già elaborato e
pubblicato il controcanto anticelebrativo di giardino, ove viene negata l’idea,
perché vi è negata la possibilità di sostare e dunque di sospendere il tempo del
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negotium per riflettere: nella Cognizione del dolore, nel terzo tratto pubblicato
su Letteratura nel gennaio-marzo 1939 è un piccolo spazio, opposto al parco,
esaurientemente esaminato da Roscioni nella sua valenza sacrale; (7) questo
spazio è violato dalla volgarità indigena che ne ignora una fruizione puramente
contemplativa, non utilitaristica. Il «piccolo giardino dietro casa» è coltivato e
non può né accogliere né trasfigurare i desideri del viaggiatore stanco,
l’ingegner Gonzalo, e non concede l’agognato isolamento: la planimetria dettata
dalla distorta smania filantropica del marchese padre nega a Gonzalo di fruire
di uno spazio esente dalla bruttezza della Storia, poiché è divenuto l’impropria
via d’accesso alla villa regolarmente usata, venuto meno il rispetto sacrale della
proprietà: «Questo giardino triangolare, e un po’ orto, di minima estensione,
con le cipolle e la vigna, e il fico, tutto frescure ed ombre il mattino, permetteva
a chiunque di passare in casa dal di dietro, sospingendo il cancelletto in ferro
pitturato di verde» (Gadda 1987a: 159). Gonzalo, volgendo lo sguardo a questo
spazio violato, ha la tangibile conferma della decadenza della propria classe
sociale e dell’impossibilità di poter finalmente trovare requie nell’unico
giardino che gli interessi coltivare, e che desidera netto da ogni impropria
bruttura, quello intimo:
Il giardino diventa pertanto orto, niente a che vedere con il biblico hortus
conclusus, da cui si diparte il cànone umanistico del giardino. E non è un caso,
forse, che nel Pasticciaccio compaia, connesso al secondo polo logistico del
romanzo, vale a dire la locanda-antro oracolare-bordello di Zamira, «l’orto»
malconcio della tenutaria («a un livello più basso che la quota stradale
ordinaria, l’Appia», RR II 150), che presenta un avvilente spettacolo di
degrado, coerente con l’ambiente chiuso: gli ortaggi prodotti – «poca bieta
scarruffata pure lei: un qualche cavolazzo spampanato nello scirocco, intignato
dalle pieridi» – non giustificano l’uso fattone, mentre il vero segno di vitalità è
dato dalla presenza della ben nota «bieca gallina». All’interno del romanzo, il
giardino, come inteso fino ad ora, è assente, se non per due lacerti degradati: le
erme, da un lato, e il giardino pubblico, di origine rinascimentale. Apollo, «de
quelli che so’ in giardino, de marmo», soggetto prediletto per i segni lapìdei del
giardino, diventa il termine metaforico quasi proverbiale per significare la
bellezza di Giuliano Valdarena da parte di un ormai alticcio Remo Balducci «ar
Cantinone» ad Ingravallo (RR II 65); ma il giardino, fisicamente inteso, nel
romanzo non c’è, se non in una degradata presenza della villa romanamente
intesa: non più luogo di delizia, ma postribolo en plein air, ove la madre della
Ginetta viene sorpresa in una prestazione erotica da un turista tedesco armato
di Baedeker.
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In Una buona nutrizione l’azione si svolge a Villa l’Alloro, nel cui giardino, tra i
lauri, s’inoltra la giovane Lisa con il suo ingombrante, vorace e silenzioso
corteggiatore Claudio; nel giardino si trova un gruppo scultoreo ritraente
Apollo all’inseguimento di Dafne: «La inaspettata significazione della pietra, e
dell’arte, non riusciva ineloquente, anzi!, per le frequentatrici, né per i
frequentatori del poggio». (9) Il mito classico, nella sua forma lapìdea, è sì
circondato dalla concreta conferma della perenne forza icastica – l’alloro –, ma
le forme delle sculture, normalmente destinate a congelare l’Eros nella
rappresentazione, svolgono una funzione opposta. Il complesso statuario,
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All’interno della dimora vi è una rigida divisione tra i personaggi del piano
nobile e quelli del piano basso. Da una parte, infatti, la famiglia di Lisa,
persone per le quali il tempo non scorre e resta bloccato in amabili conversari
di affari di cuore. Costituita dalla madre e dalla zia, e integrata con la presenza
dell’amica Elena, la confidente, essa è legata alla falsa Arcadia racchiusa dentro
le mura della proprietà ed accerchiata dai lauri; (10) vive inoltre in una
singolare ignoranza della Storia dopo il volontario allontanamento dell’unico
elemento maschile, il marito emigrato, forse, in America. Dall’altra, la famiglia
del satiro, il Baciccia, portatore dell’elemento comico, con le sue parodie in
chiave bassamente erotica delle sciocche confidenze del gineceo nobile; essa è
formata dalle serve/ancelle a disposizione delle signore, e da Cesare, il
giardiniere partorito come visione dalle ore crepuscolari – la «domestica ma
intermittente ombra» (RR II 765) –, presenza calibanico-ermetica nel suo
materiale rapportarsi alla natura, che contrasta con la superstizione
pampsichista dell’illusa creatura d’Arcadia, la signora Gemma, secondo cui
«anche le piante hanno un’anima… lo sento… anche i fiori…».
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che conceda libero sviluppo agli elementi, con il solo requisito della
delimitazione di proprietà. La signora, in un’esaltata esibizione di orgoglio
materno – colpa che pagherà con la tragica fine del figlio al termine del
racconto –, non esita a vantare le qualità di «giardiniere» di Vittorio, capace di
disporre le rocce per l’elemento artificiale del giardino, il sentiero:
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Università di Torino
Note
2. «Un botanista apprese dal carpentiere che il legno del larice era buono da finestre e da banco:
e volle che fossero tutti larici intorno alla casa. Andò anche dallo speziale e disse: larici! E dal
cavallaro e disse: larici! E dal mastro muratore e disse: larici! Avvenne infine che gli bisognasse
una gran tavola, da disseccarvi alcuni funghi velenosi: che intendeva distinguere dai mangiativi.
Gli disse, il carpentiere, che gli facesse, alla tavola, le quattro gambe di legno pero: che a tornire
vien meglio. E gli sovvenne, al botanista, che nel secolo pur allora consumato, c’era un pero nel
giardino. Ma i larici tenevano il suo luogo oggimai. Questa favoletta ne certifica: ogni forma
dell’Essere la merita tutela nel Jardin des Plantes. E la parola d’ordine è da incuorare i dementi»
(SGF II 13).
3. Forse è il caso di ricordare il passo nella sua completezza: «Il mare, ch’egli non avrebbe mai,
forse, veduto. La Liguria che dicevano sfavillante di sole, con il garofano e il basilico ne’ terrazzi,
con l’ulivo sul monte ed i sonanti pini d’attorno la solitudine de’ fari, sullo scoglio precipite al
margine de’ favolosi giardini: con i suoi vecchî tetti embricati di tenace ardesia, con i muri
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4. «Quel corpo stupendo, si era forzati ad ammetterlo, Dio lo aveva fabbricato per qualche suo
piano o scopo, dove indubbiamente figurarono circostanziate tutte le ragioni della divina
saggezza e avvinte poi nel nodo trionfale d’una così fulgida sintesi, che la nostra filosofia avrebbe
preferito girare alla larga. A qualcosa doveva certo servire: e nell’oscura coscienza fisiologica della
donna, oscura ma ferma, il qualcosa, senza troppa metafisica, diventava qualcuno. Quel corpo era
per qualcuno, ne aveva, di momento in momento, la fede» (RR II 488).
5. «Il conduttore, un giovane sobrio nel commento, preciso nella dizione, con voce imperiosa ci
guidò per i laberinti incantati delle Latomìe, per entro le grotte che gli antichi cavatori han
praticato nella dura materia della lor terra: a proposito delle Latomìe mi sia conceduto di tirare
in scena il giardino d’Armida, anche perché proprio il fico vi turge meraviglioso nella calda luce, e
se ne vivifica il verde dell’arancio, quasi prèsago dell’oro, e vi respira l’oleandro, con il sanguineo
dono de’ fiori, foltissimo. La malinconiosa cicala faceva più immensa e come vivente la luce» (RR
I 198).
6. «Il sommesso discorrere delle correnti, alle radici dei pioppi, dei salci, la pervade come nobile
pensiero: docilità che fluisce tra gli ori e i gialli, e per entro le ombrie maliose dei più alti alberi: o
sotto alle chiome ricadute del salice, di cui la vena lambisce e dolcemente comporta l’ultima
sfrangiatura che pur vorrebbe andare con lei, specchiando nuvole, torri»; «Di là dal fiume la villa,
con romani pini: e dall’ombre di quegli archi o grotte o meditanti caverne, l’antica morsura dei
licheni. E un paniere di fiori di porpora davanti la fronte e il disegno dell’edificio, e i gialli e i
maceri verdi d’autunno» (SGF I 207, 209).
7. L’agitarsi notturno delle foglie costituisce un severo coro, nel valore di «simbolo di un pagano,
incorrotto e religioso passato» (Roscioni 1969a: 6).
8. «Non è letteratura. Una ricca fauna selvatica, e la caccia in conseguenza, erano a quel tempo
realtà. Il cinghiale era ben presente, allora, nei boschi lombardi. Con larghe radure, certo, ma dai
monti di Varese e del Comasco l’abetina arrivava quasi alla Cagnola» (SGF I 397).
9. «Il dio giovane si studiava abbrancar Dafne, raggiuntala dopo l’affocata sua corsa, giovinetta
mortale. Per quanto con via il naso tutt’e due, e vestiti d’edera insino all’anche e de’ suoi tremuli
corimbi (nello spiro della sera), i due fuggenti, il disamato e l’amata, non ristavano dal suggerire
al cuore pensieri… o al cervello… che inducevano al cuore a noncurare affatto il cervello» (RR II
771).
10. «Al di fuori, a frotte, i lauri si addensavano ad accerchiare la dimora degli uomini, a lambire i
vetri verso cui tramontàno li sospinge, talvolta, e ne incurva la fronda. E si direbbero cani assai
belli, e un po’ inutili dopo spenta la caccia, che si raccolgano d’attorno al padrone, annusandogli a
quando a quando le scarpe, e ne affisino la sicura identità» (RR II 764).
11. «Non diceva una parola: reggeva con aria inebetita la sigaretta, tra il medio e l’indice, si
conformava di buon grado a tutte le esortazioni della signora Gemma […]. La sigaretta, per
mimetismo delle labbra, principiava subito a languire lei pure: e dopo un qualche minuto si
spegneva. Lui seguitava a reggerla tra il dito indice e il medio, poi tutt’a un tratto si risolveva: e
allora l’acciaccava pensosamente, nel portacenere: con una ruga orizzontale nella fronte.
Prendeva, tacendo, tutto quello che gli offrivano. Accoglieva, nella tazza, la fettina di limone o le
tre gocce di latte con un’indifferenza metafisica, con l’atarassia del filosofo […]» (RR II 773).
12. RR II 873. Si ricordi l’emozione provata da Gadda crocierista nel Mediterraneo davanti a
giardini pensili delle case di Tripoli: «Muri e muriccioli bianchi divisero, dentro cinta, stupendi
folti di palme: dadi bianchi le dimore (dentro i verdi giardini), sulle di cui facce il sole si ferma,
bloccato» (RR I 193).
13. «Al cancello, imagine agitata della bestiaggine, ci fu di nuovo il ringhioso: […] la groppa e le
zampacce d’un bianco sudicio di lana grama, in un arruffio di pelo e di festuche: la turpitudine
rosa della bocca: il feroce avorio dei denti, coi quattro cavicchi per isbranar le carni a’ cristiani: il
nero umido d’un naso cimurroso: gli occhi piccoli e scuri, infossati nello zelo malvagio, nella
rabbia» (RR II 825-26). La dolorosa esperienza di sfollato di Gadda emerge invece nella
corrispondenza a Lucia Rodocanachi: «[…] fuga, freddo, fame, tenebra, paura, miseria. La “legge”
mi obbliga ora a dividere l’alloggio e le suppellettili e i mobili con degli sconosciuti: l’essermi
allontanato dalla bombardata casa mi ha valso questo» (Gadda 1983d: 154, lettera 12 luglio
1945).
14. «[…] due bambine, coronate i capelli biondi e castani d’un serto di fiordiligi azzurri, di gialli
ranuncoli e di margherite: con alucce d’argento, alle spalle, e il vestitino rosso, le scarpette di
vacchetta bianca» (RR II 827).
15. Sull’importanza della lettura di Risorgimento Liberale per la gestazione del Pasticciaccio si
veda Andreini 1988: 156.
16. «[…] il sùbito fiore della ninfèa, che si dice scaturito dalla notte; nell’incanto della sua
tristezza, con lo sguardo rivolto ad un oltremonte remoto, di là, di là dai giochi e dai castelli di
rovaio, e dalle sconosciute frontiere: dietro alle quali erano andati, i giovani, insino a non averne
più saluto, né ricordo, verso il nulla. […]: le sue mani eran bianche, i lunghi diti fini si
acuminavano nelle piccole unghie di madreperla… o di cera» (RR II 845-46).
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The Edinburgh Journal of Gadda Studies https://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/journal/supp3atti1/articles/rebaucon...
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-06-X
© 2004-2022 by Maurizio Rebaudengo & EJGS. First published in EJGS (EJGS 4/2004).
artwork © 2004-2022 by G. & F. Pedriali
framed image: after a detail from Vittore Carpaccio, Meeting of the Betrothed Couple and the
Departure of the Pilgrims, 1495, Venice, Accademia.
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