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Qualità percepita dai pazienti. A cosa servono i dati?

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Anna Maria Murante

Capita troppo spesso che, malgrado un reale interesse per la qualità percepita dai pazienti,
laddove questi dati sono raccolti restino sconosciuti a chi lavora sul campo a stretto contatto
con i pazienti o poco utilizzati e discussi criticamente e che la loro utilizzabilità possa essere
pregiudicata dal livello di analisi spesso focalizzata sulle organizzazioni a livello macro,
anziché sulle unità elementari di erogazione dell’assistenza. Fino a quando il professionista
non riuscirà ad indossare “gli occhiali del paziente” non riuscirà ad offrire un’assistenza che
sia davvero di qualità.

Sarà capitato almeno una volta al personale di un reparto ospedaliero o di altri


servizi sanitari di chiedere ai propri pazienti di compilare un “questionario di
gradimento” dell’assistenza ricevuta. Viene però spontaneo chiedersi quante volte
queste attività sono state condotte all’interno di un piano strategico di presidio o aziendale,
o sotto la regia della governance regionale/nazionale? Quale attenzione è stata posta agli
aspetti “metodologici” della rilevazione? Quale utilizzo è stato fatto dei risultati raccolti?
Perché la rilevazione non si è ripetuta nel tempo? I risultati hanno fornito input per il
miglioramento della qualità dei servizi sanitari? E la qualità dei servizi è migliorata? Alcune
di queste domande sono alla base del dibattito attualmente in corso in Gran Bretagna e
guidato dalla Angela Coulter[1] per anni direttore del Picker Institute e oggi professore
associato alla Oxford University. Sebbene l’Inghilterra sia stata pioniera nel campo delle
patient experience survey, e su questo abbia fatto e continui a fare scuola, sembrerebbe
abbia ancora davanti a sé un po’ di strada da percorrere. Ma partiamo dalle origini. Dal
2002 l’NHS ha reso obbligatoria la raccolta di informazioni sull’esperienza dei
pazienti, e a tal fine sono stati istituiti programmi nazionali ad hoc, con lo scopo di
condurre survey in ambito sanitario e sociosanitario (Box 1). Box 1. Alcuni esempi
delle survey regolarmente condotte in Inghilterra.

• Indagini sui servizi di ricovero ospedaliero, ambulatoriale, del pronto soccorso, dei
servizi per la salute mentale e materna[a];
• Indagini sull’assistenza erogata dai medici di famiglia[b];
• Indagini rivolte ai pazienti oncologici[c];
• Rilevazione dei patient reported outcome, con cui si misurano gli outcome percepiti di
quattro procedure chirurgiche elettive (sostituzione dell’anca e del ginocchio, chirurgia
delle vene varicose e ernia inguinale), alle quali se ne aggiungeranno delle altre nei
prossimi mesi[d];
• Friends and Family Test (FFT)[e].

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Fonti: a) www.nhssurveys.org; b) www.gp-patient.co.uk c)


http://www.quality-health.co.uk/surveys/national-cancer-patient-experience-surve
y d) http://www.hscic.gov.uk/proms e) http://www.england.nhs.uk/ourwork/pe/fft/

Il Friends and Family Test (FFT) è l’ultima di una serie di iniziative, forse ancora poco
noto oltre manica. È diventato obbligatorio nel 2013 per tutti gli ospedali e i servizi che
erogano cure materne, e prevede la somministrazione a tutti i pazienti, e non ad un
campione come in buona parte degli esempi citati nel Box 1, di una domanda semplice, che
misura quello che tutti noi chiameremmo il “passaparola”: “Quanto saresti disposto a
consigliare il nostro servizio ad amici o parenti nel caso in cui avessero bisogno di cure o
trattamenti simili?”. Ai pazienti è chiesto inoltre di commentare, in uno spazio apposito, la
propria esperienza con il servizio. Il paziente risponde compilando una cartolina postale, un
questionario ad hoc o questionari più ampi già somministrati dalle strutture nei quali è stato
integrato il FFT. Le metodologie di rilevazione sono dunque molteplici e scelte a discrezione
dal provider. Il programma sarà ben presto esteso, infatti dal 2015, a chiunque accederà ad
uno qualsiasi dei servizi sanitari erogati dall’NHS sarà chiesto di compilare una versione
leggermente modificata del FFT. Sebbene questa grande attenzione all’esperienza che i
pazienti hanno con i servizi sanitari renda merito all’NHS, Coulter e colleghi, sono molto
preoccupati che tale attenzione possa essere vana nel momento in cui il grande
lavoro speso nella raccolta dei dati non trovi poi un seguito in termini di utilizzo
degli stessi per migliorare la qualità dell’assistenza, come chiaramente comunica il
titolo del loro ultimo articolo pubblicato su BMJ: “Collecting data on patient experience is
not enough: they must be used to improve care”[1]. Se questo titolo può inizialmente
risultare provocatorio per un Paese che per anni ha tenuto accesi i riflettori sui pazienti,
promuovendone la partecipazione, anche attraverso le stesse indagini, la lettura
approfondita dell’articolo apre invece una serie di riflessioni molto utili per tutti, inglesi e
non. Viviamo in un’epoca in cui il valore delle informazioni può essere a volte inestimabile, e
la corsa alla raccolta dei dati è per le aziende produttrici di beni e servizi indispensabile per
conoscere i propri consumatori, e quelli potenziali, al fine di rendere disponibili sul mercato
prodotti/soluzioni in grado di soddisfare sempre più i loro bisogni, mantenendo o
guadagnando quote di mercato. In sanità conoscere i livelli di soddisfazione e l’esperienza
dei pazienti è da tempo considerato un modo per misurare la qualità dell’assistenza, lo
stesso Donabedian[2] definiva più di trent’anni fa la soddisfazione dei pazienti, insieme allo
stato di salute, un outcome dell’assistenza e quindi una declinazione del concetto
multidimensionale della qualità. Eppure capita ancora troppo spesso, non solo in
Inghilterra, che, malgrado un reale interesse per la qualità percepita dai pazienti,
laddove questi dati sono raccolti, restino sconosciuti a chi lavora sul campo a

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stretto contatto con i pazienti o poco utilizzati e discussi criticamente[3] e che la


loro utilizzabilità possa essere pregiudicata dal livello di analisi spesso focalizzata sulle
organizzazioni a livello macro, anziché sulle unità elementari di erogazione
dell’assistenza[4]. Anche nelle realtà in cui si assiste ad un’ampia partecipazione da parte
delle organizzazioni sanitarie ad iniziative di questo tipo, le azioni di miglioramento che
possono scaturirne mostrano livelli di sviluppo ed implementazione molto differenti e a volte
peccano di scarsa omogeneità per quanto riguarda la metodologia adottata[5]. Per chi come
l’Angela Coulter ha dedicato buona parte della propria carriera a studiare e promuovere il
tema della patient experience risulta difficile credere che siano ancora pochi gli ospedali o
le organizzazioni che credono nel valore aggiunto che i feedback dei pazienti possano
portare per il miglioramento della qualità, e che esista ancora un baratro tra quanto
dichiarato dai manager che asseriscono l’importanza della patient experience e la loro
incapacità di coinvolgere i professionisti e produrre fattivi piani di azione. Eppure un modo
ci sarebbe per ovviare a questo “disastro”. Coulter e colleghi[1], vedono infatti nella
leadership una chiave di svolta a cui si aggiungono a cascata, la necessità di investire sulle
persone giuste che condividano questo obiettivo, il coinvolgimento dei pazienti e delle
famiglie, fissare obiettivi chiari, dedicare grande attenzione a chi opera nei servizi,
valorizzando il sistema dei feedback e lavorando sulla cultura, investire nello sviluppo delle
competenze, rendendo accessibili le risorse disponibili e, non da ultimo, misurare
sistematicamente l’esperienza dei pazienti e restituendone i risultati al fine di valutare i
miglioramenti, rafforzare il senso di responsabilità pubblica, identificare ambiti di
miglioramento. Verrebbe spontaneo chiedere agli autori perché tutto questo non sia
stato ancora fatto? In realtà la risposta la troviamo quasi in fondo all’articolo dove a
chiare lettere è scritto che “un approccio coordinato è necessario per migliorare
l’assistenza”. Come spiegato ampiamente all’inizio del paper, sono molteplici le rilevazioni e
le metodologie utilizzate dall’NHS (direttamente o avvalendosi di agenzie, istituti di ricerca,
etc.), tutte di gran valore. Ciò che serve è che qualcuno inizi a fare ordine e a mettere
insieme i pezzi del puzzle per capire se ci sono dei collegamenti o sovrapposizioni tra tutte
le iniziative in corso, se confrontando le metodologie in uso è possibile efficientare i processi
di rilevazione e soprattutto utilizzare in modo fattivo i dati per il miglioramento
dell’assistenza, garantendo una regia unica. Nel Paese delle patient experience survey ciò
ancora non avviene. Molto è stato speso, anche in termini di policy, per diffondere la cultura
della misurazione ma poco invece è stato investito sulla parte tecnica, metodologica,
necessaria per evitare che enormi database di dati e risultati qualitativi raccolti negli anni
restassero inutilizzati. Ciò che Coulter e colleghi auspicano è la costituzione di un
istituto nazionale unico, dedicato all’esperienza dei pazienti/utenti, responsabile
del coordinamento delle attività e degli aspetti metodologici, come
l’armonizzazione dei dati quantitativi e qualitativi, ma soprattutto con un forte

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imprintig operativo. Lavorare al fianco dei professionisti e sperimentare con loro diverse
soluzioni di raccolta e utilizzo dei dati può rappresentare infatti una soluzione efficace al
problema. Un esempio a cui tendono lo sguardo gli inglesi è l’Agency for Healthcare
Research and Quality statunitense che dal 1995 porta avanti il programma Consumer
Assessment of Healthcare Providers and Systems (CAHPS) e che dopo un primo decennio
dedicato a sviluppare le metodologie e gli strumenti di reporting, negli ultimi anni sta
dedicando enfasi al processo di utilizzo dei dati come base per il miglioramento della
qualità. Cosa ci insegna questa esperienza? A chi apprezza ancora poco o per niente il
valore dei feedback dei pazienti la scuola inglese fa sapere che sicuramente che non è più
possibile farne a meno, se davvero l’obiettivo dei servizi sanitari deve essere quello di
rispondere appieno ai bisogni dei pazienti/utenti. Non ha alcun valore un’assistenza che si
dichiari patient-centered se poi l’esperienza dei pazienti è tutt’altro che positiva. Per i
pochi che dedicano risorse umane ed economiche alla conduzione di survey, il
messaggio è chiaro: la raccolta dei feedback produce valore in termini di
miglioramento della qualità se frutto di una strategia condivisa tra policymaker,
manager e professionisti, se condotte sistematicamente e secondo metodo, e
soprattutto se i risultati sono messi a disposizione e discussi con chi lavora sul
campo. Fino a quando il professionista non riuscirà ad indossare “gli occhiali del
paziente” non riuscirà ad offrire un’assistenza che sia davvero di qualità, e di
conseguenza ad essere pienamente soddisfatto del proprio lavoro. Anna Maria
Murante. Scuola Superiore S. Anna, Laboratorio Management e Sanità. Pisa. Bibliografia

1. Coulter A., Locock L, Ziebland S, Calabrese J. Collecting data on patient experience is


not enough: they must be used to improve care. BMJ 2014; 348: g2225
doi:10.1136/bmj.g2225
2. Donabedian A. The Quality of care. How can it be assessed? JAMA 1988; 260;
1743-1748.
3. Boyer L, Francois P, Doutre E, Weil G And Labarere J. Perception and use of the
results of patient satisfaction surveys by care providers in a French teaching hospital.
International Journal for Quality in Health Care 2006; 18(5):359–364
4. Reeves R, Seccombe I. Do patient surveys work? The influence of a national survey
programme on local quality-improvement Initiatives. Qual Saf Health Care
2008;17:437–441.
5. Barr JK, Giannotti TE, Sofaer S, Duquette CE, Waters WJ, Petrillo MK. Using Public
Reports of Patient Satisfaction for Hospital Quality Improvement. Health Services
Research 2006; 41(3): 663-682.

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