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Ultima stanza

Non sappiamo da quanto tempo l’odore abitasse la stanza; di sicuro nessuno lo aveva informato
dell’intrusione imminente ed egli dovette considerare il mio ingresso come azione ostile.
Comunque, fatti io due passi, il tanfo si spostò di lato evitando il contatto con le due piccole valigie
che poggiai sul pavimento di graniglia grigia: una giallo limone, l’altra blu notte; si spostò,
concentrandosi negli angoli scuri fra le pareti, piegandosi a elle sotto il comodino e l’armadio di
castagno, rintanandosi a capezzale del letto rifatto, quello pareva, di fresco: la piega perfetta
allineava fiorellini rosa ed era ancora chiusa, in attesa di un ospite che non sarebbe dovuto
arrivare mai.

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Dopo aver inspirato una boccata di aria fetida che quasi mi tramortì, il primo gesto fu quello di aprire
la finestra in cerca dell’unica via di fuga possibile. È probabile che a quel punto lui si mettesse paura
di altri intrusi ancora: dell’aroma inebriante del gelsomino, arrampicato al muro invalicabile del cortile,
del tiglio, che intravedevo sull’attenti a pattugliare il confine straniero del marciapiede.
Sono sicura che ebbe terrore del profumo pungente versato dai calici dei suoi fiori e perfino del
freddo limpido delle stelle.
2 ultima stanza

Mentre il mio sguardo annegava nel buio che appariva immenso, la presenza alle mie spalle si
addensava preparandosi alla battaglia.
Quando mi voltai la sua mano disgustosa colpì con furia alla bocca del mio stomaco spingendo
la nausea a fiotti fino al cervello. Vidi le pareti, impregnate dell’odore assassino, pendere molli
come onde che andavano a infrangersi al centro, nella piccola piazza dove io e le mie valigie
cercavamo riparo, aspettando che la disperazione della clausura cedesse all’aria nuova che
doveva entrare dal riquadro della finestra.
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Invano.
Vomitai una prima volta la paura, con conati secchi di angoscia e malumori, poi, illudendomi che
attraversare la notte ora sarebbe stato possibile, svolsi la piega del lenzuolo disordinando l’aiuola
dei fiorellini rosa e mi sdraiai sulla schiena.

Il soffitto sulla mia testa, diversamente dal cielo di luglio, non aveva stelle, ma solo il pallore
giallognolo di pitture antiche che si disfacevano insieme a pezzi d‘intonaco; piovevano sui miei
occhi annebbiati dalla luce sporca di una pera elettrica.
Ed ecco disegnarsi nella mia testa la trama del luogo: volti scavati da inutili attese, labbra nere
sigillate ai sorrisi, occhiaie viola, orli a reiterati rimproveri, mani tese che non raggiungeranno mai
la stretta di un altro essere umano, sguardi evitati e rimpianti per tutte le occasioni andate perdute,
parole sprecate o peggio, buttate a caso nell'aria come tossine, tempo rubato, tradimenti, perdita
dell’innocenza, una goccia ogni giorno, abbandono, bambini spersi nel bosco delle città e mai più
ritrovati uguali, occhi di cane che lacrimano luce, implorano pietà a carnefici che non hanno mai
imparato il senso della parola...
ultima stanza 3

La vita trascorsa fin qui.


Vomitare la morte prima di morire, era l'unico segno di vita rimastomi.
- Pietà! – avrei voluto urlare come il cane, al soffitto
– Pietà! Mi liberi qualcuno o qualcosa dall’inevitabilità del passato, dal presente eterno di questa
notte. Ma non c’era nessuno con me, solo l’odore e il suo tanfo, solo pareti in discesa e il soffitto
in frantumi di quella stanza, ultima rimasta, presa in affitto su internet su un sito qualunque; ultima
stanza rimasta, quella della resa dei conti.

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Avevo aspettato troppo tempo a voltare pagina nei giorni della mia vita.
In quella stanza era stato sepolto, ancora vivo, il cadavere di tutto ciò che era stato fin lì, il punto
morto, il nodo scorsoio e puzzava di inesorabile..
Fiaccata ogni volontà di resistere, infine uscii dalla stanza, mi buttai giù per le ripide rampe di marmo.
Arrivata in fondo al pozzo: mi sedetti sul gradino più basso, all’ingresso del palazzo, chiusa a chiave
la porta sul mondo, in esilio dalla comunità degli uomini e delle donne addormentate nei letti di ogni
paese e città.
4 ultima stanza

Da lì scivolai in un gomitolo stretto di brividi e attesa, questa scandita dall’urlo della civetta e
dall’abbaiare ossessivo di un cane, in lontananza. Anche il campanile del paese partecipò all’evento:
due, tre, quattro rintocchi, uno spazio di tempo infinito fra essi. E vomiti, ancora.
Poi il freddo mi spinse di nuovo su per le scale puntellandomi i piedi con spiedi di ferro gelato.
Raggiunsi al stanza dove l’odore mi aspettava in agguato, paziente.
Ma dalla finestra aperta l’alba occhieggiava facendomi cenno di entrare con dita sottili di luce;
dal letto, la piega disfatta dispose i suo fiori in aiuola, era un modo per dirmi di stare tranquilla,
era solo un incubo, la vita, come il respiro che si acquietava, non era ancora finita.

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