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Purgatorio, Canto VII

Argomento del Canto


Ancora nel secondo balzo dell'Antipurgatorio.
Colloquio tra Virgilio e Sordello, che spiega la legge della salita nel Purgatorio.
I tre poeti raggiungono la valletta.
Sordello passa in rassegna i principi negligenti.
È il tardo pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, fra le quattro e le sei.

Colloquio tra Virgilio e Sordello (1-39)


Sordello, dopo aver ripetuto alcune volte le sue felicitazioni al concittadino Virgilio, chiede a lui e
Dante chi siano e il poeta latino risponde di essere morto quando Ottaviano era al potere, prima
dell'avvento del Cristianesimo. Si presenta come Virgilio e dichiara di non essere salvo solo per non
aver avuto fede. A questo punto Sordello resta stupito e incredulo, poi abbassa lo sguardo e
abbraccia Virgilio alle ginocchia in segno di rispetto, rivolgendogli parole di elogio per la sua
altissima poesia e chiedendogli infine se viene dall'Inferno e da quale Cerchio. Virgilio ribatte di
aver attraversato tutto l'Inferno e di essere guidato dalla virtù divina, quindi ribadisce di non essere
salvo solo per non aver creduto in Dio. Spiega inoltre di provenire dal Limbo, dove le anime non
subiscono alcun tormento e dove lui risiede insieme ai bambini innocenti che sono morti prima del
battesimo, e a coloro che hanno posseduto le virtù cardinali ma non quelle teologali. Virgilio chiede
infine a Sordello di indicar loro la via per giungere alla porta del Purgatorio.

La legge della salita nel Purgatorio (40-63)


Sordello risponde che lui e le altre anime non hanno una sede fissa, ma è loro consentito vagare per
il monte; tuttavia ora il sole sta per tramontare e salire col buio è impossibile, quindi è bene pensare
a dove trascorrere la notte. Aggiunge che poco lontano ci sono altre anime separate dalle altre e, se
Virgilio è d'accordo, li condurrà ad esse. Il poeta latino è stupito e chiede a Sordello se salire di
notte è di fatto impossibile o è vietato da qualcuno, allora l'altro si china in terra e traccia una riga
sul suolo col dito, spiegando che col buio non si potrebbe varcare neppure quella. Solo le tenebre
impediscono l'ascesa, perché le anime rischierebbero di tornare in basso o di vagare senza meta
lungo il monte. Allora Virgilio, pieno di meraviglia, chiede a Sordello di condurre lui e Dante al
luogo che ha detto prima. (Non basta la volontà del libero arbitrio per salire, è necessaria la
luce della Grazia)

La valletta dei principi (64-90)

I tre si allontanano di poco e Dante vede che il monte è incavato sul fianco, ospitando
un'ampia valletta; Sordello spiega che in quel luogo conviene trascorrre la notte. Un sentiero
obliquo li conduce sul fianco del monte, in un punto a meno di metà dell'altezza della valletta, dove
la natura si presenta rigogliosa e bellissima. L'erba e i fiori sono di colori così vivi che vincerebbero
sicuramente le tinte più preziose e raffinate usate dai pittori per dipingere, come l'oro, l'argento, lo
smeraldo. Lo spettacolo non è solo visivo, in quanto i fiori emanano un profumo che mescola in sé
mille odori soavi. Sedute sul prato e sui fiori Dante vede più di mille anime (i principi negligenti)
che intonano il Salve, Regina, non visibili fuori dalla valle. Sordello dice di non voler guidare Dante
e Virgilio giù tra gli spiriti prima del tramonto, ma che è preferibile osservarli da quel ripiano
dall'alto, da dove li potranno vedere tutti.

I principi negligenti (91-136)

Sordello inizia a indicare alcuni spiriti ospitati nella valletta: il primo siede più in alto degli altri e
mostra di aver trascurato il suo dovere, non partecipando al canto della preghiera, ed è l'imperatore
Rodolfo I d'Asburgo, che avrebbe potuto risolvere i problemi dell'Italia. Un altro che sembra
confortarlo col suo aspetto governò la terra (Boemia) dove nasce la Moldava che poi sfocia in Elba:
è Ottocaro II, che fin da piccolo fu migliore di suo figlio Venceslao II, che vive nella lussuria e
nell'ozio. Sordello indica poi uno spirito dal naso sottile (Filippo III l'Ardito), che morì in fuga e
disonorando la Francia, mentre accanto a lui un altro appoggia la guancia al palmo della mano (è
Enrico I di Navarra, suocero di Filippo il Bello di cui Filippo III è il padre: entrambi conoscono la
sua vita peccaminosa e ne sono addolorati). Sordello nomina ancora uno spirito dall'aspetto robusto
(Pietro III d'Aragona) accanto a un altro dal naso prominente (Carlo I d'Angiò), che cantano
all'unisono: se a Pietro fosse succeduto il giovinetto che ora siede dietro di lui, l'erede del suo regno
sarebbe stato valoroso, il che non si può dire degli eredi attuali, Giacomo re d'Aragona e Federico re
di Sicilia. È raro, spiega Sordello, che la virtù dei padri si trasmetta ai figli e ciò è voluto da Dio
affinché gli uomini la chiedano a Lui. Egli si riferisce anche a Carlo I d'Angiò, dal momento che il
regno di Napoli e la Provenza si dolgono di essere governati dal suo successore: Carlo II è tanto
inferiore al padre, quanto Carlo I lo è rispetto a Pietro III d'Aragona. Sordello indica ancora il re
d'Inghilterra Enrico III, che ebbe vita semplice e siede in disparte, potendo vantarsi di avere eredi
migliori; siede invece più basso degli altri il marchese Guglielmo VII del Monferrato, il quale fu
causa della guerra contro Alessandria che ancora provoca danni al Monferrato e al Canavese.

Interpretazione complessiva
Il Canto è strettamente legato al precedente, non solo per la presenza dello stesso protagonista
Sordello, ma anche perché entrambi hanno argomento politico (il VI era dedicato all'Italia, bersaglio
polemico dell'invettiva di Dante, mentre la seconda parte del VII è occupata dalla rassegna dei
principi della valletta che vengono mostrati da Sordello ai due poeti). L'apertura si collega ai vv. 71-
75 del Canto VI, col penitente che si felicita col concittadino Virgilio e poi ne apprende il nome,
gettandosi ai suoi piedi in segno di rispetto e dedicandogli un commosso elogio per i suoi meriti di
poeta; è una situazione che anticipa quella dei Canti XXI-XXII, in cui il poeta latino riceverà gli
elogi ancora più appassionati di Stazio. Il riconoscimento dell'alto magistero poetico di Virgilio da
parte di Sordello non è casuale, in quanto tutta la seconda parte del Canto con la presentazione delle
anime della valletta sarà un chiaro riferimento al libro VI dell'Eneide, all'episodio in cui l'ombra
di Anchise mostra al figlio Enea nei Campi Elisi le anime dei futuri grandi eroi di Roma: già prima
Sordello, spiegando la legge della salita nel Purgatorio, aveva detto Loco certo non c'è posto, che
riprende Aen., VI, 673 (Nulli certa domus, la risposta alla Sibilla del poeta Museo prima di scortare
lei ed Enea al luogo dov'è Anchise). Virgilio ribadisce inoltre per ben due volte il fatto di provenire
dal Limbo, ovvero da un luogo fisicamente posto all'Inferno ma in cui le anime non soffrono alcuna
pena, in quanto la loro unica colpa è stata quella di non aver posseduto le virtù teologali. C'è una
sorta di parallelismo tra la sua condizione ultraterrena e quella delle anime dei giusti che lui stesso
aveva descritto nei Campi Elisi, così come quella dei principi che abitano la valletta; in questo
luogo, tra l'altro, converrà trascorrere la notte, poiché come spiega Sordello è impossibile salire col
buio che rischierebbe di far scender le anime in basso (e già Virgilio aveva raccomandato a Dante di
salire pur su al monte, e lo aveva avvertito che l'ascesa sarebbe durata più di un giorno).
Sordello scorta poi i due poeti alla valletta, scavata sul fianco del monte e dove i principi non sono
visibili all'esterno: è un luogo dalla natura rigogliosa, con l'erba verde e i fiori colorati e profumati,
che rappresenta quasi un'anticipazione dell'Eden. Dante sottolinea il fatto che uno spettacolo così
ameno è frutto dell'arte divina, poiché i colori più vivi dei pittori non potrebbero gareggiare con lo
splendore dell'erba e dei fiori, né col loro odore soave (è il tema dell'arte umana che non può
riprodurre la natura creata da Dio, già presente nel proemio della Cantica e che sarà ripreso nei
Canti dedicati ai superbi). È naturalmente Sordello a passare in rassegna i più ragguardevoli tra i
principi che si trovano nella valletta, stando su un'altura rocciosa come Anchise aveva fatto con
Enea nell'episodio citato: la scelta di Sordello come guida di Dante e Virgilio è legata al Compianto
in morte di Ser Blacatz da lui composto, in cui aveva biasimato i vizi dei principali sovrani del suo
tempo secondo lo schema del planh provenzale. Le analogie sono molte, a partire dal fatto che
nel Compianto egli cita otto sovrani partendo dall'imperatore e finendo con due vassalli minori,
come fa qui Dante che parte da Rodolfo e finisce con Guglielmo del Monferrato; notevoli sono però
anche le differenze, perché Dante non critica tanto le colpe di questi principi (che furono
«negligenti» soprattutto per la cura della loro anima, essendosi pentiti tardivamente) quanto quelle
dei loro successori che diventano il vero bersaglio polemico di Sordello. La rassegna anticipa quella
di Par., XIX, 115 ss., in cui l'aquila accuserà duramente i cattivi principi cristiani, e si collega a tutti
quei passi del poema in cui Dante rimprovera i sovrani temporali di non amministrare nel modo
dovuto la giustizia, fatto che è all'origine di tanti mali che affliggevano l'Italia (e l'Europa) del
Trecento.
I principi vengono mostrati a coppie, a cominciare da Rodolfo I d'Asburgo (l'imperatore siede più
alto di tutti e si rammarica di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere) e Ottocaro II di Boemia,
che in vita furono nemici e si combatterono strenuamente: Ottocaro contestò la nomina imperiale di
Rodolfo, mentre qui in Purgatorio ne la vista lui conforta, quindi i due implacabili nemici si sono
riconciliati e hanno perdonato le offese subìte. Se Rodolfo ha le sue colpe avendo lasciato vacante
la sede imperiale in Italia, cosa che Dante rimproverava anche al figlio Alberto nel Canto
precedente, Ottocaro è stato invece un ottimo sovrano e può rammaricarsi del successore, il figlio
Venceslao II che fu uomo inetto e vizioso e che Dante accuserà anche nel passo citato del Paradiso.
L'altra coppia è formata da Filippo III l'Ardito e Enrico I di Navarra, rispettivamente padre e
suocero di Filippo il Bello che Dante più volte biasima nel poema: entrambi furono valenti sovrani e
si rammaricano proprio della vita... viziata e lorda dell'attuale re di Francia, il primo battendosi il
petto e il secondo sospirando (di Filippo III viene detto che morì fuggendo e disfiorando il giglio,
con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas del 1285: può essere un'accusa di
aver disonorato la corona, ma forse è solo un accenno al fatto che con quella guerra la Francia perse
un petalo del giglio, ovvero la Sicilia). Seguono poi Carlo I d'Angiò e Pietro III d'Aragona, che
morirono entrambi nel 1285 e furono in vita fieri avversari come Rodolfo e Ottocaro, mentre qui
cantano in perfetto accordo: anch'essi si rammaricano dei loro successori, sia Pietro che ha lasciato
Sicilia ed Aragona a Federico e Giacomo (l'onor di Cicilia e d'Aragona, entrambi più volte attaccati
da Dante), sia Carlo che ha lasciato Provenza e regno di Napoli a Carlo II lo Zoppo, tanto inferiore
al padre quanto lui lo è rispetto a Pietro III. L'ultima coppia non ha legami apparenti, essendo
formata da Enrico III d'Inghilterra (ottimo sovrano, dalla vita semplice e dai buoni successori) e da
Guglielmo VII del Monferrato, che morì per mano degli Alessandrini e che il figlio Giovanni volle
vendicare con una lunga e sanguinosa guerra, che causò gravi danni alle sue terre; Guglielmo è
seduto in posizione più bassa rispetto agli altri, in quanto occupa una posizione politica di minor
prestigio, e guarda in suso (forse verso i sovrani più importanti, ma forse verso il Cielo in segno di
preghiera).
L'elemento più importante della rassegna non è solo il rimprovero al malgoverno dei principi sulla
Terra che verrà ripreso in altri passi di Purgatorio  e Paradiso, ma soprattutto la rappresentazione di
queste anime come sciolte dalle loro cure terrene, tutte volte al loro percorso di espiazione, per cui
anche gli antichi nemici siedono accanto e mostrano una perfetta armonia. Ciò si accorda con la
presentazione dei morti per forza del Canto V, i quali non avevano parole di odio o astio verso i loro
uccisori ma si preoccupavano unicamente di essere ricordati dai vivi; l'episodio della valletta, che si
concluderà nel Canto seguente con l'incontro fra Dante e altri penitenti, prepara il terreno alla
rappresentazione del Purgatorio vero e proprio, che sarà dominata dall'atteggiamento sereno e
rassegnato delle anime, anche in questo ben diverso da quello dimostrato dai dannati incontrati nella
discesa all'Inferno.

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