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Mann LamorteaVenezia
Mann LamorteaVenezia
La morte a Venezia
(Der Tod in Venedig, 1912)
III
Fece colazione senza fretta, ricevette dalle mani del portiere, che era
entrato nel salone col berretto gallonato in mano, la corrispondenza
rispedita da casa, e fumando una sigaretta aprì due o tre lettere. Così poté
ancora assistere all'ingresso del dormiglione che era atteso all'altro tavolo.
Egli entrò dalla porta a vetri e attraversando in diagonale la saletta
silenziosa venne al tavolo delle sorelle. Il suo incedere, tanto per il
portamento del busto quanto per il movimento dei ginocchi e il passo dei
piedi calzati di bianco, era di una grazia straordinaria, molto leggero,
delicato e superbo insieme, e abbellito ancora dalla timidezza infantile con
la quale egli cammin facendo alzò e abbassò due volte gli occhi volgendo
il viso verso la sala. Sorridente, con una parola a mezza voce nella sua
lingua fluida e dolce, egli sedette al suo posto; e soprattutto ora, vedendolo
nettamente di profilo, Aschenbach fu colpito da meraviglia e quasi da
sgomento per la bellezza veramente divina del giovane mortale. Oggi il
ragazzo portava una blusa leggera di cotone a righe bianche e azzurre, con
un fiocco rosso sul petto, chiusa al collo da un semplice solino bianco
diritto. Da quel solino, non molto adatto d'altronde al genere del vestito, la
testa sbocciava come un fiore, con leggiadria incomparabile — una testa di
Eros, che aveva la lucentezza eburnea del marmo pario, con sopracciglia
sottili e gravi, tempie e orecchi morbidamente coperti dai riccioli scuri
tagliati ad angolo retto.
«Bene, bene! — pensò Aschenbach, con la fredda approvazione tecnica
con cui gli artisti a volte travestono il loro rapimento, la loro esaltazione
davanti a un capolavoro. E continuando il suo pensiero, soggiunse: —
Davvero, se non mi attendessero il mare e la spiaggia, resterei qui finché
resti tu!» Ma invece, fra gl'inchini dei camerieri, attraversò il salone, scese
dalla terrazza, e per la passerella di legno andò direttamente alla spiaggia
riservata dell'albergo. Dal vecchio bagnino scalzo in calzoni di tela,
camiciotto da marinaro e cappello di paglia, si fece aprire la cabina che
aveva preso in affìtto, e mettere fuori sulla piattaforma di assi il tavolino e
le sedie; e si distese comodamente sulla poltrona a sdraio dopo averla tirata
più presso al mare, nella sabbia giallastra.
Lo spettacolo della spiaggia, di questa civiltà che gode sensuale e
spensierata in riva all'elemento, lo divertiva e lo rallegrava più che mai.
Già il piatto grigiore del mare era animato da bambini sguazzanti, da
nuotatori, da figure variopinte coricate sui banchi di sabbia con le mani
incrociate dietro il capo. Altri remavano in sandolini rossi e azzurri e si
rovesciavano in acqua ridendo. Davanti alla lunga fila delle capanne, che
avevano ognuna una piattaforma simile a una piccola veranda, c'era
giocosa agitazione e pigro riposo, visite e conversazioni, raffinata eleganza
mattutina e nudità ardita che godeva con gusto la libertà della spiaggia, più
avanti, sulla sabbia umida e salda, alcuni passeggiavano vestiti di
accappatoi bianchi o di camiciotti dai colori sgargianti. A destra una
complicata fortezza di sabbia costruita dai bambini era guarnita tutt'intorno
di bandierine d'ogni paese. Venditori di molluschi, di frittelle e di frutta
disponevano, ginocchioni, la loro merce. A sinistra, davanti a una delle
cabine che eran poste perpendicolarmente alle altre e al mare e chiudevano
così la spiaggia da quella parte, era accampata una famiglia russa: uomini
con lunghe barbe e con grossi denti, donne fragili e neghittose, una
signorina delle province baltiche, che seduta davanti a un cavalletto
dipingeva una marina fra sospiri di disperazione, due bambini brutti ma
simpatici, una vecchia domestica col fazzoletto in capo che si comportava
con umile tenerezza. Vivevano lì in riconoscente beatitudine, chiamando
instancabilmente per nome i loro bambini indocili e scatenati, scherzando
lungamente per mezzo di poche parole italiane col vecchio faceto che
vendeva dolciumi, baciandosi sulle guance, non curandosi affatto dei
testimoni della loro vita di famiglia.
«Dunque rimango, — pensò Aschenbach. — Dove trovare di meglio?»
E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sulle
lontananze del mare, e il suo sguardo ruggire, dissolversi, spezzarsi nel
vapore monotono dello spazio deserto. Egli amava il mare per ragioni
profonde: il bisogno di riposo dell'artista costretto a una dura fatica, che
davanti all'esigente proteismo dei fenomeni cerca rifugio nel seno della
semplicità, dell'immensità; la tendenza vietata, in netto contrasto con la sua
missione e appunto per questo così irresistibile, all'inarticolato,
l'incommensurabile, l'eterno, il nulla. Riposare nella perfezione è il sogno
di chi s'affatica per giungere all'eccellenza; e il nulla non è una forma della
perfezione? Ora, mentre egli lasciava che il suo sogno s'immergesse così
nel vuoto, la linea orizzontale della riva fu tagliata all'improvviso da una
forma umana, e quando egli raggiunse e ricondusse il suo sguardo
dall'infinito vide il bel fanciullo che venendo da sinistra gli passava
davanti sulla sabbia.
Era scalzo, pronto a sguazzare nell'acqua, le gambe snelle nude fin sopra
il ginocchio: camminava adagio ma con passo leggero e superbo, come se
fosse abituato ad andare senza scarpe, e si voltò verso le cabine che
delimitavano la spiaggia. Ma appena ebbe scorto la famiglia russa che se la
godeva in dolce armonia, una nube di iroso disprezzo gli oscurò il viso. La
sua fronte si corrugò, il labbro superiore si storse, dalla bocca a uno degli
zigomi corse una smorfia amara che gli sformò la guancia, e le
sopracciglia erano così increspate che gli occhi parvero incavarsi sotto la
pressione e fattisi scuri e cattivi parlarono eloquentemente il linguaggio
dell'odio. Egli abbassò lo sguardo, ancora una volta si girò indietro
minaccioso, fece poi con la spalla un brusco movimento di disprezzo, e si
lasciò il nemico alle terga.
Un senso di discrezione o di spavento, qualcosa come rispetto e
vergogna indusse Aschenbach a distoglier lo sguardo come se non avesse
veduto nulla; giacché all'uomo serio che per caso è testimonio della
passione ripugna far uso anche soltanto dentro se stesso di ciò che ha visto.
Aschenbach però era divertito e commosso insieme, vale a dire felice.
Quel fanatismo infantile rivolto contro gente innocua e bonaria metteva in
rapporti umani l'inespressività divina, rivelava degno di un interesse più
profondo un prezioso capolavoro della natura che era parso destinato solo
alla gioia degli occhi; e la figura dell'adolescente già così notevole per la
sua bellezza ne otteneva un rilievo che permetteva di prenderlo sul serio
più di quanto la sua età non comportasse.
Ancora voltato, Aschenbach ascoltava la voce del fanciullo, quella voce
chiara, un po' sottile, con cui egli cercava di annunciarsi già da lontano ai
compagni di gioco occupati intorno alla fortezza. Gli risposero parecchie
voci, gridando il suo nome o un vezzeggiativo, e Aschenbach ascoltò con
una certa curiosità, senza poter cogliere nulla di più preciso che due sillabe
melodiose come «Adgio» o più sovente «Adgiu» con un u prolungato alla
fine. Il suono gli piacque, egli giudicò che l'eufonia corrispondeva al-
l'oggetto, lo ripete mentalmente e poi ritornò soddisfatto alle sue carte e
alle sue lettere.
Con la piccola cartella da viaggio sulle ginocchia prese la penna
stilografica e incominciò a sbrigare un po' di corrispondenza. Ma dopo un
quarto d'ora giudicò che era un peccato abbandonare così in ispirito e
trascurare per un'attività indifferente uno stato tanto degno d'esser goduto.
Buttò da parte carta e penna e ritornò al mare; e ben presto, attirato dalle
voci fanciullesche dei costruttori del forte, voltò verso destra la testa
comodamente appoggiata allo schienale della poltrona per assistere di
nuovo ai fatti e ai gesti del delizioso «Adgio».
Lo trovò alla prima occhiata; il fiocco rosso che aveva sul petto lo
distingueva fra tutti. Occupato insieme con gli altri a collocare una vecchia
tavola a guisa di ponte sul fossato umido della fortezza, egli dirigeva
l'opera con parole e con cenni del capo. Erano con lui una diecina di
compagni, maschi e femmine, della sua età e qualcuno più giovane, che
parlavano insieme in tutte le lingue, polacco, francese e anche idiomi
balcanici. Ma il suo nome risonava più sovente degli altri. Egli era fra tutti
il più ricercato, ammirato, corteggiato. Specialmente uno, polacco come
lui, che si chiamava «Yaschu» o qualcosa di simile, un ragazzo robusto dai
capelli neri impomatati, vestito di una leggera veste di tela, sembrava il
suo più fedele vassallo e amico. Finito per quella volta il lavoro intorno
alla fortezza, se ne andarono abbracciati lungo la riva, e quello chiamato
«Yaschu» baciò il bellissimo compagno.
Aschenbach fu tentato di minacciarlo col dito. «A te, Critobulo, —
pensò sorridendo, — consiglio di viaggiare per un anno! Perché tanto ti
occorre per guarire, non meno!» E poi fece una colazione di grosse fragole
ben mature, che comperò da un venditore ambulante. Adesso faceva molto
caldo, benché il sole non fosse riuscito a bucare lo strato di vapori che
copriva il cielo. La pigrizia incatenava lo spirito, mentre i sensi
assaporavano il formidabile e stordente discorso del silenzio marino.
Indovinare, indagare quale fosse quel nome che sonava press'a poco «Ad-
gio» parve all'uomo serio e pensoso un compito degno di tutta la sua
attenzione. E con l'aiuto di qualche reminiscenza polacca, concluse che
doveva essere «Tadzio», abbreviazione di Tadeusz che nel vocativo si
prolungava in «Tadziu».
Tadzio faceva il bagno. Aschenbach, che l'aveva perso di vista, scorse la
sua testa, il suo braccio che egli alzava battendo l'acqua, laggiù molto al
largo; il mare infatti doveva esser calmo fino a grande distanza. Ma già la
gente s'inquietava per lui, già voci di donne lo chiamavano dalle cabine e
ripetevano quel nome che dominava la spiaggia quasi come una parola
d'ordine e con le sue consonanti dolci, il suo u finale prolungato aveva
qualcosa di mite e di selvaggio insieme: — Tadziu! Tadziu! — Egli tornò
indietro, a testa arrovesciata traversò di corsa l'acqua bassa facendo
sollevare in spuma l'onda che resisteva alle sue gambe; e vedere la forma
viva, acerba e graziosa nella sua previrilità, sorgere con i ricci grondanti,
bella come un giovane nume, dalle profondità del mare, uscire e fuggire
dall'elemento, era uno spettacolo che suggeriva mitiche fantasie, qualcosa
come una leggenda poetica di età primitive che narra le origini della forma
e la nascita degli dèi. Aschenbach ascoltava con gli occhi chiusi quel canto
che gli vibrava nell'anima, e di nuovo pensò che lì stava bene e che lì
sarebbe rimasto.
Più tardi Tadzio si riposò del bagno, sdraiato sulla sabbia, avvolto in un
lenzuolo bianco che passava sotto la spalla destra e con la testa appoggiata
sul braccio nudo; e Aschenbach, anche se non lo guardava e leggeva
invece qualche pagina del suo libro, non dimenticava mai che egli giaceva
là, e che bastava voltare leggermente il capo verso destra per contemplare
la mirabile visione. Gli sembrava quasi di esser lì per proteggere il suo
riposo, occupandosi delle cose proprie e tuttavia in costante vigilanza sulla
creatura ideale che giaceva poco lontano. E una tenerezza paterna, l'affetto
commosso di colui che sacrificandosi in ispirito crea la bellezza, verso
colui che la possiede, riempiva e agitava il suo cuore.
Dopo mezzogiorno lasciò la spiaggia, tornò all'albergo e salì in camera
sua. Ivi rimase a lungo davanti allo specchio, osservando i suoi capelli
grigi, il suo viso stanco e scavato. In quel momento pensò alla sua gloria,
ricordò che molti per la strada lo riconoscevano e lo guardavano reverenti,
per la precisione infallibile e coronata di grazia della sua parola; evocò
tutti i fortunati successi del suo talento, senza dimenticare il titolo nobiliare
che gli era stato conferito. Poi scese in sala da pranzo per il lunch, e
mangiò al proprio tavolino. Quando, finito il pasto, entrò nell'ascensore,
alcuni giovani che venivano anch'essi dalla sala da pranzo lo seguirono
nella gabbietta sospesa, e Tadzio era fra loro. Aschenbach se lo trovò
accanto, così vicino che invece di vederlo a distanza d'immagine lo sentiva
e lo riconosceva minutamente in tutti gli elementi della sua umanità.
Qualcuno rivolse la parola al fanciullo e questi, mentre rispondeva con un
sorriso indescrivibilmente amabile, già usciva a ritroso, con gli occhi bassi,
sul primo ripiano. «La bellezza genera il pudore», pensò Aschenbach e si
chiese insistentemente perché. Intanto aveva notato che i denti di Tadzio
non erano perfetti; un po' frastagliati e pallidi, senza lo smalto delle
dentature sane, con quella particolare fragilità e trasparenza che
accompagna talvolta la clorosi. «E molto delicato, non ha salute, — pensò
Aschenbach. — Probabilmente non diventerà vecchio». E rinunziò a
cercare la ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo suscitato
da quel pensiero.
Passò due ore nella sua stanza e nel pomeriggio andò a Venezia col
vaporetto che attraversava la putrescente laguna. Scese a San Marco, prese
il tè in piazza e poi, secondo il suo programma veneziano, fece un giro per
le vie. Ma proprio quella passeggiata produsse un rovesciamento completo
del suo umore e delle sue decisioni.
Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l'aria era così spessa
che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe, cucine — vapori oleosi,
nuvole di profumo e molti altri —, restavano sospesi senza dissolversi. Il
fumo delle sigarette fluttuava dov'era e si disperdeva solo con estrema
lentezza. La folla che si pigiava nello spazio ristretto infastidiva il
passeggiatore invece di divertirlo, più andava, e più sentiva il tormento
dell'orribile stato in cui l'aria di mare unita allo scirocco solevan farlo
cadere, uno stato di prostrazione e di eccitazione insieme. Il suo corpo stil-
lava di molesto sudore. Gli si annebbiava la vista, il petto era oppresso, un
brivido di febbre lo scosse, il sangue gli pulsava alle tempie. Fuggì dalle
Mercerie affollate, verso i quartieri dei poveri. Ma qui lo importunavano i
mendicanti, e il fetore dei canali gli mozzava il respiro. In una piazza
tranquilla, uno di quei luoghi nel cuore di Venezia che sembrano
addormentati in un magico oblio, egli si riposò su una vera di pozzo,
s'asciugò la fronte e capì che doveva partire.
Per la seconda volta e ormai in modo definitivo era dimostrato che la
città, con quella temperie, aveva un pessimo effetto sulla sua salute.
Ostinarsi a restare era irragionevole, la probabilità di un cambiamento di
atmosfera appariva molto incerta. Bisognava prendere una decisione
immediata. Ritornare a casa subito non era possibile. Né il quartiere
d'inverno né quello d'estate eran pronti ad accoglierlo. Ma il mare e la
spiaggia non si trovavano soltanto a Venezia, e anzi altrove non avevano il
malefico complemento della laguna e dei suoi miasmi. Si ricordò di un
piccolo villaggio balneare poco distante da Trieste, che qualcuno gli aveva
segnalato. Perché non andar là? E senza indugio, affinché mettesse ancora
conto di cambiare un'altra volta villeggiatura. Si dichiarò risoluto e si alzò.
Alla prima stazione di barche prese una gondola e attraverso il tetro
labirinto dei canali, sotto balconi leggiadri fiancheggiati da leoni di
marmo, girando intorno a speroni di muraglie vischiose, lungo squallide
facciate di palazzi in rovina che specchiavano grandi insegne di fondachi
nelle acque cosparse di galleggianti detriti, si fece portare a San Marco.
Non vi giunse senza fatica, perché il gondoliere, in combutta con fabbriche
di merletti e vetrerie, cercava continuamente di sbarcarlo per visitare
negozi e fare acquisti, e quando quella bizzarra traversata di Venezia in-
cominciava a esercitare il suo incanto, il mercantilismo rapace della
decaduta regina dei mari interveniva spiacevolmente a sciogliere la magia.
Ritornato all'albergo, prima ancora di pranzare dichiarò al bureau che
circostanze impreviste lo costringevano a partire l'indomani mattina.
Furono scambiate frasi di rincrescimento, gli venne rilasciata quietanza del
suo conto. Egli pranzò e trascorse la tiepida serata a legger giornali seduto
in poltrona a dondolo sulla terrazza verso il giardino. Prima di andare a
letto preparò tutti i bagagli per la partenza.
Non dormi troppo bene, agitato dal nuovo distacco. Al mattino, quando
aprì la finestra, il cielo era coperto come il giorno prima, ma l'aria pareva
più fresca, e tosto incominciò il suo rimpianto. Quella precipitosa disdetta
non era un errore, la conseguenza di uno stato di malessere che non
costituiva norma? Se l'avesse differita di qualche giorno, se, prima di
rinunziare a priori, avesse corso l'alea di un adattamento al clima
veneziano o di un miglioramento del tempo, adesso, in luogo di agitazione
e trambusto, avrebbe avuto davanti una mattinata sulla spiaggia come
quella di ieri. Troppo tardi. Adesso doveva continuare a volere ciò che
aveva voluto ieri. Si vestì e alle otto scese a pianterreno per far colazione.
Nella saletta, quando egli entrò, non c'era ancora nessuno. Qualcuno
giunse mentre egli aspettava la colazione che aveva ordinato. Sorbiva già il
tè quando arrivarono le giovani polacche con la loro accompagnatrice;
austere e fresche, con gli occhi un po' rossi, andarono al loro tavolino
presso la finestra. Subito dopo s'avvicinò il portiere col berretto in mano e
gli annunciò ch'era l'ora della partenza. L'automobile era pronta per
condurre lui e altri viaggiatori all'Albergo Excelsior, di dove il motoscafo
avrebbe trasportato i signori alla stazione attraverso il canale privato della
Società dei Grandi Alberghi. Non c'era tempo da perdere... Secondo
Aschenbach, invece, non c'era nessuna fretta. Mancava più di un'ora alla
partenza del treno. Egli si impazientì contro l'abitudine alberghiera di
spedir via troppo presto i partenti, e disse al portiere che intendeva far
colazione in pace. L'uomo si ritirò a malincuore per ricomparire dopo
cinque minuti. Impossibile far aspettare più a lungo la macchina. — E
allora vada pure, basta che trasporti il mio baule, — rispose Aschenbach
irritato. Quanto a lui, aggiunse, avrebbe preso il vaporetto all'ora che gli
faceva comodo, e pregava che lo lasciassero sbrogliare da solo.
L'impiegato s'inchinò. Aschenbach, contento di aver respinto le fastidiose
insistenze, terminò senza fretta di far colazione e si fece persino portare un
giornale. Aveva davvero i minuti contati quando finalmente si alzò. Il caso
volle che proprio in quel momento Tadzio entrasse dalla porta a vetri.
Nell'andare verso il tavolo dei suoi, egli s'incontrò con l'ospite che
partiva; davanti a quel signore dalla fronte alta e dai capelli grigi chinò
modestamente gli occhi a terra, per risollevarli tosto, com'era suo amabile
vezzo, larghi e dolci verso di lui, ed era già passato. «Addio, Tadzio! —
pensò Aschenbach. — Per breve tempo ti ho veduto». E mentre contro la
sua abitudine formulava il pensiero con le labbra e lo mormorava a voce
bassa, soggiunse: — Sii benedetto! — Poi procedette alla partenza,
distribuì mance, ricevette il saluto del piccolo discreto manager in
finanziera alla moda francese, e uscì dall'albergo a piedi com'era venuto,
seguito dal domestico che portava il bagaglio a mano, per recarsi
all'imbarcatoio, lungo il viale biancofiorito che traversa l'isola. Vi giunge,
sale sul vaporetto... e quel che seguì fu il cammino della passione, un
angoscioso discendere a tutti gli abissi del pentimento.
Era la traversata ben nota della laguna, passando davanti a San Marco, e
su per il Canal Grande. Aschenbach era seduto sulla panca circolare a prua,
col braccio appoggiato alla ringhiera e la mano alzata a proteggere gli
occhi dal riverbero. I Giardini Pubblici restarono alle sue spalle, la
Piazzetta s'aprì ancora una volta nella sua grazia regale e scomparve, poi
venne la grande fuga di palazzi, e alla svolta del canale apparve lo
splendido arco marmoreo del Ponte di Rialto. Il viaggiatore guardava, e si
sentiva strappare il cuore. L'atmosfera, della città, quell'odore un po'
marcio d'acqua stagnante che aveva avuto tanta fretta di fuggire... adesso
egli lo respirava a lunghi tratti, con dolorosa tenerezza. Possibile che egli
non avesse saputo, che non avesse ricordato come il suo cuore era
attaccato a tutto ciò? Quello che al mattino era stato un vago rammarico,
un leggero dubbio sull'opportunità della sua decisione, diventava adesso
dolore, vero cordoglio, una tortura dell'anima, così amara che più volte le
lacrime gli empirono gli occhi, e di cui si diceva che non avrebbe mai
potuto prevederla. Ciò che più gli pareva penoso, anzi in certi momenti
addirittura intollerabile, era il pensiero che non avrebbe mai più riveduto
Venezia, che quello era un addio per sempre. Poiché aveva accertato per la
seconda volta che la città era nociva alla sua salute, poiché per la seconda
volta era costretto a fuggir via precipitosamente, doveva considerarla d'ora
in poi come una residenza impossibile e proibita, al di sopra delle sue
forze, e che sarebbe stato assurdo ritentare. Sentiva anzi che se ora partiva,
orgoglio e vergogna gli avrebbero vietato di vedere mai più la città amata
davanti alla quale per ben due volte egli aveva fallito fisicamente; e quel
conflitto fra inclinazione spirituale e capacità corporale parve
improvvisamente così grave e significativo all'uomo in declino, la disfatta
fisica così vergognosa, così da evitare a qualunque prezzo, che non capiva
più la facile rassegnazione con cui ieri aveva deciso di subirla e di am-
metterla senza una dura lotta.
Intanto il vaporetto s'avvicina alla stazione, sofferenza e perplessità
crescono fino allo sconvolgimento. In tanta angoscia il partire sembra
impossibile e non meno impossibile il rimanere. Cosi egli entra in
stazione, con l'animo lacerato. E molto tardi, non c'è un minuto da perdere
se vuole prendere il treno. Egli vuole e non vuole. Ma il tempo stringe, lo
incalza; egli si affretta a prendere il biglietto e nel trambusto della sala
cerca l'impiegato della Società. L'uomo si mostra e annunzia che il baule è
stato spedito. — Già spedito? — Si, tutto in ordine, per Como. — Per
Como? — E da un rapido scambio di irritate domande e di costernate
risposte risulta che il baule, confuso con altri bagagli, è partito dall'ufficio
spedizioni dell'Albergo Excelsior in direzione completamente sbagliata.
Aschenbach stentò a conservare l'espressione di rincrescimento adatta
alle circostanze. Una gioia stravagante, una incredibile gaiezza gli squassò
internamente il petto quasi come uno spasimo. L'impiegato si precipitò a
fermare il baule, se era ancora possibile, ma com'era da prevedersi ritornò
a mani vuote. Allora Aschenbach dichiarò che non intendeva partire senza
il suo baule, e perciò decideva di tornare all'Albergo dei Bagni per
attendervi il ritorno del collo. Chiese se il motoscafo della Società fosse
ancora lì. L'uomo assicurò che era davanti alla porta della stazione. Con
italiana facondia persuase il bigliettario a riprendersi indietro il biglietto,
giurò che si sarebbe telegrafato, che non si sarebbe risparmiato né
trascurato nulla per riavere il baule al più presto — e così fu che il
viaggiatore, venti minuti dopo il suo ingresso in stazione, si ritrovò sul
Canal Grande di ritorno verso il Lido.
Avventura bizzarra, incredibile, umiliante, tra la farsa e il sogno: deviato
e risospinto indietro dal destino, rivedere, prima che un'ora sia passata, i
luoghi a cui si è appena detto addio con acerbo dolore! Sollevando un'onda
di spuma, bordeggiando agile fra gondole e vaporetti, la piccola rapida
imbarcazione vola verso la sua mèta, mentre l'unico passeggero nasconde
sotto la maschera dell'imbronciata rassegnazione l'allegra baldanza di un
ragazzo scappato di casa. Di tanto in tanto gli vien da ridere al pensiero di
quella fatalità che non avrebbe potuto trattare con maggior compiacenza
un beniamino della fortuna. «Bisognerà dare spiegazioni, — egli si disse,
— affrontare sguardi stupiti; poi tutto tornerà a posto»: una infelicità sarà
stata evitata, un grave errore riparato, e tutto ciò che egli aveva creduto di
abbandonare si sarebbe di nuovo offerto, sarebbe stato suo finché egli
voleva... E lo illudeva la velocità del battello, o davvero, per colmo di
fortuna, il vento adesso soffiava dal mare?
Le onde battevano contro le pareti di cemento dello stretto canale che
taglia l'isola fino all'Excelsior. Un'automobile-omnibus aspettava il reduce
e lungo il mare increspato lo ricondusse diritto all'Albergo dei Bagni. Il
piccolo manager baffuto in abito a falde scese la scalinata per venirgli
incontro.
Con delicate blandizie deplorò l'incidente, lo definì assai penoso per lui
stesso e per l'albergo, ma approvò in tono convinto la decisione presa da
Aschenbach di aspettare lì il ritorno del baule. La sua camera
sventuratamente era stata occupata, ma gliene poteva offrire un'altra, non
meno buona. — Pas de chance, monsieur, — disse sorridendo il liftboy
svizzero, mentre lo accompagnava su. E così il fuggiasco fu di nuovo
acquartierato, in una stanza quasi identica alla prima per posizione e
arredamento.
Affaticato, intontito dal turbinio di quella strana mattinata, Aschenbach
dopo aver messo a posto il contenuto della sua valigetta a mano si sedette
in poltrona accanto alla finestra aperta. Il mare aveva preso una tinta verde
chiara, l'aria sembrava più sottile e più pura, la spiaggia con le cabine e le
barche più colorata, sebbene il cielo fosse ancora grigio. Aschenbach
guardava fuori, con le mani congiunte in grembo, lieto di esser di nuovo lì,
ma crollando il capo e malcontento della sua volubilità, della sua
ignoranza dei propri desideri. Così rimase per un'ora buona, senza pensare,
in riposo e in vaga fantasticheria. Verso mezzogiorno vide Tadzio nell'abito
di tela rigata col fiocco rosso che ritornava dal mare lungo lo steccato della
spiaggia e rientrava in albergo dalla passerella. Aschenbach di lassù lo
riconobbe subito, prima ancora di averlo visto bene, e stava per pensare
qualcosa come: «Oh Tadzio, anche tu sei di nuovo qui!» Ma nell'attimo
stesso sentì che quel saluto indolente crollava e ammutoliva davanti alla
verità del suo cuore — sentì l'esaltazione del suo sangue, la gioia, il dolore
dell'anima sua e capì che proprio per Tadzio gli era stato così penoso il
distacco.
Rimase seduto in silenzio, lassù dove nessuno lo poteva vedere, e scrutò
dentro se stesso. Il suo viso s'era animato, le sue sopracciglia si rialzarono,
un sorriso attento di sottile curiosità gl'increspò la bocca. Poi alzò il capo e
con le due braccia che pendevano inerti dai braccioli della poltrona
descrisse un movimento ascendente e rotatorio, con le palme rivolte verso
l'alto, come ad accennare un aprirsi e un allargarsi delle braccia. Era un
gesto di fervido benvenuto e di serena accoglienza.
IV
Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance ardenti conduceva nudo la
quadriga di fuoco attraverso gli spazi del cielo, e la sua chioma d'oro
ondeggiava al vento di levante subitamente calmato. Una serica
bianchezza posava sulle distese del Ponto torpido e ondoso. La sabbia
bruciava. Sotto l'etere azzurro dai barbagli d'argento erano tese davanti alle
cabine tende di traliccio color ruggine, e sulla netta macchia d'ombra da
esse proiettata si passavan le ore del pomeriggio. Ma non meno deliziosa
era la sera, quando gli alberi del parco esalavano profumi balsamici, le
stelle compivano lassù la loro danza, e il mormorio del mare notturno
saliva dolcemente e parlava alle anime. Quelle sere portavano in sé la lieta
promessa di una nuova giornata di sole, di facili e ordinati piaceri,
abbellita da infinite occasioni di gradevoli casi.
L'ospite che una compiacente disdetta aveva trattenuto colà era ben
lontano dal vedere nel ricupero dei suoi averi il motivo di un'altra partenza.
Per due giorni aveva dovuto sopportare qualche privazione e partecipare al
pranzo nella gran sala in tenuta da viaggio. Poi, quando gli fu riportato
finalmente il baule smarrito, lo disfece fino in fondo e riempì della sua
roba armadi e cassetti, deciso a fermarsi per un periodo indeterminato,
soddisfatto di passare le ore alla spiaggia in leggeri vestiti di seta e di
potersi recare a pranzo in abito da sera.
Il ritmo regolare e agevole di quell'esistenza lo teneva già sotto il suo
incanto, la dolcezza morbida e sontuosa di quel vivere lo inebriò
rapidamente. Soggiorno ineguagliabile, infatti, che unisce le attrattive di
una comoda villeggiatura su una spiaggia meridionali con la vicinanza
familiare della città stupefacente e stupenda! Aschenbach non era amante
dei piaceri. Quando si trattava di far vacanza, di riposare, di darsi bel
tempo, provava ben presto — ed era stato così specialmente quand'era più
giovane — un'inquietudine e un disgusto che lo riconducevano all'ardua
fatica, alla sacra e tranquilla opera quotidiana. Solo questo luogo lo
ammaliava, allentava la sua volontà, lo rendeva felice. Qualche volta al
mattino, sotto la tenda del suo capanno, mentre contemplava sognando il
mare azzurro, o nella notte tiepida sdraiato sui cuscini della gondola che
dopo una lunga sosta in Piazza San Marco lo riportava a casa sotto il vasto
cielo stellato — e le luci varie, i suoni armoniosi delle serenate si
spegnevano in lontananza —, egli ripensava alla casa fra i monti, scenario
delle sue battaglie estive, dove le nuvole passavano basse sul giardino e
tremendi temporali notturni spegnevano le luci domestiche e i corvi da lui
nutriti si dondolavano in cima agli abeti. Gli sembrava allora di essere
trasportato nei campi d'Elisio, ai confini della terra dove gli uomini vivono
una vita beata, dove non c'è neve né tempesta né piogge torrenziali, ma
Oceano spira un'aura mite e fresca e i giorni trascorrono in ozi deliziosi,
senza fatica, senza lotta, unicamente consacrati al sole e alle sue feste.
Spesso, quasi di continuo Aschenbach vedeva il giovane Tadzio; lo
spazio ristretto, l'orario uguale per tutti facevano sì che il bel fanciullo
fosse quasi costantemente nelle sue vicinanze; tranne brevi interruzioni lo
vedeva, lo incontrava dappertutto; nelle sale a pianterreno dell'albergo, nei
rinfrescanti viaggi in vaporetto tra il Lido e la città, sulla splendida Piazza
e sovente anche nei vicoli e nei campielli quando il caso era benigno. Ma
soprattutto, e con la più felice regolarità, le mattinate sulla spiaggia gli
offrivano largamente il destro di contemplare con fervore e raccoglimento
la leggiadra apparizione. Anzi, proprio questa fedeltà della fortuna, questo
favore delle circostanze regolarmente e quotidianamente rinnovato, lo
riempiva di contentezza e di gioia di vivere e gli rendeva caro il soggiorno
facendo seguire una giornata di sole all'altra in compiacente offerta.
Egli si alzava presto, come nei giorni in cui lo incalzava l'assillo del
lavoro, ed era sulla spiaggia prima di tutti gli altri, quando il sole era
ancora mite e il mare bianco abbagliante sognava ancora i suoi sogni
mattutini. Salutava affabilmente il guardiano del recinto, familiarmente il
bagnino scalzo dalla barba bianca che gli aveva preparato il posto tirando
la tenda bruna, mettendo fuori sulla piattaforma i mobili della cabina, e si
sdraiava. Allora tre ore o quattro erano sue, in cui il sole salendo nel cielo
acquistava una forza terribile, e l'azzurro del mare si faceva sempre più
intenso ed egli poteva contemplare Tadzio.
Lo vedeva venire da sinistra, lungo la riva, oppure sbucar fuori tra le
capanne, o anche s'accorgeva improvvisamente, non senza un lieto
sussulto, di aver perduto il suo arrivo e ch'egli era già lì col suo vestito
bianco e turchino, l'unico indumento che portava sulla spiaggia, e già si
dedicava alle sue consuete occupazioni al sole e sulla sabbia — quella vita
amabilmente vuota, oziosamente irrequieta che era gioco e riposo,
bighellonare, sguazzare nell'acqua, scavare la sabbia, rincorrersi, stare
coricati e nuotare, sotto la sorveglianza delle signore che con voci acute lo
chiamavano per nome: —Tadziu! Tadziu! — ed egli accorreva al richiamo,
con gesti animati, per raccontar loro le sue avventure e mostrare il bottino:
conchiglie, ippocampi, meduse
e granchi che camminavano di traverso. Aschenbach non capiva una
parola di quel che diceva, forse erano le cose più comuni del mondo, ma al
suo orecchio suonavano come una vaga melodia. Così l'incomprensibilità
trasformava in musica la lingua del fanciullo, un sole sfolgorante versava
su di lui una profusione di luce, e lo sfondo sublime del mare dava risalto
alla sua figura.
Ormai Aschenbach conosceva ogni linea e ogni atteggiamento di quel
corpo così squisito e così liberamente rivelato; salutava con gioia sempre
nuova ogni bellezza già nota, e non si saziava di ammirare con delicato
piacere dei sensi. Il ragazzo era chiamato a salutare un conoscente che
faceva visita alle signore davanti alla loro cabina; egli giungeva di corsa,
talvolta era appena uscito grondante dal mare, buttava indietro i riccioli e
porgendo la mano riposava su una gamba, mentre l'altro piede sfiorava
appena il terreno, con una incantevole torsione del corpo, un gesto di
grazia e di attesa, di amabile perplessità, di doverosa aristocratica
civetteria. Altre volte se ne stava coricato per terra, l'accappatoio avvolto
intorno al petto, il gracile braccio scultoreo puntato sulla rena, il mento nel
cavo della mano; accoccolato accanto a lui il ragazzo che chiamavano
«Yaschu» gli faceva mille finezze, e nulla era più affascinante che il
sorriso delle labbra e degli occhi con cui il beniamino ricompensava il suo
umile cortigiano. Oppure se ne stava ritto in riva al mare, solo, lontano dai
suoi e vicinissimo ad Aschenbach — con le mani intrecciate dietro la nuca,
dondolandosi lento sulla punta dei piedi, e fantasticava assorto, mentre le
piccole onde venivano a lambirgli gli alluci. I suoi capelli color del miele
si arricciolavano sulle tempie e sulla nuca, il sole faceva brillare la peluria
fra le scapole, il disegno delicato delle costole, la simmetria del petto si
distinguevano attraverso lo scarno rivestimento del torso, le ascelle erano
ancora lisce come in una statua, il cavo delle ginocchia splendeva e le
venature azzurrine facevano sembrare il suo corpo ancora più luminoso.
Quale disciplina, quale precisione del pensiero si esprimeva in quel corpo
agile e giovanilmente perfetto! Ma la volontà pura e severa che agendo
oscuramente aveva potuto dare alla luce quella divina opera d'arte non era
forse nota e familiare a lui, all'artista? Non agiva anche in lui, quando egli
pieno di serena passione sprigionava dal blocco marmoreo del linguaggio
la forma snella che aveva concepito con la mente e che presentava agli
uomini come specchio ed effigie della bellezza spirituale?
Specchio ed effigie! I suoi occhi abbracciarono la nobile figura che
campeggiava nell'azzurro, e con estatica esaltazione egli credette di
comprendere con quello sguardo l'essenza stessa della bellezza, la forma
come pensiero divino, l'unica e pura perfezione che vive nello spirito e di
cui era qui offerta all'adorazione un'immagine umana, un simbolo chiaro e
leggiadro. Questa era l'ebbrezza! E l'artista invecchiarne l'accolse senza
esitare, anzi con avidità. La sua cultura era in travaglio, il suo spirito
ribolliva, la sua memoria mise alla luce pensieri vecchissimi che gli erano
stati trasmessi in gioventù e che egli finora non aveva mai ravvivato con la
propria fiamma. Non sta scritto che il sole storna la nostra attenzione dalle
cose intellettuali e la rivolge verso le cose materiali? Esso stordisce
l'intelligenza e la memoria, e le ammalia in tal modo che l'anima nel pia-
cere dimentica il proprio stato e s'attacca al più bello degli oggetti
illuminati dal sole; sicché soltanto con l'aiuto di un corpo essa trova poi la
forza di innalzarsi a più alta contemplazione. Amore in verità fa come i
matematici che mostrano ai fanciulli di poco talento le immagini tangibili
delle pure forme. Così anche il dio, per renderci visibile l'astratto, ricorre
volentieri alla forma e al colore della giovinezza umana che egli, per farne
uno strumento del ricordo, riveste di tutto lo splendore della bellezza, cosi
che a tal vista noi ardiamo di dolore e di speranza.
Così egli pensava nel suo entusiasmo; così gli era dato di sentire. E
l'ebbrezza del mare e il fulgore del sole gli intesserono un'immagine
maliosa. Era il vecchio platano poco lungi dalle mura di Atene, il sacro
recesso ombroso profumato dagli agnocasti in fiore, adorno di tavolette
votive e di pie offerte in onore delle ninfe e di Acheloo. Limpidissimo il
ruscello scorreva ai piedi dell'albero dai grandi rami, su un letto di ciottoli
levigati; i grilli stridevano. Ma sul prato in dolce declivio, che permetteva
di giacere con il capo sollevato, erano distesi due uomini, riparati quivi
dall'ardore del giorno; l'uno quasi vecchio e l'altro giovane, l'uno brutto e
l'altro bello, il saggio presso l'amabile. E fra gentilezze e lusinghevoli
arguzie Socrate istruiva il discepolo Fedro sul desiderio e sulla virtù. Gli
parlava della fervida angoscia che coglie l'uomo sensibile quando i suoi
occhi scorgono un simbolo della bellezza eterna; gli parlava degli appetiti
dell'empio e del malvagio, che non può immaginare la bellezza quando ne
vede il simulacro, e che non è capace di rispetto; gli parlava del sacro
sgomento che afferra l'uomo di nobili sensi quando un volto divino, un
corpo perfetto gli appare... come egli trema ed è fuori di sé, e osa appena
guardare e venera colui che possiede la bellezza, e gli recherebbe sacrifici
come alla statua di un dio se non dovesse temere di esser preso per pazzo.
Giacché la bellezza, mio Fedro, solo essa è amabile e visibile al tempo
stesso; essa è, notalo bene, la sola forma dell'immateriale che noi possiamo
percepire coi sensi e che i nostri sensi possono sopportare. O altrimenti che
sarebbe di noi se il divino, se la ragione la virtù la verità ci apparissero
sensibilmente? Non saremmo noi distrutti e inceneriti dall'amore, come
Semele al cospetto di Giove? Così la bellezza è, per colui che sente, la via
che conduce allo spirito — solo la via, solo il mezzo, piccolo Fedro... E
poi disse la cosa più sottile, l'astuto seduttore; disse che l'amante è più
divino dell'amato perché Dio è nel primo ma non nell'altro... forse il
pensiero più tenero e più beffardo che sia mai stato pensato e dal quale
scaturisce tutta la malizia e la più segreta voluttà del desiderio.
Felicità dello scrittore è il pensiero che può tutt'intero divenir
sentimento, il sentimento che può tutto trasformarsi in pensiero. Tali erano
il pensiero palpitante, il sentimento rigoroso che appartenevano e
obbedivano in quel momento al solitario: cioè, che la natura rabbrividisce
di voluttà quando lo spirito s'inchina davanti alla bellezza.
Improvvisamente sentì il desiderio di scrivere. Si dice, è vero, che Eros
ami l'infingardaggine e solo per questa sia creato. Ma a quel punto della
crisi l'orgasmo della vittima era volto verso la produzione. Il motivo gli era
quasi indifferente. Un'interrogazione, un invito a pronunciarsi su un certo
problema vasto e scottante della cultura e del gusto era stato rivolto al
mondo intellettuale ed egli l'aveva ricevuto dopo la sua partenza.
L'argomento gli era familiare, era per lui esperienza vissuta; la voglia di
illuminarlo con la luce della propria parola proruppe in lui irresistibile. E il
suo impulso lo spingeva a lavorare in presenza di Tadzio, a prendere come
modello la figura dell'adolescente, ad accordare il suo stile con quel corpo
che gli sembrava divino e trasportare la sua bellezza nell'ordine spirituale
come l'aquila innalzò un giorno nell'etere il pastore troiano. Mai egli aveva
sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben
compreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante le
ore pericolose e squisite in cui, seduto al suo tavolino rozzo sotto la tenda,
contemplando l'idolo e ascoltando la musica della sua voce, componeva a
immagine della bellezza di Tadzio la sua breve dissertazione — quella
pagina e mezzo di prosa altissima la cui purezza, nobiltà e vibrante energia
doveva suscitare di lì a poco l'ammirazione universale. È certamente un
bene che il mondo conosca soltanto la bella opera e non le sue origini, non
le condizioni e le circostanze del suo sviluppo; giacché la conoscenza delle
fonti onde scaturisce l'ispirazione dell'artista potrebbe turbare, spaventare,
e così annullare gli effetti della perfezione. Ore singolari! Strana fatica
snervante! Strano e fecondo accoppiamento dello spirito con un corpo!
Quando Aschenbach ripose il suo lavoro e andò via dalla spiaggia si sentì
esausto, anzi distrutto, e gli pareva che la coscienza lo rimproverasse come
dopo un'orgia.
Fu il mattino seguente che egli, mentre stava uscendo dall'albergo, vide
dalla scalinata Tadzio, già incamminato verso il mare, avvicinarsi tutto
solo alla barriera della spiaggia. Il desiderio, la semplice idea di
approfittare dell'occasione e di stringere una facile, gaia conoscenza con
quello che inconsapevolmente tanto lo esaltava e lo commuoveva, di
parlargli, gioire della sua risposta e del suo sguardo, si presentava
naturalmente e s'imponeva. Il bel fanciullo camminava senza fretta, era
facile raggiungerlo e Aschenbach affrettò il passo. Gli arriva accanto sulla
passerella dietro le cabine, vuol posargli la mano sul capo, sulla spalla, e
una parola, una frase amichevole in francese gli viene alle labbra: ma in
quell'attimo sente che il suo cuore batte come un martello, forse anche per
l'andatura accelerata, e che col fiato così corto egli potrà parlare solo
ansando e tremando: esita, cerca di dominarsi, all'improvviso teme di
seguire già da troppo tempo l'adolescente, teme di destare la sua
attenzione, il suo sguardo interrogativo, prende un ultimo avvio, fallisce,
rinunzia e passa col capo chino.
«Troppo tardi!» pensò in quel momento. Troppo tardi! Era poi davvero
troppo tardi? Quel passo mancato avrebbe forse avuto conseguenze
benefiche, lo avrebbe rasserenato, alleggerito, avrebbe disperso
salutarmente l'ebbrezza. Ma di questo appunto si trattava: l'uomo già
anziano non voleva saperne di tornare in sé, l'ebbrezza gli era troppo cara.
Chi può decifrare la natura e il carattere dell'artista? Chi può capire
l'amalgama istintivo di disciplina e di licenza che è fondamento della sua
vocazione? Giacché essere incapaci di volere il salutare ritorno alla
ragione è dissolutezza. Aschenbach non era più disposto a criticare se
stesso; il gusto, l'ordinamento mentale proprio della sua età, stima di sé,
maturità e semplicità acquisita, non lo rendevano incline ad anatomizzare i
motivi e a determinare se per scrupolo, per dissolutezza o per viltà non
aveva attuato il suo proposito. Era confuso, temeva che qualcuno, non
fosse che il guardiano della spiaggia, potesse aver osservato il suo
inseguimento e la sua sconfitta; aveva molta paura del ridicolo. Del resto
rideva tra sé del suo tragicomico terrore. «Sbigottito, — egli pensò, —
sbigottito come un gallo che colto dallo spavento abbassa le ali nel bel
mezzo della lotta. E davvero il dio stesso che spezza il nostro coraggio alla
vista dell'oggetto amabile e così umilia fino a terra la nostra superbia...»
Così scherzava coi suoi pensieri, fantasticava ed era troppo orgoglioso per
aver paura di un sentimento.
Già non pensava più al termine prestabilito del riposo che si era
concesso; l'idea della partenza non lo sfiorava neppure. Si era provvisto di
molto denaro. Sua unica preoccupazione era la possibile partenza della
famiglia polacca; ma informandosi incidentalmente presso il parrucchiere
dell'albergo aveva appreso di sottomano che quei signori erano arrivati
poco prima di lui. Il sole gli abbronzava il viso e le mani, l'eccitante soffio
salino rinvigoriva i suoi sensi, e come per l'addietro egli soleva spendere
tosto in un'opera tutte le forze che il sonno, il nutrimento o la natura gli
avevano donato, così adesso con improvvida generosità consumava in
sentimento ed ebbrezza il quotidiano ristoro di gagliardia che gli
apportavano il sole, l'ozio e l'aria di mare.
Il suo sonno era di poca durata; notti brevi, piene di felice agitazione,
interrompevano i giorni deliziosamente monotoni. Egli si ritirava
prestissimo, perché alle nove, quando Tadzio era scomparso dalla scena, la
giornata gli pareva finita. Ma ai primi bagliori dell'alba lo svegliava uno
sgomento dolce e penetrante, il cuore si ricordava della sua avventura; egli
non resisteva più tra le coltri, si alzava, e, leggermente coperto contro la
frescura mattutina, andava a sedersi presso la finestra aperta e aspettava il
levar del sole. L'avvenimento meraviglioso empiva di religiosità la sua
anima santificata dal sonno. Ancora il cielo, la terra e il mare erano
immersi in uno spettrale vitreo biancore crepuscolare; ancora una stella
morente navigava nell'irreale. Ma ecco giungeva un soffio, un alato
messaggio da sedi inaccessibili annunziava che Eos, l'Aurora, sorgeva dal
letto maritale; e appariva quel primo tenue rossore delle zone più lontane
del mare e del cielo, col quale il creato si rivela ai sensi. S'avvicinava la
dea, la rapitrice di adolescenti che involò Clito e Cefalo e che sfidando
l'invidia di tutto l'Olimpo godette l'amore del bel cacciatore Orione. Ai
confini del mondo incominciava la pioggia di rose, un chiarore e una
fiorita di grazia ineffabile, nuvole nascenti, immateriali, luminose si
libravano come amorini obbedienti fra rosei e cilestrini vapori; un velo di
porpora si stendeva sul mare che sembrava portarlo ondeggiando verso la
riva, dardi dorati guizzavano dal basso verso l'alto del cielo, lo splendore
diveniva incendio; silenziosamente, con divina strapotenza, il fuoco, le
fiamme, il rogo divampante invadevano il cielo, e i sacri corsieri di Febo,
il dio fratello, con zoccoli travolgenti s'innalzavano sull'orizzonte.
Illuminato dal fulgore divino il vegliante solitario chiudeva gli occhi e
offriva le sue palpebre al bacio dell'astro glorioso. Sentimenti del passato,
antichi deliziosi tormenti che erano morti durante la sua vita di rigida
disciplina ritornavano adesso cosi stranamente mutati — egli li rico-
nosceva con un sorriso di perplessità, di meraviglia. Pensoso, trasognato;
formava lentamente un nome con le labbra e sorridendo sempre col viso
levato verso il cielo, le mani giunte in grembo, si assopiva ancora una
volta.
Ma il giorno incominciato con tanta gloria di fuoco restava stranamente
sublimato e trasformato miticamente. Da quali regioni, da quali origini,
veniva quel soffio che a un tratto cosi dolce e persuasivo, quasi un
suggerimento dall'alto, gli accarezzava le tempie e l'orecchio? Bianche
nuvolette fioccose erano sparse nel cielo come greggi pascenti degli dèi.
S'alzava un vento più forte e i cavalli di Posidone accorrevano,
s'impennavano, e anche i tori del dio glaucoricciuto si avventavano
mugghiando, a testa bassa. Ma sugli scogli lontani della spiaggia le onde
saltellavano come capre vivaci. Un mondo santamente stravolto, pieno di
fervore panico, circondava l'uomo affascinato, e il suo cuore sognava dolci
favole. Spesso, quando il sole tramontava dietro Venezia, egli stava seduto
su una panchina del parco a guardare Tadzio che, vestito di bianco con una
cintura di colore, giocava a palla sul piazzale inghiaiato, e credeva di
vedere Giacinto che deve morire perché è amato da due numi. Sentiva
persino l'invidia dolorosa di Zefiro per il rivale che dimenticava l'oracolo,
l'arco e la cetra per trastullarsi sempre con il bel giovinetto; vedeva il disco
guidato da crudele gelosia colpire il capo leggiadro, impallidendo anch'egli
riceveva tra le braccia il corpo spezzato, e il fiore nato dal dolce sangue
recava le parole del suo dolore senza fine...
Nulla è più singolare, più imbarazzante che il rapporto fra persone che si
conoscono solamente di vista... s'incontrano tutti i giorni a tutte le ore, si
osservano, e tuttavia sono costrette dall'educazione o dal puntiglio a
fìngere l'indifferenza e a passarsi accanto come estranei senza una parola e
senza un saluto. V'è fra loro una relazione d'inquietudine e di esasperata
curiosità, l'isterismo prodotto dal bisogno insoddisfatto e innaturalmente
represso di conoscersi e di comunicare l'uno con l'altro, e soprattutto una
specie di ansioso rispetto. Giacché l'uomo ama e onora l'uomo finché non
lo può giudicare, e il desiderio è il frutto d'una conoscenza imperfetta.
Ma qualche relazione e conoscenza doveva pur stabilirsi fra Aschenbach
e il giovane Tadzio, e con gioia penetrante il più vecchio dovette
accorgersi che la sua simpatia e la sua attenzione non restavano del tutto
senza contraccambio. Perché, ad esempio, il bel fanciullo venendo alla
spiaggia non passava più sul tavolato dietro le capanne, ma sempre sulla
sabbia davanti ad Aschenbach e qualche volta, senza bisogno, così vicino
da sfiorare quasi il suo tavolino, la sua sedia, prima di andarsene lemme
lemme alla cabina dei suoi? Era l'attrazione, il fascino d'un sentimento
superiore che operava così sull'oggetto più debole e ignaro? Aschenbach
aspettava ogni giorno la comparsa di Tadzio, e qualche volta faceva finta
di essere occupato e lo lasciava passare senza apparentemente notarlo.
Altre volte invece alzava gli occhi e i loro sguardi s'incontravano. Quando
ciò accadeva restavano tutti e due molto seri. Nel viso saggio e dignitoso
del più vecchio nulla tradiva un'intima commozione; ma negli occhi di
Tadzio c'era un'espressione indagatrice, una pensosa domanda, i suoi passi
si facevano esitanti, egli abbassava lo sguardo e lo rialzava con grazia, e
quando era passato qualcosa nel suo atteggiamento sembrava dicesse che
solo la buona creanza gli impediva di voltarsi.
Una volta però, era di sera, le cose andarono diversamente. I giovani
polacchi e la governante non erano venuti a pranzo, con grave
preoccupazione di Aschenbach. Dopo tavola, molto inquieto per la loro
assenza, egli passeggiava in abito da sera e cappello di paglia davanti
all'albergo, ai piedi della terrazza, quando vide all'improvviso comparire
sotto il lume delle lampade ad arco le tre monacali sorelle con l'istitutrice e
qualche passo più indietro il giovane Tadzio. Evidentemente venivano
dalla banchina del vaporetto dopo aver pranzato per qualche ragione in
città. Doveva far fresco sull'acqua; Tadzio portava una giacca da marinaio
color turchino scuro con bottoni d'oro, e in capo un berretto pure da
marinaio. Il sole e l'aria di mare non lo abbronzavano, la sua pelle era
rimasta pallida e marmorea come i primi giorni; oggi però sembrava più
smorto del solito sia per il fresco sia per la livida luce lunare dei fanali. Le
sopracciglia ben disegnate spiccavano più nettamente, gli occhi erano più
scuri e profondi. La sua bellezza era inesprimibile e, come altre volte,
Aschenbach sentì con dolore che la parola può, sì, celebrare la bellezza,
ma non è capace di esprimerla.
Non si aspettava la cara apparizione, essa giungeva improvvisa, senza
ch'egli avesse avuto tempo di atteggiare il suo viso a serena dignità. Gioia,
sorpresa, ammirazione vi si dipinsero senza dubbio chiaramente quando il
suo sguardo incontrò colui del quale aveva sentito l'assenza; ed ecco, in
quell'istante Tadzio gli sorrise, d'un sorriso eloquente, confidenziale,
carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco. Era il sorriso di
Narciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, in-
cantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso della
propria bellezza — un sorriso un poco contratto dalla vanità
dell'aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno di
civetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante.
L'uomo al quale era destinato quel sorriso se lo portò via come un dono
fatale. Era così commosso che dovette fuggire la luce della terrazza e del
giardino, e a passi rapidi cercò rifugio nell'ombra del parco. E stranamente
eruppe in rimostranze tenere e indignate: «Non devi sorridere così! Hai
capito? Non bisogna sorridere così a nessuno!» Si gettò su una panca, fuori
di sé, respirando il profumo notturno degli alberi. E riverso sulla spalliera,
con le braccia penzoloni, abbattuto e scosso da brividi intermittenti,
mormorò la formula eterna del desiderio... assurda in quel caso,
inammissibile, infame, ridicola e tuttavia santa anche questa volta e degna
di rispetto: —Ti amo!
FINE