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Esegesi Probativa Di DHALGREN (Dhalgren, 1975), Un Romanzo Di Samuel Ray Delany Andromeda - Rivista Di Fantascienza
Esegesi Probativa Di DHALGREN (Dhalgren, 1975), Un Romanzo Di Samuel Ray Delany Andromeda - Rivista Di Fantascienza
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Del testo originale che scrissi a quel tempo non ho cambiato nulla, ed è ovvio che ci
siano incongruenze dettate dal fatto che il resoconto è stato stilato man mano che
leggevo, oppure abbagli come la musica blu di canne d’organo (ora mi appare come
lo svettare di un grattacielo), ma il focus è stato raggiunto.
Quello che volevo era fermare le impressioni prima che fossero confermate dalla
lettura conclusa, per mantenere la freschezza delle immagini che mi attraversavano.
A posteriori, rileggendomi, posso affermare che Dhalgren non è un libro facile e che
molti, forse i più, lo abbandonano all’inizio: chi sentendosi scaraventato in un
universo di idee aliene, chi disorientato dalla densità del linguaggio che assale e
satura ogni senso, chi refrattario a lasciarsi andare, perché l’unico modo di
accostarsi alla storia è farsi lavagna non scritta su cui lo scrittore possa comunicare.
Se è vero che la letteratura ha il ruolo di essere un’ascia per il cervello, Dhalgren è
una gran bell’ascia.
D’altronde non è nemmeno un libro che ci si possa proporre di leggere perché è lo
stesso libro che chiama, e se non chiama non è il momento di leggerlo. Una cosa
posso dire: le mie impressioni sono solo l’ombra di alcune possibili chiavi di lettura.
In questo sta l’anticipazione.
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Scrivo questo commento in tempo reale, cioè man mano che la lettura procede. Per
rispetto allo scrittore e all’argomento che mi sembrava impegnativo, dato che avevo
colto subito l’anomalia dell’opera. Per la gioia di chi me ne aveva ventilato l’ipotesi
della lettura e che non avrei mai creduto così benignamente perverso. Per sfidare la
sfida dello scrittore e attirarla nei miei territori. E infine per me stessa.
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Ho faticato a entrare nella modalità espressiva: la sentivo ostica. Sembra quasi una
musica sincopata, un ritmo free jazz… poi mi ricordo che lui, S. R. Delany, è di razza
nera. New York. Harlem.
Un tipo di scrittura per cui, aperto il libro, o non lo leggerai mai o lo leggerai fino
alla fine. Molto onesto da parte dell’autore.
Già fin dall’attacco il titolo e il resto del periodo sono incorporati in un’unica frase,
soluzione inusuale. Solo più tardi mi rendevo conto che sono le parole chiave del
primo capitolo, all’inizio perfettamente incomprensibili.
La voce narrante racconta in terza persona e quindi si dà per scontato che sia
descrittiva dell’azione, invece l’approccio dell’autore al protagonista e a quello che lo
circonda parte dai suoi impulsi e sensazioni interiori (il buio-dentro rispose con il
vento). Cioè, un contesto interiore di oscurità si rapporta all’esterno tramite un
evento atmosferico (che ha valenze importanti: non parla di pioggia, di sole, di
nuvole, di esterna oscurità, etc., tanto per creare atmosfera) e per le seguenti
quaranta pagine sempre gli eventi naturali esterni avranno uno stretto rapporto con
le sensazioni interiori del protagonista, dove ancora non si capisce se l’origine dei
fatti siano le sensazioni interiori o gli eventi naturali esterni.
La situazione è apparentemente insostenibile: non si comprende che mondo sia, di
che genere umano si stia parlando, quali priorità segue il protagonista all’interno del
suo cammino. Con il primo individuo che incontra ha un impatto fortissimo – nasce
dal nulla – ma, poco dopo, non si è nemmeno più sicuri che quell’individuo sia un
essere umano.
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Mi viene in mente che non dev’essere una lettura agevole nemmeno in lingua
originale. Torno a vedere chi sia il traduttore: Maurizio Noti. Bibliotecario di
professione, traduttore per hobby, amante di fantascienza e in particolare di Philip
K. Dick. Ha scritto anche della saggistica di fantascienza e un fascicolo dal titolo A
proposito di traduzioni. Nel catalogo di Vegetti, Cottogni e Bertoni, figura come il
principe traduttore di Philip Dick. Mi metto tranquilla: la traduzione ha tutti i
numeri per essere fatta a dovere.
In aggiunta, non ho ancora trovato un errore grammaticale né un refuso tipografico.
Anche l’editore mi sembra si sia dato da fare per confezionare al meglio.
L’edizione è uscita per i tipi di Fanucci nel 2005, nella collana Immaginario, e porta
una premessa di Willian Gibson dal titolo La città ricombinante, che assolutamente
leggerò solo dopo aver terminato la lettura del romanzo. Non voglio che un altro
cervello si frapponga fra me e lo scrittore. Dopo, solo dopo, sentirò che cosa ha da
dire Gibson.
Dell’autore, Samuel Ray Delany – di cui non ho mai letto nulla – ho voluto solo
sapere che è statunitense, nero, nato a New York nel 1942, autore di fantascienza e,
chicca finale, glottoteta!… dunque incontrerò nuovi moduli espressivi,
rielaborazione e ricostruzione, parole create. Intrigante.
Nella biografia volutamente succinta che mi è capitata sottomano, sembra
importante sapere che Delany è bisessuale, come la moglie, e che hanno avuto
regolari relazioni omosessuali all’interno del matrimonio: mi chiedo che cosa me ne
può importare in fase di lettura della sua opera.
Subito mi viene in mente la narrazione della scena erotica iniziale: ci sono momenti
in cui per un attimo non capisci più chi sia lei, chi sia lui, in una totale commistione
di corpi. Forse l’atto omosessuale lo ha reso in grado di poter descrivere l’assenza di
un’identità maschile predominante o femminile, all’interno dell’atto sessuale.
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Mi accorgo solo a pagina 52 (e a pagina 56): c’è una stilettata in prima persona. Ce
ne sono altre, prima? Delany prende a inserirsi (e alla luce della ri-lettura finale di
questo commento lo farà sempre più spesso), con un periodo che passa quasi
inosservato: “Posso quasi immaginare una linea punteggiata dietro di lui”. E poi:
“In quest’oscurità, mentre salgo, mi tornano alla mente le stelle del Pacifico.”… “Io
la voglio senza seccatura di doverla definire”.
Si entra in piena schizofrenia. È fatta, ormai è chiaro: Kid è l’autore. L’altra faccia
dell’autore. L’altra anima. L’altro lui.
L’osservato? O l’osservatore? (vedi Bibliografia Presunta in calce, 4).
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La fine del primo capitolo è strettamente legata all’inizio del secondo – non è una
cosa ovvia – perché esistono due esperienze contemporanee nello stesso tempo-
luogo che appartengono, la prima al passato, la seconda al presente, e la seconda
riconduce al passato. E sembrerebbe il motivo per cui Kid, il protagonista, l’ombra
dell’inizio che camminava nella notte, non ricorda più il suo nome.
Alla radice della sua amnesia stanno due shock di origine sessuale: il primo, una
reminiscenza infantile di quando vede per la prima volta un corpo maschile
muoversi sopra un corpo femminile, e per di più in un gioco di gruppo. Lì
incomincia ad avere comportamenti schizoidi. Comincia a sentirsi guardato,
scrutato, osservato dagli estranei. Unitamente a sentimenti di paura e disistima da
parte sua, e boicottaggio sociale a causa della sua origine per metà indiano-
americana. La figura del padre, regolarmente assente per lavoro e ancora assente, al
suo ritorno, perché ogni attenzione è dedicata alla madre, oltre a essere un militare
(il che potrebbe implicare un’educazione rigida), non lo aiuta a far emergere le sue
paure e a esplicitarle.
Il secondo shock racconta per traslato la sua prima esperienza omosessuale: Kid
lascia fare/Kid bambino lascia fare; Kid fugge piangendo/Kid bambino fugge
piangendo. Gli occhi dell’amante Tak Loufer, incontrato sul far del giorno nei
sobborghi, sono aperti e rossi.
Delany descrive molte sensazioni con i colori: al bianco dà valenza di suono puro; il
nero gli ricorda lo stordimento di un gong e cioè un suono molto forte in cui non c’è
né positivo né negativo, ma un qualcosa che si impone con la sua presenza; i colori
primari sono “la varietà dell’orchestra”, del suo io-fuori. Solo il grigio è il silenzio
(la città è grigia, pagina 79). Ne deduciamo che il rosso è un rumore scioccante, da
cui fuggire. Per tornare alla serenità, dal sobborgo si dirige al centro città.
E questi sono gli esordi autobiografici, quindi le origini della vita quotidiana, cioè il
suo esperienziale in rapporto a quello che viene considerata l’opinione comune, il
comune consenso. Quello che ci fa dire a tutti che l’erba è verde e che l’umanità è
costituita da tronco testa e quattro arti.
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Kid, quindi, non ha perso di vista il consenso comune: però non ricorda il suo nome.
Pensiamo un attimo a come ci sentiremmo se un mattino ci svegliassimo e non
ricordassimo più il nostro nome. La nostra vita è a posto, la casa ce la ricordiamo, ci
ricordiamo anche dell’ultima vacanza che abbiamo fatto, però non ricordiamo più il
nostro nome. È un problema?
Perdere il ricordo del proprio nome significa perdere la nostra identità? Non credo.
Perdere il ricordo che l’erba si chiama “erba” è perdere il senso dell’erba? Essere un
noi senza nome significa non-essere-noi? Allora noi che cosa siamo: un nome?
Kid sembra di non essere di questo parere. Il suo io-dentro gli dice che è un’unità
pensante e sensitiva. Il consenso comune gli dice che è pazzo; per lo meno, in
passato gli aveva detto che era pazzo. Lui non è diverso, ora che è fuori, da quando
era rinchiuso: lo sa. Che cosa è cambiato? Semplicemente ha capito che, se vuole
girare per la città grigia, deve conoscere un linguaggio che non è il suo e fingere di
usarlo come se fosse il suo. Tutto sta in un “come se”. Anche all’interno di una
comunità di pazzi.
E se la città grigia fosse un manicomio?
Il quaderno che Kid si porta appresso (ci accompagnerà per tutto il romanzo),
sembra essere la punta di diamante dei suoi pensieri più profondi, e nel corso
dell’azione diventa non solo suo, ma anche di Delany: “È la nostra disperazione per
le inadeguatezze esteriori del linguaggio che ci porta ad accrescere quelle
strutturali verso[/s]” (pagina 99, così nel testo). “Ma questo è il problema di
un’intera parte di umanità, convinta di comunicare attraverso la parola!”.
Kid, in fondo, forse decide di non ricordare più il suo nome: l’amnesia non
permette all’esteriore di chiamarlo, cioè di definirlo, cioè di inquadrarlo entro una
inadeguatezza verbale in cui non si sente corrisposto. Questa è la sua rivincita.
Infatti Kid è solo il nome che Tak Loufer gli darà, per darsi il modo di prendere
possesso del suo corpo.
9 di 37 03/11/2021, 19:40
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I toni si fanno in apparenza sempre meno schizofrenici – se non fosse per quella
luna doppia, di cui una si chiama George, L’Eroe-Bestia (non sarà una tesi
junghiana allo specchio?) – man mano che Kid trova in Lanya un’amica e compagna
amorosa (forse il simbolo letterario della moglie di Delany?). E questo mi fa pensare
che l’omosessualità di Kid-Delany non sia vissuta con equilibrio.
Nell’amore con una donna pare che anche il grigio (che prima sembrava avere una
valenza calmante di silenzio, ma che adesso percepisco come un silenzio mortifero),
ora cominci a stridere (pagina 105) e si vedono i primi impulsi di ribellione a una
“nebbia” che in realtà non offre “nessuna protezione”… “È piuttosto una griglia
rifrangente attraverso la quale osservare la macchina violenta, esplorare la
tecnocrazia dell’occhio stesso, penetrare nel canale semicircolare. Sto viaggiando
lungo il mio nervo ottico”.
E sempre a pagina 105, foriera di non apparenti colpi di scena, nel frattempo il
quaderno sembra registrare il tempo in cui era rinchiuso in manicomio, quel tempo
in cui dicevano che Kid era pazzo: “Quasi tutto ciò che succede qui, ora dopo ora, è
calmo e monotono. Per la maggior parte del tempo ce ne stiamo seduti…”.
Kid sta percorrendo, nello stesso istante, un viaggio a ritroso nel passato per
ricordare e guarire, un viaggio nel presente per agganciarsi alla realtà, un viaggio nel
futuro per ri-costruire il passato. Sta percorrendo un viaggio guardando il tempo
come un cubista potrebbe guardare un oggetto.
La quarta variabile che tiene insieme tutto, prima che crolli, è Delany-l’osservatore
che, nello svolgimento della finzione letteraria, diventa Delany-l’osservato. E lo sfida
a rendersi intellegibile.
10 di 37 03/11/2021, 19:40
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11 di 37 03/11/2021, 19:40
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A riprova di quanto detto poco fa, esaminiamo (non posso credere che Delany sia
stato così magnanimo nei confronti del lettore da citarli, anche se indirettamente al
contesto, attraverso il giornale della città; questo mi fa pensare di stare in guardia);
esaminiamo, dicevo, gli scrittori da cui, in qualche modo, ha attinto ed estrapolato
temi.
Il primo, e il più significativo, è Ernest Newboy, diplomatico e letterato, candidato
per tre volte al premio Nobel, autore fra le altre cose di Il Monumento, una “storia
inquietante e simbolica della dissoluzione psicologica e spirituale di un intellettuale
australiano deluso che si trasferisce in una città tedesca distrutta dalla guerra”.
Famosissimo e tenuto in grande considerazione dai contemporanei, grande
viaggiatore e attento conoscitore dei Maori, decide di fare una capatina a Bellona.
Miguel Angel Asturias, scrittore guatemalteco, Premio Nobel 1967 per la letteratura,
ospite illustre in Europa e in varie nazioni latinoamericane, profondo conoscitore
del popolo indio latino americano e di una civiltà maya vissuta dal-di-dentro,
agguerrito esiliato a causa della dittatura e di ogni dittatura.
Giorgios Seferis, poeta greco, Premio Nobel 1963 per la letteratura, in esilio
dall’Anatolia, ospite illustre in Europa, Africa e Medio Oriente, severo contro ogni
forma di tirannia e solidale con chiunque goda di una forma di esilio, che siano
civiltà o popoli.
Saint John Perse, poeta e scrittore di lingua francese, nato nella Guadalupa, un’isola
delle Antille, Premio Nobel 1960 per la letteratura. Per motivi politici la famiglia fu
sradicata dalla Guadalupa dove risiedeva da generazioni, e arrivò in Francia.
Diventato diplomatico prese a girare per l’Europa e approdò in Cina, dove fece il
vero apprendistato politico ed entrò in contatto con la spiritualità del luogo. La sua
carriera diplomatica decadde velocemente in seguito alla sua opposizione per la
cessione della Cecoslovacchia alla Germania (1938); in seguito approdò negli Stati
Uniti. I suoi connazionali cominciarono ad apprezzare le sue opere solo dopo il
Nobel.
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Sono quattro grandi scrittori, di cui uno evidentemente di fantasia (Ernest Newboy),
collegati da simili percorsi politici, simili ideali, profondamente attenti a civiltà
diverse, e coscienti che la conoscenza del diverso va vissuta in prima persona.
Kid è per metà indiano americano, Delany è nero.
Mi sembra chiaro, a questo punto, che Dhalgren sia anche un romanzo
profondamente politico, e di quale politica lo spiegano bene i suoi gusti letterari.
L’incognita resta Ernest Newboy (new boy?), l’unico non ancora premio Nobel, ma
candidato. Sarà la chiave di volta per capire il non-assetto politico-sociale della
città? E se gli verrà in mente di stabilirsi e di darle un assetto politico-sociale, non è
che la distruggerà?
Mentre Ernest Newboy fa il suo ingresso in città, Kid pensa bene di trovarsi un
lavoro. Anzi, il lavoro trova lui. Pare che l’amore con Lanya in qualche modo lo
riequilibri e che stia iniziando a realizzare un minimo di sistemazione.
Questo equilibrio è così forte da fargli scrivere, e dedicare una poesia alla ragazza.
Finora avevamo creduto che fosse un imbecille che scrivesse tre parole e ne
cancellasse quattro, ma pare che abbia del talento. Lanya approva. Sono gli esordi
letterari di Delany?
Trovo conferme a questa supposizione nel momento in cui Kid incontra chi gli darà
un lavoro: una famiglia di buoni valori borghesi decisa a rimanere in città, a Bellona.
Famiglia completamente avulsa da ciò che la circonda: trova la sua medicina alla
pressione esterna rinchiudendosi in se stessa e accettando passivamente il di-fuori
come una calamità, convinta che ad aspettare le cose ritorneranno a condizioni
normali. Convinta, soprattutto, che qualcun altro troverà una soluzione a questa
calamità.
13 di 37 03/11/2021, 19:40
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Trovo altre conferme quando Kid scopre che, proprio dove si vuole vivere
un’apparenza di normalità, si cela la pazzia più grande, quella di creare un contesto
di pazzia entro la pazzia stessa.
A volerla guardare con certi occhi, sembra infatti che metà di mille siano in cura da
Madame Brown, dottoressa a riposo divisa tra una psicologia gestaltica e una
comportamentistica, la quale elabora eroicamente una soluzione empirica e fattibile
da subito: “Andare avanti e basta” (pagina 174). Lei ci aveva provato a dirlo ai
genitori dei bambini autistici che chi era da curare erano i genitori, non i bambini.
Ma ora “in ospedale non c’è più nessuno” (pagina 176).
Mi viene in mente che la normalità sia conoscere i confini della propria pazzia e
comprendere dove inizia e finisce la pazzia dell’altro. Ma questo è un altro discorso.
Alla cena della famiglia “normale”, dicevo, Kid scopre di essere un poeta. E ne avrà
la certezza quando, la sera, incontrerà al bar Ernest Newboy (pagina 184).
Il quaderno, di cui si parla durante la cena, diventa la sua autoanalisi all’interno del
processo di scrittura creativa che sente instaurarsi in lui; processo che, tra l’altro, si
innesta sulla scrittura di un altro poeta (Mallarmè per adesso, pagina 144), perché
lui scrive sulle pagine di sinistra lasciate bianche da un precedente possessore che
scriveva su quelle di destra. Sono quasi sicura che il precedente possessore è lui
stesso, in un tempo anteriore. Sulle funzionalità di emisfero destro e sinistro c’è
un’ampia letteratura, pronta per essere consultata.
In questo caso, il suo scrivere sulle pagine di sinistra significa dare un contesto
logico alla somma di esperienze acquisite; ma in senso letterario significa provocare
un valore creativo comprensibile del prodotto delle conoscenze letterarie acquisite
(letture, esperimenti di scrittura in proprio, progetti, etc.), cioè scrivere da scrittore,
da poeta.
Ne esce una ulteriore chiave di lettura di Dhalgren: quella letteraria, in tutti i sensi.
Come processo creativo, come cultura in senso di somma di letture, come critica al
ruolo dello scrittore nella società, come qualità del raccontare un diverso vissuto dal
di-dentro (non solo prisma e specchi, ma anche lenti).
Eh sì… le cose apparentemente più difficili sono le più semplici: i libri più complicati
sono i più semplici. Basta credere a quello che c’è scritto, ma per farlo occorre
calarsi nella realtà della finzione. Non ho mai visto un bambino far finta di credere
al lupo di Cappuccetto Rosso, ci crede davvero.
Resta solo da capire se apparteniamo al di-fuori di Kid o al di-dentro della famiglia
Richards, a prisma-specchi-lenti o a un semplice trasloco (rimosso del rimosso)?
Perché, se apparteniamo a prisma-specchi-lenti, credo che avremo una qualche
14 di 37 03/11/2021, 19:40
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Il lunghissimo terzo capitolo, in ogni caso, mi appare come una ulteriore messa a
punto di chiavi di lettura e tematiche che l’Autore ha già affrontato nella genesi del
libro, e in forma larvale. Su tutte, in questa sezione, primeggia la chiave letteraria:
concetti di estetica, nuovi moduli di scrittura, analisi musicale di come il
pronunciato debba essere riversato nella parola scritta, esperimenti di
traslitterazione della modulazione della voce nello scritto, valore della poesia e della
sua pubblicazione, etc. (alcune delle pagine interessate sono 186, 191, 238, 296, …).
15 di 37 03/11/2021, 19:40
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16 di 37 03/11/2021, 19:40
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17 di 37 03/11/2021, 19:40
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18 di 37 03/11/2021, 19:40
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In verità, il vero tema conduttore del quarto capitolo sono i moduli di cui si serve
Delany-Kid per esplicitare la narrazione: 1) visione Prismatica come processo di
conoscenza acquisita, valutando contemporaneamente tutti gli aspetti possibili dello
sperimentabile, 2) visione con Lenti come processo di conoscenza acquisita,
valutando il particolare rispetto al contesto globale, quasi ci si avvicini all’esperienza
usando una lente di ingrandimento o un microscopio, che in se stessa farebbe
perdere la possibilità di una visione globale, ma che non succede in virtù della
visione prismatica, 3) visione con Specchi come processo di conoscenza, acquisita
valutando l’immagine speculare dell’esperienza, dove per esempio la destra è la
sinistra; una sorta di negativo; oppure valutazione di un sopra e un sotto.
E tutti questi approcci, nota bene, all’interno di uno stato di veglia oppure di sogno.
Perciò non tre, bensì sei processi di conoscenza.
A questo si aggiunge, anzi, confluisce e primeggia nella tesi centrale del capitolo, il
colloquio tra Tak Loufer (la prima persona che Kid incontra entrando in città) e Kid,
dopo che Kid sembra essere sparito per cinque giorni (lui insiste col dire che è stato
uno, e sosterrà la sua dimensione temporale anche con Lanya).
Evento dove finalmente Delany comincia a scoprire qualche carta finora occultata:
Bellona parrebbe proprio essere una sorta di anomalia spazio-temporale, una specie
di universo parallelo dove le leggi fisiche sono diverse seppure simili. Il sole
nascosto dal grigio sembra sorgere da diverse direzioni, la dimensione di profondità
cambia a seconda dei giorni, ci sono edifici che bruciano per giorni e poi tornano a
essere mai bruciati, due lune spuntano una sera in cui per un attimo il cielo si fa
sereno in qualche punto, Kid sperimenta avvenimenti nell’arco di una giornata che
invece agli altri appaiono suddivisi nell’arco di cinque giorni. Inoltre, anche questo
processo centrale di anomalia va valutato alla luce di un io-dentro e un io-fuori.
La tranquillità del lettore sta nel constatare che proprio Kid, che dovrebbe essere il
pazzo, sembra essere la persona normale, quella che sa trovare soluzioni alle
difficoltà altrui.
Lui non parla, ma agisce. Oppure parla poco, e se parla lo fa quando proprio è
necessario farlo. Soprattutto mantiene un baricentro in grado di dare un senso a
Bellona, e a se stesso di proporsi con un senso etico. Quasi fosse uno strumento
consapevole-inconsapevole di tutto quello che non è se stesso, che lo attraversa e,
dopo essere rifluito da sé, acquista una dimensione.
Quel particolare ossessionante del suo unico sandalo (Kid cammina con un unico
sandalo) che più tardi diventerà un unico stivale, fa pensare a un essere che
cammina in bilico su due mondi: una natura selvaggia e primordiale, vergine (il
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piede nudo) in grado di accettare con un occhio innocente quello che gli viene
incontro; e una natura strutturata sul sociale (il piede calzato).
Il nostro eroe affronta il di-fuori vivendo con la stessa intensità entrambe le sue due
nature: l’una non soggiace all’altra. A riprova, più volte si viene a sapere che Kid usa
indifferentemente la mano sinistra o quella destra.
Si obietterà che questo può portare solo alla pazzia (qualche volta in effetti Kid ha
trascurabili problemi di orientamento), e infatti Kid si definisce pazzo, ma nel suo
intimo sa perfettamente che, per poter sopravvivere a Bellona, deve continuamente
usare e dare un costante equilibrio ad entrambe le nature, se vuole originare un
pensiero sensato, perché è Bellona stessa la pazzia. O meglio, l’Ignoto.
Che parametri abbiamo per conoscere l’ignoto? Possiamo usare gli stessi parametri
che usiamo per conoscere il non-ignoto?
Qui si inseriscono per bocca di Tak Loufer le tre regole della fantascienza (pagine
423, 424), o meglio, i tre parametri che fanno la fantascienza, dove per fantascienza
si intende una fantascienza “reale, che segue tutte le convenzioni”: 1) il libero
arbitrio dell’uomo può cambiare il corso degli eventi, 2) la misura dell’intelligenza o
del genio è la sua applicazione pratica e lineare, 3) l’Universo è un luogo pieno di
pianeti terrestri.
L’unica domanda a cui non sa rispondere Tak è: il tempo, qui a Bellona, va
all’indietro o scorre in senso ortogonale? Nulla di tutto questo, afferma dubbioso:
palazzi bruciano per giorni, e poi ripassi per la stessa strada giorni dopo e non sono
mai bruciati, ma alcuni sì; negozi svaligiati, e poi ci ripassi tempo dopo e li ritrovi
pieni come quando li avevi svaligiati; palazzi in cui funzionano un unico ascensore e
soltanto le luci dell’ultimo piano quasi che i palazzi godano di una volontà propria;
“io sono solo un ingegnere” dice Tak, e non gli risulta che le cose dovrebbero andare
così…
A ondate aleggiano le riflessioni di Kid: “È solo quando siamo privati di uno scopo,
che sappiamo chi siamo” (pagina 373), e ancora: “Libero da un nome e da uno
scopo” … “non posso fidarmi né dei miei occhi né delle mie mani” … “La realtà?” …
“il reale tutto mascherato da una pallida diffrazione” … “Sono solo, e tutto il resto
riesco a sopportarlo” (pagina 434).
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Alla fine del quarto capitolo, quando Kid acquista quel senso di solitudine così
pregnante – che si avvicina alla consapevolezza della presenza della morte – da
fargli dire “Sono solo, e tutto il resto riesco a sopportarlo”, Delany aggiunge: “E si
domandò come mai la solitudine, in lui, si trasformasse quasi sempre in una
sensazione sessuale”.
Negli individui che non hanno un retroterra mistico (che Kid deve ancora
dimostrare), il senso della fine sfocia spesso nell’atto sessuale, che è poi una morte
simbolica.
Buona parte del capitolo quinto occupa la descrizione di pratiche sessuali con il
proprio sesso e con il sesso opposto, a più riprese e contemporaneamente fra diverse
persone (il piccolo Denny, la ragazza di Denny e, infine, la salvatrice Lanya).
Con Denny l’atto sessuale mostra più una sorta di training pedagogico dove Kid
porta il ragazzino a liberarsi di un blocco che non gli permette di amare fisicamente
la sua ragazzina, a sua volta coinvolta in un secondo momento in un amore a tre, nel
quale Kid funge quasi da maestro d’orchestra. Un Kid da cui, però, la ragazzina
fuggirà sconvolta perché in realtà ama Denny. Non lo fa per “gioco”.
D’altra parte Kid, con Denny, sembra farlo più per un senso di dovere che per vero
piacere. È solo con l’arrivo di Lanya che ritrova una sua equilibrata felicità, e i due
non sono disturbati affatto dalla presenza di Denny in mezzo a loro, che ha la
duplice funzione di essere istradato a un amore eterosessuale (come fai a dire di
essere omosessuale solo perché non sei capace di essere eterosessuale?) e, in
secondo luogo, di interpretare una sorta di cuscinetto tra Kid e Lanya. I quali si
erano lasciati quasi arrabbiati per quella malintesa sensazione del tempo che li
aveva divisi per un attimo. Quella che fa credere a Kid di essere stato assente un
giorno, e a Lanya un’intera settimana.
Domanda che Kid non ha ancora risolto ma che, discussa con Lanya, sembra
perdere un poco il risvolto terrificante che comporta: sto ridiventando pazzo?
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Data una soluzione alla solitudine che era un tema già configurato nel capitolo
precedente, prende forma il vero motivo dominante di questo capitolo: nel cielo
splende un astro enorme che copre buona parte del cielo. La gente è sconvolta,
piange, non può credere, scappa, crede che sia giunta la fine del mondo. Kid ride.
Qui si inserisce la religione che, insieme all’arte e alla psichiatria, erano delle chiavi
di lettura precedentemente dichiarate esplicitamente da Delany.
Attraverso il colloquio con il comandante Kamp, astronauta quasi in pensione e
secondo ospite estemporaneo di Bellona subito dopo la partenza di Newboy, ma
soprattutto attraverso gli spezzoni del sermone del reverendo-donna Amy Taylor
sulla Jackson Avenue, comincia a configurarsi una ideologia a metà tra l’inefficacia
scientifica alla possibilità di spiegare tutto e l’impossibilità a definire Dio.
Mentre il comandante Kamp confessa che dopo l’atterraggio lunare – cioè il
momento in cui non era più la Luna a essere l’Altro ma lo diventava la Terra – nulla
più nella sua vita è stato lo stesso, il reverendo Taylor distrugge la mitologica
isterica finzione collettiva che identifica nell’eroe nero George Harrison la doppia
luna notturna, e il grande disco solare insanguinato apparso in giornata in June.
Come a dire: di fronte all’ignoto si cerca di dargli un nome.
Perfino il giornale quotidiano, il Times – che un giorno esce di martedì e il giorno
dopo di venerdì – ammette che “certe immagini (il disco solare) perdono la loro
libertà e risonanza se, quando le consideriamo con serietà, lo facciamo attraverso
la diffrazione di un nome”. E il reverendo Amy Taylor aggiunge che anche Bellona è
una città cancellata dal tempo, anch’essa sull’orlo di verità e menzogne, dove ancora
una volta si naufraga nell’ “abbondanza del linguaggio” e nella “cenere fuggevole
del desiderio” (pagine 531-532).
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Durante lo svolgersi degli eventi, Delany ci sfila una lista di nomi, maschili e
femminili, che Kid scorre leggendoli sul suo quaderno. E lo fa più di una volta
(pagine 82, 596, 599, 653).
Come molti particolari del libro anche questa lista va nel dimenticatoio e solo a
pagina 653, quando Kid restringe la rosa dei nomi dopo un sonno agitato, mi
accorgo quanto siano importanti: i nomi sono Peter Weldon, Susan Morgan e…
William Dhalgren. Da non dimenticare che all’inizio, quando Kid legge la lista,
Lanya gli chiede se qualcuno dei nomi non appartenga a lui. Kid esclude
assolutamente. Eppure Delany intitola il libro Dhalgren. Chi è Dhalgren?
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I motivi e gli argomenti del sesto capitolo sono molteplici, quasi Delany si renda
conto che la storia stia giungendo alla fine e abbia la necessità di coinvolgere ogni
possibilità interpretativa in una farandola di eventi, pressante e densa di azione.
Motivi e argomenti sono coinvolti nell’ambito di uno stesso avvenimento.
Il tema razziale spunta ovunque: nella vecchia negra nascosta nella scuola, mentre
Lanya compone il brano musicale Diffrazione con l’aiuto di Kid e Denny.
All’interno di quest’unico evento si parla anche dell’atto di creare musica, della
funzione e del ruolo dell’arte oggi nonché del ruolo dell’artista (Lanya dirà: “l’unica
cosa che riuscivo a pensare era quanto fossi stata fortunata per avere preso la
decisione di non diventare un’artista, o una scrittrice o una poetessa” (pagina 582).
Perché il senso che Lanya trova in un artista è quello di un cieco che conduce un
cieco. Lei non crede sia possibile “utilizzare un’esperienza perfettamente reale
come quella (aveva appena finito di raccontare una storia) in un’opera d’arte al
giorno d’oggi”.
Sempre tema razziale è, alla festa a cui tra poco parteciperanno, lo spettacolino
inscenato sul momento da alcuni scorpioni di pelle nera che penzolano come
scimmie dagli alberi.
E lo è anche quando, di ritorno dalla festa, l’antieroe George Harrison convincerà
Kid a salvare dei bambini da un incendio: un nero “cattivo” che coinvolge un bianco
“buono” in un’opera di salvazione. I due super-eroi si incontrano e uniscono le forze.
Festa che, tra le altre cose, Lanya definirà “attenzione rituale del genere che si
concede a un eroe della società” (infatti la festa era la festa di Kid, indetta dal
governatore Calkins per la pubblicazione di Orchidee di ottone).
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Ma c’è anche un tema sociale scottante, quello del giudizio della comunità verso il
reato, spesso applicativo di pena di morte.
Quando Kid difende Dollaro dirà “un branco di individui che si mettono insieme e
decidono di uccidere una persona perché per loro è qualcosa di ammissibile o di
conveniente, questo è sbagliato!”
A conclusione del diverbio, Delany fa pronunciare a Lanya un nome, buttato lì,
nemmeno glielo fa finire di pronunciare e poi cambia l’azione: “Donatien Alphonse
François de” (Sade). Che cosa intende? Filosofia radicale, tema della libertà,
illuminismo materialista, esistenzialismo, nichilismo. Che cosa intende?
Dimenticando la copia del suo libro di poesie (che non riesce a leggere, non sa
leggere il suo libro), Kid ritorna al suo taccuino. Dietro l’elenco dei nomi ci sono
note, quelle non sue. Siamo sicuri che il quaderno, prima appartenuto a un altro
individuo, non sia di lui stesso in un’altra diffrazione temporale?
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L’intervista che Bill farà a Kid verso la conclusione della festa, e che a poco a poco
acquisterà un pubblico silenzioso assiepato intorno ad ascoltare, culminerà nella
disarmante confessione di Kid: “immaginiamo che a qualcuno piaccia quello che ho
scritto. Io vorrei fare in modo che quello che ho scritto qui significhi qualcosa per
lui. Immaginiamo che a qualcun altro non sia piaciuto. Io sono uno snob. Mi
piacerebbe saper parlare anche a lui. Ma parlare a qualcuno con cui ti sei trovato
bene e parlare a qualcuno con cui ti sei trovato male, be’, sono due cose molto
diverse. C’è ben poco in comune in quello che puoi dire all’uno o all’altro. Forse,
chissà, io ci sono riuscito”.
Kid è perfettamente cosciente dei motivi del suo successo di artista, di poeta. E
Delany?
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L’ultimo capitolo di Dhalgren parte a ritroso nel tempo e, dal punto di vista
dimensionale, è il più schizofrenico di tutti: ci sono tre voci parlanti – ottenute
attraverso una sintassi e una linguistica doppia, anzi tripla se teniamo conto del
corsivo.
Dal punto di vista scientifico è la soluzione a “l’osservato modificato
dall’osservatore”, perché esiste un terzo punto di vista, quello di chi rimane a
Bellona, cioè il Times.
È anche un corollario a questioni lasciate in sospeso, come il rapporto tra politica e
religione, arte e politica, cosmologia planetaria e letteratura, malattia mentale e
socialità. Tutti i temi, spaventosamente tanti e tanto sviscerati, che Delany ha
toccato nel corso del romanzo.
Tra cui:
– verità e falsità degli avvenimenti eroici, di quei particolari istanti (che non sono la
vita di una persona, ma attimi) e che ti fanno dire: “Quello che ci dà l’impressione di
fare e quello che ci si sente di fare sono due cose così dissimili da azzittire qualsiasi
bocca che si azzardi a tentarne una descrizione precisa!” (pagina 741).
Mi viene in mente il “doppio gioco” (giogo?) dell’eroe di C. G. Jung. “La gente parla,
cercando di trasformarti in qualcosa che non sei. E dopo un po’, tu stesso quasi non
sai più quello che hai fatto e quello che non hai fatto” (pagina 770).
E allora l’eroe torna a casa, torna al tempo del Femminile, non come contrapposto a
maschile ma come nuovo modo di dirsi e sentirsi umanità, perché la consapevolezza
del femminile non inneggia a se stessa e non chiede di essere celebrata, unicamente
interessata a un attributo di universalità (C. G. Jung? ma perché no… magari anche
Rilke?, pagina 771)
– la sensazione del tempo, dove ore minuti e istanti sono dolorosamente reali e
invece i giorni e le settimane “diventano i rumori residui di una lingua morta”
(pagina 777); ma, per questi ultimi, è anche “difficile da decidere quali avvenimenti
si siano verificati per primi” (pagina 779).
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Allora Bellona esiste perché Delany vive in una repubblica megalitica? Io non potrei
immaginare un europeo che scrive Dhalgren. Dhalgren-Delany è un prodotto
americano.
E repubblica megalitica e piccola nazione risultano essere un fattore di vitale
importanza nella letteratura fantascientifica. La comunanza della lingua non è un
fattore foriero di qualità, ma solo di quantità.
Delany si chiede: se “il linguaggio è sempre in eccesso rispetto alla poesia, così
come la stampa è sempre inadeguata rispetto al linguaggio” (e dal punto di vista
formale potrei capirlo; pagina 790), non sarà che la repubblica megalitica conduca a
un indebolimento della comunicazione artistica? La quale si deve attivare per
reagire alla depauperazione della parola, una parola sempre uguale per migliaia di
chilometri?
Sempre uguale sì, ma la parola water ha valenza diversa per il californiano rispetto
all’americano che vive in prossimità del deserto in Arizona. Eppure parlano la stessa
lingua e battono la stessa moneta.
“Il sangue di cervo è ottimo come esca per catturare le mosche. E anche la cacca
secca di vacca. Belando nel vuoto oricolare, pensi che Atocha sia a Madrid, che
dire allora della Novantaduesima, o di ciò che lei mi disse di St. Croix?” (pagine
813-4-5) Sperimentazione, parole in libertà, linguaggio schizofrenico che abbina
musicalità e ricerca semantica e lessicale. Richiede non tanto comprensione
razionale quanto semplice abbandono all’ascolto, risponde il traduttore nella nota a
pagina 815.
Dopo aver letto l’ultima parte citata appena un istante fa, se penso al cervo, non
posso non pensare a qualcosa che abbia una valenza di esca. Voi no? E se penso ad
Atocha, non penso più alle bombe che ci hanno buttato, ma sono indecisa se
affermare che la mia periferica telefonica sia un supporto auricolare oppure
oricolare (os, oris = bocca, della bocca).
Per questo sono parole in libertà.
Così, quando Delany ri-nominerà il cervo, magari mentre uno scorpione fa la doccia,
come potrò non pensare che stia per succedere qualcosa di sanguinoso?
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– la differenza tra buono e cattivo, quando Calkins sofferente, dietro la grata del
monastero dove si è rifugiato per capire la sua generale insoddisfazione, dice “per
essere un buon governante, se non è assolutamente necessario essere un uomo
buono, è certamente di inestimabile aiuto” (pagina 828), e la conseguente
giustificazione nei rapporti tra politica e religione: “c’è sempre una strana relazione
fra il capo dello stato e il capo della religione approvata dallo stato… (nella
religione approvata dallo stato il governatore è il rappresentante prescelto di Dio
sulla terra, pagina 830)… il mio rapporto con il Padre non è quello di un cittadino
qualsiasi con un prete… Temo che la politica lavori sullo spirituale come una
decomposizione. Il buon governante desidera almeno che sia la migliore
decomposizione possibile”.
Dopo che a intervalli regolari Kid gli chiede: ma “Il Padre è un uomo buono?”,
all’ennesima reticenza di Calkins che non gli risponde il nostro eroe se ne va ridendo
sempre più forte.
– il rapporto tra arte e politica, quando Calkins, alla ricerca di “quel minuscolo
luogo in cui politica e arte si trovano sullo stesso piano”, rimprovera a Kid di
presumere che l’editoria sia l’unica attività politica che esiste. D’altra parte Calkins
rimprovera a se stesso, come politico, di vedere invece semplicemente la cosa in
termini un po’ di dichtung, poesia, e un po’ di warheit, verità, “con maggiore rilievo
sulla seconda” (pagina 825).
A un’insinuazione di Calkins, Kid risponderà che plauso, reputazione e immagine,
per l’artista sono solamente parte della vita, che “interessarsi a come funzionano, è
una cosa. Desiderarle è un’altra… il genere di cosa che renderà impossibile
comprendere veramente come funzionano” (pagina 826).
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Tea C.Blanc
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BIBLIOGRAFIA PRESUNTA
Alcune delle letture dell’autore che potrebbero avere influenzato la stesura del
romanzo, letture non necessariamente fatte in vista della stesura, potrebbero essere:
1. Inferno di Dante Alighieri
2. Civitas solis (La Città del Sole) di Tommaso Campanella, proiettata allo specchio
(“prisma, specchio, lente”)
3. Alice’s Adventures in Wonderland (Alice nel paese delle meraviglie) di Lewis
Carroll, come rafforzativo alla Città del Sole, nella valenza di “specchio”
4. teoria della relatività generale e meccanica quantistica di Albert Einstein, quel
tanto per capire che, nell’esperimento, l’osservatore modifica l’osservato
5. Looking backward di Edward Bellamy (io l’ho letto in una vecchia edizione della
Treves, 1928, dal titolo “Nell’anno 2000” (consigliatissimo, non l’edizione, il libro)
6. Erewhon ovvero Dall’altra parte delle montagne di Samuel Butler (il titolo è
l’anagramma della parola inglese “nowhere”, in nessun luogo)
7. Odysseia, Odissea di Omero.
8. Istorìai, Le Storie di Erodoto di Alicarnasso
9. Georges Ivanovič Gurdjieff, il pensiero (arguito dalla citazione sulla Mansfield,
oltre che dal presupposto di Gurdjeff che l’uomo vive in uno stato di veglia prossimo
al sonno, o al sogno)
10. Jorge Luis Borges
11. Aldous Huxley
12. C. G. Jung (il mito dell’eroe)
13. Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke.
14. Iliade
15. Allen Ginsberg
BIBLIOGRAFIA ESPLICITA
Di seguito, invece, gli autori o le discipline esplicitamente citati da Delany nel corso
del romanzo:
Miguel Angel Asturias (pag. 131)
Giorgios Seferis (131)
Saint John Perse (131)
Katherine Mansfield (144)
Stéphane Étienne Mallarmé, (144). Sarebbe interessante ricercare l’uso
dell’omofonia nel testo originale di Dhalgren
Robert Graves (399)
Edmund Spenser (400)
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