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FORZA DEL DESTINO

"ALLA PRESENZA DI QUEL SANTO"

E' il 21 febbraio 1863 e tra il pubblico che esce, più o meno soddisfatto, dal Teatro de Oriente
di Madrid c'è un signore dai modi eleganti e raffinati che, a dispetto dell'età avanzata, agita
energicamente le mani discutendo con una piccola cerchia di amici e non fa nulla per
nascondere la propria insoddisfazione. Subito, a prima vista, dall'attenzione succube degli
astanti alle sue parole, si nota che si tratta di un personaggio importante ( è addirittura il
Presidente del Consiglio di Stato), ma quella sera è lì, al Teatro d'Oriente, nella veste speciale
di autore del dramma in cinque giornate in prosa e in versi "Don Àlvaro o la fuerza del sino"
da cui è stata tratta l'opera del maestro italiano Giuseppe Verdi, rappresentata per la prima
volta in Spagna proprio quella sera e in quel teatro. I periodisti lo circondano per carpire le
frasi salienti del suo discorso ed i giornali riportano il giorno seguente una dichiarazione
dettata dal Presidente stesso nella quale egli si rammarica di essere ormai troppo anziano (ha
settantadue anni) per scrivere un altro dramma, ma afferma che, se avesse avuto ancora l'età
e la salute per farlo, avrebbe posto come clausola all'editore il divieto assoluto di autorizzare
la sua messa in musica. Che cosa avrà spiacevolmente colpito Angel Perez de Saavedra duque
de Rivas al punto da indurlo a manifestare tanto apertamente il suo dissenso riguardo
all'operazione portata a termine da Verdi con il devoto librettista Francesco Maria Piave non
è dato saperlo nei particolari, ma possiamo facilmente supporre che la stessa messa in musica
del dramma del duca, che certamente deve oggi molto della sua fama internazionale a questa
trasposizione, abbia stravolto le intenzioni dell'autore, imprimendo alla narrazione altri tempi
ed altre ragioni, diverse da quelle di un canovaccio improbabile e scontato. Certamente lo
avrà turbato il taglio di molte scene d'assieme popolari come quella dell'inizio, dove la storia è
introdotta a mo' di prologo da un gruppo di viandanti assetati riuniti intorno ad una
bancarella di acqua e zucchero al ponte di barche di Triana, o forse la scena del gioco alle
carte nell'accampamento di Velletri, trasformata in poche voci lontane provenienti da un
bosco. Gli sarà dispiaciuto l'innesto imprevedibile di alcune pagine del "Wallensteins Lager"
di Schiller, come se il suo testo non fosse stato sufficientemente ricco. Lo avrà sicuramente
colpito e deluso la forzosa sintesi di tre personaggi in uno solo operata dal Verdi quando, ligio
ai suoi dettami di essenzialità e forse desideroso di limitare il numero di interpreti ed i relativi
costi della produzione, decise di sintetizzare nel solo don Carlos de Vargas ben tre figure del
dramma originale: il personaggio omonimo, che quindi non muore più al primo duello con
Àlvaro; il fratello don Alfonso, protagonista nell'opera del Rivas del secondo duello e qui
inesistente; lo studente della locanda di Hornahuelos, tramutato da Piave nel solito don
Carlos, travestito appunto da baccelliere, segretamente in ricerca della sorella traditrice e
dell'assassino del padre.
Non è qui certo il luogo ed il tempo di attardarsi a discutere di come e quanto una "messa in
musica" di un testo preesistente ne alteri i ritmi, ne sottolinei aspetti non desiderati dallo
scrittore del testo originale, evochi sentimenti che appartengono non allo scrittore bensì al
musicista: molti trattati si sono scritti sull'argomento. Rimane la considerazione che se il duca
de Rivas, anziché morire come fece nel 1865, fosse sopravvissuto fino alla definitiva versione
scaligera dell'opera verdiana nel 1869, avrebbe forse perso la sua calma nobiliare nel vedere
cambiato anche il finale, con quell'imprevedibile ed ingiustificabile salvataggio di don Alvaro
che, al fine di limitare un poco l'ecatombe conclusiva, venne fatto sopravvivere alla morte
dell'amata. Nel testo del Rivas il punto più forte e drammatico era infatti proprio nello
sconvolgimento dell'anima del povero Àlvaro che, dopo aver sterminato per amore o per
onore un'intera famiglia, grida al padre Guardiano dall'alto di una rupe:

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"Cerca, imbecille, il padre Raffaele (uno dei suoi tanti travestimenti nel corso della storia,
nds) …Io sono un inviato dell'inferno, sono il demonio sterminatore…Fuggite, miserabili!
Inferno, apri la tua bocca ed inghiottimi! Sprofondi il cielo, perisca la razza umana;
sterminio, distruzione!" e quindi si suicida buttandosi in un burrone. Certo un finale forte,
con il protagonista "desdichado" talmente sconvolto da identificarsi ormai con un alfiere del
male sulla terra; questo finale fu sostituito da Verdi, quando finalmente trovò il "maledetto
scioglimento" che tanto gli aveva guastato il sonno, con una conclusione "manzoniana" : la
redenzione del reprobo attraverso la morte dell'amata ed il suo perdono. Ed è conseguente
che l'opera non si chiuda più con le urla d'orrore dei frati sconvolti di fronte al suicidio
dell'indemoniato, ma con la preghiera dolcissima del padre Guardiano "Non imprecare,
umiliati/ A Lui ch'è giusto e santo/ che adduce a eterni gaudi/ per una via di pianto. /D'ira e
furor sacrilego/ non profferir parola;/ vedi quest'angiol vola/ al trono del Signor. /Prostrati!",
che trova l'accento più sacro quando egli corregge l'urlo di dolore di Alvaro "E' morta!" con
un cristianissimo "Salita a Dio!".
Quando nel 1861 la signora Giuseppina Strepponi in Verdi ricevette nella casa di S.Agata una
busta proveniente da S.Pietroburgo contenente due lettere, la prima a firma del caro amico,
più suo che del marito, Mauro Corticelli (allora segretario della grande attrice tragica
Adelaide Ristori), più o meno di presentazione della seconda, a firma questa del celeberrimo
tenore Enrico Tamberlick, ed entrambe proponenti al Maestro di comporre una nuova opera
per il teatro di quella freddissima località della lontanissima Russia, deve avere sobbalzato e
riflettuto a lungo prima di parlarne con il marito, del quale conosceva la dichiarata volontà di
cessare l'attività di compositore. Solo due anni prima aveva infatti scritto a Piave "Spero di
aver dato un addio alle muse e desidero non mi venga la tentazione di prendere la penna di
nuovo". Verdi era allora assente da S.Agata, perché impegnato con i lavori a Torino del
Parlamento del neonato Regno d'Italia, nei cui scranni sedeva, non troppo assiduamente
invero, in qualità di deputato. Si mostrò da subito molto interessato al progetto, poiché
riguardava un grandissimo teatro finanziato direttamente dall'imperatore russo, il quale,
oltretutto, soleva assistere agli spettacoli, e prometteva per di più molto bene sul piano
economico. Però, per la vena ironica ed un poco polemica che lo caratterizzava, o forse per
misurare il livello della sua stessa fama, volle verificare quanto il Teatro di San Pietroburgo
tenesse effettivamente alla sua presenza e propose provocatoriamente un soggetto che ben
difficilmente avrebbe superato le maglie della censura zarista: il "Ruy Blas" di Victor Hugo
(1838) che trattava di un ex-lacché divenuto ministro di Carlo II di Spagna ed amante della
regina, soggetto che aveva già dato scandalo a Parigi. Ovviamente gli giunse un telegramma
dal Tamberlick che lo informava del parere negativo della Direzione del teatro, ma Verdi poté
misurare il reale interesse del teatro russo alla sua partecipazione quando a casa sua si
presentò come mediatore il fratello del tenore, Achille Tamberlick, che gli fece capire come la
censura avrebbe potuto chiudere un occhio o forse due pur di avere una sua opera nuova
nella capitale. In quel momento a Verdi passò tutto lo sdegno del compositore offeso ed anche
l'interesse per il soggetto di Hugo e si mise a cercare un nuovo argomento. Il 14 aprile 1861
pregò il fido librettista Piave di inviargli subito cinque drammi pubblicati nel "Magazzino
Teatrale Edizione Stella", ma il soggetto giusto era in realtà già stato trovato in precedenza e
venne annunciato da Verdi a Tamberlick il 18 giugno. Egli lo teneva nel cassetto da tempo, sin
dal 1856, secondo la testimonianza del fido Emanuele Muzio, contenuta in una lettera a
Ricordi. Un'edizione in lingua italiana era apparsa a Milano nel 1850 e Verdi, dopo averla
letta, aveva scritto al suo editore francese, Escudier: "Il dramma è potente, singolare, e
vastissimo; a me piace assai: non so se il pubblico lo troverà come io lo trovo, ma è certo che è
cosa fuori del comune."
Venne stipulato un vantaggiosissimo contratto (60.000 franchi d'oro) che prevedeva il debutto
per il gennaio successivo, anche se Verdi si riservò ancora sul contratto la possibilità di

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cambiare soggetto e fece apporre nel secondo paragrafo la clausola: "La direzione accetta il
libretto "Don Àlvaro o la fuerza del sino" o altri che il signor Verdi riterrà opportuni".
Fu il Maestro stesso a scrivere la prima stesura del canovaccio in prosa del libretto. Piave poi
lavorò tutta l'estate alla versificazione, cosicché Verdi poté iniziare a comporre in settembre
ed a novembre aveva già finito e, dopo gli ultimi accordi con il librettista per qualche ritocco
dell'ultima ora, partì in treno per Parigi e da lì per San Pietroburgo. Ma il freddo in Russia
non aveva riguardi e, se colpiva con maggior frequenza la povera gente impossibilitata a
riscaldarsi adeguatamente, non risparmiava gli artisti, per cui era frequente che malanni
anche seri colpissero i cantanti, alcuni dei quali non fecero più ritorno da una tournée a San
Pietroburgo. Il viaggio di Verdi fu per questo completamente inutile, giacché il soprano
Emma La Grua, destinata ad interpretare il ruolo di Leonora, si ammalò gravemente tanto da
costringere la direzione del teatro a rimandare l'esecuzione della "Forza" alla stagione
successiva, a causa dell'impossibilità di reperire in breve tempo un'artista di pari livello. La
"prima" quindi avvenne il 10 novembre 1862 e Verdi fu molto soddisfatto dell'esito; lo zar e
la zarina assistettero alla quarta replica ed insignirono Verdi dell'Ordine Imperiale e Reale di
San Stanislao. La stampa invece si divise sull'esito: quella di lingua tedesca( "St-Petersburg
Zeitung"), impegnata da tempo nella diatriba pro-Wagner e contro-Verdi, si distinse per
imbecillità tacendo del tutto sulla prima della "Forza"e preferendo dedicare ampio risalto ad
un concerto di Anton Rubinstein. Quella di lingua francese, "Le journal de St.Petersbourg",
lodò invece il maestro italiano, pubblicando lunghe presentazioni e recensioni in cui si
sottolineava il rapporto tra la concezione teatrale di Verdi e quella di Victor Hugo, simili
soprattutto nell'usare il "contrasto" per esaltare il "bello". Se questa infatti si può dire sia
sempre stata una prerogativa del compositore italiano, è vero che in "Forza" trova la sua
piena realizzazione, perché gli elementi di contrasto, apparentemente estranei alla vicenda,
ma mai solo di "colore", sono usati sapientemente, come già aveva fatto il Rivas, per far
risaltare con ancora maggior forza la vicenda centrale. E' come se le voci di Leonora e di
Alvaro, emergendo da una vicenda corale, assumessero con più energia lo smalto della voce
solistica, dell'interprete primo della storia. Il giornale nazionalistico "Syn otecestva" ("Il
figlio della patria") scrisse proprio di questa caratteristica, sottolineandola però come difetto,
in una recensione sostanzialmente negativa: "Troppe scene episodiche, troppi effetti di vario
tipo, ed il quadro rappresenta una specie di miscuglio nel colore e nel soggetto, cosicché
l'impressione risulta debole; per di più i particolari spostano in secondo piano completamente
la vicenda principale". Questa è la grande novità della "Forza" e fu colta da tutti, sia pure
nella discordanza delle valutazioni: fino al "Ballo in maschera" Verdi si era attenuto alla
regola ferrea dello svolgere le trame evitando accuratamente le dispersioni in episodi
collaterali, semplificando ed eliminando tutti i personaggi non necessari allo svolgersi della
vicenda principale. Con la "Forza" Verdi propose un altro stilema, aderendo con decisione
all'andamento del dramma del Rivas, un andamento a zigzag, in cui i protagonisti appaiono e
scompaiono e spesso cedono la scena a figure di contorno come Preziosilla o Melitone,
personaggi che non hanno punti di contatto con la vicenda tanto che questa potrebbe svolgersi
anche se loro non esistessero, protagonisti di altrettanti squarci di puro teatro non
riconducibili completamente all'opera originale, ma sentiti da Verdi come necessari per dare
più peso ed importanza ai successivi interventi dei protagonisti. Leonora ed Alvaro si
incontrano solo all'inizio ed alla fine dell'opera ed entrambe le occasioni sono tragiche. In
mezzo c'è un pullulare di figure popolaresche, di soldati, frati, vivandiere, osti, viaggiatori,
mendicanti, pellegrini, mulattieri, mercanti e delinquenti, zingari e saltimbanchi, con una
vicenda che si sposta continuamente: da Siviglia a Hornachuelos, a Velletri ed ancora alla
Sierra Morena. La novità musicale è grande, tanto che l'opera, che è da molti considerata una
delle migliori del genio bussetano, colse impreparata la critica, la quale sottolineò come un
difetto la grande abbondanza di materiale musicale e la grande rilevanza che assumeva
l'orchestra nel dipanarsi della vicenda, spesso con funzioni di reminiscenza oppure chiamata

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a ricordare con mugghi sordi e temi angosciosi la presenza incombente di un destino crudele
sui protagonisti. "Il compositore ha voluto che in tutta la sua opera si sentisse mugghiare il
respiro possente del destino. Esso romba e si sente la sua voce riecheggiare come una minaccia
sospesa" scrisse il "Journal de St-Petersbourg". "La Forza del destino è eccellente….nei
particolari, non come insieme. Mancano stile, legame nello sviluppo del dramma musicale,
colorito, che caratterizzano un'opera compiuta ed organica. Qui c'è molto materiale per
diverse opere, non per un'opera perfetta in senso rigoroso; è piuttosto una raccolta di scene
frammentarie, di brani musicali a sé stanti senza nessun rapporto con il dramma, con l'idea
generale e quindi senza nessun legame tra loro" scrisse invece "Il figlio della patria". Su un
punto tutte le critiche concordarono ed era l'eccessiva lunghezza dell'opera: "è un dramma
troppo triste, troppo scuro, troppo lungo"(Le journal de S-P.) "l'opera guadagnerebbe se il
compositore l'abbreviasse considerevolmente"(Il figlio della patria).
Il neonato "gruppo dei cinque" nazionalista fa sentire la sua voce polemizzando con il
Maestro non tanto per la sua musica, quanto per il suo essere straniero. Eppure, come nota
acutamente Julian Budden in "Le opere di Verdi", il capolavoro di Musorgskij "Boris
Godunov" è ampiamente debitore verso "La forza del destino": "Senza il suo esempio il Boris
Godunov non avrebbe mai potuto assumere la forma che ha oggi. La processione di devoti
pellegrini che fa inginocchiare in preghiera tutti i presenti; il monaco che è figura da
commedia; il lamentoso tenore di carattere maltrattato dagli astanti, in una parola Varlaam e
l'Innocente, non hanno precedenti se non in Melitone e in Trabuco…..solo la "Forza del
destino" poteva fornire il modello." ( "Le opere di Verdi" vol. II)
Nonostante il successo, replicato come detto nel 1863 a Madrid in presenza del Rivas, l'opera
non decollò subito a causa di un'accoglienza non entusiastica del pubblico e del braccio di
ferro tra il compositore e l'editore Ricordi, il primo impegnato ad ostacolarne l'allestimento
qualora non gli si garantissero interpreti di primo livello, il secondo desideroso di far eseguire
il più possibile un'opera che considerava tra le migliori di Verdi.
Per di più le molte critiche ricevute nei salotti e su qualche giornale a causa dell'alto numero
di morti, (poiché al marchese di Calatrava, che muore già nel primo atto, si aggiungevano nel
finale le morti di don Carlos de Vargas, della sorella Leonora ed infine di Don Alvaro, con
un'ecatombe totale dei protagonisti della vicenda), rendevano il maestro molto perplesso sul
finale dell'opera, per il quale non riusciva però a trovare una soluzione meno cruenta. (Finale
che, del resto, a chi ha avuto modo di ascoltare la versione pietroburghese ripresa in tempi
moderni al FAV Theatre in California nel 1980, appare sia musicalmente che scenicamente
riuscito e coerente). Iniziò così la lunga vicenda del "maledetto scioglimento". Nel 1863 Verdi
scriveva a Tito Ricordi: "Si dice che la Forza del destino sia troppo lunga e che il pubblico sia
spaventato da tanti morti! D'accordo, ma una volta ammesso il soggetto, come si trova altro
scioglimento? ". Verdi si consultò con Achille de Lauzières, un giornalista che in seguito
avrebbe tradotto il libretto francese del "Don Carlos"; costui gli propose di accettare il finale
che era stato imposto a Roma dalla censura pontificia senza la sua autorizzazione: una
riconciliazione generale con Leonora ed Alvaro finalmente sposi, benedetti da don Carlos, il
tutto concluso da un terzetto di felicità (l'opera fu presentata come "Don Alvaro").
Verdi ovviamente si ribellò; scrisse infatti ad Escudier: "Secondo me la forza del destino, la
fatalità non può portare all'accomodamento di due famiglie; il fratello, dopo aver fatto tanto
fracasso, deve vendicare (notate anche che è spagnuolo) la morte del padre, e mai e poi mai
può accondiscendere ad un matrimonio" e chiese a Ricordi di inviargli un librettista capace di
trovare la soluzione. Ma né il Gutierrez, autore di "El trobador " e "Simòn Boccanegra", né
Marco Marcelliano Marcello, né Arrigo Boito, né Antonio Ghislanzoni, futuro librettista
dell'Aida, seppero soddisfare il maestro. Verdi li rifiutò tutti ed autorizzò Ricordi a
noleggiare l'opera così come era. Nel 1865, piuttosto di far eseguire "Forza" a Parigi senza
aver trovato ancora lo "scioglimento", preferì comporre un'altra opera ("Don Carlos"). La
cronaca ci riporta negli anni successivi gli allestimenti a Reggio Emilia, Senigallia,Trieste,

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Firenze e Vienna, quello pessimo a Genova (diretto dal Mariani), le trattative con Venezia,
con Verdi che sempre più pensa al "maledetto scioglimento" ma non trova la soluzione, la
malattia del Piave che rimane gravemente paralizzato, infine il grande incontro con Manzoni,
complice Clara Maffei, che cambierà molto l'animo del maestro: "Come spiegarvi la
sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me alla presenza di quel Santo, come
voi lo chiamate? Io me gli sarei posto in ginocchio dinanzi, se si potessero adorare gli uomini.
Dicono che non lo si deve e sia: sebbene veneriamo sugli altari tanti che non hanno avuto il
talento né la virtù di Manzoni."scrive egli stesso dopo l'incontro. E' dunque tanto illecito
supporre che proprio da questo incontro scattò in Verdi il convincimento a risolvere, in un
senso che non è più azzardato definire "manzoniano", il finale dell'opera? La soluzione gli era
stata prospettata dal Ghislanzoni, ex-baritono, giornalista, scrittore e librettista che gli aveva
proposto un finale in cui Alvaro, invece di suicidarsi maledicendo Dio e gli uomini, chiede ed
ottiene il perdono da Leonora morente. "Veder finire Alvaro così rassegnatamente? Ho i miei
dubbi che forse aumenteranno o diminuiranno a mente più riposata" scrive Verdi all'amico.
Il maestro si convinse e così si giunse alla stesura definitiva del finale, dove la morte e la
sofferenza perdono il significato dato dal Rivas di conseguenze di una predestinazione alla
sfortuna da parte di un destino crudele ed assumono quello provvidenzialistico cristiano di
strumenti per la redenzione e la conquista della vita eterna. La morte come riscatto supremo,
come mezzo per conseguire il perdono divino: Leonora assomiglia tanto ad Ermengarda nella
sua fede nella Provvidenza; Fra Melitone, se non esageriamo con il raffronto, ricorda molto
don Abbondio.
Non potendo più contare sul povero Piave, il Maestro decise dunque di affidare a Ghislanzoni
il rifacimento del finale ed anche di parte del terzo atto. C'era alle viste infatti il ritorno di
Verdi al Teatro alla Scala di Milano da cui mancava, per sua scelta, dal 1845, cioè dalla
"Giovanna d'Arco", e su questo riavvicinamento i Ricordi puntavano molto. Si arrivò così
finalmente alla versione definitiva dell'opera, che vide la luce a Milano, con grande successo e
grande soddisfazione del Maestro, il 27 febbraio 1869. Le modifiche al soggetto ed al libretto
furono limitate, ma sostanziali, ed allontanarono ulteriormente, come detto, l'opera di Verdi
da quella del duca spagnolo: nel terzo atto della versione di Pietroburgo il duello avviene fuori
scena e si vede rientrare il solo Alvaro con la spada insanguinata, convinto di avere ucciso don
Carlos. Invocando il perdono e sperando nella liberazione, si getta nella battaglia per trovarvi
la morte. Nella versione di Milano invece questo duello non avviene più perché una pattuglia
di ronda, il cui canto "Compagni sostiamo" aveva già scandito il trascorrere del tempo della
convalescenza di Alvaro, li separa. Rimasto solo Alvaro decide di abbandonare le armi e
ritirarsi in convento. (Ricordiamo anche, perché il parallelo sia completo, che nell'originale
del Rivas il duello avviene, Don Alvaro uccide don Carlos de Vargas e viene arrestato in base
alla legge reale che proibisce i duelli e condannato a morte, cui scamperà solo in virtù
dell'attacco austriaco a Velletri).

1862 1869
Coro e strofe "Lorché pifferi e tamburi" Ronda (brano nuovo)
"Venite all'indovina" (Preziosilla) Scena e duetto Don Alvaro-don Carlo
(modificato)
scena ed arietta di Trabuco Scena IX accorre la pattuglia (musica nuova)
Coro "Pane, pan per carità" Coro e strofe "Lorché pifferi e tamburi"
Coro-Tarantella "Venite all'indovina" (Preziosilla)
Scena ed aria buffa di Melitone (musica nuova)
Rataplan Scena ed arietta di Trabuco
Scena e duetto Don Alvaro-don Carlo Coro "Pane, pan per carità"
Scena ed aria "Qual sangue sparsi" di don Coro-Tarantella
Alvaro* Scena ed aria buffa di Melitone

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Cabaletta di don Al. "S'affronti la morte" Rataplan

* raramente eseguita in seguito per la sua grande difficoltà

Nel quarto atto infine della versione di Pietroburgo, quando don Carlos è ferito a morte e
chiede l'assistenza di un religioso, Alvaro chiama colui che pensa essere un eremita ed è invece
l'amata, i due si riconoscono e cantano un breve duettino, in presenza del fratello: "Si'
dunque a me presso tu stavi, mio bene!/ Cancelli quest'ora di un tempo le pene!". Carlos
crede che i due fossero insieme in quel luogo già da tempo e lo sdegno si riaccende nel suo
cuore. Quando dunque Leonora accorre presso il fratello ferito per soccorrerlo, con le ultime
forze costui la uccide ( in scena). Leonora muore così perdonando il fratricida. Mentre infuria
la bufera entrano i frati che si meravigliano di vedere là una donna (solo il Padre Guardiano
ne conosceva l'identità, particolare non chiarissimo nella versione scaligera). Alvaro,
impazzito dal dolore, si suicida gettandosi da una rupe nel sottostante burrone gridando
"Pera la razza umana". Di conseguenza, nel solo finale, i cadaveri rimasti sul terreno sono
ben tre.
Per questo il pubblico rimase spaventato e nel rifacimento milanese, Verdi salvo' la vita
almeno ad Alvaro. In questa versione anche Leonora viene ferita fuori scena e vi rientra
sostenuta da Guardiano. La donna muore invocando il perdono per Alvaro e Verdi aggiunge
anche un'invocazione di padre Guardiano mentre nella prima versione i frati, ligi
all'originale del Duque de Rivas si limitavano a poche espressioni di orrore e di pietà. (Anche
qui ricordiamo per completezza lo sviluppo originale dell'opera del Perez de Saavedra, nella
quale Alvaro ferisce a morte non don Carlos, che era già morto nel primo duello nella quarta
giornata, bensì il fratello di costui, don Alfonso e poi la storia si sviluppa come nell'edizione
pietroburghese).
Verdi modificò ed ampliò anche la sinfonia, dove al tema del destino, centro motore della
costruzione musicale, segue quello del perdono insieme al ballabile del II atto, quindi la
preghiera di Leonora seguita da altri temi dell'opera. Altri piccoli mutamenti sono nel duetto
tra Leonora ed Alvaro, in quello tra Leonora ed il Padre Guardiano, nella scena dei
mendicanti e nel duetto Carlo-Alvaro, anticipato al terzo atto. Infine inserì la ronda militare e
dette maggior risalto agli interventi di Preziosilla e Melitone.
La "Forza del destino" era finalmente giunta alla sospirata versione definitiva!
Oggi il capolavoro verdiano è amato e riconosciuto, ancorché poco eseguito per le grandi
difficoltà del suo allestimento e perché richiede un cast validissimo anche nei personaggi
secondari. La sua peculiarità sta proprio nell'ingresso prepotente degli elementi frivoli,
spumeggianti ed ironici, che nelle feste a palazzo del duca di Mantova o a casa di Violetta
Valery fino al "Ballo in maschera" riguardavano una classe sociale ben definita e poco amata
da Verdi , qui in "Forza" invece attingono a quel patrimonio di ricordi del mondo contadino
da cui era sorto il genio del compositore, che da bambino aveva tante volte sentito suonare un
violinista stonato in mezzo agli avventori della taverna, oppure subito le fanfaronate di
qualche smargiasso dopo qualche bicchiere di troppo o incontrato un frate brontolone e
crapulone o immaginato, seguendo i racconti di un cantastorie, l'immancabile bella fanciulla
prigioniera in un castello isolato in una notte oscura, e vicende di amori impossibili, di
vendette implacabili e di eroiche rinunce al mondo da consumarsi in un convento o in eremi
inaccessibili . La folla è protagonista e con lei l'umanità che vive e sopravvive alle tragedie dei
singoli, per un attimo partecipe, ma subito dimentica del dolore altrui. Le assurdità della
vicenda inventata dal Perez de Saavedra, che pure rappresentò una grande novità nel
panorama del teatro spagnolo di quei tempi, tanto da essere considerata il capostipite del
teatro romantico in Spagna, oggi ci sono di disturbo, perché lo spettatore e l'ascoltatore sono
più smaliziati e reagiscono istintivamente alle forzature innaturali del meccanismo scenico.
Per esempio, nel 1835, anno della prima rappresentazione del "Don Àlvaro" del duque de

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Rivas, la scena iniziale di Alvaro sorpreso dal mancato suocero in flagrante violazione di
domicilio in camera della figlia, il suo inginocchiarsi per ricevere dal Calatrava il colpo di
spada fatale come atto di riconoscimento della propria colpa in obbedienza alle leggi della
cavalleria, il suo autodisarmarsi e lasciar cadere la pistola dalla quale parte casualmente un
colpo che, per intervento del Fato, centra proprio il marchese uccidendolo quasi sul colpo,
sbalordì sicuramente il pubblico e ne colpì l'immaginazione; al pubblico smaliziato dei nostri
tempi può sortire la reazione opposta e rischiare il ridicolo. Lo scrivente non sa nulla di
armi e non ne vuol sapere (confesso la mia ignoranza sul fatto che nel 1740 una pistola avesse
o no un meccanismo di "sicura"), ma quante sono le probabilità che una pistola posata a terra
da un uomo in ginocchio, che percorra cioè pochi centimetri fino a toccare il suolo, anche se
improvvidamente gettata, spari da sola e per giunta non al piede del malcapitato di turno, ma
verso l'alto, con una traiettoria mortale? E quante sono quelle che durante la guerra di
successione austriaca in un bosco vicino a Velletri, presso Roma, quindi a chilometri da
Siviglia, don Alvaro salvi una persona da un'aggressione e questa sia proprio il suo nemico
don Carlos con il quale scambia un giuramento d'eterna amicizia? E quante, tra tanti posti al
mondo, che don Alvaro vada a ritirarsi in convento esattamente dove vive chiusa in una
grotta la sua Leonora? Si è parlato di feuilleton e forse non si è esagerato, eppure Verdi ha
trovato in questo testo l'ispirazione per scrivere pagine meravigliose ed ha reso credibile
l'incredibile con la grandezza della sua musica. Egli per primo ha dimostrato di credere
nell'argomento (finale a parte) e ne ha anzi sviluppato ulteriormente gli elementi popolareschi
e di colore con inserimenti estranei al testo. Sappiamo bene come fosse rimasto molto colpito
dalla lettura del "Wallensteins Lager" di Schiller, lo scrisse egli stesso a Cammarano
addirittura nel 1849: "C'è una scena stupenda nel Wallenstein di Schiller: soldati, vivandiere,
zingari, astrologhi, persino un frate che predica alla maniera più comica e deliziosa del
mondo". Quindi si deve supporre che il Maestro abbia tenuto nel cassetto per quasi 15 anni
queste pagine, aspettando l'occasione giusta per musicarle e che quest'occasione venne con la
"Forza" e forse fu una delle ragioni della sua stessa scelta. Non è dunque lecito pensare ad un
Verdi costretto ad essere popolaresco e bozzettistico dal soggetto prescelto; anzi, l'inserimento
voluto e sottolineato delle pagine di Schiller (Verdi fa scrivere sul libretto in corrispondenza
della predica di Melitone: "I versi segnati tra gli asterischi appartengono alla splendida
versione del "Wallensteins" di Schiller fatta dall'illustre Cavaliere Andrea Maffei") fa
comprendere come risponda ad una chiara volontà del Maestro, il quale mostra di essersi
molto divertito ai giochi di parole dell'amico letterato (tra medicar e mendicar, bottiglie e
battaglie, cenere e sacco e Venere e Bacco, convento e covo del vento, santuari e sanguinari,
tabernacoli del Cristo e ricettacoli del tristo) che pure non rendono assolutamente la forza
popolaresca e l'immediatezza del testo originale. Valga per tutti il "Dove si è visto berteggiar
la santa Domenica così?" del Maffei che rimane lontanissimo dalla forza prorompente del
"Treibt man so mit dem Sonntag Spott,/ als hätte der allmächtige Gott/ das Chiragra, könnte
nicht drein schlagen?" (atto primo, scena ottava del "Wallensteins Lager" di Schiller) che
suona più o meno come "Ci si prende gioco della domenica come se Dio Onnipotente avesse la
gotta e non potesse menare ceffoni?" che rende stupendamente questa figura di cappuccino
dalle uscite d'imprevedibile quanto involontaria comicità.
Fra tanti episodi corali, tanti travestimenti, (mai però a fini di divertimento), tanti scherzi
crudeli del destino, emergono i personaggi principali ancora più valorizzati nel loro eroismo e
nella loro assolutezza romantica. Il Destino è il dichiarato protagonista degli eventi, visto dal
Rivas come una forza nemica e crudele cui è vano opporsi e trasformato dal Verdi in una
Provvidenza redentrice che schiaccia la creatura con la sua potenza, aprendogli però
prospettive salvifiche. L'evento motore della vicenda accade subito, in quel primo atto che
potrebbe chiamarsi prologo, e questo non è un fatto consueto nella storia del melodramma,
dato che costringe l'autore poi a dilatarsi in altri tre lunghi atti nei quali gli eventi sono legati,
condizionati ed impediti da quell'evento iniziale, da quell'omicidio che, (a differenza di quello

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di don Giovanni il quale, benché costretto dalla situazione, uccide volontariamente), avviene
per puro volere del Destino e toglie al protagonista ogni dignità e grandezza, sia pure nel
male, per consegnarlo al suo avvenire di "desdichado", di predestinato alla sfortuna ed alla
sofferenza. Ugualmente raro è il fatto che il duetto tra i due protagonisti, l'unico dell'opera,
avvenga al primo atto e che essi non s'incontrino più sino al finale, per pochi attimi, nei quali
però le esigenze sceniche impediscono un altro duetto e trascinano velocemente verso
l'epilogo. L'aria di Leonora del primo atto, l'aria dell'addio al suo paese, anticipa moltissimo
quella di Aida, come pure nel duetto tra Leonora ed Alvaro, quando la donna piange e
dichiara il suo amore, la memoria corre al duetto della Traviata, agli istanti che precedono
l"Amami Alfredo"e questo perché entrambe queste situazioni fanno parte del mondo teatrale
di Verdi. La figura di Padre Guardiano, più ancora di quella del Calatrava, è la figura
paterna, ed il grande duetto con Leonora del secondo atto, che si distende per quasi
quattordici minuti, ricorda per dimensioni il grande duetto di Traviata, ma poco lega
ovviamente Germont a Guardiano: quest'ultimo è "il santo", il vero cristiano, figura ieratica
e potente, che si staglia al di sopra di tutti gli altri personaggi (soprattutto della religiosità
materialistica di Fra Melitone) per levatura morale e spirituale. Egli rappresenta l'ideale di
Verdi, ma costui lo colloca al di fuori del mondo, laddove solamente vede possibile la
realizzazione di un sì alto stile di vita, un ideale verso il quale egli si sente inadeguato. Tranne
il Padre Guardiano, tutti i personaggi sono in balia del destino, anche se tentano di
combatterlo, e vivono una relazione stretta con la morte che per qualcuno è redentrice, per
altri necessaria per salvare l'onore familiare: nessuno sembra godere di quella pace che Verdi
fa invocare tanto poeticamente a Leonora nell'ultimo atto. La tematica razziale (Verdi sta per
scrivere Otello), con quell'abbraccio di un attimo tra l'aristocratica Leonora ed il meticcio
"advenededizo" (cioè ricco, ma di classe inferiore) Alvaro è meno approfondita che nel
dramma del Rivas, ma è ben presente, come pure il contrasto feroce tra un mondo gaudente e
guerresco e la pace dei santi. Non per nulla Verdi fa interrompere la scena dell'osteria da un
coro di pellegrini che ricorda dove stiano di casa il vero valore e la grandezza dell'esistenza
umana.
In Italia "La forza del destino" divenne, subito dopo la prima scaligera, opera di repertorio,
ma non così all'estero, dove anzi scomparve presto dalle programmazioni per ritornarvi in
gran spolvero grazie alla Verdi-Renaissance tedesca di metà anni venti. Nel 1925 andò in
scena ad Altemburg una versione in lingua tedesca proposta da Franz Werfel, con l'unica
variante dello spostamento del duetto e duello tra Carlos ed Alvaro nuovamente al finale del
terzo atto (però nella versione 1869), cosa ben più congruente dal punto di vista
drammaturgico. Da allora "La forza del destino" divenne opera di repertorio anche nei paesi
tedeschi, ma con il taglio del "duetto della sfida" e lo spostamento della sinfonia all'inizio del
secondo atto.

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