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Dal Burlador de Sevilla al Dissoluto punito: l’avventura d’un immortale

Sintesi del saggio omonimo di Marcello Lippi

Non esiste figura letteraria più rappresentata e indagata psicologicamente di Don Giovanni, un vero mito
dell’epoca moderna. Dal XVII secolo in poi, per non far nascere la sua leggenda ancora prima, come molti
critici letterari fanno, andando a ritroso fino all’ ”Ars Amandi” di Ovidio, sono moltissimi gli scrittori, i
capocomici, i musicisti, i filosofi che hanno dedicato a don Giovanni, con alterne fortune, un loro lavoro. Il
29 ottobre 1787 viene rappresentato a Praga il “Don Giovanni, ossia il Dissoluto punito” di W.A.Mozart su
libretto del geniale Lorenzo da Ponte. Perché mettere in scena una storia conosciutissima dal pubblico e che
altri suoi colleghi: Tritto, Gazzaniga, Righini, Calegari, Albertini, Gardi e Fabrizi, avevano appena musicato,
tre dei quali nello stesso 1787? Era certamente un soggetto di gran moda, un po’ come la storia di Orfeo ed
Euridice ai primordi del melodramma, ma appunto per questo si rischiava di stancare il pubblico e di esporsi
a troppi confronti. Penso che Mozart abbia aderito con entusiasmo all’idea per la caratteristica
fondamentale del soggetto stesso, delizia suprema per un musicista: quella di essere un tema con variazioni
da sviluppare. Sappiamo infatti come da sempre la pratica della variazione esalti i veri musicisti in una gara
contro se stessi e, perché no, anche in rivalità con i colleghi; tutta la produzione cembalistica ed organistica,
e poi pianistica, ne ha tratto linfa vitale. Don Giovanni era un soggetto perfetto: rappresentato da quasi due
secoli, sempre secondo modalità differenti ideate dall’autore del momento, come una variazione su un
tema dato. La trama dell’opera sarebbe stata contraddistinta dall’uso di alcuni elementi-base da sempre
associati al soggetto e consolidati da due secoli di pratica teatrale: i travestimenti, il tentativo di stupro o
l’amore rubato con l’inganno, il servo succube e fifone, i popolani ingannati, le nozze interrotte, l’uccisione
del commendatore, la sua statua (costruita a volte in tempo di record ) che parla e si muove
miracolosamente, il naufragio e l’arrivo nelle braccia di una deliziosa pastorella oppure l’assalto dei
briganti, l’appuntamento a cena reciproco tra don Giovanni e la statua, il rifiuto del pentimento e la
condanna all’inferno. Su questi elementi le variazioni teatrali e musicali dettavano la “novità” dell’autore
del momento e dalla scelta dell’ordine degli eventi spesso dipendeva il successo dell’opera. Il pubblico
conosceva già il soggetto e si aspettava di ritrovare gli elementi noti, ma si dilettava molto delle variazioni.
Inoltre c’era un vantaggio enorme: era, come diremmo oggi, un soggetto “di dominio pubblico”, senza un
autore ben definito, anche se si tende ad attribuire questa paternità (in modo controverso) a fra’ Gabriel
Tellez, più noto con il nome d’arte di Tirso de Molina, dopo che per secoli ne fu ritenuto l’autore prima
Lope de Vega e poi Calderon de la Barca. Questo soggetto ebbe subito le “libere traduzioni” di Onofrio
Giliberto e di Giacinto Andrea Cicognini (altra attribuzione controversa): la prima perduta, la seconda
pervenuta integralmente. Le datazioni sono altrettanto incerte, potremmo dire 1630 il Tirso e 1632 il
Cicognini. Da allora il soggetto non venne mai riproposto senza enormi variazioni e fu la tradizione italiana a
prevalere, tanto che i grandi del periodo d’oro del dongiovannismo in Francia, Dorimon, De Villiers,
Rosimond e lo stesso Molière ebbero l’avvertenza di dire che non avevano fatto altro che “tradurre
liberamente” dalle opere degli italiani. Il resto lo fece la tradizione feconda e buffonesca della Commedia
dell’Arte e dei Puppenspiele tedeschi e soprattutto olandesi. Don Giovanni divenne veramente un
bellissimo tema da variare secondo l’estro dell’autore, trovando sempre nuova linfa vitale nell’adesione ad
un nuovo linguaggio, dal teatro in poesia a quello in prosa, ai canovacci della commedia dell’arte, alle
buffonerie dei Puppenspiele, all’opera lirica, al grande romanzo con Laclos e Richardson e poi, dopo
Mozart, alla poesia, al trattato filosofico, alla canzone, al cinema. Fu questo bellissimo tema ad
appassionare Mozart, oltre alla certezza di raccontare una storia conosciuta e quindi di facile successo, se
ben musicata, ed alla voglia di gareggiare con i colleghi che già si erano cimentati nell’impresa e che egli
sbaragliò. Da Ponte fece la stessa operazione di variazione sul tema: prese la trama del Bertati, da costui

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predisposta per “Il convitato di pietra” del Gazzaniga, e, con qualche importante cambiamento, ideò un
testo di una tale bellezza e potenza espressiva da contribuire non poco al successo dell’opera di Mozart. Su
questo testo Mozart ha creato, infatti, grandi personaggi che vivono di musica eppure sono teatralmente
efficacissimi. Don Giovanni è sempre presente; quando non lo è fisicamente si parla di lui o il suo carisma
comunque aleggia nell’aria: è un personaggio enorme. Tutti conoscevano la storia di Don Giovanni,
pertanto Da Ponte ha sottinteso molte cose e cercato una via mediana nella lunga evoluzione del
personaggio: c’è molto Tirso da Molina, cioè molta gioventù e incoscienza, poca filosofia e poco erotismo,
molta esuberanza, ma soprattutto, durante il tempo dell’opera mozartiana, l’amatore per eccellenza non
riesce in modo avvilente a concludere positivamente una sola avventura erotica: salta sempre fuori
qualcuno o qualcosa che manda a monte il suo tentativo. Sembra quasi un don Giovanni più anziano dei
tanti precedenti (infatti manca la figura del padre e qualunque figura di potere a contrastarlo: né re, né
ministri del re, né il Prévost con i suoi gendarmi, né i fratelli della donna oltraggiata); qui don Giovanni è
l’unico potente e pertanto emerge con ancora maggior chiarezza il suo rapporto con se stesso e con il Cielo,
unica realtà a lui superiore, che sfida sempre di più, senza poter più portare a giustificazione, come faceva
nel Tirso, la giovane età. Da Ponte tolse al personaggio la ferocia del Dom Juan di Dorimon, che, stufo di
ascoltare le rimostranze del padre, lo abbatteva a pugni, causandone la morte per dolore, cosa ripresa poi
anche dal De Villiers il quale gli fece uccidere anche Dom Philippe dopo averlo ingannato ed avergli
sottratto la spada (non quindi in regolare duello, ma mentre costui è disarmato ed inerme), per non parlare
della lunga lista di assassinii del “Libertino” di Thomas Shadwell. Il don Giovanni di Mozart torna a
riacquistare, cioè, un senso dell’onore che sulle tavole dei palcoscenici aveva da tempo perduto e che lo
riporta a Tirso e soprattutto a Molière, laddove sfidava i briganti per salvare don Carlos, fratello di Elvira, in
missione in Spagna per ucciderlo. Il nostro don Giovanni nell’opera si comporta sempre con i modi del
nobile signore, pur negli eccessi di una vita sregolata: il suo canto è sempre contenuto, galante ed anche
eroico quando sfida il “vecchio infatuato” e poi la statua; quando è sorpreso non perde quasi mai la calma e
trova sempre una via di uscita, fino all’estremo momento nel quale rifiuta il pentimento per una dignità
umana che gli impone la coerenza, soprattutto in presenza del servo-aedo. E’ ben diverso dal Don Giovanni
del Goldoni che, lasciato solo a tavola per pochi attimi con donna Anna da un impegno improvviso del
commendatore, si lascia prendere da una foga da satiro che lo porta a passare in pochi istanti da un
corteggiamento frettoloso e poco galante a pretendere con la forza i favori di Anna e ad estrarre la spada
minacciandola di morte se non si concede. Il nostro don Giovanni ha ben chiari i principi della nobiltà ed in
assenza, come detto, di una figura di riferimento che sia di autorità e richiamo, visto che gli unici, timidi
rimproveri gli giungono dal servo Leporello, cioè dal “buffo”, ha almeno un senso dell’onore che lo porta a
mantenere sempre, esteriormente, un comportamento aristocratico. Non ha l’indifferenza feroce
dell’omologo di Dorimon e di Goldoni, non ha l’ipocrisia che in Molière lo aveva portato alla grande scena
della finta conversione. Qui non compare nemmeno il machiavellismo, per nulla estraneo ai don Giovanni
passati e che ne fu il primo elemento teorico, prima che subentrassero l’ateismo, l’erotismo e quindi nel
settecento il libertinismo. Il personaggio in Mozart non ha nulla di comico: quest’ufficio viene delegato
integralmente al servo; scompaiono tutte le scene di lazzi sui travestimenti e la scena classica in cui don
Giovanni di notte non riconosce Leporello ed ingaggia un duello con lui che combatte sdraiato con la spada
in alto; spariscono i finti interrogatori per appurare la fedeltà del servo davanti ad una possibile inchiesta
dell’autorità, la famosa scena degli schiaffoni inventata da Molière e tutte le scene buffe che hanno
coinvolto il nostro protagonista sui palcoscenici della Commedia dell’Arte ed in molte commedie “regolari”.
Don Giovanni, nell’opera di Mozart, torna all’originale gesuitico ed il suo rapporto con il Cielo torna
principale; non sono importanti per lui le gioie del sesso, ma è fondamentale la passione della conquista,
che è vissuta come un gesto artistico, senza alcuna considerazione della donna sedotta e abbandonata, anzi
con un profondo fastidio verso di lei. Il don Giovanni di Mozart è adulto (forse per questo Mozart sceglie la
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voce di basso-baritono al posto di quella tradizionale del tenore) e segue una sua filosofia, per quanto per
lo più sottintesa: nello stesso tempo, però, è come un bambino alla ricerca del Padre che non lo ha amato e
lo ha rifiutato e grida, con la sua ribellione e l’erotismo come ricerca di libertà, il desiderio di essere
considerato e, se non amato, almeno punito, ottenendo così il riconoscimento della sua esistenza. Il Cielo
invece gli è indifferente e non lo punisce fino alla fine, e questa stessa indifferenza don Giovanni la prova
verso gli altri che lo circondano, in un mondo senza amore, dove le note meravigliose di Mozart non
disegnano che pagine di dolore, di desiderio inesaudito di amore, di finzione, ma soprattutto d’assenza.
L’opera ha una struttura assolutamente tradizionale, con arie, pezzi d’assieme e recitativi “secchi” e
accompagnati. L’ouverture inizia in chiave assolutamente preromantica, introducendo l’atmosfera del
dramma e predisponendo l’ascoltatore a seguire il racconto con accordi ampi in re minore ed un respiro
greve, imponente, per poi aprirsi grazie al moto degli archi ad una musica più festosa, ma piena di
un’energia eccessiva, quasi demoniaca, anticipo di quel dualismo tra tragico e comico che è stata da
sempre la prima caratteristica di tutti i don Giovanni e il segreto del loro successo con il pubblico e si
conclude in modo sommesso, per lasciare subito il campo all’esordio di Leporello. Mozart vince ogni sfida
sin dalle prime note di costui: che freschezza in quella semplicissima melodia composta da suoni staccati ed
accentati, come un borbottio di una pentola dove bolle l’acqua, e come è efficace ad introdurci il
personaggio del servo, un personaggio nuovo, la cui comicità è nella pavidità, ma che in fondo, anche se
brontola sempre, invidia il padrone e vorrebbe essere come lui! Non c’è una figura di servo così potente
negli altri Don Giovanni Tenorio/ Convitati di pietra/ Festin de pierre/ Empi puniti/ Pravità castigate/ Ateisti
fulminati/ Bulador de Sevilla/ Libertini e in quanti altri modi gli autori si sono sbizzarriti a battezzare lo
stesso soggetto. E’ un servo realmente al livello, come importanza nella storia, del padrone. Tra i due c’è un
gioco sottile di scambi, di rimproveri, di minacce, di complicità. Questo don Giovanni che non sa più
conquistare e possedere, ma solo affascinare, questo amante di tutte che ha esaurito la sua ferocia
giovanile sopravvivendo a se stesso e che vuole lasciare ai posteri la testimonianza della gloria delle sue
conquiste esplicitata nella famosa lista delle donne concupite, ha bisogno di un pubblico, come un attore,
ed il suo pubblico è Leporello: lui dovrà raccontare, lui deve sapere tutto, lui deve sempre esserci; in sua
presenza l’attore non può gettare la maschera, nemmeno davanti ad una statua che cammina e parla,
nemmeno davanti alla bocca dell’inferno che gli si apre sotto i piedi. E’ costretto, dall’immagine che di sé
ha pazientemente costruito, ad esserle fedele, per non far crollare la sua di statua: per essere all’altezza del
suo mito. Così Leporello è il servo più cinico, più vicino al suo padrone. Non dimentichiamo la gioia feroce di
quando mostra ed illustra la lista delle conquiste del padrone alla stessa Elvira (scena ideata dal Bertati,
mentre in passato la lista era generalmente letta alla pastorella): quanto si diverte della sua sofferenza,
tanto da ripetere più volte uno stesso dato, per studiare le sue reazioni. Quanto gli piace, ancora a danno
della stessa Elvira, quando don Giovanni gli ordina di travestirsi come lui e fanno una scena simile a quando
Cyrano presta la voce al bel Cristiano! E quanto ancora allorché Elvira, convinta ormai che lui sia don
Giovanni, si lascia andare ad effusioni di amore rivolte a colui che crede essere suo marito: “la burla mi dà
gusto!”. Leporello non sente pietà di Elvira, anzi, gode nel prendere il posto del padrone come aveva
cantato nel piccolo arioso iniziale di presentazione: “Voglio far il gentiluomo!”. Vorrebbe essere come lui,
ma allo stesso tempo non ha il suo coraggio, la sua forza di ribellione; è come lo spettatore che,
contrariamente a quanto desideravano i primi autori, ha sempre in fondo parteggiato per don Giovanni,
felice, come Leporello, di non essere coinvolto nella punizione finale. Leporello è la terra, il pubblico, il
mondo; l’altro punto di riferimento è il Cielo muto di cui don Giovanni nega l’esistenza, senza proferire
autentici proclami di ateismo come fecero altri suoi colleghi in passato. La storia dei servi è lunghissima,
tutti simili in quanto a (poco) coraggio, tutti legati forzatamente al padrone che vorrebbero lasciare se non
temessero troppo la sua vendetta, tutti pronti a rimproverarlo a patto che lui non si adiri; solo in Goldoni e
Shadwell non compare questa figura. Generalmente era il vero personaggio principale ed il ruolo era
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destinato al capocomico: Dorimon, De Villiers, Biancolelli, lo stesso Molière e tutti i capocomici della
Commedia dell’Arte scelsero per sé questo ruolo, non quello di Don Giovanni, e vi trasportarono la propria
maschera abituale di successo: Arlecchino, Brighella, Passarino, Philipin, Pulcinella che si uniscono ai vari
Bertolino, Catalinon (tradotto in italiano con l’orrendo “Coniglione” dalle assonanze assai pericolose),
Sganarello, Bibi, Carrille, Pasquariello, Zaccagnino, Jacomo e chi più ne ha ne metta. Da Ponte rinunciò
volutamente, come aveva fatto anche Bertati, al bilinguismo e, trattandosi di opera, ci trova d’accordissimo.
Far parlare in italiano anche il servo, Masetto e Zerlina che normalmente invece si esprimevano in dialetto
veneziano, lombardo-veneto, napoletano o in patois (Molière) per creare una differenza di classe con gli
aristocratici, aiutò moltissimo la comprensione del testo e la sua fruizione nei teatri di altri paesi. Ma
torniamo a Leporello: l’opera inizia con il lamento del servo, costretto ad aspettare in strada sotto casa del
commendatore, e a far “da palo” al padrone per avvisarlo se arriva don Ottavio, che sanno avere un
appuntamento con donna Anna, mentre don Giovanni cerca, travestito appunto da don Ottavio, di
spacciarsi per lui e di far l’amore con la figlia del commendatore. Travestimento, inganno, erotismo, rischio,
sfida: gli elementi del dongiovannismo ci sono tutti in questa che è da sempre una scena madre. Da Ponte
inizia da qui la storia, da Siviglia. Proprio perché la vicenda è così nota, sceglie di eliminare tutto l’antefatto
partenopeo, L’effetto è quello di preservare l’unità di luogo affrontando con coraggio l’assurdità di un
Commendatore che muore all’inizio del primo atto e che nel secondo, che si immagina nella stessa giornata
per salvare l’unità di tempo, ci sia un suo sepolcro monumentale già bello e costruito. Viene dato per
saputo anche il fatto che Giovanni ed Ottavio siano amici e che don Giovanni abbia addosso il mantello ed il
cappello di don Ottavio perché egli stesso glieli ha dati, su sua richiesta, per fare una burla, come
raccontano molte commedie, o su iniziativa dello stesso amico (nel testo di Tirso). Egli decide di travestirsi
(el burlador) e di approfittare del travestimento per fare l’amore con donn’Anna, disinteressandosi
dell’onore di lei e soprattutto del fatto che è la fidanzata del suo migliore amico. La leggerezza con cui si
muove in Tirso, non c’è più nella nostra opera: là contava più il divertimento sfrenato; ora, poiché Giovanni
è cresciuto, contano la sfida al proprio limite e l’esaltazione della propria audacia. La casa è infatti quella di
un Grande di Spagna, amico intimo del re di Castiglia. La scelta di Da Ponte e Mozart è per un primo atto
che riassuma le scene madri della tentata violenza, dell’uccisione del Commendatore, dei propositi di
vendetta di donna Anna e don Ottavio e della festa di matrimonio disturbata da Don Giovanni che tenta di
rapire Zerlina. A questo si aggiungono molte scene che esulano dallo standard, come le continue
interruzioni di donna Elvira che appare e riappare disturbando ogni piano del Burlador (ideate dal Bertati) e
la grande festa conclusiva del primo atto con un nuovo tentativo di rapimento di Zerlina da parte di don
Giovanni, ormai riconosciuto come l’uccisore del commendatore. Il breve arioso di Leporello è interrotto
dall’arrivo di don Giovanni in fuga, trattenuto a stento da Donn’Anna che grida per avere soccorso. Le regie
più moderne prendono spunto dal primo dato di irrealtà di questa leggenda, cioè una donna che riceve in
casa l’amato senza accorgersi della sostituzione di persona truffaldina, per tratteggiare una donn’Anna
compiacente, che sapeva benissimo che non si trattasse di don Ottavio. In realtà Mozart non aveva
certamente in mente quest’idea e, se tratteggia una donn’Anna più indecifrabile di tutte quelle che
l’avevano preceduta, la fa gridare perché realmente spaventata ed offesa. Non ci racconta altro che un
tentativo di violenza andato a vuoto. Il perché don Giovanni scappi invece di insistere, rimane irrisolto. Ecco
che allora Da Ponte sceglie la soluzione più comoda a giustificare i fatti: fugge per non essere riconosciuto.
Ma quanto è credibile dato che indossa gli abiti di don Ottavio? Allora, per la prima volta, siamo autorizzati
a pensare che non fossero proprio gli abiti di don Ottavio, ma degli abiti simili, se no don Ottavio, come
fanno de la Mota e gli altri don Ottavio, denuncerebbe il fatto al re indicando il colpevole. Mozart e Da
Ponte lasciano tutto non detto, con leggerezza, e forse è molto più interessante così. Dunque, da Ponte ci
presenta una donn’Anna molto misteriosa, apparentemente vinta da un dolore troppo grande: sentirsi in
colpa (per via di quell’appuntamento segreto a don Ottavio) della morte del padre. Questo personaggio
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vivrà in lutto per tutta l’opera e perfino nel finale, con don Giovanni all’inferno, non riuscirà a
contraccambiare degnamente l’amore del povero Ottavio e preferirà ritirarsi in convento. Ma ha mai amato
veramente don Ottavio o anche lei, come altre sue pari, specialmente dopo Mozart, rientra a buon titolo
nel novero delle vittime del fascino del nostro burlador? In poche battute Mozart esprime in modo
concitato e drammatico l’inseguimento tra donn’Anna e don Giovanni e l’arrivo del commendatore,
richiamato dalle urla della figlia, preceduto da un fortissimo dell’orchestra. La staticità eroica, sia da parte di
don Giovanni che da parte del “vecchio infatuato”, sottolinea la sfida tra le due personalità. Dopo un breve
duello la morte irrompe sulla scena dominandola. E’ una morte musicalmente espressa dalla calma di un
andante, dal quale emergono le voci dei tre uomini, compresa quella tremante di Leporello, per l’ennesima
volta testimone di un misfatto del padrone. Da Ponte salva dunque l’onore, se si può dire, di don Giovanni:
il commendatore, a differenza di altri suoi simili, uccisi inermi, si presenta armato e quindi assistiamo ad un
regolare duello, anche se tra un giovane ed un uomo anziano; per di più don Giovanni, fino all’ultimo, ricusa
la sfida impari per questioni anagrafiche e ne è quasi costretto dal Commendatore. L’indifferenza di don
Giovanni colpirebbe subito il pubblico se non si conoscesse già così bene la storia: uccide e non prova
rimorso né pietà, solo un profondo disagio verso l’idea della morte che nel Tirso così ben respingeva con il
ritornello (“ ¡Qué largo me lo fiàis!”). Non è la burla “finita male” nella quale “c’è scappato il morto” come
racconta Don Giovanni nel Tirso: qui l’atmosfera non è di burla, ma di feroce disinteresse verso il prossimo
e sfida costante contro chiunque osi opporsi al suo volere. Il commendatore entra e muore subito: non
abbiamo il tempo di conoscerlo, ma non serve; lo spettatore già sa che è un Grande di Spagna, eroe nella
guerra contro i mori ed ambasciatore in Portogallo. E’ la voce del bene, o almeno dovrebbe esserlo, ma,
sbiadito com’è nell’opera di Mozart, è ridotto ad essere un mero elemento della storia. Tale brevità, per lo
meno, evita che il pubblico pensi che in fondo abbia meritato di morire, come avranno pensato gli
spettatori del Tirso e del Cicognini, dovendo subire le sue insopportabili e lunghissime descrizioni
geografiche del Portogallo davanti al re. Usciti di scena i due uomini, abbandonando il cadavere per strada,
è il momento per donn’Anna di esprimere il grande dolore di cui già si è scritto, ma anche per don Ottavio
di farsi conoscere. Da Ponte non dice tutto, pertanto non sappiamo se Ottavio sia arrivato in ritardo
all’appuntamento, come dom Philippe di Dorimon, e quindi si senta colpevole lui pure della morte del
mancato suocero oppure se abbia equivocato sull’ora dell’appuntamento stesso, per un imbroglio di
Giovanni come in Tirso. Non sappiamo nemmeno chi sia, se l’esule napoletano già cornificato a Napoli dal
nostro eroe ed incolpato ingiustamente dell’assalto ad Elvira dallo zio di Giovanni (Tirso lo fa chiamare “Il
capricorno” da Catalinòn e Cicognini lo fa doppiamente cornificato: prima Isabella a Napoli, poi Anna a
Siviglia) o il principe ereditario di Castiglia del Goldoni. Da Ponte e Mozart raccontano una storia che tutti
conoscono e quindi danno per scontati moltissimi particolari. Don Ottavio è la figura più femminile
dell’opera mozartiana; ha spesso un’arma in mano e giura al Cielo di vendicarsi di don Giovanni, ma la
vocalità “leggera” che gli dà Mozart ed il ruolo scenico che gli cuce addosso Da Ponte ce lo fanno apparire
come un ragazzino imbelle e per questo non amabile da donn’Anna. L’appuntamento notturno depone a
favore di una certa focosità amatoria, ma poi, nel corso della vicenda, formerà un trio con le due donne,
molto più energiche di lui, e se sarà lasciato solo, si lascerà andare ad arie tutt’altro che eroiche. Nemmeno
don Ottavio può costituire quindi un deterrente per don Giovanni. Il bellissimo recitativo accompagnato
(“drammatico”) di donn’Anna ci apre ad un mondo di dolore che non ci lascerà più per tutta l’opera: Mozart
descrive con la sospensione del canto l’affanno della donna. Il racconto del fatto viene rimandato a dopo,
spezzando la scena ideata dal Bertati. I timidi rimproveri di Leporello, un altro “must” del dongiovannismo,
sono appena accennati nel recitativo che segue. Un accenno ad una nuova fiamma del padrone, alle sue
qualità eccezionali d’olfatto e di vista nel riconoscere una bella donna a distanza ed ecco apparire l’altro
enorme personaggio femminile: donna Elvira. La donna è stata vittima consenziente, a Burgos dove viveva,
del burlador, gli ha dato fiducia e lo ha sposato, o almeno così crede. E’ un personaggio più definito degli
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altri perché lei stessa ci racconta la sua storia. Nelle moltissime variazioni del personaggio nel corso dei
secoli, donna Isabella, come si chiamò all’inizio, ebbe a Napoli la stessa sorte della donn’Anna mozartiana
(Tirso e Cicognini), con la differenza che il rapporto d’amore fu pienamente consumato. Con Molière
divenne una donna strappata al convento da don Giovanni che la corteggiò fino a convincerla a lasciare
l’abito per sposarlo, abbandonandola subito dopo (qui prese il nome di Elvira), mentre Rosimond separa le
due figure affidando a Leonora il ruolo della moglie tradita e a Dorinda quello della suorina rapita al
convento. Con Goldoni si ritorna ad Isabella d’Altomonte, nobile napoletana, così coraggiosa da travestirsi
da uomo per andare a cercare don Giovanni fino in Spagna, subire ogni umiliazione, perché lui fingerà di
non riconoscerla e la farà passare per pazza, fino al duello tra i due, con lui intenzionato a ucciderla,
interrotto dall’arrivo del commendatore. Caratteristica comune a quasi tutte le Isabella/Elvira è il viaggio a
Siviglia alla ricerca di don Giovanni: sono pertanto donne forti e volitive. La donna Elvira di Mozart si
presenta così con un’aria di furia, inframmezzata dai pertichini dei due uomini: personaggio buono,
sinceramente innamorata del nostro eroe e disposta sempre a perdonarlo, gli impedisce di fatto con la sua
onnipresenza scenica (geniale idea del Bertati ripresa da Da Ponte) qualunque conquista amorosa per tutta
l’opera e lo invita a pentirsi per il suo bene, pur lei rinunciando a lui. E’ sinceramente convinta d’essere
sposata a don Giovanni, che però sappiamo essere uno “sposatore a piene mani” come ci informa
Sganarello in Molière. Da Ponte, che aveva già spostato rispetto al Bertati la scena del racconto di
donn’Anna e l’aria di don Ottavio a più tardi per poter sottolineare il malore della figlia davanti al corpo del
padre, inventa una situazione scenica completamente inedita, basata sull’equivoco, ossia il corteggiamento
di don Giovanni ad una bella sconosciuta che si rivela essere poi donna Elvira. In tutti i precedenti c’è
l’incontro e il riconoscimento è immediato, qui, invece, l’opera si spinge nella direzione della commedia
degli equivoci. L’incontro imprevisto mette in seria difficoltà don Giovanni, che, per cavarsela, ricorre al
servo, lasciando a lui il compito di spiegare i gravi motivi che l’hanno indotto a lasciarla. La scena è desunta
da Molière: Leporello ha la grande occasione di sostituirsi al padrone e progressivamente passa
dall’imbarazzo del non saper che dire al divertito sadismo di trattenere Elvira e portarla a conoscenza di
tutte le donne avute dal marito. Il catalogo delle amanti di don Giovanni è una creazione italiana e non è
certamente uno degli elementi più eleganti nel dongiovannismo. L’”aria del catalogo” non è un’aria buffa,
questo è evidente, e tutti gli interpreti dovrebbero capirlo; Leporello sta volontariamente ferendo e
deridendo una donna sedotta e abbandonata, oltretutto di ottimo cuore, la quale non aveva idea di aver
sposato un mostro. E’ cattivo, in questa scena come non mai: degno compagno del suo padrone. Elvira
promette vendetta e soprattutto giura d’intralciare i piani di Don Giovanni, cosa che farà fino alla fine
dell’opera. Alla scena settima arriva un altro “must” del dongiovannismo: il matrimonio campestre. Questa
scena è stata sempre presente, o come festa di pastori dopo il naufragio o come festa nuziale ed è quindi
fondamentale per il dongiovannismo. La musica, volutamente popolaresca e “facile”, segna un cambio di
clima e di status sociale, anche se i popolani si esprimono in italiano corretto e senza volgarità. Don
Giovanni, nella sua fuga, si imbatte in un matrimonio campestre e decide di rapire la sposina. Solo in
Molière ci viene data una giustificazione teorica: Don Giovanni è invidioso dell’altrui felicità e del fatto che
un altro uomo possieda una bella donna che lui non ha posseduto. Negli altri don Giovanni il nostro eroe
agisce per pura “necessità”, senza nessuna giustificazione teorica, esattamente come nella nostra opera.
Zerlina è l’unica contadina con cui don Giovanni non riesca, però, a fare l’amore; in tutte le altre edizioni il
rapporto era consumato e l’abbandono perpetrato la notte stessa. L’unico a discostarsi dalla tradizione
dongiovannesca per osare ancora di più è stato il Lorenzi, librettista del Tritto, che si è immaginato
addirittura che la contadinella da rapire e stuprare fosse la moglie di Pulcinella, cioè del suo stesso servo,
napoletanizzato. Masetto è il solito paesanotto che viene tradito ed è pure contento, perché non riesce a
non voler bene alla sua sposina “tanto devota” e davanti a una lacrima di lei non sa resistere. E’ la prima
volta che Giovanni corteggia nell’opera e dimostra tutta la sua abilità, anche se la creatura che gli sta di
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fronte è di un livello sociale inferiore ed è affascinata dalla persona, ma anche dal suo status sociale.
L’offerta della “protezione” (subito imitata maldestramente e comicamente da Leporello), il considerare lei
e maltrattare lui, l’invito nel “casinetto”, tutto fa capire molto chiaramente le sue intenzioni, che traspaiono
in scatti improvvisi di irrequietezza davanti agli ostacoli, fino a minacciare con la spada Masetto se non si
allontana (memore della scena equivalente in Tirso e della mirabile scena degli schiaffoni in Molière). E’ un
Giovanni che ama la conquista, non il soddisfacimento sessuale, che vuole affascinare e non rapire con la
violenza, forte, sicuro, ma non gioioso come il Burlador, anzi amaro e cinico. Il blocco mozartiano relativo a
Zerlina è composto dal coro iniziale, dall’aria di protesta di Masetto, dal mirabile duetto del corteggiamento
e dalle promesse nuziali (“Là ci darem la mano”) e, dopo l’interruzione di Elvira, dall’aria della stessa Elvira
che mette in guardia una perplessa Zerlina su chi sia il suo nobile “sposo”: “ Ah, fuggi il traditor!”. Tra i
numeri ovviamente ci sono i recitativi secchi cui è delegata l’azione. “Vorrei e non vorrei” dice Zerlina, ma
impiega poco a cedere alle lusinghe matrimoniali del nostro, tanto da seguirlo subito nel casinetto per la
prova d’amore che Giovanni non ottiene solo per l’arrivo disturbatore di Elvira, che gli strappa
letteralmente la ragazza dalle mani prendendola sotto la sua protezione. Se non fosse per l’uccisione del
commendatore, don Giovanni sembrerebbe in quest’opera un povero sfortunato cui non ne va bene una:
ha perso baldanza, ha riacquistato remore, ascolta i rimproveri, vuol convincere, non possedere con la
violenza e quando deciderà come “ultima ratio” di ricorrere a questa, come nella scena della festa, gli andrà
male. Ne guadagna certamente in simpatia. Il blocco scenico successivo riporta sul palcoscenico la coppia
don Ottavio-Donna Anna ed è all’insegna dell’ipocrisia di don Giovanni: don Ottavio chiede a don Giovanni
un aiuto ed il nostro eroe glielo offre in modo fanfaronesco e forse divertito. Ma, come il cameriere
giapponese dell’ispettore Clouseau nel film “La pantera rosa”, Elvira salta di nuovo fuori all’improvviso (si
suppone lo segua ovunque), avvertendo questa volta donn’Anna : “Non ti fidar o misera”. Come già
precedentemente con Zerlina, don Giovanni non trova meglio che farla passare per pazza, esattamente
come in Goldoni, ma Elvira, che non ha nessuna comicità nel personaggio, nonostante la sua ubiquità poco
credibile, si rivela nella sua dignità commovente: “Cieli! Che aspetto nobile! Che dolce maestà!”. A lei
Leporello aveva declamato il catalogo! Il quartetto è una delle pagine più belle dell’opera e sappiamo
quanto Mozart amasse i pezzi d’assieme: basti pensare alle “Nozze di Figaro”. La commozione e la
perplessità dei due fidanzati fanno da contrasto alle linee tese e rabbiose degli altri due in un crescendo
d’agitazione. L’evento importante che accade in questo quartetto è che la voce irata di don Giovanni è
riconosciuta da donna Anna come quella del suo violentatore. Da Ponte, come detto, ha voluto ritornare
alle prime versioni, con donn’Anna ignara dell’identità dell’assassino. Questo riconoscimento provoca un
cambiamento immediato nella vicenda. Finalmente Da Ponte, davvero molto tardi, dà spazio al racconto di
quella notte da parte di donn’Anna. E’ poco verosimile che don Ottavio abbia atteso finora per chiederle
cosa fosse successo, ma dobbiamo supporre si siano seguite ragioni musicali diverse rispetto al Bertati, che
collocava la spiegazione all’arrivo di Ottavio. Il racconto è un po’ sadico perché solo nel finale Anna rivela
non essersi compiuta la violenza, come se i personaggi si divertissero a tormentarsi tra loro: “Or sai chi
l’onore” è un’aria di furia, piena di riferimenti al sangue che ormai donn’Anna vede ovunque ed è diventata
la sua ossessione. Segue una dolcissima melodia di don Ottavio che fa risaltare ancor più la sua poca
energia: “Dalla sua pace” è una delle melodie più belle e conosciute, per quanto non compresa nella prima
edizione praghese dell’opera, una dolcissima ninnananna che ben poco c’entra con la situazione lasciata
dall’aria di donn’Anna ma che contribuisce a creare il personaggio ambiguo di don Ottavio. Nella scena
quindicesima Leporello racconta a don Giovanni di aver fatto tutto secondo gli ordini: ha preparato una
grande festa, ha accompagnato in casa sua e fatto bere i contadini e soprattutto le contadine, e ha, con un
inganno, messo fuori dall’uscio donna Elvira che era di nuovo comparsa, con Zerlina, per mandare a monte i
piani. L’entusiasmo di don Giovanni a questa notizia e il pensiero di poter avere Zerlina a disposizione in
casa sono all’origine dell’aria “Fin ch’han dal vino”, piena di un’energia ritmica e di una foga sensuale che lo
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avvicinano ai don Giovanni più giovanili ed alle furie del goldoniano. Siamo al finale del primo atto che,
come anche nelle Nozze, avrà la sua cifra musicale nel “crescendo”. Si parte con la scena tra Zerlina e
Masetto che rivela la conoscenza di Goldoni da parte del Da Ponte: Zerlina diventa Elisa, l’attrice consumata
che, con la sua furbizia e la sua capacità di mentire e d’ingannare, è sicura che comunque le basterà uno
sguardo per farsi perdonare. L’aria “Batti batti” è un piccolo capolavoro d’ipocrisia ed attorialità e Zerlina
riesce nel non semplice compito di farsi perdonare da un uomo che aveva abbandonato e tradito durante la
festa del matrimonio. L’ingenuità rozza di Masetto serve a Da Ponte a far risaltare la straordinaria capacità
attoriale di questo dongiovanni in gonnella. Ma Zerlina non ha l’esperienza del burlador e quando sente la
voce di don Giovanni che arriva per dare inizio alla festa tradisce con l’agitazione ed il pallore il suo timore
nell’incontrarlo. Masetto si nasconde per sorprendere Zerlina e il cavaliere sul fatto ed il burlador tenta di
appartarsi con Zerlina proprio nella nicchia dove s’è nascosto Masetto. Il ritmo è già vorticoso. E’ ancora
donna Elvira a trascinare alla festa don Ottavio e donn’Anna, mascherati, allo scopo di sorprendere don
Giovanni. Lei è la più forte del trio. La musica di danza, una danza feroce, domina in tutto il finale, con, a
tratti, una meravigliosa poliritmia tra l’orchestra in buca in ritmo ternario e quella in scena in binario.
Leporello costringe Masetto a ballare con lui per distrarlo e don Giovanni rapisce Zerlina che però, questa
volta, urla chiedendo aiuto. Nella confusione generale Leporello raggiunge il padrone, che getta su di lui la
colpa del misfatto minacciandolo, davanti a tutti, con la spada. La scusa è misera (Zerlina può testimoniare),
e molti don Giovanni, più cinici, non avrebbero neanche cercato di scusarsi. Solo al termine del vorticoso
settetto “di confusione” conclusivo, don Giovanni recupera la sicurezza, nonostante la pistola nelle mani del
pavido Ottavio, che infatti non la userà, ed il riconoscimento di Anna ed Elvira (ancora!) tra gli ospiti: “Se
cadesse ancora il mondo nulla mai temer mi fa!” . Questo finale d’atto è nuova creazione di Da Ponte, che si
stacca da questo punto in poi e fino alla scena del sepolcro dall’intreccio pensato dal Bertati e fornisce a
Mozart l’occasione per un altro dei suoi mirabili finali. Uno degli elementi principali del Burlador, come già
detto, è il travestitismo, che in Tirso è più che altro voglia di divertirsi, mutando identità per poter meglio
agire nelle conquiste amorose, ma sin dall’”Ateista fulminato” diventa “di necessità”, molto vile e poco
aristocratico: travestirsi per sfuggire ai nemici e ai gendarmi. Nei successivi episodi della saga assistiamo a
due travestimenti di necessità entrambi crudeli: il pretendere dal servo lo scambio di vestiti per sfuggire ai
gendarmi lasciando nei guai il servo stesso e il travestimento da eremita che è una costante del mito,
ignorata però da Da Ponte e Mozart. Da Ponte, come già detto, sceglie un ritorno alle origini e quindi ad un
travestimento a fini di burla, come nel primo atto quello della scena di donn’Anna (don Giovanni non aveva
certo intenzione di uccidere il Commendatore) e la festa in maschera, nella quale il burlador è burlato ed a
mascherarsi sono i suoi avversari, senza che in nessun modo, però, si rida. Nel secondo atto il travestimento
consiste nel canonico scambio di vestiti con Leporello, ma nuovamente nello spirito tirsiano del burlador:
don Giovanni ha bisogno degli abiti del servo per corteggiare una ragazza di ceto inferiore. Il travestimento
per lui è occasione di scappatoia da situazioni intricate, ma anche di divertimento, per Leporello invece è
l’occasione di passare dallo status di spettatore a quello di attore, seppur imitando il padrone. La cosa lo fa
sentire bene e divertire: può agire senza responsabilità, sapendo sempre che potrà uscirne fuori rivelando
la propria vera identità. L’intreccio, nel secondo atto, prende quindi la strada della commedia degli equivoci
ed è giusto così. Da Ponte inventa una discussione fra padrone e servo in merito al tentativo (finto, ma
verosimile) di ucciderlo alla festa per dargli la colpa della tentata violenza a Zerlina. Leporello vuole
lasciarlo, ma davanti ad una bella borsa di denari ci ripensa e si prepara ad aiutare il padrone nella prossima
burla. Il Don Giovanni di Da Ponte non è dunque in miseria come quasi tutti i suoi compagni e non disdegna
di ricompensare, sebbene raramente, il servo. Basta questo a tacitare le proteste di Leporello, che dimostra
di avere ben poca moralità, a dispetto dei molti rimproveri che muove al padrone. Assolutamente nuova e
geniale è l’idea successiva di don Giovanni che ha in mente, per sfidare sempre di più i propri limiti, di
corteggiare la cameriera della stessa Donna Elvira e per farlo deve travestirsi da popolano. Pretende così da
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Leporello un cambio d’abito a fini di burla e di conquista. Il meccanismo è avviato; la comparsa inattesa di
donna Elvira alla finestra è occasione per la scena alla “Cyrano de Bergerac” di cui già si è detto: Leporello la
corteggia sotto il balcone, ma la voce che Elvira sente è quella di don Giovanni che, crudelmente, le fa
credere di amarla ancora. E’ un gran momento da primo attore di don Giovanni: usa tutto il repertorio
dell’attore, perfino la minaccia di suicidio, ed è così bravo da convincerla e farla discendere. Viene in mente
la suprema sfida del don Giovanni di Puskin quando vuol mettersi alla prova nel conquistare donn’Anna
dopo averle ucciso il marito. Mozart scrive un delicato terzetto notturno che celebra da un lato l’ipocrisia di
don Giovanni (il finto pentimento è un altro “must” della saga), dall’altro la bontà di Elvira e l’imbarazzo di
Leporello che ha pena della donna, ma partecipa anche divertito alle malefatte del padrone: “Se seguitate
io rido!”. La scena successiva con il recitativo segna invece il grande momento attoriale di Leporello e
sposta la vicenda nel regno del buffo: Leporello, per allontanarla da casa, deve fare in modo che lei non si
accorga della sostituzione. Imita la voce e i modi del padrone e, se la scena è molto divertente, purché
affidata a buoni interpreti, rappresenta però un momento di cedimento da parte di Da Ponte verso la
tradizione buffonesca della commedia dell’arte. Funziona solo a patto che si accetti lo scherzo, non ci si
commuova per la sofferenza che attende Elvira e la si creda così sciocca da non accorgersi che i modi
grossolani del suo accompagnatore non possono essere quelli di don Giovanni. E’ una scena dunque
offensiva per l’intelligenza di donna Elvira e incoerente con il suo personaggio, come disegnato fino ad
allora. Ma il pubblico rise molto a Praga e ride ancora oggi, specialmente alla scena di Leporello che,
incapace di reggere a lungo la recita, cerca disperatamente una via d’uscita senza trovarla. Assistiamo
quindi all’inedita serenata di don Giovanni alla serva di donna Elvira, la celeberrima “Deh, vieni alla
finestra”. Non conosciamo la reazione della cameriera di donna Elvira alla finestra, ma sappiamo che anche
in questa situazione don Giovanni non combinerà nulla per l’arrivo di Masetto che lo cerca con i suoi per
vendicarsi. E’ l’occasione per un nuovo saggio di abilità nella recitazione: don Giovanni si spaccia per
Leporello, del quale ha gli abiti indosso, e dice di volersi unire alla ghenga per vendicarsi del padrone. Così
riesce a dividerli fino a rimanere solo con Masetto (scena desunta dall’”Ateista fulminato”) che riempirà di
botte. Questo episodio darà il pretesto per la scena successiva nella quale Zerlina, rivelandosi sempre più
vicina all’Elisa goldoniana, sarà così brava come attrice da farsi completamente perdonare da Masetto,
attirandolo con la sua bellezza e la sua dolce passionalità. La storia di Masetto e Zerlina conosce già qui il
suo lieto fine: da questo momento i due giovani si uniranno al resto dei personaggi nella caccia a don
Giovanni. La passione di Mozart per i pezzi di assieme lo porta a fare un’ulteriore nuova scena con
Leporello, che viene sorpreso da donn’Anna e don Ottavio e difeso da donna Elvira (che lo crede don
Giovanni) finché, per schivare la punizione, decide di rinunciare alla recitazione e di rivelare la sua identità.
La sua situazione non migliora, anzi! Donna Elvira gli diventa ostile, ma lui, raccontando i fatti e soprattutto
di essere estraneo alle botte date a Masetto, fugge lasciando beffato il gruppo. A questo punto abbiamo
due arie, la prima esistente sin dall’edizione praghese, la seconda inserita in quella viennese. Dapprima don
Ottavio canta il desiderio di dar pace all’amata con la sua vendetta, ma lo fa ancora una volta con una
melodia dolcissima ed assai poco energica: “Il mio tesoro intanto”. Molto più energica invece è donna Elvira
nell’esprimere tutto lo sdegno per essere stata così derisa ed umiliata con un’aria di furia, nella quale si
alternano sdegno ed amore (“Mi tradì quell’alma ingrata”). Alla scena dodicesima Da Ponte e Mozart
tornano a ricollegarsi alla vicenda tradizionale: è il momento del cimitero e della visita al monumento
funebre del Commendatore. A differenza degli autori precedenti, essi non si preoccupano di giustificare il
fatto che il monumento funebre sia già stato eretto a poche ore dall’omicidio: ancora una volta l’argomento
è trattato con leggerezza, come cosa saputa. Don Giovanni si è nascosto nel cimitero nelle versioni
precedenti come rifugio dai gendarmi che lo cercano, ma in quest’opera, non essendoci traccia dell’autorità
costituita e non nascondendosi affatto don Giovanni, la scena del cimitero ha tutto il sapore di una citazione
di una storia che si racconta senza tanto senso critico, perché ormai patrimonio culturale comune. Da
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Ponte, per rendere ancora maggiore l’audacia di don Giovanni, inserisce, come accenno, la burla fatta ad
un’amica di Leporello, forse la moglie stessa. E’ una citazione del Tritto che aveva fatto irrompere don
Giovanni alle nozze dello stesso Pulcinella, rubandogli la promessa sposa Lesbina. Non esistono nella
tradizione teatrale altri accenni al matrimonio del servo. Del tutto nuova è l’idea che sia la statua a parlare
prima ancora che i due protagonisti l’abbiano scorta: quel “di rider finirai pria dell’aurora” giunge
realmente come la voce di un altro mondo ed in modo inaspettato, segnando con la staticità del fraseggio,
la cupezza del timbro e le parole minacciose, il definitivo trapasso della commedia nella tragedia. Non per
nulla interrompe una risata. Le scene sono due, estremamente drammatiche e presenti quasi sempre nei
vari “don Giovanni”: quella presso alla tomba, con l’invito beffardo a cena rivolto alla statua del
Commendatore e la cena stessa con il convitato di pietra. Storicamente questa ultima era seguita dal
controinvito a cena, con don Giovanni che si reca dal Commendatore(!!) cioè al monumento che si spalanca
e si trasforma in un’orribile sala da pranzo piena di serpenti. Ma giustamente Da Ponte e Mozart hanno
sintetizzato, limitandosi a una sola cena. Don Giovanni non è citato nell’iscrizione funeraria che promette
vendetta, ma ugualmente si risente nel leggerla e deride il povero ucciso invitandolo, appunto, a cenare a
casa sua. La cosa nasce come burla, seppure greve, al fine di spaventare Leporello, che viene per questo
costretto a rivolgere lui l’invito. Fa parte della tradizione della commedia dell’arte anche il fatto che i primi
movimenti della statua siano visti dal solo servo, perché il padrone guarda altrove. La musica non è giunta
ancora alla straordinaria grandezza del finale e descrive il balbettamento di Leporello (“O statua
gentilissima”). Davanti alla palese prova dell’esistenza di un aldilà (solo in Molière risponderà al mistero
pensando di aver avuto un’allucinazione), don Giovanni non perde la calma, ma ha bisogno di una piccola
riflessione e si lascia condurre via dal servo. Al fine di dare ai due il tempo di arrivare a casa e per
equilibrare meglio l’importanza delle due prime donne, Mozart ci regala un’aria di donn’Anna di struggente
bellezza che, ad essere presa sul serio come probabilmente dev’essere, senza pensare a maliziosi sotterfugi
per evitare le nozze, descrive il dolore della donna che la costringe a dilazionare ancora (e forse per
sempre) le nozze con Ottavio. La risposta di don Giovanni ai fatti accaduti è, una volta di più, la rimozione:
organizza una bella cena con tanto di suonatori e dimentica l’accaduto. Il servo, che non ha dimenticato,
dice di non aver appetito, ma poi, colpito dai buoni profumi, ruba alcuni pezzi di cibo, altra scivolata nel
repertorio della Commedia. Da Ponte conserva la scena del furto del cibo, della flussione e dell’orchestra
che suona sul palcoscenico (occasione per Mozart di dotte e divertite citazioni dalle sue stesse “Nozze di
Figaro”, da Martin Y Soler e da Sarti). L’irruzione di donna Elvira (che questa volta per lo meno bussa),
spezza la pesante allegria del banchetto: rinuncia a lui e torna in convento, ma lo implora di convertirsi. La
scena, già inclusa dal Bertati, è una rielaborazione dello spettro di donna che appariva nel finale del
“Burlador” di Tirso. E’ il secondo avviso del Cielo dopo la statua che parla, ma non ha alcun effetto. Il terzo
avviso è quello definitivo: giunge la statua a cena. Il “Convitato di pietra”, definizione messa in bocca a
Catalinòn dal Tirso, si presenta con tutto il rischio di caduta nel buffo che porta con sé una statua che si
muove, cammina e parla (e non facciamo fatica a pensare quanto buffonesche siano state tante
rappresentazioni del passato). Il più riuscito di tutti i “Convitati” è proprio questo di Mozart, in virtù della
musica sublime e del fatto che parla pochissimo ed in modo solenne. I suoi compagni in passato parlavano
troppo, frenando l’azione e diventando quotidiani anziché ultraterreni. Di fronte al prodigio, Don Giovanni
non si pente: mostra coraggio e fermezza, perché lì, nascosto sotto un tavolo, c’è un Omero che racconterà
nei secoli le sue gesta. La sfida è suprema e don Giovanni nulla teme, anche “se cascasse il mondo”! La
stretta di mano che suggella l’invito del Commendatore a don Giovanni è in realtà, in Mozart, anticamera
diretta per l’inferno. Qui il gelo lo pervade al contatto di quella mano e precipita, come un gigante,
all’inferno, ripetendo il suo “No” al pentimento ed al Cielo. Qui si è conclusa la rappresentazione viennese,
che non ebbe adeguato successo. Troppo comune era a quell’epoca l’usanza di terminare con una morale e
troppo belli i finali di Mozart per poter rinunciare al finale praghese. In esso ognuno trova la propria
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sistemazione, nessuno troppo felice, in verità, perché tutti in fondo rimpiangono il loro grande nemico e si
sentono orfani. Si conclude così con la morale corale “Questo è il fin di chi fa mal”, senza bisogno che
Leporello invochi l’aiuto del Cielo per farsi credere dagli altri e risparmiandoci così l’apparizione di Don
Giovanni al’inferno (in Acciaiuoli insidierà anche Proserpina). Ma mentre tutti cantano la maledizione di
Don Giovanni, allo spettatore sembra di vederselo seduto accanto, come capita con donn’Anna a Hoffmann
nel racconto “Don Giovanni” della raccolta “L’allievo di Tartini ed altri racconti musicali”. Il dato di fatto è
questo: mentre la statua del Commendatore è andata in pezzi mille volte inutilmente, Don Giovanni non si
sa se sia immortale, ma certo è ben vivo ancora. Non è morto con Mozart, ma ha continuato a sedurre, con
più stanchezza, ma con assiduità: Baudelaire, Byron, Lavedan, Hoffmann, Grabbe, Lenau, Merimée,
Kierkegaard, Apollinaire, Zorilla, Dumas, Milosz, Flaubert, Shaw, Tolstoi, Puskin e in epoca più moderna
Saramago, Baricco, Brancati, Luzi, Stravinskji, Saura, Leven solo per nominare i più famosi e scusandomi con
chi non cito.

Originale del saggio: http://www.lcgalilei.pisa.it/NS/docs/dispense/DON%20GIOVANNI%20saggio.doc

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