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LA MENTE DELLE EMOZIONI.

SCOPI, CREDENZE E COMUNICAZIONE


Vi è un modello della mente e dell’azione sociale in termini di “scopi e credenze”. Secondo questo
modello, elaborato presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR
(Castelfranchi e Parisi).

SCOPO = stato per realizzare o mantenere il quale l’Agente usa risorse interne ed esterne e con esse
progetta e mette in atto piani d’azioni. In un piano, ogni azione mira a uno scopo, e tutti gli scopi
mirano ad uno o più sovrascopi, che mirano infine a realizzare lo scopo finale del piano o meta. Per
fare piani, il sistema ha bisogno di credenze.

CREDENZA = un’informazione di formato proposizionale o senso-motorio sul mondo esterno o


sull’agente stesso. Un importante tipo di credenze sono le “valutazioni”: credenze su quanto una
persona, un oggetto, un evento o uno scopo possano essere mezzi per uno scopo dell’Agente.

Gli scopi possono essere in conflitto, cioè il raggiungimento dell’uno può implicare la
compromissione dell’altro, per scegliere quale perseguire fra due o più scopi, il sistema ne
confronta i coefficienti di valore, cioè l’importanza relativa, e persegue infine quello che totalizza il
coefficiente più alto, cioè lo scopo più importante. Il coefficiente di valore dipende dal valore
assoluto dello scopo e dalla somma algebrica dei suoi costi e benefici, ossia dalla quantità e dal
valore del sovrascopi che induce a compromettere e di quelli che permette di raggiungere.

PSEUDOSCOPI = funzioni adattive esterne al sistema verso cui il comportamento è orientato in


modo finalistico e non casuale, anche se non deliberato e intenzionale.
 SCOPI ESTERNI: l’uso di oggetti e funzioni biologiche
 METASCOPI: principi costruttivi del sistema o scopi “modali” che stabiliscono il modo più
conveniente ed efficace di perseguire scopi
 SCOPI STRUMENTALI: perseguiti in vista di qualche sovrascopo
 SCOPI TERMINALI: senza scopi ulteriori

Dal conflitto fra scopi di più sistemi, cioè quando il successo di uno implica la compromissione di
uno scopo dell’altro, può nascere uno scopo di “aggressione”, cioè di compromettere gli scopi
dell’altro. Il “potere di” di un sistema è la probabilità che ha di raggiungere i suoi scopi, e dipende
dalle sue risorse: interne ed esterne. Dalla mancanza di potere nasce la “dipendenza” da altri
sistemi: se il sistema non ha in proprio le risorse necessarie, e le detiene un altro sistema, il primo
può dipende dall’altro e dover ricorrere al suo aiuto. Da tale dipendenza nascono importanti
meccanismi sociali: adozione, influenzamento e potere su. L’adozione, cioè l’avere e perseguire
uno scopo di altri come scopo proprio, mettendo le proprie risorse a disposizione di scopi dell’altro.
L’essere dipendente dall’adozione dell’altro dà all’altro un potere su di lui.

Importante è anche l’influenzamento sociale: un sistema fa sì che l’altro venga ad avere scopi che
prima non aveva, o che rinunci a scopi che aveva. L’influenzamento può avere scopi egoistici o
altruistici, e può utilizzare come arma anche le emozioni. Sia nell’adozione che nell’influenzamento
è importante l’immagine, cioè l’insieme di credenze valutative e non valutative che un sistema ha su
un altro, e su quanto potere ha; chi eroga adozione, anche a seconda degli scopi per cui intende
adottare scegli a chi dare adozione in base ai poteri dell’altro. Dalla concorrenza alla competizione.

Che cos’è un’emozione?

EMOZIONE = stato soggettivo complesso che comprende aspetti cognitivi, di vissuto soggettivo,
fisiologici, motivazionali ed espressivi.
Quando un evento provoca, o è probabile che provochi, il raggiungimento o la compromissione di
uno scopo molto importante per la sopravvivenza o il benessere dell’individuo, questo complesso
stato soggettivo viene attivato. In questi casi un evento è da me valutato, con una valutazione
precognitiva, non riflessa, un “appraisal”.

APPRAISAL = qualcosa che, probabilmente, o sicuramente, compromette o realizza un mio scopo


molto importante.

La sindrome emotiva comprende:


- sentimenti soggettivi, piacevoli per scopi raggiunti, spiacevoli per scopi compromessi;
- aspetti cognitivi: credenze, immagini, aspettative, attribuzioni;
- reazioni fisiologiche (arousal, accelerazione del battito cardiaco);
- reazioni espressive (il pallore della paura, il rossore della vergogna);
- attivazione di scopi specifici miranti a risolvere la situazione (la paura attiva la fuga).

Vi sono tre tipi di legami fra scopi ed emozioni:

1) le emozioni “sorvegliano” gli scopi. Ogni emozione ha la funzione di “sorvegliare” scopi


importanti dal punto di vista adattivo, di “monitorare” lo stato di raggiungimento/compromissione.

2) le emozioni attivano scopi. Le emozioni hanno un alto potere motivazionale, perché attivano
scopi di alta priorità ed urgenza: la paura attiva la fuga o la lotta, la pena l’impulso a soccorrere;

3) le emozioni possono diventare scopi. Le emozioni hanno un potere non solo motivante, ma auto-
motivante, divenendo così un meccanismo di apprendimento per rinforzo.

Le emozioni, come si è detto, sono a salvaguardia degli scopi. Ma il legame tra di essi non è
casuale: c’è un nesso strumentale fra scopo attivato e scopo sorvegliato. Ecco dunque la funzione di
ammaestramento delle emozioni: esse ci indicano la strada per perseguire meglio i nostri scopi più
importanti.

 Distinguere le emozioni in base a molti criteri diversi. Ecco un elenco di dimensioni rilevanti,
che ne comprende alcune già individuate nella letteratura.

Scopo sorvegliato: se la funzione originaria delle emozioni è sorvegliare lo stato di


raggiungimento/compromissione degli scopi adattivamente importanti, un rilevante criterio di
classificazione sarà basato sugli scopi che le emozioni sorvegliano.

Valenza: raggiungimento/compromissione: proviamo emozioni positive quando un nostro scopo è


raggiunto, e negative quando uno scopo è compromesso. Questa dimensione è responsabile della
cosiddetta “valenza” dell’amozione.

Tempo: prima/dopo/durante: la gioia si prova in genere per un evento già avvenuto, l’entusiasmo
anche per un evento in corso o solo previsto; ci si può “vergognare di” qualcosa che è già successo
o “vergognare a” alla sola idea di fare qualcosa che ci farebbe provare vergogna.

Grado di certezza: certo/probabile/possibile: il fatto che lo scopo sia già realizzato oppure atteso o
in corso di perseguimento implica che il suo raggiungimento o compromissione sia certo, probabile
o possibile.
Elementi cognitivi aggiuntivi: in alcune emozioni sono presenti elementi cognitivi quali aspettative,
attribuzioni causali, valutazioni.

Potere di controllo: fra gli elementi cognitivi, uno particolarmente saliente è l’autovalutazione del
soggetto sul proprio potere di controllo.

Struttura argomentale: individuale/sociale: alcune emozioni sono “intrinsecamente sociali” perché


si provano necessariamente verso qualcuno.

Intensità: emozioni della stessa famiglia possono differire di intensità. Livello di “arousal”.

ANALISI DELLE EMOZIONI

GIOIA E SPERANZA  la gioia è un’emozione piacevole di alta intensità che proviamo quando
crediamo, con certezza, che uno scopo per noi molto importante è realizzato. La speranza la
proviamo invece quando crediamo, con un certo livello di probabilità, o anche semplicemente come
possibile, che sarà realizzato un nostro scopo importante.

TRISTEZZA  A, che la scopo di mantenere il contatto con un suo oggetto di attaccamento, crede
con certezza che questo non è raggiunto, e non ha potere di raggiungerlo;

TIMORE  A crede probabile che un suo scopo sarà compromesso;

PAURA  A crede probabile che il suo scopo molto importante della sopravvivenza e non
sofferenza sarà compromesso.

SORPRESA  è la reazione di allertamento dovuta a una discrepanza tra un’aspettativa che stiamo
vagliando e l’interpretazione scelta dei dati in entrata. A, che aveva una credenza Y, per via diretta
o inferenziale arriva a negarla, acquisendo una credenza X contraddittoria con Y, o una credenza Z
da cui Y non è inferibile. A ha lo scopo S di avere credere non contraddittorie e inferibili l’una
dall’altra e questo scopo è compromesso. SI attiva così lo scopo di cercare nuove credenze che
spieghino e compongano la contraddizione.

VERGOGNA  è il dispiacere o timore di dare un’immagine negativa di sé a se stessi o agli altri.


A vuole essere valutato positivamente da B. Crede che B creda che A è o è stato in un certo modo o
fa o ha fatto una certa azione, e che anche A stesso si valuterebbe negativamente per questo. A
crede che per questo B valuti negativamente A, e perciò ha lo scopo di chiedere scusa, per essere
reintegrato nel gruppo di B.

UMILIAZIONE  l’umiliazione è l’emozione che si prova quando qualcuno ci fa notare una


nostra grave mancanza di potere, e facendo risaltare pubblicamente la compromissione del nostro
scopo dell’immagine, compromette al tempo stesso il nostro scopo dell’immagine. A crede che B ha
più potere di A, o che B ha potere su A; crede che anche altri lo credono e che ciò provoca una
valutazione negativa di A da parte B e/o di altri, da cui A vuole essere valutano positivamente.
Inoltre A ha lo scopo di valutarsi positivamente e crede con certezza che aver meno potere di B, o
essere soggetto al potere di B, gli causa un’autovalutazione negativa.

ORGOGLIO  è l’emozione di chi si sente autonomo, non dipendente dalle risorse degli altri. E’
orgogliosa una persona che non vuole abbassarsi, non vuole chiedere, aborre chiedere scusa. A ha
raggiunto uno scopo S, e crede, con alto grado di certezza, di averlo raggiunto grazie alle proprie
risorse interne. Questo gli permette di soddisfare il suo scopo di avere un’autoimmagine positiva e
di valutarsi una persona autonoma.

PENA  la pena è l’emozione spiacevole che provo per una persona quando le attribuisco una
mancanza di potere fondamentale, cioè penso che non ha le risorse necessarie per uno scopo per lei
molto importante. A crede che B ha uno scopo S molto importante che non ha il potere di
raggiungere; crede che questa mancanza di potere di B non dipende da responsabilità di B, e che
può causargli sofferenza. A immagine A come se A fosse B, e per questo prova sofferenza; inoltre
A ha lo scopo che B non soffra, crede che è compromesso e quindi prova sofferenza; per questo ha
lo scopo di aiutare B.

SENSO DI COLPA  A crede che una sua azione, di cui A è responsabile, che cioè aveva il potere
di evitare, causa a B un danno che B non merita. Per questo A prova rammarico, cioè soffre e ha lo
scopo di non aver fatto quell’azione; inoltre ha lo scopo di riparare il danno fatto a B e/o lo scopo di
essere punito. In questo tipo di senso di colpa sono presenti vari ingredienti mentali: Agentività (A
compie un’azione), Danno (uno scopo di B è compromesso), In-equità (il danno non ha la funzione
di appianare una situazione di squilibrio, come avverrebbe, ad esempio, in una punizione) e
Responsabilità (A aveva il potere di fare o non fare l’azione X). Fra gli scopi attivati dal senso di
colpa vi è lo “scopo del rammarico”; un curioso scopo retrospettivo, orientato al passato. Inoltre, si
possono distinguere un senso di colpa riparativo (il desiderio di riparazione) e uno persecutorio (il
timore della punizione).

INVIDIA  per una persona che considero simile a me, se lei ha raggiunto uno scopo cui miro
anch’io, ma che io non ho raggiunto e penso di non poter raggiungere; allora mi sento inferiore a
lei, e poiché invece non voglio essere da meno, ne soffro; in più il suo successo mi fa rimarcare la
mia inferiorità, quindi provo malanimo per lei, e perché non abbia più potere di me voglio che non
raggiunga qualche suo scopo.

EMULAZIONE  quando penso che l’altro ha raggiunto uno scopo e io no; ma non penso di non
essere in grado di raggiungerlo, e così sono spinto, semmai, all’azione, a reiterare i miei sforzi fino
a realizzarlo anche io. Emozione con fondo gioioso.

AMMIRAZIONE  penso che l’altro ha più potere di me; e tuttavia non mi pongo in competizione
con lui; anzi, magari vorrei imitarlo, prenderlo a modello. Può portare all’imitazione.

STIMA  se A stima B, pensa che B abbia i poteri interni richiesti dal suo ruolo e che tali poteri
siano merito di B, cioè dipendano dal suo impegno, non da abilità innate. Nella stima, come
nell’ammirazione, A attribuisce a B un potere P, ma:

- B non ha il potere P in grado eccezionale;


- trattandosi di capacità richieste dal ruolo, la stima ha una connotazione etica: si stima uno perché è
come si reputa giusto che sia per rivestire quel ruolo.

TIPI DI EMOZIONI
La più nota fra le distinzioni è quella fra emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza…), innate,
universali, diffuse in tutte le culture e precoci nell’ontogenesi, da quelle dell’autoconsapevolezza
(orgoglio, vergogna, senso di colpa…), che richiedono lo sviluppo del se.

SCOPI TERMINALI E STRUMENTALI, FISSI E CONTINGENTI


L’azione ha una struttura gerarchica: ogni azione di un piano ha uno scopo ed eventuali svorascopi,
e tutto il piano, con la sua meta, può essere a sua volta mezzo per uno scopo ulteriore. Nell’animale
uomo possiamo considerare scopi terminali quelli a cui mirano tutti i piani contingenti perseguiti
durante la sua vita, e che hanno come unici sovrascopi gli scopi biologici della sopravvivenza e
della riproduzione.

TIPI DI SCOPI E TIPI DI EMOZIONI


Se gli scopi importanti sono “sorvegliati” dalle emozioni, possiamo distinguere le emozioni in tipi a
seconda degli scopi che sorvegliano. In certi casi un’emozione può corrispondere a due o più classi
di scopi. Allora si tratta piuttosto di due o più emozioni, simili ma non identiche dal punto di vista
dei loro ingredienti, proprio perché sorvegliano scopi diversi.

UNA DEFINIZIONE DI COMUNICAZIONE


Partiamo una definizione di comunicazione in termini di scopi e credenze. Si ha un processo
comunicativo quando un Mittente A ha lo scopo di far acquisire a un Destinatario B una credenza
sul mondo, sulla propria identità o sui propri stati mentali, e per questo scopo produce un segnale,
cioè uno stimolo fisico percepibile da B, che è collegato a tale credenza secondo le regole di un
sistema di comunicazione che A crede condiviso da A e B. Lo scopo di comunicare può essere
interno o esterno. Uno scopo di comunicare interno può essere assunto dal Mittente a diversi livelli
di consapevolezza: conscio, inconscio e tacito. E’ conscio uno scopo che abbiamo e sappiamo di
avere; è inconscio uno scopo che l’individuo si nasconde perché il solo pensare di averlo lo fa
soffrire; è tacito, uno scopo che non è oggetto di attenzione cosciente.

E’ possibile, quindi, distinguere la comunicazione dell’espressione di emozioni. Vi è


comunicazione di emozioni quando il Mittente ha lo scopo (interno o esterno) di far avere a un
Destinatario credenze su un’emozione che sta provando. In molti casi gli altri vengono a sapere che
emozioni proviamo da qualche segnale comunicativo che produciamo senza neanche accorgercene:
è questa la comunicazione espressiva o espressione comunicativa. L’espressione comunicativa è
una comunicazione in senso debole.

COMUNICAZIONE FORTE = sono cosciente di voler far sapere l’emozione


COMUNICAZIONE DEBOLE = espressione comunicativa

Definisco “espressione non comunicativa di emozione” il fatto che A, nel provare un’emozione,
produce un segnale espressivo, cioè uno stimolo fisico percepibile da altri agenti, prodotto come
effetto collaterale di correlati fisiologici dell’emozione di A. Esiste anche un altro caso di
espressione, relativa sempre a stati mentali del mittente. La comunicazione può essere su eventi del
mondo e su stati mentali, fra cui le emozioni. Nell’espressione non comunicativa di emozione non
vi è lo scopo di farla sapere ad altri, nell’espressione comunicativa sì. L’espressione comunicativa è
un sottocaso della comunicazione di emozioni: in entrambe il Mittente ha lo scopo di comunicare a
un Destinatario un’emozione che sta provando, solo che nella comunicazione c’è metacoscienza del
proprio scopo di comunicare, e nell’espressione no.

Nella comunicazione ed espressione di emozioni, tuttavia, possiamo distinguere moventi


“egocentrici”, che mirano in definitiva solo a scopi dell’Agente, e moventi “sociali” finalizzati alla
relazione con l’altro. La nozione di “regolazione” delle emozioni non è sempre ben definita.

Ekman (1982) ha proposto la nozione di “regole di esibizione” quelle regole culturalmente


determinate che prescrivono in quali situazioni un’emozione primaria può o non può, deve o non
deve essere espressa. I fattori che determinano la nostra “decisione” (consapevole o non
consapevole) se manifestare un’emozione che proviamo sono numerosi, ance se non molto studiati;
la “decisione” se comunicare o meno dipende probabilmente sia da ciascuno di essi preso
singolarmente sia dalla loro complessa interazione. I fattori attinenti all’emozione provata sono la
valenza, l’intensità e la sua valutazione sociale.

VALENZA = comunichiamo più spesso emozioni positive o negative? Secondo alcuni studi sulla
condivisione di emozioni, la tristezza si comunica un po' più della gioia, ma l’orgoglio più di
invidia e gelosia. Forse questo è dovuto dal fatto che la tristezza, nel momento stesso in cui è
comunicata, tende ad alleggerire colui che ne è afflitto.

INTESITA’ = un’emozione intensa tenderà ad essere espressa più frequentemente di una non
intensa, o perché proprio è pressante lo scopo di comunicarla o perché è più difficile reprimerla; ma
in certi casi se è troppo intensa si sarà portati ad inibirne la comunicazione, perché lo stesso parlarne
fa troppo male; e spesso una forte emozione sentiamo il bisogno di elaborarla da soli prima di
condividerla.

VALUTAZIONE SOCIALE = alcune emozioni, come l’invidia e la vergogna, tendono ad essere


meno comunicate, poiché chi le prova è soggetto a sanzione sociale: esprimere vergogna implica
mettere in piazza le proprie colpe e difetti, e chi si mostra vergognoso appare troppo dipendente dal
giudizio dell’altro. Quanto alla, se la sua esibizione può essere apprezzata come dimostrazione
d’affetto, d’altra parte è celata perché denuncia debolezza, dipendenza nei confronti del partner, e il
sospetto di valere meno del rivale.

IO, L’ALTRO E LA SITUAZIONE


In chi prova l’emozione fattore ovviamente importante è la personalità dell’Agente. Tratti di
personalità come estroverso o introverso, impulsivo o timido probabilmente alzano o abbassano la
soglia della “decisione” di manifestare: per un introverso l’intensità dell’emozione dovrà essere
piuttosto alta perché si decida a manifestarla.

L’interlocutore. Per “decidere” se manifestare o menola sua emozione, l’Agente si costruisce un


Modello della mente dell’Interlocutore: delle sue caratteristiche cognitive quali capacità di
comprensione, esperienza diretta, capacità di problem solving, e della sua personalità.

Comprensione. A volte siamo oppressi da un’emozione, ma non la comunichiamo all’altro perché


“non potrebbe capire”.

Esperienza. Una precedente esperienza dell’altro può farmi decidere di comunicargli o meno
un’emozione, perché può forse immedesimarsi meglio nella mia situazione.

La capacità di problem solving dell’altro, infine, può diventare rilevante per chi comunica
l’emozione per chiedere aiuto o consiglio.

La personalità dell’Interlocutore interagisce fortemente con altri fattori, come la specifica


emozione da manifestare e la relazione fra Agente e Interlocutore.
Il contesto e la relazione. La variabile forse più scontata nel decidere se manifestare emozioni o no
è se l’interazione avvenga in pubblico o in privato, e a che livello di formalità.

OSMOSI DELLE EMOZIONI


Un’emozione è uno stato soggettivo, una sensazione piacevole o spiacevole provata da una persona,
nella sua mente. E tuttavia, la natura ha voluto che le emozioni possano passare da una persona
all’altra. Conoscere cosa provo per lui può essere informazione importante per le nostre presenti e
future interazioni e relazioni. Le emozioni dunque possono restare nella mia mente, ma più spesso
passano in altre menti, come per osmosi, attraverso la comunicazione e l’espressione, comunicativa
e non comunicativa. Le emozioni nell’altro nascono non da una mia emozione ma semplicemente
da qualcosa che io sono o faccio: la causa della sua emozione sono io stesso.

L’INDUZIONE
Definisco “induzione di emozioni” il fatto che una credenza relativa ad un Agente A provochi
un’emozione E in un Agente B. La credenza che induce emozione può riguardare:
a) un evento che accade ad A
b) una sua caratteristica
c) un’azione
d) un’azione comunicativa
e) una credenza su un’emozione

A volte l’emozione in B è indotta da un evento accaduto ad A, e allora l’induzione di un’emozione


in B è necessariamente un effetto di tale evento. Spesso, l’induzione di emozione in B un effetto e
non uno scopo deliberato, quando l’emozione in B è causata da una semplice azione non
comunicativa di A: ad esempio se A sopraggiunge all’improvviso dietro a B e B si spaventa.

TRASMISSIONE DI EMOZIONI
Definisco trasmissione di emozioni un processo di induzione di emozioni in cui:
1. A prova un’emozione E
2. A produce un segnale espressivo o comunicativo di quella emozione
3. B viene a provare un’emozione E
4. Il fatto che B venga a provare l’emozione E è causato dal fatto che A prova un’emozione E
5. l’emozione provata da B è simile o identica a quella provata da A

Si tratta di un sottocaso dell’induzione, poiché nella trasmissione l’induzione è causata non da


eventi, ma specificamente da un’emozione di A.

INDUZIONE COME EFFETTO E INDUZIONE COME SCOPO


Definisco il “contagio emotivo come effetto” un effetto di induzione di emozione in B provocato da
un’espressione emotiva prodotta da A: cioè il fatto che un’espressione di emozione di A ha l’effetto
di far provare a B la stessa emozione o un’emozione simile.

EMOZIONARE E INFLUENZARE. DALL’INDUZIONE COME SCOPO ALL’INGANNO


Molto speso noi vogliamo indurre emozioni negli altri. In grande parte perché le emozioni, avendo
un forte potere motivante, inducano all’azione. Tutto l’influenzamento, e quella forma particolare di
influenzamento che è la persuasione, passa in molti casi proprio attraverso l’induzione di emozioni.
Questo perché sentiamo che l’altro è più “convinto” dalla nostra emozione quanto più pensa che
tale emozione ci viene “dal cuore”, cioè quanto più la nostra manifestazione appare spontanea, non
calcolata, quindi più simile all’espressione che alla comunicazione deliberata e cosciente. Quindi,
per indurre un’emozione in B attraverso il fargli sapere di una propria emozione, A deve in certi
casi fingere emozioni che non sente, e in altri fingere di non avere lo scopo di comunicare le sue
emozioni.

INGANNARE SULLE EMOZIONI


I modi in cui si inganna sulle proprie emozioni sono stati analizzati in dettaglio da Ekman, che ha
mostrato come le si può simulare o dissimulare, nascondere o mascherare, e se ne può intensificare
o attenuare l’espressione. Secondo Castelfranchi e Poggi vi sono diversi modi di ingannare.
Innanzitutto, inganni di privazione, che cioè mirano a non far sapere il vero, e inganni per
deviazione, miranti a far credere il falso. Si inganna per privazione attraverso l’occultamento, cioè
nascondendo l’evento, oggetto o segnale che sarebbe la credenza vera, o semplicemente per
omissione, quando basta non fare nulla per non far avere all’altro una credenza vera per lui
rilevante. Al contrario, si inganna per deviazione quando si fornisce una credenza falsa.

COMUNICAZIONE INGANNEVOLE:
 Emozione inesistente (simulazione)
 Emozione diversa (mascheramento)
 Non far trasparire un’emozione (occultamento)
 Omissione dell’espressione emotiva (ometto qualcosa per coglierti di sorpresa con la
vendetta)
 Espressione anticomunicativa di emozione (voglio farlo sapere, ma non voglio che lui
sappia che io voglio ciò)

L’espressione è una manifestazione di stati mentali dell’individuo che può essere innescata da uno
scopo cosciente di manifestarli, ma più spesso è governata da scopi che non sono sotto il controllo
dell’attenzione cosciente; in particolare, scopi interni inconsci dell’individuo e scopi esterni
biologici. Ma oltre a non essere consapevoli neanche del segnale che produciamo. Un’espressione
amareggiata si può stampare sulla faccia.

CONTAGIO
Si contagiano emozioni negative come l’ansia o anche positive come l’allegria. Ovviamente in
alcuni casi il contagio, da parte del contagiante, è deliberato e cosciente, ad esempio nel leader
politico che arringa la folla esprimendo e contagiando le proprie emozioni. Tuttavia, come si è
detto, quanto più B crede che A voglia scientemente contagiarlo, tantomeno il contagio è efficace,
poiché in tal caso B può pensare che A abbia un interesse specifico a indurgli quell’emozione, e
frapporle così barriere cognitive.

EMPATIA
Definisco “empatia” l’induzione in B di un’emozione E2, causata dalla credenza di B che un altro
Agente A prova un’emozione simile o identica E1. L’empatia può avvenire in diversi modi:
1. Per contagio. Una prima possibilità è proprio che sia il contagio a provocare empatia.
2. Per comprensione dell’espressività altrui. Spesso l’emozione dell’altro ci è chiara non grazie
al contagio ma grazie alla nostra capacità di decodificare la sua espressione emotiva.
3. Per ragionamento. B può provare empatia, cioè in lui può indursi un’emozione causata di
una credenza sull’emozione di A, anche se A non ha né espresso né comunicato la sua
emozione.

Negli ultimi due casi, il passaggio dalla credenza che l’altro prova emozione al provarla è mediato
dall’immedesimazione, cioè B immagina come si sentirebbe lui se fosse nella situazione di A.

CONTAGIO ED EMPATIA
L’empatia si differenzia dal contagio da vari punti di vista. L’empatia richiede un più alto grado di
sviluppo cognitivo, poiché implica una capacità di role-taking e immedesimazione, e al tempo
stesso richiede e permette un maggiore distanziamento dall’emozione dell’altro. Le principali
differenze sono tre:

1. L’empatia diversamente dal contagio è autogenerata da B.


2. L’empatia differisce dal contagio per la direzione dell’azione.
3. Di chi è l’emozione e di chi è lo scopo.

Dunque, l’empatia si può più compiutamente definire come l’induzione in B di un’emozione,


causata dalla credenza che A prova un’emozione simile, ma in cui l’emozione indotta in B è
orientata dagli scopi di A. Ma l’empatia è già aiuto se e solo se è comunicata. Vi sono vari modi di
comunicare empatia: verbali e non, deliberati e coscienti e non. Fra i modi di comunicarla partendo
dall’inconscio arrivando al conscio ci sono:

 Meccanismi reattivi della “mimicry”: una tendenza “istintiva” resa possibile dai neuroni
specchio, ad imitare le posture dell’altro come per comunicargli che siamo con lui;
 Sintonizzazione, quello della mamma che si sintonizza col bambino imitandone non un
intero comportamento ma un aspetto di esso;
 Backchannel che l’interlocutore invia al parlante per incoraggiarlo a continuare o per
esprimere comprensione e accordo, suonano come segnali di empatia enunciati come
“capisco”.

ENTUSIASMO E IL SUO CNTAGIO NELLA VITA QUOTIDIANA


Le emozioni sono il sale della vita, perché danno un sapore a quel che facciamo: motivano,
conducono, accompagnano la nostra azione e le danno un senso.
- Giordano Bruno, ad esempio, vede nell’entusiasmo un eroico furore, una forma di potenziamento
della conoscenza che opera attraverso una trasformazione dell’uomo nell’intelletto e negli affetti;
- Kant lo distingue dal fanatismo, lo vede come uno stato d’animo sublime attraverso il quale
l’individuo è spinto a raggiungere i suoi obiettivi;

La parola “enthusiasmòs”, “ispirazione divina” deriva forse dal greco “én = dentro e théos = Dio,
quindi “avere un Dio dentro”. E se ci pensiamo bene le nostre idee prendono vita proprio con
l’entusiasmo, proprio con questo tipo particolare di gioia che implica una trasformazione totale
della personalità.

UN’emozione è uno stato soggettivo che si origina quando nella mente di una persona sono presenti
una serie di credenze relative al rapporto fra eventi del mondo e i suoi scopi. Innanzitutto,
l’entusiasmo si prova durante il perseguimento di uno scopo. Le emozioni si distinguono oltre che
per la loro valenza e intensità, per la relazione temporale rispetto al raggiungimento o
compromissione dello scopo che sorvegliano, o rispetto all’azione che vi è diretta. Vi sono
emozioni che proviamo solo dopo che lo scopo è raggiunto o compromesso ed altre che sentiamo
durante l’azione che persegue uno scopo. Dunque, l’entusiasmo non è un’emozione “del dopo”: la
proviamo in corso d’opera. Quali sono gli scopi nel cui perseguimento si può provare entusiasmo?
Scopi estetici, ad esempio. Per gli scopi estetici, vi è uno scopo ultimo di raggiungere la perfezione
o l’armonia con l’universo, e per questo anche ammirare un paesaggio può farti sentire che tale
scopo dell’armonia lo stai perseguendo attivamente, e che raggiungerlo dipende da te.

ENTUSIASMO, ESULTANZA, SPERANZA, OTTIMISMO


Innanzitutto con l’esultanza, con cui ha somiglianze e differenze. Entrambe sono emozioni positive
intense: ma l’esultanza si prova solo dopo che lo scopo è stato raggiunto. L’entusiasmo è legato
anche alla speranza e all’ottimismo. E’ simile alla speranza per l’assunzione di un’altra probabilità
di raggiungimento dello scopo perseguito ma, come si è detto, la probabilità attribuitagli
nell’entusiasmo è tendenzialmente più alta che quella di chi semplicemente spera.

La nostra ipotesi è che l’entusiasmo sia, per così dire, la “benzina della motivazione”. La grande
attivazione fisiologica implicata dall’entusiasmo fornisce più risorse fisiche e mentali e una
maggiore persistenza all’Agente. L’entusiasmo dunque è un’emozione fortemente adattiva in
quanto sostiene l’azione, le dà speranza, moltiplica le risorse e rinnova la motivazione ad agire.
L’entusiasmo è un’emozione contagiosa, come e più dell’ansia o dell’allegria: vedere o sentire
l’entusiasmo di altri lo fa provare anche a noi, a volte in maniera irresistibile, provocando un effetto
di amplificazione che innesca una spirale di sempre maggiore entusiasmo; quando A contagia di
entusiasmo B, sia A che B lo provano, entrambi lo esprimono, entrambi, reciprocamente,
percepiscono l’uno l’entusiasmo dell’altro, e quindi in entrambi l’entusiasmo aumenta.

ENTUSIASMO NELLA VITA QUOTIDIANA, NELLO SPORT E NELLA SCUOLA


Vissuto ed espressione dell’entusiasmo. Una ricerca empirica che ha coinvolto 132 soggetti, 122
femmine e 10 maschi fra i 19 e i 35 anni, ha esplorato alcuni spetti fisiologici, espressivi e
motivazionali dell’entusiasmo. Le sensazioni propriocettive di questa emozione riportate dai
soggetti sono simili a quelle della gioia, ma con alcuni ulteriori elementi specifici: accelerazione del
battito cardiaco, energia, benessere, buonumore, calore, eccitazione, incapacità di stare fermi, voglia
di parlare, agitarsi, saltellare, movimenti incontrollati, tono della voce alto, talvolta voglia di
gridare. Sia le sensazioni soggettivi che le corrispondenti manifestazioni esterne confermano che
l’entusiasmo è parente della gioia; ma si distingue dalle altre emozioni della stessa famiglia tutte
determinate dal raggiungimento di uno scopo, perché, sempre secondo questi soggetti, si prova
specialmente quando sono realizzatigli scopi estetici e dell’autoimmagine, come assistere a un
concerto o conseguire un successo di cui è artefici.

Nello sport. Analizzando filmati di manifestazioni sportive abbiamo individuato indizi visivi e
acustici di entusiasmo e del suo contagio. Un segnale visivo di entusiasmo. Un segnale acustico di
entusiasmo e di contagio è prodotto, nella stessa partita. L’aumento della velocità delle incitazioni è
indizio di entusiasmo. Lo stesso aumento di ritmo e di intensità si ha un’espressione di entusiasmo
ritualizzata e istituzionalizzata.
 Da tifoso a tifoso. Quando i tifosi si alzano tutti in piedi, o quando fanno la “ola”.
 Da tifoso ad atleta. Quando i tifosi si entusiasmo perché pensano che la vittoria sia possibile
o vicina, contagiano il loro entusiasmo all’atleta, e questo funzione come incitazione.
 Da atleta a tifoso. In certi casi è l’atleta stesso che chiede questa incitazione.
 Insegnanti e studenti. Si è poi indagata la presenza e la funzione del contagio nella scuola.
La nostra ipotesi è che l’entusiasmo dell’insegnante, se contagia gli studenti, possa
accendere e sostenere la motivazione all’apprendimento.
Per indagare la presenza e gli effetti dell’entusiasmo e del suo contagio nella scuola abbiamo
condotto due ricerche empiriche sull’entusiasmo di insegnanti e studenti, e una ricerca osservativa
sull’entusiasmo e il suo contagio nella scuola dell’infanzia. Ci si entusiasma per scopi importanti,
tali da rinunciare, anche con piacere, ad altri scopi di minor valore. E ciò avvicina l’entusiasmo a
un’altra tipica emozione “cognitiva”, l’esperienza di flusso che compensa una totale concentrazione
nell’attività con un senso di piacere, un non sentire la fatica, una soddisfazione per “come sta
venendo bene” ciò che si sta facendo.

 Entusiasmo in classe. Infine uno studio osservativo in una scuola materna, volto a verificare
se vi fosse entusiasmo nelle insegnanti, ed eventualmente rintracciarne l’effetto negli alunni,
in termini di tipologia, intensità e qualità delle emozioni da loro espresse.

* Effetto Pigmalione

FIDUCIA E SFIDUCIA
L’impatto delle nuove tecnologie ha sostanzialmente trasformato negli ultimi pochi anni gli scenari
relazionali lavorativi ed extra lavorativi. In particolare, lo sviluppo della “microelettronica”, della
“scienza dei materiali”, dell’ “informatica”, delle “tecnologie della comunicazione”, fanno ricadere
in queste scenari. La relazione di fiducia viene di conseguenza fortemente condizionata e
influenzata da questa evoluzione tecnologica. Proprio a causa degli sviluppi tecnologici sopra
indicati, un nuovo corpus interdisciplinare di studi e ricerche su di essa si sta mano a mano
sviluppando. Sono protagoniste di questi studi le scienze e le tecnologie che si occupano di
modellare e simulare le organizzazioni, le interazioni, le attività cooperative attraverso reti di
computer, agenti software e realtà virtuale: l’intelligenza Artificiale e le Scienze Cognitive più in
generale, ma l’impatto non può non avere conseguenze sugli studi economici e sociologici. Ciò che
si va modificando profondamene con l’invasione delle tecnologie della comunicazione e
dell’informazione è, da una parte l’ambiente di interazione, l’infrastruttura comunicativa con le sue
modalità e regole d’interazione. D’altra parte, cambiano natura e atteggiamento gli stessi soggetti
dell’interazione: non solo perché gli umani coinvolti in questi nuovi ambienti si trovano a dover
riaggiornare i propri comportamenti e modalità interazionali, ma anche perché sono presenti
soggetti di natura completamente differente, gli agenti artificiali.

FIDUCIA: Il fidarsi gioca un ruolo fondamentale. Come suggerisce Luhman (1990), non potremmo
neppure alzarci dal letto la mattina senza minimamente fidarci del mondo che ci attende. Per
comprendere come questa attitudine di fiducia segni profondamente i nostri comportamenti è
sufficiente riflettere sulle fratture che in essa si aprono quando si rilevano comportamenti che la
tradiscono: il caso di “Unabomber” è esemplare. Ci sono tre principali definizioni che evidenziano
alcuni interessanti aspetti di questo concetto.

MAYER  la fiducia è la volontà di una parte di essere vulnerabile alle azioni di un’altra parte
sulla base dell’aspettativa che l’altra parte realizzerà un’azione particolare, importante per colui che
si fida, indipendentemente dalla possibilità di controllare o monitorare l’altra parte.

GAMBETTA  la fiducia è la probabilità soggettiva attraverso cui un individuo A si aspetta che


un altro individuo B realizzi una data azione da cui dipende il suo benessere.

BERNARD BARBER  suddivide la fiducia in tre componenti:


- un’aspettativa del soddisfacimento dell’ordine sociale naturale;
- un’aspettativa del soddisfacimento della performance di ruolo da parte del fidato;
- un’aspettativa che il fidato soddisfacerà.
Il modello socio-cognitivo è legato alla fiducia. Esso è il tentativo di esprimere una teoria della
fiducia a partire dagli ingredienti mentali necessari, dalle componenti interne ed esterne della
relazione di fiducia e da come si arriva al processo di decisione.

1) La parola “fiducia” nel gergo corrente ha differenti significati e attribuzioni. Un primo significato
sta ad indicare una semplice “valutazione” rispetto ad un agente cui potenzialmente affidarsi; il
senso corrisponde a quello che si darebbe nel caso ci si ponesse la domanda: ti fideresti di lui per
questo compito? E quanto ti fideresti? In questo modo, anche senza un diretto coinvolgimento nella
relazione di fiducia, sarebbe possibile esprimere questa valutazione.

2) Un secondo senso riguarda la valutazione della situazione e del fidato, accompagnata però anche
dalla valutazione di dipendenza nella relazione e dalla decisione a fidarsi.

3) Infine il terzo significato riguarda non solo la decisione ma l’atto stesso di affidamento del
compimento di compromissione nella relazione di fiducia.

La fiducia non è una semplice previsione su cosa si pensa accadrà nel futuro, essa implica anche la
presenza di almeno uno scopo. Senza questa essenziale differenza tra previsione e fiducia non si
coglie il senso più importante del fidarsi che implica necessariamente il coinvolgimento di uno
scopo da raggiungere. Ci sono tre credenze alla base dell’attitudine a fidare:

1) X crede che Y sia capace di realizzare il comportamento A per lo scopo G (Competenza);


2) X crede che Y sia disponibile a realizzare il comportamento A per lo scopo G (Disponibilità);
3) X crede di essere dipendente da Y per la realizzazione di A per lo scopo G (Dipendenza).

FIDUCIA INTERNA = la fiducia di Y nelle sue specifiche caratteristiche


FIDUCIA ESTERNA = la fiducia di Y nei fattori ambientali

L’articolato apparato di ingredienti cognitivi può portare all’azione di delegare (oppure no)
l’azione/comportamento A per l’ottenimento dello scopo G. Nel nostro modello la delega è di vari
tipi:

- delega debole: non c’è nessun accordo tra il delegato e il delegante, non c’è nessuna richiesta e
nessuna influenza, X sta soltanto sfruttando un’azione pienamente autonoma di Y.

- delega media: il delegante deve svolgere un’azione d’influenzamento del delegato (fidato) per fare
in modo che egli realizzi l’azione, che altrimenti non svolgerebbe in forma spontanea.

- delega forte: c’è un esplicito accordo tra delegato e delegante. X chiede a Y di comprargli i
biglietti per il concerto.

La prima banale questione che va considerata consiste nel fatto che non necessariamente ci si affida
a colui/colei di cui ci si fida di più. Entrano in gioco anche fattori costo, benefici, rischi che devono
essere tenuti in conto e confrontati tra loro. E’ quindi anzitutto necessario arrivare ad una
valutazione quantitativa del valore di fiducia e inoltre individuare le funzioni che permettano di
decidere comparativamente rispetto a differenti possibili soluzioni.

Ci sono due tipi di “valutazione negativa”:

- Valutazione di inadeguatezza  Fiducia Negativa o Sfiducia


- Valutazione di nocività/pericolosità  Fiducia Negativa o Sospetto

Dove Fiducia e Sfiducia si escludono, mentre Non Sfiducia e Mancanza di Fiducia non si escludono
del tutto, ma hanno un’area di “overlap”: appunto il dubbio. Diffidenza è un’aggiunta particolare
allo stato di non fiducia (tutto) o di sfiducia, cioè del dubbio o sospetto (non certo) che ci possa
essere tradimento o danno (il secondo tipo di valutazione negativa).

Se guardiamo alla “Fiducia” come un “dar credito”, allora vi è una Sfiducia intesa come “non dar
credito”.

Vi è un fidarsi che non è una valutazione esplicita, ma piuttosto qualcosa che si sente, si prova verso
qualcuno; spesso neppure bassata su esperienze precedenti con quel qualcuno. Si tratta della fiducia
che “ispiriamo” o meno, della fiducia come intuizione/impressione, un “intuitive appraisal”, una
valutazione “implicita”, e non un vero “giudizio” di competenza o affidabilità. Chi si fida “si mette
nelle mani” dell’altro, e per questo dato che non sta all’erta, non sospetta e non si oppone si espone
e lo si può “cogliere di sorpresa”. E non a caso l’altro che vuole indurti in questo stato dice:
“Abbandonati, lasciati andare, fidati”. Il giudizio di competenza, benevolenza, prevedibilità,
affidabilità, può elicitare sensazioni di tranquillità, non-allarme, simpatia, ecc. Noi non conosciamo
le vere ragioni dell’attrazione e serenità o della repulsione/diffidenza/allarme. Sono ragioni
meramente associative ed inconsce.

Vi è poi una “disposizione” a fidarsi o a non fidarsi che caratterizza determinati individui o gruppi,
la loro personalità o attitudine verso il mondo; o noi tutti in determinate circostanze o contesti. Si
potrebbe dire in questi casi che vi è una sorta di regola e di atteggiamento “by default” cioè che
l’individuo per difetto, cioè salvo specifiche indicazioni ed evidenze in contrario, si fida, cioè
formula un giudizio positivo ed è propenso a contare sul l’altro, o viceversa. Con una disposizione a
fidarsi, la mancanza di sospetto, di elementi di discredito o di allarme, diventa “fidarsi”; e come se
il gap di ignoranza ed incertezza, la mancanza di evidenze venisse data a favore di Y. Mentre con
una disposizione colpevolista e diffidente, la mancanza di evidenze positive di buone intenzioni e
capacità diventa sfiducia.

SICUREZZA E INSICUREZZA
Ogni comportamento individuale è determinato da una compresenza di influenze e acquisizioni
derivanti da una rete complessa di rapporti della persona con se stessa e gli altri, la società, la
famiglia, la scuola, il lavoro. Queste esperienze di interazione sono di importanza fondamentale, dal
momento che vanno a costituire la persona e la misura in cui essa sarà equilibrata e sicura. Gli
psicologi hanno inventato costrutti diversi per definire e misurare le caratteristiche e i processi
psicologici che ci danno “sicurezza”: costrutti come autoefficacia, autostima, assertività.
L’espressione “sicuro di sé” denota un’estremizzazione, una radicalizzazione di certe caratteristiche
che attribuiamo a una persona “sicura”, facendone risaltare gli aspetti negativi. L’effetto immediato
delle caratteristiche di una “persona sicura” sta nel fatto che questa è una persona attiva, che agisce
in prima persona, ed è anche creativa, ella misura in cui combina ciò di cui dispone in modi diversi
al fine di trovare le soluzioni più efficaci.

Da un significato di “sicuro” inizialmente relativo alla cognizione nascerebbero altri significati


relativi a un modo di sentirsi, e poi a un’emozione, a uno stato effettivo. La “sicurezza” è in primo
luogo uno stato cognitivo, ma è connesso a uno stato affettivo: un “credere”, un “pensare” a cui si
lega un “sentirsi” e un “sentire”. Dal punto di vista diacronico, potrebbe essere il contrario: la
sicurezza sulle cose. L’uomo per raggiungere scopi si serve di credenze. Ha bisogno di credenze sul
mondo, sugli altri, e su di sé, e di credenze certe, su cui poter fare affidamento nel decidere quali
scopi porsi, quali risorse utilizzare, come pianificare il loro perseguimento. Il prototipo della
“sicurezza” è dunque una sicurezza genuinamente cognitiva: il sentirsi sicuri delle proprie credenze.
E le differenze di questa certezza dipendono da differenze di fonti, domini e tipi di credenze.

Fonti di credenze  Il grado di certezza originaria di credenza è determinato innanzitutto dal fatto
che, in generale, alle diverse fonti di credenze vengono, per la loro natura, attribuiti gradi diversi di
certezza. Oltre a questa “graduatoria” di certezza delle fonti, però, il grado di certezza originaria
delle credenze dipende da come le valutiamo. E’ proprio su questa valutazione metacognitiva delle
fonti di credenze che una persona sicura si distingue da una che non lo è. La nostra ipotesi è che la
persona sicura tenda ad avere una valutazione metacognitiva delle proprie capacità di conoscenza
particolarmente alta, e che, specialmente, tenda a valutare come più affidabili le fonti interne
rispetto a quelle esterne: si fiderò più di una credenza percepita, ricordata o inferita che di una
comunicata.

Domini e tipi di credenze  Gli umani hanno credenze su domini diversi: sul mondo, su se stessi,
sugli altri. E su tutti i domini hanno credenze di due tipi, “valutative” e “neutre”. Una credenza
valutativa, o valutazione, è una credenza sul potere che un oggetto, evento, azione, o persona ha o
dà di raggiungere uno scopo. La persona sicura tendenzialmente attribuisce un alto grado di
certezza a tutte le credenze, di qualunque dominio di qualunque tipo. Sentirsi sicuro di credenze non
valutative serve particolarmente nel momento della pianificazione di azioni da compiere; mentre
sentirsi sicuro di credenze valutative serve per decidere che scopi perseguire, prima ancora di
pianificare per raggiungerli.

SICUREZZA DI SE’
La persona sicura pensa di avere i poteri a cui aspira e di questo è piuttosto sicura. E questa sua
sicurezza cognitiva, essendo attribuita a credenze che hanno una forte rilevanza affettiva, viene ad
essere al tempo stesso sicurezza emotiva. Assume con alto grado di certezza di avere le capacità che
considera importante avere. La persona sicura dunque, attribuisce un alto grado di certezza alle
proprie credenze.

La sicurezza della persona sicura si esplica in vari momenti della generazione e perseguimento di
scopi: sia nel momento della decisione su quali scopi perseguire che nella pianificazione delle
azioni da compiere.

Ambizione  Partiamo dalla decisione. Gli scopi che si pone la persona sicura denotano una
notevole ambizione: si pone mete piuttosto alte e difficili, scelte autonomamente, che sono per lei
una sfida.

Persistenza  Veniamo alla fase di perseguimento di scopi. Poiché la persona sicura attribuisce un
alto grado di certezza alle proprie credenze sul mondo e sulle proprie capacità, quando si pone uno
scopo la sua determinazione nel perseguirlo è alta: non l’ha scelto a caso, ha calcolato bene le
condizioni del suo programma, insomma sa quel che vuole. Al tempo stesso, la conoscenza delle
proprie capacità, che è certezza delle proprie qualità positive, le permette di accettare anche i propri
difetti, senza pensare che siano pervasivi e ineluttabili, né che possano inficiare le qualità. La
persona sicura ha sì lo scopo dell’autoimmagine positiva, ma congiunto a quello dell’autoimmagine
oggettiva.

Forte motivazione  La chiarezza, certezza e persistenza degli scopi, connessi alla sicurezza
cognitiva, inducono nella persona sicura voglia di fare, dire e sperimentare. Se la motivazione è “la
forza o la persistenza con cui si vuole e si persegue uno scopo”. Infatti l sicuro è uno sperimentatore
e un creativo.

Creatività  Nella sua pianificazione, la persona sicura è creativa: combina credenze, risorse e
competenze in modo sempre nuovo e variabile così da avere a disposizione strumenti adeguati al
suo scopo tenendo conto della pluralità del reale. La paura è un’emozione che ci avverte di una
probabile situazione di pericolo e quindi di un alto rischio di compromissione di scopi importanti.
La paura e la tendenza ad evitare il rischio portano ad escogitare soluzioni seguendo percorsi
prefissati, già provati da altri o da noi stessi, e a non cercare strade nuove, creative, dalle
conseguenze imprevedibili. L’individuo sicuro è creativo e non ha paura. Ma la persona sicura ha
già, per così dire, una riserva di certezza cognitiva che le permette di sperimentare soluzioni anche
divergenti senza sentirsi incerte, sospesa, preoccupata, ansiosa. Al contrario, chi non dispone di tale
sicurezza proverebbe, in questa situazione di uscita dai limiti, dalle regole, dalle soluzioni
prefissate, un senso di asia e incertezza.

La vita di ogni Agente è governata da scopi. Questa credenza di essere degno di affetto/adozione,
quando è assunta con un alto grado di certezza, la chiamiamo “sicurezza affettiva”: è la sicurezza
dell’affetto, la certezza di essere amato.

La sicurezza è legata alla fiducia.

Fiducia in sé stessi  con le parole del senso comune, diremmo che una “persona sicura” è una
persona che ha fiducia in se stessa. Infatti, la fiducia è:

1) uno stato cognitivi che implica


2) una decisione a delegare, permettendo al contempo
3) uno stato emotivo di tranquillità

Lo stato cognitivo consiste in un’assunzione, da parte del fidante, di competenza e benevolenza de


fidato: il fidante crede che il fidato ha le capacità per realizzare uno scopo del fidante, ma crede
anche che il fidato ha la volontà e la persistenza per farlo. Essendo al contempo fidante e fidato, da
un lato ha certezza delle proprie capacità, dall’altro ha persistenza nel perseguimento dei propri
scopi.

Fiducia negli altri  La persona sicura ha fiducia anche negli altri. Attribuisce infatti un alto grado
di certezza anche ai propri giudizi sugli altri, e tende ad avere giudizi più oggettivi e spassionati
sulla competenza e la benevolenza altrui. Così, se delega ad un altro il perseguimento dei propri
scopi, ha meno bisogno di controllare le sue azioni o verificarne le intenzioni: si fida.

Fiducia degli altri  La persona sicura ispira fiducia agli altri. La fiducia è legata alle credenze
sulla competenza, disponibilità e dipendenza di un individuo.

La consapevolezza di ciò che si vuole, fattore determinante delle scelte, azioni e strategie
dell’individuo sicuro, si esprime nel suo essere deciso, persistente, costante, nel non avere dubbi e
nel non farsi scrupoli. Tale certezza nell’attribuzione di valore lo libera dall’indecisione e dai
conflitti interni fra i suoi scopi, ma l’assenza di conflitto si concretizza a livello cognitivo
nell’assenza di dubbio e a livello sociale nell’assenza di scrupoli. Un meccanismo simile dà luogo a
ciò che chiamiamo “non avere scrupoli”. L’assenza di scrupoli è la mancanza di qualsiasi forma di
preoccupazione o di conflitto rispetto a scopi altrui.

L’autoefficacia è l’insieme delle convinzioni che una persona ha sulle proprie capacità. Possiamo
definire una “convinzione” come una credenza soggettiva cui si è attribuito un alto grado di
certezza. Da questo punto di vista, vi è una certa analogia fra sicurezza e autoefficacia, nel senso
che chi ha una percezione di autoefficacia è abbastanza certo di avere determinate capacità.
Maggiore sovrapposizione vi è fra sicurezza e autostima. L’autostima di un individuo è l’insieme
di credenze valutative che egli ha su se stesso, ed è alta o bassa a seconda della discrepanza che
l’individuo sente fra sé reale e sé ideale, cioè fra l suo scopo dell’autostima e la sua autostima
effettiva. L’autostima è nozione più ampia dell’autoefficacia perché non riguarda soltanto la
valutazione delle proprie capacità, ma più in generale il proprio valore. La sicurezza è più una
certezza delle proprie valutazioni di competenza, mentre l’autostima riguarda anche, e forse più, le
autovalutazioni “morali”: l’individuo sicuro è uno che sa quel che fa, e valuta positivamente il
proprio modo di fare le cose, mentre l’individuo con alta autostima si valuta positivamente anche
per il proprio modo di essere, specialmente di essere nei confronti degli altri. Vi sono punti in
contatto anche fra sicurezza e assertività. L’assertività è una strategia di azione caratterizzata da
una pianificazione razionale e realistica delle azioni utili alle proprie mete, che risulta orientata, da
un alto allo scopo-meta del soggetto, dall’altro ad una serie di scopi “modali” quali
l’autoaffermazione, la difesa dei diritti soggettivi e il rispetto della personalità.

Insicurezza cognitiva  L’insicuro attribuisce alle proprie credenze un grado di certezza più basso
della media; la sua valutazione delle fonti di credenze è diversa da quella dell’individuo sicuro. Egli
dipende dagli altri proprio perché è meno sicuro delle proprie capacità. Dalla dipendenza affettiva
discende che la sua autoimmagine dipende dall’immagine che gli altri hanno di lui: egli dipende dal
loro giudizio, ha bisogno di piacere e di compiacere, proprio perché sente forte il bisogno della loro
adozione. Il prototipo dell’insicuro è il soggetto ignaro degli esperimenti di Asch che, pur davanti a
due segmenti patentemente diversi, sentendo il giudizio dei compari dello sperimentatore si
uniforma, ma non per quieto vivere; è quello che si convince davvero che sono proprio uguali, che
gli altri hanno ragione, che è lui che ha visto male.

Insicurezza decisionale  L’insicuro è incerto anche nelle sue decisioni. Non necessariamente ha
poco certezza sui suoi scopi; piuttosto, può non avere certezza delle credenze sul mondo, quali
relazioni causa-effetto, azione-risultato, azione-scopo, e per questo è incerto su come pianificare il
perseguimento dei suoi scopi, cioè su quali sottoscopi perseguire.

Incoerenza  Più in generale, l’insicuro ha problemi di coerenza. L’incoerenza dipende proprio


dall’insicurezza cognitiva: se non sono molto più sicuro della credenza X rispetto alla credenza Y, è
solo per caso che deciderò di basarmi su X piuttosto che su Y.

Mancanza di fiducia  in se stesso. Al contrario della persona sicura, e per le stesse ragioni,
l’insicuro non ha molta fiducia in se stesso. Ancor più incoerente, contraddittorio e complesso è il
suo atteggiamento nel fidarsi degli altri. Nella fase di perseguimento degli scopi, non essendo certo
delle proprie credenze sul mondo e sulle relazioni causa-effetto, può essere ansioso o preoccupato e
aver bisogno di “tenere tutto sotto controllo”.

Possiamo definire la timidezza come una qualità di alcune persone che consiste nell’attribuire un
coefficiente di valore particolarmente alto allo scopo dell’immagine. Una soglia particolarmente
bassa per emozioni come l’imbarazzo e la vergogna, e per la loro più tipica espressione, il rossore.
Non sempre il timido è insicuro. L’insicuro avrà una naturale motivazione a nascondere la propria
insicurezza, a cercar di apparire una persona sicura, ingannando gli altri e se stesso. Capita infatti di
incontrare persone apparentemente molto sicure, che in realtà nascondono sotto una maschera di
disinvoltura o spavalderia un’insicurezza profonda: sono i “falsi sicuri”. Sapere questo in ogni
momento è una funzione biologica, e diviene ben presto uno scopo interno del bambino: ogni volta
che cerca la mamma, col pianto, con lo sguardo, col sorriso. E’ questo il primo tipo di certezza di
cui ha bisogno. La sicurezza affettiva, ossia la certezza della propria adottabilità, fornisce così
all’individuo una “rete di sicurezza” che, anche nelle difficoltà che, anche nelle difficoltà, gli dà
fiducia nella possibilità di raggiungere i suoi scopi: in certi casi saranno sufficienti le sue solo
risorse, e se non riesce al primo tentativo saprà tentare altre strade; ma se anche questo non
bastasse, altri hanno disponibilità adottiva nei suo confronti: perché lui è degno di essere adottato.
Se l’adozione è assente o intermittente, la credenza del bambino che c’è qualcuno che si occupa di
lui sarà ora confermata ora smentita, e il grado di certezza attribuito a tale credenza non sarà alto,
finendo col produrre un’insicurezza affettiva.

IL PIANTO: CAUSE E SCOPI


Si pensi alla distinzione di Darwin tra pianto come segno di sofferenza e pianto come segno di
“tender feelings” (compassione, ricongiungimento dopo una separazione, ecc.) oppure alle categorie
di Bindra: esultanza, abbattimento e angoscia.

E’ utile osservare che anche le situazioni più “ovvie” di pianto, cioè quelle in cui è implicata
qualche frustrazione e sofferenza, non inducono necessariamente il pianto, se manca la percezione
di impotenza: per piangere, la persona deve sentirsi incapace di intervenire sulla frustrazione.
Sebbene il pianto esprima sfiducia nelle proprie risorse per risolvere il problema in questione, ciò
non toglie che la persona possa ancora confidare nella capacità e disponibilità degli altri. Le lacrime
possono esprimere non solo una richiesta di aiuto, ma anche una protesta o un'accusa. Gli
“impotenti”, cioè i deboli e i bisognosi, essendo facilmente vulnerabili, sono spesso vittime di
ingiustizie. Hobbes, notava che le donne tendono a piangere più, e spesso, degli uomini. Sia gli
uomini che le donne tendono a considerare il pianto un comportamento più tipicamente femminile
di quanto non sia nei fatti.
Il pianto può essere provocato da svariati tipi di sofferenza. In presenza di uno scopo compromesso
o minacciato. Per indurre il pianto, la frustrazione deve implicare sofferenza, il cui grado dipende
dall’importanza dello scopo, mentre la tipologia dipende dal tipo di scopo compromesso.

Dolore fisico  il dolore fisico può portare al pianto se è avvertito come “intollerabile”.
L’insopportabilità implica percezione di impotenza; un dolore insopportabile è un dolore a cui non
riesco a resistere, in almeno due sensi: non riesco ad abituarmici, ad accettarlo.

Separazione e perdita affettiva  queste sono situazioni di pianto tra le più tipiche e persino
ritualizzate. Tipiche sono anche affermazioni come: “Piango per sfogare la mia impotenza”.
Tuttavia l’incapacità di intervento sulla frustrazione e la conseguente percezione di impotenza non
riguardano soltanto l’impossibilità di modificare l’evento. Nel pianto di separazione e perdita è
implicato un altro tipo di impotenza percepita: l’incapacità di fronteggiare la perdita.

Fallimento  con “fallimento” intendiamo la frustrazione di uno scopo perseguito. Quindi un


fallimento implica un tentativo non riuscito di raggiungere uno scopo. Le aspettative positive
includono le credenze sul potere di raggiungere lo scopo, tra cui svolgono un ruolo importante
quelle di autoefficacia. In caso di fallimento, tutte queste credenze possono essere invalidate,
inducendo non solo delusione, ma anche scoraggiamento. Un fallimento può essere più o meno
scoraggiante a seconda che sia ricondotto o no, a cause stabili, cioè immodificabili.

Rabbia  la rabbia è una causa di pianto meno ovvia delle precedenti. Quando ci si arrabbia, i
comportamenti più tipici sono di “contrattacco” nei confronti della causa della frustrazione subita. Il
pianto è indotto proprio dal senso di impotenza che accompagna la frustrazione dello scopo di
esprimere la propria rabbia. Questa percezione di impotenza è connessa con un’altra forma di
impotenza, relativa alla capacità di “finalizzare” la rabbia stessa, contrattaccando l’agente causante
del danno. Quindi, la persona che non riesce a passare al contrattacco tende a scoppiare in lacrime.

Senso di colpa  la percezione di impotenza svolge un ruolo causale anche nel pianto per senso di
colpa. Il senso di colpa è solitamente ricondotto alla credenza di aver danneggiato qualcuno o
violato qualcosa. Anche la mancata corrispondenza tra il comportamento colpevole e la propria
immagine ideale può indurre al pianto.

La compromissione di scopi induce un tentativo di resistenza, in almeno due sensi:

1) sopportare la frustrazione
2) opporle resistenza, trovando qualche rimedio per eliminarla o ridurla.

Ciò a cui la persona deve resiste è a sua volta duplice:

1) la sofferenza
2) la situazione, cioè lo stato del mondo che ha causato la frustrazione.

La percezione di impotenza induce a sua volta il crollo e la resa alla frustrazione e alla sofferenza.
Infine, il pianto essendo un segno di resa alla frustrazione, può rinforzare il senso di impotenza.

VARI TIPI DI PIANTO:


Pianto empatico  insieme con la separazione e la perdita di persone care, il coinvolgimento
empatico è una delle cause più comuni di pianto. E’ una conferma e un supporto per l’assunzione
che “non c’è niente da fare”.

Pianto di gioia  c’è addirittura chi contesta l’esistenza del pianto di gioia. Ad esempio, secondo
Feldman si piangerebbe solo di dolore, perché, anche nei contesti “felici” il pianto esprimerebbe la
consapevolezza del carattere effimero e ingannevole di ogni gioia. Si tende, in realtà, a piangere di
gioia quando alterne vicende, lunghe separazioni, gravi problemi e sforzi difficilmente coronabili da
success vanno a buon fine, inducendo sorpresa e sollievo, perché le proprie aspettative negative
sono state invalidate. Il pianto di gioia sembra implicare un tipo particolare di impotenza percepita:
il ricordo, o meglio la ricostruzione retrospettiva delle proprie passate traversie in termini di
impotenza.

Anche il pianto di gioia implica quindi una precedente frustrazione o minaccia di frustrazione, con
la sofferenza che l’accompagna, come pure il tentativo di resistere ad entrambe. Di fronte
all’inattesa soluzione positiva, la persona prova sorpresa e sollievo. Il sollievo sarà tanto maggiore
quanto più è importante lo scopo realizzato. Oltre al sollievo, la persona prova una forma di
retrospettiva autocommiserazione. Vi è anche una sensazione di libertà.

Pianto estetico  chiamiamo “estetico” questo ineffabile tipo di pianto perché in questi casi sembra
che la causa scatenante sia la contemplazione del Bello in tutte le sue forme possibili. La persona
sente di percepire qualcosa di sublime e, in virtù di tale percezione, di farne parte in qualche modo.
Il senso del sublime è intrecciato con un particolare senso di impotenza. Siamo qui in perfetto
accordo con la visione di Kant (1790): la persona sente la propria incapacità di comprendere
pienamente il significato dell’esperienza, come pure di esprimere adeguatamente i sentimenti che
prova. In primo luogo, accanto al senso di impotenza, nell’esperienza del sublime è presente un
paradossale senso di “potenza”, perché l’individuo si vede comunque capace di riconoscere il
sublime, se pure imperfettamente, e di “partecipare” di esso.

E’ opportuno considerare anche la possibilità di un altro tipo di impotenza percepita, che potremmo
chiamare “aspecifica”, limitata all’incapacità di controllare emozioni particolarmente intense. Il
bisogno di controllare le emozioni implica l’esistenza di norme sociali che ne regolano
l’espressione. Il tabù riguarda anche il pianto, che nella nostra cultura è poco frequente, limitato
nella durata e nella quantità di lacrime e generalmente non esibito in pubblico, se non in contesti
ritualizzati come i funerali o i matrimoni.

Le ricerche empiriche sulle funzioni positive del pianto hanno prodotto risultati contraddittori,
inducendo alcuni studiosi a proporre una visione “contestuale” in base alla quale il pianto ha effetti
benefici se produce dei cambiamenti vuoi nello stato mentale ed emotivo di chi piange, vuoi nelle
sue relazioni sociali, la funzione “catartica” del pianto è oggetto di accese controversi.

Sfogo  secondo il senso comune, piangere è un mezzo per sfogare le proprie emozioni. Ma non
sempre piangere riduce l’intensità dell’emozione provata. Più in generale, la manifestazione di
un’emozione non implica necessariamente la sua riduzione o eliminazione. I due possibili “usi”
dello sfogo che abbiamo appena delineato mostrano un elemento comune, se consideriamo che
l’inibizione provoca tensione. In effetti, la manifestazione dell’emozione comporta la riduzione o
eliminazione di qualcosa: ciò che viene ridotto è la tensione causata dalla sua inibizione, più che
l’intensità dell’emozione stessa. Il pianto sembra insorgere non al culmine dell’esperienza emotiva,
ma dopo che tale culmine è stato raggiunto e l’organismo comincia a ritornare alla normalità; le
lacrime, infatti, subiscono il controllo del sistema nervoso parasimpatico, che è deputato a ristabilire
l’equilibrio omeostatico.
Il pianto è il paso finale di un processo interno le cui fasi principali sono il tentativo di resistenza a
una situazione frustrante e alle emozioni implicate, la percezione di impotenza e la decisione
implicita di resa. In effetti orientando l’attenzione della persona sul proprio stato mentale ed
emotivo, tende a favorire la consapevolezza e la comprensione di tale stato. Oltre alla
comprensione, il pianto può favorire la rievocazione di certi stati mentali ed emotivi, e così facendo,
anche di eventi e persone associati a tali sentimenti. Infatti, gli stati emotivi facilitano la
rievocazione di informazioni congruenti.

In termini evoluzionistici ed evolutivi la funzione fondamentale del pianto infantile è quella di


comunicare il proprio bisogno di aiuto e protezione, favorendo così la sopravvivenza e il futuro
successo riproduttivo del bambino. Quest’uso del pianto, sia esso “regressivo” o no, risulta ancora
piuttosto diffuso tra gli adulti, e potrebbe continuare ad assolvere una funzione adattiva. Del resto,
nella specie umana troviamo non solo forme di altruismo parentale, ma anche di altruismo
reciproco. In effetti il pianto è considerato un comportamento di richiesta di aiuto e spesso risulta
efficace, in quanto permette di ottenere l’aiuto o conforto desiderati. Quest’ultima spesso implica
uno stato di bisogno e riguarda la mancanza di qualche aiuto che si ritiene “dovuto”. La richiesta
implicita nella protesta può riguardare non tanto il bisogno di aiuto quanto quello che la giustizia
venga ristabilita. Si pensi alla varietà di usi del pianto che una vittima può fare: oltre all’effettiva
richiesta di aiuto, c’è anche il pianto di colpevolizzazione che rimprovera all’altro la sua
“cattiveria”.

EFFETTI NEGATIVI DEL PIANTO


A volte il pianto favorisce l’aumento, piuttosto che la riduzione, dell’intensità delle emozioni
implicate. Ciò può essere ricondotto al “loop” tra pianto e percezione di impotenza che abbiamo già
ipotizzato. Il pianto rafforza la percezione di impotenza, e quest’ultima esacerba la sofferenza stessa
e induce ulteriore pianto.

Questo effetto negativo discende direttamente dalla nostra analisi del processo cognitivo che va
dalla frustrazione al pianto.

Nella nostra cultura, chi piange tende ad essere viso come un “perdente”, e questa valutazione viene
appresa già dalla prima infanzia. La dichiarazione di impotenza e di resa implicita nel pianto può
indurre valutazioni altrui negative sulle capacità e risorse della persona. Se quest’ultima si “riduce”
a piangere vuol dire che “non sa dove sbattere la testa” è bisognosa, debole, dipendente.

L’ESPRESSIVITA’ NELLA COMUNICAZIONE NON-VERBALE DEGLI ANGENTI


CONVERSAZIONALI
Gli agenti conversazionali (o ECA Embodied Conversational Agents) sono un tipo di interfaccia
utente, atta a riprodurre la completezza della comunicazione uomo-uomo nell’interazione uomo-
macchina. Nella comunicazione vi sono molti fattori che tendono a influenzarla, essi vengono
definiti “influenze comportamentali” nel senso che agiscono in qualche modo sul comportamento
dell’agente. Il problema di caratterizzare le espressioni facciali e i movimenti del corpo è stato preso
in esame principalmente da scienze come la psicologia sociale e dalla biomeccanica.

Lo studio delle espressioni facciali è una vasta e complessa area di ricerca. Il modo in cui le
emozioni sono percepite  “segnali conversazionali” e “backchannels”. Ekman e Friesen hanno
anche identificato le principali differenze tra le espressioni di emozioni realmente provate e quelle
recitate.
I ricercatori nel campo della psicologia sociale hanno analizzato la percezione dei movimenti del
corpo, principalmente attraverso degli strumenti di misura ad hoc, realizzati riducendo
progressivamente un’estesa lista di possibili comportamenti tra i quali gli annotatori potevano
effettuare una scelta. Wallbott e Scherer hanno codificato le loro impressioni sui principali tipi di
movimenti del corpo in cinque categorie:

- lento/veloce
- ristretto/espansivo
- debole/energetico
- poco attivo/molto attivo
- piacevole/spiacevole

Vi sono sei parametri che fanno parte dell’insieme di caratteristiche di ogni agente
“individualizzato” e serviranno ad indicare le sue tendenze comportamentali generali:

Overall activation: rappresenta la quantità di movimento distribuita sulle varie modalità di


comunicazione durante il turno di conversazione dell’agente;

Spatial extent: ampiezza dei movimenti fisici dell’agente, per esempio le dimensioni dello spazio
ricoperto dalle braccia durante il loro tragitto o la quantità di spostamento delle sopracciglia;

Temporal: durata dei movimenti, ad esempio veloci/corti oppure lenti/lunghi;

Fluidity: morbidezza e continuità dei movimenti, ad esempio quanto vengono effettuati due gesti
consecutivi;

Power/Energy: quantità di tensione muscolare nei movimenti, variabile tra debole/rilassato e


forte/teso;

Repetitivity: tendenza alla ripetizione ritmica di specifici movimenti su specifiche modalità.

VARIE INFLUENZE:

Influenze intrinseche  ogni essere umano ha le proprie abitudini, consce e inconsce, che
intervengono nel contenuto dei suoi discorsi e che definiscono le sue attitudini e comportamenti
durante le conversazioni. E’ il caso dei gesti emblematici, che possono essere tradotti direttamente
in parole.

Influenze contestuali  molti fattori dipendenti dal contesto possono aumentare o diminuire gli
effetti delle influenze intrinseche. Le influenze contestuali possono essere determinate da fattori
ambientali come l’illuminazione, il rumore di fondo, la quantità di spazio a disposizione, le
caratteristiche proprie del sito in cui si svolge la conversazione.

Influenze dinamiche  lo stato mentale di una persona ne influenzerà enormemente il


comportamento: ne altererà la prosodia del parlato, l’ampiezza delle espressioni facciali, il ritmo dei
movimenti. Lo stato mentale si evolve durante la conversazione perché lo stato emotivo, gli
obiettivi, le convinzioni variano anch’essi, e possiamo quindi affermare che esso è un elemento
della conversazione estremamente dinamico.

DESCRIZIONE DEL SISTEMA


Il nostro ECA riceve in input un testo marcato con dei tag definiti nel linguaggio APML e genera
un’animazione composta da parlato sintetizzato, movimento facciale, movimento gestuale, sguardo,
che può essere visualizzato mediante un apposito player da noi realizzato.

DEFINIZIONE DELL’AGENTE
I parametri di definizione dell’agente servono a caratterizzarne il comportamento e contengono
l’informazione ricavata dalle influenze intrinseche:

Fattori di predisposizione. Ad ogni modalità viene assegnato un numero che rappresenta quanto
l’agente è espressione per quella modalità;

Gerarchia di modalità. Un agente potrebbe essere predisposto per utilizzare maggiormente alcune
modalità rispetto ad altre.
MOTORE FACCIALE
Un’espressione facciale viene identificata non solo da una configurazione dei muscoli della faccia.
Il modo in cui un’espressione facciale si evolve nel tempo ne determina infatti l’espressività: l’asse
delle ordinate rappresenta l’intensità dell’espressione, dove con il valore 0 indichiamo l’assenza
totale di tensione nei muscoli facciali mentre il valore 1 significa che la configurazione facciale che
rappresenta l’espressione è stata raggiunta. Vediamo con il set di parametri (prima descritti) viene
utilizzato per alterare lo svolgimento temporale e spaziale delle espressioni facciali:

Spatial extent: questo parametro determina la quantità di contrazione dei muscoli facciali; a livello
di implementazione si traduce in un fatto moltiplicativo associato ai parametri d’animazione delle
sopracciglia e della bocca che ne provoca un maggiore o minore spostamento durante l’animazione.

Temporal: in generale, un valore pari a 0 per questo parametro significa che l’espressione si deve
svolgere con una temporizzazione che segua l’allineamento tra tag APML e testo.

Fluidity: questo parametro influenza la velocità di contrazione e decontrazione dei muscoli facciali
e il tipo di interpolazione impiegata nel passaggio da un’espressione alla successiva;

Power: questo parametro agisce sull’intensità della contrazione dei muscoli facciali: lo stesso tipo
di influenza del parametro “Spatial extent”;

Repetitivity: questo parametro esprime quanto spesso un’espressione facciale viene ripetuta; un
valore più alto rappresenta un’altra ripetitività, che provoca, ad esempio, un maggior numero di
“head nod” durante il turno di conversazione in cui l’agente è l’ascoltatore oppure l’aumento del
numero di volte in cui l’agente solleva le sopracciglia mentre parla.

MOTORE GESTUALE
Il motore gestuale sceglie i corrispondenti gesti da far eseguire all’agente Greta. Subito dopo i gesti
che sono stati scelti vengono tradotti in animazione tenendo in considerazione l’insieme degli
attributi per l’espressività. Questa strategia di funzionamento dovrà essere applicata su più livelli,
da quello di pianificazione a quello di istanziazione.

Spatial extent: questo parametro è stato modellato in modo da espandere o contrarre lo sazio di
fronte all’agente in cui si muovono le mani durante l’esecuzione dei gesti;

Temporal: assumendo che per motivi di sincronia la fine della fase di stroke del gesto deve
coincidere con la sillaba più enfatizzata del parlato;
Fluidity: il concetto di fluidità per i gesti indica quanto il movimento delle braccia è continuo tra
l’esecuzione di un gesto e il successivo;

Power: per visualizzare la quantità di energia e tensione del movimento facciamo riferimento
ancora alle proprietà dinamiche dei gesti;

Repetitivity: questo attributo controlla la tendenza a ripete più volte di seguito lo stesso gesto. La
configurazione della mano viene mantenuta durante la prima esecuzione del gesto e trasformata in
un beat nelle successive ripetizioni.

LA FACCIA E LA VOCE DELLE EMOZIONI


L’espressione vocale e facciale delle emozioni è il risultato finale di un complesso processo
cognitivo che, sulla base di conoscenze, competenze, valutazioni scopi del parlante, parte dalla
definizione di uno stato d’animo interiore per giungere alla sua trasmissione tramite i complessi
segnali delle due modalità sensoriali prevalentemente utilizzate nell’interazione umana faccia-a-
faccia.

INFORMAZIONI TRASMESSE DALLA FACCIA:

Informazioni extralinguistiche  la faccia, cioè la parte anteriore visibile della testa, trasmette
innanzi tutto le informazioni derivanti/connesse alla sua struttura biologica, cioè la disposizione di
fronte, occhi, sopracciglia, naso, bocca (labbra), mandibola, orecchie. Dimensioni, forma, colore di
questi organi variano a seconda della razza, sesso, età, stato di salute e identità dei soggetti e
forniscono potenti informazioni sociali e fisiognomiche.

Informazioni paralinguistiche  a partire da Darwin le espressioni facciali corrispondenti alle


emozioni primarie o di base (gioia, collera, paura, tristezza, disgusto, sorpresa) sono state oggetto
delle più varie ricerche etologiche, psicologiche e socio-culturali.

Informazioni linguistiche  altri movimenti e configurazioni della faccia dipendono specificamente


dalla realizzazione delle catene foniche del parlato.

INFORMAZIONI TRASMESSE DALLA VOCE:

Informazioni extralinguistiche  la configurazione, la tensione e la frequenza di vibrazione delle


corde vocali sono i principali fattori che determinano le qualità modali, fisiche, della voce, e tali
fattori possono variare in funzione di razza, sesso, età, dimensioni del corpo, stato di salute e
idiosincraticità dei parlanti.

E’ difficile isolare le qualità della voce dipendenti esclusivamente dalle caratteristiche anatomo-
fisiologiche dei parlanti da quelle relative alla loro personalità. L’interazione tra le caratteristiche
acustiche del messaggio verbale e le caratteristiche vocali delle emozioni è ridotta al minimo
qualora si studino i cosiddetti “Affect burst”, cioè le interazioni primarie. Alcune emozioni
influenzano le caratteristiche acustiche: gioia, paura e collera condividono il grado di influenza.
Questa condivisione di indici acustici è considerata un indice di condivisione delle dimensioni
psicologiche costitutive delle emozioni, in particolare di quelle di attivazione, valenza e potere.

La dimensione di “attivazione”: correlata all’importanza dello scopo, distingue emozioni ad alta


attivazione da quelle a più bassa attivazione;
La dimensione di “valutazione”: correlata al raggiungimento vs compromissione dello scopo,
distingue le emozioni positive da quelle negative;

La dimensione di “potenza”: correlata alla possibilità di controllo sulle risorse necessarie al


raggiungimento dello scopo, suddivide le emozioni a seconda che implichino dominanza o
sottomissione.

*La teoria dei canali paralleli = sostiene la codificazione indipendente dei due tipi di informazioni,
linguistica e paralinguistica, ciascuno con le proprie caratteristiche prosodiche ed intonative, e la
loro successiva fusione per addizione.

Informazioni linguistiche  nella modalità acustico-uditiva le informazioni linguistiche segmentali


relative a consonanti e vocali vengono trasmesse dalle caratteristiche spettrali delle onde periodiche,
aperiodiche e transienti generate dai movimenti di diversi organi fonoarticolatori in relazione a
specifici modi e luoghi di articolazione e ai fenomeni di coarticolazione, mentre le variazioni
dell’intensità e della durata dei singoli foni, come pure la produzione delle pause, dipendono dalla
struttura sintattica, dalla struttura dell’informazione e dalle caratteristiche pragmatiche degli
enunciati.

Le informazioni espresse dalla voce. Da quanto è stato esposto risulta evidente la numerosità delle
informazioni che vengono trasmesse nel corso di un’interazione faccia-a-faccia, la complessità dei
segnali acustici e ottici che trasmettono tali informazioni e infine la difficoltà di descrivere
correttamente ogni strato informativo date le sue interazioni con altri strati.

DIVERSITA’ TRA FACCIA E LA VOCE NELL’ESPRESSIONE DI EMOZIONI


Soprattutto per le diversità dei segnali, la trasmissione delle emozioni tramite la faccia e la voce è
stata tradizionalmente oggetto di studi separati. L’analisi dei relativi segnali ottici e acustici ha
implicato metodologie sperimentali/tecniche diverse messe a punto in empi diversi: per lo studio
della faccia sono stati utilizzati disegni, fotografie, cinematografie ben prima che fossero disponibili
delle tecniche di analisi acustica della voce. Sulla diversità strutturale dei segnali correlata alla
diversità dei relativi sistemi sensoriali si sono basate anche le considerazioni sul diverso ruolo
etologico dell’espressione facciale e vocale delle emozioni che sono quindi ritenute sistemi
diversamente specializzati e potenzialmente indipendenti. L’espressione facciale delle emozioni
trasmette infatti informazione “a breve distanza” ed è “direzionale”. L’espressione vocale è invece
“onnidirezionale” o “non direzionale” ed è quindi utilizzabile per trasmettere anche a distanza
segnali di pericolo, di allarme o paura e segnali correlati alla dominanza: difesa del territorio,
competizione con contendenti, ecc. Questa specializzazione dei due segnali comunicativi potrebbe
aver determinato un loro diverso ruolo, anche temporale, nell’evoluzione filogenetica e nello
sviluppo ontogenetico della specie umana. La presenza di particolari patologie, cioè handicap
uditivi o visivi, disturbi afasici e disturbi centrali quali prosopagnosia, vincolando i soggetti
all’utilizzazione selettiva di una delle due fonti di informazione, visiva o uditiva, ha evidenziato la
specificità dell’attivazione corticale e l’indipendenza delle strutture deputate alla codificazione e al
riconoscimento delle emozioni. Nell’interazione faccia-a-faccia potrebbero quindi risultare meglio
riconosciute le emozioni i cui indici visivi primari sono costituiti da configurazioni o movimenti di
fronte e occhi (sorpresa – paura) poiché la parte superiore della faccia è più libera di produrre i
segnali emotivi, mentre la configurazione della bocca viene condizionata dalla contemporanea
produzione dei movimenti articolatori linguistici. Per quanto riguarda invece l’informazione
linguistica, dal punto di vista quantitativo la trasmissione visiva è sicuramente limitata rispetto a
quella acustico-uditiva perché i visemi, estratti dai movimenti articolatori visibili, sono sempre in
numero inferiore a quello dei fonemi e perché nessuna informazione visiva corrisponde alla
vibrazione delle corde vocali, che costituisce la sorgente di segnale acustico indispensabile per la
produzione di foni vocalici, consonantici, sonoranti e sonori. Nel caso della modalità acustico-
uditiva l’individuazione del set di indici caratterizzanti ogni emozione primaria è risultata più
complessa perché, come è stato già sottolineato, non si tratta di presenza vs assenza di una
caratteristica, ma piuttosto di variazioni delle caratteristiche prosodiche degli enunciati emotivi
rispetto a quelle determinate dalle regole linguistiche.

Fondamentale per la definizione dei rapporti tra espressione facciale e vocale delle emozioni
primarie è l’individuazione delle relazioni tra i due segnali, ottenute analizzando serie di dati visivi
e acustici registrati contemporaneamente o confrontando i dati raccolti secondo simili condizioni di
elicitazione, cioè con il ricorso alle stesse etichette lessicali o agli stessi scenari. Particolarmente
interessanti sono i casi di fenomeni comunicativi multimodali quali l’ironia o il sarcasmo che
possono essere trasmessi da pattern acustici e visivi caratteristici di emozioni diverse, cioè da
informazioni non coerenti tra loro in base alle nostre conoscenze sulle emozioni primarie, ma che il
mittente sincodifica in funzione di un nuovo e più complesso scopo comunicativo.

Indipendentemente dalle differenze fisiche tra i segnali ottici e acustici, per ambedue le modalità di
trasmissione delle emozioni gli studiosi si sono posti una identica serie di interrogativi. Si è arrivato
a sostenere che nell’espressione simulata la risposta muscolare è asimmetrica, coinvolge
maggiormente la parte sinistra della faccia rispetto alla parte destra, come avviene nel caso del
sorriso simulato che, rispetto alla produzione spontanea risulta asimmetrico sul lato sinistro e non
coinvolge i muscoli intorno agli occhi.

Uno sviluppo particolarmente interessante delle ricerche sul parlato emotivo, che integra i risultati
delle analisi articolatorie ed acustiche sopra elencate, è rappresentato dall’implementazione delle
Facce Parlanti Espressive, generate da programmi di sintesi bimodale uditivo-visiva del parlato, che
si propongono, per quanto riguarda l’nformazione fonetico-fonologica, come simulazioni delle
relazioni causali tra movimenti articolatori e prodotto acustico, come metodo di indagine dei
rapporti tra percezione uditiva dei segnali acustici del parlato ed estrazione di informazioni
fonologiche dai movimenti articolatori visibili e come banco di prova delle interazioni tra
movimenti articolatori e configurazioni facciali espressive.

L’analisi dei bersagli labiali vocalici e consonantici del parlato emotivo ha permesso di verificare se
la realizzazioni dei bersagli vocalici e consonantici nelle diverse emozioni si differenziano
significativamente dalla realizzazione non emotiva e tra loro; se vi sono parametri labiali i cui valori
sono vincolati dalle caratteristiche fonetico-fonologiche dei diversi foni e che quindi risultano meno
modificati nel parlato emotivo e, infine, se vi sono, al contrario parametri che dipendono
prevalentemente dalla realizzazione delle emozioni.

Riassumendo, l’interazione tra configurazioni labiali linguistiche ed emotive presa le seguenti


caratteristiche:
- Tutte le produzioni emotive dei tre foni considerati sono risultate diverse dalla produzione neutra;
- Le modificazioni dovute alle emozioni risultano diverse nei valori specifici a seconda del
bersaglio vocalico o consonantico e del parametro considerato, cioè la configurazione finale labiale
nel parlato emotivo non risulta dalla sommatoria del valore specifico sempre identico di un
parametro per ogni emozione e dei valori quel parametro nella produzione articolatoria neutra, ma i
valori della modificazione sono sempre diversi;
- Disgusto e gioia sono le emozioni che si distinguono di più: le loro configurazioni labiali sono
caratterizzate da riduzione dei rispettivi valori, mentre paura, al contrario, determina l’aumento
massimo dei valori di questi parametri;
- Gli spostamenti degli angoli delle labbra e soprattutto il calcolo delle asimmetrie orizzontali e
verticali che ne derivano si sono rivelati parametri molto sensibili e specifici delle produzioni
emotive, in particolare della gioia e del disgusto, rispetto alla produzione neutra.

PERSUADERE EMOTIVAMENTE: CONVIENE?


I tre studi di valutazione descritti in questo lavoro si collocano nell’ambito di una serie di studi di
valutazione condotti nel corso del Progetto Europeo Magicster.

PRIMO STUDIO
Obiettivo. L’idea alla base di questo studio era verificare quanto valga, nel dominio della
persuasione a seguire una dieta “corretta”, il cosiddetto “framing effect”, e in particolare la valenza
con la quale il messaggio persuasivo viene formulato. Vengono distinti tre tipi di framing:

- il cosiddetto risky choice, introdotto originariamente da Tversky e Kahneman, che coinvolge la


descrizione degli “outcomes of a potential choice involving options differing in level of risk”;
- l’attribute framing, che riguarda la descrizione delle caratteristiche di oggetti o eventi;
- il goal framing, che coinvolge la descrizione degli obiettivi per i quali una certa azione suggerita
dovrebbe essere seguita.

Nei tre casi, la scelta di rischio, gli attributi dell’oggetto o il goal da raggiungere vengono descritti,
nel positive e nel negative framing, rispettivamente in termini positivi o negativi.

PRIMO STUDIO
Metodo. Nei testi preparati per questo studio, erano inseriti diversi elementi di goal framing. Si
faceva cioè leva, nel positive framing, sull’obiettivo di “realizzare conseguenze positive” eseguendo
l’azione suggerita. Secondo lo schema persuasivo che Walton chiama “from consequences” il
messaggio conteneva, nel primo caso, l’idea di far ricorso alla speranza di star meglio in salute ed
avere un aspetto migliore, mentre nel secondo caso si faceva ricorso alla paura, mostrando gli effetti
del non compiere l’azione.

SECONDO STUDIO
Obiettivo. In questo caso, l’obiettivo dello studio era confrontare come la qualità e l’impatto
persuasivo di un messaggio siano influenzati dal suo contenuto apertamente emotivo.
Metodo. Nello studio erano coinvolti 60 soggetti, divisi in 2 gruppi da 30. Il messaggio positivo
precedente era messo a confronto con un messaggio anch’esso positivo, cioè orientato a mostrare
gli effetti positivi del mangiare vegetali, ma in cui erano inseriti “contenuti emotivi”. Mentre nel
seguito, orientato a “giustificare” le ragioni dell’affermazione precedente, venivano inserite delle
differenze. Nel messaggio “razionale”, sostanzialmente si spiegavano le cause di ciascuno degli
effetti positivi evidenziati.

TERZO STUDIO
Obiettivo. In questo studio, ci proponevano di studiare quanto l’espressione nel viso, da parte del
persuasore, di emozioni che siano coerenti con il contenuto del messaggio, influenzi l’impatto del
messaggio stesso.
Metodo. Il messaggio presentato ai soggetti era quello “razionale e positivo” utilizzato nei due studi
precedenti, ed era pronunciato da Greta, un agente animato tridimensionale molto realistico che è in
grado di mostrare, col viso, espressioni di diverso tipo: turn taking, performativi, belief-relation,
adjectival expressions ed emozioni. La comunicazione senza espressione “facciale” di emozioni è
percepita come leggermene più credibile, più sincera e degna di maggior fiducia e produce un
impatto persuasivo.
CONCLUSIONE
Le proprietà del messaggio considerate nei tre studi sono riconducibili a tre categorie: informatività,
credibilità, e persuasività percepita. Le proprietà dell’agente esaminate rappresentavano una
descrizione della sua percezione come “fonte d’informazione attendibile” da parte dei soggetti
coinvolti nello studio, oppure una valutazione generale del suo aspetto e del suo comportamento.

Una prima considerazione riguarda il metodo adottato negli studi. Era prevedibile che la forza
persuasiva di un messaggio unico e abbastanza breve non fosse particolarmente elevata. Il risultato
forse più inatteso è quello relativo al minore impatto di forme di persuasione che avevamo
progettato come “non puramente razionali” rispetto a quelle “puramente razionali”. Sta di fatto che i
nostri messaggi “emotivi” sembrano essere meno persuasivi di quelli “razionali”, sia che l’emotività
sia espressa attraverso il linguaggio che attraverso l’espressione nel visto dell’agente animato. Una
prima considerazione, a questo riguardo, va fatta sulle condizioni in cui l’esperimento veniva
condotto. I soggetti coinvolti nello studio avevano una motivazione abbastanza alta nei confronti del
messaggio. C’è poi, per quanto riguarda in particolare lo studio n. 3, una riflessione da fare, sulla
limitata efficacia dell’espressività emotiva dell’agente che abbiamo utilizzato (Greta).

EMPATIA E COSTI PSICOLOGICI DELL’AIUTO


L’empatia costituisce uno stato cognitivo-affettivo della struttura complessa. Si è introdotta la
distinzione fra un’empatia “cognitiva”, intesa come “presa di prospettiva” a partire da una maggiore
conoscenza dell’altro da una “affettiva”, intesa come insieme di emozioni connesse al mettersi nei
“panni dell’altro”. La molteplicità e la polisemia del concetto di empatia è evidenziata anche dalla
ricchezza e varietà di contributi sull’argomento. A partire dall’empatia è possibile mettere in luce la
complessità e ricchezza della relazione Sé/Altro e la stretta connessione di dimensioni cognitive e
affettive nel processo di categorizzazione.

L’osservazione delle relazioni rivolte a chi vive una situazione drammatica, fatte salve tutte le sue
specificità, rende più evidenti alcuni di questi aspetti meno indagati dell’empatia, contribuendo a
comprendere meglio anche l’ambivalenza di questi vissuti, se non la presenza di veri e propri aspetti
oscuri. Gli effetti paradossali dell’eccesso di sofferenza sulla relazione con l’altro sono messi in
luce con ancora maggior crudezza dalle situazioni in cui chi soffre è percepito anche come escluso
dalla comunità morale. Tuttavia, si potrebbe ipotizzare che un aspetto importante del
distanziamento sociale o persino dell’ostilità verso chi soffre, sia proprio da attribuire alla gestione
del disagio personale che nasce dalla stessa empatia. L’empatia può essere dunque vista come
un’arma a doppio taglio, che avvicina le persone ma che le può anche allontanare.

Nella nostra riflessione ci siamo proposte di approfondire il ruolo di moderazione svolto


dall’empatia nelle relazioni di aiuto, con cui spesso l’empatia viene messa in rapporto, cercando di
metterne in luce il ruolo di mediazione positiva, ma anche le possibili ambivalenza. Già l’altruismo
rappresenta una sorpresa ed un’eccezione, in una società in cui la norma è l’egoismo. Dal punto di
vista del ricevente, possiamo dunque prevedere che persone con maggiori capacità empatiche
utilizzeranno con più frequenza strategie di corretto utilizzo delle risorse sociali a loro disposizione.

Si sono indagate variabili legate alle caratteristiche della persona che chiede o riceve aiuto: come le
differenze dovute a variabili demografiche (genere, età) e a variabili classiche di personalità.

LA RICERCA
Ipotesi  La nostra indagine parte dall’ipotesi che i costi psicologi associati alla richiesta di aiuto
risultano modificati dal fatto che il contesto d’interazione sia percepito come competitivo oppure
come interdipendente.
Procedura. All’esperimento hanno partecipato 189 studentesse del corso di Psicologia di Comunità,
al terzo anno del corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche dell’Università di Bari. I
gruppi sono stati composti solo da donne sia per evitare l’insorgere all’interno di gruppi misti, di
altre fonti di distorsione delle dinamiche di richiesta ed offerta di aiuto, sia per iniziare a testare la
nostra procedura innovativa di ricerca su persone la cui appartenenza di genere, secondo i già
ricordati studi, usualmente facilita la capacità di richiesta e di ricezione dell’aiuto. In una prima
condizione, il contesto viene presentato competitivo: la ricercatrice-master dice che nel gioco
sopravvive solo chi si assicura personalmente diverse risorse, in una situazione in cui tutti giocano
contro tutti. In una seconda condizione, il contesto viene presentato come interdipendente: in questo
caso, la ricercatrice-mater dice alle partecipanti che la propria sopravvivenza dipende da una
giocatrice-partner, la cui identità rimarrà segreta fino alla fine gioco, a cui sono state affidate.
L’acquisizione delle risorse, viene rappresentata simbolicamente dall’azione di riprodurre su un
foglio, quanto più fedelmente possibile, alcune forme geometriche irregolari, visibili su un foglio
che viene mostrato al momento opportuno dalla ricercatrice-master del gioco. Per acquisire punti le
partecipanti devono riprodurre le forme nel modo più fedele possibile.

Riassumendo:
all’interno dell’esperimento ci sono, aldilà delle specifiche strategie che ogni giocatrice sceglie di
adottare, queste regole da rispettare:
- tutte le forme devono essere ritagliate facendo uso delle forbici e devono avere esattamente la
forma e le dimensioni indicate nel diagramma;
- si possono utilizzare esclusivamente gli strumenti forniti e non è possibile disegnare
sovrapponendo il foglio sul diagramma;
- la richiesta deve essere specifica ma la giocatrice interpellata può decidere se dare l’oggetto
richiesto oppure un altro superfluo; la risposta alla richiesta deve essere immediata e non può essere
rifiutata né ritardata.

Variabile indipendente: l’unica variabile indipendente manipolata riguarda la percezione del


contesto di interazione, presentato in una prima condizione come competitivo e in una seconda
come interdipendente.
Variabili dipendenti: le variabili dipendenti sono in parte osservate direttamente dalle due
sperimentatrici che, presenti nel gioco sotto forma di master e di capo tribù, tengono nota dei
comportamenti cruciali, riportati in seguito in un’apposita griglia di osservazione. In parte, invece,
sono desunte da un questionario somministrato immediatamente dopo il gioco, prima del debriefing
finale.

Sinteticamente, le variabili dipendenti sono quindi le seguenti.

A livello comportamentale:
- L’indice di richiesta d’aiuto: numero di carte richieste utilizzate.
- Il tipo di aiuto dato: numero di strumenti utili o superflui dati.

A livello rappresentazionale:
- Valutazione delle emozioni
- Percezione del contesto di gioco
- Valutazione dell’aiuto richiesto
- Valutazione di sé e degli altri giocatori
- Empatia
Risultati  Va notato in primo luogo che il livello di empatia riportato dalle partecipanti nei
questionari appare sempre abbastanza alto e non varia significativamente a seconda della
manipolazione del contesto.

La percezione generale di affidabilità delle persone, cui eventualmente rivolgersi per aiuto, appare
fortemente correlata alla valutazione del valore dell’aiuto ricevuto: quando cioè si riteneva già a
priori che l’altra giocatrice fosse affidabile, l’aiuto ricevuto veniva valutato come più utile,
vantaggioso e funzionale.

Discussione  lo studio presentato s’inserisce nell’ambito della ricerca sulla relazione di aiuto,
all’interno del quale, partendo dagli studi sul comportamento prosociale, è risultata evidente
l’influenza degli aspetti cognitivo-affettivi costituiti dall’empatia.

Un ulteriore livello di riflessione riguarda gli effetti della manipolazione della variabile
indipendente, relativa alla diversa percezione del contesto di gioco come competitivo o
interdipendente. All’interno del diverso framing di significato, offerto dalla definizione iniziale del
contesto di interazione, l’empatia ha svolto un ruolo interessante di attutimento dei costi psicologici
del ricevere.

In conclusione, l’empatia sembra poter svolgere un ruolo di moderazione dei costi della relazione di
aiuto, suggerendo a cui è aiutato una ricostruzione più positiva delle motivazioni alla base del
comportamento di chi aiuta. Inoltre, alti livelli di empatia tra chi aiuta e chi è aiutato sembrano
poter attutire le emozioni sociali di imbarazzo o di irritazione nel chiedere, rendendo più positiva la
valutazione dell’aiuto ricevuto.

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