Sei sulla pagina 1di 257

Silvana Sibille-Sizia

Liber de Aganis

Un mito lungo 35.000 anni


Quaderno aperto
53
© 2010 Silvana Sibille-Sizia
e
Circolo Culturale Menocchio
via Ciotti, 1 - 33086 Montereale Valcellina (Pn)
tel. e fax 0427 799204
e-mail: circolo.menocchio@libero.it
(Associazione culturale riconosciuta di interesse regionale 2010
L.R. 30/12/2009 n. 24 art. 6)

Sostegno
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Direzione centrale istruzione, formazione e cultura
pantone
DE 66-1C
C30M90Y100K30

Ass. “Lis Aganis”


Ecomuseo Regionale delle Dolomiti Friulane
Collana Il gomitolo delle Agane, n. 0

Collaborazione

Comunità Montana
del Friuli Occidentale

Unione Speleologica Pordenonese - CAI Club Alpino Italiano

Il volume è stato curato per la stampa da


Aldo Colonnello, Rosanna Paroni Bertoja, Silvana Sibille-Sizia

Per l’edizione in commercio


Olmis, via Andervolti 23 - 33010 Osoppo (Ud)
tel. 0432 975056 - fax 0432 891647
e-mail: olmis@olmis.it

Progetto grafico della collana e impaginazione


Interattiva - Spilimbergo (Pn)

Stampa
Litoimmagine - Rive d’Arcano (Ud)

ISBN 978 88 7562 094 3


Silvana Sibille-Sizia

Liber de Aganis
Un mito lungo 35.000 anni

Circolo culturale Menocchio


A Irene, Ludovica e Alberto i quali, quando erano piccini,
pensavano che la loro “nonnanana” fosse (quasi) una fata.
Con tenerezza.

A voi del Menocchio.


Con amicizia e affetto.
Premessa

Nel sesto trattato del Liber de Nymphis Paracelso1 scrive che Dio
ha creato gnomi, silfidi, ninfe e ondine per dare dei custodi alla
natura, a tutte le cose che esistono nella natura.
Gli gnomi custodiscono materie prime come l’oro, l’argento,
il ferro, affinché i giacimenti non vengano sfruttati troppo in
fretta, dato che i tesori della terra devono bastare fino all’ultimo
giorno della creazione, e ospitano animali selvatici nelle loro
abitazioni fra i monti, soprattutto camosci, perché i cacciatori
non ne facciano strage.
Anche gli spiriti del fuoco svolgono funzione di custodi per-
ché tengono sotto controllo gli incendi.
Le silfidi sono le guardiane delle rocce e proteggono la superfi-
cie della terra dalle devastazioni, le ondine custodiscono i grandi
veri tesori della natura, che non sono né l’oro, né i diamanti,
né… il petrolio, ma le acque.
Gli spiriti elementari sono benevoli; solo menzogne e ingan-
ni, infedeltà o eccessiva curiosità provocano azioni vendicative.
Mentre Martin Lutero, d’accordo in questo con la Chiesa
cattolica, riteneva che il mondo degli spiriti fosse semplicemente
da ricondurre a Satana, Paracelso pensava che esso esprimesse
la magnificenza della creazione e il fine delle sue visioni sociali
era un uomo nuovo, in sintonia con Dio, con la natura e con gli
spiriti che custodiscono tutte le cose.
Occupandomi di loro, comunque si chiamino, vorrei dimen-
ticare tutto ciò che è stato detto e scritto a proposito di alluci-

5
nazioni e superstizioni, magie e stregonerie, amanita muscaria e
segale cornuta e credere che davvero Dio abbia dato dei custodi
e più spesso delle custodi a tutte le cose, alle acque, alle grotte,
alle sorgenti, ai luoghi dove per tanto tempo coloro che prima di
noi hanno percorso i sentieri della vita hanno saputo vedere gli
spiriti della natura, riconoscerli e rispettarli.

6
Capitolo I

Le identità

7
8
Il catasto delle grotte
e l’anagrafe delle loro abitatrici

Dai dati catastali relativi alle grotte del Friuli risulta che 17 di
esse erano abitate dalle Agane, 2 dalle Fate, 1 dalle Krivapete,
1 dalle Torke, 1 dai Silvani, 3 dai Pagani, genericamente, e 3
dalle Pagane2. La toponomastica registra crez delle Agane a
Tualis, a Maranzanis, a Montenars e busis a Rigolato, a Poffabro,
a Ragogna, a Budoja.
Presso le sorgenti del Barquet, tra Anduins e Vito d’Asio, c’è
una grotta che si chiama Cjasa de las Aganas e la stessa fonte di
acque solforose, prima che ne venissero sfruttate e pubblicizzate
le proprietà terapeutiche, si chiamava “delle Agane”.
A Prato Carnico le Agane (il termine italiano traduce di-
versi nomi friulani, Ganis, Anguanis, Vaganos, Saganes, Aganis,
Linguanis, ora con la desinenza, nel singolare, in a, ora in o, ora in
e o in i, secondo le varianti linguistiche locali) abitavano in una
grotta (tas Navals), a Susans, sul colle di San Rocco, stavano là
dove ci sono quattro busis e spesso i racconti popolari parlano di
Agane o di figure mitiche analoghe ad esse benché diversamente
chiamate che vivevano in cavità di vario genere: a Maniago i cac-
ciatori che si appostavano davanti a una tana in attesa della volpe
o della lepre ne vedevano uscire le Fate; in una grotta presso Idria
e in una grotta dalle parti di Valle dimoravano le Krivapete, e le
Torke di Prestento uscivano anch’esse da una buca, un po’ lontano
da Valle, nel bosco; a Tualis c’era anche una Tana das Strias e c’era
una Buse das Strias a Cavons di Cesclans presso Covazzo; Streghe
abitavano nella grotta Zannier nell’alta valle dell’Erbezzo3.

9
Anche oltre i confini del Friuli, nel Veneto e in tutta la
regione alpina orientale, permangono, nelle tradizioni orali,
numerosissimi toponimi, solo in parte registrati dalla cartografia,
che individuano negli elementi di discontinuità del territorio
(emergenze delle rocce, grotte, antri, sorgenti, laghi, corsi d’ac-
qua, stagni, paludi) il rifugio o la dimora di Esseri soprannaturali
femminili, oggetto di credenze e protagonisti di leggende sostan-
zialmente simili.
In Cadore si registrano microtoponimi quali il Sass dele
Guane, il Croz dele Vivane, il Buso dele Angoane, il Crep dele
Longane, il Covolo dele Guandane, il Cadin dele Fate, il Covolo dela
Stria, il Bûs dele Fave, la Grota dele Selvadeghe, il Cogol dele Vane e
probabilmente nomi simili hanno avuto le caverne della Croda
Marcora in cui abitavano le Anguanes di San Vito di Cadore che
vi custodivano le anime dei bambini morti senza battesimo4.
Le Anguanes di Cortina d’Ampezzo vivevano invece nel lago
Scin e nel lago di Noulù e in comune di Lozzo di Cadore c’è un
grande masso, il Perón dele Longane, con una profonda spaccatura
alla base: quando ne esce acqua vol dir che le Longane é davoi fèi
lescìva5.
Nella Valbrenta inferiore, quella veneta denominata Canale
del Brenta, busi o covoli delle Fate ce ne sono dovunque: a
Bassano, a Solagna, a San Nazario, a Cismon, a Valstagna e sulla
strada che sale a Foza, a Collicello. Le Fate erano spiriti buoni,
mandati dal Sioredio ad aiutare la povera gente, uscivano di notte
dai loro antri a lavare e asciugavano il bucato su un filo de lissia
teso da una parte all’altra della valle. Le Fate di Bassano abitava-
no un colle visibile dalla città solo al tramonto e in controluce.
Non mancavano in Valbrenta le Streghe e le Anguane che
abitavano nel minuscolo lago di Subiòlo e striavano i passanti6.

10
Nelle loro dimore rupestri se ne stavano rinchiuse e nascoste
durante il giorno a filare inesauribili gomitoli di lana le Fade del
Vicentino e nascoste se ne stavano le Sälighe tessitrici dei Sette
Comuni.
Fra le popolazioni cimbre dell’Altopiano le cavità verticali
corrispondono ad antichi luoghi di inumazione: una caverna
che si apre alla base della Rota Steela, la “Parete Rossa” del
Küberle è legata alla leggenda di un morto che se la scelse come
definitiva dimora… ultraterrena dopo essere uscito dalla bara,
già tre volte inutilmente seppellita nel cimitero di Roana, ma
di solito i “morti viventi” che non volevano rimanere in terra
consacrata venivano gettati nel Tänzerloch, un pauroso abisso a
Camporovere, dove si andava anche a “comperare” i bambini (i
maschi costavano più delle femmine, naturalmente).
Nei cadaveri gettati in profondi abissi c’è il ricordo di un’an-
tica usanza indoeuropea, ma nel caso di Roana sopravvive anche
l’idea germanica, espressa in molti altri miti, che la vita rinasca
dalla caverna dove sono stati gettati i morti7.
Anche a Palù e a Giazza i neonati si prendevano in una
grotta, e a Mezzaselva in una caverna detta Häusle von Seligen
Weiblein, “Casetta delle Beate Donnette”.
A Luserna ci si rivolgeva a Frau Klafter o alla Frau Perchtega
che teneva la sua scorta di bambini entro botti piene d’acqua
(evidente metafora dell’utero e del liquido amniotico) in una
grotta sul torrente Üasn e li portava lei stessa nel Fürtac dalla
caverna sotto il villaggio denominata “Stanza della Vecchia
Orsola” (non senza probabili riferimenti alle arcaiche divinità
orsine precristiane sopravviventi nelle tradizioni locali o diretta-
mente o perché recuperate a vario titolo nei calendari liturgici).
Anche a Carbonare e a San Sebastiano la Vecchia Signora

11
teneva in serbo i bambini in una grotta e dentro una botte di
crauti. Con Frau Perchtega può essere identificata la Grau (Frau)
Stana che, oltre a occuparsi di neonati, possedeva sugli eventi at-
mosferici lo stesso potere dei maghi, simile in ciò alle Cavestrane,
Strie de l’ega cadorine che potevano scatenare tempeste.
Sorprende, scrive Enrico Gleria, che anche nel Quartier del
Piave esistano tradizioni simili (nella valle del Soligo i neonati
si “comperavano” nella Busa de la Scalona, una caverna a Farrò)
forse per contaminazioni dovute alla presenza di Cimbri nell’Al-
pago8, o più probabilmente per il permanere di uno strato arcaico
di credenze largamente condivise connesse all’idea che la Terra
Madre accolga i morti e nello stesso tempo generi o rigeneri la
vita nelle umide e oscure cavità dal suo grembo.
Più a occidente, nella media Val d’Illasi, a 705 metri d’altitu-
dine si aprono, a est della contrada Edri e a breve distanza una
dall’altra nei Calcari grigi di Noriglio, due grotte conosciute co-
me Tane de le Fade. La maggiore è registrata e rilevata dal Catasto
Grotte della sezione di Verona con la denominazione di Buso de
le Fade o Grotta delle Fate.
Al limitare della Val d’Illasi, él Cóelo (il “covolo”) di Cogollo
si trova in una situazione folklorica quantomeno ibrida rispetto
a quella riscontrata nel vicino areale degli Edri poiché qui, già
fuori dei limiti geografici cimbri, s’impongono creature fantasti-
che di ben diverso carattere rispetto a Fade, Anguane e Genti
Beate: la grotta e i dintorni del Cóelo erano abitati dalle Strie che
giravano di notte a operare malefici contro persone e animali9.
Nella bassa Val Tramigna, nello stretto Vajo de le Angoane si
aprono tre Busi de le Anguane. Lavavano e facevano asciugare il
bucato durante la notte, ma di giorno non restava traccia del loro
lavoro, né erba calpestata, né rami spezzati, né panni dimentica-

12
ti, solo si udivano uscire dagli antri le loro voci melodiose simili
a quelle delle Sirene10. Sulla melodiosa voce delle Anguane è
lecito tuttavia nutrire qualche dubbio dal momento che nel
Veronese esistono due espressioni contraddittorie: cantar come
on’Angoana e zigar (gridare, strillare, stridere) come on’Angoana.
La cosa più interessante è però che questi detti siano diffusi in
tutto il territorio, mentre le Anguane, canore o silenti, sono oggi
reperibili solo nella Lessinia orientale11.
Quanto al lavaggio, che pure rappresenta la specifica e al-
tamente qualificata attività professionale delle Agane (quelle
di Boscochiesanuova riuscivano addirittura a sbiancare la lana
delle pecore nere12), esiste almeno un’eccezione: le Onganes di
Ampezzo possono essere pessime lavandaie tanto che un bucato
mal riuscito può definirsi lissia de ra Onganes.
Prima di concludere questo assai incompleto e solo orienta-
tivo repertorio ‘catastale’ delle caverne magiche del Friuli e del
Veneto, una parola almeno per le “grotte lattaie” collegate ai
parti e alle nascite come gli antri e gli abissi dell’Altopiano dei
Sette Comuni e presenti un po’ dappertutto in Italia e in Europa,
caratterizzate da infiltrazioni d’acqua che scivolano lungo le
stalattiti della volta e avrebbero il potere di garantire alle madri
latte sufficiente per allevare i loro bambini. Ne sono esempi la
Fontana del Boro a Ciano del Montello abitata alla ninfa Ciane e
collegata al mito di Persefone, o la Grotta delle Tette di Mossano
nei Colli Berici nella quale hanno persistito fino a qualche de-
cennio fa rituali apotropaici13.
Oggi vi si venerano di solito Santi e Madonne, ma i ritrova-
menti archeologici in esse effettuati dimostrano che erano sede
di culti relativi alla maternità e all’allattamento da tempo imme-
morabile, talvolta già dal Neolitico.

13
A Montereale Valcellina, invece, una grotta e un ampio sot-
toroccia contigui con caduta d’acqua dall’alto sono chiamati La
Linguano, che è uno dei nomi delle nostre Agane/Fate/Streghe,
mentre nel friulano locale la grotta dovrebbe chiamarsi cufurlon,
come attesta, ancora a Montereale, il Cufurlon del Pol.
In passato la cavità deve essere stata la dimora di una picco-
la dea che poi se ne è andata, forse infastidita dall’implacabile
avanzare dell’edilizia abitativa ‘umana’, lasciando in ricordo di
sé soltanto un toponimo.
Il rapporto, sotteso ma ancora percepibile, tra la Agana/
Linguano e la grotta come formazione geologica di valenza sacra,
accesso al grembo della Madre Terra che accoglie i morti nel suo
oscuro mistero e li rigenera perché continui la vita, sembra con-
fermato dall’esistenza, nel sottoroccia, dei resti di una costruzione
in muratura dove aveva la sua bottega un fabbro, che faceva
anche il cavadenti e, genericamente, il medico. L’esercizio di un
mestiere che è il più significativo tra quelli legati alla trasforma-
zione dei metalli per l’importanza e l’ambivalenza dei simboli ad
esso connessi, l’intervento sui denti, a loro volta portatori di com-
plesse simbologie, e l’esercizio della medicina in termini di arte
terapeutica popolare non esente da connotazioni magiche già
farebbero del nostro cavernicolo un personaggio interessante, ma
Antonio figlio di Adamo era anche e forse soprattutto uno striòn.
Raccontano Elvia e Renato Appi e Rosanna Paroni Bertoja
che uvì de la Linguano al ero li’ ruvinis de ‘na ciàso vècio. Il striòn
Toni de Adamu, al steva sot la Linguano e al fevo al miede. Le don-
ne, quando avevano un bambino ammalato, gli portavano una
sua camicina e Toni, uscendo dalle rovine della vecchia casa, al
cuminséva a fâ dus i sést parsoro de ‘sta ciaméso14 usata come stru-
mento di un rituale esorcistico.

14
Paul Sébillot registra chez les peuples celto-latins la credenza
che si potesse curare un bambino ammalato immergendo la sua
camicia in una sorgente sacra per poi rimettergliela addosso.
Aggiunge che, piuttosto diffusa in Francia, la consuetudine sem-
bra meno nota altrove ma è attestata, per esempio, in Valtellina
presso una sorgente di San Luigi conosciuta per il potere di gua-
rire coloro che soffrono per le conseguenze di un incantesimo15.
Umberto Sanson, oltre ad accompagnarmi nel luogo dove
vivevano le Agane di Budoja, fuggite quando nella loro radura
tra gli alberi è stato costruito un serbatoio d’acqua ad uso co-
munale, mi ha raccontato che alle sorgenti del Livenza, poco
lontano dalla Santissima di Polcenigo, dove ora c’è una cappella
dedicata alla Madonna in corrispondenza di una risorgiva isolata,
viveva una ninfa dal nome molto significativo di Sequama, o più
probabilmente Sequana, e non solo per via del morfo -aˉna su cui
vi sarà occasione di tornare. C’erano infatti in Gallia, al tempo
della conquista romana, molti santuari posti sopra le sorgenti
dei fiumi: alle sorgenti della Senna vi era un santuario dedicato
a Sequana come alle sorgenti della Marna vi era un santuario in
onore di Matrona, nomi o appellativi di una Grande Dea celtica.
I Sequani, che abitavano tra l’alto Rodano e le sorgenti del
Reno, portavano, come altri popoli della Gallia, il nome della
loro Madre divina e alle sorgenti della Senna sono stati trovati
moltissimi ex-voto che testimoniano il potere curativo delle
acque e della dea Sequana, ma anche l’acqua della risorgiva di
Polcenigo abitata dalla ninfa Agana/Sequana era miracolosa,
almeno per la salute degli occhi, e un qualche rapporto con una
qualche Dea antica doveva averlo se, fino a un recentissimo,
stravolgente e dissacrante rifacimento, si raccoglieva in una va-
sca a forma di crescente lunare.

15
Talvolta le Agane vengono scambiate e confuse con le donne
dei Salvans o dei Pagans e la resiana Dujacessa viene considerala
ora un Essere mitico, ora la moglie del Dujak che corrisponde al
Salvadi friulano così che, preliminarmente, converrà dedicare ad
essi almeno un cenno.
L’uomo Selvaggio, il nostro Salvadi, il Salvanèl trentino, il
Salbanelo dell’Altopiano di Asiago e i loro omonimi e omologhi
sparsi un po’ dappertutto sulle nostre montagne, che Massimo
Centini considera uno degli strani enigmi della cultura folklo-
rica europea e ricollega alla figura archetipica dell’emarginato16,
hanno forse origine preistorica.
Nei Pagani del Friuli sono forse confluiti protagonisti più re-
centi della nostra storia: Celti, come scriveva nel 1894 Giovanni
Gortani17 “troppo assueti alla vita libera che quando i Romani,
già stanziati saldamente in Aquileia, spinsero la prima volta le
loro legioni fra le Alpi nostre, cercarono in mezzo alle foreste un
asilo, pure di sfuggire al giogo intollerabile dei conquistatori”,
o, come nel 1899, scriveva Olinto Marinelli18, “ostinati cultori
dell’idolatria ritirati nelle grotte e nei luoghi più selvaggi dei
monti per sfuggire alle persecuzioni dei cristiani”.
Nel Bresciano “sopra eminenze ad Inzino e Zone ed in altri
luoghi montani vi sono ruderi di povere edicole che chiamansi
tuttavia Pagà (Pagani) dove per molti secoli dopo la prevalenza
del Cristianesimo nei nostri paesi si raccolsero pastori e con-
tadini a praticare i riti antichi a quel modo che continuavano
a venerare gli alberi sacri e le fonti”, scriveva nell’Ottocento,
Gabriele Rosa19.
I Pagà richiamano le espressioni friulane là de colone, là de
ancone con cui si indicavano luoghi riferibili alla celebrazione
del sabato, attestata nel Patriarcato di Aquileia al tempo di San

16
Paolino e del concilio di Cividale del 796, e rimasta in vigore fi-
no al XVII secolo. La religiosità aquileiese, di matrice alessandri-
na, avrebbe fatto propri e conservato nei secoli riti “di carattere
e pratica popolare, o anzi contadinesca” come scriveva nel 1956
Guglielmo Biasutti20, di tipo sabbatico-pentecostale-agrario. Le
chiesette e i capitelli di Sante Sàbide, “miracolose reliquie di un
più che millenario costume religioso ci autorizzano a parlare
senz’ombra di dubbio di un sabato friulano vigente dai tempi
antichissimi fino ai recenti nelle campagne dell’Aquileiese, com-
preso il Concordiese e quella che in seguito sarà la Carniola”.
Probabilmente nella Santa Sàbide/Sabbata/Sabina, più che
uno dei tratti specifici del primitivo Cristianesimo friulano, si
può individuare il risultato della convergenza e dell’unificazione
simbolica di tutti quei sabati santi e festivi già presenti nella ma-
trice giudaica, alessandrina, marciana, petrina, antipaolina, tera-
peutica del Cristianesimo aquileiese, cui però vanno aggiunte le
tradizioni dei culti misterici d’origine orientale filtrati attraverso
la cultura greca, romana, ellenistica o direttamente approdati
in Friuli provenendo dai Balcani o dalle steppe dell’Eurasia, da
regioni della storia non solo precristiane e preromane ma pre-
venetiche e preceltiche, le stesse da cui provengono le Fate e
le Streghe, le Matres e le Dee dai molti nomi di cui si parlerà in
seguito21
Tutto ciò sposta i Pagani, o almeno i culti ad essi riferibili, ben
al di là dei Celti di Gortani. Semmai potremmo concordare sugli
ostinati cultori dell’idolatria di Marinelli essendo ragionevole
pensare che l’isolamento geografico in cui si sono trovate fino ai
nostri recentissimi giorni abbiano favorito la conservazione, tra
le popolazioni della montagna, di pratiche rituali estremamente
arcaiche.

17
Le visite del cardinale e arcivescovo di Milano Carlo Borromeo
e la fitta verbalizzazione ad esse relativa hanno lasciato una pre-
ziosa testimonianza delle culture agresti nella Lombardia del XVI
secolo e dei riti legati alla venerazione primordiale delle pietre,
in particolare se interessate dalla presenza di incisioni preisto-
riche o protostoriche, in luoghi dove persistevano tradizioni e
leggende che parlano di fate, streghe, pagani, diavoli e santi.
Si parla di Fate a Sonico, di Streghe a Berzo Demo e a Dosso
Fobbio, a Garda la Valtrompia è denominata la Val de le Strie.
La toponomastica registra un Dos (dosso) de le Strie e un Cut
(spelonca) de le Strie in Valcamonica, nel parco dell’Adamello
un insieme di rocce incise studiato da Ausilio Priuli va sotto il
nome di Còren (roccia) de le Fate22.
Nelle figure di Agane molto primitive come quelle di cui
parla l’abate Leonardo Morassi, che vivevano da troglodite sopra
Maranzanis e d’inverno, nude, scendevano in paese a mendica-
re, o quelle di Grions di cui si aveva paura perché erano Striis e
soprattutto nelle storie crudeli e notissime delle Agane/Streghe
che rapivano, mettevano all’ingrasso, facevano bollire in pen-
tola e si mangiavano a scottadito i bambini disobbedienti che
si erano allontanati da casa o che esse erano riuscite comunque
a rubare nei paesi23 si possono forse riconoscere episodi di frain-
tendimento o di demonizzazione di gruppi culturalmente diversi,
i Celti di Giovanni Gortani, gli ostinati cultori dell’idolatria di
Olinto Marinelli, frange di barbari guerrieri dispersi nel corso
delle invasioni e scorrerie dell’Alto Medioevo e rifugiati nei
boschi, in luoghi appartati e inaccessibili, in piccoli agglome-
rati di abitazioni primitive o in rifugi attrezzati nelle grotte e
nei sottoroccia, dove potevano continuare a vivere secondo i
loro costumi e a celebrare i loro riti tradizionali di antichissima

18
origine, da parte di popolazioni già convertite al Cristianesimo,
secondo un procedimento analogo a quello attestato dalle leg-
gende dell’Irlanda medioevale cristiana che ha assimilato gli
invasori scandinavi, pagani, del IX-X secolo ai Fomori dei miti
arcaici, personificazione di forze oscure, Esseri malefici e deformi
che ispiravano paura ma con cui non si poteva evitare di avere
rapporti anche intensi24.
Entro un universo di rappresentazioni simboliche che affon-
dano le loro radici in un passato spesso estremamente lontano
e sono giunte fino a noi in forma di relitto attraverso una lunga
tradizione orale, gli scambi di nome e di persona, le contami-
nazioni e le confusioni tra racconti diversi, l’incertezza e la di-
scontinuità dei significati sono inevitabili, ma il confronto tra le
testimonianze archeologiche, storiche, folkloriche individuabili
entro ambiti spaziali e temporali il più possibile estesi consente
spesso di riordinare, riorganizzare e reinterpretare i dati di cui
siamo in possesso.

19
Archeologia e mito

In casi, per esempio, come quelli della Spilugne di Landri che ha


il nome locale di Ciondàr des Paganis nell’alta Val Racchiusana
presso Porzùs, dove scavi paletnologici hanno portato alla luce
reperti che risalgono al Neolitico25, delle Grotte Verdi di Pradis
di Sotto, nella forra del torrente Cosa, affluente dell’Arzino, le-
gate a figure il cui nome oscilla tra Aganas e Paganes non senza
uno slittamento in direzione delle Stries, dove sono state trovate
tracce di insediamenti databili al Neolitico, all’età del bronzo e
all’età del ferro26, o della Buse dai Corvàz di Torlano, nella valle
del Cornappo, abitata da Streghe che di notte ne uscivano per
andare a ballare dietro un’ancone sul sentiero che conduceva a
Cjalminis dove, a seguito di una prima sommaria indagine, sono
stati rinvenuti frammenti ceramici databili attorno al X-XII se-
colo, ma in cui si ipotizza una continuità abitativa iniziata ben
prima del periodo romano e durata sino alla fine del Medioevo27,
è lecito pensare che presenze umane accertate durante la prei-
storia e la storia siano state il punto di partenza di tutta la
successiva elaborazione mitica approdata, nei termini che non
considero riduttivi della religiosità tradizionale e del folklore,
alla dimensione del sacro implicita nello stretto rapporto che la
leggenda ha stabilito tra luoghi per così dire ‘magici’ e divinità
femminili, si chiamino Pagane, Agane o Streghe, termine che
peraltro in ambito mitologico non implica necessariamente le
connotazioni negative che gli sono proprie in ambito inquisi-
toriale.

20
Ciò vale a maggior ragione quando alle Pagane viene attri-
buita quell’attività di “lavandaie notturne” che è proverbiale
delle Agane ma, soprattutto, comune a figure mitiche femminili
presenti, oltre che nelle nostre tradizioni, nel folklore di altre
regioni d’Europa, in particolare, come meglio vedremo in segui-
to, la Bretagna, il Galles, la Scozia, l’Irlanda, ossia i paesi dove
l’etnia, la lingua, la cultura, la religione dei Celti si sono meglio
conservate28. In questo caso non dovrebbe trattarsi di scambio di
persona o di confusione dei ruoli, ma solo di scambio dei nomi
facilitato dalla somiglianza fonetica e mi sembra fuori dubbio che
queste Pagane “lavandaie” non siano altro che Agane.
La distinzione preliminare tra figure riconducibili, forse ma
non esclusivamente, a circostanze storiche e figure che trovano
riscontri significativi solo all’interno di tematiche più propria-
mente mitologiche e devono essere decifrate, nei limiti del possi-
bile, sulla base di codici assai più complessi, mi sembra indispen-
sabile: solo dopo aver liberato il nucleo centrale e primitivo del
nostro scenario di tradizioni folkloriche dalle interpolazioni più
tarde e disvianti, o da quelle almeno che riusciamo a individuar-
vi, potremo cercare in esso le “schegge di ricordi sovente appena
identificabili con cui lo storico – scrive Georges Duby – tenta di
ricostruire un’immagine che spesso proviene meno dal passato
stesso che dal suo sogno”29, ma è probabilmente la sola in grado
di guidarci, attraverso i territori dell’anima che si lasciano esplo-
rare dalla ragione e gli anfratti nei quali “si rannicchia ciò che
sta in fondo alle coscienze individuali”30, alla comprensione dei
sistemi simbolici in cui coloro che ci hanno preceduto nella vita
sulla terra hanno espresso le loro angosce e le loro speranze, dato
forma alle loro ossessioni e spiegazione a ciò che non avrebbero
altrimenti saputo spiegare.

21
Piccole Dee, piccole Madri

Nelle sue Tradizioni popolari in Friuli, a proposito dell’imprecisio-


ne nell’aspetto delle Agane, Andreina Nicoloso Ciceri osserva
che “essa è una caratteristica di tutti i nostri Esseri mitici anche
per ragioni di sostrati e per influenze nordiche e barbariche sui
modelli classici”31, ma, analizzando il loro aspetto e il loro com-
portamento, scavando, per quanto possibile, nel loro passato, mi
sono convinta che in esse sopravvivono, sì, attraverso un’im-
precisione che è il risultato della dispersione di alcuni caratteri
di base unitari nella molteplicità delle personificazioni o delle
rivelazioni epifaniche, elementi di sostrato e apporti successivi
relativamente nordici e relativamente barbarici ma non intac-
cati da modelli mitologici classici o, semmai, connessi a questi
modelli solo quando e in quanto gli uni e gli altri avevano an-
tecedenti comuni preistorici e preclassici, punto d’arrivo – o di
partenza – di ogni ricerca che voglia restituire alla loro originaria
dimensione metafisica le figure centrali della nostra tradizione
folklorica, espressioni di una divinità femminile minuta, dome-
stica, agreste, immaginata come compagna quotidiana della vita
dell’uomo, della gioia, del dolore, del lavoro secondo “l’istintiva
concezione” che Giuliano Procacci32 coglie nello strato profondo
dell’anima popolare italiana.
Tant’è vero che, per esempio, a Pozzo di Codroipo le Fate
andavano ad aiutare la gente nei campi come belle ragazze ve-
stite da spose, di bianco, e, finito il lavoro, sparivano. Talvolta
gettavano un loro filo alle filatrici che al mattino trovavano

22
raddoppiato il filato. A Tiezzo portavano in dono a un vecchietto
del tabacco, verosimilmente da pipa. Nelle valli del Natisone le
Vasnè giravano di notte su un carro magico e nella zona dove il
carro avesse invertito la direzione del suo percorso vi sarebbe sta-
ta quell’anno grande abbondanza di raccolti33. In altri luoghi e in
altre leggende le Agane mettevano a disposizione degli uomini le
loro capacità mantiche prevedendo il futuro, insegnavano segreti
caseari e i sistemi migliori per legare le fascine e fare ritorte di
vimini con cui aggiogare gli animali al traino o legarli all’aratro.
Nella Valcalda aiutavano la gente nelle fienagioni, controlla-
vano di notte il lavoro svolto di giorno nei campi, talvolta avver-
tivano i raccoglitori di legna sul greto del Tagliamento dell’arrivo
dell’onda di piena del fiume e in Val Resia le Dujacesse che
andavano a lavare nel torrente le loro lenzuola, così belle e forti
e di misura così grande che non potevano essere state tessute sui
comuni telai, avviavano conversazioni, amichevoli sfide e baratti
con le persone che incontravano.
Agane, Torke, Desodre, Krivapete dettavano leggi per la fi-
latura, lavoro femminile e notturno per eccellenza e quindi in
rapporto con gli ambigui poteri delle divinità ctonie, premiando
le filatrici obbedienti e giungendo fino a divorare quelle indisci-
plinate.
Ad Anduins, se qualcuno si faceva male mentre era solo nel
bosco, uscivano dall’acqua per aiutarlo, ma quando, a Poffabro,
un ragazzo si innamorò di una delle Anguani che lo avevano soc-
corso essa lo trasportò nel sonno fuori della grotta in cui gli aveva
dato rifugio e lo abbandonò al suo destino.
Le Agane non volevano, infatti, avere rapporti con gli uomi-
ni, vivevano tra loro in gruppi, di solito in triadi34, sotto la guida
di una che era la madre, o la badessa, o la priora, o soltanto la

23
sorella maggiore e procreavano per partenogenesi, di norma fi-
glie (né avrebbero potuto fare diversamente, la nascita di maschi
essendo, nella fattispecie, geneticamente impossibile...) alle qua-
li trasmettevano, generazione dopo generazione, il loro potere di
magia.
Ho registrato in Val d’Arzino la storia raccontata alla mia
informatrice Maria Del Missier di Clauzetto, dalla prozia, nata
nella seconda metà dell’Ottocento: le Aganes di Anduins erano
streghe buone, pericolose solo per le bambine belle e bionde che
si fossero avvicinate agli specchi d’acqua presso cui esse abitava-
no: le rapivano e le portavano nella loro grotta per farne delle
Agane.
A differenza di ciò che avviene nelle altre fiabe della stessa
serie in cui i bambini vengono rapiti indiscriminatamente con
lo scopo dichiarato di farne oggetto di un pasto cannibalico,
qui sono rapite solo bambine belle, scelte per diventare Agane
attraverso vere iniziazioni che, in quanto tali, si svolgono in una
grotta, metafora del grembo materno della Terra da cui tutto
nasce, a cui tutto nella morte ritorna e dove tutto si rigenera per
una nuova nascita.
È, per quanto ne so, l’unica notizia, oltre a quella riportata
da Armando Scandellari a proposito di quattordici Streghe che
in quel di Oliero avevano rapito la figlia di una lavandaia di
Bassano35, relativa ad Agane iniziate e iniziatrici, a una mater-
nità non biologica ma spirituale, a un sapere d’ordine esoterico
tramandato non da madre a figlia ma da donna a donna in base
a una sorta di preventiva selezione attitudinale.
Dati inediti da integrare probabilmente nel contesto delle
credenze e pratiche di tipo sciamanico rintracciabili nella regio-
ne alpina e più che altrove in paesi come il Friuli e la Svizzera

24
che sono stati dalla protostoria, almeno, fino ai nostri giorni
veri e propri crocevia di civiltà diverse, a riprova forse del fatto
che, come scrive Carlo Ginzburg, “una parte importante del
nostro patrimonio culturale proviene, attraverso tramiti che in
prevalenza ci sfuggono, dai cacciatori siberiani, dagli sciamani
dell’Asia settentrionale e centrale, dai nomadi delle steppe”36.
Ho accennato all’ambiguità della Agane che a volte si diver-
tivano con innocenti dispetti: a Remanzacco se si accorgevano
d’essere osservate facevano bocjatis e ridevano, a Magredis ferma-
vano e trattenevano lungo la strada, intrecciando girometis attor-
no a loro, due ragazzi che andavano a morosis. Invece a Torlano
quelle che abitavano, poco lontano dalla Buse dai Corvàz, nella
grotticella della Fontanate, la risorgiva carsica a cui fin dall’inizio
del secolo scorso attinge l’acquedotto del Cornappo, chiamava-
no i passanti, come le Sirene, e li facevano uscire di senno ma
non si lasciavano avvicinare.
Lea D’Orlandi ha registrato la storia della Torka di Valle che
uccise e divorò una filatrice notturna lasciando al marito di lei
solo le budella avvolte sul fuso o, secondo un’altra versione, ap-
pese alla catena del focolare. Nel 1951 un informatore di Valle
raccontava alla stessa D’Orlandi che, una volta, il martedì e il
giovedì non si doveva uscire né vegliare perché le Torke “che
erano dappertutto” mangiavano la gente e di preferenza le donne
che restavano sole in casa o vegliavano da sole. Molto diffusa
è la leggenda della Torka che, dopo aver divorato una filatrice
notturna e solitaria, ne ricompose e rivestì le ossa spolpate così
che il marito, al mattino, non ritrovò sotto gli abiti della donna
nulla più che il suo scheletro.
Anche le Agane di Chiusaforte, quelle che abitavano presso
il torrente Macilla, divoravano gli imprudenti che di notte si

25
avvicinavano alla loro grotta e antropofaghe erano le Krivapete
delle valli slovene del Natisone37, le quali assorbono caratteri
delle Divjedeche e delle Belezene slave che insegnano il tempo
delle semine e dei raccolti, delle Rojenize e delle Sojenize che
proteggono la vita dei neonati e sono simili alle Rusalke russe
e alle Vile dei Serbi, Esseri femminili delle acque che figurano
spesso come triplici o multipli38 cui si chiedeva la guarigione dei
bambini malati di enterocolite, come raccontava all’inizio del
Novecento Paul Sébillot in un ‘inventario’ di riti folklorici che
nell’edizione originale s’intitolava, non a caso, Le paganisme con-
temporain chez les peuples celto-latins39, e insieme assomigliano alle
nostre Agane anche per la caratteristica dei piedi rivolti all’in-
dietro e ad altri Esseri della mitologia slava e tedesca (ma non
soltanto, come si vedrà) che presiedono al lavoro delle filatrici.

26
Culti a sfondo sciamanico

Corrispondenze e analogie che si spiegano anche attraverso


eventi storici, poiché nelle Prealpi Giulie, dall’lsonzo alle sor-
genti del Torre, per oltre quattro secoli dopo l’occupazione franca
non piccoli né deboli gruppi longobardi s’aggirarono e agirono
agglutinandosi via via con la popolazione minuta di tribù slave40.
Carlo Ginzburg, che considera un dato fondamentale per quan-
to concerne la vita e il folklore della nostra regione la presenza di
una componente slava nell’etnia e nella cultura friulana, osserva
come i miti e i riti imperniati sulla raccolta e la ricomposizione
delle ossa degli animali sacrificati, rintracciabili in un ambito
territoriale vastissimo ed eterogeneo che comprende tra l’altro, in
Europa, la Lombardia della fine del Trecento, il Friuli del Cinque-
Seicento e la Lapponia del Settecento, sembrino ricalcare l’ango-
scioso itinerario interiore attraverso cui lo sciamano riconosce la
propria vocazione: l’esperienza di essere fatto a pezzi, di contem-
plare il proprio scheletro, di rinascere infine a nuova vita41.
Nel Friuli che, almeno allo stato attuale delle nostre cono-
scenze, è l’unica regione d’Europa dove tre motivi fondamentali
dei culti a sfondo sciamanico, i viaggi estatici al seguito di divini-
tà prevalentemente femminili, le battaglie notturne combattute
in estasi per allontanare dalle campagne gli spiriti del male e le
apparizioni di morti a individui predestinali si presentano con-
temporaneamente42, le Torke e le Desodre che ricompongono e
rivestono le ossa spolpale delle filatrici disobbedienti mi sembra
possano costituire un quarto elemento di cerniera tra il nostro

27
folklore e lo sciamanesimo eurasico, nel cui contesto la sequen-
za iniziatica di morte-rinascita include un ulteriore elemento
chiaramente anche se non esclusivamente sciamanico, il ritorno
dall’aldilà espresso da uno squilibrio deambulatorio o dalla man-
canza di un osso, sostituito con pezzi di legno o, più raramente,
con altre ossa43.
In fatto di squilibrio deambulatorio le nostre leggende regi-
strano Agane con piedi di capra nell’alto Piave e nell’alto Boite,
con piedi a forma di zoccolo equino o rivolti all’indietro in Val
Raccolana. Avevano i piedi a nandùr le Agane di Chiusaforte
di cui scrive Valentino Ostermann e in genere quelle del Canal
del Ferro. Esseri con i piedi storti sono ricordati a Cergneu. A
Ramandolo si fa il nome della Pacagnola, degenerazione di un
termine slavo equivalente a “piede storto” e “piede storto” signi-
fica anche il nome della Krivapeta. Un caso limite è quello delle
Agane/Linguani’ che abitavano nel Bûs da li’ Colvari’ a Frisanco,
che avevano testa di donna e corpo di capra e, comunque, erano
anch’esse “lavandaie”.
È probabile che dalle loro malformazioni simboliche derivas-
sero anche anomalie deambulatorie in cui sopravvive l’antichis-
simo motivo della zoppaggine che contraddistingue, in molte
mitologie indoeuropee, figure marginali, sospese al limite tra il
mondo dei vivi e il regno dei morti e coloro che hanno compiuto,
nella ‘realtà’ del mito, nell’estasi o nel corso di riti iniziatici, un
viaggio nell’oltretomba. Secondo un’informatrice di Andreina
Nicoloso Ciceri le Agane con i piedi a nandùr erano costrette
a procedere a peàns, ossia a salti, come i canguri, né può essere
normale il passo di chi cammini su zampe di cavallo o di capra.
Quanto all’osso mancante e sostituto con una protesi di le-
gno basterà ricordare le Varvuole di Grado, protagoniste anche

28
di una lirica di Biagio Marin e in cui qualcuno vuole vedere
la mitizzazione dei pirati uscocchi44, che venivano dal mare la
notte dell’Epifania a portar via i mamoli su la barca de vero e ave-
vano gambe de morero. Nel nome richiamano foneticamente la
Vouivre gallica, spesso identificata con Melusina, rappresentata a
sua volta dall’araldica nell’atto di ingoiare un bambino, ma non
saprei dire se sulla base di facili assonanze si possano ipotizzare
convergenze linguistiche e mitologiche attendibili, come non
mi sembrano del tutto convincenti i tentativi di ‘spiegare’ le
Agane/Anguane attraverso la derivazione etimologica del loro
nome dal latino aqua o anguis, ma questo è un altro discorso su
cui torneremo.
Se mettiamo a confronto, per esempio e per non andar troppo
lontano, le nostre Varvuole con la protagonista di una leggenda
tirolese, una ragazza fatta a pezzi e poi resuscitata con un ramo
d’ontano al posto di una costola perduta o spezzata durante il rito
d’iniziazione che ne aveva fatto, appunto, la “Strega di ontano”45,
non possiamo escludere che nelle loro gambe de morero, ossia di
gelso, convergano i due motivi magici, mortuari, iniziatici delle
ossa sostituite e dello squilibrio deambulatorio.
Si può anche osservare come i piedi forcuti, lo zoccolo di capra
o di bue, le zampe d’uccello o di felino, o una banale gamba di
legno siano diventati, a tempo debito, contrassegni del diavolo,
Signore dell’Inferno, in cui il Cattolicesimo ha fatto confluire,
demonizzandole appunto, il maggior numero possibile di divinità
pagane di ogni ordine e grado connesse con il regno dei morti ma
non necessariamente negative.
Ho fatto il nome di Melusina a proposito della Vouivre, ma la
corrispondenza più ovvia è quella che alla sua leggenda collega i
rari casi di matrimonio tra Agane o Krivapete o Torke e uomini

29
ai quali le spose ‘diverse’ procuravano ricchezze e generavano
figli fino al momento in cui essi venivano meno a un qualche
patto preliminare svelandone la natura semiferina o anche solo
violando il tabù del loro nome, che in pratica è la stessa cosa.
Allora abbandonavano per sempre il marito ma tornavano di
nascosto la notte a vestire e pettinare le loro bambine e lasciava-
no ad esse in dono una matassa di lino che non si esauriva mai.
L’analogia tra tutti questi racconti conferma la sostanziale
identità tra Agane, Fate, Melusine, Krivapete, Torke e quante
altre figure ad esse analoghe e omologhe si vogliano aggiungere
all’elenco.

30
Esplorando il territorio

Non posso render conto in questa sede di tutte le informazioni


che sono state raccolte in Friuli sulle Agane, dalla fine dell’Otto-
cento a oggi, da Valentino Ostermann, Lea D’Orlandi, Novella
Cantarutti, Andreina Nicoloso Ciceri e tanti altri ricercatori e
studiosi delle nostre tradizioni popolari, e credo che le ricerche
sul campo, le inchieste tra la gente possano restituirci ancora
tessere disperse da aggiungere al nostro mosaico, anche se sap-
piamo bene che non saremo mai in grado di ricomporlo se non
in piccola parte.
Da sopralluoghi in territori dove pensavo che non ci fosse più
niente da scoprire ho riportato io stessa alla luce qualche signifi-
cativo reperto e penso che sia importante continuare la raccolta
delle informazioni fin che c’è qualcuno in grado di consegnarle
alla nostra memoria, ma credo che i dati di cui siamo in possesso
ci consentano, ormai, di interrogarci sulla reale dimensione sim-
bolica di queste nostre piccole divinità.
Venticinque anni fa Mario Alinei vedeva nelle Aquane delle
valli di Fassa e di Fiemme, presentate dalla letteratura popolare
come perfette conoscitrici del tempo di braikàr, aràr, arpeàr, se-
meàr, seslàr, il simbolo di un’agricoltura diretta e dominata dalle
donne46, e nel 1992, nella sua comunicazione al Convegno su
Immaginario popolare e grotte delle Venezie, Giuseppe Rubini iden-
tificava nelle Agane della Valdastico i primi mitici abitatori del
territorio e collegava le Salinghe della Valle dei Mòcheni a terreni
minerari sfruttati in passato, durante l’età del bronzo o al principio

31
dell’età moderna, mentre le Seileghen Baiblen dell’Altopiano dei
Sette Comuni come le Anguane di Marostica giustificano, in cer-
to senso, la propria esistenza in quanto possono soddisfare uno dei
bisogni fondamentali dell’uomo donando cibo in abbondanza47.
Ma, sebbene gli Esseri mitici siano dei simboli, ossia delle im-
magini evocative che, ricomparendo in epoche e luoghi diversi
possono assumere diversi significati ed offrirsi a diverse chiavi di
lettura, non si dovrebbe dimenticare che le tracce da essi lasciate
nelle tradizioni e nei racconti popolari, riconducibili spesso a temi
fiabeschi troppo largamente diffusi per essere spiegati attraverso
situazioni locali e particolari, e nei toponimi che testimoniano la
loro ‘presenza’ reale nella storia non sono altro che relitti di cre-
denze molto più antiche giunte fino a noi in modo estremamente
frammentario grazie a quella che Giorgio De Santillana chiama
“l’incredibile ostinazione di certe immagini a sopravvivere e a
sopravviversi, vero deposito sacro di epoche perdute”48, esposte
ai rischi della tradizione orale, all’oblio, all’incomprensione, ep-
pure capaci di darci, attraverso lo stesso disordine in cui ci sono
pervenute, la conferma della propria autenticità.
A regioni molto lontane della storia umana si può arrivare,
comunque, qualsiasi percorso di ricerca e di riflessione si voglia
seguire. Giuseppe Rama, per esempio, prende in considerazione
le creature fantastiche di aree intimamente collegate dal punto
di vista folklorico benché geograficamente separate, confrontan-
do l’immaginario delle popolazioni cimbre insediate da alcuni
secoli sull’altopiano della Lessinia e l’immaginario del limitrofo
contado veronese: a ovest della Val d’Illasi le leggende vertono
soprattutto sulle Fade, a est, verso il prossimo territorio vicenti-
no, prevalgono le Anguane, assenti nella narrativa della Lessinia
occidentale.

32
Si chiede se le differenziazioni possano essere dovute alla so-
vrapposizione di diverse ondate migratorie, quali influssi abbiano
avuto sui coloni di lingua tedesca la cultura mitologica preesi-
stente e quella italiana, soprattutto dopo il concilio di Trento
che ha segnato il confinamento definitivo degli Esseri immagi-
nari nelle grotte lessiniche, e, infine, se le Anguane non siano
preesistenti alle Fate e quindi antecedenti alla stessa migrazione
cimbra e abbiano matrice celtica, romana o illirica49.
Ma questa è solo questione di nomi, perché Anguane e Fate
e tutte le altre piccole divinità femminili altrimenti chiamate
delle nostre leggende appartengono allo stesso contesto mitico
e rituale, senonché, decontestuate e separate dal mito e dal rito
cui erano connesse, sono divenute soggetti profani, privi dell’ori-
ginaria valenza esoterica, con esiti talvolta grotteschi come nel
caso della notissima fiaba delle Agane o Streghe carniche che
rapiscono i bambini per farne un bollito e finiscono esse stesse
in pentola ad opera di qualche vittima designata più grandicella
o più furba.
Legarle troppo strettamente a ondate migratorie e a incontri/
scontri di etnie diverse, metterle in rapporto preferenziale o
esclusivo con l’agricoltura al femminile, con il dissodamento di
nuove terre, con lo sfruttamento delle miniere, con il primario
bisogno di cibo di un’umanità sottoalimentata e spesso affamata,
vuol dire consegnarle a ruoli forse utili alla ricostruzione della
storia socio-economica di una determinata regione e certo me-
ritori nella prospettiva di quelli che oggi si qualificherebbero
come interventi umanitari, derubandole però della loro origina-
ria dimensione metafisica oltre che della loro assai più lunga e
complessa vicenda esistenziale.

33
Il Canon Episcopi
di Nicolò Cusano

Credo che a nessuno sarebbe ‘moralmente’ lecito, occupandosi


di religiosità tradizionale e indipendentemente dalle proprie
personali convinzioni, compiere un’operazione analoga nei
confronti dei nostri Santi e delle nostre Madonne, destinatari
anch’essi di richieste e preghiere che di solito sono relative a
bisogni elementari d’ordine materiale.
Durante la Quaresima del 1457 il vescovo di Bressanone
Nicolò Cusano rimproverava i fedeli della sua diocesi perché
festeggiavano e veneravano Cristo e i Santi solo per averne più
beni, più raccolti e più bestiame. Con animo non diverso, dice-
va, da quello con cui due vecchie “decrepite e folli” della Val di
Fassa processate in quello stesso anno dall’Inquisizione si erano
rivolte a una Buona Signora che in lingua italiana chiamavano
Richella, ossia “la madre della ricchezza e della buona fortu-
na”, la stessa divinità femminile e notturna indicata, a seconda
dei luoghi, con nomi diversi, Perchta, Holda, Abundia, Satia,
Oriente e via di seguito, e che egli identificava con “quella Diana
che dicono essere la Fortuna” o meglio con “Artemide, la grande
dea di Efeso”50.
Un insospettabile vescovo del XV secolo, impegnato a
estirpare i persistenti culti agresti che la Chiesa considerava
superstizioni ispirate dal diavolo, riconosceva e teorizzava una
continuità fra le credenze folkloriche dei nostri paesi e dei suoi
contemporanei – le stesse di cui ci stiamo occupando noi qui e
ora – e le religioni dell’Antichità, e non solo dell’Antichità clas-

34
sica poiché i Greci riconducevano al nome di Artemide figure
disparate di divinità femminili straniere tra cui la tracia Bendis,
Dea lunare e portatrice di luce rappresentata a cavallo o accanto
a cavalli come la celtica Epona e la tessala Enodia, la traco-frigia
Adrasteia e la celtica Artio che il gruppo di bronzo dell’Histo-
risches Museum di Berna ritrae, ancora nel II-III secolo, nel
duplice aspetto di orsa e di divinità in forma umana ricalcata sul
modello delle Matres galliche.
Il parallelo tra le preghiere rivolte al Padre nostro che è nei
cieli con animo preoccupato assai più del pane quotidiano che
della santificazione del suo nome o dell’avvento del suo regno
e quelle dirette a un Essere come la Richella fassana, in cui la
Chiesa non vedeva che una manifestazione del demonio, impli-
cava un’esortazione alla tolleranza oltre che a un diverso modo
di vivere la fede, tuttavia, come osserva Carlo Ginzburg, “la
volontà di comprensione e la cristiana misericordia del vescovo
non potevano varcare l’abisso che lo separava dalle due vecchie.
La loro oscura religione era destinata a restargli, nel fondo, in-
comprensibile”51.

35
Una sola Dea Madre onnipotente

Ma noi possiamo tentare di comprenderla, questa oscura reli-


gione, perché non siamo più condizionati dai pregiudizi dell’or-
todossia e abbiamo strumenti di indagine archeologica e storica
che ci permettono di sottrarre le protagoniste degli arcaici culti
agresti alle categorie del diabolico e della superstizione entro
cui il Cattolicesimo le ha relegate quando non è stato indotto o
costretto a ‘convertirle’ e assimilarle.
Riconoscere alle nostre rustiche piccole dee una natura tra-
scendente mi sembra la premessa necessaria a ogni analisi dei
dati che le riguardano e che spesso soltanto i racconti popolari
sono riusciti a trasmettere fino a noi.
Se cerchiamo di rintracciarli non solo nella nostra tradizione
ma anche nelle testimonianze che ci provengono da altri paesi
d’Europa vediamo che tutto, infine, ci riconduce a quella che,
almeno a partire dagli studi di Marija Gimbutas, viene comune-
mente definita “Grande Dea” o “Dea Madre” o “Grande Madre”,
generatrice cosmica che ha regnato sull’universo metafisico del
nostro continente negli ultimi diecimila anni52, ma la cui religio-
ne affonda le sue radici nel Paleolitico.
È possibile che questa Grande Dea sia un’astrazione nella qua-
le unifichiamo arbitrariamente credenze eterogenee e che, sul
piano delle conclusioni teoriche, le ricerche di Marija Gimbutas
oggi non appaiano più valide53, ma rimane il fenomeno straordi-
nario della raffigurazione più o meno stilizzata di figure femminili
che documentano archeologicamente le primordiali forme di

36
esperienza del sacro e quell’emergere della nozione di divinità
che per alcuni studiosi rappresenterebbe uno dei tratti principali
del processo di neolitizzazione.

37
Dalla Grande Madre
alle Matres e alle Fate

Non risulterebbe comunque diverso lo schema complessivo


entro il quale si organizzano sistemi mitici e cultuali incentrati
su “divinità” femminili il cui simbolismo è lunare e ctonio, co-
struito intorno al concetto che la vita sulla terra è in costante
trasformazione nel continuo ritmico succedersi delle nascite
e delle morti, così come non cambierebbe molto l’eventualità
che la Grande Dea non fosse una sola persona divina, Signora
degli animali e delle piante, dispensatrice di vita e reggitrice di
morte, ora antropomorfa, ora celata sotto l’aspetto di un’orsa,
di una cerva, di un’alce, di un serpente, di un uccello, o che, in
alternativa, ognuna di queste epifanie fosse in sé una “divinità”
individuale.
Presso i cacciatori della fine dell’età glaciale in fase di se-
misedentarizzazione e in seguito nelle culture coltivatorie il
mitologema centrale è sempre una figura femminile, dapprima
probabilmente connessa allo sviluppo di una religione domestica
praticata in prevalenza dalle donne, poi considerata custode del
ritmo di produzione agricolo e, per estensione, della vita, della
prosperità, dell’energia sessuale del gruppo.
Con l’arrivo degli Indoeuropei, a partire dal IV millennio
a.C., si ebbero cambiamenti nel sistema abitativo con insedia-
menti sulla sommità delle colline, nella struttura sociale con
l’abbandono del sistema matrilineare per quello patriarcale e
patrilineare, e nelle credenze religiose con l’avvento di divinità
maschili e guerriere.

38
In quest’ambito però il passaggio dovrebbe essere avvenuto in
maniera graduale e, più che una sostituzione, dovrebbe esservi
stata l’ibridazione di due diversi sistemi simbolici poiché, mentre
la classe guerriera dominante affermava l’ideologia androcentrica
indoeuropea, le antiche credenze, in particolare quelle collegate
ai rituali della nascita e della morte, della fertilità della terra,
della periodicità della natura rappresentata dai cicli della luna e
dal succedersi della stagioni, rimasero profondamente radicate nel
sentimento religioso delle popolazioni agricole e la Grande Dea
dell’“Europa antica”, secondo l’ormai celebre definizione di Marija
Gimbutas, sopravvisse nella greca Artemide, nell’italica Diana,
nella tracia Bendis, nella venetica Reitia, in Artio, in Epona e in
altre figure a lei connesse dell’enigmatico mondo religioso celtico
poi precocemente dissolto sotto l’offensiva del Cristianesimo, in
particolare le Matres documentate anche in territori geografica-
mente lontani dall’Europa centrale come la Tracia, in conseguenza
di insediamenti celtici del IV-III secolo a.C., e la Sicilia, dove si
può individuare uno strato profondo di credenze in cui erano pre-
senti elementi celtici di ascendenza tracia54.
Alle Matres sono state dedicate, più spesso da donne, una
grande quantità di iscrizioni rinvenute lungo il corso inferiore
del Reno, in Francia, in Inghilterra e nell’Italia settentrionale.
In un’iscrizione proveniente dal territorio tra Novara e Vercelli
sono associate a Diana e un’iscrizione di Vicenza reca una dedica
a dee chiamate Dianae, collegabili alle Matronae/Junones della
Gallia Cisalpina55, a Szombately in Ungheria, quasi al confine
con l’Austria, in una località popolata da Galli Boi una variante
locale delle Matres erano le Fatae.
Le Matres erano rappresentate di solito in gruppi di tre (ma la
religione dei Celti conosce intere serie di divinità femminili che

39
oscillano tra l’entità univoca e la triade con valore di solito tota-
lizzante) e come Epona esibivano simboli di prosperità e fertilità,
una cornucopia, un cesto di frutta, un bambino in fasce. Erano
protettrici delle partorienti e verosimilmente legate al mondo dei
morti. Anche molti secoli dopo la cristianizzazione e nonostante
l’accanimento con cui il Cattolicesimo ha perseguitato le donne
che avevano raccolto l’eredità della loro antica religione, leva-
trici, profetesse, guaritrici, e le semplici contadine che – scrive
Marija Gimbutas – ne avevano appreso i segreti tramandati dalle
nonne e dalle madri generazione dopo generazione, le Matres
e molte altre divinità benefiche e mortuarie ad esse analoghe,
piccole dee, piccole madri protagoniste di culti locali, hanno
attraversato i secoli annidate nella religiosità tradizionale, nelle
leggende di credenza, nelle azioni rituali, nella toponomastica.
Le nostre Agane e Richella, Abundia, Satia, Rugjea, Rodia,
Erodiade, Erodiana, Hera, Wode, la Matrona, la Maestra, la
Sapiente Sibilla, la Regina degli Elfi, la Regina delle Fate, la
Buona Gente, le Genti Beate, i Buoni Vicini, le Beate Donnette,
le Salinghe, le Cavestrane, le Vivane, le Aquane, le Anguane,
le Linguane, le Torke, le Desodre, le Dujacesse, le Krivapete, le
Varvuole e tutte le altre che, in definitiva, qualunque nome ab-
biano assunto in luoghi e tempi diversi, sono, come s’è detto fin
dall’inizio di questo lungo viaggio a ritroso nel tempo attraverso
la loro storia e alla ricerca della loro identità, delle Fate, ossia
quello che la stessa Gimbutas considera l’aspetto meglio conser-
vato nella cultura tradizionale dell’Europa contemporanea della
Grande Dea creatrice cosmica della preistoria56 e delle divinità
dai molti e incerti nomi dei popoli europei, separati nei secoli dai
mutevoli confini delle loro patrie politiche e delle loro religioni
nazionali, uniti dalle infinite ignorate analogie delle loro creden-

40
ze irrinunciabili e delle loro consuetudini rituali nella cui fittissi-
ma trama le nostre Agane non sono cosa diversa dalle Morrìgan
irlandesi e dalle Mari basche, dalle Ragane baltiche e dalle Babe
Yaghe russe, dalle Ankou bretoni e dalle Vile serbe, dalle Je˛dze
polacche e dalle Perchte tedesche e da tutte le altre dee/donne
nel cui grembo si genera la vita e che per questo, forse, abitano
nel suo cuore e ne conoscono le segrete magie.

41
Note

1 P. MEIER, Paracelso, Roma 2000. Medico, alchimista e filosofo svizzero Philipp


Theophrast Bombast von Hohenheim detto Paracelso (Einsiedeln, Zurigo
1493-Salisburgo 1541), sostenne l’importanza della chimica nella medicina, all’inter-
no di una conoscenza iniziatica dell’essenza di ogni sostanza e quindi del segreto ultimo
dell’uomo e della natura. Cattolico, fu però vicino alle componenti agostiniane del
Luteranesimo. Primo a tenere le sue lezioni in tedesco (a Basilea, tra il 1522 e il 1528
circa) fu con Lutero uno dei modellatori della lingua tedesca nell’età della Riforma, ol-
tre che l’inventore di neologismi scientifici accolti in tutte le lingue. Per la sua aspira-
zione a uno sviluppo integrale dell’uomo, emblematica dello spirito del Rinascimento,
ha esercitato una notevole influenza sulla cultura dei secoli successivi. Secondo la psi-
cologia junghiana l’intera mitologia degli spiriti elementari, così come ci viene traman-
data da Paracelso, rappresenta una miniera di archetipi, preziose metafore e figure psi-
cologiche. Nelle sue lezioni su Paracelso Jung si è concentrato soprattutto sulla figura
di Melusina, che rappresenterebbe un simbolo dell’anima.
2 E. FARAONE, P. GUIDI, Nota su leggende e tradizioni riguardanti le grotte del Friuli, in
“Mondo sotterraneo”, Udine 1975, pagg. 69-127; T. MIOTTI, Castellieri del Friuli, I,
Udine 1977; A. GAROBBIO, “Alpi e Prealpi, mito e realtà”, 6, Bologna 1980; E.
FARAONE, Grotte del Friuli con leggende e tradizioni, in “Speleologia”, 8, Supplemento,
(1982); P. MONTINA, Note di folklore ipogeo, in Grotte ed abissi del Friuli, Premariacco
1987. In questo scritto Montina corregge anche un errore del Catasto che assegna ai
Pagani la grotta di Torreano di Cividale (Fr. 2238) il cui nome è invece Buse des
Paganis. Così Pagani e Pagane si dividono equamente – per ora – tre grotte ciascuno. I
dati risalgno a qualche anno fa, quando ho incominciato a occuparmi di Agane. Non
li ho aggiornati, ma ciò non avrebbe conseguenze sostanziali sull’esposizione generale
dell’argomento e non ne modificherebbe le conclusioni.
3 Tutte le notizie riportate sul conto delle Agane e delle altre figure mitiche femmini-
li ad esse analoghe presenti sul territorio del Friuli, quando non sia indicata altra fon-
te, devono considerarsi desunte da informazioni raccolte da V. OSTERMANN, La vi-
ta in Friuli. Usi, costumi, credenze popolari, Udine 1894, rist. Udine 1978; L.
D’ORLANDI, N. CANTARUTTI, Credenze sopravviventi in Friuli intorno agli Esseri
mitici, in “Ce fastu?”, Udine 1964; A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in
Friuli, Reana del Rojale 1983, e, con particolare attenzione ai dati d’ordine speleologi-
co, P. MONTINA, Note di folklore ipogeo cit. Le notizie relative alle province di
Belluno, Trento, Treviso, Verona, Vicenza, Brescia sono tratte dagli autori e dai testi di
volta in volta citati in nota.
4 D. PERCO, Le Anguane: mogli, madri e lavandaie, in “La Ricerca Folklorica”, 36
(1977), pag. 77.

42
5 D. PERCO, Anguane-Longane: figure del mito nell’area ladina dolomitica, in “Mondo la-
dino”, 22, pag. 411. Ancora D. PERCO, Le Anguane: mogli, madri e lavandaie cit., a pag.
73 racconta: nel Crep dele Longane, sopra Deppo, in comune di Domegge di Cadore, vi-
veva una Longana tanto bella che un uomo volle a tutti i costi sposarla. Lei finì per ac-
cettare a condizione che non la chiamasse mai “Longana piè-di-capra” e quando lo fe-
ce scappò di casa, ma tornava a lavare e pettinare il suo bambino quando il marito era
al lavoro: da quel bambino discende un ramo dei Da Deppo di Domegge, come da
Melusina discendeva la potentissima famiglia dei Lusingano, in più occasioni entrati
nella storia, in particolare con Guido di Lusingano usurpatore del trono di Gerusalemme
dopo la morte di Baldovio IV, sconfitto nella battaglia di Hittin dal sultano Salah ad-
Din, meglio noto come il “feroce” Saladino, e nel 1191 investito del feudo di Cipro da
Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra, allora alla guida della III Crociata, dopo la
morte di Federico Barbarossa e del duca Federico di Svevia, suo figlio. Anche al Vajo
di Suranto un uomo aveva sposato una Striga con l’impegno di non toccarle mai la spal-
la destra: spezzato il patto, lei era sparita. Avevano una bambina. Il padre le chiede:
“come mai hai sempre le trecce ben fatte? Chi è che viene a pettinarti?” “La mamma”.
In un’altra leggenda raccolta nel 1943 a Campo di Cortina d’Ampezzo da G. PERUSINI
e riferita da Daniela Perco il linguaggio è più immediato e realistico: il marito dell’An-
guana, na ota ch’el lea stizà el r’à ciamàda “porca anguana pè de cioura”. Alora ra femena
r’à dito: “Vonto, bisvonto, su pa ra ciadena monto” e se n’è andata passando per il cami-
no, ma can che el s’inzia ra vegnia a fei i laore de ciasa e a vede dei fioi.
6 A. SCANDELLARI, Miti e tradizioni della Valbrenta, in “Folclore, immaginario popo-
lare e grotte”, Castello di Schio 1993, Atti del Convegno, Schio 1998, pagg. 53-54.
7 E. GLERIA, Grotte, latte e fertilità: sopravvivenze, intrecci, miti, in “Folclore, immagina-
rio popolare e grotte” cit., pagg. 42-44.
8 Ivi, pag. 44. È abbastanza ‘naturale’ che i bambini in attesa di venire al mondo, o che
lo hanno lasciato ma non possono accedere a un ‘normale’ aldilà perché privi di batte-
simo, siano accolti in grotte, metafora dell’oscuro grembo della Madre Terra da cui na-
sce la vita e a cui tutto nella morte ritorna, e affidati a figure femminili d’incerto statu-
to ontologico che rappresentano la versione, riveduta e corretta nell’ottica cattolica so-
prattutto post-tridentina, della Dea primordiale creatrice cosmica. Del resto anche tut-
te le nostre storie di Agane che rubano i bambini, se li portano ‘a casa’, li ingrassano, li
mettono a bollire in un pentolone e se li mangiano, sono ambientate nelle grotte e P.
SEBILLOT, Le Folk-Lore de France, Parigi 1904-1907, vol. I, pag. 442 e vol. II, pag. 109,
raccontava che le grotte di Margot-la-Fée (la fata Morgana delle leggende bretoni) si
riteneva fossero state abitate fino a epoca recente (cioè tra la fine dell’Ottocento e il
principio del Novecento) da tribù di fate rapitrici di bambini.
9 G. RAMA, Grotte ed Esseri immaginari tra la media Val d’Illasi e la bassa Val Tramigna,
in “Folclore, immaginario popolare e grotte” cit., pag. 62.
10 D. PERCO, Anguane-Longane cit., pag. 409.

43
11 G. RAMA, Grotte ed Esseri immaginari cit., pag. 64 e nota 6 a pag. 66.
12 A. SCANDELLARI, Miti e tradizioni della Valbrenta cit., pag. 54.
13 E. GLERIA, Grotte, latte e fertilità cit., pag. 41-45. Per la sorgente di Ciano del
Montello cfr. cap. III, nota 31.
14 E. APPI, R. APPI, R. PARONI BERTOJA, Al Striòn, in Racconti popolari friulani
XIV, Udine 1978.
15 P. SEBILLOT, Riti precristiani nel folklore europeo, (titolo originale Le paganisme
contemporain chez les peuples celto-latins, Parigi 1908) Milano 1990, pag. 48. A integra-
zione e aggiornamento di quanto registrato da Paul Sèbillot, da Elvia e Renato Appi
e da Rosanna Paroni Bertoja, mi sembra interessante riferire un episodio che attesta
la persistenza della tradizione fino ai nostri giorni: il primo febbraio 2005, è morta in
un ospedale di Genova una donna incinta, in coma in seguito a un’emorragia cerebra-
le: il marito aveva chiesto che le fosse “staccata la spina” e il primario del reparto di
rianimazione, il comitato etico, medici e teologi si consultavano per decidere se tene-
re in vita la donna fin che la bambina che portava in grembo avesse raggiunto la so-
glia minima di vitalità autonoma o lasciarle morire in pace tutte e due. “Lei viveva –
racconta con le cadenze liriche proprie della cronaca giornalistica di provincia il
Corriere della Sera del primo febbraio 2005, pag. 15 – in una cascina in mezzo ai cam-
pi in provincia di Biella e la madre di lei, cresciuta a pane e fede in un gruppetto di
case in cima a una stradina orlata dai campi a Villanova Biellese è sempre stata una
buona cristiana”. Così a metà gennaio è andata dal suo parroco con una maglietta del-
la figlia, versione aggiornata delle camicine d’un tempo, e gli ha chiesto di benedirla.
Il parroco la ha accontentata, ossia ha cominciato a fare ciò che in Valcellina, a pro-
posito dei sortilegi dello striòn Antonio figlio di Adamo, avrebbero chiamato “dus i
sést parsoro de ‘sta ciaméso”, celebrando un rito di esorcismo certo non ignoto nel
Biellese e trasmesso attraverso una tradizione di origini probabilmente, come sempre,
precristiane.
16 M. CENTINI, Il sapiente del bosco, Milano 1989.
17 G. GORTANI, I Pagani delle leggende, in “Pagine friulane”, VII, 9 (1894), pag. 138.
18 O. MARINELLI, Guida del Friuli, III, Udine 1899, pag. 140.
19 G. ROSA, citato da M. BERNARDELLI CURUZ, Streghe bresciane. Confessioni,
persecuzioni e roghi fra XV e XVI secolo, Desenzano 1988, pag. 111.
20 G. BIASUTTI, Tre singolari incidenze dell’agiografia nella storia del Friuli, in “Sot la
Nape”, 1977, 7.
21 S. SIBILLE-SIZIA, Sante del dì di festa nel territorio del Patriarcato di Aquileia, in “Ce
fastu?”, rivista della Società Filologica Friulana, LXXVII (2001) 2, pagg. 223-260, e,
con lo stesso titolo, nei Quaderni pubblicati successivamente a cura della parrocchia
di san Pietro Apostolo a San Pietro di Feletto (Treviso).

44
22 A. PRIULI e altri, Sonico, il Còren de le Fate. Prima missione di studi di antropologia
culturale. Notizie preliminari, in “Quaderni Camuni. Rivista trimestrale di arte storia e
cronaca locale”, 40, 1987, pagg. 325-370.
23 Per il testo integrale del più noto e dettagliato di questi racconti: S. SIBILLE-
SIZIA, Le Agane della val d’Arzino, in Âs, Int e Cjere. Il territorio dell’antica pieve
d’Asio, N.U. della S.F.F., Udine 1992, pagg. 623-633; per il ratto di bambini in gene-
re: A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 426 e note 75-76 a
pag. 526. La mia informatrice Teresa Zannier, classe 1915, nativa di Rigolato e residen-
te a Codroipo mi ha riferito la frase con cui sua madre raccomandava agli undici figli,
almeno fin che erano bambini, di rientrare a casa prima di sera: si no sios a cjaso prin de
Avemario las Aganos a su puarto vio.
24 F. LE ROUX, La religione dei Celti, in H. CH. PUECH (a cura di), Le religioni
dell’Europa centrale precristiana, Roma-Bari 1988, pag. 101.
25 E. FARAONE, P. GUIDI, Nota su leggende e tradizioni cit., pag. 89; E. FARAONE,
Grotte del Friuli con leggende e tradizioni cit., pag. 3 (Fr. 57); G. P. GRI, Grotta detta
“Ciondàr des Paganis”. Leggende dei Pagans e dei Salvans, in G. BERGAMINI (a cura
di), Civiltà friulana di ieri e di oggi, Udine 1980, pag. 139.
26 N. CANTARUTTI, Friûl dal soreli a murì (scampoli di tradizioni popolari) in
Pordenone, N.U. della Società Filologica Friulana, Udine 1970; E. FARAONE, Grotte
del Friuli cit., pag. 5 (Fr. 116).
27 U. FURLAN, P. MONTINA, Tracce medioevali nella “Fr. 62” grotta di Torlano sui
monti Bernadia sopra Nimis, in “Helice”, I, 1 (1985), pagg. 9-23. Questo per quanto
concerne le grotte friulane, ma anche la più famosa tra le grotte del Veneto, la Fontana
o Grotta del Boro (v. nota 13 e cap. III, nota 31) tipica voragine carsica presso Crocetta
del Montello, in cui viveva una ninfa collegata al mito di Persefone e oggetto di culto
fin dall’epoca romana, era abitata già nel Neolitico.
28 Per la prima proposta di decifrazione del ruolo delle “lavandaie notturne” su cui si
tornerà nella parte II di questo studio cfr. S. SIBILLE-SIZIA, Le Agane della Val d’Ar-
zino cit., pagg. 634-639; Le piccole madri, in Folclore, immaginario popolare e grotte,
Castello di Schio 1993, Atti del Convegno, Schio 1998, nota 13 a pag. 32; Janas-
Aganas, in “Sot la nape” XLVI (1994) 2-3, pag. 134.
29 G. DUBY, Medioevo maschio. Amore e matrimonio. Culture, valori e società, Bari
1988, pag. 179.
30 Ivi, Orientamenti delle ricerche storiche in Francia, pag. 239.
31 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 429.
32 G. PROCACCI, Storia degli italiani, Bari 1971, pag. 54.

45
33 Il tema del carro magico si trova anche in una leggenda trentina tratta da V.
MODENA (a cura di), Le dàlbere de oro. Fiabe, leggende, frammenti di storia locale raccol-
ti tra la gente di Roncegno, Trento 1985, e riportata da D. PERCO, Le Anguane, mogli,
madri e lavandaie cit., pag. 74, dove un carrettiere dei Fraineri sposa, alle solite condi-
zioni e con i soliti risultati, la più bella delle tre Agane che gli hanno chiesto un pas-
saggio. Il carro sembra essere una sorta di mezzo magico che mette in comunicazione il
dentro e il fuori, la natura e la cultura, un’alternativa ‘rustica’ alla nave come tramite
tra due mondi, in particolare quello del vivi e quello dei morti.
34 A parte il carattere magico-religioso connesso alla cifra 3 e la presenza di triadi di-
vine o di una divinità concepita, almeno in una certa fase, come triade nella maggior
parte delle religioni, erano unite in numero di tre molte divinità femminili e più o me-
no mortuarie del mondo greco-romano, le Arpie, le Erinni, le Eumenidi, le Moire, le
Kere, le Furie, le Parche, e dell’Europa barbarica, le Nornen germaniche, la Laima bal-
tica, la Roznicy slava, la Brighid celtica, le Matres e le Fate. Tutte queste figure sono as-
sociate al ritmo ternario che è il ritmo della vita: gioventù, maturità, vecchiaia, oppu-
re nascita, vita e morte, ma anche al ritmo, apparentemente quaternario, delle stagio-
ni e della luna: tre tempi marcati, tre stagioni vive, tre fasi in cui la luna è visibile e un
tempo di pausa, l’inverno, in cui tutto sembra morto ma è soltanto sospeso in attesa che
il ciclo delle stagioni ricominci, e il novilunio, quando la terra è immersa nell’oscurità
in attesa che la luna ancor sia vaga di riandare i sempiterni calli.
35 A. SCANDELLARI, Miti e tradizioni della Valbrenta cit., pag. 54, racconta che a
Oliero quattordici Streghe rapiscono la figlia di una lavandaia bassanese, la educano ai
più segreti arcani della loro arte e poi la spediscono a Venezia, dove, del resto, c’era già
per tradizione un consistente gruppo di Streghe/Maghe. Qui la ragazza ha vita avven-
turosa e di successo, anche in virtù del suo coinvolgimento con la massoneria (!).
36 C. GINZBURG, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, pag. 276.
37 F. MUSONI, La vita degli Sloveni, Palermo 1986.
38 F. VYNCKE, La religione degli Slavi, in H. CH. PUECH (a cura di), Le religioni
dell’Europa centrale precristiana, Roma-Bari 1988, pagg. 11-12.
39 P. SEBILLOT, Riti precristiani nel folklore europeo cit., Milano 1990, pag. 52.
40 G. BIASUTTI, La lunga fine dei Longobardi in Friuli, Udine 1979, pag. 14.
41 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 231.
42 Ivi, pagg. 74-75.
43 Ivi, pag. 232.
44 Penserei piuttosto a un fenomeno di demonizzazione dei pirati uscocchi analogo a
quello che ha interessato gli “ostinati cultori dell’idolatria” di Marinelli in Friuli, o gli
invasori scandinavi del IX-X secolo in Irlanda.

46
45 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 229.
46 M. ALINEI, Silvani latini, aquane ladine: dalla linguistica all’antropologia, in “Mondo
ladino”, IX, 1985, nn. 3-4.
47 G. RUBINI, Il ricordo dell’insediamento umano nei racconti popolari dell’Alto Vicentino
sulle Anguane e i Salbanei, in “Orchi Anguane Fade in grotte e caverne. Dalla tradizio-
ne cimbra ai miti delle Venezie. Atti del convegno”, 1991, Curatorium Cimbricum
Veronese 1992, pagg. 165-176.
48 G. DE SANTILLANA, Fato antico e Fato moderno, Milano 1986, pag.165.
49 G. RAMA, Grotte ed Esseri immaginari cit., pagg. 57-66.
50 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 70-73 e 107-108.
51 Ivi, pag. 72.
52 M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea Madre nell’Europa ne-
olitica, Milano 1990, pagg. XV-XVIII: le credenze delle popolazioni agricole circa la ste-
rilità e la fertilità, la fragilità della vita e la costante minaccia di distruzione continua-
no a vivere nel presente, così come gli aspetti arcaici della Dea preistorica, nonostante
il continuo processo di erosione dell’era storica. Le antiche credenze testimoniate in
tempi storici o quelle ancora esistenti in aree rurali e periferiche d’Europa, specie nei
paesi baschi, bretoni, gallesi, irlandesi e scandinavi, o dove il Cristianesimo fu intro-
dotto molto tardi come la Lituania (non prima della fine del XVI secolo) sono fonda-
mentali per la comprensione dei simboli preistorici dal momento che queste versioni
tarde ci sono note nei loro contesti rituali e mitici. Per questo Marija Gimbutas può
scrivere che la Grande Dea generatrice cosmica ha regnato sull’universo metafisico del
nostro continente negli ultimi diecimila anni, e aggiungere (pag. 319) che in epoca cri-
stiana la Dispensatrice della nascita e la Madre Terra si sono fuse nella Madonna, os-
servando come nei paesi cattolici il culto della Vergine superi quello di Gesù e nell’ar-
te popolare l’immagine della Madre di Dio appaia spesso molto più grande del natura-
le rispetto al piccolo figlio che tiene in grembo.
53 A. M. STEINER, E l’uomo creò la donna, in “Archeo, attualità del passato”, XXII, 6,
giugno 2006, editoriale, pag. 3.
54 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 99-107.
55 F. LANDUCCI GATTINONI, Un culto celtico nella Gallia Cisalpina. Le Matronae-
Junones a sud delle Alpi, Milano 1986, pag. 51. M. DE MIN, La città invisibile. Padova
preromana. Trent’anni di scavi e ricerche, Padova 2005, pag. 113: il culto di Giunone in
area paleoveneta è attestato per Padova da TITO LIVIO, X, 2, 7-15, il quale ricorda
l’esistenza nel IV secolo a.C. di un santuario a lei dedicato dove i patavini avevano ap-
peso le spoglie vinte nella battaglia contro Cleonimo. Giunone dovrebbe essere la ‘so-
lita’ interpretatio romana di una divinità venetica di cui non conosciamo il nome (forse
la stessa Reitia, collegata però di preferenza a Artemide/Ecate), ma la notizia di Livio è
comunque significativa perché Giunone è il corrispettivo capitolino della greca Hera e

47
la dea venetica interpretata come Giunone/Hera e destinataria delle spoglie dei nemi-
ci uccisi dovrebbe contenere lo steso nucleo funerario che C. GINZBURG, Storia not-
turna cit., pagg. 81-82, individua nella Hera greca e nella “fera” Era, o Hera, o Haerecura
celtica, alla quale sono state dedicate iscrizioni databili tra la fine del IV e l’inizio del V
secolo rinvenute in Istria, in Svizzera, nella Gallia Cisalpina.
56 M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea cit., pag. 319. Della stessa autrice è stato pub-
blicato postumo l’ultimo libro Le dee viventi, edito dall’Università della California nel
1999 e nella traduzione italiana a Milano nel febbraio del 2005, con una bella introdu-
zione di M. DONI, Ta arkhaîa, tempora ignota. Per un’epistemologia dell’archeologia.
Marija Gimbutas vi riprende i temi delle opere precedenti integrandoli con i risultati
delle sue ricerche più recenti applicate alle civiltà storiche dell’Europa antica, i monu-
menti e i resti micenei, greci, etruschi, baschi, celtici, germanici e baltici.

48
Capitolo II

La storia
e le storie

49
Ricettario magico:
che cosa bolle in pentola?

Nelle sue Tradizioni popolari in Friuli Andreina Nicoloso Ciceri


scriveva che le Agane sono forse le creature più inquietanti del
nostro scenario mitologico1. È vero, ma sono anche le più cono-
sciute. In particolare quelle del Barquet che, a differenza di quasi
tutte le loro sorelline sparse per il Friuli e delle altre che con
nomi simili o diversi hanno stabile dimora al di qua o al di là dei
nostri confini, possono vantare, e non nel linguaggio essenziale
delle schede ad uso di inventario o catalogazione, ma in quello
più discorsivo e articolato del vero e proprio racconto di fate, una
tradizione scritta di cui ormai si è ‘celebrato’ il centenario.
E cento anni sono pur sempre qualcosa per chi, come noi,
fondi, a ragione o a torto, le proprie certezze sulla parola scritta.
Niente forse per gli Esseri mitici che misurano i giorni della vita
sui ritmi della loro storia perduta in abissi temporali vertiginosi
o giunta fino ad oggi attraverso millenni di tradizione orale con
le contaminazioni, alterazioni, confusioni, scambi volontari o
involontari di nome e di persona che ne sono l’inevitabile con-
seguenza.
Il testo integrale del racconto è apparso anonimo, come
documento di variante linguistica locale, nel 1891 in “Pagine
friulane”2 ed è stato ripubblicato nel 1928 in “Ce fastu?” a firma
di Giovanni Battista Gerometta3.
Ne riporto la parte centrale, la vera e propria “storia” come il
nonno di Gerometta la raccontava a lui bambino, tralasciando le
considerazioni che la introducono e la concludono.

51
Dongia il riu, c’al si clama Barcuia a si uad un gran busat, cun
t’un gran puarton dutt di clapp, un bûs mo’ lung e strett, mo’ larg
come una sala, dutt plen di nòtoi ch’ai svuala cà e là e ch’ai fass pôra.
Chell bûs al si clama “la çhasa da las saganas”. Las saganas as era
strias. As steva la denti simpri platadas via pal dì; ma di nott, dutas
tria, as zeva attor cà e là, a fà pôra a chell e a chest alti e a puartà via
dutt ce ch’as podeva grampà.
As veva dai ving ai trent’agn, as tigniva las strezzas a pendolon
pa las sçhalas, cun tun çhamesott neri neri, una cintura blançha, i
vuai da spiritadas: as sameava las faméas da la muart. Basta dî ch’as
veva côr da copà garzunitz e dopo da mangiâi... Cussi as veva fatt
di cetang...!
Un miercoi as lavâr dutas tria denant dì: dos as zêr a S. Dinial,
vistidas come ches altas feminas dal paìs, e la pì zovina a tornà ta la
so çhasa dopo via robà un fantulin. Ma chesta volta a no veva podû
fala françha. Cemua foe, cemua no foe, par dila in dos paravolas, a
gi passà mal.
Las dos saganas, sul zi a mont il soreli, as riva da S. Dinial cun
t’una fan dal demoni, as crua da çhatà qualchi çhiuasa a bulì t’un
çhalderon ch’as tigniva in tala luar çhasa; as clama la sôr, as çhala,
as ceir par dutt! cuand ch’as jùad la sôr copada in miezz al sang dutt
impià, ch’al era vignù fòr da una ferida ta las çhanas de la gola.
Las sôrs as conoss il tradiment, as ziga aitoris, as zem, as vai, as
fàs il montafin.
E vai che gi vai, as buta tantas lacrimas ch’as fas corri un biell
rìu. Al è chell ch’al ven giù bruind in miezz i claps, ch’al buta tanta
sbruma, ch’al mena aria frieda, frieda e ch’al si clama Barcuia.
Claudia Di Bernardo, giovane maestra ad Anduins, mi ha ri-
ferito di inchieste sull’argomento condotte dai suoi scolari e me
ne ha fatto ascoltare passi registrati. Anche questo dimostra che

52
la storia della Agane della Val d’Arzino, in termini di sopravvi-
venza spontanea o come risultato di una programmata operazio-
ne di recupero e salvataggio, è veramente parte del patrimonio
della cultura locale.
Dagli informatori con cui ho parlato – sarebbe più esatto dire
dalle informatrici – ho avuto in genere racconti molto vicini al
testo di Gerometta. In qualche caso variazioni o aggiunte non
gratuite né insignificanti dimostrano la vitalità della tradizione,
vorrei dire una sua ‘sacralità’ impossibile da cancellare che si
avverte nel rispetto con cui chi accetta di farsene narratore si ac-
costa alla materia del mito, sia pur degradato a favola spaventa-
bambini, e l’affiorare nel racconto di motivi che, al di là della
consapevolezza degli informatori, hanno radici nel retroterra
delle stesse costellazioni simboliche.
L’informatrice Natalina Bella di Vito d’Asio ha rievocato
per me esperienze infantili e mi ha detto che le maestre, fin che
erano del paese, accompagnavano le scolaresche (“c’erano tanti
bambini allora a Vito, venti nelle mia classe, diciassette o diciot-
to nelle altre: non ci stavamo neppure, nella scuola”) in gita alla
Cjasa de las Aganas e raccontavano la storia.
La strada che porta alla grotta delle Agane passa da una zona
che si chiama Altin: c’è un tratto in salita, las Palas di Altin e sot
las Palas a son las Aganas. Le quali, come ormai sappiamo, ave-
vano preso un bambino che si chiamava Tunin (“me ne ricordo
perché è anche il nome di mio figlio”). Forse lo avevano preso
perché era cattivo e probabilmente volevano mangiarlo, ma era
troppo magro e così per intanto lo tenevano chiuso in una cassa-
panca e per ingrassarlo lo nutrivano con noccioline e per sapere
se ingrassava prendevano a campione un dito che gli facevano
sporgere dal buco della serratura.

53
Ma lo usavano anche come schiavo e lo liberavano dalla sua
prigione per assegnargli lavori faticosi. Tunin ne approfitta per
portarsi nella cassapanca un pezzetto di legno e quando le Agane
gli ordinavano: “bute fur il piciùt” lui sporgeva il lignùt e così pren-
deva tempo; loro si avvicinavano con un coltello e provavano a
tagliare quello che credevano fosse un dito per vedere se c’era un
po’ di carne attorno all’osso. Perché questo procedimento crude-
le? Al ere scùr e no podevin viodi.
Le Agane erano tre, due erano sorelle, la terza non era né
sorella né madre, si chiamava Puma ed era la priora. Mi ha me-
ravigliato l’uso di questo termine che non avevo mai incontrato
nelle nostre storie. Natalina Bella ha precisato: “sì, avevano una
priora come le api hanno una regina”.

54
Regine, badesse e priore

“Regina” e “priora” sono parole che appartengono alla stessa


area mitica cui appartengono le Agane: “regina” era già usato
nell’antichità per quelle dee della prima Europa cui gli indoeu-
ropei non erano riusciti a dar marito e che esercitavano diretta-
mente e di diritto il proprio potere: la greca Artemide, la romana
Diana che ad essa corrispondeva, la celtica Epona erano talvolta
invocate come “regine”, la dea irlandese Badb era chiamata an-
che Morrìgan, nome che significa “grande regina”4 e “regina” è
divenuto a tempo debito appellativo della Vergine Maria: salve,
Regina, Mater misericordiae, mentre, rientrando in Val d’Arzino
e nelle nostre storie di bambini rapiti, mi sembra interessante,
più che la favola ormai risaputa, la precisazione dell’informatrice
Caterina Zannier di Clauzetto: las Paganas as an regnât, une volte,
a proposito degli antri scavati sul lato sinistro della forra del tor-
rente Cosa dove sono venute alla luce, come s’è detto, testimo-
nianze di insediamenti umani a partire dal Neolitico.
Per non andare troppo lontano un confronto interessante è
quello con ciò che il frate minore e arcivescovo Marco Bandini,
scriveva nel Seicento a proposito degli incantatori e incantatrici
della Moldavia e ha un seguito attuale a Duboka, un villaggio
di montagna della Serbia ai confini con la Romania: durante la
Pentecoste donne giovani e vecchie cadono in catalessi e, dopo
aver raggiunto l’estasi attraverso una morte temporanea, portano
notizie dall’aldilà. Al rito prendono parte tre kralijce, un gruppo
femminile presente nella Serbia orientale e nel Banato serbo. La
parola kralijce significa “regine”5.

55
Il termine “priora” è più recente, perché connesso, come
quello di “badessa” al fenomeno del monachesimo femminile,
ma un itinerario circolare di sorprendente coerenza logica lo
riconduce, attraverso due millenni di religiosità tradizionale,
allo stesso nome di Artemide/Diana.
Ripercorrendo questo itinerario a partire dai verbali dei pro-
cessi condotti dall’Inquisizione in Val di Fassa come in Friuli, in
Francia come in Scozia contro donne che dicevano di incontrar-
si di notte con Esseri femminili soprannaturali, tendenzialmente
benefici ma pronti a procurare malanni a chi non prestasse loro
la dovuta reverenza, vediamo emergere l’immagine di una divini-
tà notturna chiamata con molti nomi tra cui Perchta, Madonna
Oriente, Sapiente Sibilla, Habonde, Richella, Regina delle Fate
o direttamente Diana, come la paganorum dea sovrapposta, a
seguito dell’interpretatio romana, a una o più divinità celtiche il
cui nome e la cui fisionomia affiorano solo eccezionalmente ed
oggetto di un culto assai diffuso nell’Europa barbarica, come di-
mostra l’accanimento con cui le autorità della Chiesa reagirono
contro di esso fin verso il VII-VIII secolo6.
Ma una benandante di Latisana processata al principio del
Seicento, confessando di aver reso omaggio a una divinità “sen-
tata in maestà e chiamata la Badessa”7, indica l’antecedente
più prossimo del titolo di “Priora” usato da Natalina Bella per
qualificare la prima inter pares delle Agane del Barquet e con-
sente di cogliere un ulteriore legame tra le nostre figure mitiche
femminili e quelle ambigue divinità notturne, insieme benefiche
e mortuarie, che per molti secoli, addirittura millenni, abitarono
l’Europa celtizzata, comprese le regioni del Danubio, e dietro alle
quali si possono intravvedere culti di carattere estatico e creden-
ze ancor più antiche.

56
La nostra priora, dunque, rimasta un giorno sola in casa
mentre le due sorelle erano andate a San Daniele al mercato
o, secondo la versione riportata dal bollettino parrocchiale
“Val d’Arzino” nel gennaio del 1990, al ballo (forse la famosa
Cavalchina?) fa uscire dalla cassapanca Tunin e lo manda a
prender legna.
“Perché?”, “per accendere il fuoco”, “perché?”, “per far cuo-
cere i bambini cattivi”. Tunin va a prendere la legna, accende
il fuoco. Il calderone è molto grande. Puma gli dice: “ua se bol
l’aga”, lui risponde: “io ’o soi pìciul, ua tu”. Lei si sporge sull’orlo
del calderone, Tunin la spinge dentro, poi va in camera da letto
(la grotta è immaginata come una casa, con le camere al piano
di sopra), con i cuscini ‘fabbrica’ un fantoccio, lo mette nel
letto, sotto le coperte.
Tornano dal mercato, o dal ballo, le due sorelle. Chiedono:
“dov’è Puma?”. Tunin dice che è andata a riposare; loro salgono,
entrano pian piano nella camera, credono di vedere Puma addor-
mentata, ridiscendono in cucina, saggiano con un forchettone
il punto di cottura di ciò che bolle in pentola: “ma com’è dura
questa carne!”, ritornano in camera, s’accorgono del macabro
inganno in cui sono cadute, capiscono che Puma è morta e pian-
gono così disperatamente da dare origine con le loro lacrime al
Barquet.
Poi si mettono all’inseguimento di Tunin, che, naturalmente,
non ha perso tempo nel prendere le distanze dalla loro grotta e
lo vedono al di là del torrente.

57
Al di là del fiume e tra gli alberi

Non per caso: Paul Sebillot osserva infatti che nelle tradi-
zioni dei paesi la cui cultura risulta dominata dal superstrato
del Cristianesimo e da quel sostrato che egli definisce celto-
latino l’acqua corrente costituisce un ostacolo insormontabile
per le streghe. Ma la credenza, generalizzata nell’Ottocento e
testimoniata in tempi ancor più vicini a noi, come le nostre
storie di Agane dimostrano, ha origini assai più antiche, risa-
lenti ai giorni in cui i miti e i riti non erano ancora divenuti
fiabe e l’acqua rappresentava una specie di ‘portale’ attraverso
cui accedere all’aldilà: gli oggetti ripescati nei pozzi sacri, ma
ancor più nei fiumi, nei laghi e nelle paludi attestano che era
un’usanza ampiamente praticata nella preistoria dell’Europa
gallica quella di gettarvi offerte votive per le divinità. Così
si spiegherebbero i depositi di lingotti d’oro e d’argento che,
come riferisce Strabone citato da Ward Rutherford8 furono tro-
vati nella zona del lago di Tolosa; lo stesso famoso calderone di
Gundestrup proviene da una palude danese e dalle profondità
del lago di Neuchâtel fu ripescato nel 1856 il tesoro di La Tène,
una collezione di oggetti di produzione celtica del VI-V secolo
a.C. che ha dato il nome a uno stile e a un’epoca.
La letteratura celtica dimostra in modo assai chiaro quale
fosse il significato simbolico dell’acqua, mare, lago, sorgente,
fiume, palude, ma anche fontana, pozzo, lavatoio, la sua funzione
di santuario, di barriera e di accesso all’altro mondo e già Plinio
il Vecchio era stato avvertito dai druidi che chi è inseguito da

58
serpenti magici deve attraversare a cavallo il fiume più vicino,
perché solo così potrà sottrarsi ad essi come a qualsiasi altra
creatura pericolosamente soprannaturale9, mentre un’atmosfera
stigia avvolge l’antica leggenda bretone del barcaiolo cui una
voce senza volto ordina di condurre un gruppo di anime a una di
quelle isole lontane che nelle credenze celtiche sono dimora dei
defunti10: è una storia quasi identica a quella narrata da Procopio
di Cesarea su cui ritorneremo in seguito.
Le Agane del Barquet, forse ignare di questa suprema legge
celto-latina, forse inconsapevoli di aver assunto con il loro
comportamento il carattere e l’aspetto di vere e proprie stre-
ghe, forse determinate a vendicarsi a ogni costo per la misera
fine di Puma, non rinunciano a Tunin e, tutte gentili e carine,
incominciano a dirgli: “Tunin, Tunin, aspettaci, insegnaci
come hai fatto ad attraversare il fiume” e lui: “mi sono mes-
so a cavalcioni di una fascina e mi sono lasciato trasportare
dalla corrente”. Loro s’imbarcano su due fascine, ma erano
più pesanti del bambino, le fascine non potevano sostenerle e
finirono annegate.
L’informatrice Caterina Guerra di Pielungo mi ha raccontato
di altre Agane che abitavano nel cuore della Val d’Arzino: “tra
Pielungo e San Francesco, oltre il Plan dal lat, sulla strettoia di
Pralung, a mezza costa sulla sinistra del torrente c’è l’ingresso di
una grotta che si dice porti al fiume. In questa grotta c’erano
las Aganas. Erano tre in tutto o tre più la madre, giravano per
i boschi e se trovavano bambini li rapivano, se li portavano a
casa, li ingrassavano con noccioline” e così via secondo il solito
copione.
Un giorno un bambino prigioniero, mentre prepara la legna
per il fuoco, si trova tra le mani un’accetta, uccide l’Agana

59
madre e la mette in pentola, poi, per il passaggio interno della
grotta, raggiunge l’Arzino e si serve di una lunga pertica per
saltare sull’altra sponda, invano inseguito dalle Agane che fini-
scono annegate, essendo a quel tempo l’Arzino un corso d’acqua
piuttosto impetuoso.
Nella zona di Pielungo altre Agane abitavano nella caverna
di Fuas Cedolins, ed erano feminas salvadias bedescolcias, fassadas
malamentri, cui cjavei luncs, e nella grotta di Rius11.
Prima del 1975 le Saganas erano state segnalate anche in altre
due caverne, ancora non esplorate dagli speleologi, nella zona di
Pielungo12.
La vallata doveva essere luogo magico davvero se vi perma-
neva anche la memoria delle Fate che danzavano intorno agli
alberi, la notte, lasciando sui prati la traccia del loro ballo tondo
e delle Streghe delle cui doti malefiche la gente aveva certezza e
timore, secondo alcuni imparentate anche con la magne, il ser-
pente innocuo che veniva ucciso con precise cautele per timore
delle sue vendette13.
Da un’informazione raccolta a Grions nel 1951 da Lea
D’Orlandi, lis Paianis, feminis vistudis di blanc, metevin a suà i lin-
zui tai pràz, a clar di lune, cui cjavei luncs fin lajù da pît. No fadis,
parcè che, se nò, no si varès pôre: son striis14, risulta la confusione
tra Paianis, a cui viene attribuita l’occupazione di “lavandaia
notturna” propria delle Agane, Agains, Fadis e Striis e nello stesso
tempo il desiderio di fare chiarezza nei rispettivi ruoli.
Credo che tutte le leggende relative alle Agane del Barquet,
di Pielungo, di Pradis, con i motivi comuni e le numerose ma
non fondamentali ‘variazioni sul tema’, siano il risultato della
distribuzione in tutta la valle dell’Arzino di uno stesso nucleo
narrativo utilizzato come deterrente per tener buoni i bambini

60
e dissuaderli dall’avventurarsi in luoghi pericolosi per tutt’altri
motivi che non fosse la presenza in essi di creature sopranna-
turali.
Nella favolistica europea, del resto, il rapimento di bambini
è un evento ricorrente del quale sono protagoniste sia le Fate
che le Streghe, tra cui non è sempre facile cogliere differenze
qualificanti soprattutto quando le streghe si presentano come
donne belle e seducenti15, ma il tema è molto più antico: dietro
alla Fate e alle Streghe, scrive Carlo Ginzburg, possiamo scor-
gere i morti, soprattutto i morti recenti, creature marginali per
eccellenza, e quella loro ostilità nei confronti dei vivi che nella
cultura latina si concretizzava nell’immagine mitica della strix,
stridulo uccello notturno assetato del sangue dei lattanti, ma
anche donna capace di trasformarsi in uccello come le maghe
scite ricordate da Ovidio16.
Nel 1200 si credeva che la strix fosse un demonio che
sotto le sembianze di una vecchia strega uccideva i lattanti,
che le lamiae (o mascae o striae) girassero per le case rubando
i bambini dalle culle, e questa credenza si è protratta in varie
forme fino ai nostri giorni17.
Ma Lamie, Streghe, Fate, Agane, Varvuole e tutte le altre,
dalla Ragana baltica alla terribile Baba Yaga russa, che rapiscono,
uccidono, divorano bambini non hanno natura cannibalesca,
nonostante le apparenze: esprimono solo, simbolicamente, la
fragilità del piccolo essere umano che, come del resto la donna
che l’ha partorito, rimane per qualche tempo in balia dei poteri
delle tenebre.

61
Itinerari iniziatici

Diverso è lo scenario quando il ratto e l’antropofagia si esercita-


no su fanciulli o persone adulte.
Andreina Nicoloso Ciceri osserva che il cannibalismo delle
Agane, quasi razionalizzato e programmato, potrebbe apparire di
carattere già magico-rituale e richiama la morte sacrificale dei
riti celti in un quadro non molto dissimile da quello dei Cimbri
e dei Teutoni18.
Vediamo in che senso si deve intendere la “morte sacrificale”.
Conosciamo, per esempio, attraverso testimonianze tardi-
ve di autori cristiani il mito orfico dell’uccisione di Dioniso
fanciullo ad opera dei Titani: la sequenza uccisione-smembra-
mento-cottura simboleggiava molto probabilmente un itine-
rario iniziatico poiché era conclusa dalla ricomposizione delle
ossa e dalla resurrezione di Dioniso19, in origine una divinità
dei Traci.
Già all’inizio del IV secolo a.C. popolazioni celte erano
confluite nella Dobrugia dove si trovavano Traci e Sciti. I Traci
nella seconda metà del III secolo a.C. furono dominati per una
cinquantina d’anni dai Celti. Nell’attuale Romania la domina-
zione celtica della popolazione daco-geta fu molto più intensa ed
estesa nel tempo20.
I contatti fra Daci, Traci, Sciti e Celti nella zona del basso
Danubio e gli spostamenti degli Sciti che dalla Tracia arrivarono
fino al Baltico attraverso la Romania, l’Ungheria, la Slesia, la
Moravia, la Galizia spiegano molte delle analogie e convergen-

62
ze culturali e folkloriche che si riscontrano in diverse regioni
d’Europa. Tra questi contatti, scrive ancora Carlo Ginzburg,
quello che unì la cultura tracia (o coagulatasi nelle pianure della
Tracia) e la cultura celtica appare particolarmente stretto ed è
significativo che il luogo d’origine del calderone di Gundestrup
sia stato cercato alternativamente in Tracia e nella Gallia set-
tentrionale21.
Prevale comunque l’opinione che siano stati artigiani traci
ad eseguire, in qualche località dell’attuale Bulgaria nella prima
metà del I secolo a.C., quella straordinaria rappresentazione del
pantheon celtico, che è appunto il calderone d’argento trovato
nel 1880 nella torbiera danese di Gundestrup, conservato al mu-
seo di Copenhagen ed esposto nel 1991 alla Mostra dei Celti a
Palazzo Grassi a Venezia.
La scena sacrificale rappresenta al livello inferiore una teoria
di guerrieri armati (non prigionieri o schiavi) che si avvia verso
il calderone dove si compirà il loro annegamento rituale ad opera
di una grande figura che probabilmente rappresenta una divinità;
al livello superiore un’altra teoria di guerrieri, forse gli stessi resti-
tuiti a una diversa e più alta dimensione dell’essere o a un nuovo
ciclo vitale, percorre a cavallo, in senso inverso, lo stesso itine-
rario: si tratta probabilmente di una vicenda di morte-rinascita
descritta come un evento metafisico o come un rito iniziatico.
Ma il fatto che i guerrieri del registro inferiore trasportino un
tronco d’albero sostenendolo sulla punta delle loro lance ha in-
dotto alcuni a interpretare la scena come la deposizione di una
vittima umana e di un albero in un pozzo rituale22.
Tutti gli elementi della rappresentazione hanno significato
simbolico: il cinghialetto sull’elmo dell’uomo che precede i tre
suonatori di tromba è una delle principali immagini di morte

63
individuabili nella preistoria; la grande figura divina o sacerdo-
tale che celebra il rito tuffa in una caldaia la figuretta umana
a testa in giù con la stessa determinazione con cui le Agane
del Barquet o di Pradis gettavano in pentola i bambini (o vi-
ceversa). Il cane o il lupo che qui sta davanti alla divinità era
in Grecia l’animale della funebre Ecate e la sua epifania, dopo
essere stato, forse, la scorta della triplice Dea Luna di Laussel,
e in seguito, nel folklore europeo, il compagno di Giltine, la
morte lituana che, come doppio o sorella del Fato dispensatore
di nascita, ripropone l’identità di Artemide/Diana ed Ecate, di
Skaði, la dea della morte e dell’inverno degli antichi Norreni,
della germanica Hel/Holle quando, nella sua versione infera,
accompagna i morti nell’aldilà, nei più profondi recessi delle
montagne e delle grotte.
Secondo le testimonianze di molti osservatori ed esploratori,
ancora recentemente il dono sciamanico si otteneva tra le popo-
lazioni siberiane sperimentando attraverso l’estasi tutte le torture
della decapitazione, dello squartamento, dello sbudellamento,
della cottura, di una morte vissuta – se così si può dire – nella sua
pienezza. Spesso poi lo sciamano era una donna, un ermafrodita
o un uomo con capi di vestiario femminile che in tal modo espri-
meva la continuità con un’immagine preistorica estremamente
arcaica della donna, vecchia, madre, padrona, donatrice di poteri
magici23.
A parte andrebbe considerata la questione della frequenza del
transessualismo e del vero e proprio travestitismo fra gli sciamani24.
I racconti di fate, compresi quelli di cui sono protagoniste le
nostre vecchine streghe, le nostre Torke e Agane, contengono,
in fase di relitto, lo stesso materiale che riconosciamo nei miti
dell’uccisione e dello smembramento di Dioniso (o di Orfeo, di

64
Osiride, di Adone) come nel rituale di morte-rinascita descritto
dal calderone di Gundestrup, come nell’esperienza interiore
attraverso cui lo sciamano prendeva coscienza della propria vo-
cazione sacerdotale.
Solo che nel racconto di Fate il soggetto sacro, separato dalla
fitta trama di miti e simboli cui apparteneva, è diventato, come
s’è già avuto occasione di dire, soggetto profano e il bambino
che entra nel bosco non si avvia a un rito di iniziazione o di
passaggio ma alla morte vera: verrà veramente smembrato,
bollito o arrostito per la semplice ragione che è veramente
morto, e la Dea Madre signora degli animali e delle piante,
Diana/Ecate lunare e ctonia, legata ai riti della fertilità e della
morte nell’eterno rinnovarsi dei cicli vitali, la maga del bosco,
della grotta e della sorgente è diventata una Strega crudele che
s’impadronisce dei bambini per divorarli davvero e quindi senza
speranza di rigenerazione.
Ma se scaviamo nella sua storia possiamo trovare in lei le
tracce della sacralità arcaica e capire come appartenga all’ordine
naturale delle cose che le sue grotte, da Lourdes a Pradis, siano
oggi abitate dalla Madonna che forse, chissà, non vuole più can-
cellare con la propria immagine ogni traccia delle dee come lei
vergini e partenogenetiche che l’hanno preceduta, ma piuttosto
alludere a una continuità di presenza divina femminile e mater-
na, pietosa di noi nunc et in hora mortis nostrae, nei luoghi in cui
da millenni circola quella che Elémire Zolla avrebbe chiamato
“l’aura siderale dei santuari”25.
Una storia diversa mi ha raccontato Maria Del Missier di
Clauzetto, ed è quella che ho riferito a proposito delle Agane di
Anduins, ma a lei devo anche un’altra informazione molto in-
teressante: “sempre dei tempi di mia nonna ricordo che c’era un

65
modo di dire a proposito di un bucato ben riuscito: peciòz blancs
tant co chei de las Aganes”.
Espressione che non avevo mai sentito e non mi risulta sia
mai stata registrata, ma va ad affiancarsi all’altra: setu come lis
Ganis ch’a van a lavâ di gnot? per indicare quanto profondamen-
te e durevolmente le nostre piccole dee abbiano messo radici
nell’anima, nelle opere e i giorni delle generazioni che ci hanno
preceduto.

66
Lavandaie notturne

L’attività proverbiale – è il caso di dirlo – delle Agane è infatti


quella di fare il bucato o meglio di risciacquarlo presso le sorgenti
o in riva ai fiumi, qualche volta anche nell’acqua di una fontana
o di un lavatoio.
Da Lea D’Orlandi e Novella Cantarutti sappiamo che a
Blessano c’era fûr dal paîs un pociàt, di chei di aghe ploàne, e lì po’
e’ disevin che les viodevin, lis aganis, di gnot, a lavâ a clar di lune,
che a Susans e tal cuel di San Roc a’ erin fadis ch’a làvin a resentà
simpri tal Tilimentùc’26, che a Navarons li fadi andavano a lavare
in una sorgente chiamata Corèvai dai Staglàz, che a Poffabro le
anguani lavavano i panni nel torrente Colvera e li stendevano ad
asciugare sul greto.
Dalla raccolta di favole e fiabe, preghiere e canti narrativi
pubblicata da Novella Cantarutti nel 2001, cui rinvio anche per
le notizie di carattere generale sugli Esseri mitici della tradizione
friulana27, traggo alcuni brevi testi che integrano, con accenti
inediti di immediatezza e partecipazione (ma penso anche alla
mia informatrice Natalina Bella di Vito d’Asio che mi ha riferito
il nome del bambino rapito dalle Agane del Barquet: “si chiama-
va Tunin e me ne ricordo perché è il nome di mio figlio”) alcuni
‘ritratti’ di “lavandaie”, talvolta già ricordate: “negli Staglàs si
vedevano le fate a lavare la roba: erano bianche e tanto belle,
scendevano anche giù per la Trinca, parlavano e ballavano”; “le
fate scendevano giù, fino ai piedi della Trinca. Prima hanno det-
to che erano signore di Trieste e dopo invece le vedevano negli

67
Staglàs, a sciorinare i panni e vedevano questi panni, stesi come
facevamo noi per le lenzuola, nel greto del Meduna. Quando
andavano sul posto, la gente, non trovavano nulla”; “le fate so-
no nel Bûs da li’ Colvari’ dov’è la grotta delle fate che escono a
stendere le lenzuola ad asciugare”; “raccontavano della agana; so
che raccontava Paolina dell’osteria che le vedevano nel Bûs di
Colvara”; “si lavano le agane nel pozzetto e si asciugano. Hanno
testa di donna e corpo di capra. Hanno i capelli lunghi”; “le aga-
ne, non streghe (non avevano niente a che fare con le streghe),
si lavavano e lavavano i loro panni, ma non facevano mai nulla
alla gente”; “quando venivamo su da Maniago, ci insegnavano
che, in quelle grotte sopra il torrente Colvera, uscivano le aga-
ne. Steit bogn!”; “mia madre raccontava sempre che nel Bûs da
li’ Pignati’ vedevano le agane, bestie grandi che mangiavano la
gente. Mia mamma diceva sempre a queste ragazzine che anda-
vano da sole a Maniago: Sa vi màngjn li’ linguani’! Erano bestie
grandi che mangiano”.
È noto che in Val Resia, tra Ruscjs e San Giorgio, si possono
vedere l’orma del piede e del ginocchio, la pietra levigata su cui
lavava, l’incavo nella pietra dove teneva il sapone la Dujacessa,
ora semplicemente compagna del Dujak che in Val Resia cor-
risponde al Salvàn della Carnia28, ora assimilata alle Agane,
talvolta intercambiabili con le donne dei Salvàns o dei Pagàns in
questo caso presentate anch’esse nel ruolo di “lavandaie”.
In genere si considera questo lavoro come connesso alla
natura acquatica delle Agane e Mario Alinei, a proposito delle
Aquane “lavandaie” della Val di Fassa dice che abbiamo in esse
il riflesso di un’antichissima attività femminile29.
E sarà vero, però anche il lavoro di filatura è un’antichissima
attività femminile che ha assunto implicazioni simboliche a

68
livello mitico, magico, rituale quando anche le dee hanno inco-
minciato a dedicarvisi, a trarre dalla conocchia e avvolgere sul
fuso il filo della vita umana, a tessere gli umani destini, a stabilire
il momento della morte di ognuno e, dopo le dee, le “filatrici
notturne” spagnole, omologhe delle nostre Agane, che la pra-
ticavano abitualmente, come vedremo, quasi un’alternativa al
lavaggio per certificare la propria identità soprannaturale.
Perciò ho sempre pensato che il bucato delle nostre Agane o,
se si preferisce, Aquane, dovesse rappresentare qualcosa di più si-
gnificativo che il puro e semplice rapporto che esse intrattengo-
no con l’acqua (aga, aqua) o, attraverso l’acqua, con l’altro mon-
do, come sembra credere la stessa Gimbutas, che scrive: “perché
il lavaggio? Forse perché l’acqua è un legame con l’aldilà”30, e
che la percezione di questo ‘qualcosa’ di più significativo spie-
gasse l’abitudine di scrivere il termine “lavandaia” o “lavandaia
notturna” in corsivo o tra virgolette, come per indicare un’entità
ben definita anche se non ancora decifrata.
Ne ho proposto una decifrazione quando mi sono occupata
delle Agane della Val d’Arzino, e la riprendo ora ampliando
l’ambito temporale e spaziale della ricerca dal Neolitico medio
ai nostri giorni e dall’Istria, estrema propaggine dell’arco alpino
dove la presenza di figure mitiche femminili appartenenti alla
stessa classe delle Agane, ancorché diversamente chiamate, è
assai frequente e ben documentata, al Finistère, lungo la costa
atlantica della Bretagna, centro della cultura megalitica la cui
arte ha fornito elementi utili alla conoscenza della religiosità
preistorica ancora ai nostri giorni sorprendentemente testimo-
niata dalle tracce superstiti nelle leggende di credenza31, e alle
isole britanniche.

69
Leggende di credenza

Quando l’oggetto del bucato non è indicato in modo generico,


si dice che le Agane lavano lenzuola, così grandi e belle che non
possono essere state tessute su comuni ‘umani’ telai. Esse poi
appartengono, come ormai sappiamo, alla categoria delle figure
mitiche femminili connesse a Ecate, ambigue portatrici di pro-
sperità e di morte.
In Istria ci sono “lavandaie” la cui valenza mortuaria è implicita
nelle modalità dirette e crudeli del loro comportamento: le vedono
di notte, presso le fontane, fare il bucato sbattendo sul lavatoio
strane tele bianche che molti ritengono cadaveri di bambini32.
La credenza ha un riscontro soprattutto in Bretagna33, dove
le “lavandaie notturne” battono e torcono incessantemente sul
lavatoio un mucchio di panni inzuppati d’acqua che, visti da
presso, non sono altro che corpicini di neonati uccisi.
Nel Finistère si crede che il lenzuolo che le “lavandaie not-
turne” chiedono ai passanti di aiutarle a torcere contenga un
neonato ancora vivo che grida e sanguina.
Paul Sébillot testimonia che la credenza nelle “lavandaie
notturne”, che hanno talvolta l’aspetto di scheletri ma più spesso
appaiono come donne assolutamente normali, è assai diffusa e
dice di conoscere in area gallica numerosi lavatoi che si crede
siano frequentati da “lavandaie notturne”, donne morte con-
dannate a ritornarvi per lavare un lenzuolo, generalmente un
lenzuolo funebre, in espiazione di una colpa commessa durante la
vita, alcune perché hanno lavato di domenica, altre perché sono

70
madri infanticide che cercano invano di cancellare le tracce del
loro delitto togliendo dalle lenzuola le macchie di sangue34. Una
donna di Dinan racconta: “una mattina mi sono alzata prima che
facesse giorno e sono arrivata con il mio bucato all’inizio della
prateria di Noes-Gourdais. Su una delle pietre del lavatoio una
donna già lavava. “Bene – mi disse – ecco una più mattiniera an-
cora di me”. Io continuai a scendere lungo il pendio della prateria
per andare a prendere il mio posto, ma, quando fui poco lontana,
essa si volse tendendo verso di me la sua mestola da lavandaia,
come per farmi segno di non avvicinarmi oltre, e vi assicuro che
non ne fui neppure tentata perché vidi, così distintamente come
vedo voi, che la lavandaia aveva tra le mani una testa di morto”.
Dalle parti di Angevinais c’è un tratto di canale che si chiama
Ponha. Una notte una donna di Conaquen, credendo che fosse
mattina, scese al corso d’acqua per lavare, ma vi cadde e annegò.
Quando le donne si alzano prima del giorno per andare a lavare o
vi restano troppo a lungo la sera si dice loro: “fate come la lavan-
daia del Ponha?”, frase che ha il suo corrispondente nell’espres-
sione friulana: “setu come lis Ganis ch’a van a lavâ di gnot?”
Fanta Lezoualc’h di Saint-Trémeur per guadagnare qualche
soldo andava a lavorare a giornata nelle fattorie dei dintorni così
che non poteva rientrare a casa se non dopo il tramonto. Una
sera, appunto rientrando, pensò: “oggi è sabato, domani è dome-
nica; bisogna ch’io vada a lavare la camicia di mio marito e quelle
dei miei bambini. Avranno il tempo di asciugare prima della
messa solenne perché la notte promette di essere bella”. C’era,
in effetti, uno splendido chiaro di luna. Mentre Fanta era tutta
presa dal suo lavoro di insaponare, stropicciare e battere con tutta
la forza delle sue braccia il bucato arrivò un’altra donna magra e
veloce, che aveva sulla testa un grandissimo fagotto di biancheria

71
ma lo reggeva tanto allegramente che sembrava portasse una bal-
la di piume. “Fanta Lezoualc’h – le disse – tu hai il giorno per te;
non dovresti prendere il mio posto di notte” enunciando così il
principio che consente di distinguere le donne vere dalle maouèz-
noz, le “donne della notte” che sono creature soprannaturali. Nel
seguito del racconto le due fanno amicizia (un’amicizia pericolosa
da cui madame Lezoualc’h si salverà solo grazie all’intervento del
meno ingenuo marito) e la sconosciuta invita Fanta ad andarsene
a casa a riposare promettendole che avrebbe lavato per lei ed en-
tro pochi minuti le avrebbe riportato, blanchi comme il faut, il suo
bucato, poiché, evidentemente, le “lavandaie notturne” di Saint-
Trémeur in Bretagna come quelle di Anduins in Friuli lavano, di
regola, che più bianco non si può… neppure col candeggio.
Non tutte le storie hanno forma narrativa. Talvolta, come nel
caso dei racconti friulani, si tratta di semplici informazioni: verso
le 10 di sera, per esempio, sotto gli antichi ponti di Bécherel e
Tinténiac e soprattutto a Piedlouais presso Saint-Brieuc-des-Iffs
c’erano delle “lavandaie notturne”; si credeva fossero donne
cattoliche uccise dagli Ugonotti, che tornavano di notte a fare
“ciò che era stato loro comandato”, e in Normandia una Dama
Bianca andava a lavare il bucato alla luce delle stelle.
Nei paesi in cui se ne raccontava la storia, diffusa non solo
nel Poitou dove la sua identità leggendaria si è cristallizzata, ma
anche in altre regioni della Francia e in diversi paesi d’Europa
fino alla Vistola, le donne vedevano la stessa Melusina, che pure
non aveva mai fatto di mestiere la lavandaia, aggirarsi talvolta,
la sera, attorno a un lavatoio.
Nei racconti bretoni del ciclo dell’Ankou (“la Morte”, nome
che viene usato talvolta come maschile, talvolta come femmini-
le), che contengono numerose reminiscenze pagane, le “lavanda-

72
ie notturne”, kannerezed noz, lavano il lenzuolo funebre dei pas-
santi che commettono l’imprudenza di rivolgere loro la parola.
Al di là della Manica, nella tradizione scozzese-gaelica la
“lavandaia” soprannaturale, la beannighe è anche annunciatrice
di morte.
Nelle antiche fonti irlandesi l’attività del lavaggio è attribuita
alla dea-cornacchia Babd o a Morrìgan (la fata Morgana dei rac-
conti arturiani), anch’esse messaggere di morte.
La banshee, diafana bellezza dai capelli fluenti che abita nei
sidh, i tumuli megalitici, è una annunciatrice di sciagure e i suoi
lamenti si diffondono sui prati e sui laghi d’Irlanda e di Scozia. Le
banshee sono una sopravvivenza di Macha che l’aspetto equino
distingue, come l’inglese Rhiannon, dalla Grande Madre com-
pletamente antropomorfa propria di molte culture e avvicina
a Epona, la Dea-cavalla, a volte, come le Matres, rappresentata
con una cornucopia traboccante, simbolo del suo grembo fertile.
Il fiume Clyde che sfocia nell’omonimo fiordo non lontano da
Glasgow in Scozia, deriva il suo nome da Clóta, “divina lavan-
daia” che richiama la leggenda della Strega del Guado, una Dea
della morte: ancora nel XII secolo il generale normanno Richard
de Clare fu avvertito della sconfitta delle sue truppe dall’appari-
zione di una Strega che lavava a un guado e comprese che anche
la sua fine era vicina quando vide il sangue rapprendersi sugli
abiti che essa aveva tra mano35.
Bretagna, Scozia, Galles, Irlanda sono le regioni d’Europa in
cui l’etnia, la lingua, la cultura, la religione dei Celti si sono me-
glio conservate. Per quanto ne so, da queste regioni soprattutto,
oltre che dai nostri paesi, provengono notizie relative alle “la-
vandaie notturne”, ma è, in particolare, nella tradizione bretone
che si fa costante ed esplicita menzione del lenzuolo funebre.

73
Se una notte di luna al cimitero…

A volte il racconto si organizza non sulla “lavandaia” sopranna-


turale, ma direttamente intorno a un lenzuolo funebre.
Nel cantone di Liffré, nell’Ille-et-Vilaine, una cucitrice aveva
avuto la visione, passando accanto a un cimitero, di un lenzuolo
funebre posato su una tomba. La madre le suggerì di fermarsi a
dire una preghiera accanto a quella tomba, ma appena essa toccò
il lenzuolo che la copriva sentì una voce uscire dalle profondità
della terra “questo lenzuolo servirà a seppellirti”. La ragazza si
ammalò per lo spavento e morì, e, quando fu morta, apparve su
un tavolo della sua casa, senza che si sapesse chi l’aveva portato,
il lenzuolo del cimitero che servì appunto per la sua sepoltura.
C’era una volta, in Dordogna, una lavandaia convinta che
nulla avrebbe potuto farle paura e che sarebbe stata capace di an-
darsene in giro tutta sola a qualsiasi ora della notte. E una notte
appunto, passando davanti a una di quelle scalette in pietra che
servono a superare i muri di recinzione, vide un tessuto bianco
che sembrava coprire una bara. La visione si ripresentò più volte
ed essa chiese al suo confessore come dovesse comportarsi. Egli le
suggerì di farsi coraggio, di avvicinarsi alla bara e di rimboccare il
lenzuolo intorno ad essa: l’apparizione scomparve all’istante, ma
per l’emozione la lavandaia si ammalò e poco tempo dopo morì.
Françoise Dumont di Ercé raccontava a Paul Sébillot nel
1879 la seguente storia della quale esistono molte repliche e
varianti: due ragazze si erano scambiate la promessa che quella
che fosse vissuta più a lungo avrebbe fornito all’altra il lenzuolo

74
funebre. Non molto tempo dopo una morì e l’altra dimenticò di
mantenere la sua promessa; non solo: una sera passando accanto
al cimitero vide un lenzuolo posato su una lapide e se lo portò a
casa, ma nelle notti seguenti sentì battere alla porta e una voce
che ripeteva “rendimi il mio sudario, rendimi il mio sudario”. Su
consiglio del confessore riportò al cimitero il lenzuolo e lo posò
a terra. Venne la sua amica, vi si avvolse e sparì.
Due fidanzati del Morbihan risparmiavano fino all’ultimo
centesimo dei loro guadagni per comperarsi una piccola fattoria
e qualche mobile per arredarla. La figlia di un castellano della
zona morì poco dopo il matrimonio e fu sepolta nel cimitero del-
la parrocchia con i suoi gioielli e, invece del sudario, l’abito da
sposa di seta bianca. I due innamorati profanarono la tomba e si
presero non solo i gioielli ma anche il vestito. Tormentati dalle
apparizioni della morta e consigliati dal confessore, andarono a
mezzanotte, insieme, a deporre il vestito dove l’avevano preso,
ma nessuno li vide più e presso la tomba furono ritrovati solo il
rosario della ragazza e il cappello dell’uomo.
Quello del lenzuolo rubato ai morti è un motivo ricorrente
nella narrativa bretone: nel villaggio di Plouzunet c’era una
giovane cucitrice, Fantic Loho, che aveva un carattere allegro e
cantava più di quanto non pregasse, hélas! Una sera tornando al
suo paese da Pont-an-c’hlan dove era andata a cucire a giornata,
per fare più in fretta volle attraversare il cimitero. Appena ebbe
fatto qualche passo tra le croci di legno, si trovò vicino alla tom-
ba di sua madre morta da più di un anno e vide steso sulla lastra
funebre un lenzuolo. Se lo portò a casa pensando che se nessuno
lo avesse reclamato le avrebbe fatto molto comodo tenerselo.
Ma nelle notti seguenti le si ripresentò lo stesso orribile sogno:
le sembrava di vedere sua madre nuda, con il corpo scarnificato,

75
che le chiedeva con voce desolata e insieme terribile di renderle
il suo lenzuolo. Infine Fantic, su consiglio (al solito) del confes-
sore, tornò di notte al cimitero: sua madre, ormai ridotta a sche-
letro come nelle apparizioni notturne, la attendeva nella tomba
scoperchiata, la afferrò e la trascinò con sé. La pietra tombale
ricadde su madre e figlia e nessuno, dopo quella notte, vide più
Fantic Loho, né più sentì sonare le quiete stanze e le vie dintorno
al suo perpetuo canto.
Non manca neppure il ‘bollito’ nel calderone, come nelle no-
stre storie di bambini rapiti dalle Agane, e il controllo sul lavoro
notturno delle filatrici: viveva nel Finistère (naturalmente) una
donna, Marianne Kerbernès, che filava sempre, giorno e notte,
a volte fino all’alba. Perfino la domenica, appena tornata dalla
messa, si metteva al lavoro. Una domenica sera uscì di casa per
andare a prendere della filaccia in un capanno al di là del cortile.
C’era un bel chiaro di luna e Marianne vide una donna scono-
sciuta (era una “lavandaia notturna”) che le disse: “passando
davanti alla vostra casa ho notato che la luce era accesa e volevo
entrare per chiedervi che ora fosse”. Le due entrano insieme e
insieme si mettono a filare. In men che non si dica la provvista
di lino fu finita; “e ora che faremo?” chiese la sconosciuta, e
Marianne, ben lieta di avere la collaborazione di un’operaia così
abile: “laveremo il nostro filato nell’acqua calda”. Mentre traffi-
cavano attorno al fuoco e alla caldaia, il marito di Marianne si
svegliò, appena in tempo per impedire che sua moglie e il loro
bambino finissero in pentola36.
Un dato interessante di questi racconti è la precisa indicazione
del luogo dove le vicende si sono svolte, del nome dei protagoni-
sti e degli altri elementi utili a costruire una leggenda che abbia
parvenza di verità, e questo accade anche nelle nostre storie.

76
La pur professata fede cattolica non ha invece alcun ruolo nel
determinare i comportamenti individuali: al più i protagonisti,
quando non sanno proprio come uscire dai guai in cui si sono
messi, chiedono consiglio al confessore, che sembra però condi-
videre in pieno i pregiudizi, le superstizioni e le paranoie dei suoi
parrocchiani.
Gli stessi morti suscitano più paura che affetto o rispetto; così
può accadere che la figlia rubi il sudario alla madre e la madre
rubi alla figlia la vita trascinandola con sé nella tomba.
L’atmosfera notturna in cui i racconti bretoni si svolgono, la
ricorrente immagine dei cimiteri, la conclusione di regola tragi-
ca, suscitano sentimenti di orrore e di angoscia.
Non che manchino da noi vicende di analoga ambientazione:
è diffusa, per esempio, in Friuli la storia della donna che, per una
sfida con le comari di filò, andò in cimitero a ‘piantare’ il fuso
al chiarore della luna, ma, essendosi la sua veste impigliata in
qualcosa che la tratteneva e credendosi lei stessa trattenuta dai
morti, morì di paura37.
Novella Cantarutti38 racconta di due innamorati “che si erano
promessi”; poi il ragazzo era andato via, chissà dove. Una notte è
tornato a prendere la fidanzata. Si sono avviati verso il cimitero
e lui cantava: “gastu paura, mia bela nina/ che al chiaror de luna/ i
morti camina?” Lei ha detto: “mi no, ché son con ti”. Lui è entrato
nel cimitero ed è sparito, lei è morta di spavento e così sono
rimasti insieme.
Nel motivo leggendario, piuttosto diffuso in Friuli, c’è una
nota di fiduciosa tenerezza: in certo senso è una storia d’amore,
mentre nei racconti bretoni l’insistenza sul tema cimiteriale co-
nosce soltanto gli accenti cupi di una paura che si fa ossessione e
potrebbe avere origini molto lontane.

77
I pescatori armoricani
e le barche dei morti

Gli antichi già avvertivano la strana atmosfera dei racconti


celtici. Ne è un esempio la pagina forse più famosa della Guerra
gotica, scritta probabilmente verso il 552-553 dallo storico bi-
zantino Procopio di Cesarea39, in cui si parla di certi villaggi di
pescatori situati sulla costa dell’Armorica, terra avvolta anche
allora in un’atmosfera inquietante di leggende e dove, secon-
do Claudiano, poeta latino del V secolo che visse alla corte di
Onorio, Ulisse aveva incontrato il popolo delle ombre (“là i
contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti”), di fronte
a un’isola che si chiama Brittia. Questi pescatori, sudditi dei
Franchi, erano, da tempi remotissimi, esenti da qualsiasi tributo
in cambio del servizio che svolgevano, che era quello di traghet-
tare le anime dei morti alla loro sede definitiva, l’isola di Brittia
appunto, molto probabilmente identificabile con la Britannia.
Coloro che erano di turno sentivano, a tarda ora della not-
te, battere alla porta e una voce misteriosa che li chiamava. Si
recavano in riva al mare, senza rendersi conto di quale forza
ignota li spingesse ad agire così. Sulla riva trovavano barche
straniere apparentemente vuote, che però affondavano fino al
pelo dell’acqua. Salivano a bordo e in un’ora arrivavano a Brittia
usando solo il timone, mentre normalmente, con i propri battelli
e a vele spiegate, percorrevano a fatica lo stesso tragitto in un
giorno e una notte. Scaricavano i passeggeri e ripartivano con
le barche leggere. Non avevano visto anima viva (né morta…)
solo avevano sentito chiamare per nome le persone trasportate,

78
indicare di ciascuno la posizione sociale, il nome del padre o, se
donne, del marito.
Poiché tra i compiti che i benandanti si attribuivano c’era
il contatto con il mondo dei morti, Carlo Ginzburg ritiene che
le parole degli informatori di Procopio abbiano un controcanto
nelle dichiarazioni di due benandanti friulani processati alla fine
del Cinquecento: “a noi bisogna andare”, “et così io dissi che se
bisognava andare sarei andato”, e che in queste testimonianze,
separate da uno spazio temporale di mille anni, si colga l’eco,
più o meno rielaborata, di un’esperienza estatica; “si è tentati di
accostarle, supponendo in entrambi i casi la presenza di un so-
strato celtico che, in Bretagna come in Friuli, combinandosi con
tradizioni diverse, continuò ad alimentare a lungo una religione
popolare dei morti”40.

79
I Veneti antichi tra il Friuli
e il Finistère

Io sarei tentata (ma soltanto ‘tentata’ perché non ho al momen-


to elementi su cui costruire una attendibile ipotesi di lavoro) di
individuare queste tradizioni, diverse rispetto al sostrato celtico
ma omogenee tra loro, nella presenza in Bretagna di popolazioni
venete, ancora ben distinte dalle vicine popolazioni celtiche
quando Cesare conquistò la Gallia, mentre in Italia, come scrive
Loredana Capuis41, dall’alta pianura veneta a nord della fascia
delle risorgive, proprio all’imbocco della valle del Piave, fino
allo sbocco lagunare del sistema Sile-Piave gruppi etnici diversi,
Veneti, Reti, Celti, Italici, Romani coesistevano nella fase di in-
cipiente romanizzazione di un territorio che si andava definendo
come un bacino di primaria importanza nel nuovo quadro politi-
co-economico dove certo dovettero essere decisivi gli interventi
agrimensori romani e le centuriazioni e dove l’attivazione della
via Claudia Augusta, sanciva, anche in modo fortemente propa-
gandistico, il collegamento tra la frangia lagunare e il Danubio
attraverso la valle del Piave con passaggio obbligato a Feltre,
confine tra Veneti e Reti.
Il complesso intreccio di nomi, epifanie, funzioni, simboli che
trova il suo elemento di convergenza o di cerniera nell’idea, co-
mune già all’Europa antica, di una Grande Madre o Grande Dea
(sotto qualsiasi nome essa si presenti nel mondo mediterraneo,
greco, latino, italico, celtico) ha riscontri nel Veneto nell’unico
teonimo attestato, Reitia e nell’unico ‘ritratto’ della dea, quello
riprodotto nei dischi bronzei, che, salvo gli esemplari cosiddetti

80
“di Montebelluna”, unanimemente datati al IV-III secolo a.C. e
conservati al Museo Civico di Treviso, Capuis suppone rientrino
in quella produzione di tipo conservativo propria dell’artigia-
nato votivo veneto di età tardorepubblicana o primoimperiale
quando, ormai in un clima di avvenuta romanizzazione, i Veneti
tendono ancora a sottolineare la loro individualità ed autonomia
culturale perpetuando tipologie, e soprattutto iconografie, di
precedente tradizione42.
Reitia dovrebbe essere la dea che manifestava il suo po-
tere benefico attraverso le acque solforose di Montegrotto e
Mondragone e quelle sulfureo-ferruginose di Làgole di Calalzo,
nell’alta valle del Piave, che scorrono su levigati lastroni di
pietra e indugiano in piccolissimi, profondi laghetti, mentre
intorno, fra i pini, vi sono grotte che la tradizione locale indica
come rifugio delle Lagane, ninfe benevole dai piedi di capra che
si possono considerare strettamente imparentate con le Agane
abitatrici delle sorgenti solforose del Barquet.
Dietro alle colline di Asolo e di Monfumo, dal Piave al
Brenta, si estende la Pedemontana del Grappa; la pioggia in-
ghiottita dalle rocce carsiche del massiccio riaffiora incontrando
strati impermeabili e alimenta una miriade di fontanassi, le risor-
give di fondovalle di solito in anfratti e grotte. A Crespano c’è la
grotta-sorgente del Covolo abitata, come tante altre nella zona,
dalle Guane, “lavandaie notturne” che appaiono solo quando
vanno a stendere sui prati il loro bucato, di notte naturalmente;
nel territorio di Borso vi sono numerose sorgenti che scaturisco-
no sull’unghia del conoide di deiezione del torrente Cornosega e
alimentano la roggia Volone. Alcune di queste risorgive si chia-
mano “le Somegane” nome verosimilmente derivato da quello
delle ninfe che in origine le avevano abitate.

81
Il sistema Sile-Piave non è solo un sistema idrogeologico,
infatti, ma anche un sistema cultuale fondato sul rapporto tra
Reitia e l’acqua i cui riti, lungo tutto il corso del Sile, restano
legati, scrive Luisa Bellina43, a totem femminili: frequenti sono le
leggende di Madonne dai lunghi capelli che appaiono sulle rive
sotto forma di statue e che, trasportate altrove, nelle chiese di
paese, tornano cocciutamente di notte sul fiume per cui i fedeli
sono costretti a erigere cappelle, edicole, capitelli per ospitarle
dove loro vogliono, sugli argini, e qui trasferire i propri riti, ro-
gazioni, rosari, processioni. Ancora oggi una serie continua di
cappelle, una ogni due chilometri, accompagna il corso del Sile,
importante via d’acqua lungo le cui rive correvano strade alzaie o
restere per il traino da terra dei barconi che trasportavano merci,
soprattutto granaglie, da Treviso a Venezia.
Questa figura femminile ‘padrona’ e nume tutelare del luogo,
intermediaria tra l’acqua e gli uomini, oltre alle sembianze della
Madonna, assume a volte nell’immaginario collettivo quelle
della Fada Moresca dai capelli verdi, che vive nel Sile e amma-
lia e impietrisce chi la vede, un po’ come le Agane/Sirene che
abitavano nella grotticella della Fontanate in quel di Torlano,
chiamavano i passanti e li facevano uscir di senno senza peraltro
lasciarsi avvicinare.

82
Šajnatei Rejtijai

Il disco Montebelluna/1 dovrebbe rappresentare la testa di serie


rispetto agli altri cinque presi in esame da Loredana Capuis, in
cui è evidente un impoverimento della tecnica esecutiva e una
progressiva riduzione dell’apparato decorativo.
La figura femminile in esso rappresentata veste in modo rigo-
rosamente ‘continentale’ con una gonna scampanata ornata da
passamanerie o ricami, stivaletti del tipo di quelli indossati dalla
tracia Bendis e documentati dagli ex-voto in terracotta di Este,
e uno zendado che la copre dalla testa ai fianchi. Ha intorno al
collo un torquis celtico a tamponi e in mano una grande chiave
di tipo celtico. Capuis ritiene che gli animali (l’uccello-grifo e
il cane-lupo) e le piante che la circondano, il torquis che nel
mondo celtico era riservato alle donne di alto rango e alla dea
sovrana Rigani44 (si noti la forma di questo nome) e la chiave
la qualifichino come una potnia theroˉn, la Signora degli animali
e delle piante, che domina l’intero cosmo e governa le sorti del
mondo.
Ma questa Grande Dea della prima Europa, unica e indiffe-
renziata in quanto creatrice cosmica, assolve diverse funzioni
e assume diverse sembianze a seconda che sia dispensatrice di
nascita o reggitrice di morte o garante di rinnovamento e di
rigenerazione.
La valenza funeraria dell’immagine di Reitia non è mai stata
colta neppure attraverso il suo rapporto con Artemide/Diana e,
soprattutto, con Ecate, ma già nel 1992 accennavo alla possibilità

83
che i simboli da cui è circondata non indicassero semplicemente
e soltanto la signoria della Dea sul mondo animale e vegetale45.
Mi occupavo allora delle Agane di Pradis e del Barquet e co-
noscevo i risultati dell’inchiesta portata a termine da Gian Paolo
Gri sullo Scenario funebre in Val d’Arzino46, così che la nostra dea
di Montebelluna/1 mi è apparsa sotto un aspetto diverso e mi
sono presa l’arbitrio di ‘colorare’ il suo ritratto: ho immaginato
nero come il carbone il rapace alle sue spalle, bianco come la
neve il cane davanti a lei, simile, tra l’altro, a quello della scena
di sacrificio o di iniziazione del calderone di Gundestrup, e d’un
candore abbagliante, perché lavato da una qualche “lavandaia
notturna” friulana, il rassadôr… preso a prestito dalla chiesa di
Preone per un rito funebre, in bianco naturalmente…
Su questi elementi vorrei tornare, perché tra le principali
immagini di morte individuabili nella nostra preistoria e ancora
presenti nelle credenze popolari vi sono gli uccelli rapaci e i cani
o lupi, come, per la fase più antica della civiltà greca, risulta dai
versi 1-5 del primo canto dell’Iliade, nei quali si registrano in
estrema sintesi le conseguenze dell’ira funesta del Pelide Achille
“che infiniti addusse/ lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco/
generose travolse alme d’eroi/ e di cani e d’augelli orrido pasto/
lor salme abbandonò”.
Una connessione diretta tra l’uccello rapace e la morte è già
evidente nelle pitture murali dei santuari di Çatal Hüyük (VII
millennio a.C.) nell’Anatolia meridionale. L’uccello è identifica-
to come il grifone o l’avvoltoio del mondo antico, il gyps fulvus.
Completamente nero è un uccello impressionante soprattutto in
volo, con la sua apertura alare di quasi tre metri – dice Marija
Gimbutas47 – ma non è aggressivo e si nutre solo di carogne: di
qui la sua particolare associazione con la morte.

84
Grossi uccelli sono stati sepolti integri nelle tombe megali-
tiche dell’Europa occidentale, forse come offerta a una divinità
infera poiché anche in questo caso si tratta di uccelli che si ciba-
no solo di cadaveri.
La trasformazione della divinità femminile in avvoltoio è ben
nota nell’Egitto antico e nella Grecia: Atena stessa una volta,
nell’Odissea, si trasforma in avvoltoio. Tutte le Dee irlandesi
possono trasformarsi in uccelli e la Valchiria germanica è identi-
ficabile con il corvo, il nero uccello dei morti.
Dalla Dea-avvoltoio dell’Europa antica derivano le Sirene,
le Arpie, le Erinni, le Kere, che ancora in età medioevale sono
rappresentate con testa di donna e corpo di uccello, o almeno le
zampe, come la Baba Yaga russa.
Nell’Europa centro-settentrionale, dove gli avvoltoi non
distendono nel cielo il nero volo solenne, l’uccello messaggero
di morte è la più piccola e più graziosa ma non meno odiata e
temuta civetta, geroglifico della morte per gli Egizi e già presente
nella Francia meridionale durante il Paleolitico superiore.
Nell’area mediterranea antica il lupo e il cane (o lo sciacallo)
erano associati al mondo dei morti. A Orvieto, in una tomba
etrusca, Ades dio degli Inferi è rappresentato con una testa di
lupo come copricapo e Cerbero con tre gole caninamente latra
ancora nell’Inferno dantesco.
In tutte le mitologie, del resto, il cane è associato alla morte,
agli invisibili regni governati dalle divinità ctonie o selenie: da
Anubis a Cerbero (appunto) a Garm, e attraverso Thot, Ecate,
Ermes, il cane, presente in tutte le culture con varianti che ne
arricchiscono la simbologia primaria, è stato considerato la guida
dell’uomo nella notte dell’aldilà.
Che il latrare dei cani fosse presagio di morte era credenza

85
universale nel mondo antico e nel folklore europeo, come avre-
mo occasione di osservare anche in seguito. Nell’antica Grecia
i cani latravano all’avvicinarsi di Ecate (appunto), la terribile
Dea lunare. Erano animali a lei sacri e a lei venivano offerti in
sacrificio, ma erano anche la sua epifania.
La germanica Hel/Holle guidava i morti con l’aiuto dei suoi
cani che li sollecitavano azzannandoli come avrebbero fatto
con le pecore di un gregge affidato alla loro custodia, la lituana
Giltine, che, come ormai sappiamo, si aggirava nei cimiteri av-
volta in un lenzuolo funebre, era sempre accompagnata da un ca-
ne bianco, e il lupo/sciacallo che si ciba di cadaveri era l’animale
sacro alla norrena Skaði.
Al mondo dei morti riconducono tutte le credenze relative ai
lupi mannari presenti in aree culturali eterogenee, mediterranea,
celtica, germanica, slava, entro un lunghissimo arco di tempo.
Nei paesi germanici, baltici, slavi il periodo preferito dai lupi
mannari per le loro scorribande era quello delle dodici notti tra
Natale e l’Epifania, quando le anime dei morti uscivano a vaga-
bondare nel mondo dei vivi.
La trasformazione di un uomo in lupo mannaro, di cui già
parlavano tra gli altri Erodoto, Plinio, Pausania, era preceduta
dalla traversata di uno stagno o di un fiume. In questa traversata
si può vedere un rito di passaggio, oppure un equivalente della
traversata del fiume infernale che separava il mondo dei vivi da
quello dei defunti, essendo la morte il passaggio per eccellenza ed
essendo ogni cerimonia di iniziazione imperniata su una morte
simbolica48.
Mi sembrano dati sufficienti per immaginare che la Dea dei
dischi venetici sia rappresentata non come potnia theroˉn, generi-
camente, ma come divinità mortuaria49, o almeno come elemen-

86
to di valenza mortuaria di una divinità plurima quale era Diana/
Ecate al cui nome comunque e sempre si ritorna.
La cornice di fiori stilizzati e non facilmente identificabili in
quanto specie botanica e il rametto (di edera?) nel becco adunco
del rapace potrebbero alludere, invece, alla rinascita, al mito
dell’eterno rinnovarsi della vita.
Questo vale per il disco Montebelluna/1. Negli altri esem-
plari, come s’è detto, si avverte il graduale impoverimento della
tecnica, dello stile, del corredo simbolico: scompaiono subito gli
animali, le piante si riducono a forme sempre più stilizzate; alla
fine resta quasi solo la figura della Dea avvolta in un manto che
la copre completamente.
A Loredana Capuis non sembra da escludere l’ipotesi che
l’iconografia della Dea sia venuta a mutare proprio nella fase
di incipiente romanizzazione del Veneto, nello svolgersi di
un processo che dovette senz’altro comportare l’integrazione
progressiva tra indigeni e nuove genti favorita da un comune
sentimento religioso50, ma penso che la semplificazione e sti-
lizzazione dei dischi potrebbe anche dipendere dall’adozione di
modi di produzione seriale e, semmai, da una acquisita dimesti-
chezza con il soggetto, sentito come idoneo ad esprimere tutti i
suoi contenuti ideologici nonostante la riduzione all’essenziale
dei dati iconografici, salva comunque la presenza dei due fon-
damentali, la chiave che chiude i termini del mondo e il velo
che copre la figura della Dea, bianco, del colore del lutto, prima
(Montebelluna/1) nelle dimensioni d’un rassadôr come quello
che indossavano le lamentatici di Vito d’Asio, infine (a Ponzano
Veneto) così grande da avvolgere tutta la persona come la tela
biauscia di Erto.

87
La tomba a incinerazione
di Ponzano Veneto

Quale uso si facesse dei dischi non è mai stato chiaro. Loredana
Capuis distingue tra quelli di Montebelluna per cui è sempre stata
supposta la pertinenza a un santuario pubblico e quelli di Musile
e di Ponzano Veneto che potrebbero inquadrarsi in quell’aspetto
particolarmente ambiguo della cultualità veneta rappresentato
dalle stipi private legate alla casa, ma li si è, comunque, sempre
considerati ex-voto51 da appendere preferibilmente ai rami di un
albero sacro. E che in un qualche momento di un qualche rito
questa fosse la loro collocazione non ho nessun motivo per met-
terlo in dubbio, ma la tomba di Ponzano52 mi induce a formulare,
all’interno “di una rilettura critica dei ritrovamenti meno recenti
e di un ripensamento di alcuni problemi aperti”53, almeno un’al-
tra ipotesi circa la loro destinazione d’uso finale.
La tomba di Ponzano è una sepoltura in anfora segata, all’in-
terno della quale sono stati rinvenuti due vasi ossuari e diversi
elementi di corredo accessorio, inventariati e puntualmente
descritti da Giovanna Gambacurta54.
Di estremo interesse, a mio parere, l’olla 7, caratterizzata
dall’alloggiamento per il coperchio sull’orlo e inquadrabile nelle
tipologie degli ossuari della prima età imperiale romana. Sull’olla
era stato collocato, come coperchio, un disco in lamina di bronzo
a sbalzo, del diametro di 15,5-16 cm circa, con cornice molto
semplice. Nel campo la figura della Dea clavigera, già nota attra-
verso gli altri dischi, di profilo a sinistra, come sempre, avvolta
dalla testa alle caviglie in un manto con accenno di pieghe e

88
decorazione a puntini. Ha in mano la solita grande chiave e da-
vanti e alle spalle elementi vegetali molto stilizzati.
Al momento della scoperta il disco usato come coperchio
dell’ossuario aveva ancora la sua fascetta di sospensione appog-
giata all’orlo del vaso, la fascetta che si trova ancora soltanto
nell’esemplare di Musile e che in tutti gli altri si è staccata, nel
tempo, insieme alla parte del disco cui era fissata con ribattini.
Attraverso questa fascetta o un anello ad essa pertinente, come si
può vedere nell’esemplare di Musile, doveva passare un cordone
utile a trattenere il coperchio in posizione corretta sull’apertura
dell’ossuario.
Nella stessa sepoltura, sull’orlo dell’olla 2, vi era un’altra
lamina di bronzo, del tipo “a pelle di bue”, decorata a sbalzo,
con fascetta di sospensione al margine superiore fissata con un
ribattino di piombo. Questo ossuario era completo del normale
coperchio d’argilla sovrapposto alla pelle di bue sul cui valore
simbolico e funerario vorrei molto brevemente soffermarmi.
Apollonio di Rodi nel poema Le Argonautiche (metà circa del
III secolo) racconta di come gli abitanti della Colchide, quan-
do un uomo moriva, ne appendessero il cadavere a un albero,
fuori della città, avvolto in una pelle di bue non conciata. Nel
Caucaso, e in particolare fra gli Osseti, queste pratiche funerarie
erano diffuse ancora fino a pochi decenni fa e viaggiatori sette-
centeschi l’avevano registrata, sebbene in via di estinzione, tra
gli Jacuzi in Siberia.
Avvolgere e cucire i morti (maschi: le donne venivano di-
rettamente inumate) in pelli di animali è una consuetudine che
Carlo Ginzburg55 collega al rito eurasico di resurrezione basato
sulla raccolta delle ossa avvolte poi nella pelle degli animali
uccisi. Tutto ciò che avvolge, racchiude, nasconde, l’amnio, un

89
mantello, una pelle di bue o di bufalo, una maschera, un velo e
così via, viene in qualche modo, entro culture disparate, messo
in rapporto con la morte.
Penso che le due lamine di bronzo della tomba di Ponzano
non siano finite per caso sopra i rispettivi ossuari, ma siano state
pensate, decorate, predisposte forse anche per sigillarli e proteg-
gerne il contenuto, più probabilmente con finalità augurali, visto
che la chiusura sarebbe stata comunque garantita, almeno nel
caso dell’olla 2, da un coperchio di argilla, come nei bellissimi
vasi situliformi in ceramica a fasce rosse e nere prodotti a Este già
nel VII-VI secolo a.C., contemporaneamente alla grande fiori-
tura delle situle metalliche, recipienti a forma di secchio, molto
comuni anche nel mondo orientale e centroeuropeo formati da
una o due lamine di bronzo lavorate a sbalzo, bulino e cesello,
curvate e congiunte con chiodi ribattuti56.
L’arte delle situle, comune a popoli diversi finitimi tra loro
(oltre ai Paleoveneti, gli antichi abitanti della Val Padana,
dell’alta valle dell’Isonzo, della Slovenia, dell’Austria) ha nel
Veneto una serie di prodotti derivati che persistono a lungo e
tra essi vi sono appunto i dischi di Montebelluna e le laminette
votive di Este e Vicenza, mentre le tombe, soprattutto quelle
atestine, hanno restituito molte situle in bronzo, spesso usate per
contenere le ossa cremate dei morti, ma anche coperchi di situle
con figure a incisione o a sbalzo.
I dischi potrebbero dunque essere stati coperchi di situle me-
talliche perdute o lamine di protezione di ossuari di argilla: la
sepoltura di Ponzano Veneto ne è finora la sola ma convincente
testimonianza ed è comunque singolare e significativo che, men-
tre il nome di Reitia appare su un grandissimo numero di oggetti
ceramici e metallici a lei offerti ex-voto, l’unica immagine della

90
Grande Dea dei Paleoveneti giunta fino a noi verrebbe ad avere
una connotazione essenzialmente funeraria, attestando l’impor-
tanza che tra i Veneti antichi ebbe la religione dei morti.

91
I bleóns dai muàrs

A proposito delle corrispondenze tra le antiche leggende cui


s’è già accennato e le notizie fornite da Procopio sui pescatori
bretoni traghettatori di anime, da un lato, e, dall’altro, le di-
chiarazioni dei benandanti friulani riportate da Carlo Ginzburg,
ho registrato la sua tentazione di accostarle “supponendo in en-
trambi i casi la presenza di un sostrato celtico che, in Bretagna
come in Friuli, combinandosi con tradizioni diverse, continuò
ad alimentare a lungo una religione popolare dei morti”, e la mia
tentazione di individuare queste tradizioni diverse nella cultura
e nella religione dei Veneti antichi, stanziati nel Finistère o tra
l’alto Adriatico e le Alpi Carniche e Giulie, e credo sia giunto
il momento di utilizzare le notizie anche disparatissime sin qui
registrate per definire, finalmente, l’identità delle nostre Agane,
Pagane, Dujacesse, Streghe (e quant’altre) “lavandaie notturne”.
Per religione, per consuetudine, per necessità o per emergenza
spesso i cadaveri sono ancora oggi consegnati alla terra avvolti in
un lenzuolo funebre. Sappiamo che in Friuli, in passato, si usava
lasciare in un primo tempo i morti sul loro letto, vestiti con
un abito che di solito era quello delle nozze e serviva così an-
che per l’ultimo rito di passaggio, ma coperti da un lenzuolo.
Nell’Ampezzano coloro che morivano in un casolare di mon-
tagna venivano portati a valle su barelle improvvisate avvolti
in un lenzuolo e Antonio Battistella, a proposito dei funerali di
bambini appartenenti a famiglie ricche, dice che erano portati
in chiesa coperti da un velo d’oro e avvolti in una tela di lino
bianca per cui usa il termine colto di “sindone”57.

92
A Cercivento molte famiglie avevano lenzuola apposite
chiamante bleóns dai muàrs e coprivano con tele bianche
non solo il letto su cui giaceva il cadavere ma anche gli altri
mobili della stanza.
Dalle inchieste napoleoniche risulta poi che la partecipazione
ai funerali delle lamentatrici era molto frequente ancora all’ini-
zio dell’Ottocento: esse indossavano calze bianche e si coprivano
con un grande telo bianco; a Erto era chiamato semplicemente
la tela, e la tela biauscia si è usata fin dopo la seconda guerra mon-
diale.
A Preone le lamentatrici ricevevano in prestito dalla chiesa
stessa i fazzoletti bianchi e li legavano in modo che coprivano la
fronte e dietro formavano una svuala. A Vito d’Asio portavano
in capo un pannolino bianco inamidato cui si sovrapponeva un
peplo bianco, il rassadór o rassadùar, che scendeva in due larghi
e lunghi lembi fino alle ginocchia, o il più piccolo panùc’’58. A
Gradisca e dintorni vestivano di nero ma erano poi completa-
mente avvolte, come Giltine e la Reitia del disco di Ponzano, da
una specie di lenzuolo.
In tutta la Val Cellina si ricorda il grande velo bianco che
le donne portavano nel periodo del lutto. A Colza e a Ravinis
il velo bianco si chiamava quadri, nell’Ampezzano codrèl, a
Cercivento pièce, altrove anche fazzuòl.
A Pradis le vedove portavano per tutto l’anno, uscendo di
casa, calze e fazzoletto bianchi.
Per i funerali di una ragazza nubile le compagne che la se-
guivano erano vestite di bianco, come per uno sposalizio con la
morte.
Il lutto in bianco si ricollega al sistema simbolico dell’Europa
antica, in cui i colori avevano un significato diverso da quello

93
che hanno poi assunto nella mitologia indoeuropea e nella li-
turgia della chiesa cattolica: il nero era il colore del suolo fertile,
delle grotte umide e oscure, metafora del grembo primordiale
che genera la vita; il bianco era il colore della morte e delle ossa
e, poiché in tutti i tipi di pensiero simbolico la morte precede la
vita e la rigenerazione, era anche il colore di chi si accostava a
un cerimoniale iniziatico o a un rito di passaggio. Nelle tradizioni
e nel folklore europeo il bianco è talvolta rimasto il colore della
morte e del lutto, a conferma dell’“incredibile ostinazione di
certe immagini simboliche a sopravvivere e a sopravviversi, vero
deposito sacro di epoche perdute”59 e le grandi candide tele che si
stendevano sul letto dei morti, che coprivano i mobili delle loro
camere, che avvolgevano le lamentateci e le donne in lutto altro
non erano che delle sindoni adibite ai rituali loro propri pur con
destinazione d’uso un po’ modificata nel tempo.

94
Morire nel paese
delle maouèz-noz

In Bretagna invece il lenzuolo funebre è rimasto in uso fino ai


nostri giorni o quasi.
La mia informatrice e collaboratrice parigina Mireille
Giovine mi ha raccontato di come suo padre, piemontese di
Canelli stabilitosi dopo la prima guerra mondiale a Montauban-
de-Bretagne e morto nel 1969, fosse stato deposto nella bara
secondo l’usanza bretone: sa tenue mortuarie ètait composée d’une
chemise blanche, col empesé, cravate sombre (unica nota scura).
Le linceul remontait sous le bras. Le bras ramenées sur l’estomac,
les mains jointes sur un chapelet et un crucifix. Ricorda di aver
partecipato ai funerali di tre donne a Montauban e tutte indos-
savano una camicia bianca e un lenzuolo che le avvolgeva fino
alle ascelle.
È una sepoltura in bianco di cui mi ha dato conferma Jean F.
Simon del Centro di Ricerche bretoni e celtiche di Brest: nella
bassa Bretagna, quando il decesso avviene in casa, il corpo è av-
volto nella parte inferiore da una tela che assolve le funzioni di
lenzuolo funebre e si parla in tal caso di “fasciare il morto”.
Mireille Giovine mi ha messo in contatto anche con Veronique
Perennou della Associazione Dastum di Rennes, la quale mi ha
confermato l’uso del lenzuolo funebre in Bretagna fino agli anni
intorno al 1975 e in qualche caso fino ai nostri giorni.
Mi ha detto che il sudario è scomparso solo quando è invalsa
l’abitudine di imbottire le bare e di usare sacchi di plastica per
avvolgere i morti, precisando di aver ricevuto questa informazio-

95
ne da un falegname che produce (o almeno produceva nel 1996)
anche bare nella regione di Rédon, al confine tra l’Ille-et-Vilaine
e il Morbihan, luoghi mitici, come ormai sappiamo, dove è an-
cora possibile incontrare le maouèz-noz, le “donne della notte”.
Dal Centro di Ricerche bretoni e celtiche di Brest ho avuto
diverse fotocopie con racconti relativi alle “lavandaie notturne”,
tratti da autori dell’Ottocento, e soprattutto da Paul Sébillot,
e sono quelli che ho in parte riportato. Simon mi precisa, e i
racconti lo confermano, che l’uso protratto del lenzuolo funebre
riguarda le regioni estreme della Bretagna che corrispondono al
dipartimento del Finistère.
Dunque possiamo ben credere che le nostre biancovestite “la-
vandaie notturne”, come le kannerezed noz bretoni, le beannighe
gaeliche e scozzesi, le Badb o Morrìgan irlandesi, accomunate
tutte, per di più, dall’essere nate e cresciute in paesi che per
centinaia di anni, in qualche caso fino dal V secolo a.C., furo-
no abitate da Celti, non si dedicherebbero così assiduamente e
ossessivamente a lavare lenzuola se non fossero, o non fossero
state connesse al mondo dei morti e degli spiriti, come le Grandi
Dee antiche e le Matres da cui discendono e le tele bianche che
lavano non fossero, o non fossero state lenzuola funebri, tessute
con pazienza e sapienza, a cominciare da quella paradigmatica di
Penelope60, conservate con amore e pietas, come i nostri bleòns
dai muàrs, in attesa degli ineludibili giorni in cui la Bianca
Signora avrebbe visitato la casa, preannunciata, del resto, da una
qualche sua messaggera.
Nell’antica Irlanda messaggere di morte erano, come s’è detto,
le “lavandaie notturne” Morrìgan e Badb, che si riteneva potesse
manifestarsi anche sotto forma di tre cornacchie. Nel Settecento
Badb fu assimilata alla banshee (“donna della collina fatata”) e

96
nel folklore irlandese degli ultimi secoli compare di solito come
una piccola vecchia (vi sono, in Irlanda, questi Esseri di piccole
dimensioni, “il piccolo popolo”, “la piccola gente”, come in
Sardegna) con lunghi capelli grigi sciolti e vestita dell’antico
mantello irlandese. La sua presenza non è tanto vista quanto
sentita; si dirige verso la casa dell’ammalato e vi gira intorno, si
avvicina agli ingressi o alle finestre. Per alcuni informatori inter-
vistati da Patricia Lysaght nel 1976 la banshee non è altro che un
uccello: “si sentiva il battito delle sue ali”61.
Nella regione basca, invece, l’annunciatrice di morte ha con-
servato fino all’Ottocento l’aspetto primordiale di un avvoltoio.
Giltine, la morte lituana che si aggira nei cimiteri racco-
gliendo veleno dai cadaveri avvolta in un bianco lenzuolo, è
accompagnata, come già abbiamo visto, dall’animale a lei sacro,
un cane bianco e l’ululare di un cane o la vista di un cane bianco
che viene da un cimitero sono presagi di morte. Come la banshee
irlandese, Giltine è più spesso udita che vista, ma la sua voce è
più misteriosa e indefinibile di un gemito, di un lamento, di uno
strido d’uccello62.
In diverse regioni d’Europa la morte può manifestarsi anche
nell’aspetto di una o più fanciulle vestite di bianco, tre, di prefe-
renza, poiché il tre con cui nel mito e nella fiaba si manifesta la
femminilità (le Parche, le Grazie, le Erinni, le Norne, le Matres,
e, naturalmente, Ecate triforme, la triplice Brighid e così via) ci
pone di fronte al rapporto che il femminile (la madre e la figlia)
intrattiene con la morte essendo la terza figura la cifra del nostro
comune destino63.
In Val d’Arzino, dove – scrive Gian Paolo Gri64 – lo scenario
funebre ha mantenuto più a lungo aspetti arcaici, è preannuncio
di disgrazie anche solo sognare persone vestite di bianco.

97
Nel Friuli in generale come in moltissimi altri paesi d’Europa
l’annunciatrice di disgrazie è per eccellenza la ciuvita: quando
si avvicina alla casa è brutto segno, quando batte contro i vetri
della finestra è presagio di morte.
Gilberto Pressacco65 avanzava la suggestiva ipotesi che alcuni
tratti arcaici del costume e del carattere degli Asìns (gli abitanti
della Val d’Arzino) abbiano origine e spiegazione nelle tradizioni
della setta/comunità giudaico-cristiana dei Terapeuti, di cui già
Filone Alessandrino (30 a.C.-40 d.C.) testimoniava la presenza
fuori del comprensorio urbano di Alessandria e oltre gli stessi
confini dell’Egitto e, a dire di Eusebio di Cesarea (III-IV secolo),
non erano altro che “la chiesa di Marco” della quale è lecito cer-
care le tracce anche nei territori soggetti alla giurisdizione della
Chiesa di Aquileia che la tradizione vuole fondata da Marco e
principalmente, appunto, nella valle dell’Arzino che ha conser-
vato, attraverso un tipo di religiosità popolare e rustica, elementi
di derivazione ebraica e tracce di culti e riti estatici.

98
Note

1 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 441.


2 ANONIMO, La chasa de las Saganas, in “Pagine Friulane”, IV, 10 (1891), pag. 168 e
segg.
3 G. B. GEROMETTA, La ciasa de las Saganas, in “Ce fastu?”, IV, 9 (1928), pag. 177 e
segg.
4 M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea cit., pagg. 318-319; F. LE ROUX, Religione cit.,
pag. 114.
5 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 167-168, si sofferma su questi riti penteco-
stali, sulle rusalii, spiriti dei morti in ambito slavo identificati con divinità acquatiche
femminili e, per il caso di Duboka, cita alle note 31-35 a pag. 180 gli scritti di M. E.
DURCHAM, Trances at Duboka, in “Folk-Lore”, 43 (1932), pagg. 225-238, e di G. A.
KÜPPERS, Rosalienfest und Trancetänze in Duboka. Pfingstbräuche im osterbischen
Bergland, in “Zeitschrift für Ethnologie”, 79 (1954), pagg. 212 e segg.
6 Ivi, pag. 81 e segg.
7 Ivi, pag. 68 e segg.: la donna si chiamava Maria Panzona; Carlo Ginzburg ne fa cen-
no per la corrispondenza fra i crimini da lei confessati e quelli di cui erano state accu-
sate alla fine del Trecento Sibillia moglie di Lombardo de’ Fraguliati di Vicomercato e
Pierina moglie di Pietro de Bripio, condannate a morte perché “eretiche manifeste” e
inoltre “recidive” da inquisitori domenicani uno dei quali aveva chiesto addirittura
l’assistenza dell’arcivescovo di Milano; i loro “enormi delitti” consistevano nell’essersi
incontrate per anni, la notte del giovedì, con Madonna Horiente che insegnava loro le
virtù delle erbe, rimedi per curare le malattie, il modo per sciogliere i malefizi, ecc.; v.
anche F. NARDON, Benandanti “funebri”: le processioni dei morti nei documenti inquisi-
toriali, in P. MORO, G. C. MARTINA, G. P. GRI (a cura di), L’incerto confine. Vivi e
morti, incontri, luoghi e percorsi di religiosità nella montagna friulana, Atti dei seminari su
“I percorsi del sacro”, “Anime che vagano, anime che tornano”, Tavagnacco 2000, pag.
175 e nota 9 a pag. 180. Franco Nardon riporta uno stralcio della confessione di Maria
e la precisazione che “le anime, come farfalle, volano a convegni-combattimenti-festi-
ni presieduti da una figura femminile, la Badessa”.
8 W. RUTHERFORD, Tradizioni celtiche. La storia dei druidi e della loro eredità culturale,
Milano 2004, pagg. 104-105.
9 Ivi, pag. 105.
10 Ivi.

99
11 N. CANTARUTTI, in R. VATTORI (a cura di), Appunti di tradizioni popolari, in
Val d’Arzino, Val Cosa, Val Tramontina, Udine 1986, pag. 24.
12 E. FARAONE, P. GUIDI, Nota cit., pag. 95.
13 N. CANTARUTTI, Appunti cit., pag. 24, e soprattutto Oh, ce gran biela vintura.
Testi di tradizione orale tra il Meduna e le convalli, Pasian di Prato 2001, pagg. 408-413.
Ma si diceva anche “lasse che la magne ‘a vadi pe’ campagne”.
14 L. D’ORLANDI, N. CANTARUTTI, Credenze sopravviventi in Friuli cit., pag. 31;
D. PERCO, Anguane-Longane cit., pagg. 408-409, scrive che nei dialetti settentrionali
si sono sedimentate alcune espressioni che sembrano alludere solo alle valenze negati-
ve delle Agane, identificabili perciò con le Streghe: “te ses un’Aivana”, “Viôt ce Agane!”,
“la ga na lingua come n’Anguana” e, a pag. 417, riferisce che a Bedollo nel Trentino si
definiscono “ragazze di razza vivana” le “cattive ragazze” (che del resto, come sappiamo,
in Paradiso non ci vanno di certo, ma “vanno dappertutto” di giorno e di notte, proprio
come le Agane).
15 S. THOMPSON, La fiaba nella tradizione popolare, Milano 1967, pag. 353.
16 OVIDIO, Metamorfosi, XV, v. 356 e segg.
17 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 281; R. F. LE MEN, Tradition et superstitions
de la Basse-Bretagne in “Revue Celtique”, vol. I, pag. 230, scrive che alla metà dell’Ot-
tocento c’erano ancora dei vecchi nel Finistère che dicevano di essere stati rapiti
quand’erano bambini da certe streghe locali che si chiamavano Corrigan; J. RHYS,
Celtic Folk-Lore. Welsh and Manx, Oxford 1901, vol. I, pagg. 100, 194, 199, dice di aver
sentito parlare in varie zone del Galles ancora alla fine dell’Ottocento di persone che
erano state rapite dai fairies e di aver conosciuto persone che erano ritenute figlie dei
fairies.
18 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pagg. 426-428.
19 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 235.
20 H. SIEGERT, I Traci, Milano 1986, pag. 211.
21 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 195.
22 W. RUTHERFORD, Tradizioni celtiche cit., pag. 55.
23 V. JA. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino 1948, pag. 177.
24 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 114 e 189, e nota 96 a pag. 127.
25 E. ZOLLA, Aure, Venezia 1988, pag. 37.
26 L. D’ORLANDI, N. CANTARUTTI, Credenze sopravviventi in Friuli cit., pagg. 18,
19, 24.
27 N. CANTARUTTI, Oh, ce gran biela vintura cit., pagg. 364-369.

100
28 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 423.
29 M. ALINEI, Silvani latini, aquane ladine cit., pag. 67
30 M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea cit., pag. 209.
31 D. PERCO, Le Anguane: mogli, madri e lavandaie cit., nota 6 a pag. 78, scrive: per
una discussione sul genere “leggenda di credenza” rimandiamo a L. DEGH, What is a
Belief Legend? in “Folklore”, 107 (1996), pagg. 33-46 e alla replica di G. BENNET, ivi,
pagg. 47-48; di G. BENNET si veda anche Belief Stories. The Forgotten Genre in
“Western Folklore”, 8 (1989), pagg. 289-311; un importante contributo rimane quello
di O. BLEHR, The Analysis of Folk Belief Stories and its Implications for Research on Folk
Belief and Folk Prose in “Fabula”, 9 (1967), pagg. 259-263. In italiano con l’espressione
“leggende di credenza” si indicano quei racconti che si facevano rientrare in passato nel
settore della “mitologia popolare”. L’aggettivo “popolare” è già da tempo caduto dopo
termini come “arte”, “tradizioni”, “religiosità”, “credenze”, “superstizioni”, o anche
“medicina”, “psicologia” ecc. Usato nell’Ottocento, quando si è incominciato ad occu-
parsene, per distinguere prodotti materiali o ideologici di largo consumo da prodotti
colti, sostanzialmente elitari, aveva finito per implicare un giudizio di valore. Per que-
sto l’aggiornamento lessicale era doveroso.
32 G. VIDOSSI, Saggi e scritti minori di folklore, Torino 1960, pag. 232.
33 I miei corrispondenti bretoni mi hanno inviato un grande numero di fotocopie con
racconti sul tema delle “lavandaie notturne” e dei sudari, ma le indicazioni bibliografi-
che non sono sempre esaurienti. Inoltre, ritrovando le stesse storie in diverse raccolte e
non potendo, per ragioni di spazio e di complessivo equilibrio del presente scritto, ripor-
tarle integralmente, ho preferito ri-raccontarle anche utilizzando diversi testi di parten-
za. Mi limito quindi a nominare gli autori da cui le ho tratte e il titolo dei loro libri: P.
SEBILLOT, Traditions de la Haute-Bretagne, 2 voll., Parigi 1882; Coutumes populaires de
la Haute-Bretagne, 2 voll., Parigi 1885; Légendes, croyances et superstitions de la Mer, 2
voll., Parigi 1886-1887; scritti vari in “Revue de Bretagne, de Vendée et d’Anjou”, 1882-
1887; Le Folk-Lore de France, 4 voll., Parigi 1904-1907; A. LEBRAZ, La légende de la
mort; M. LUZEL, Légendes chrétiennes de la Basse-Bretagne; G. SAND, Légendes rustiques.
34 Può sembrare strana, soprattutto ai nostri giorni, la parità delle pene inflitte per un
infanticidio e per la mancata osservanza del precetto festivo, ma per l’importanza che
la Chiesa attribuiva in passato alla santificazione della festa rinvio alle mie ricerche su
questo tema: S. SIBILLE-SIZIA, Il Cristo della domenica, in “Sot la Nape”, XLIV (1992)
3, pagg. 5-20; No si lavore la fieste, in “Sot la Nape”, XLVI (1994) 4, pagg. 45-57; Sante
del dì di festa nel territorio del Patriarcato di Aquileia, in “Ce fastu?”, LXXVII (2001) 2,
pagg. 223-260, edito anche come Quaderno autonomo a cura della parrocchia di San
Pietro Apostolo a San Pietro di Feletto, III ed., Treviso 2004.
35 J. SHARKEY, Celtic mysteries. The ancient religion, prima pubblicazione in Inghilterra
nel 1975, ristampa a Singapore 1987, ma anche, con minime variazioni, W.
RUTHERFORD, Tradizioni celtiche cit., pagg. 246-247.

101
36 Raccontato in bretone da François Thepaut a Plouaret il 19 febbraio 1890 e pubbli-
cato in “Bulletin Archéologique Finistère”, 21 (1894), pagg. 458-461.
37 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 535.
38 N. CANTARUTTI, Oh, ce gran biela vintura cit., pagg. 120-121; G. PERUSINI,
Nota sulle leggende della val Meduna raccolte da N. Cantarutti, in “Ce fastu?”, XXVII-
XXVIII (1951-1952).
F. LE ROUX, La religione dei Celti, in H. CH. PUECH (a cura di), Le religioni dell’Eu-
ropa centrale precristiana, Roma-Bari 1988, pagg. 166-171.
39 Ivi, pag.142; C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 83-84 e note 75-77 a pag.
95.
40 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 85.
41 L. CAPUIS, Per una rilettura dell’iconografia/iconologia dei dischi, in “Quaderni di
Archeologia del Veneto”, XIV (1998), pag. 117.
42 Ivi, pag. 113.
Nel gennaio del 2005 i Carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale di
Venezia hanno sequestrato nei locali del Museo privato di Nervesa della Battaglia in
provincia di Treviso e nelle relative pertinenze migliaia di reperti archeologici litici e
fittili provenienti dal Montello, dei quali non c’è traccia nella documentazione ufficia-
le, probabilmente nascosti in attesa di essere immessi nel mercato clandestino. Tra es-
si un disco paleoveneto di bronzo lavorato a sbalzo e bulino risalente al II secolo a.C.,
il solo completamente integro fra i 13 recuperati finora nel Veneto, considerato dalla
soprintendente per i beni archeologici del Veneto Maurizia De Min “di notevole im-
portanza sotto l’aspetto scientifico”. Rappresenta una figura del tipo ormai noto come
“dea clavigera”, senonché le manca proprio la chiave (assente anche nei due dischi del
monte Altare) sostituita da un ramo, pare d’ulivo, e da tre foglie d’edera allusive, co-
munque, all’avvicendarsi della morte e della rinascita, al mito dell’eterno ritorno.
Nella sinistra tiene una piccola corona formata da altri due rametti d’ulivo. Il volto, di
profilo a sinistra come sempre, è caratterizzato da un naso piccolissimo, ben diverso da
quello grande e grosso degli altri dischi (in particolare il Montebelluna/1) in cui, alla
metà del Novecento, Raffaello Battaglia (“Bollettino del Museo Civico di Padova”,
XLIV (1955), pag. 38) vedeva una precoce testimonianza di quella che gli sembrava la
“nobile caratteristica antropologica della gente veneta”. La chioma lunga e ricciuta
non è nascosta dal manto, una corta tunica sfiora le ginocchia e sotto c’è una gonna
leggermente scampanata ornata da ricami o passamanerie e lunga fino ai piedi. Non vi
sono animali ma solo elementi vegetali che occupano, in un impianto compositivo
molto equilibrato, gli spazi disponibili.
43 L. BELLINA, Testi, in Treviso e i colli asolani. Acque, vapori,umori, Farigliano
1993.

102
44 J. J. HATT, Mytes et dieux de la Gaule, Parigi 1989, pag. 80, pag. 83 e segg.
45 S. SIBILLE-SIZIA, Agane cit., pag. 637.
46 G. P. GRI, Lo scenario funebre in Val d’Arzino, in “Ce fastu?”, L-LI (1974-1975).
47 M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea cit., pagg. 187-195.
48 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 131-136.
49 W. RUTHERFORD, Tradizioni celtiche cit., pag. 58, considera Reitia una divinità re-
tico-celtica (“di tipo celtico” viene del resto definita la chiave che tiene in mano e cel-
tico è indubbiamente il torquis a tamponi che porta al collo e non fa invece parte
dell’abbigliamento delle donne venete, neppure se di alto rango) e ne coglie indiretta-
mente la valenza mortuaria attraverso dati attuali: il primo novembre, Samain, era la
festività più importante dell’anno celtico perché segnava l’inizio della sua “metà oscu-
ra”, quando gli esseri umani venivano a contatto con l’Altro Mondo. Nella liturgia cat-
tolica la festa si è trasformata in quella di Ognissanti. Si noti – scrive Rutherford – che
a Monselice, in provincia di Padova, dove in epoca preromana vi erano insediamenti
celtici, come attesta la località di Abano il cui nome deriva da quello del dio celtico
Maponus, collegato alle acque guaritrici, si festeggia ogni anno da tempo immemorabi-
le la Fiera dei Santi, che dura tre giorni, come Samain, ed è la festività più importante
della zona. Non lontano, ad Este, vi era in epoca paleoveneta uno dei santuari più ve-
nerati del mondo preromano, quello della dea Reitia. Con Ognissanti è collegato il
giorno dei Morti, chiaro riferimento all’Altro Mondo di Samain.
50 L. CAPUIS, Per una rilettura dell’iconografia/iconologia dei dischi cit., pag. 117.
51 L. CAPUIS, in I Veneti (collana diretta da M.TORELLI), Società e cultura di un po-
polo dell’Italia preromana, Milano 1994, pag. 258, scriveva che: dei famosi “dischi di
Montebelluna”, giustamente ritenuti degli ex voto, si sa solo che furono acquistati
all’inizio dell’Ottocento da un mercante di stoffe che ogni giorno giungeva a Treviso da
Montebelluna ma che riforniva anche il Bellunese e l’Agordino. Si tratta di quattro
splendidi prodotti della più tarda arte delle situle, databili tra il IV e il III secolo a.C.,
nei quali confluiscono temi e stilemi diversi, tardo-orientalizzanti, veneti, celtici avva-
lorando l’ipotesi della loro provenienza da un’area culturalmente ibrida quale è appun-
to la valle del Piave.
52 La scoperta della tomba (che non sembra facesse parte di una vera e propria necropo-
li perché nella zona non sono state trovate tracce di altre sepolture) in comune di
Ponzano Veneto, forse in corrispondenza dell’incrocio tra cardo e decumanus maximus
dell’agro centuriato di Tarvisium, è stata fatta casualmente da Pierduilio Pizzolon il 16 lu-
glio del 1995, nel corso di uno scasso finalizzato a opere di urbanizzazione in terreno ghia-
ioso, a 500 metri a nord rispetto al tracciato della via Postumia e a un chilometro circa a
ovest rispetto al torrente Giavera che sgorga da risorgiva in una grotta del Montello.
53 L. CAPUIS, nell’Addendum all’edizione del 2004 de I Veneti cit., pag. 283, Loredana
Capuis osserva che dieci anni sono un periodo lunghissimo per un libro di archeologia

103
legato al territorio dato che in terre ricche di testimonianze antiche come il Veneto i
frenetici ritmi dell’attività edilizia comportano continue nuove scoperte. Notevole
quindi su tutti i fronti l’arricchimento delle conoscenze nonché la possibilità di una ri-
lettura critica dei ritrovamenti meno recenti e di un ripensamento di alcuni problemi
aperti. La mia non vuole essere più che una proposta di rilettura di alcuni ritrovamen-
ti antichi e recenti, determinata non tanto da argomenti rigorosamente archeologici
quanto da suggestioni mitiche, poiché è il filone delle leggende di credenza quello che
ho seguito e seguirò nel presente studio.
54 G. GAMBACURTA, La tomba di Ponzano, in “Quaderni di Archeologia del
Veneto”, XIV (1998), pagg. 108-112.
55 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 246-247.
56 A. M. CHIECO BIANCHI, M. TOMBOLANI (a cura di), I Paleoveneti, Catalogo
della Mostra sulla civiltà dei Veneti antichi, Giunta Regionale del Veneto, Dipartimento
per l’informazione, Limena 1988, figg. 103-104 a pag. 82, 109 a pag. 85, 109-114 alle
pagg. 85-90, 126 a pag.97, 127 a pag. 98. Interessante è l’interdipendenza tra le forme
fittili e quelle metalliche: a Padova in particolare è attestata la trasposizione su vasi fit-
tili di figurazioni incise o a rilievo mutuate dall’arte delle situle. I vasi fittili ci sono spes-
so giunti completi del loro coperchio, con bordo che scivola sull’orlo del vaso in modo
da garantirne la tenuta. Si veda L. CAPUIS/A. M. CHIECO BIANCHI, Este preroma-
na. Vita e cultura, in G. TOSI (a cura di), Este antica dalla preistoria all’età romana,
Cittadella 1992: nell’ossuario della fine dell’VIII secolo a.C. proveniente dalla necro-
poli Casa di ricovero, tomba 236, al posto del coperchio è stata usata una ciotola capo-
volta (pag. 55, fig. 31) e la situla in bronzo sbalzato della seconda metà del IV secolo
a.C. dalla necropoli Baldù Dolfin, tombe 52-53, ha conservato in parte il coperchio in
bronzo, piatto e ribattuto tutt’intorno verso il basso in modo da formare un orlo che si
sovrappone a quello della situla, in grado di chiuderla, per quanto possibile, ermetica-
mente (pag. 42, fig. 21).
57 A. BATTISTELLA, Udine nel secolo XVI, Udine 1932.
58 G. P. GRI, Lo scenario funebre in Val d’Arzino cit., pag. 86, figg. 1 e 2.
59 G. DE SANTILLANA, Fato antico e fato moderno, Milano 1986, pag. 165.
60 E. SIVESTRINI, in E. SILVESTRINI, G. P. GRI, R. PAGNOZZATO, Donne
Madonne Dee, Padova 2003, pag. 45: un racconto popolare siciliano descrive Sant’Agata
come una straordinaria tessitrice che, avendo posto il completamento di una tela cui
stava lavorando come condizione per accettare, o meglio rimandare all’infinito un ma-
trimonio imposto, di giorno faceva e di notte disfaceva la tela; fin qui il modello-Pene-
lope risulta correttamente seguito, ma un noto proverbio siciliano rovescia i termini
della storia: “Essiri comu la limpia di Santa Aàti, ca la notte tissia, e lu jornu scusia”. R.
EISLER, Weltenmantel und Himmelszelt, München 1910, pagg. 132-135, ritiene che la
tela vada interpretata in senso simbolico e rappresenti il velo del firmamento che si tes-
se ogni notte e che il sole disfa ogni giorno. Si tratterebbe della derivazione da un mi-

104
to vedico nella versione diffusa nell’Asia Anteriore. Elisabetta Silvestrini sottolinea
però lo stretto rapporto che Agata intrattiene con Cora-Persefone, Dea delle tenebre
e “filatrice notturna” e con la romana Bona Dea alla quale venivano offerte in dono ve-
sti come accadeva in Grecia (M. GIUMAN, La dea, la vergine, il sangue. Archeologia di
un culto femminile, Milano 1999, a proposito del santuario ateniese di Artemide
Brauronia cui venivano portate in dono le vesti delle donne che avevano appena par-
torito, sia che avessero felicemente superato la prova sia che ne fossero morte). A
Roma era oggetto di culto Tanaquilla, anch’essa filatrice e tessitrice (E. CANTARELLA,
La doppia immagine di Tanaquilla, Grande Madre, moglie fedele, in T. GIANI GALLINO
(a cura di), Le Grandi Madri, Milano 1989, pagg. 137-147). Mi sembra molto interes-
sante l’esistenza parallela (o lo sdoppiamento a livello di religiosità tradizionale) di una
Sant’Agata corrispondente alla proposta colta e all’agiografia canonica e di un’altra
Sant’Agata in cui sopravvive la divinità preistorica presumibilmente mortuaria dalla
quale discendono le “filatrici notturne” del folklore spagnolo e in genere le figure di
donne e semi-dee che filano, tessono, lavano durante la notte, che è il tempo degli spi-
riti. Nel Veneto ricorderei la ninfa Ciane collegata anch’essa al mito di Persefone e già
in epoca romana oggetto di culto in una grotta-sorgente carsica del Montello.
61 M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea cit., pag. 209.
62 Ivi.
63 C. GINZBURG, Storia notturna cit., nota 124 alle pagg. 263-264, ricorda come H.
USENER, Kallone, in “Reinisches Museum”, XXIII (1868), pagg. 262-263, abbia sot-
tolineato le caratteristiche mortuarie dell’Afrodite scelta da Paride fra le tre dee che
gli avevano affidato il compito di giudicare chi fosse la più bella. S. FREUD, Il motivo
della scelta degli scrigni, in Opere, VII, Torino 1982, pagg. 207-218, ha individuato in
Cordelia un’incarnazione della dea della morte affine ad Afrodite funeraria: è la terza
figlia (o la terza figura femminile) quella che, nella fiaba come, prima, nel mito, annun-
cia la morte.
64 G. P. GRI, Lo scenario funebre in Val d’Arzino cit., nota 80, pag. 80.
65 G. PRESSACCO, Ipotesi “salutare” sugli Asìn(s), in Âs, Int e Cjere. Il territorio
dell’antica pieve d’Asio, N.U. della Società Filologica Friulana, Udine 1992, pagg.
559-568.

105
Capitolo III

Il nome

107
Il piccolo popolo
delle colline sarde

Il Canonigu Giovanni Spanu, nel suo Vocabulariu Sardu-Italianu


edito a Cagliari nel 1831, s.v. “Jàna” scriveva: f. Log. -fata. – do-
mos de janas, case delle fate – le sepolture antiche, ossia “le antiche
tombe a cubicolo scavate nella roccia che spesso si incontrano
sugli altopiani centrali della Sardegna” secondo la definizione
della Guida del TCI.
Sono ipogei eneolitici costituiti da corridoi sui quali si affac-
ciano gruppi di nicchie a forma di uovo, le stesse che si trovano
nell’Italia centrale e meridionale, in Corsica, in Sicilia, nelle
Baleari, a Malta: la simbologia dell’uovo, che allude non tanto
alla nascita della vita quanto alla sua rigenerazione ciclica nel
grembo della terra, attestata fin dal Neolitico antico, è soprav-
vissuta nell’uso rituale che ancor oggi si fa delle uova in occa-
sione del Capodanno e della Pasqua, versione cristiana di arcaici
miti e riti di risurrezione/rigenerazione nel passaggio da un anno
all’altro e in coincidenza con l’inizio della primavera, o meglio
con il plenilunio dell’equinozio di primavera, momento di con-
vergenza tra calendario solare e calendario lunare, divinità solari
e divinità lunari, comunque siano state chiamate nel trascorrere
del tempo e delle generazioni.
Le Janas (o Gianas) appartengono al cosiddetto “piccolo po-
polo delle colline” e non sono dissimili, se non per certe pecu-
liarità comportamentali, dagli altri Esseri di derivazione ctonia,
le fate, gli elfi, i nani e i folletti della tradizione popolare nordica
e, in particolare, di quella irlandese1: le preferenze residenziali

109
delle Janas, quando mi sono addentrata nelle loro domos, mi
hanno fatto pensare alle Agane e alle loro numerose dimore
nelle grotte e nelle caverne, metafora, come l’uovo e la tomba,
del grembo materno della terra (in Irlanda i tumuli preistorici,
i sidhs, sono considerati, oltre che dimora di Streghe custodi dei
morti, passaggi verso l’altro mondo) ma anche, e soprattutto, ai
Gans2, Esseri mitici di cui si è già parlato, che la tradizione friu-
lana immaginava sepolti nelle antiche tumblis celtiche del “prato
dei morti” a Lauco3.
Per Gino Bottiglioni4 e per Max Leopold Wagner5 la paro-
la Jana deriva da Diana e confermerebbe la presenza anche in
Sardegna dell’antica dea latina, la virgiliana “vergine di Ariccia”
(Aen., VII, 763) identificata, probabilmente fin dal VI secolo
a.C., con Artemide e che presenta molti elementi di somiglianza
con la Eileithya di Sparta e di Epidauro, protettrice delle parto-
rienti al cui nome viene collegato quello della venetica Reitia.
Per Ferdinand De Saussure6, l’origine comune tanto di Diana
quanto delle Janas è il sostantivo sanscrito Janas, Janasas con il
significato di “origine”, “stirpe”, che, dice Francesco Enna, “ci
dà la giusta corrispondenza delle fatine sarde alle loro dimore
tombali”7.
Le stesse considerazioni linguistiche possono valere anche per
le nostre Agane, il cui nome è tradizionalmente spiegato sulla ba-
se di etimologie che tengono conto della loro identità mitologica
e di connotazioni fondamentali come il loro rapporto con l’ac-
qua, sul cui significato non sarà qui il caso di soffermarsi, e con
il serpente, un archetipo legato alle origini della vita e dell’im-
maginazione che ha conservato ovunque le valenze simboliche
più contraddittorie e che è stato sempre in stretto rapporto con
la donna, da Eva che cede alle sue lusinghe alla Vergine che lo

110
calpesta passando per le Melusine, donne-serpente appartenenti
alla famiglia della gallo-romana Vouivre e di cui si è già detto.
Mario Alinei a proposito delle Agane delle valli di Fassa e di
Fiemme le collegava all’aqua e all’anguis. È ragionevole pensare
che arcaiche divinità femminili d’incerto o variabile nome, du-
rante il lungo cammino che le ha portate ad approdare sulle rive
dei nostri fiumi e a prendere stabile dimora nelle nostre grotte e
sorgenti (o almeno nelle nostre leggende di credenza), abbiano
potuto, dopo la conquista romana delle regioni nord-orientali
d’Italia e a contatto con la lingua latina, avvicinarsi anche nel
nome all’aqua e all’anguis con cui intrattenevano da sempre uno
stretto legame sul piano simbolico, ma poiché tutte le figure fem-
minili della tradizione mitica e folklorica europea che elargivano
prosperità, ricchezza, sapere, ma potevano anche crudelmente
punire chi non portasse il dovuto rispetto a loro o ai tabù da loro
imposti e al cui mondo si accedeva attraverso una morte provvi-
soria, nell’estasi o nel corso di riti iniziatici o attraverso la morte
vera, considerata anch’essa, tuttavia, in certo senso provvisoria,
sono connesse con Ecate, la funebre dea strettamente legata ad
Artemide/Diana, al nome di Diana vorrei tornare.

111
Castori, lontre e…
il canto delle Sirene

John Basset Trumper8 dicendosi sostanzialmente d’accordo con


Mario Alinei9 che gli esiti di *aquana nel Veneto, nelle Dolomiti
e nel Friuli rappresentino (1) generi di “essere magico-religioso,
per metà zoo- per metà antropomorfi”, (2) delle semi-dee, come
viene indicato dal morfo -aˉnus, -a (cfr. Silvanus, Diana, ecc.),
(3) un “aspetto fondamentale della natura”, non si sente tut-
tavia di concludere che le anguane siano sic et simpliciter delle
antromorfizzazioni della stessa acqua e pensa piuttosto a una
tappa della catena metonimica con cui sono stati sostituiti nomi
originali indoeuropei oggetto di tabuizzazione e alla reinterpreta-
zione integrale di un tipo celtico: come il nome celtico *abanko-
‘castoro’ è stato sostituito nei termini di un lemma latino ‘aqua’
(=ab-) tramite appunto il morfo -aˉnus, -a (essendo l’associazione
intima tra l’acqua e il castoro estremamente antica, quanto è an-
tico lo stato totemico dei castori e quindi il tabù ad essi associato
che avrebbe determinato la sostituzione del nome con l’epiteto
‘acquatico’), l’ antichissima associazione tra la ‘lontra’ e un’altra
base indoeuropea per ‘acqua’ (pur senza che vi sia alcun valore
totemico o alcun tabù nel caso della lontra) potrebbe essere
all’origine del termine anguana10.
Sulla base dell’osservazione di Alinei11 secondo cui una delle
definizioni più rilevanti di anguana è “maga che si trasforma in
lontra”, Trumper ritiene che potremmo in questo caso aver a che
fare non tanto con l’antropomorfizzazione delle lontre, quanto con
la ‘lontrizzazione’ delle streghe che diventano animali mediatori.

112
A questa classe di animali mediatori, o alla loro sedimenta-
zione nella memoria tradizionale, penso sia da collegare la lontra
che a Zoppola “disturbava le case dell’uomo con usi non da be-
stia” 12: non è identificata con un’anguana, ma è chiamata anche
Rodia, nome con cui alcuni indicavano la madre del diavolo,
dal che si deduce che anche in quel di Zoppola si è verificata la
‘lontrizzazione’ di una strega (altro non può essere la madre del
diavolo) e la sua trasformazione in animale mediatore.
Potrebbe anche darsi che il celtico abhac= afanc < proto-cel-
tico *abanko ‘ninfa’ = (<) ‘castoro’ abbia influito, all’inizio della
nostra èra sulla formazione neolatina aquaˉna ‘ninfa’, ‘strega’, da
cui il neo-veneto/friulano anguana, pertinenza della mitologia
popolare, dal momento che la neoformazione latina pare basata
morfologicamente su quella celtica.
A parte l’affascinante percorso culturo-linguistico a zigzag
proposto da John Basset Trumper di cui ho dato una sintesi
estremamente riduttiva (ma il più possibile fedele nella sostanza
e nella forma) rimane il morfo -aˉnus, -a, o nel nostro caso sem-
plicemente -aˉna, attestato anche dal teonimo Adgana, reperito
da Gildo Meneghetti13 tra le iscrizioni celto-latine, che forse
rappresenta il precedente onomastico e concettuale delle angua-
ne o aquane, ma la cui lontana origine potrebbe anche essere,
ancora per Trumper, esito celtico della base *[do=]at[e]=kan=,
con confronto nel cimrico datganu ‘narrare’ (nelle forme di un
linguaggio poetico e musicale insieme) con nuova applicazione,
come epiteto, a sirene, il che, ancora una volta, ci ricondurrebbe
ad animali acquatici tabuizzati14.

113
Nel nome della Dea

Dominique Lesourd15 ha dedicato uno studio molto attento alle


sopravvivenze del nome di Diana nelle lingue neolatine e agli
aspetti del suo culto suscettibili di essere messi in relazione con
la stregoneria, osservando come i territori dove i nomi derivati
da quello di Diana sono stati più a lungo vitali siano anche quelli
dove, per particolari strutture geografiche, economiche e sociali,
le ‘epidemie’ di stregoneria presentano le forme più arcaiche, più
bizzarre e più irriducibili.
Diana è stata infatti oggetto di particolare venerazione nelle
regioni orientali della Francia, dove la servitù della gleba si è
mantenuta più a lungo sotto l’ancien régime e dove uomini e
proprietà terriera sono stati più a lungo soggetti al diritto della
manomorta, come nella Franca Contea, in Alsazia, in Lorena
e nei Tre Vescovadi: è certo che la vicinanza di queste regioni
con i paesi tedeschi dove Holda, chiamata anche Dama Bianca,
divinità rurale ambivalente, dispensatrice di fertilità e di morte
(del tipo che tutti i popoli d’Europa hanno, sotto diversi nomi,
conosciuto) era oggetto di un culto assai diffuso, ha contribuito
al perdurare del successo di Diana con la quale si confondeva.
C’è un termine che si incontra continuamente nei processi
per stregoneria celebrati nelle regioni orientali della Francia du-
rante il Cinquecento e la cui etimologa risale al latino Diana: è
genoche (masch. genot) che indica la strega, derivato a sua volta
dal francese medioevale gene con aggiunta di un suffisso.
Massimo di Torino, che dimostrò un grande zelo nel combat-

114
tere nella sua diocesi i resti ancora assai vitali dei culti pagani,
scriveva nel V secolo: “se vedrai un contadino ubriaco devi sa-
pere che egli è, come dicono, un dianaticus (Dianae cultui addictus
secondo la traduzione di C. Du Cange) o un aruspex”.
Un altro testo medioevale significativo è il De correctione
rusticorum di Martino di Braga, fondatore nel 550 del monastero
di Duma ed evangelizzatore degli Svevi di Galizia; vi si legge:
“molti diavoli che sono stati cacciati dal Paradiso vivono nei fiu-
mi, nelle sorgenti, o nelle selve, e gli uomini che non conoscono
Dio li onorano come divinità ed offrono ad essi sacrifici. Et in
mari quidem Neptunum appellant, in fluminibus lamias, in fontibus
nymphas, in silvis dianas”.
Il termine gene < Diana (in cui si può osservare il caratteristi-
co passaggio del fonema dy iniziale nel suono ž, secondo il mo-
dello diurnus > jour) compare per la prima volta in un testo del
XII secolo: “Lai vinrent malvais esperit/ que ces gens apelent estries;/
[…] Pres iere de nuis asserie/ les genes ne tarderent nie”.
In un poema anonimo altomedioevale sulla confessione si chiede
al penitente: “Creïs tu onques a nul fuer/ Ne souhaiz ne envoutemanz/
Devinailles n’enchatemanz/ Ne la nuitun ne la masnee/ Herllequin, ne
genes ne fees?” Dove oltre alle genes (qui una specie di demoni, di
entità malefiche di cui ogni buon cristiano deve avere orrore) e
alle fate e alla masnada di Herlequin si nomina nuitun (o neton e in
seguito luiton, lutin, niton) un genio delle acque in cui sopravvive
Nettuno, a dimostrare che la vicenda di Diana, divinità del panthe-
on precristiano trasformata in strega, non è un caso isolato.
Gene non si è conservato nel francese moderno, ma nei
dialetti, soprattutto nelle regioni orientali della Francia e della
Svizzera, che hanno aggiunto alla radice gene un suffisso romanzo
-iska (dianiska) con varianti locali, si registra un grande numero

115
di derivati: genesche, djenatche, genoche, genoisse, genoxe, gineau,
genot, jnâs, djena.
Alcuni di questi nomi hanno assunto in patois significati
specifici: genaux indicava ancora nel Seicento chi faceva gli oro-
scopi; djenâtche, che si è generalizzato per indicare la strega, è at-
testato un po’ dappertutto, nella Franca Contea come nel Giura
franco-svizzero e, come la maggior parte dei suoi sinonimi, ha
finito per assumere significato dispregiativo a indicare una donna
disordinata e trasandata per una variazione semantica analoga a
quella subita in Friuli dal termine Agana (“tu tu sês une Agane”).
Si possono aggiungere sostantivi e verbi derivati, oltre a to-
ponimi come Combe-ès-Gena, Pré-Genais e Creugena, a nomi
di piante (la ninfea era talvolta chiamata Diane des étangs), a
presenze nelle leggende e nelle tradizioni folkloriche.
Nell’alta Bretagna si chiama diane una specie di bestia vorace,
un po’ come le nostre Linguani, e proteiforme; altrove è detta
più comunemente guenne. Secondo Paul Sébillot16 la sua origine
risale al Medioevo e alla credenza che alcune donne potessero
accompagnare Diana nei suoi voli notturni attraverso spazi im-
mensi cavalcando animali.
Due documenti del 1136 e del 1137 danno come punto di
riferimento territoriale l’espressione a quercu genescher, e un car-
tolario limosino registra un fau genesquer, alberi magici, eviden-
temente, o fatati, o abitati dalle fate, ad attestare la popolarità
dell’aggettivo geneschier.
Nella lingua provenzale antica Diana ha dato di regola jana,
non più con il significato di “strega” ma con quello di “incubo”.
Il termine jana è andato perduto nel provenzale moderno, assor-
bito e sostituito da estrego, con il duplice significato di “strega” e
di “incubo”.

116
Nella Franca Contea si trovano usati molto spesso negli atti
dei processi inquisitoriali i termini genoche o genoiche con il signi-
ficato di “strega” o “eretica”, genocherie o genoicherie per “strego-
neria” e l’espressione aller en o au genoy per “andare al sabba”17.
Il latino conosceva già la forma Jana, usata talvolta al posto di
Diana, e il corrispondente maschile Janus; accanto a Jana e Janus
esistevano Diana e Dianus. Il maschile Dianus dovrebbe essere
all’origine del milanese gian, “mago”, “stregone” e del macedone
romanzo dzînu, “spettro”.
In Spagna, nelle Asturie abbiamo la forma xana che designa
una specie di fata o di ninfa delle sorgenti, con le varianti xania e
injana e i derivati xaneta, “fata” e xanin, “figlio della fata”. Nella
regione di Santander onjana indica una specie di strega inoffensi-
va. In Portogallo, nell’Algarve, esiste un termine che corrispon-
de esattamente all’asturiano, jã o zã con cui si indicano le fate
“filatrici notturne”, figure mitiche presenti in tutta la Spagna.
Dopo questo passaggio attraverso la penisola iberica, dove
sembra che le streghe/fate abbiano accentuato, rispetto alle
consorelle francesi, gli aspetti positivi della loro identità, pure
ambigua come di norma tra le divinità o semi-divinità femminili,
torniamo in Italia.

117
Alberi delle streghe
e spiaggette molto esclusive

Dominique Lesourd dice che i dialetti italiani ci danno egual-


mente nomi derivati da Diana e registra le forme sarde jana o
gana con il senso di “fate” o “incantatrici”.
In un passo del Tesoro di Brunetto Latini viene indicata come
“nana” la regina di Sizira che, interrogando gli astri, aveva pro-
fetizzato la nascita di Alessandro: “era nana e per sua sorte sapea/
che d’Olimpiade uno Alesandro nascer dovea”.
“Nana” è termine che crea difficoltà interpretative; Alessandro
D’Ancona ha proposto di correggerlo con “maga” e Francesco
Novati con “jana” 18; in questo caso avremmo un’attestazione
della sopravvivenza di Diana anche nell’antico toscano.
Comunque nella prima metà del Seicento è documentata nel
dialetto napoletano la forma janara: nel De nuce maga beneven-
tana di Pietro Piperno19, testo che segnala l’esistenza di un noce
magico a Benevento, vero e proprio luogo d’incontro di tutte le
streghe italiane, si parla di una Ripa de le janare, in qua era ceu
antrum aqua plenum, qua aestivo tempore lamiae balneantur. Le
janare sono identificate qui con le lamiae a conferma del loro
carattere mortuario e all’inizio del Novecento il termine sarebbe
stato ancora presente nella zona20.
L’illuminista moderato roveretano Girolamo Tartarotti, che
sottolineava come in passato le credenze relative alla “brigata
di Diana” da lui definita “stregoneria del Medio Evo” fossero
state derise e non perseguitate, nel 1749, scrivendo a proposito
del congresso notturno delle lamie21, dedica un capitolo alla

118
dimostrazione dell’identità della società dianiana colla moderna
stregheria.
Ai confini orientali dell’area romanza il romeno conserva
derivati di Diana ben vitali: zînă, “fata” e zănatic da dianaticus
sinonimo di lunaticus per indicare un “invasato”, un “ossesso” in
preda a frenesia religiosa22.

119
Santa Diana, San Giovanni
e il solstizio d’estate

Se zînă è il nome ancora attuale della fata romena e se in


Romania venivano praticati rituali semiestatici sotto la prote-
zione di Doamna Zînelor, la “Signora delle fate” la cui parentela
con le dee notturne rintracciate nell’Europa celtizzata sembra
evidente e che vive ancora nelle cerimonie dei călus˛ari23, la fi-
gura centrale del folklore romeno, Sânziana, ossia Sancta Diana,
collega al calendario liturgico della Chiesa cattolica la lunare
Artemide/Bendis dei Traci attraverso l’italica Diana, o l’ipo-
tetica divinità celtica designata con un nome simile, o, come
propone Mircea Eliade24, una divinità autoctona daco-getica,
luogo, per così dire, di confluenza della Diana importata dai
conquistatori romani con una dea locale ereditata dai Celti o
dai Daci o dai Geti o da altri popoli che per primi hanno abitato
la regione in un milieu popolare e rurale fortemente conservati-
vo, anche se “le continuità linguistiche non implicano necessa-
riamente continuità di credenze, che andranno dimostrate caso
per caso”25.
La festa chiamata Sânziene cade il 24 giugno, giorno che il
calendario ecclesiastico dedica a San Giovanni sovrapposto,
evidentemente, all’arcaica Signora delle piante e degli animali
Artemide/Diana, anche lei, ormai, perfino lei ‘convertita’ al
Cristianesimo e ‘santificata’, ma in tutta l’Europa, in coinciden-
za con il solstizio d’estate, si è continuato fino ai nostri giorni a
celebrare riti precristiani, prevalentemente notturni, relativi alle
piante e agli animali.

120
In Friuli gli animali parlano tra loro nelle scuderie, nelle stalle
e negli ovili la notte di San Giovanni, come al solstizio d’inverno
già secondo gli antichi (in Tito Livio ricorre spesso l’espressione
bovem aiunt locutum esse26), e bagnate di rugiada al momento
della raccolta devono essere le erbe campestri, per lo più dotate
di reali poteri farmacologici, del maç di San Zuan attorno a cui si
trasmettono leggende varie e un patrimonio di sapienza diverso
da zona a zona.
E non solo si raccoglievano erbe, fiori e frutti di bosco, ma
anche i bozzoli della seta si cominciavano a togliere dal “bosco”
il giorno di San Giovanni e in molti luoghi si usava appendere
festoni di erbe e rami fioriti alle porte e alle finestre perché si
credeva che il Santo avrebbe benedetto solo le case che nella sua
notte avesse trovato così ornate.
Era, la notte del solstizio d’estate, una notte di magie in cui le
ragazze da marito ricorrevano a sortilegi per sapere se e con chi e
quando si sarebbero sposate. In alcuni paesi si affacciavano dopo
la mezzanotte al portone di casa e pregavano San Giovanni di
mandare loro un sogno profetico; altrove la stessa preghiera era
rivolta alla luna27, che sarebbe come dire a Santa Diana o alla
versione celeste della triplice Ecate.
C’è una lunga sequenza di esperimenti divinatori che si pote-
vano compiere la notte di San Giovanni, tra cui, in Carnia, quel-
lo di esporre alla rugiada dei piatti coperti di cenere. Lo ricordo
perché l’uso della cenere ha un riscontro in Bretagna, dove, in
occasione del pardon di Plougastel, la vigilia di San Giovanni, i
convenuti si inginocchiavano attorno a un fuoco e si sfregavano
gli occhi con la cenere recitando preghiere, mentre riti del fuoco
si svolgevano ovunque, per il solstizio d’estate e, quanto al Friuli,
non serve certo ricordare lis cidulis.

121
Arriano (greco di Alessandria vissuto in Egitto e a Roma nel
II secolo d.C., autore di una Storia romana il cui unico pregio
consiste nella ricchezza delle notizie) riferisce che i cacciatori
celti offrivano un sacrificio annuale alla dea che egli chiamava
grecamente Artemide nel suo giorno natale che era appunto,
come quello della sua controparte romana Diana, il 24 giugno.
Per secoli i membri del parlamento dell’Isola di Man hanno
celebrato la festa di San Giovanni portando addosso rametti
dell’erba che ha il suo nome. Poi, nel XIX secolo, hanno sostitu-
ito l’erba di San Giovanni con l’artemisia vulgaris che in Grecia
e a Roma veniva usata per ornare al solstizio d’estate i templi di
Artemide/Diana, giustificando con la preferenza per una pianta
che appartiene alla flora dell’isola il ritorno al passato precristia-
no28 in termini di revival druidico.
In Irlanda, dove i Romani non sono mai sbarcati (e se lo
hanno fatto, come alcuni ritengono, non sono comunque riu-
sciti a stabilirvi né per tanto né per poco l’autorità del Senatus
Populusque) e dove la lingua, la religione, la cultura dei Celti si
sono meglio conservate, la Grande Madre degli dei si chiamava
Dé Ana, o Ana, o Dana, fonologicamente connessa con Danu,
la divinità femminile celeste e ctonia del Rig Veda, il cui nome
significa anche acqua, terrestre o uranica, e la cui radice si ritrova
nei nomi del Don, del Dnepr, del Dnestr, del Danau e di molti
fiumi secondari, soprattutto nelle isole britanniche.
Questa dea è identificabile con la triplice Brighid che, dopo la
cristianizzazione dell’isola, è riuscita, come s’è detto, a diventare
o almeno ad essere assimilata alla badessa del celebre monastero
di Kildare ed è stata innalzata alla gloria degli altari con il nome
di Santa Brigida, potentissima patrona d’Irlanda insieme a San
Patrizio, ma è stata recuperata anche come Sant’Anna, di cui la

122
leggenda racconta l’improbabile tardivo approdo sull’isola, ma-
dre della Vergine Maria e quindi nonna materna di Gesù Cristo,
quella nonna che i discendenti dei Celti continentali chiame-
rebbero grand-mère e i discendenti dei Celti insulari chiamereb-
bero in inglese grandmother, restituendole inconsapevolmente
l’arcaico nome divino di Grande Madre. Nel gaelico irlandese la
nonna si chiama seanmháthair, che alla lettera significa “vecchia
madre”, espressione anch’essa non nuova, densa di implicazioni
simboliche riferibili alle stagioni della vita e al succedersi delle
maternità nell’implacabile volgere del tempo.

123
I letti di Grania e le tumblis
dai Gans

Questo sul versante del Cristianesimo, ma la misteriosa pagano-


rum dea è ancora presente a titolo personale, sebbene con altro
aspetto e altro ruolo, nei luoghi che le erano appartenuti poiché
vi sono oggi in Irlanda almeno quaranta tombe a camera chia-
mate “letto di Grania” e la tomba a corridoio di Knockmany è la
“grotta di Ania”. Grania, Ania, Anu, sono considerate streghe
custodi dei morti.
Ancora una volta dunque il nome, qualunque sia, della di-
vinità femminile è collegato a strutture materiali e mentali di
valenza mortuaria, ma, sebbene siano assolutamente minoritari
rispetto alle ‘sopravvivenze’ di Diana, anche i discendenti di
Janus/Dianus presentano connotazioni analoghe: il milanese
Gian è un “mago” o uno “stregone”, il macedone Dzînu è uno
“spettro” e valenza mortuaria esplicita hanno in Friuli i già
ricordati Gans che trovano riscontro solo in alcuni indicazioni
toponomastiche, come la grotta detta cjase dai Gans e i resti di
sepolture celtiche chiamate tumblis dai Gans a Cja’ Vuian e in
Cuel dal Fari a Lauco.
Giovanni Gortani li equiparava dubitativamente ai Salvàns
e Jacopo Pirona li considera “folletti” rimandando (“stranamen-
te” dice Andreina Nicoloso Ciceri29) alle voci Giani e Orcul.
Il rapporto con l’Orcul è ovviamente solo di classe, ma i Giani
potrebbero rappresentare proprio la traduzione friulana del mi-
lanese Gian, su comune base celto-latina, mentre mi sembra per
lo meno ‘sospetto’ il San Gian titolare di una bella chiesa roma-

124
nica che sorge in cima a una piccola altura fuori dell’abitato di
Celerina nei Grigioni.
Al maschile Gans dovrebbero corrispondere in area friulana
e veneta i femminili Ganis/Gane, Guanis/Guane (caverna delle
Guane a Crespano del Grappa) e Zuane (covolo delle Zuane nei
Lessini).
Ai piedi del Grappa, come s’è già detto, c’è una miriade di sor-
genti che scaturiscono da anfratti di roccia in cui abitano ninfe
bellissime e misteriose, “lavandaie notturne” che stendono sui
prati il loro bucato. Una di queste risorgive multiple si chiama
“le Somegane”30 per ragioni non molto dissimili, probabilmente,
da quelle per cui la grotta di Montereale Valcellina si chiama “la
Linguano” e penso si possa inserire il nome della Somegana nella
serie dei nomi di semi-dee riconducibili alle Agane.
Non ci sono di conforto, in questi casi, le puntuali ricerche di
Dominique Lesourd che non prende in considerazione i possibili
derivati di Diana nel Veneto, nelle Dolomiti e in Friuli.
Sembra possibile, come s’è detto all’inizio di questo capitolo,
che arcaiche divinità femminili, sia antico-europee, sia indoeu-
ropee d’incerto e variabile nome, durante la millenaria vicenda
che le ha portate a conservare o prendere stabile dimora nelle
nostre grotte e sorgenti, abbiano potuto, dopo la conquista ro-
mana delle regioni nord-orientali d’Italia e a contatto con la
lingua latina, avvicinarsi nel nome all’aqua e all’anguis, ma que-
sta ipotesi non risolve e, semmai, rende più difficile da risolvere
il problema relativo all’origine di tutti gli altri nomi dialettali e
locali che le Agane hanno di volta in volta assunto.
Sentendomi piuttosto propensa a condividere i suggestivi
percorsi culturo-linguistici a zigzag di John Basset Trumper, redigo
qui di seguito, nella traduzione italiana, al plurale e in ordine

125
alfabetico, un piccolo elenco dei nomi caratterizzati dal morfo
-aˉna attestati in Friuli e dintorni (o almeno di quelli che riesco
a recuperare nei miei libri e nella mia memoria) lasciando a chi
voglia e sappia il compito di indagarne singolarmente l’origine:
oltre alle appena nominate Gane, Guane e Zuane e alle ormai
ben note Agane e Anguane, abbiamo Angane, Angoane (ricor-
date nel Veronese per il loro modo di cantàr o zigàr), Angolane,
Bagane, Cavestrane (Strie de l’ega cadorine che possono scate-
nare tempeste), Ciane31, Dubiane, Enguane, Inguane, Ivane,
Lagane, Linguane, Longane, Naquane (le Agane camune),
Oane, Ongane (le cattive lavandaie di Ampezzo), Paiolane
(donne morte di parto che a Tiezzo, le vignea fave e le se presentea
a le femene vistide de bianco, mentre in una leggenda del contiguo
territorio trevigiano le fade si identificano direttamente con le
donne morte di parto, anzi sono le loro anime), Sagane, Sâne,
Sequane, Sigane, Somegane, Stane, Vagane, Vivane.
In un racconto trentino diffuso nell’area di Pinè la bella
Giubiana dai capelli lunghissimi pone come condizione del
suo matrimonio con un caradôr il divieto di guardarla mentre si
pettina e in Brianza si bruciavano (e si bruciano tuttora, come
le nostre “vecchie” dell’Epifania) l’ultimo giovedì di gennaio le
Giobbianne32, definite “fantasmi” dal dizionario ottocentesco di
Francesco Cherubini che aggiunge: “non sono rari ancora coloro
che asseverano d’averle vedute”33.
Il matrimonio morganatico della bella Giubiana e la com-
ponente estatica nella figura delle Giobbianne le integra auto-
maticamente nel novero delle figure femminili presenti nella
tradizione folklorica europea, tra le Matres celtiche (s’è già detto
delle iscrizioni dedicatorie che comprendono formule del tipo
“ex visu”, “ex iussu”, “ex auditu”) e le Agane del Veneto, delle

126
Dolomiti, del Friuli, attraverso le innumerevoli anonime epi-
fanie della Madre divina che hanno accompagnato lo svolgersi
della nostra vicenda antropologica, mentre la notizia relativa
all’offerta di cibo ai “fantasmi” brianzoli34 li collega alla consue-
tudine attestata già tra V e VI secolo da Cesario di Arles secondo
il quale alle calende di gennaio nei paesi di civilizzazione celto-
germanica si lasciava del cibo a disposizione di Esseri invisibili
che avrebbero di notte visitato le case.
Al principio dell’XI secolo Burcardo di Worms identificava
con le Parche tre divinità per le quali, in determinate notti, i
contadini del Palatinato renano predisponevano cibo su tavole
apparecchiate con tre coltelli. Per Carlo Ginzburg le Parche di
Burcardo non erano altro che Matres celtiche35, a lungo venerate
come bonae dominae, le quali, insieme alla dea della prosperità e
dei morti che le guidava, ricevevano offerte di cibi e bevande.
Le Giobbianne avrebbero dunque, oltre alla presenza del morfo
-aˉna nel loro nome, qualche ulteriore titolo per essere inserite
nel catalogo degli Esseri soprannaturali riconducibili a Diana.

127
I nomi della Dea

Accettando per molti nomi di dee e semi-dee dell’area prealpina


la derivazione da Diana potremmo completare un arco che dalla
penisola iberica al Mar Nero attesta la persistenza nella cultura
profonda dell’Europa romanza di una divinità lunare, celeste,
terrestre e ctonia, Signora della vita e della morte, e di divinità
locali chiamate come sempre con molti nomi per lo più perduti,
ma, almeno tra quelli giunti fino a noi, spesso contigui alla tradu-
zione latina (lessicale e concettuale) della greca Artemide/Ecate,
mentre rimane aperto il problema dell’identificazione della
Diana celtica: foneticamente dovrebbe avvicinarsi all’irlandese
dea Dana, capostipite dei Tuatha Dé Danann (“la tribù della dea
Dana”, dove Danann è il genitivo di Dana) e alla sua alternati-
va Ana, che sopravvive nella toponomastica; nessuno dei due
nomi, però, compare nell’epigrafia o nella letteratura popolare.
Su una sola cosa non dovrebbero esservi dubbi, che anche la
corrispondente gallica della Diana romana abbia origini molto
antiche: infatti il prefisso Di- è indoeuropeo e unito a nomi di
divinità ne indica lo splendore, la brillantezza. Talvolta viene
eliso in J, così che Diupiter diviene Jupiter e Dianus diviene Janus.
Altre volte il prefisso Di- cade del tutto e Diana diverrebbe Ana,
la Dea Madre degli Irlandesi di Cormac. In altri casi ancora cade
la i, dando l’esito Dana36.
Il dato certo che si coglie scorrendo i nomi di divinità fem-
minili di diverso livello, dalla Grande Madre degli dei Ana/
Brighid a una qualsiasi strega Grania, dalla Ragana baltica e dalla

128
Regana celtica alla Ganis di Villacaccia che ’a van a lavâ di gnot,
dalla Viviane che si ritrova nei racconti arturiani (e nella quale
ancora all’inizio del XX secolo una donna bretone mostrava di
credere fermamente dicendo a Evans Wentz37 che essa era tanto
bella quanto buona e benedicendolo in suo nome) alle nostre
Vivane (che certo possedevano i loro segreti magici anche se
non li avevano carpiti al vecchio Merlino), ma di fisionomia
simile, raccolti in un catalogo indubbiamente assai incompleto
ma relativo a territori che si estendono dall’Italia all’Irlanda,
dal Portogallo alla Romania, è la costante presenza del morfo
-aˉna che appare come elemento unificante, forse sufficiente a
qualificare la dimensione femminile del divino nelle mitologie
dei più conservativi tra i popoli parlanti lingue indoeuropee (gli
Indiani, gli Italici e i Celti, secondo Georges Dumézil) e rimasto
nei secoli come il nucleo centrale di “parole” che, in quanto tali,
si sottraggono di solito a troppo insistenti tentativi di analisi eti-
mologica (a meno che non sia quella degli affascinanti percorsi
culturo-linguistici a zigzag di John Basset Trumper!) ma, in quanto
nomi di Esseri a diverso titolo e in diversa misura soprannatu-
rali, racchiudono in sé un grandissimo potenziale evocativo e
simbolico.

129
Note

1 F. ENNA, Fiabe sarde, Milano 1991, pag. 43. H. GLASSIE, Fate e spiriti d’Irlanda,
Milano 1987, pag. 27: quei trinceramenti o tumuli noti in Irlanda con il nome di “for-
ti danesi” sono ritenuti dimore di comunità fatate. Disturbare queste dimore, dovute
all’ingegnosità e alle fatiche del “buon popolo” è considerato un’azione portatrice di
sventure per il profanatore e per la sua discendenza.
2 Gann e Sangann erano anche due re dei mitici Fomori e diedero il nome a due provin-
ce del Munster; non so se la somiglianza con il nome dei nostri Gans, pur tenuto conto
delle comuni origini celtiche, sia da considerarsi una semplice coincidenza. Cfr. A.
REES, B. REES, Celtic heritage, stampato negli U.S.A. 1989, pagg. 134-142, e W.
RUTHERFORD, Tradizioni celtiche cit., pagg. 109 e 132: nella tradizione irlandese il
Munster era la terra primordiale, il luogo delle origini; in un primo tempo fu associato al-
la morte, in seguito divenne essenzialmente la sede di figure soprannaturali femminili
ovviamente mortuarie; il tumulo di Munster è noto come “il tumulo della Dama Bianca”.
3 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pagg. 447 e 528.
4 G. BOTTIGLIONI, Leggende e tradizioni di Sardegna, Ginevra 1922, pag. 5.
5 M. L. WAGNER, Dizionario etimologico sardo (DES), vol. I, pag. 706.
6 F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Bari 1978, pag. 10.
7 F. ENNA, Fiabe sarde cit., pag. 43.
8 J. B. TRUMPER, Quattro percorsi culturo-linguistici a zigzag: ricuarts di une visite a Udin,
in “Ce fastu?”, LXXVII (2001) 2, pagg. 151-199.
9 M. ALINEI, Antropomorfismo nelle Alpi centro-orientali: le aquane, in Dal totemismo
al cristianesimo popolare, Alessandria 1984, pagg. 143-156.
10 Ho usato finora l’iniziale maiuscola per il nome o i nomi delle Agane/Fate/Streghe
considerandole divinità singole o plurime, comunque individuali, radicate nella reli-
giosità tradizionale e protagoniste non anonime delle leggende di credenza. Da qui in
poi userò l’iniziale minuscola, attenendomi ai modelli degli autori cui faccio riferimen-
to ed essendo, nei loro scritti, le nostre semi-dee oggetti di studio osservati con ‘distac-
co’ scientifico.
11 M. ALINEI, Antropomorfismo nelle Alpi centro-orientali cit., pag. 151.
12 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 431.
13 G. MENEGHETTI, Probabile natura e sopravvivenza delle divinità celtiche “Adganae”,
in “Athenaeum” 1950, pagg. 116-127. G. B. PELLEGRINI, Nuove annotazioni etimolo-
giche friulane, in “Ce fastu?”, LXIII (1987), pagg. 64-65.

130
14 J. B. TRUMPER, Quattro percorsi culturo-linguistici a zigzag cit., pag. 193. L’Autore
aveva già proposto le stesse considerazioni al convegno Saperi naturalistici. Nature
Knowledge, Venezia 4-6 dicembre 1997: “The name Adgana, found in Celto-Latin in-
scriptions (see G. MENEGHETTI 1950), may just represent Agana, but it may also
represent the Celtic *[do=]at[e]=kan=(IEW 525 *kan- cf. W datganu “narrate”, “tell
a tale”) applied as epithet to sirens or mermaids, wich may take us again back to taboo
water animals”. Per le sirene cfr. S. SIBILLE-SIZIA, Sirene medioevali friulane, in G. M.
PILO/B. POLESE (a cura di), “Per sovrana risoluzione”. Studi in ricordo di Amelio
Tagliaferri, Venezia 1998, pagg. 423-429. Ancora J. B. TRUMPER, L’idronimo friulano
Isonzo e il teonimo vetero-celtico Æsus, in “Ce fastu?”, LXXXII (2006) 2, pagg. 151-169,
scrive che “la ‘divinità generica’ o la ‘sacralità’ in senso generico dell’acqua o della sor-
gente è rappresentata anche dalle dèe chiamate Matræ, Matronæ o Matrones nelle
iscrizioni, che poi diventano i nomi stessi dei fiumi e delle sorgenti. Sono anche asso-
ciabili con le Anguane che conosciamo in Friuli” (pagg. 157-158). Circa la possibilità
di risolvere l’idronimo Isonzo tramite il teonimo Esus conosciuto nelle tradizioni ger-
maniche, celtiche e italiche, considera “Eˉsus/Æsus un grande dio mediatore, difficil-
mente collocabile con precisione negli schemi della classica interpretatio romana, che
ha associato a sé altre divinità minori, proprie dell’acqua (Matres, Matronæ, ‘Adganai’,
talvolta ‘vergini’, talvolta uccelli, se uccelli allora specificamente gru)” (pag. 161).
15 D. LESOURD, Diane et le sorciers. Étude sur le survivances de Diana dans les langues
romanes, in “Anagrom”, 1972, pagg. 55-74. Ho conosciuto l’esistenza di questo ottimo
saggio grazie a C. GINZBURG che lo cita in Storia notturna a pag. 94, a proposito dei
termini genes e janara. Mireille Giovine è riuscita a trovarmelo in un istituto universi-
tario di Parigi e me ne ha fatto avere una fotocopia. Per motivi di spazio e per non ap-
pesantire troppo il mio testo ho rinunciato, salvo poche eccezioni, a trascrivere le no-
te nelle quali Dominique Lesourd ha indicato molto puntualmente e ampiamente le
referenze e le fonti bibliografiche.
16 P. SEBILLOT, Le Folk-Lore de France, Parigi 1904-1907, vol. IV, pag. 328.
17 F. BAVOUX, Hantises et diableries dans la terre abbatiale de Luxeuil, d’un procès de l’in-
quisition (1529) à l’épidémie démoniaque de 1628-1630, Monaco 1956, pag. 157.
18 D. LESOURD, Diane et le sorciers cit., pag. 71 fa riferimento a un passaggio del
Tesoro di Brunetto Latini pubblicato in parte da Alessandro D’Ancona in Memorie
della R. Accademia dei Lincei, 1888. La correzione jana è stata proposta da Francesco
Novati in “Romania”, 35, pag. 112.
19 P. PIPERNO, De nuce maga beneventana, Napoli 1635, pag. 17.
20 A. DE BLASIO, Inciarmatori, maghi e streghe di Benevento, Napoli 1900, pag. 156.
21 G. TARTAROTTI, Del congresso notturno delle lammie, Rovereto 1749. Per la figu-
ra del Tartarotti si veda: C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 116 e 128.
22 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pagg. 80-81.

131
23 Ivi, pagg. 80, 94, 169-170, 173.
24 M. ELIADE, Some Observations on European Witchcraft, in History of Religions, 14
(1975), pagg. 159-160.
25 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 94, nota 64.
26 D. COLTRO, Santi e contadini. Lunario della tradizione orale veneta, Sommacampagna
di Verona 1994, pag. 35. San Giovanni Battista, il 24 giugno, e San Giovanni
Evangelista, il 27 dicembre, sono rispettivamente, nella cultura astronomica tradizio-
nale, il “San Giovanni che piange” perché vede il sole volgersi verso il sud dello zodia-
co e far declinare la bella stagione e il “San Giovanni che ride” con il sole nuovo che
risale all’orizzonte a rinnovare la vita. È probabile che le due feste, poste all’incirca a di-
stanza di sei mesi l’una dall’altra, siano il residuo di una tradizione solstiziale precristia-
na. Nella Grecia antica i due solstizi erano chiamati “porte”: “porta degli dei” l’inver-
nale e “porta degli uomini” l’estiva.
27 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pagg. 868-869.
28 W. RUTHERFORD, Tradizioni celtiche cit., pagg. 129-131.
29 A. NICOLOSO CICERI, Tradizioni popolari in Friuli cit., pag. 447 e pag. 528, note
174-176. Alla nota 175 scrive che le tombe, dette anche cassis dai Gans, sono scavate
nella roccia viva e ricorda il detto secondo cui “quando suona De profundis il diavolo è
in Tumblis” (nome antico del Cuel dal Fari), che fa pensare a un collegamento tra quel
luogo pagano e il diavolo-morte.
30 L. BELLINA, Testi, in Treviso e i colli asolani. Acque, vapori, umori, Farigliano
1993., pag. 81.
31 E. GLERIA, Grotte, latte e fertilità cit., pagg. 41-42: presso Crocetta del Montello si
apre una caverna nota in tutto il Veneto per essere fonte d’acqua purissima “che ha la
straordinaria virtù di ridare il latte alle madri sfinite da un allattamento troppo fatico-
so e prolungato”. Questa grotta, tipica voragine carsica abitata già nel Neolitico come
testimoniano alcuni reperti archeologici, è chiamata “Boro del Ciano” o “Fontana del
Boro”. Su di essa hanno scritto diversi studiosi veneti, da Caccianiga nel 1874 a
Martorel nel 1980; sembra sia stata associata alla ninfa Ciane, di nazionalità greca e
collegata al mito di Persefone ma oggetto di culto sul Montello già in epoca romana.
Durante il Medioevo al culto della ninfa venne sovrapposto quello di San Mama (an-
che, significativamente, al femminile “Santa Mama”) o Mamante, importato dall’Ana-
tolia alla fine dell’VIII secolo e popolare soprattutto in Toscana e nel Veneto; a lui è de-
dicata una chiesa che si trova proprio all’inizio della strada che porta alla Fontana del
Boro.
32 L’asserzione di “aver veduto” le Giobbianne da parte di “non rare” persone, ricolle-
ga automaticamente le Fate/Streghe brianzole a tutte le figure della tradizione folklori-
ca europea, a partire dalle Matres celtiche e attraverso le innumerevoli anonime epifa-
nie della divinità femminile che hanno accompagnato lo svolgersi della nostra storia.

132
33 N. SVAMPA, A. VERGANI, Giobbiann. Riti invernali del mondo contadino lombar-
do, Milano 1983, pagg. 71-80. Cfr. anche R. F. LE MEN, Tradition et superstitions de la
Basse-Bretagne in “Revue Celtique”, vol. I, pag. 230: alla metà dell’Ottocento c’erano
ancora dei vecchi nel Finistère che dicevano di essere stati rapiti quand’erano bambini
da certe streghe locali che si chiamavano Corrigan.
34 N. SVAMPA, A. VERGANI, Giobbiann cit., pag. 71.
35 C. GINZBURG, Storia notturna cit., pag. 83.
36 W. RUTHERFORD, Tradizioni celtiche cit., pagg. 131-132.
37 E. W. Y. WENTZ, The Fairy Faith in Celtic Countries, Londra-New York 1911. Il ma-
rito dell’informatrice, un taglialegna a cottimo che per sopravvivere cacciava un po’ di
frodo durante la notte, era stato scoperto da alcuni guardacaccia che, mentre cercava
di fuggire, avevano sparato contro di lui ferendolo a una gamba. Era caduto a terra e
mentre aspettava di essere catturato e ucciso una fitta nebbia era calata fra lui e i suoi
inseguitori. Una voce gentile, quella di Viviane, lo aveva invitato a mettersi in salvo
promettendogli di continuare a nasconderlo fin che non fosse riuscito a raggiungere la
sua casa. L’episodio si svolge di notte, in un bosco, l’acqua in forma di nebbia è stru-
mento di salvezza, i protagonisti sono cacciatori e guardacaccia: Viviane non può esse-
re altro che un’epifania dell’antica Signora delle foreste e degli animali, Artemide/
Diana se proprio vogliamo darle un nome.

133
Capitolo IV

Immagini
e schede

135
La scelta delle immagini proposte come ‘illustrazioni’ del
Liber de Aganis e il loro raggruppamento per insiemi e sottoinsie-
mi non sempre cronologicamente ordinati richiedono una spie-
gazione, senza della quale solo occasionalmente e casualmente se
ne potrebbe cogliere il rapporto con il testo.
Agane, Fate, Streghe e tutte le altre figure femminili ad esse
analoghe ed omologhe, anche se diversamente chiamate, che si
possono rintracciare nelle tradizioni folkloriche dei paesi d’Eu-
ropa non sono documentabili figurativamente, anche se molti
le hanno rappresentate dando forma umana (o, in alternativa,
antropo-zoomorfa) alle creature sedimentate nel proprio imma-
ginario individuale o, forse, nel nostro immaginario collettivo.
Queste rappresentazioni avrebbero potuto assolvere la funzio-
ne di ‘decorazione libraria’ ma avrebbero contraddetto l’intenzio-
ne da cui è nato il presente studio: quella di condurre un’indagine
stratigrafica il più possibile corretta, in rapporto ai dati di cui oggi
disponiamo, entro gli interminati spazi geografici e temporali nei
quali hanno avuto origine le “divinità” dei popoli antichi e defi-
nire i passaggi attraverso cui esse si sono modificate per adeguarsi
a situazioni ambientali mutate e alle esigenze di popoli nuovi,
restando tuttavia connesse a una visione del mondo determinata
dai cicli delle stagioni e dall’eterno morire e rinascere della vita.
Accettando l’idea che le piccole dee delle attuali leggende di
credenza siano ciò che è riuscito a sopravvivere e a giungere fino
a noi delle cosiddette Grandi Dee e Dee Madri del Paleolitico
e del Neolitico e delle molte divinità femminili presenti a vario
titolo nelle religioni storiche precristiane e in seguito relegate
all’Inferno o ‘convertite’ e adottate dal Cristianesimo, ho tentato
di ricostruirne la lunghissima vicenda attraverso alcuni “ritratti”
d’epoca e significativi documenti di contesto.

137
138
1) Venere di Hohle Fels, statuetta in avorio di mammut, allo stato attuale
cm 5,97, dalla grotta di Hohle Fels nel Giura Svevo (Germania), almeno
35.000 anni fa.

Nell’autunno del 2008 gli archeologi dell’équipe che attua l’esplorazione


della grotta di Hohle Fels nel Giura Svevo hanno recuperato sei piccoli
frammenti di avorio che, messi insieme, hanno consentito di ricostruire una
figura dai tratti femminili fortemente accentuati. Mancano finora il braccio
sinistro (non la mano) e la testa. Un anello al di sopra delle spalle lascia
pensare che la statuetta fosse usata come pendaglio di collana. Il direttore
degli scavi Nicholas Conard, che ha presentato la scoperta alla comunità
scientifica internazionale il 14 maggio del 2009 con un articolo su “Nature”,
ritiene del tutto verosimile la datazione del reperto a 35.000 anni fa. Nel caso
in cui le analisi che indicano date ancor più antiche trovassero conferma la
statuetta diventerebbe di gran lunga la prima delle Veneri paleolitiche ad
oggi note, spostando all’indietro di alcuni millenni non solo l’invenzione
del soggetto con marcata accentuazione dei seni, sottolineati dalla posizione
delle mani, e della zona pubica, ma anche la scoperta della terza dimensione
nella costruzione dell’ immagine.
Sullo sfondo resta l’interrogativo forse più avvincente: poiché nella regione
del Giura vivevano ancora 35.000 anni fa gruppi di Neandertaliani che, so-
spinti ai margini dell’area di espansione dei Sapiens, potrebbero essere stati
i primi ad occupare la grotta di Hohle Fels, a loro spetterebbe la creazione
di questa Venere che, comunque, apre a buon diritto la rassegna delle Dee
Madri presenti nella nostra storia.

139
140
2) Venere di Dolní Věstonice, statuetta in argilla, cm 11, da Dolní
Věstonice in Moravia (Repubblica Ceca), 29-25.000 anni fa circa; Brno,
Moravské zemské Muzeum.

La statuetta è modellata in un impasto di polvere d’osso mescolata ad argilla


che sembra anticipare di millenni l’invenzione della ceramica. Dai suoi occhi
l’acqua scorre sul volto inespresso e sui seni. Gli occhi sono grandi e autoriz-
zano, dice Marija Gimbutas, l’appellativo di “onniveggente” attribuito alla
Dea, ma il simbolismo che li circonda evoca implicazioni simboliche perfino
più estensive, ossia che gli occhi, come i seni e la bocca della figura qui rap-
presentata, siano la fonte divina da cui scorre l’acqua indispensabile alla vita.
Il concetto degli occhi come fonte doveva essere già presente nel Paleolitico
e prosegue nei manufatti del Mesolitico e del Neolitico. La cultura Vinča ha
prodotto tra il VI e il V millennio a.C. coperchi di vasi rituali decorati con
occhi di civetta evidenziati e valorizzati da simboli dell’acqua. Nelle culture
megalitiche dell’Europa occidentale sono comunissimi gli amuleti tratti da
ossa, scontato simbolo di morte, decorati da occhi di civetta circondati da se-
gni d’acqua, simbolo di rigenerazione. Occhi decorano talvolta le porte delle
tombe rupestri in Sicilia come le pietre del dolmen di Newgrange.
Dagli occhi della Dea di Dolní Věstonice scorre l’acqua vitale, come dagli
occhi di Iside scorreranno le acque del Nilo e dagli occhi delle Agane di Val
d’Arzino l’acqua solforosa del Barquet.

141
142
3) Venere di Laussel, rilievo su roccia, cm 42, dal riparo Laussel in Dordogna
(Francia sud-occidentale), tra 25.000 e 22.000 anni fa; Bordeaux, Musée
d’Aquitaine.

Espressione di quello che André Leroi-Gourhan considera il secondo dei


quattro stili dell’arte durante il Paleolitico superiore, lo stesso a cui apparten-
gono le figure di animali incise, per esempio ed esemplarmente, nella grotta
di La Grèze in Dordogna, la Venere di Laussel o “Dama del corno” viene con-
siderata una Dea della fertilità. Con la mano destra regge un corno segnato
da tredici tacche, probabile rappresentazione dei mesi lunari che si contano
nel corso di un anno o dei giorni della luna crescente. Era stata scolpita sulla
superficie di un riparo di roccia crollato nel trascorrete dei millenni. Gaston
Lalanne nel corso di scavi effettuati tra il 1908 e il 1914 ha trovato fra i detriti
accumulati dai successivi crolli altre due figure femminili delle stesse dimen-
sioni che pare tengano in mano rispettivamente la falce della luna nuova e
la falce della luna calante.
La Dama del corno dovrebbe essere stata rappresentata dunque come una
divinità lunare triplice, una Ecate triforme del Paleolitico. Accanto alla sua
gamba destra sembra vi sia una figura obliterata o danneggiata di animale
rampante. Associazione, quella della Luna e di un animale (cane o lupo?),
che ricorre nell’arte e nelle leggende di credenza fino ai nostri giorni.

143
144
4) Venere di Willendorf, statuetta in pietra calcarea, cm 11, da Willendorf
nella Bassa Austria sulla riva sinistra del Danubio, 25.000 anni fa circa;
Vienna, Naturhistorisches Museum.

Non tutte le “Dee della fertilità”, come di solito sono definite, del Paleolitico
superiore sono incinte: nel caso della famosa Venere di Willendorf il centro
dell’attenzione sono i seni abbondanti e i glutei ipertrofici. Le mani appena
accennate come le braccia e posate sui seni li pongono in evidenza con un
gesto di propiziazione magica già noto in arcaici modelli orientali. È probabile
che questi dati si siano fusi e organizzati in modo sistematico obbedendo ai
canoni di un vero simbolismo così da preludere alle successive esplicite rap-
presentazioni della maternità.
Il volto della Dea è praticamente invisibile sotto la capigliatura ricciuta e
compatta che potrebbe anche essere una cuffia, forse di conchiglie come
quelle che coprono la testa di uno scheletro venuto alla luce in una tomba
del Paleolitico superiore ad Arene Candide in Liguria, o la testa di una don-
na di vent’anni sepolta intorno a 24.500 anni fa nella grotta di Santa Maria
d’Agnano, nella zona di Ostuni (Brindisi), in posizione rannicchiata, con
in grembo il bambino di cui era incinta e che avrebbe dovuto nascere dopo
un paio di settimane. Il suo cranio era ornato da una cuffia formata da oltre
cento conchiglie in un impasto di ocra rossa.

145
146
5) Venere della Marmotta, statuetta in pietra, meno di 5 cm, dal villaggio
neolitico sommerso La Marmotta (dal 5.700 al 5.260 circa a.C.), lago di
Bracciano (Roma), fra i 25.000 e i 20.000 anni fa; Roma, Museo nazio-
nale preistorico etnografico Pigorini.

Tutte le Veneri paleolitiche sono creature misteriose, ma questa, vissuta nella


nostra penisola almeno negli ultimi sette millenni e mezzo della sue esisten-
za, lo è a maggior ragione perché è stata indubbiamente scolpita in un sito
diverso da quello in cui è stata ritrovata, il villaggio neolitico La Marmotta,
che risale al periodo tra i 5.700 e i 5.260 anni a.C., sommerso nel fondo del
lago di Bracciano, a poca distanza dal centro abitato di Anguillara, sotto nove
metri d’acqua e tre di limo che lo hanno protetto e conservato fino ad oggi,
ordinato e coerente documento della “rivoluzione neolitica”.
A partire dal 1992 sono stati portati alla luce nelle case della Marmotta, in ce-
ramiche fini da mensa e in grossi contenitori per lo stoccaggio delle scorte, semi
di diversi cereali, di legumi, di oppio usato per ricavarne olio e, forse, sostanze
allucinogene, e inoltre semi d’uva e di lino e ossa di animali macellati, buoi,
pecore, capre, maiali, cani e uccelli, lische di pesci d’acqua dolce, una grande
varietà di selci lavorate e strumenti di legno, infine quattro piroghe e modellini
di imbarcazioni. Maria Antonietta Fugazzola ritiene che i primi abitanti della
Marmotta siano giunti dal mare (che dista, oggi, una ventina di km) portan-
do con sé tutto ciò che era necessario per creare, dal nulla e dalle risorse che
offrivano il lago e la terra fertile intorno alle sue rive, un insediamento che fu
per quattrocento anni importante emporio di scambi commerciali marittimi.
Resta per ora un mistero da dove venisse e che cosa ci stesse a fare tra i
segni inequivocabili della rivoluzione neolitica una Venere paleolitica in
pietra (non in terracotta), così simile alle figure gravettiane databili attorno
ai 25-20 mila anni fa delle precedenti illustrazioni: seni, fianchi e natiche
ipertrofici come a Dolní Věstonice, mani che sorreggono i seni come a Hohle
Fels, ombelico e triangolo pubico chiaramente evidenziati come sempre, testa
abbassata sotto un compatto casco di capelli in modo da nascondere il volto
come a Willendorf. Per questa assenza di tratti facciali che, in diverse forme,
è un dato ricorrente nelle immagini preistoriche di divinità, Graham Lanier
ritiene che le statuette evocassero un’astrazione, che non si riferissero, cioè,
a nessun modello in particolare ma a un concetto universale della fertilità, a
una “indefinibile” Grande Dea.

147
148
6) Dea-pesce, ciottolo di arenaria rossa scolpito, cm 51, da Lepenski Vir
(Serbia) nella zona delle Porte di Ferro sul Danubio, tempio 44, 6.000-
5.800 a.C.; Belgrado, Arheološka zbirka Univerziteta.

Una creatura chiaramente omologata al grembo materno e associata al sim-


bolismo acquatico è il pesce, le cui raffigurazioni sono presenti nel corso del
Paleolitico e del Neolitico nell’Europa antica, nel Medio Oriente e nell’Egeo
dall’età del Bronzo fino all’epoca classica. Nel Paleolitico superiore e nel
Neolitico le sagome di pesce dipinte o scolpite erano contrassegnate dal dise-
gno di una rete che, utilizzata per catturare i pesci nell’acqua, diviene simbolo
di umidità. Quella che Marija Gimbutas chiama la Dea-pesce, doveva essere
oggetto di culto e associata a riti funerari nei santuari triangolari di Lepenski
Vir (vir significa gorgo, mulinello, vortice) un luogo sacro nella regione delle
aspre e impenetrabili gole del Danubio. Le sue immagini sono ricavate da
ciottoli di fiume di forma naturalmente ovale talvolta dipinti con l’ocra rossa
che connotava il sangue e dunque l’essenza stessa della vita, scolpiti con
fattezze antropo-zoomorfe.
Molte di queste sculture combinano in modo singolare gli occhi e la bocca
di un pesce con i seni e la vulva di una donna. Le mani o le zampe in forma
di artigli richiamano l’immagine degli uccelli rapaci da cui si lasciavano
scarnificare le ossa prima della sepoltura. I riferimenti alla femmina umana,
al pesce, all’uccello rapace su una pietra di colore rossastro a forma di uovo
rappresentano un singolare conglomerato di simboli relativi alla morte e alla
rigenerazione
Per Etienne Rynne la rappresentazione della vulva come un’apertura triango-
lare collegherebbe la dea-pesce di Lepenski Vir al ‘totem’ di Ecate, una della
più antiche versioni greche della triplice divinità femminile e alla dea-rana
presente in Europa durante molti millenni e fino ai nostri giorni, e dovrebbe
aver giocato un ruolo importante nella definizione dell’immagine celtica
della Sheela-na-gig.

149
150
7) Dee-serpenti, da Poduri-Dealul Ghindaru in Moldavia (Romania nord-
orientale), 4.800-4.600 a.C.

Queste statuette di Dee-serpenti riposte in un vaso erano probabilmente


destinate a un altare e usate durante riti che non conosciamo. Hanno dimen-
sioni diverse e le più grandi siedono su un pouf con schienale. Nella parte
inferiore del corpo le statuette hanno forme presso a poco umane con cosce e
natiche enfatizzate e triangolo pubico molto evidenziato, nella parte superio-
re prevale l’aspetto serpentino. C’è un accenno di seni ma mancano le brac-
cia, gli occhi e la bocca sono rotondi o stretti e allungati. Ibridi ofide-umano
si ritrovano nell’arte celtica e figure di animali con gli arti a serpente sono
conosciuti dalle incisioni scandinave su pietra. Dalla Dea-serpente discendo-
no le Gorgoni, presenti in tutta l’Europa antica e troppo note perché valga la
pena di parlarne. La Gorgone arcaica, in quanto Signora delle creature selva-
tiche, può essere identificata con Artemide o meglio con l’aspetto negativo di
Artemide, ossia con Ecate: Artemide ed Ecate sono un’unica dea lunare del
ciclo esistenziale, bella o brutta a seconda che ne rappresenti l’inizio o la fine.
Ancora nel XX secolo i serpenti erano considerati un simbolo della forza
vitale estremamente importante per le popolazioni agricole e fino ad oggi il
nome delle Anguane è stato fatto comunemente discendere dal nome latino
del serpente, anguis. In Friuli i serpenti potevano essere uccisi solo nel rispet-
to di precise norme rituali o lasciati circolare in pace: “lasse che la magne ’a
vadi pe campagne”.

151
152
8) Santuario della Dea-serpente a Sabatinivka nella valle del Bug meridio-
nale (Ucraina), 4.800-4.600 a.C.

Rappresentazioni di serpenti sono note fin dal Paleolitico superiore e con-


tinuano nel Mesolitico e nel Neolitico, generalmente associati a simboli
dell’acqua o del corso d’acqua. Nel Neolitico quella che viene chiamata
Dea-serpente appare sempre accovacciata ma nell’Età del Bronzo a Creta,
nelle isole egee e nella Grecia continentale ha un aspetto più ‘umanamente’
femminile: le statuette di ceramica rinvenute in un deposito sotterraneo del
palazzo di Cnosso rappresentano la Dea o le sue sacerdotesse con lunghe
gonne e serpenti che strisciano sulle loro braccia, si avvinghiano ai loro corpi
o s’intrecciano ai capelli nelle loro acconciature
Il santuario di Sabatinivka occupava un’area di circa settanta metri quadrati.
In fondo vi era un altare (3) su cui erano posate sedici statuette (5) stilizzate
con testa di serpente e prive di braccia; accanto all’altare una sedia di argilla
(4) era presumibilmente usata dalla sacerdotessa che sovrintendeva ai riti.
Inoltre c’erano un forno per il pane (2), un piatto colmo di ossa di toro
bruciate (6) e diversi vasi. L’intero scenario fa pensare a un mistero di morte
e rigenerazione celebrato in primavera, quando i serpenti, interpretati come
una sorta di cordone ombelicale che unisce il grembo della Madre Terra al
mondo dei vivi, escono dal letargo, e, cambiando pelle, si rigenerano.

153
154
9) Donna prossima al parto, statuetta in calcare, cm 39,5, arte cipriota,
3.000 circa a.C.

La rappresentazione più o meno esplicita di donne in atto di partorire è si-


gnificativamente documentata fin dal Paleolitico superiore. La posizione del
parto è ben testimoniata in periodi e all’interno di gruppi culturali diversi
durante 20.000 anni. Alcuni santuari neolitici, come quello importantissimo
di Çatal Hüyük, scoperto negli anni Sessanta del Novecento nell’Anatolia
centrale da James Mallaart e databile tra la fine dell’VIII e la fine del VII
millennio a.C. e quelli presso a poco coevi dell’Achilleion in Tessaglia sca-
vati nel 1973-74 da Marija Gimbutas, potrebbero essere stati dedicati proprio
alla celebrazione della nascita e vi si sarebbero svolti sia il parto sia i riti che
lo precedevano e lo seguivano. Statuette in terracotta di donne assise su un
trono che in realtà è una sedia da parto e, se costruito in materiale deperibile,
è di regola andato perso, si spiegano come doni offerti ex-voto a una Dea che
proteggeva e aiutava la madre e il bambino nel momento in cui smettevano
di essere una cosa sola.
Nella figuretta qui riprodotta il punto focale è il triangolo femminile che
riassume, con una sorprendente capacità di astrazione, la soglia della vita e la
fonte del suo nutrimento e che due motivi lineari obliqui sulle braccia dila-
tano ed enfatizzano. La posizione accovacciata, il collo lunghissimo, la forma
delle braccia e della testa, l’inespressiva espressività del volto confermano la
valenza simbolica della scultura.

155
156
10) Figura femminile, statuetta in terracotta, cm 36, da Masuvek in Moravia
(Repubblica Ceca), III millennio a.C.; Brno, Moravské zemské Muzeum.

Statuette femminili nude, con seni appena accennati, natiche fortemente ac-
centuate e testa piegata all’indietro secondo un modello egeo-cicladico sono
venute alla luce soprattutto nei villaggi neolitici dell’Austria settentrionale
e della Moravia dove questa tradizione plastica ha radici che risalgono al
Paleolitico superiore come dimostrano i reperti di Dolní Věstonice. A parere
di Marija Gimbutas i glutei enfatizzati sono una metafora del doppio uovo o
del ventre gravido, un simbolo di fertilità/fecondità rafforzata.
Un motivo di interesse particolare è che queste figurette femminili non tro-
vano testimonianze più a nord e le culture neolitiche dei territori fra l’Oder
e la Vistola sono caratterizzate essenzialmente da una ceramica decorata a
spirali e meandri (Bandkeramik), geometrizzazione artistica e astrazione sim-
bolica che comunque si ritiene alludano all’energia inerente alle forme in
continuo movimento capaci di ridestare il potere della vita.

157
158
11) Maternità, statuetta in terracotta, cm 9,3, arte cipriota, 2.300-2.000 a.C.

Il glifo cosiddetto “a doppio frutto”, conservato forse dal Paleolitico supe-


riore, permane attraverso i millenni in tutte le espressioni figurative delle
diverse culture europee e si ritrova ancora oggi nelle tradizioni popolari, spe-
cialmente nei paesi baltici orientali, depositari delle credenze antiche. Scrive
Marija Gimbutas che i Lettoni hanno conservato il termine jumis e l’omoni-
ma divinità che garantisce fortuna al matrimonio. Il finnico jumis e l’estone
jumm, termini che si considerano antichi prestiti dal Baltico, indicano due
cose cresciute insieme in unità, frutti, tuberi, ortaggi doppi. Spighe gemelle
di orzo o frumento o segale, sono una manifestazione di jumis, una forza che
accresce la ricchezza e la prosperità, e in quanto tali vengono mescolate ai ce-
reali della semina. Anche in assenza di specifiche conoscenze archeologiche
e antropologiche, il concetto di jumis sopravvive nella nostra quotidianità
poiché anche noi interpretiamo come segno di buon augurio i frutti gemelli
(gimui?), l’uovo con due tuorli, i tuberi doppi, ecc.
La linea doppia, le figurette con due teste, le coppie di seni dovrebbero aver
avuto lo stesso significato del doppio frutto. La linea doppia è caratteristica
nell’arte preistorica delle immagini di madre con bambino. Ne è un esempio
questa figura molto stilizzata, dipinta in rosso-bruno che tiene in braccio un
grande neonato in forma di bozzolo: linee doppie riempite ed evidenziate da
pittura bianca appaiono sulla sua fronte e sulle sue braccia, rappresentano gli
occhi suoi e del figlio, sono simbolo della vita che si rinnova o si moltiplica.

159
160
12) Mater Matuta, statua in pietra locale, dal santuario di Matuta a Santa
Maria Capua Vetere, epoca romana; Capua, Museo Campano.

In epoca romana vi era a Capua un famoso santuario di Matuta, divinità


italica dapprima considerata un simbolo delle luce mattutina, poi venerata
come protettrice delle partorienti alla quale le donne offrivano come ex-voto
figure femminili in trono con uno o più bambini fra le braccia.
Il Museo di Palazzo Antignano che documenta la storia della Terra di Lavoro
ha sede a Capua nell’ex convento della Concezione. La sezione archeologica
comprende, fra l’altro, duecento statue votive di Matres eseguite fra il V e il I
secolo a.C. e provenienti dal santuario scoperto nel 1845 presso Santa Maria
Capua Vetere. Il bambino strettamente avvolto in fasce sulle ginocchia di
questa Mater Matuta ricorda quello in forma di bozzolo della statuetta cipriota
della fine del III millennio a.C., salvo che il concetto di vita che si rinnova,
là espresso anche dal simbolo della linea doppia, è qui realisticamente ed
esaurientemente evocato dalle figure stesse. Il nome di Santa Maria assegnato
alla città romana e probabilmente la stessa intitolazione del convento dove
oggi ha sede il Museo potrebbero essere letti come il filo rosso che collega
alle antiche Matres Matutae la Vergine Maria, cui è stato assegnato nel
Cristianesimo anche il ruolo di protettrice delle partorienti.

161
162
13) Piero della Francesca, la Madonna del Parto, affresco, 1460 circa; chiesa
di Santa Maria di Momentana a Monterchi (Arezzo).

L’iconografia della Madre con bambino risale ad almeno ottomila anni fa.
Prima di allora e per almeno ventimila anni quelle che per convenzione
chiamiamo Veneri, o Signore, o Dee avevano espresso da sole, con le loro
forme rotonde ed eccessive, il concetto di fertilità e solamente nel passaggio
dal Paleolitico al Neolitico l’attenzione sembra essersi spostata dall’idea della
fertilità in genere all’idea della fertilità femminile, ossia della maternità,
ma è più probabile che i mutamenti ritenuti indicatori del Neolitico, come
l’allevamento e l’agricoltura, siano in realtà la conseguenza ultima di un cam-
biamento ideologico che dovette maturare nel corso di moltissimi millenni.
In tal caso le Veneri paleolitiche, apparentemente distanti dalle più tarde
Madri con bambino, potrebbero segnare proprio l’inizio di questa lunghissima
evoluzione e la nascita dell’ “idea neolitica” dovrebbe essere arretrata a oltre
trentamila anni fa, in pieno Paleolitico.
Dell’antica divinità femminile europea la Madonna è l’espressione attuale,
testimoniata da infinite sovrapposizioni sia nei poteri divini, sia nei luoghi di
culto. Nell’affresco eseguito da Piero della Francesca nella chiesetta di Santa
Maria di Momentana poco distante dal borgo antico di Monterchi nell’alta
Val Tiberina, il gesto con cui la mano destra della Vergine si posa sulla veste
allentata e sul mistero che nel suo corpo si sta compiendo è ancora quello
della paleolitica Signora di Laussel, delle figurine di alabastro provenienti
dall’ipogeo neolitico maltese di Hal Saflieni e di un’infinita serie di madri e
Dee Madri nell’infinito succedersi delle generazioni.
Osserva Ingeborg Walter che, in contrasto con le Madonne fiorentine carat-
terizzate da un abbigliamento solenne e da una gestualità misurata, allusiva a
simbologie colte, questa di Monterchi indossa un vestito di stoffa semplice e co-
mune, adattato alla meglio al suo corpo appesantito dalla gravidanza e compie
gesti “realistici e terreni” che la avvicinano ai devoti (e alle devote, soprattutto)
senza sminuirne la maestà. Realistico è il gesto della mano sinistra, appoggiata
sul fianco con il dorso, come ancora usano fare le donne dell’Italia centrale
quando si pongono di fronte ai loro interlocutori. Terreno è il gesto propizia-
torio della mano destra che quasi automaticamente si posa con dolcezza sul
grembo e fino a poco tempo fa è stato in uso fra le donne incinte di Monterchi
per scongiurare l’influsso degli spiriti maligni sui bambini non ancora nati.

163
164
14) Rappresentazione grafica di una sepoltura neolitica, la tomba n. 387 di
Cucurru de is Arrius (Oristano) con statuetta, metà del V millennio a.C.

La variante sarda del cosiddetto “nudo rigido” è nota dalle tombe a forno
della cultura neolitica di Bonu Ighinu della metà del V millennio a.C. La sta-
tuetta veniva posta con altri oggetti di corredo di fronte al morto che giaceva
in posizione fetale, ricoperto di ocra rossa. Le tombe avevano una forma che
richiama simbolicamente quella dell’uovo o dell’utero e la stessa posizione del
cadavere suggerisce il concetto della sepoltura nel grembo della Madre Terra.
La Rigida Signora Bianca del Neolitico sardo è tonda ma non obesa, assisa o
eretta, con le braccia piegate o più spesso aderenti ai fianchi. Le gambe fanno
tutt’uno con le cosce e i glutei, al centro il grande triangolo pubico è fuso con
il ventre. Il volto è coperto da una maschera, gli occhi sono indicati da linee
orizzontali, la testa cilindrica su cui è appoggiato un polos e il collo risultano
pressoché indistinguibili.
Le piccole sculture erano ricavate da blocchetti di alabastro o di pietra friabile
e spesso utilizzavano ciottoli di fiume levigati, come a Lepenski Vir. Scolpite
in osso divennero oblunghe e snelle, ma conservarono l’atteggiamento rigido
e una forma che ignora o supera ogni intenzione naturalistica per esprimere
solo concetti astratti e valenze simboliche.

165
166
15) Rigida Signora Bianca, statuetta in pietra friabile dalla tomba n. 387 di
Cucurru de is Arrius (Oristano), cm 15 circa, metà del V millennio a.C.

Marija Gimbutas, l’archeologa di origini lituane che ha fatto oggetto dei


suoi studi un campionario sterminato di reperti e ne ha proposto la classifi-
cazione tipologica per indagare la spiritualità dei popoli che precedettero gli
Indoeuropei in quell’Occidente dove noi viviamo e, prima degli Indoeuropei,
furono i nostri antenati, dice che non è la metamorfosi dei simboli nel
corso dei millenni ciò che impressiona, ma semmai la loro continuità dal
Paleolitico in poi.
Il tema centrale è il simbolismo della Dea Madre, che si dispiega nel mistero
della nascita, della morte e del rinnovamento della vita, e rimane un fenome-
no straordinario la raffigurazione, più o meno stilizzata, scolpita nella pietra
o plasmata con la creta, di corpi femminili a tutto tondo “che ci vengono
incontro, eternamente inquietanti, dal fondo di tutte le civiltà, a segnare
un’epoca in cui l’ewiges Weibliches rappresenta la dimensione assolutamente
predominante del Divino, l’epoca dove Signora è la donna, simbolo del cre-
are, generare, nutrire” come scrive Massimo Cacciari.
Secondo Alessandro Usai la tradizionale interpretazione delle figurine fem-
minili prenuragiche rinvenute fra i corredi tombali come rappresentazione
della Dea Madre non coglie in pieno il loro oscuro significato che oscilla tra
il piano naturale e il piano soprannaturale senza necessariamente manifestare
una chiara idea di persona divina al di là di un generico richiamo al ripristino
della vita menomata dalla morte, mentre i numerosi esemplari recuperati
negli insediamenti ne attestano il ruolo, in termini sia concettuali che figu-
rativi, anche nelle diverse attività della vita quotidiana.

167
168
16) Signora di Vicofertile, statuetta di impasto ceramico in una tomba con
scheletro e corredo funebre a Vicofertile (Parma), cm 20 circa, metà del
V millennio a.C.

Nel corso di scavi preventivi all’avvio di un cantiere edile a Vicofertile, a


pochi chilometri da Parma, sono venute recentemente alla luce alcune se-
polture consistenti in semplici fosse di forma ovale al cui interno gli inumati
erano stati deposti in posizione rannicchiata sul fianco sinistro con il capo
a est e il viso a sud, secondo il rituale comune nei siti neolitici padani. Le
sepolture possono essere riferite alla cultura dei Vasi a Bocca Quadrata, una
fase del Neolitico dell’Italia settentrionale che abbraccia un periodo di tempo
fra il 5.000 e il 4.300 a.C.
In una di queste tombe, insieme allo scheletro di una donna in età matura e
ad alcuni oggetti di corredo è venuta alla luce una statuetta di impasto cera-
mico che dovrebbe rappresentare la cosiddetta “Rigida Signora della Morte”,
già vista nelle Cicladi, a Creta e in Sardegna. Come le sculture cicladiche e
sarde anche la Signora di Vicofertile ha i lineamenti del volto quasi illeggibili
ma un grande naso che assomiglia al becco di un uccello e potrebbe appunto
evocare l’immagine della morte come uccello rapace, secondo l’antichissima
tradizione mediterranea che le leggende di credenza dell’Europa hanno con-
servato fino ad oggi con riferimento al nero corvo, al rapace avvoltoio o alla
più graziosa ma non meno temuta civetta il cui grido notturno, per chi riesca
ancora a sentirlo, evoca d’istinto indefinibili inquietanti presagi. La linea
appiattita della schiena lascia supporre che in origine la statuina fosse assisa
su un trono, verosimilmente in legno, che non si è conservato.

169
170
17) L’Europa degli Indoeuropei.

In due ondate successive, nel 4.000 e poi nel 3.000 a.C., giungono sul nostro
continente i popoli indoeuropei, saccheggiatori originari delle steppe russe, e
intorno alla metà del II millennio l’orizzonte culturale dell’Europa balcanica
e orientale appare sensibilmente mutato: accanto alle pacifiche comunità di
allevatori e agricoltori che non hanno lasciato tracce di costruzioni fortificate
e non facevano uso di armi da guerra, sono comparsi gruppi mobili di pastori-
guerrieri che, pur trovando il loro primitivo territorio di sviluppo nelle steppe
asiatiche e nell’altopiano anatolico, devono considerarsi anche il risultato
dello sviluppo economico interno alle stesse società neolitiche europee.
Dediti all’allevamento del bestiame e a sistematiche imprese razziatorie, la
loro presenza durante l’Eneolitico e la prima età del Bronzo è documentata
da importanti ritrovamenti di martelli da combattimento e dal carattere di-
fensivo che assumono i villaggi situati, ove possibile, in posizioni dominanti e
difesi da palizzate e fossati. Le ricchezze si accentrano ora nelle mani di pochi,
chi è abituato e allenato all’uso delle armi assume un ruolo preminente, le at-
tività agricole sono deprezzate, decadono in Europa gli istituti sociali matriar-
cali e lo stesso culto di quelle che chiamiamo Dee Madri, ma sino all’inizio
dell’era cristiana quasi tutte le regioni del continente appaiono caratterizzate
da un ibrido di cultura antico-europea e di cultura indoeuropea.
Per la produzione delle armi e degli strumenti in genere gli Indoeuropei
dipendevano molto dalla ricerca, dal trasporto, dal commercio e dalla lavo-
razione dei metalli così che l’arte dei fabbri finì per assumere quelle valenze
mistiche che, con i debiti aggiornamenti, ha conservato fino ad ora, eppure i
prodotti delle culture del Bronzo e del Ferro rivelano un immaginario alla cui
base non può esservi altro che l’eredità delle credenze e dei riti dell’Europa
antica, dalle statuette di divinità femminili o antropo-zoomorfe riferibili alla
Dea della morte e della rigenerazione al vasellame cultuale caratterizzato dal-
la ricorrente immagine o forma della civetta, dell’anatra, dell’orsa e di altri
animali sacri, come i serpenti, i cervi, i cinghiali, i maiali, e dai motivi di cui
Marija Gimbutas ha sistematicamente individuato i contenuti simbolici tipi-
ci dell’Europa preindoeuropea, spire di serpente, spirali, uncini, corna, segni
a V, M, X, zig-zag, linee doppie e triple, pettini, triangoli, reti e in genere
simboli dell’acqua che, nell’utero della donna come nel grembo oscuro della
Madre Terra, consente la nascita e la rinascita della vita.

171
172
18) Carro rituale, statuetta femminile su un carro trainato da uccelli, terra-
cotta bruna, altezza della statuetta cm 20, da Dupljaja nei pressi di Vršac,
II millennio a.C.; Belgrado, Narodni Muzei.

Le ultime Dee Madri che si incontrano nell’Europa balcanica ed orientale


risalgono all’età del Bronzo. Tra esse un gruppo importante è rappresentato da
figure che ricorrono soprattutto nella Serbia orientale, in Ungheria, Romania
e Bulgaria, indossano un’ampia gonna coperta da decorazioni e sembrano
derivare indirettamente da prodotti in maiolica e avorio della Creta minoi-
ca. L’assenza del volto si spiega con il prevalere di una delle due tendenze
che caratterizzano da sempre la rappresentazione del divino, il realismo e
l’astrazione. Ossia da un lato la tendenza ad attribuire forma antropomorfa
a un’entità di cui l’uomo si considera figlio e che pertanto immagina simile
a se stesso, dall’altro la consapevolezza dell’impossibilità di rendere visibile
ciò che per sua natura non può o addirittura non deve essere rappresentato.
Per le popolazioni del Neolitico balcanico e mediorientale le divinità hanno
ancora forme antropomorfe femminili ma un semplice pinnacolo al posto
della testa così che il loro inguardabile volto rimanga inespresso. A volte sul
volto inespresso della divinità viene collocata una maschera e in questo caso
l’antropomorfismo negato si ripresenta con una soluzione di compromesso tra
rappresentazione realistica e simbolo.

173
174
19) Dolmen sotto tumulo, isola di Gavrinis nel golfo di Morbihan in
Bretagna (Francia), III-II millennio a.C.

Nell’estremo Occidente europeo le analogie formali con le culture eneoli-


tiche egeo-orientali appaiono essenzialmente collegate agli sviluppi della
grande rivoluzione metallurgica che ha aperto ai traffici commerciali nuove
vie marittime alla ricerca del rame e dello stagno. Così alle tradizioni nomadi
dei pastori dell’interno faceva riscontro la natura dinamica e combattiva di
gruppi mobili di mercanti/navigatori/guerrieri insediati nelle regioni costiere
che possedevano armi di bronzo difensive e offensive e costruivano i propri
villaggi in posizioni strategiche dominanti.
Con il termine “megalitismo” viene indicato un fenomeno culturale e ar-
chitettonico che si sviluppa in Europa tra il Neolitico e l’età dei Metalli ed
è caratterizzato dalla costruzione di strutture composte da grandi blocchi di
pietra. Interessa un’area geografica molto ampia che nel Mediterraneo com-
prende le isole Baleari, Malta, la Corsica, la Sardegna, l’Italia continentale,
nell’Europa atlantica la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Francia, la Spagna, il
Portogallo e per la sua estensione cronologica e geografica non può avere
una interpretazione unitaria. Le tipologie delle strutture megalitiche sono
numerose e ad esse corrispondeva una pluralità di funzioni.
I dolmen erano costituiti da una tavola di pietra posta orizzontalmente su
due o più pietre verticali. Potevano essere collocati uno di seguito all’altro
in modo da formare stretti corridoi attraverso i quali si accedeva alla camera,
di cui è in alcuni casi accertata la destinazione funeraria collettiva, e coperti
con tumuli di terra o di pietre.

175
176
20) Ortostato con incisioni in dolmen sotto tumulo, isola di Gavrinis nel
golfo di Morbihan in Bretagna (Francia), III-II millennio a.C.

Il dolmen di Gavrinis obbedisce a motivazioni religiose già nella scelta del


sito poiché occupa una piccola isola -in origine una penisola- nel golfo di
Morbihan, è circondato dall’acqua, primordiale fonte della vita, è allineato
con il sole al suo sorgere al solstizio d’inverno e il corridoio è orientato verso
il punto estremo dove sorge la luna.
All’interno del dolmen di Gavrinis la superficie di ventitré sui ventinove
lastroni di pietra che lo compongono è completamente coperta da incisioni,
linee sinuose e serpentine, cerchi e semicerchi concentrici, motivi irradianti
e avvolgenti il cui simbolismo è ancora quello delle incisioni aurignaziane di
30.000 anni fa nelle grotte della Dordogna. Il tema principale rappresentato
a Gavrinis, come nell’Inghilterra settentrionale e soprattutto in Irlanda, a
Newgrange, Knowt e Dowt nella valle del Boyne, dovrebbe indicare, secondo
l’attuale interpretazione, il potere generativo della pietra, una Pietra Madre.
La successione ritmica degli schemi elementari, intesa a suscitare effetti emo-
tivi piuttosto che risultati d’ordine intellettuale e concettuale, scrive Giorgio
Stacul, indica la propensione verso tipi di componenti formali che funziona-
no istintivamente come segnali del sacro prescindendo da ogni riferimento
esplicito alle convenzionali immagini del culto antropomorfo.

177
178
21) Dolmen di Tressè, Tressè nell’Ille-et-Vilaine in Bretagna (Francia), II
millennio a.C.

Nel trascorrere dei millenni i tumuli di terra o sassi che coprivano le tombe
megalitiche sono stati smantellati. Rimanevano le strutture elementari delle
grandi pietre squadrate, che, scomparsa la cultura da cui erano state prodotte,
apparivano come enigmatici segni e luoghi di presenze soprannaturali e, ben
visibili fin dai tempi della conquista romana, furono all’origine di credenze,
leggende, tradizioni, riti giunti in qualche caso fino ai nostri giorni.
L’espressione gallese tylwyth teg significa “il popolo fatato”. Il termine tylwyth
è sinonimo dell’irlandese tuatha e indica Entità analoghe ai piskies cornici,
alle bonnes dames bretoni e ai faitîaux delle isole della Manica. Tutti dimora-
vano nei tumuli megalitici che permisero loro di rimanere nascosti e indistur-
bati fino ai nostri giorni.
Il Cristianesimo ha di solito interpretato le presenze soprannaturali come pre-
senze infernali e/o diaboliche e molti dei dolmen diffusi in aree di influenza
celtica sono stati abbattuti durante il Medioevo perché considerati ricettaco-
lo di demoni. Lo stesso vale per i menhir, il documento più enigmatico della
cultura megalitica, legati indubbiamente alla sfera del sacro ma di cui non è
stata ancora individuata con certezza la funzione all’interno di rituali che non
conosciamo non solo per l’epoca nella quale le “pietre lunghe” furono infisse
nel terreno, ma neppure per la tradizione religiosa celtica di cui successiva-
mente sono entrate a far parte. Poche sono anche, sui menhir, le incisioni
riferibili con certezza ai Celti. Più frequenti le croci che vi sono state incise
soprattutto in epoca medioevale al fine di esorcizzare le forze del male di cui
la Chiesa individuava la presenza non soltanto, per la verità, nelle strutture
megalitiche disseminate in mezza Europa, ma in tutti i segni che essa non po-
teva né veramente comprendere, né correttamente interpretare, né tradurre
nei termini dei propri codici semantici.

179
180
22) Dolmen di Tressè, pietra di supporto scolpita, Tressè nell’Ille-et-Vilaine
in Bretagna (Francia), II millennio a.C.

Statuette di cosiddette “gemelle siamesi” sono note in tutto il Neolitico


e l’età del Rame. L’esemplare più antico è una statuetta dalla doppia testa
con due paia di seni rinvenuta a Çatal Hüyük e databile alla metà del VII
millennio a.C. In molti casi una testa è un po’ più grande o un po’ più in
alto dell’altra a significare o un aspetto maggiore e uno minore della divinità
femminile o una coppia madre-figlia. Alcune figure doppie preistoriche sono
molto probabilmente rappresentazioni di due sorelle divine e non necessaria-
mente di madre e figlia. Dee gemelle sono rappresentate anche nell’età del
Bronzo iniziale e dovrebbero indicare il carattere ciclico della natura, l’eterno
ritorno della vita e della morte, della primavera e dell’inverno, della felicità
e dell’infelicità. Nell’Europa occidentale la presenza della divinità femminile
nelle tombe megalitiche è spesso simboleggiata da elementi di carattere ma-
gico-decorativo, come le collane, che possono sostituire ogni esplicito riferi-
mento alle arcaiche immagini-archetipo antropomorfe, oppure la presenza di
una Dea Madre duplice e ambivalente viene espressa da dettagli morfologici
come le due coppie di seni scolpite su una pietra di supporto del dolmen di
Tressè. Spesso rappresentazioni come queste sono state distrutte o abrase per
ipotetiche connessioni con l’universo diabolico o per pregiudizi moralistici.
Due dee come sorelle sono note nella storia antica e nel folklore e le stesse
Agane del Barquet sono descritte a volte come tre sorelle a volte come due
sorelle più la madre, o la badessa, o la priora.

181
182
23) Roche aux Fées, dolmen nell’Ille-et-Vilaine in Bretagna (Francia), IV
millennio a.C.

A volte, invece che di potenze diaboliche e di Streghe, si parla di Fate.


Nelle tradizioni folkloriche le Fate sono fanciulle nude o vestite di bianco
che abitano le sorgenti e i fiumi e a mezzanotte danzano tenendosi per le
braccia un ballo velocissimo che libera energie. I cerchi di pietre erette del
megalitismo atlantico o, semplicemente, i cerchi nell’erba o le famigliole di
funghi disposti in cerchio sono chiamati “cerchi delle Fate”. Le danze delle
Fate sono analoghe alla danza estatica sulla vetta di un monte delle Baccanti
e delle Menadi greche. Anche le Vile serbe danzano sulle vette dei monti
presso laghi e sorgenti.
I dolmen, di solito interpretati come dimora delle Streghe, sono anch’essi
talvolta considerati case delle Fate o grotte delle Fate. Il passaggio dalle
Streghe alle Fate e la loro intercambiabilità nella toponomastica e nei rac-
conti popolari hanno una logica: la tomba entro cui gli uomini sono sepolti è
la Madre, il corpo sacro che li accoglie nel suo grembo e in esso li rigenera per
una nuova vita che rinascerà come, al finire dell’inverno, rinasce la vita delle
piante dalla terra fertile in cui il seme è stato sepolto. Streghe e Fate sono ciò
che resta delle arcaiche divinità femminili che presiedevano al rinnovarsi dei
cicli vitali, la vita vecchia e la vita giovane, la Madre dei morti e la Dea della
primavera, Demetra e Persefone.

183
184
24) Sepolture preistoriche scavate nel tufo dette Domos de Janas, “case delle
Fate”, nel Logudoro (Sardegna).

Nel mondo antico era regola quasi generale che i morti fossero deposti
all’esterno delle aree abitate. I gruppi di tombe, prima radi e distanti per-
ché corrispondevano a diversi piccoli gruppi di abitazioni, si infittirono in
seguito all’aumento della popolazione che portò all’aggregarsi dei villaggi in
centri urbani più complessi, cui si accompagnò il formarsi di vere e proprie
necropoli. Ogni città dei vivi ebbe la sua controparte nella città dei morti e
le sepolture, individuali o collettive, erano riconoscibili in superficie per la
presenza di un tumulo di dimensioni assai diverse, dal piccolo ammasso di
terra, ciottoli o pietrame al dolmen e al kurgàn.
La sepoltura deve essere stata sentita sempre come un ritorno alla Madre
Terra: Carl Gustav Jung accosta la tomba all’archetipo femminile, come tutto
ciò che circonda, avvolge, avvince: è il luogo della sicurezza, della dolcezza da
cui ogni essere vivente si strappa con dolore e a cui ritorna, infine, quando
il suo turno di fatica del vivere è giunto a conclusione. La tomba è anche il
luogo della metamorfosi del corpo in spirito o della rinascita che si prepara.
Sugli altopiani centrali della Sardegna venivano scavati nel tufo estesi ipogei
costituiti da corridoi sui quali si affacciano gruppi di nicchie a forma di uovo,
come nell’Italia centrale e meridionale, in Corsica, in Sicilia, nelle Baleari e
a Malta, poiché nella struttura di tutte le cosmogonie l’uovo svolge il ruolo
di immagine e modello della totalità ed è uno dei simboli del rinnovamento
periodico della natura.

185
186
25) Sepoltura celtica nel “prato dei morti” ad Avaglio (Lauco) in Carnia.

Nell’incapacità di comprendere che cosa fossero le sepolture antiche il


Medioevo le ha messe dovunque in relazione con potenze infernali perché
nel pensiero della Chiesa tutto ciò che si trovava sotto terra era, per vie
diverse, collegato o collegabile al demonio. È vero che i morti, per elemen-
tari esigenze igieniche e per il rifiuto del rogo che, distruggendo il corpo, ne
avrebbe impedito la resurrezione finale, hanno continuato ad essere inumati,
ma in terra “santa” e il loro mondo non era separato dal mondo dei vivi,
semmai era in continuità con esso e ne faceva parte perché i cimiteri si rac-
coglievano attorno alle pievi, sotto la pavimentazione delle chiese o nelle
foscoliane “urne” al loro interno attendevano il giorno del giudizio i defunti
più rappresentativi delle singole comunità, mentre i peccatori irrecuperabili
(tipo ser Cepperello da Prato, come Ciappelletto conosciuto, di cui racconta
l’edificante storia Panfilo nella prima novella del Decamerone), i suicidi e i
non battezzati erano sepolti fuori del camposanto e quindi spediti all’inferno
o al limbo senza neppure che fosse data all’arcangelo Michele l’opportunità di
pesarne l’anima sulla sua bilancia di precisione. Questo almeno fino all’editto
napoleonico di Saint-Cloud.
In Friuli i resti di antiche tombe celtiche scavate nella roccia in Cja’ Vuian
e in Cuel dal Fari a Lauco, in Carnia, sono considerate cassis dai Gans o
tumblis dai Gans. Il detto secondo cui “quando suona de profundis il diavolo
è in Tumblis” (antico nome del Cuel dal Fari) conferma, insieme al nome dei
Gans, l’idea di un collegamento, a livello di credenze popolari, tra sepolture
preistoriche e creature infernali, ma all’estremità sud-orientale dell’area di
espansione dei Celti, nella Tracia dove la loro presenza è documentata nel
IV-III secolo a.C., il santuario di Saladinovo, da cui provengono ex-voto con
figure di ninfe probabilmente identificabili con le Matres, è indicato come
“cimitero delle Fate”.

187
188
26) La civiltà dei Veneti antichi, il territorio (contrassegnata la località di
Ponzano Veneto).

Nel 1876 furono scoperte casualmente a Este due ricche tombe con due bel-
lissime situle di bronzo sbalzato. Alessandro Prosdocimi, direttore del Museo
intraprese subito una serie di scavi sistematici e le ricerche successive hanno
portato all’individuazione di una civiltà non più solo atestina ma paleove-
neta. Nel 1961 la mostra “Arte delle situle dal Po al Danubio” portò ad una
migliore conoscenza delle fasi centrali della civiltà venetica tra la fine del VII
e la fine del IV secolo a.C. e in seguito furono messi in evidenza i riflessi che
ebbe nel Veneto la moda orientalizzante diffusa tra VIII e VII secolo in tutto
il bacino del Mediterraneo e in particolare nell’area etrusca. Gli studi attuali
riguardano la fase più antica della civiltà veneta, ossia il passaggio dall’età
del Bronzo all’età del Ferro e la fase di romanizzazione nel II e I secolo a.C.,
pienamente compiuta tra il 49 e il 42 a.C. quando a tutto il territorio fra il Po
e le Alpi fu estesa la cittadinanza romana e un’imponente opera di bonifica
e di sistemazione delle campagne mutò il paesaggio agrario: tracce di centu-
riazione sono ancora oggi evidenti in vaste zone della campagna veneta. A
partire dal VI secolo a.C. alcuni centri come Este, Padova, Vicenza, Treviso,
Altino, Oderzo, Concordia avevano le dimensioni e la struttura di città.
Ritrovamenti e scavi dimostrano che l’area abitata dai Paleoveneti durante il
I millennio a.C. coincide in linea di massima con quella occupata dall’attuale
regione Veneto, ma la cultura dei Veneti antichi è fortemente presente anche
nelle regioni Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige.

189
190
27) Situla Benvenuti, lamine di bronzo decorate a sbalzo e unite da rivetti, da
via Santo Stefano a Este, 600 circa a.C.; Este, Museo Nazionale Atestino.

Le situle sono recipienti a forma di secchio i cui precedenti ricorrono nei


bronzi della civiltà centroeuropea e villanoviana. Formate da due o tre la-
mine di bronzo ripiegate e congiunte con chiodi ribattuti e con l’aggiunta
di un’altra lamina per la base, sono lavorate con la tecnica dello sbalzo o a
stampo e con incisioni. Le tombe dei Paleoveneti, soprattutto a Este, hanno
restituito molte situle, spesso usate come contenitori per i resti cremati dei
morti e talvolta giunte fino a noi complete del loro coperchio. La cosiddetta
“arte delle situle” ebbe nell’area venetica una serie di prodotti derivati e si
espresse anche su foderi di pugnali, spade, placche di cinturoni, lamine di
bronzo in genere, oltre che nei famosi dischi di Montebelluna.
Le situle erano comuni a popoli diversi finitimi tra loro e gli esemplari su-
perstiti provengono oltre che dal Veneto, dalla Val Padana, dall’alta valle
dell’Isonzo, dalla Slovenia, dall’Austria. Gli esemplari più antichi presentano
una decorazione ottenuta con borchie e cerchi sbalzati da cui partono svolazzi
che si concludono con teste di uccello acquatico. Vi ricorre cioè, scriveva
Giulia Fogolari, l’antichissimo motivo cultuale del sole trasportato in barca
durante il suo viaggio oltre gli oceani, quindi l’inizio di un “racconto” che
prelude alle narrazioni per immagini delle quali sono protagonisti uomini e
donne impegnati in varie attività, come nella situla Benvenuti, considerata
il capolavoro dell’arte atestina, le cui figure, soprattutto quelle dei guerrieri,
richiamano modelli etruschi e italici dello stesso periodo con evidenti influssi
orientali negli animali fantastici e nei motivi vegetali.

191
192
28) Situla di Vače, lamine di bronzo sbalzato unite da rivetti, cm 24, da Vače
in Slovenia, VI secolo a.C. circa; Lubiana, Narodni Muzei.

La situla fu rinvenuta casualmente nel 1883 nel villaggio di Vače, nei pressi
di Litija in Slovenia e segnalò l’esistenza di un insediamento dell’età del Ferro
con un’estesa necropoli. Tre componenti stilistiche diverse, l’orientale, la
greco-italica e la centroeuropea coesistono e si fondono nella rappresentazio-
ne di scene concettualmente e figurativamente correlate. Sul lato riprodotto
si vedono una processione rituale di cavalieri e, sotto, persone che offrono
incenso, cibo e bevande ai loro antenati o ai Lari della famiglia assisi in tro-
no. Sull’altro lato sono rappresentati una corsa di carri e un incontro di lotta
fra atleti nudi. Dragoslav Srejović ritiene che la situla rappresenti su un lato
la vita e sul lato opposto la morte. Si osservi l’abbigliamento della donna al
centro della scena mediana: indossa una gonna al polpaccio e uno zendado, il
costume delle donne paleovenete che si ritrova anche nei dischi bronzei del
tipo “Montebelluna”, nelle lamine votive e nelle statuette.
Lo scialle triangolare o rettangolare che avvolgeva la figura dalle spalle ai
fianchi ha avuto presumibilmente un uso ininterrotto nei secoli come tipi-
co capo di abbigliamento invernale delle donne venete e non è scomparso
neppure ai nostri giorni, nonostante la ‘concorrenza’ di maglioni, giacche,
cappotti, giacconi, piumini e quant’altro possa difendere dal freddo le loro
discendenti attuali.

193
194
29) Statuetta di devota, bronzo, da Este, località Caldevigo; Este, Museo
Nazionale Atestino.

Dalla fine del VII secolo a.C. molte testimonianze dell’abbigliamento ma-
schile e femminile dei Paleoveneti ci vengono dalle figurazioni sbalzate su
lamina bronzea delle situle e, dalla fine del VI secolo, anche dalle lamine
votive e dalle statuette di bronzo. L’abito femminile più semplice consisteva
in una veste corta al polpaccio con un ampio scialle triangolare o rettangolare
che avvolgeva la figura e poteva anche coprire la testa, sulla quale, altrimenti,
le donne portavano un fazzoletto, libero o annodato sulla nuca. Sopra al ve-
stito era spesso indossato un grembiule, anch’esso ornato e ricamato. Scialle,
grembiule, fazzoletto e fazzûl hanno fatto parte fino a ieri dell’abbigliamento
femminile nelle nostre regioni. I piedi erano nudi o protetti da stivali con
alto gambale svasato e ampi risvolti ricamati. Nel caso di persone di rango
più elevato o per occasioni più importanti, scrivono Loredana Capuis e Anna
Maria Chieco Bianchi, le vesti e gli scialli erano più ampi, forse realizzati
con tessuti più raffinati, spesso a quadri, ornati da ricche bordure ottenute
probabilmente con ricami o con l’applicazione di perle o di strisce leggere
di metallo pregiato; sulle vesti potevano essere fissati dei dischi in bronzo
sbalzato, talvolta rivestiti di foglia d’oro. Elemento costante dell’abbiglia-
mento più impegnativo era un cinturone a losanga, conservato in numerosi
esemplari di bronzo nelle tombe femminili del V e IV secolo, o più semplici
cinture di stoffa e cuoio. Oltre alle fibule che, arricchite da vistosi pendagli,
finivano per assumere valore ornamentale, le donne paleovenete portavano
braccialetti, anelli, collane di ambra, corallo, bronzo, osso, pasta vitrea, oro,
orecchini di bronzo o d’argento e, per fissare l’acconciatura dei capelli o il
velo, piccoli spilloni.

195
196
30) Disco del tipo “Montebelluna”, lamina di bronzo a incisione e sbalzo, Ø
cm 27,6, prima metà del IV secolo a.C.; Treviso, Musei Civici.

L’area abitata in Italia dai Paleoveneti coincide in senso stretto con quella
occupata dall’attuale regione Veneto, ma anche nel Friuli-Venezia Giulia e
nel Trentino-Alto Adige si trovano segni importanti della loro presenza, sia
pure uniti a testimonianze di altre culture.
Con le greche Era (la “crudele Hera” della tegola di Roussas, la divinità
funeraria celtica il cui culto si protrasse in alcune parti d’Europa per più di
un millennio dopo la cristianizzazione) e Artemide (sovrapposta anch’essa a
una o più divinità locali, insieme benefiche e mortuarie che per secoli, ad-
dirittura millenni, scrive Carlo Ginzburg, abitarono invisibilmente l’Europa
celtizzata) Strabone identificava la Grande Dea venetica che potrebbe essere
quella raffigurata nei dischi di bronzo sbalzato detti “di Montebelluna”, di cui
questo rappresenta la testa di serie rispetto agli altri cinque presi in esame da
Loredana Capuis e a quelli successivamente rinvenuti, nei quali si assiste a un
graduale impoverimento della tecnica esecutiva e a una progressiva riduzione
dell’apparato decorativo. La figura femminile affiancata da un cane e da un
uccello rapace viene di solito interpretata come una Signora degli animali,
Artemide/Diana, appunto, ma più probabilmente è la controparte lunare e
ctonia di Artemide, ossia Ecate, “che tiene le chiavi della vita e della morte
e chiude i termini del mondo” (in Platone, Repubblica II, 121, 83).
La chiave nella sua mano viene di solito definita “di tipo celtico”. Il torquis
a tamponi, che non appare mai al collo delle donne venetiche, rientrerebbe
perfettamente, invece, nel costume di quella che Ward Rutherford considera
una divinità retico-celtica ed è di solito indicata con il nome di Reitia cui
viene aggiunto spesso l’appellativo sainate, di solito tradotto con “risanatri-
ce” sul modello della lingua latina, ma per Matej Bor “splendente” in base
al confronto con le lingue slave: ŠAJNATEJ REJTIJAI, “alla splendente
Reitia”. A preferire questa versione mi induce anche l’uso del superlativo,
più probabile per “splendente” che per “risanatrice”: ŠAJNITIŠEI REJTIJAI,
“alla splendidissima Reitia”.

197
198
31) Disco del tipo “Montebelluna”, lamina di bronzo a incisione e sbalzo, Ø
cm 15-16 circa, da una sepoltura in anfora segata a Ponzano Veneto, pri-
ma età imperiale romana; Ponzano Veneto (Treviso), Biblioteca Civica.

La valenza funeraria di Reitia non è mai stata colta neppure attraverso il suo
rapporto con Artemide e, soprattutto, con Ecate, “che tiene le chiavi della vi-
ta e della morte e chiude i termini del mondo”. Essa è sempre stata vista come
una Potnia theroˉ n, una Signora degli animali, anche se il cane lupo e l’uccello
(non un airone, come è stato detto, ma un rapace) la collegano piuttosto a
una dea funebre: in tutte le mitologie il cane è associato agli invisibili regni
governati dalle divinità ctonie, mentre una connessione tra gli uccelli rapaci
e la morte è attestata nell’arte e nelle tradizioni dell’Europa dal VII millennio
a.C. fino ai nostri giorni.
I dischi bronzei dei Paleoveneti con l’immagine di Reitia sono stati sempre
considerati degli ex-voto da appendere preferibilmente ai rami di un albero
sacro. Nel 1995 è venuta alla luce a Ponzano Veneto una sepoltura in anfora
segata all’interno della quale c’erano due vasi ossuari con resti di ossa femmi-
nili e diversi elementi di corredo accessorio. Sull’orlo dell’olla 7, la più gran-
de, era stato collocato, come coperchio, un disco in lamina di bronzo a sbalzo
con la figura della dea clavigera, “portatrice della chiave”. Al momento della
scoperta il disco aveva ancora la sua fascetta di sospensione appoggiata all’or-
lo del vaso, come risulta dalla fotografia. Esso quindi era stato adoperato come
coperchio di un ossuario, con lo stesso significato augurale di cui per millenni
erano state portatrici le immagini di quella che consideriamo Dea della morte
e della rigenerazione.
Se questo è vero, come credo, anche gli altri dischi del tipo “Montebelluna”
dovrebbero essere stati coperchi di situle metalliche perdute o lamine di
protezione di ossuari d’argilla e l’immagine di Reitia, la Grande Madre dei
Paleoveneti, verrebbe ad avere una significativa e forse prevalente connota-
zione funeraria.

199
200
32) Cartina dell’espansione celtica.

Celti è il nome dato dai Greci a quelli che i Romani chiamavano preferibil-
mente Galli. Diedero vita a una delle più interessanti culture formate dall’in-
contro delle tradizioni indoeuropee con quelle antico-europee durante l’età
del Bronzo. Il loro nucleo di residenza originaria si collocava probabilmente
nella Boemia e nella Germania meridionale, da dove, nel corso del I millen-
nio a.C., si diffusero in quasi tutta l’Europa. Molte tribù migrarono nella peni-
sola balcanica e si installarono nell’Asia Minore con il nome di Galati, che ci
è noto soprattutto per le Lettere ad essi dirette dall’apostolo Paolo. Le puntate
fino a Roma nel 390 a.C. e a Delfi nel 279 a.C. segnano i limiti cronologici
e areali della loro espansione. Nel I secolo a.C. Giulio Cesare conquistò la
Gallia distruggendo ottocento tra città e villaggi e uccidendo, secondo le sti-
me di Plutarco, un milione e 200 mila Galli. Cesare ne dava conto, nei suoi
Commentari, con poche parole: «Urbs capta est. Omnes caesi sunt».
La romanizzazione della Gallia fu resa possibile soprattutto dalla proscrizione
dei druidi, la casta sacerdotale che aveva il compito di conservare e trasmet-
tere la conoscenza sacra e di creare un tramite fra la società e l’elemento
divino trascendente. Cacciati dalla Gallia per volontà di Cesare, i druidi
trovarono rifugio nelle isole britanniche e soprattutto nell’Irlanda che aveva
già alle spalle tremila anni di civiltà preistorica iniziata con i costruttori delle
strutture megalitiche da alcuni studiosi considerati protocelti.

201
202
33) Calderone di Gundestrup, lamine d’argento lavorato, da Gundestrup nel-
lo Jutland, piastra con la scena sacrificale e piastra con il dio Cernunnus,
prima metà del I secolo a.C.; Copenhagen, Nationalmuseet.

Il calderone di Gundestrup, una delle più importanti opere della protostoria


europea e una delle più significative testimonianze dell’arte celtica, è stato
rinvenuto nel 1891 nella palude dello Himmerland, nello Jutland, smontato
e posto in un’area al riparo dall’umidità. Le raffigurazioni che si svolgono
sulle diciotto piastre d’argento da cui è formato dovrebbero essere immagini
di divinità e illustrazioni di tematiche religiose che non sono ancora state
interpretate con sicurezza.
La prima delle piastre qui riprodotte, descritta nella parte II del testo, cap.
IV, è probabilmente riferibile a una scena sacrificale o a un rito di iniziazione.
La seconda rappresenta il dio Cernunno circondato da animali simbolici (la
figuretta che cavalca un pesce sarà ancora motivo ricorrente nell’arte romani-
ca), da una serie di oggetti importanti all’interno della tradizione sacra celtica
e da alcuni motivi di decorazione che hanno riferimento in lavori d’argento
prodotti in Tracia. Siede a gambe incrociate, piega le braccia verso l’alto, ha
un torquis a tamponi attorno al collo e un altro ne tiene nella mano destra
mentre con la sinistra ‘prende per la gola’ un serpente, indossa le bracae e un
copricapo con le corna.
Etienne Rynne propone che in Cernunno, Signore degli animali e dio celtico
dell’abbondanza, per la combinazione unica della posizione a gambe incrocia-
te e del ruolo protettivo che gli è assegnato, si possa individuare l’antecedente
iconografico delle Sheela-na-gig medioevali irlandesi e britanniche, identifi-
cate come idoli originariamente connessi al mistero della nascita, della morte
e della rigenerazione e collegate a un generico culto della fertilità convergen-
te con quello del dio e riconducibile perciò ai tempi dei Celti pagani.
Nell’intepretatio di Cesare Cernunno è il Dispater da cui “tutti i Galli ritengo-
no di discendere secondo una tradizione preservata dai druidi”. Sue raffigu-
razioni sono state rinvenute in Romania, nell’Italia settentrionale (petroglifi
della Val Camonica), in Germania, Francia e Spagna, ossia in tutti i territori
d’Europa dove vi fu una lunga e significativa presenza di popolazioni celtiche.

203
204
34) Stele con l’immagine di tre figure femminili che probabilmente rappre-
sentano le Dee Madri, cm 52 x 42 x 37, da Càmaro presso Messina, età
ellenistica.

All’arrivo degli Indoeuropei, a partire dal IV millennio a.C., si ebbero cam-


biamenti anche nelle credenze religiose con l’avvento di divinità maschili e
guerriere, ma in quest’ambito il passaggio dovrebbe essere avvenuto in ma-
niera graduale e, più che una sostituzione, dovrebbe esservi stata l’ibridazione
di due diversi sistemi simbolici poiché, mentre la classe dominante affermava
l’ideologia androcentrica indoeuropea, le antiche credenze, in particolare
quelle collegate ai rituali della nascita e della morte, della fertilità della
terra, della periodicità della natura rappresentata dai cicli della luna e dal
succedersi della stagioni, rimasero profondamente radicate nel sentimento
religioso delle popolazioni agricole e la Grande Dea dell’“Europa antica”,
secondo l’ormai celebre definizione di Marija Gimbutas, sopravvisse nella
greca Artemide, nell’italica Diana, nella tracia Bendis, nella venetica Reitia,
in Artio ed Epona e in altre figure a loro connesse dell’enigmatico mondo religioso
celtico, poi precocemente dissolto sotto l’offensiva del Cristianesimo, in partico-
lare le Matres documentate anche in territori geograficamente lontani dall’Europa
centrale come la Tracia, in conseguenza di insediamenti celtici del IV-III secolo
a.C., e la Sicilia dove si può individuare uno strato profondo di credenze in cui
erano presenti elementi celtici di ascendenza tracia.
Insieme a molte altre divinità benefiche e mortuarie protagoniste di culti locali
le Matres, con nomi diversi, con diversi ruoli, sono giunte fino a noi attraversando i
secoli annidate nella religiosità tradizionale, nelle leggende di credenza, nelle azioni
rituali, nella toponomastica.

205
206
35) Stele votiva con dedica alle Matres, da Bonn, epoca gallo-romana; Bonn,
Rheinisches Landesmuseum.

Alle Matres sono state dedicate più spesso da donne – il che non è senza si-
gnificato – una grande quantità di iscrizioni lungo il corso inferiore del Reno,
in Francia, in Inghilterra e nell’Italia settentrionale. Un’iscrizione di Vicenza
reca una dedica a dee chiamate Dianae, collegabili alle Matronae-Junones
della Gallia Cisalpina e a Colonia Claudia Savaria (oggi Szombathely, città
dell’Ungheria vicina al confine con l’Austria), in un territorio popolato da
Galli Boi, una variante locale delle Matres erano le Fatae.
Matres, Matronae, Junones, Dianae, Fatae sono i nomi con cui i Celti indica-
vano divinità femminili benefiche (come dimostrano recando cesti di frutta
e cornucopie), protettrici delle partorienti (come dimostrano tenendo in
braccio bambini in fasce) e presumibilmente legate al mondo dei morti per
la stretta connessione che tra la vita e la morte intercorreva nelle religioni
precristiane, ereditata dal Cristianesimo che alla Vergine Maria, “Madre” per
definizione, chiede di pregare per noi nunc et in hora mortis nostrae.
Numerose dediche sono accompagnate da figurazioni in cui ricorrono model-
li piuttosto stereotipati, nella prevalenza dei casi di origine celtica anche se
condizionati, sul piano esecutivo, dall’influsso dell’arte romana. Alle Matres
sono stati dedicati monumenti anche da parte di alti funzionari roma-
ni come nel caso della stele offerta ex-voto a Bonn dal questore Vettio
Severo. Le Dee sono assise su uno scranno semicircolare coperto da drap-
pi e cuscini e tengono sulle ginocchia cesti di frutta. La figura centrale si
differenzia perché è a testa scoperta mentre le altre indossano voluminosi
copricapo. Alla base la scritta dedicatoria: MATRONIS/ AVFNIABUS/
Q·VETTIUS·SEVERUS/ QUAESTOR·C·C·A·A/ VOTUM·SOLVIT·L·M e
la data: MACRINO·ET·CELSO·COS

207
208
36) Gruppo votivo dedicato alla dea Artio, bronzo, figura della Dea-orsa
cm 12, albero cm 19, da Muri presso Berna, II-III secolo d.C.; Berna,
Historisches Museum.

L’Europa del Paleolitico costituiva un’area culturale molto vasta, differenzia-


ta nei dettagli ma omogenea nell’insieme. La presenza di orsi nelle pitture
delle caverne indica che essi avevano già un ruolo definito nella vita e nel
pensiero, primitivo ma solidamente strutturato, dell’uomo paleolitico. Nel
Mesolitico il culto di una divinità orsina è correlato al culto dell’acqua e
quindi al culto di una divinità femminile. Dal VII al III millennio a.C. sono
stati prodotti in tutta l’Europa mediterranea vasi rituali a forma di orso. In
seguito le popolazioni che abitavano sulle coste settentrionali del Mar Nero
adoravano una “Signora degli animali” che nell’Iliade è l’epiteto di Artemide.
Al nome di Artemide, che nelle sue apparizioni poteva assumere l’aspetto di
un’orsa e come orsa era oggetto di culto, i Greci tendevano a ricondurre figu-
re disparate di divinità femminili straniere, tra cui la celtica Artio che è let-
teralmente una Dea-orsa come in seguito l’eroe celtico Artù sarà un re-orso.
A lei una certa Licinia Sabinilla ha dedicato ancora nel II o III secolo d.C.
un gruppo in bronzo rinvenuto nel 1832 presso Berna, la città che prende il
nome dall’orso ed era un importantissimo centro cultuale dei Celti. La Dea è
rappresentata come orsa accanto a un albero il cui simbolismo nelle tradizioni
celtiche si incardina sui tre temi essenziali della sapienza, della forza e della
vita pertinenti ai poteri della divinità femminile.
La figura di donna, anche stilisticamente disomogenea rispetto al gruppo
nel suo insieme e ricalcata sul modello delle Matres galliche, è un’aggiunta
posteriore.

209
210
37) Stele dedicata alla dea Epona, rilievo su marmo dalla Dacia, II metà del
II secolo d.C.; Budapest, Szépmüvézeti Múzeum.

Epona era considerata Dea dei cavalli e protettrice dei cavalieri e spesso
raffigurata su un cavallo o accanto a cavalli con vari oggetto simbolici, in
particolare la cornucopia, che dà risalto alla sua funzione di dispensatrice
di doni e fertilità. Con le sue controparti, l’inglese Rhiannon e l’irlandese
Macha, presentava le stesse caratteristiche proprie delle Dee Madri attestate
in tutto il mondo antico. Il suo culto, come quello delle Matres o Matronae
fu accolto nella religione romana ed ebbe una notevole affermazione nelle
regioni centro-settentrionali d’Europa.
Secondo alcuni studiosi, scrive Massimo Centini, questa Dea tipicamente
celtica andrebbe intesa non solo come una divinità individuale ma come il
simbolo di tutti i Celti, cavalieri per tradizione mentre la cavalcata è sostan-
zialmente estranea alla mitologia greca e romana: né gli dei né gli eroi ome-
rici, per esempio, usavano cavalcare e dei cavalli si servivano quasi soltanto
per aggiogarli ai cocchi.
Divinità notturna, protettrice delle partorienti e legata al mondo dei morti,
immaginata e poi raffigurata quasi sempre in groppa ad animali lanciati al
galoppo, Epona è, per Carlo Ginzburg, una tra le divinità che alimentarono le
credenze poi confluite nella descrizione stereotipata della cavalcata di Diana
e nel sabba delle streghe.

211
212
38) Pozzo sacro di Santa Brigida a Liscannor, contea di Clare, Irlanda.

Molti pozzi e sorgenti sono sacri da tempo immemorabile. Nonostante il


mutamento, più che altro apparente, delle immagini e dei riti, il sentimento
profondo dell’invocazione a una divinità femminile e materna Signora delle
acque non è cambiato. Questo pozzo era un tempo consacrato a Brigid, figlia
di Dagma, chiamata anche Belisama, “la splendente” e Dana. Il nome Brigid
è considerato un’eredità indoeuropea ma il fatto che la Dea porti spesso tre
nomi diversi la mette in relazione alla triplice Diana/Ecate e alle triadi delle
Dee Madri.
Le fonti storiche greche, romane, celtiche e baltiche parlano ripetutamen-
te di Dee e ninfe associate a fiumi, sorgenti e pozzi, fonti della vita fin dal
Paleolitico. Nel pozzo sacro di Liscannor, nelle antiche strutture in lastre di
pietra locale sovrapposte e nelle pareti rocciose della cavità naturale, si sono
accampate statuette del Sacro Cuore di Gesù e della Madonna di Lourdes
(altro luogo di arcaici culti dell’acqua prima delle apparizioni dell’Immacola-
ta) e sulla trave in alto quadri di diversi soggetti devozionali offerti ex-voto
ai nostri giorni.

213
214
39) Fonte sacra a Duncannor, contea di Wexford, Irlanda.

Con il declino dei Celti nell’Europa continentale, le isole britanniche diven-


nero l’estrema roccaforte della loro cultura, a proposito della quale Inghilterra
e Irlanda, proprio perché, in quanto isole, furono meno influenzate dai cam-
biamenti avvenuti sul continente, offrono informazioni particolarmente utili.
L’evidenza dei toponimi e dei ritrovamenti archeologici nelle isole britanni-
che indica l’esistenza di importanti centri religiosi soprattutto in Scozia, nel
Galles e in Irlanda, dove la Dea primitiva dell’Europa antica, in particolare
nel suo ruolo di Signora della vita e della morte, è sopravvissuta fino ad oggi
nelle leggende di credenza e nei riti del folklore. Colei che dispone delle fon-
ti, delle sorgenti e dei pozzi, che fila e tesse la vita umana visita ancora le case
dei villaggi irlandesi, ancora si usa lasciare per lei offerte in tessuto, ritagli,
asciugamani e nastri, sugli alberi e sui cespugli nei pressi di pozzi, sorgenti e
corsi d’acqua considerati sacri da tempo immemorabile.
Certo, le fonti sacre d’Europa da Lourdes alle Grotte Verdi di Pradis sono
oggi di norma intitolate alla Madonna, ma questo significa soltanto – o so-
prattutto – che l’eterna Dea Madre continua a proporre la propria identità e
il proprio mistero, benché costretta a confrontarsi, nel volgere della sua storia
infinita, con le diverse religioni organizzate che sembrano metterla in dispar-
te, talvolta, ma finiscono sempre per restituirle, in modi e forme diverse, lo
spazio e il ruolo che le spettano di diritto.

215
216
40) Sirena bifida, bassorilievo su pietra, XI-XIII secolo; Cividale (Udine),
Museo Archeologico.

Nel 1966 Mario Brozzi e Amelio Tagliaferri, pubblicando la formella con


Sirena del Museo Archeologico di Cividale, si dicevano propensi a collocarla
nel VII secolo, a un grado intermedio fra le intenzioni tardo-romane e quelle
strettamente alto-medioevali. Successivamente, nel 1988, Tagliaferri ne parla
come di una curiosa scultura raffigurante una Sirena nel suo elemento mari-
no, forse neppure altomedioevale ma romanica (XI-XIII secolo), il cui signi-
ficato ci è sconosciuto anche se gli attributi femminili chiaramente rilevati
suggeriscono una simbologia sessuale. Nell’arte greco-romana Le Sirene, in
origine geni della morte come le Kere e le Erinni, erano sempre rappresentate
in forma di donne-uccello e scompaiono con la fine del mondo antico.
Le prime rappresentazioni di Sirena a doppia coda non sembrano anteriori
all’XI-XII secolo. Non sappiamo, per ora, dove fossero finite le Sirene, uccel-
lo o pesce o comunque fossero fatte, tra la fine del mondo antico e il secolo
dell’anno Mille anche se un bestiario del VI-VII secolo, il Monstruorum liber
de diversis generibus ne parla classificandole in quattro sottospecie, la Sirena-
donna, la Sirena-uccello, la Sirena-pesce e la Sirena-bifida, ossia a doppia
coda di pesce.

217
218
41) Sirena bifida, particolare degli affreschi absidali, XIII secolo; chiesa di
San Giacomo a Kastellaz di Termeno (Bolzano).

Elementi decorativi derivati dall’ambiente aquileiese, soprattutto al tempo


del vescovo Corrado di Rodanck che fu ad Aquileia nel 1214, si colgono,
come scrive Nicolò Rasmo, nella goffa interpretazione del velario dipinto
con figure mostruose della chiesa di San Giacomo a Kastellaz di Termeno.
La Sirena bifida sta accanto a una figura femminile che cavalca un delfino
(motivo di repertorio nell’arte romanica già visto, peraltro, nel Calderone di
Gundestrup) in un contesto omogeneo di Sirene-uccello, centauri, serpenti
marini ed esseri compositi vari e in una singolare posizione contorta che ob-
bedisce, però, allo schema codificato dal momento che le mani trattengono
le code rialzate ai lati della metà più o meno ‘umana’ della figura.
Nicolò Rasmo dice candidamente che la Sirena di Kastellaz fa esercizi ginnici
con le due code e Walter Metzger parla, a proposito dei vela nel loro insieme,
di erotische Figuren. È evidente che un’interpretazione in base a parametri
ginnici o erotici o sessuali, come nel caso della formella di Cividale, è pro-
ponibile più che altro in rapporto all’atteggiamento mentale di chi osserva
oggi l’immagine e alle risonanze inconsce che essa suscita in lui, mentre non
è detto che le intuizioni dei moderni coincidano puntualmente con le inten-
zioni dei committenti, esecutori o immediati destinatari di rappresentazioni
che, come scrive Carl Gustav Jung, furono concepite per occhi medioevali
e, in conseguenza, non devono essere interpretate secondo i nostri pregiudizi
moralistici ma nei loro significati simbolici.

219
220
42) Giovanni Griglio, Sirena bifida ai piedi di San Cristoforo, rilievo su
pietra, 1332; facciata del duomo di Gemona del Friuli (Udine).

È nell’età romanica che le Sirene, da sempre portatrici dell’ambiguità e


dell’ambivalenza proprie di tutti gli esseri soprannaturali femminili, fanno
sentire nuovamente il loro canto e, sia pure relegate in una dimensione ne-
gativa dal pensiero della Chiesa, ripropongono sulla sponda della corporeità il
primordiale archetipo materno. Di solito vengono rappresentate nel contesto
in cui appare la figura di San Cristoforo, dipinta in dimensioni molto grandi
sulla facciata di innumerevoli chiese lungo le strade dei pellegrini diretti a
Roma, a Santiago de Compostela o in Terrasanta per segnalare da lontano le
tappe e i guadi pericolosi del loro cammino. Gli affreschi superstiti in Austria,
Italia, Francia e Spagna confermano la diffusione e la persistenza del tema.
Ho sempre ipotizzato un rapporto molto stretto, a livello simbolico profondo,
tra le nostre Sirene bifide e le Sheela-na-gig delle isole britanniche (oltre
che, occasionalmente, di altre regioni d’Europa di profonda sedimentazione
culturale celtica) in quanto esse sono le uniche figure dell’arte medioevale
europea che manifestano in modo esplicito, le une con la discrezione e la
misura del classicismo di tradizione gallo-romana, le altre con il gusto del
paradosso e dell’esorcismo ricorrente nell’arte celtica, la propria identità
sessuale femminile e possono attestare la longevità di una immagine divina
preistorica in qualche modo collegabile ai miti della nascita, della morte e
della rinascita, come recentemente hanno sottolineato, in un esauriente ca-
talogo illustrato e ragionato delle Sheela ancora esistenti, Joanne McMahon
e Jack Roberts.

221
222
43) Sirena bifida su stampo da cucina in rame, fine XIX secolo; coll. Ciceri,
Tricesimo (Udine).

Nella seconda metà del XII secolo e più ancora dopo il saccheggio di
Costantinopoli da parte dei Crociati nel 1204 si andavano diffondendo in
Europa immagini, leggende e credenze, almeno in parte collegabili alle figure
incise sui sigilli antichi, che si saldavano alle dottrine astrologiche ed erano
tollerate dalla stessa Chiesa. Ancora nel Quattrocento Jean de Mandeville,
rifacendosi a fonti medioevali diceva che un anello in cui fosse incastonata
una pietra incisa con la figura di una Sirena aveva il potere di rendere in-
visibile chi lo portava. Il positivo potere di magia che le Sirene sembrano
aver allora recuperato ne spiega il successo nell’illustrazione libraria e nella
scultura dal Rinascimento in poi, dal Polifilo di Francesco Colonna al giar-
dino neoplatonico di Bomarzo, e il perdurare nell’oreficeria e in oggetti di
uso domestico fino all’Ottocento, epoca cui dovrebbe risalire questo stampo
da cucina che riprende, molti secoli dopo, il motivo, già visto nella formella
romanica di Cividale, della foglia posta a coprire quella parte della Sirena-
pesce a doppia coda che, se pesce essa fosse senza sottintesi sessuali, non si
vede perché mai dovrebbe essere coperta.

223
224
44) La Cjasa da las Saganas e le sorgenti del Barquet (la pubblicazione del rac-
conto risale al 1891) e una scolaresca di Vito d’Asio in gita alla Cjasa de
las Aganas con l’insegnante Esterina Zancani all’inizio degli anni Venti
del Novecento.

Dongia il riu, c’al si clama Barcuia a si uad un gran busat, cun t’un gran puarton
dutt di clapp, un bûs mo’ lung e strett, mo’ larg come una sala, dutt plen di nòtoi
ch’ai svuala cà e là e ch’ai fass pôra.
Chell bûs al si clama “la çhasa da las saganas”. Las saganas as era strias. As steva
la denti simpri platadas via pal dì; ma di nott, dutas tria, as zeva attor cà e là, a fà
pôra a chell e a chest alti e a puartà via dutt ce ch’as podeva grampà.
Un miercoi as lavâr dutas tria denant dì: dos as zêr a S. Dinial, e la pì zovina a
tornà ta la so çhasa dopo via robà un fantulin.
Il fantulin che l’agana aveva rapito con l’intenzione di mangiarselo riesce però
ad ucciderla e le sorelle quando tornano da San Daniele e la trovano morta
as ziga aitoris, as zem, as vai, as fàs il montafin.
E vai che gi vai, as buta tantas lacrimas ch’as fas cori un biell rìu. Al è chell ch’al
ven giù bruind in miezz i claps, ch’al buta tanta sbruma, ch’al mena aria frieda,
frieda e ch’al si clama Barcuia.
(Il testo integrale del racconto è stato pubblicato, ma anonimo, nel 1891 in
“Pagine friulane”. Giovanni Battista Gerometta lo ha firmato e ripubblicato
nel 1928 in “Ce fastu?”, rivista della Società Filologica Friulana).

225
226
45) Grotta di Frasassi in comune di Genga (Ancona), l’androne con il tem-
pietto del Valadier, 1828.

Il tema relativo ai culti preistorici legati all’acqua e alle grotte presenta anche
in Italia profonde implicazioni culturali e antropologiche. Spade dell’età del
bronzo gettate nei fiumi e nei laghi come offerta votiva, stipi votive rinve-
nute presso grotte e sorgenti sono espressioni di religiosità riferibili ai simboli
della terra e dell’acqua, collegate ai riti della purificazione, della guarigione,
della rinascita, ma anche allo sfruttamento dei terreni del santuario e alla
produzione artigianale delle offerte votive. I santuari di confine, poi, sono
luoghi di contatto tra comunità diverse, centro di interessi e di scambi sia
ideologico-politici che economici.
La grotta di Frasassi presenta un ingresso ampio e luminoso, ingrandito per
i lavori di costruzione del tempietto di Leone XII. A destra dell’entrata c’è
una sorgente perenne in una conca tufacea. Sembra che originariamente la
grotta sia stata utilizzata come luogo di sepoltura tra Eneolitico e Bronzo an-
tico fino al Bronzo medio con due diversi riti, a inumazione rannicchiata in
fossa e con deposizioni multiple di superficie. All’inizio del Bronzo medio la
frequentazione funeraria assunse un carattere spiccatamente rituale, con un
cenotafio e con deposizioni di ceneri in urna. La grotta, grazie anche alla vi-
cinanza di una vasta area termale, è un sito funerario/sacrale la cui tradizione,
continuata in età romana, fu particolarmente viva durante l’alto Medioevo, è
proseguita fino alla costruzione del tempietto del Valadier e, in conseguenza,
fino ai nostri giorni.

227
228
46) Pittore della chiesa di San Primo, La Vergine al telaio, particolare degli af-
freschi nella chiesa di San Primo presso Kamnik in Slovenia, 1504; copia
a tempera su legno a Lubiana, Narodna Galerija.

Gli affreschi della chiesa di San Primo nei pressi di Kramnik segnano il
passaggio dal Gotico al Rinascimento nel territorio sloveno. Le dodici scene
della vita di Maria sono dipinte sotto l’influenza della letteratura apocrifa
medioevale e secondo gli schemi iconografici tradizionali, ma vi si avverte
una nuova serenità nella disposizione spaziale e nell’illuminazione che vince
le inquietudini del tardo gotico, scrive Dragoslav Srejović. Eppure queste
donne, forse proprio per la suggestione dei racconti apocrifi medioevali e
degli schemi iconografici tradizionali sedimentati ancor più nell’immagina-
zione che nella rappresentazione, illuminate da una luce diffusa che le sottrae
al tempo reale e inserite in un rassicurante ambiente domestico, richiamano
l’archetipo delle triadi divine lunari e ctonie che, quietamente filando,
tessendo e cucendo… bleòns dai muàrs, decidono il misterioso e ineludibile
destino che a ciascuno di noi è riservato.
In tutta la Spagna è presente la figura mitica di Fate “filatrici notturne” che
si qualificano attraverso questa attività specifica come le nostre Agane si
qualificano in quanto “lavandaie notturne” e nell’Algarve esiste un termine
che corrisponde esattamente all’asturiano jã o zã, derivato dal nome di Diana,
con cui si indicano le Fate “filatrici notturne” portoghesi.

229
230
47) Le Agane della Val Colvera nelle tradizioni orali raccolte da Novella
Cantarutti in Oh, ce gran biela vintura!... Testi di tradizione orale tra il
Meduna e le Convalli, Editrice Leonardo, Lithostampa, Pasian di Prato
(Ud) 2001.

«Al é doi posc’ da li’ anguanis: un tal Bûs di Colvara, po’ ta la Colvara di Jouf
al é bûs e groti’ ch’a’ erin i sió’ posc’. Tal Plan dai Midìns, sul troi ch’al zeva
in Plan da li’ Mirìis a’ erin ’sti grotis.»
(Ci sono due posti delle agane: uno nel Bûs di Colvara, poi nella Colvera di
Jouf ci sono buchi e grotte che erano i loro posti. Nel Plan dai Midìns, sul
sentiero che portav in Plan da li’ Mirìis, c’erano queste grotte).

«Li’ feminis a’ vevin pora da li’ anguanis, i omis no, parcé chi una volta, ta la
Claupa, un om al era stât a cjacja e al veva judût ’na salamandra grossa ch’a
spetava i picjui; al l’à mituda in banda par ch’a na la pescjassin. Dopo un po’
di dis, al l’à tornada a jodi, ma ’a era la anguana normal e ai à dit ch’al é stât
bon cun jê: “Va ta chel post chi tu cjatarà furtuna”. E al à cjatât roba grossa,
un cjamoc’ o cussì.»
(Le donne avevano paura delle agane, non gli uomini, perché una volta, nella
Claupa, un uomo era andato a caccia e aveva visto una salamandra grossa che
aspettava i piccoli; l’ha messa da parte, perché non la calpestassero. Dopo al-
cuni giorni l’ha rivista, ma era una agana normale e gli ha detto che era stato
buono con lei. “Va’ in quel posto e troverai fortuna”. E ha trovato selvaggina
grossa, un camoscio o così.)

«Li’ linguani’, (no strìis /a’ na vèvin nua ce fâ cu li’ strìis), a’ si lavavin e a’
lavavin la sô roba, ma a’ nai fasevin mai nua a la gent.»
(Le agane, non streghe – non hanno niente a che fare con le streghe – si
lavavano e lavavano i loro panni, ma non facevano mai nulla alla gente.)

231
Antro presso il Bûs de le Anguane, foto Ivan Castelrotto

232
Bibliografia

ALINEI, M., Antropomorfismo nelle Alpi centro-orientali: le aquane, in Dal to-


temismo al cristianesimo popolare, Alessandria 1984.
ALINEI, M., Silvani latini, aquane ladine: dalla linguistica all’antropologia, in
“Mondo ladino”, IX (1985) 3-4.
ANONIMO, in “Val d’Arzino”, Bollettino parrocchiale della pieve di Vito
d’Asio, VII, 2, sett. 1975.
APPI, E., APPI R., PARONI BERTOJA R., Al Striòn, in “Racconti popolari
friulani”, XIV (1978).
BATTISTELLA, A., Udine nel secolo XVI, Udine 1932.
BAVOUX, F., Hantises et diableries dans la terre abbatiale de Luxeuil. D’un pro-
cès de l’Inquisition (1529) à l’épidémie démoniaque de 1628-1630, Monaco
1956.
BELLINA, L., Testi in Treviso e i colli asolani. Acque, vapori, umori, Farigliano
1993.
BENNET, G., Belief Stories. The Forgotten Genre, in “Western Folklore”, 8
(1989).
BERNARDELLI CURUZ, M., Streghe bresciane. Confessioni, persecuzioni e
roghi fra XV e XVI secolo, Desenzano 1988, pag. 111.
BIASUTTI, G., Tre singolari incidenze dell’agiografia nella storia del Friuli, in
“Sot la Nape”, 1977, 7.
BIASUTTI, G., La lunga fine dei Longobardi in Friuli, Udine 1979.
BOR, M., in: ŠAVLI J., BOR M., TOMAŽIČ I., I Veneti progenitori dell’uomo
europeo, Vienna 1991.
BLEHR, O., The Analysis of Folk Belief Stories and its Implications for Research
on Folk Belief and Folk Prose, in “Fabula”, 9 (1967).
BOTTIGLIONI, G., Leggende e tradizioni di Sardegna, Ginevra 1922.
BROZZI M., TAGLIAFERRI A., Arte Longobarda, I, Cividale 1966.

233
CACCIARI, M., Alle Madri, in LIGABUE G.C./ROSSI-OSMIDA G. (a
cura di), Dea Madre, Milano 2006.
CANTARELLA, E., La doppia immagine di Tanaquilla, Grande Madre, moglie
fedele, in GIANI GALLINO T. (a cura di), Le Grandi Madri, Milano
1989.
CANTARUTTI, N., Friûl dal soreli a murî (scampoli di tradizioni popolari), in
Pordenone, N.U. della Società Filologica Friulana., Udine 1970.
CANTARUTTI, N., Appunti di tradizioni popolari in VATTORI R. (a cura
di), Val d’Arzino, Val Cosa, Val Tramontina, Udine 1986.
CANTARUTTI, N., Oh, ce gran biela vintura.Testi di tradizione orale tra il
Meduna e le convalli, Pasian di Prato 2001.
CAPUIS, L., Per una rilettura dell’iconografia/iconologia dei dischi, in “Quaderni
di Archeologia del Veneto”, XIV (1998).
CAPUIS, L., I Veneti. Società e cultura di un popolo dell’Italia preromana, Milano
2004.
CAPUIS, L., CHIECO BIANCHI A. M., Este preromana. Vita e cultura,
in TOSI G. (a cura di), Este antica dalla preistoria all’età romana,
Cittadella 1992.
CENTINI, M., Il sapiente del bosco, Milano 1989.
CENTINI, M., Simboli celti. Dalla croce al menhir: immagini, divinità, oggetti sacri,
Como 2003.
CHIECO BIANCHI, A. M., TOMBOLANI M., I Paleoveneti, Catalogo del-
la Mostra sulla civiltà dei Veneti antichi, Regione del Veneto e Studio
Editoriale Programma 1988.
COLTRO, D., Santi e contadini. Lunario della tradizione orale veneta,
Sommacampagna di Verona 1994.
D’ORLANDI L., CANTARUTTI N., Credenze sopravviventi in Friuli intorno
agli Esseri mitici, in “Ce fastu?”, XL (1964).
DE BLASIO, A., Inciarmatori, maghi e streghe di Benevento, Napoli 1900.
DE MIN, M., Il mondo religioso dei Veneti antichi, in La città invisibile. Padova
preromana. Trent’anni di scavi e ricerche, Padova 1905.
DE SANTILLANA, G., Fato antico e fato moderno, Milano 1986.

234
DE SAUSSURE, F., Corso di linguistica generale, Bari 1978.
DEGH, L., What is a Belief Legend? in “Folklore”, 107 (1996).
DONI, M., Ta arkhaîa, tempora ignota. Per un’epistemologia dell’archeologia,
introduzione a Le Dee viventi di Marija Gimbutas, Milano 2005.
DURCHAM, M. E., Trances at Duboka, in “Folk-Lore”, 43 (1932).
DUBY, G., Medioevo maschio. Amore e matrimonio, Bari 1988.
EISLER, R., Weltenmantel und Himmelszelt, Monaco di Baviera 1910.
ELIADE, M., Some Observations on European Witchcraft, in History of
Religions, 14 (1975).
ENNA, F., Fiabe sarde, Milano 1991.
FARAONE, E., Grotte del Friuli con leggende e tradizioni, in “Speleologia”, 8,
Supplemento (1982).
FARAONE, E., GUIDI P., Nota su leggende e tradizioni riguardanti le grotte del
Friuli, in “Mondo sotterraneo”, 1975.
FOGOLARI, G., L’arte delle situle, in I Paleoveneti cit.
FREUD, S., Il motivo della scelta degli scrigni, in Opere, VII, Torino 1982.
FURLAN, U., MONTINA P., Tracce medioevali nella “Fr. 62” grotta di Torlano
sui monti Bernadia sopra Nimis, in “Helice”, I, 1 (1985).
GAMBACURTA, G., La tomba di Ponzano, in “Quaderni di Archeologia del
Veneto”, XIV (1998).
GAROBBIO, A., Alpi e Prealpi. Mito e realtà, 6, Bologna 1980.
GEROMETTA, G. B., La ciasa de las Saganas, in “Ce fastu?”, IV, 9 (1928).
GIANADDA, R., Le civiltà megalitiche. L’Europa dei colossi di pietra, in ZUFFI
G. (a cura di), Storia dell’Arte, 1, Le prime civiltà, Milano 2006.
GIMBUTAS, M., Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea Madre nell’Eu-
ropa neolitica, Milano 1990.
GIMBUTAS, M., Le Dee viventi, Milano 2005.
GINZBURG, C., Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989.
GIUMAN, M., La dea, la vergine, il sangue. Archeologia di un culto femminile,
Milano 1999.
GLASSIE, H., Fate e spiriti d’Irlanda, Milano 1987.

235
GLERIA, E., Grotte, latte e fertilità: sopravvivenze, intrecci, miti, in “Folclore,
immaginario popolare e grotte” (Castello di Schio, 27-28 novembre
1993), Atti del Convegno, Schio 1998.
GORTANI, G., I Pagani delle leggende, in “Pagine friulane”, VII, 9 (1894).
GRI, G.P., Grotta detta “Ciondar des Paganis”. Leggende dei Pagans e dei Salvans, in
BERGAMINI G. (a cura di), Civiltà friulana di ieri e di oggi, Udine 1980.
GRI, G.P., Lo scenario funebre in Val d’Arzino, in “Ce fastu?”, L-LI (1974-75).
GRI, G.P., Presentazione di: N. CANTARUTTI, Oh, ce gran biela vintura. Testi
di tradizione orale tra il Meduna e le convalli, Pasian di Prato 2001.
HATT, J. J., Mytes et dieux de la Gaule, Parigi 1989.
KÜPPERS, G. A., Rosalienfest und Trancetänze in Duboka. Pfingstbräuche im
osterbischen Bergland, in “Zeitschrift für Ethnologie”, 79 (1954).
LANDUCCI GATTINONI, F., Un culto celtico nella Gallia Cisalpina. Le
Matronae-Junones a sud delle Alpi, Milano 1986.
LATINI, B., Tesoretto, pubblicato in parte da D’ANCONA A. in “Memorie
della R. Accademia dei Lincei”, 1888.
LE MEN, R. F., Tradition et superstitions de la Basse-Bretagne, in “Revue
Celtique”, I.
LE ROUX, F., La religione dei Celti, in PUECH H.CH. (a cura di), Le religioni
dell’Europa centrale precristiana, Roma-Bari 1988.
LEBRAZ, A., La légende de la mort chez les Bretons armoricains, Parigi 1902.
LESOURD, D., Diane et le sorciers. Étude sur le survivances de Diana dans les
langues romanes, in “Anagrom”, 1972.
MARINELLI, O., Guida del Friuli, III, Udine 1899.
MCMAHON, J., ROBERTS, J., The Sheela-na-gig of Ireland and Britain. The
Divine Hag of the Christian Celts. An illustrated Guide, Dublino 2001.
MEIER, P., Paracelso, Roma 2000.
MENEGHETTI, G., Probabile natura e sopravvivenza delle divinità celtiche
“Adganae”, in “Athenaeum”, 1950.
MIOTTI, T., Castellieri del Friuli, I, Udine 1977.
MONTINA, P., Note di folklore ipogeo, in Grotte ed abissi del Friuli, Premariacco
1987.

236
MUSONI, F., La vita degli Sloveni, Palermo 1986.
NARDON, F., Benandanti “funebri”: le processioni dei morti nei documenti inqui-
sitoriali, in MORO, P., MARTINA, G.C., GRI, G.P. (a cura di), L’incerto
confine. Vivi e morti, incontri, luoghi e percorsi di religiosità nella mon-
tagna friulana, Atti dei seminari su “I percorsi del sacro”, “Anime che
vagano, anime che tornano”, Tavagnacco 2000.
NICOLOSO CICERI, A., Tradizioni popolari in Friuli, Reana del Rojale 1983.
OSTERMANN, V., La vita in Friuli. Usi, costumi, credenze popolari, Udine 1894;
rist., Udine 1978.
OVIDIO, Metamorfosi, XV.
PACCIARELLI M., Acque, grotte e Dei. 3000 anni di culti preromani in
Romagna, Marche e Abruzzo, Catalogo della Mostra, Imola 1997.
PERCO, D., Anguane-Longane: figure del mito nell’area ladina dolomitica, in
“Mondo ladino”, 22.
PERCO, D., Le Anguane: mogli, madri e lavandaie, in “La Ricerca Folklorica”,
36 (1977).
PERUSINI, G., Nota sulle leggende della val Meduna raccolte da N.Cantarutti,
in “Ce fastu?”, XXVII-XXVIII (1951-1952).
PIPERNO, P., De nuce maga beneventana, Napoli 1635.
PRESSACCO, G., Ipotesi “salutare” sugli Asìn(s), in Âs, Int e Cjere. Il ter-
ritorio dell’antica pieve d’Asio, N.U. della Società Filologica Friulana,
Udine 1992.
PRIULI, A. e altri, Sonico, il Còren de le Fate. Prima missione di studi di an-
tropologia culturale. Notizie preliminari, in “Quaderni Camuni. Rivista
trimestrale di arte, storia e cronaca locale”, 40, 1987.
PROCACCI, G., Storia degli italiani, Bari 1971.
PROPP, V. JA., Le radici storiche dei racconti di fate, Torino 1948.
RAMA, G., Grotte ed Esseri immaginari tra la media Val d’Illasi e la bassa Val
Tramigna, in “Folclore, immaginario popolare e grotte” cit.
REES, A., REES, B., Celtic heritage, stampato negli U.S.A. 1989.
RHYS, J., Celtic Folk-Lore, Welsh and Manx I, Oxford 1901.
ROSA, G., cfr. BERNARDELLI CURUZ, M., Streghe bresciane. Confessioni,
persecuzioni e roghi fra XV e XVI secolo, Desenzano 1988.

237
RUBINI, G., Il ricordo dell’insediamento umano nei racconti popolari dell’Alto
Vicentino sulle Anguane e i Salbanei, in “Orchi Anguane Fade in grot-
te e caverne. Dalla tradizione cimbra ai miti delle Venezie” (Eremo di
San Cassiano, 12-13 ottobre 1991), Atti del Convegno, Curatorium
Cimbricum Veronese 1992.
RUTHERFORD, W., Tradizioni celtiche. La storia dei druidi e della loro eredità
culturale, Milano 2004.
RYNNE, E., A Pagan Celtic Background for Sheela-na-gigs? In RYNNE E. (a
cura di), Figures from the Past: Studies of Figurative Art in Christian
Ireland, Glendale 1987.
ŠAVLI J., BOR M., TOMAŽIČ I., I Veneti, progenitori dell’uomo europeo cit.
SCANDELLARI, A., Miti e tradizioni della Valbrenta, in “Folclore, immagina-
rio popolare e grotte” cit.
SEBILLOT, P., Traditions de la Haute-Bretagne, Parigi 1882; Coutumes popu-
laires de la Haute-Bretagne, Parigi 1885; Légendes, croyances et superstitions
de la Mer, Parigi 1886-1887; scritti vari in “Revue de Bretagne, de Verdée
et d’Anjou”, 1882-1887.
SEBILLOT, P., Le Folk-Lore de France, Parigi 1904-1907.
SEBILLOT, P., Riti precristiani nel folklore europeo (titolo originale: Le paga-
nisme contemporain chez les peuples celto-latins, Parigi 1908), Milano 1990.
SIBILLE-SIZIA, S., Le Agane della val d’Arzino, in Âs, Int e Cjere. Il territorio
dell’antica pieve d’Asio, N.U. della Società Filologica Friulana, Udine
1992.
SIBILLE-SIZIA, S., Janas-Aganas, in “Sot la nape”, XLVI (1994) 2-3.
SIBILLE-SIZIA, S., Le piccole madri, in “Folclore, immaginario popolare e
grotte” cit.
SIBILLE-SIZIA, S., Sirene medioevali friulane, in PILO G.M., POLESE B.
(a cura di), “Per sovrana risoluzione”. Studi in ricordo di Amelio
Tagliaferri, in ARTE|Documento, Venezia 1998.
SIBILLE-SIZIA, S., Sante del dì di festa nel territorio del Patriarcato di Aquileia,
in “Ce fastu?”, LXXVII (2001) 2, e pubblicato come Quaderno autonomo
a cura della parrocchia di San Pietro Apostolo a San Pietro di Feletto, III
ed., Treviso 2004.

238
SIEGERT, H., I Traci, Milano 1986.
SHARKEY, J., Celtic Mysteries. The ancient religion, Singapore 1975.
SILVESTRINI, E., GRI, G.P., PAGNOZZATO R., Donne Madonne Dee,
Padova 2003.
SREJOVIĆ, D., Europe’s First Monumental Sculpture: new Discoveries at
Lepenski Vir, Londra 1972.
SREJOVIĆ, D., La Preistoria in Musei della Jugoslavia, Milano 1983.
STACUL, G., La Grande Madre, Roma 1963.
SVAMPA, N., VERGANI, A., Giobbiann. Riti invernali del mondo contadino
lombardo, Milano 1983.
TAGLIAFERRI, A., Cividale del Friuli, Pordenone 1988.
TARTAROTTI, G., Del congresso notturno delle lammie, Rovereto 1749.
THEPAUT, F., Marianne Kerbernès, in “Bulletin Archéologique Finistère”,
21 (1894).
THOMPSON, S., La fiaba nella tradizione popolare, Milano 1967.
TRUMPER, J. B., Comunicazione al Convegno “Saperi Naturalistici. Nature
Knowledge”, Venezia 1997.
TRUMPER, J. B., Quattro percorsi culturo-linguistici a zigzag: ricuarts di une
visite a Udin, in “Ce fastu?”, LXXVII (2001) 2.
TRUMPER, J. B., L’idronimo friulano Isonzo e il teonimo vetero-celtico Æsus, in
“Ce fastu?”, LXXXII (2006) 2.
USAI, A., Uno sguardo alle figurine della Sardegna prenuragica, in LIGABUE,
G. C., ROSSI-OSMIDA, G. (a cura di), Dea Madre, Milano 2006.
USENER, H., Kallone, in “Reinisches Museum”, XXIII (1868).
VEROLI, L., Prima di Eva. Viaggio alle origini dell’eros, Milano 2000.
VIDOSSI, G., Saggi e scritti minori di folklore, Torino 1960.
WAGNER, M. L., Dizionario etimologico sardo (DES), vol. I.
WALTER, I., Piero della Francesca. La Madonna del Parto, Modena 1996.
WENTZ, E. W. Y., The Fairy Faith in Celtic Countries, Londra-New York 1911.
ZOLLA, E., Aure, Venezia 1988.

239
Friuli, “Agane”, nomi e luoghi

240
Indice dei nomi
limitatamente a quelli dei protagonisti
di culti tradizionali e leggende di credenza

Abundia 34, 40 Badb 55, 96


Ades 85 Bagane 126
Adganae 130, 234 Banshee 73, 96-97
Adone 65 Beannighe 73, 96
Adrasteia 35 Beate Donnette 11, 40
Agane 9, 13-16, 18, 20-26, 28-31, Belezene 26
33, 40, 41, 53-56, 58-60, 62, 64-65, Belisama 213
67-70, 76, 81-82, 84, 92, 100, 103, Bendis 35, 39, 83, 120, 205
110-111, 116, 125-126, 130, 137, Bianca Signora 96
141, 181, 229 Bona Dea 105
Ana 122, 128 Brighid/Brigida 46, 97, 122, 128, 213
Angane 126 Buona Gente 40
Angoane 126 Buona Signora 34
Angolane 126 Buoni Vicini 40
Anguane 10, 12-13, 269, 32-33, Buon Popolo 130
40, 42-43, 46-47, 100-101, 126, Călus̨ari 120
131, 151 Cavestrane 12, 40, 126
Ania 124 Cerbero 85
Ankou 41, 72 Cernunno 203
Anu 124 Ciane 13, 105, 132
Anubis 85 Clóta 73
Aquane 31, 40, 68-69 Cora 105
Arpie 46, 85 Corrigan 100, 133
Artemide 34-35, 39, 47, 55-56, Dagma 213
64, 83, 110-111, 120, 122, 128, Dama Bianca 72, 114,130
133, 151, 197 Dana 122, 128, 213
Artio 35-39, 205, 209 Danu 122
Atena 85 Dé Ana 122
Baba Yaga 61, 85 Dea Madre 36, 47, 65, 128 ,167, 181,
Baccanti 183 205, 215, 232
Badessa 56, 99 Dea Orsa 209

241
Demetra 183 Fantic Loho 75-76
Desodre 23, 27, 40 Fatae 207
Diana 34, 39, 55-56, 64-65, 83, 87, Fate 51, 56, 60-61, 64-65, 67-68,
110-112, 114-122, 124-125, 71, 100, 109, 115-118, 120, 130,
127-128, 131, 133, 197, 205, 211, 132, 137, 183, 185, 187, 229, 233
213, 229 Fato 47, 64, 104
Dianae 207 Fave 10, 126
Dianus 117, 124, 128 Folletti 109, 124
Dioniso 62, 64 Fomori 19, 130
Diavolo 113, 132, 187 Fortuna 34
Divjedeche 26 Frau Klafter 11
Doamna Zînelor 120 Frau Perchtega 11-12
Dubiane 126 Gane/Ganis 125-126
Dujacessa 16, 68 Gann 130
Dujak 16, 68 Gans 124-125, 130, 187
Dzînu 117, 124 Garm 85
Ecate 47, 64-65, 70, 83, 85-87, 97, Genes 115
111, 121, 128, 143, 149, 151, Genoche 117
197, 199, 213 Genti Beate 12, 40,
Eileithya 110 Gian 117, 124
Elfi 40, 109 Gianas 109
Enguane 126 Giani 124
Enodia 35 Giltine 64, 86, 93, 97
Epona 35, 39, 40, 55, 73, 205, 211 Giobbianne/Giubiane 126-127, 132,
Era/Hera 40, 47-48, 197 133
Erinni 46, 85, 97, 217 Grande Dea 15, 34, 36, 38-40, 47,
Ermes 85 80, 83, 91, 147, 197, 205
Erodiade 40 Grande Madre 36, 38, 73, 80, 105,
Erodiana 40 122-123, 128, 199, 232
Esus/Æsus 131 Grania 124, 128
Eva 110 Grau Stana 12
Fada Moresca 82 Grazie 97
Fade 11-12, 32, 47, 126 Guandane 10
Fairies 100 Guane/Guanis 10, 81, 125-126
Fanta Lezoualc’h 71-72 Habonde 56

242
Haerecura 48 Matronae 39, 47, 207, 211
Hel/Holle 64, 86 Matuta 161
Herlequin 115 Melusine 30, 111
Holda 34, 114 Menadi 183
Inguane 126 Merlino 129
Ivane 126 Morgana 43, 73
Jã 117, 229 Morrìgan 41, 55, 73, 96
Jana/Diana 110, 116-118, 131 Nani 109
Janas/Janasas 109-110, 185 Naquane 126
Janus/Dianus 117, 124, 128 Nettuno 115
Je˛dze 41 Norne 97
Junones 39, 47, 207 Oane 126
Kannerezed noz 73, 96 Olimpiade 118
Kere 46, 85, 217 Ongane 126
Kralijce 55 Orfeo 64
Krivapete 9, 23, 26, 28-30, 40 Orcul 124
Lagane 81, 126 Oriente 34, 56, 149
Lamie 61, 118 Orsola 11
Lari 193 Osiride 65
Linguane 40, 126, 231 Pacagnole 28
Longane 10, 43, 100, 126 Pagane 20-21, 42, 92
Lupi mannari 86 Paganes 20
Macha 73, 211 Pagani 9, 16-18
Madonna Oriente 56 Pagans 16, 45
Madre 54, 59-60, 64-65, 73-77, 80, Paiolane 126
97, 105, 113, 122-123, 127-128, 153, Parche 46, 97, 127
155, 159, 163-165, 167, 171, 177, Perchte 41
181, 183, 185, 199, 207, 215, 232-233 Persefone 13, 45, 105, 132, 183
Maestra 40, 52 Piccola gente 97
Maouèz-noz 72, 95-96 Piccolo popolo 97, 109
Maponus 103 Priora 23, 54-57, 181
Mari 41 Puma 54, 57, 59
Marianne Kerbernès 76 Ragane 41
Mascae 61 Regana 129
Matres 17, 205, 207, 209, 211 Regina degli Elfi 40

243
Regina delle Fate 40, 56 Strega del guado 73
Reitia 39, 47, 80-83, 90, 93, 103, Strega di ontano 29
110, 197, 199, 205 Streghe 9-10, 14, 17-18, 20, 24, 33,
Rhiannon 73, 211 44, 46, 58-61, 64, 68, 92, 100, 110,
Richard de Clere 73 112, 117-118, 124, 130-133, 137,
Richella 34-35, 40, 56 183, 211, 231
Rigani 83
Stria 10
Rodia 40, 113
Strie de l’ega 12
Rojenize 26
Striis 12, 126
Rugjea 40
Striòn 14, 44, 231
Rusalke 26
Strix 61
Sàbide 17
Sagane 126 Tanaquilla 105, 232
Salbanelo 16 Thot 85
Sälighe 11 Tuata Dé Danann 128
Salinghe 31, 40 Titani 62
Salvadi 16 Torke 9, 23, 25, 27, 29-30, 40, 64
Salvanèl 16 Uomo Selvaggio 16
Sâne 126 Vagane 126
Sangann 130 Valchiria 85
Sânziana 120 Varvuole 28-29, 40, 61
Sapiente Sibilla 40, 56 Vasnè 23
Satia 34, 40 Vecchia Signora 11
Seileghen Baiblen 31
Vecchine streghe 64
Sequama 15
Vile 26, 41, 183
Sequana 15
Vivane 10, 40, 126, 129
Sheela-na-gig1 49, 203, 221, 234
Viviane 129, 133
Sigane 126
Vouivre 29, 111
Signora delle Fate 120
Silvani 9, 47, 101, 231 Wode 40
Sirene 25, 82, 85, 112-113, 131, Xana 117
217, 219, 221, 223 Zã 117, 229
Skaði 64, 86 Zînă 119-120
Sojenize 26 Zuane 125-126
Somegane 81, 125-126

244
Indice dei luoghi

Abano 103 Baltico 62, 159


Achilleion 155 Banato 55
Adriatico 92 Barquet 51, 56-57, 59-60, 64, 67,
Alessandria 98, 122, 130, 231 81, 84
Algarve 117, 229 Bassa Bretagna 95
Alpago 12 Bassano 10, 24
Alpi 16, 42, 47, 130, 189, 231 Bécherel 72
Alpi Carniche 92 Bedollo 100
Alpi Giulie 92 Benevento 118, 131
Alsazia 114 Berna 35, 209
Alta Bretagna 116 Berzo Demo 18
Altino 189 Blessano 67
Altopiano di Asiago 16 Boite 28
Ampezzano 92-93 Bomarzo 223
Ampezzo 13, 126 Bonn 207
Anatolia 84, 132, 155 Bonu Ighinu 165
Anduins 9, 23-24, 52, 65, 72 Borso (del Grappa) 81
Angevinais 71 Boscochiesanuova 13
Anguillara 147 Boyne 177
Aquileia 16, 44, 98, 101, 219 Bracciano 147
Armorica 78 Brenta 81
Arzino 20, 60, 98 Bresciano 16
Asia 25 Bressanone 34
Asia Minore 201 Brest 95-96
Asolo 81 Bretagna 21, 69, 70, 72-73, 79-80, 92,
Asturie 117 95-96, 121, 175, 177, 179, 181, 183
Austria 39, 90, 145, 157, 191, Brianza 126
207, 221 Britannia 78
Avaglio 187 Brittia 78
Balcani 17 Budoja 9, 15
Baleari 109, 175, 185 Bulgaria 63, 173

245
Bug 153 Colvera 67-68
Cadore 10 Colza 93
Cagliari 109 Conaquen 71
Caldevigo 195 Concordia 189
Càmaro 205 Concordiese 17
Camporovere 11 Copenhagen 63, 203
Canal del Ferro 28 Cormac 128
Canale del Brenta 10 Cornappo 20, 25
Canelli 95 Cornosega 81
Capua 161 Corsica 109, 175, 185
Carbonare 11 Cortina d’Ampezzo 10, 43
Carnia 121, 187 Cosa 20, 55
Carniola 17 Costantinopoli 223
Çatal Hüyük 84, 155, 181 Covazzo 9
Caucaso 89 Crespano del Grappa 125
Cavons 9 Creta 153, 169, 173
Celerina 125 Crocetta del Montello 45, 132
Cercivento 93 Croda Marcora 10
Cergneu 28 Cucurru de is Arrius 165, 167
Cesclans 9 Dacia 211
Chiusaforte 25, 28 Danau 122
Ciano del Montello 13, 44 Danubio 56, 62, 80, 145, 149, 189
Cicladi 169 Delfi 201
Cismon 10 Dinan 71
Cividale 10, 42, 217, 219, 223, Dnepr 122
231 Dnestr 122
Cjalminis 20 Dobrugia 62
Clare 73, 213 Dolní Věstonice 141, 147, 157
Clauzetto 24, 55, 65 Dolomiti 112, 125, 127
Clyde 73 Domegge di Cadore 43
Cnosso 153 Don 122
Colchide 89 Dordogna 74, 143, 177
Colli Berici 13 Dosso Fobbio 18
Collicello 10 Dowt 177
Colonia Claudia Savaria 207 Duboka 55, 99

246
Duma 115 Galles 21, 73, 100, 215
Duncannor 215 Gallia 15, 63, 80, 201
Dupljaja 173 Gallia Cisalpina 39, 47-48, 207
Edri 12 Garda 18
Efeso 34 Gavrinis 175, 177
Egitto 85, 98, 122 Gemona del Friuli 221
Epidauro 110 Genga 227
Ercé 74 Germania 203
Erto 87, 93 Giazza 11
Este 83, 90, 103-104, 189, 191, 195 Giura franco-svizzero 116
Eurasia 17 Glasgow 73
Europa 13, 21, 27, 36, 39-40, 45-47, Gradisca 93
55-56, 58, 63, 72-73, 83, 85, 97-98, Grado 28
102, 114, 120, 128, 137, 141 149, Gran Bretagna 175
169, 171, 173, 175, 181, 197, 199, Grappa 81, 125
201, 203, 205, 209, 211, 215, 221, Grecia 64, 85-86, 105 122, 132, 153
223 Grigioni 125
Europa antica 39, 48, 80, 85, 93, 149, Grions 18, 60
151, 171, 205, 215 Gundestrup 63, 65, 84, 58, 203, 219
Farrò 12 Hal Saflieni 163
Feltre 80 Idria 9
Finistère 69-70, 76, 80, 92, 96, 100, Ille-et-Vilaine 74, 96, 179, 181, 183
102, 133 Inghilterra 39, 43, 101, 177, 207, 215
Foza 10 Irlanda 19, 21, 46, 73, 96-97, 110,
Franca Contea 114, 116-117 122, 124, 129-130, 175, 177, 201,
Francia 15, 39, 45, 56, 72, 85, 213, 215
114-115, 143, 175, 177, 179, 181, Isola di Man 122
183, 203, 207, 221 Isole britanniche 69, 122, 201,
Frisanco 28 215, 221
Friuli 9-10, 13, 16-17, 22, 24, 27, 31, Isonzo 90, 131, 191
42, 44-46, 51, 56, 72, 77, 79-80, Istria 48, 69, 70
92, 98-102, 112, 116, 121, 124-127, Italia 13, 39, 80, 103, 109, 111, 117,
130-132, 151, 187, 189, 197, 221, 231 125, 129, 163, 169, 175, 185, 197,
Fürtac 11 203, 207, 221, 227
Galizia 62, 115 Kamnik 229

247
Kastellaz 219 Mezzaselva 11
Kildare 122 Moldavia 55, 151
Knockmany 124 Mondragone 81
Knowt 177 Monfumo 81
Küberle 11 Monselice 103
Làgole di Calalzo 81 Montauban-de-Bretagne 95
La Marmotta 147 Montebelluna 81, 83-84, 87-88, 90,
Lapponia 27 102-103, 191, 193, 197, 199
La Tène 58 Montegrotto 81
Lauco 124, 187 Montello 13, 44-45, 102-103, 105,
Lepenski Vir 149, 165 132
Lessini 125 Montenars 9
Lessinia 13, 32 Monterchi 163
Liffré 74 Montereale Valcellina 14, 125
Liscannor 213 Moravia 62, 141, 157
Litija 193 Morbihan 75, 96, 175, 177
Livenza 15 Mossano 13
Logudoro 185 Munster 130
Lombardia 18, 27 Muri 209
Lorena 114 Musile 88-89
Lourdes 65, 213, 215 Natisone 23
Lozzo di Cadore 10 Navarons 67
Lubiana 193, 229 Neuchâtel 58
Luserna 11 Newgrange 141, 177
Macilla 25 Noriglio 12
Magredis 25 Normandia 72
Malta 109, 175, 185 Noulù 10
Maniago 9, 68 Novara 39
Manica 73, 179 Oderzo 189
Maranzanis 9, 18 Oliero 24, 46
Marna 15 Oristano 165, 167
Mar Nero 128, 209 Orvieto 85
Marostica 32 Padova 47, 102-104, 189, 232
Masuvek 157 Palatinato 127
Meduna 68, 100, 102, 232, 234 Palù 11
Messina 205 Parma 169

248
Pedemontana del Grappa 81 147, 201, 221, 234
Piave 28, 80-82, 103 Romania 55, 62, 120, 129, 131,
Piedoulais 72 151, 173, 203
Pielungo 59-60 Roncegno 46
Pinè 126 Ruscjs 68
Plougastel 121 Sabatinivka 153
Plouzunet 75 Saint-Brieuc-des-Iffs 72
Po 189 Saint-Cloud 187
Poduri-Dealul 151 Saint-Trémeur 71, 72
Poffabro 9, 23, 67 Saladinovo 187
Poitou 72 San Daniele 57, 225
Polcenigo 15 San Francesco 59
Pont-an-c’hlan 75 San Giorgio 68
Ponzano Veneto 87-88, 90 San Nazario 10
103-104, 189, 199 San Sebastiano 11
Portogallo 117, 129, 175 Santa Maria Capua Vetere 161
Porzùs 20 Santander 117
Pozzo di Codroipo 22 Santiago de Compostela 221
Pradis 60, 64-65, 84, 93, 215 San Vito di Cadore 10
Pradis di Sotto 20 Sardegna 97, 109, 110, 130, 169,
Prato Carnico 9 175, 185, 231
Prealpi Giulie 27 Scin 10
Preone 84, 93 Scozia 21, 56, 73, 215
Prestento 9 Senna 15
Quartier del Piave 12 Serbia 55, 149, 173
Ragogna 9 Sette Comuni 11, 13, 31-32
Ramandolo 28 Siberia 89
Ravinis 93 Sicilia 39, 109, 141, 185, 205
Rédon 96 Sile 80, 82
Remanzacco 25 Sizira 118
Rennes 95 Slesia 62
Reno 15, 39, 103, 207 Slovenia 90, 191, 193, 229
Rigolato 9, 45 Solagna 10
Roana 11 Sonico 18, 45, 235
Rodano 15 Spagna 117, 175, 203, 221, 229
Roma 16, 42, 45-46, 102, 105, 122, Sparta 110

249
Subiolo 10 Val di Fiemme 31
Susans 9, 67 Val d’Illasi 12, 32, 43
Svizzera 24, 48, 115 Valle 9, 25
Szombately 39 Valle dei Mòcheni 31
Tagliamento 23 Valle dell’Erbezzo 9
Termeno 219 Valle dell’Isonzo 90, 191
Tessaglia 155 Valle del Soligo 12
Tiezzo 23, 126 Valli del Natisone 23
Tinténiac 72 Val Padana 90, 191
Tolosa 58 Val Racchiusana 20
Torlano 20, 25, 45, 82 Val Raccolana 28
Torre 27 Val Resia 23, 68
Tracia 39, 62-63, 187, 203, 205 Valstagna 10
Tressè 179, 181 Valtellina 15
Tre Vescovadi 114 Val Tramigna 12, 43
Treviso 42, 44, 81, 82, 101-103, Valtrompia 18
132, 189, 197, 199 Veneto 10, 13, 45, 80, 87, 90,
Tricesimo 223 102-105, 112-113, 125-126,
Trieste 67 132, 189, 191, 197-198
Trinca 67 Venezia 46, 63, 82, 100, 102, 131
Tualis 9 Vercelli 39
Üasn 11 Verona 12, 42, 132, 232
Ungheria 39, 62, 173, 207 Veronese 13, 47, 126
Vače 193 Vicentino 11, 47
Valbrenta 10, 43-44, 46 Vicenza 39, 42, 90, 189, 207
Valcalda 23 Vicofertile 169
Val Camonica 203 Villacaccia 129
Val Cellina 93 Villanova Biellese 44
Val Cosa 100 Vinča 141
Val d’Arzino 24, 45, 53, 55, 57, Vistola 72
59, 69, 97-98, 100, 103-105, 141, Vito d’Asio 9, 53, 67, 87, 93, 225
231-232 Vršac 173
Valdastico 31 Wexford 215
Val de le Strie 18 Willendorf 145, 147
Val di Fassa 34, 56, 68 Zoppola 113

250
Indice dei microtoponimi

Arene Candide 145 Covolo dela Stria 10


Boro del Ciano 132 Covolo dele Guandane 10
Bûs da li’ Colvari’ 28, 68 Covolo delle Fate
Bûs da li’ Pignati’ 68 Covolo delle Zuane 125
Bûs dele Fave 10 Crep dele Longane 10, 43
Bûs di Colvara 68, 231, 232 Creugena 116
Busa de la Scalona 12 Crez delle Agane 9
Buse dai Corvàz 20, 25 Croz dele Vivane 10
Buse das Strias 9 Cuel dal Fari 124, 132, 187
Buse des Paganis 42 Cufurlon del Pol 14
Busi de le Anguane 12 Cut de le Strie 18
Buso de le Fade 12 Domos de Janas 109, 185
Buso dele Angoane 10 Dos de le Strie 18
Cadin dele Fate 10 Fontana del Boro 13, 132
Case delle Fate 183 Fontanate 25, 82
Cassis dai Gans 187 Forti danesi 130
Caverna delle Guane 125 Fuas Cedolins 60
Cimitero delle Fate 187 Grota dele Selvadeghe 10
Ciondàr des Paganis 20, 45 Grotta delle Tette 13
Cja’ Vuian 124, 187 Grotta di Ania 124
Cjasa de las Aganas/Saganas 9, 53, Grotta di Frasassi 227
99, 225 Grotta Zannier 9, 45, 55
Cjase dai Gans 124 Grotte delle Fate 12, 68
Claupa 231 Grotte Verdi 20, 215
Cóelo di Cogollo 12 Häusle von Seligen Weiblein 11
Cogol dele Vane 10 Hohle Fels 139, 147
Còlvara di Jouf 231 La Grèze 143
Combe-ès-Gena 116 Laussel 64, 143, 163
Còren de le Fate 18, 45 Letto di Grania 124
Corèvai dai Staglàz 67 Linguano 14, 125
Covolo 12, 81 Margot-la-Fée 43

251
Navals 9 Sass dele Guane 10
Noes-Gourdais 71 Sorgente di San Luigi 15
Palas di Altin 53 Somegane 81, 125, 126
Perón dele Longane 10 Spilugne di Landri 20
Plan dai Midìns 231 Staglàs 67-68
Plan dal lat 59 Stanza della vecchia Orsola 11
Plan da li’ Mirìis 231 Tana das Strias 9
Ponha 71 Tane de le Fade 12
Pralung 59 Tänzerloch 11
Prato dei morti 110, 187 Tilimentùc’ 67
Pré-Genais 116 Tumblis 110, 132, 187
Ripa de le Janare 118 Tumblis dai Gans 124, 187
Roche aux Fées 183 Tumulo della Dama Bianca 130
Rota Steela 11 Vajo de le Angoane 12
Santa Maria d’Agnano 145 Vajo di Suranto 3

252
Indice

Premessa............................................................................................................. p. 5

Capitolo I - Le identità
Il catasto delle grotte e l’anagrafe delle loro abitatrici............................. p. 9
Archeologia e mito.......................................................................................... p. 20
Piccole Dee, piccole Madri............................................................................ p. 22
Culti a sfondo sciamanico.............................................................................. p. 27
Esplorando il territorio.................................................................................... p. 31
Il Canon Episcopi di Nicolò Cusano........................................................... p. 34
Una sola Dea Madre onnipotente................................................................ p. 36
Dalla Grande Madre alle Matres e alle Fate. ............................................. p. 38
Note.................................................................................................................... p. 42

Capitolo II - La storia e le storie


Ricettario magico: che cosa bolle in pentola?. .......................................... p. 51
Regine, badesse e priore. ................................................................................ p. 55
Al di là del fiume e tra gli alberi................................................................... p. 58
Itinerari iniziatici. ............................................................................................ p. 62
Lavandaie notturne......................................................................................... p. 67
Leggende di credenza. ..................................................................................... p. 70
Se una notte di luna al cimitero…. ............................................................. p. 74
I pescatori armoricani e le barche dei morti. ............................................. p. 78
I Veneti antichi tra il Friuli e il Finistère. .................................................. p. 80
Šajnatei Rejtijai................................................................................................ p. 83
La tomba a incinerazione di Ponzano Veneto. .......................................... p. 88
I bleóns dai muàrs............................................................................................ p. 92
Morire nel paese delle maouèz-noz. ............................................................. p. 95
Note.................................................................................................................... p. 99

253
Capitolo III - Il nome
Il piccolo popolo delle colline sarde............................................................ p. 109
Castori, lontre e…il canto delle Sirene...................................................... p. 112
Nel nome della Dea......................................................................................... p. 114
Alberi delle streghe e spiaggette molto esclusive...................................... p. 118
Santa Diana, San Giovanni e il solstizio d’estate..................................... p. 120
I letti di Grania e le tumblis dai Gans......................................................... p. 124
I nomi della Dea............................................................................................... p. 128
Note.................................................................................................................... p. 130

Capitolo IV - Immagine e schede. ............................................................... p. 135

Bibliografia........................................................................................................ p. 233
Indice dei nomi................................................................................................ p. 241
Indice dei luoghi. ............................................................................................. p. 245
Indice dei microtoponimi............................................................................... p. 251

254
Quaderno aperto 53 I quaderni del Menocchio

Potrebbero piacerti anche