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GEC DELL’AVVENTURA

Un romanzo inedito e incompiuto di Silvio D’Arzo è stato ritrovato e trascritto da Alberto Sebastiani,
grande esperto dello scrittore reggiano. La storia è ambientata nell’Inghilterra del Settecento. Gec è un
ragazzino, sua madre è la levatrice del paese, suo padre è morto: era un sellaio ma Gec crede che
fosse un corazziere del re caduto in battaglia. Quando viene a sapere la verità scappa da casa e finisce
su una nave di pirati dove troverà un’altra figura paterna. A un certo punto la madre è in pericolo.
Tornerà Gec a salvarla? E che ne sarà dei pirati e della loro nave?
Nel «libro per ragazzi»,senza abbandonare l’ambientazione storica o i temi a lui cari e nemmeno la
lingua e gli stilemi che ne caratterizzano l’espressione in quella fase, D’Arzo cerca di costruire un
racconto che non sia solo d’atmosfera, come tutti quelli scritti fino a quel momento. Con Gec D’Arzo
prova a risolvere il conflitto tra lirismo e narrativa tipico della sua generazione in un ambito specifico (la
letteratura per l’infanzia), attraverso un incontro tra il fantastico e il romanzo d’avventura, o soprattutto
in uno spazio diverso: non il cielo degli angeli o la terra dei demoni, ma il mare dei pirati. Il protrarsi
negli anni del progetto, in un mutato clima letterario, culturale ed editoriale, porta però D’Arzo ad
abbandonare quella ricerca, nella speranza di una pubblicazione poi mai avvenuta. Gec resta dunque
la sola testimonianza del tentativo di superare l’«esilio» coniugando l’atmosfera e la ricercatezza
letteraria con l’avventura e la dimensione fantastica, che non trova infatti realizzazione nemmeno nei
successivi libri per ragazzi. I soli testi darziani, peraltro, in cui l’azione romanzesca permane.

Eraldo Affinati ha quindi deciso di accettare una “sfida letteraria” non semplice, completando “Il Gec
dell’avventura”, romanzo per ragazzi rimasto inedito e incompiuto firmato da Silvio D’Arzo (1920-1952),
autore di “Casa d’altri”, libro di culto pubblicato postumo nel 1952. La “continuazione” è uno dei luoghi
della sorpresa: questo almeno mi pare avvenga ora a Eraldo Affinati che ha deciso, dice in una sua
postilla, di accettare una sfida per quanto riguarda l’autore forse da lui più amato, Silvio D’Arzo,
“completando” Il Gec dell’avventura, romanzo per ragazzi rimasto inedito e incompiuto. Esce così per
Einaudi “firmato” da entrambi, a cura di Alberto Sebastiani che dettaglia in una ampia introduzione la
vicenda anche editoriale del libro, finita in nulla per difficoltà contingenti e anche perché l’autore
inseguiva forse un progetto ambiziosissimo ma sfocato.

Il Gec dell’avventura è infatti un romanzo letteratissimo, dove il fantastico sovrasta in qualche


modo la favola, e nello stesso tempo onirico e beffardo, in altre parole un lavoro persino sperimentale,
destinato a lettori di età indefinita. Non venne concluso – o meglio non venne pubblicato, la
conclusione, volendo, ci sarebbe già, è quella che si ferma davanti alla irriducibilità dell’avventura,
all’idea che in quanto tale essa non abbia davvero termine – e ha finito per costituire l’incunabolo più
importante di un libro che invece ebbe i suoi lettori, tra cui Affinati fin dagli studi universitari: Penny
Wirton e sua madre, uscito nel 1948 dopo una lunga gestazione e varie prove di racconti. Com’è noto
- Penny Wirton è anche il nome della scuola che Affinati ha creato coinvolgendo molti scrittori
per insegnare l’italiano ai giovani immigrati: per prendersi cura di loro un po’ alla maniera della
madre di Penny, una sorta di ostetrica magica che aiuta i bambini a nascere facendoli però accorrere
nelle case delle partorienti da un qualche luogo oltremondano e immaginario.
Nel Gec dell’avventura è ben presente questo nocciolo narrativo (e non solo: permangono molti altri
elementi essenziali, a eccezione di una folle navigazione su una nave pirata, che occupa peraltro
una buona metà del libri); ed è il nucleo tematico che spinge Affinati al suo “completamento”,
fornendogli un’intera nave semi-arenata a disposizione: ottima per essere trasformata non in un rudere
gotico ma in un’allegra scuola per i bambini che, nel loro viaggio verso il nostro mondo, si sono perduti,
un po’ come i compagni di Peter Pan. Ma fra gli elementi centrali di entrambi i testi, oltre al tema
dominante dell’orfanità, andrà almeno ricordata la comunione notturna con chiacchiere e persino
discussioni tra vivi e defunti al cimitero, alla quale è quasi impossibile non accostare una scena
assai memorabile – nella Voce della luna di Federico Fellini, e chiedersi se il regista avesse letto,
chissà mai, lo scrittore – nel Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, cui è ispirato il film, una
pagina del genere non esiste. Sembrerebbe ideale per un ulteriore sviluppo, ma le scelte d’autore, va
da sé, non si discutono.

Siamo di fronte in questo libro “incompiuto” a momenti di pura visionarietà, architetture del
desiderio e del sogno. I riferimenti a J. M. Barrie o Stevenson (soprattutto), o a Lewis Carrol e in
generale agli scrittori britannici per l’infanzia ma non solo, molto cari a D’Arzo, trionfano del resto
in Gec magmatici, entusiastici, divertiti come in un enorme gioco. In Penny Wirton la lezione soprattutto
di Stevenson sembra aver convinto lo scrittore a una vicenda sì fantastica, ma inserita in un contesto
narrativo più strutturato e funzionale. E la scelta di Affinati sembra guardare più al romanzo
compiuto, piegando anch’egli, nel decidere il finale, il disordine all’ordine, non solo ma anche render
conto delle apparenti incongruenze e dell’ilare sregolatezza del testo, incunabolo di un suo incunabolo,
per proiettarlo sui nostri giorni, sulla sua scuola e sugli ideali che la sostengono; facendone quasi il
segnale di un destino.
Silvio D’Arzo, che è lo pseudonimo scelto più di frequente e con gli esiti migliori da Ezio
Comparoni (1920 – 1952), è autore noto soprattutto per il quasi miracoloso racconto Casa d’altri –
uscito ormai già postumo proprio nel 1952 sulla rivista Botteghe Oscure, che esaltò Giorgio Bassani
(“Guardate qui che racconto! Guardate, è tutto in versi, solo un orecchio finissimo se ne accorge” disse
portandolo in redazione), Attilio Bertolucci, Eugenio Montale o Giorgio Manganelli. Resta
tuttavia scrittore isolato e atipico, irregolare si dice in questi casi (oltretutto scomparso
prematuramente, e quindi equivocato spesso come “autore di un solo libro”), gran lettore di romanzi in
lingua inglese ma anche di D’Annunzio.
L’arco voltaico della sua scrittura va da intuizioni immaginative di rastremata intensità metaforica,
che non sembrano proprio destinate ai ragazzi (“Un minuto scoccò dentro il silenzio, si allargò come
un’onda, poi si sciolse sopra la immensa prateria dell’aria”) a dialoghi buffissimi e concitati, battute di
(apparente) ingenuità infantile, come quando il terribile capitano Gulfeustram prega Dio di far annegare
un rivale, e conclude “Come vedi, il guadagno, in questo caso, è dalla parte tua. Pensaci a modo”. È, il
suo, uno stile non imitabile, se non correndo il rischio di una resa accademica e stucchevole.
Affinati se ne guarda bene, e giustamente.
Più che un “completamento”, siamo di fronte a una postilla in forma narrativa. Che ha il merito di
suggerirci una via possibile di rilettura, molto legata al nostro, di tempo: soprattutto, com’è ovvio, del
tema dei bambini perduti, che D’Arzo conosceva in Barrie, in Dickens e in molti altri, e rielaborò
fantasticamente – divertendosi magari a trascrivere foneticamente parole inglesi come in una
filastrocca infantile – ma anche, lui orfano come Penny Wirton e come Gec, non senza (immaginaria?)
autobiografia. E alla sua sapiente, burlesca maniera.

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