Massimalismo socialista
L'accresciuta volontà rivendicativa delle masse che avevano sostenuto i sacrifici della
guerra, l'inasprimento della tensione sociale derivante dalla difficoltà di reinse rire nelle
strutture produttive le classi rapidamente smobilitate, la suggestione del bolscevismo russo
fecero enormemente aumentare il numero degli aderenti e dei simpatizzanti del Partito
socialista e fecero prevalere in esso l'ala massimalista, guidata da Giacinto Menotti
Serrati, che ripudiava ogni forma di collaborazione coi governi borghesi, quali ne fossero i
programmi, considerava la borghesia come un unico blocco di forze reazionarie e dava per
certa l'imminenza della rivoluzione. «Il partito socialista — dicevano le dichiarazioni
programmatiche del dicembre 1918 — si propone espressamente come obiettivo
l'istituzione della repubblica socialista e la dittatura del proletariato, con i seguenti scopi: 1)
socializzazione dei mezzi della produzione e dello scambio..., 2) distribuzio ne dei prodotti
fatta esclusivamente dalla collettività..., 3) abolizio ne della coscrizione militare e disarmo
universale, in seguito all'unione di tutte le repubbliche proletarie internazionali...».
Velleitaria Utopia
Un tale programma — verbalmente più avanzato delle Tesi di Aprile (1917) di Lenin
— pareva fatto apposta per isolare il proletariato, per il quale era invece necessario allargare,
per quanto possibile, le proprie alleanze. Il massimalismo dava per scontata e imminente la
nascita in tutto il mondo di repubbliche proletarie (che non sarebbero mai sorte) e
prescindeva dalla realtà effettuale italiana, nella quale la struttura capitalistica non era stata
affatto indebolita dalla guerra, la forza della Chiesa e del movimento cattolico era
rilevantissima, l'appello al nazionalismo aveva una forte presa, specie fra la piccola
borghesia "idealista e patriottica".
Bordiga e Gramsci
I massimalisti, del resto, agitavano solo a parole la prospettiva di una rivoluzione, tanto
che sia i socialisti napoletani facenti capo ad Amadeo Bordiga, sia i socialisti torinesi, facenti
capo ad Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, ne
denunciavano il velleitarismo e, pur convinti che la situazione italiana consentisse uno
sviluppo rivoluzionario, tentavano strade completamente diverse da quelle seguite dalla
direzione del partito. Il Bordiga progettava infatti un partito di rivoluzionari di
professione che non avrebbe dovuto neppur par tecipare alle competizioni elettorali. Il
Gramsci e i suoi compagni di Torino s'impegnavano nell'esperienza di Ordine Nuovo,
ossia nell'organizzazione di un movimento, nato nel 1919 intorno all'o monima rivista, che
nei consigli di fabbrica doveva preparare i qua dri dirigenti di un blocco storico di operai, di
contadini e di intellettuali, capace di guidare la rivoluzione e quindi di esercitare anche le
funzioni utili, svolte in una società borghese dai capitalisti.
Social ritormisti
Nel partito rimaneva per il momento anche l'ala mo derata minoritaria — guidata da
Filippo Turati e da Claudio Treves e largamente rappresentata fra i quadri della C.G.L. —
che, del tutto aliena da ipotesi rivoluzionarie, non osava però compromettersi in
collaborazioni governative per l'attuazione del suo programma di riforma democratica
dello stato e della società: l'unico programma nel quale credeva effettivamente.
Movimento cattolico
Nell'immediato dopoguerra giunge a maturazione anche il lungo processo di
accostamento dei cattolici allo stato italiano, che già aveva compiuto tappe significative
nelle elezioni del 1904 e soprattutto del 1913, nelle quali peraltro i cat tolici avevano svolto
una funzione subalterna rispetto alla classe dirigente liberale. La Rerum novarum — benché
dedicata a problemi sociali di carattere internazionale e non specificamente italiani — aveva
aperto la strada per una più attiva partecipazione dei cattoli ci alla vita politica anche in
Italia. Nel 1905 il Fogazzaro in un suo romanzo, intitolato II santo, aveva posto il problema
di una possibile conciliazione fra cattolicesimo e mondo moderno: il libro, condannato nel
1906 dalla Congregazione dell'Indice, aveva scatenato vaste polemiche in tutto il paese e
la condanna aveva fatto scalpore. Nel 1906 Giuseppe Toniolo, in un Trattato di economia
sociale, aveva delineato una soluzione cristiana dei problemi eco nomici, sociali e giuridici,
che si proponeva di superare l'utilitari smo delle concezioni sia liberistiche sia socialistiche
(v. cap. 42-9). Dal 1907 al 1911 era uscita a Milano la rivista II rinnovamento, che
riprendeva e ampliava la tematica del Fogazzaro. I più illustri re dattori del Rinnovamento,
Romolo Murri ed Ernesto Bonaiuti, erano stati a loro volta condannati dalla Chiesa per le
loro tendenze modernistiche, ma nel complesso le discussioni, le condanne e le polemiche
avevano preparato il terreno per un profondo rinnovamento del movimento cattolico
italiano.
Ambiguità piccolo-borghese
Nelle organizzazioni combattentistiche confluivano per lo più individui di provenienza
piccolo-borghese che, abituati ai rischi della guerra e alle sofferenze della trincea ma non
alla routine del lavoro quotidiano, intendevano per un verso difendere i valori spirituali che
avevano portato il paese alla vittoria, per l'altro «presentare il conto» dei sacrifici sop portati
ed evitare il rientro nelle occupazioni abituali, troppo infe riori all'eroismo, vero o presunto,
delle loro gesta belliche.
«La posizione tradizionale del ceto medio — scriveva a questo proposito Lelio Basso —
contiene sempre un elemento di ambiguità: può essere rivolta contro il proletariato o contro
i capitalisti. Da un lato sono i capitalisti, i profittatori della congiuntura, gli arric chiti di
guerra, i "pescicani"... che governano questa società in cui il ceto medio non trova adeguata
posizione e soddisfazione; ma dall'altro è pur sempre vero che in questa società capitalistica
il ceto medio assolve a un ruolo di ufficiale e sottufficiale, o magari soltan to di caporale,
dell'ordine sociale, è investito in qualche modo di una particella dell'autorità della classe
superiore, è pertanto solidale con essa, solidale con l'ordine sociale in cui aspira a inserirsi
ancor meglio. Quest'ambiguità fu palese in quegli anni: l'avversione del ceto medio si
rivolse contro gli arricchiti di guerra, contro gli industriali e i capitalisti che avevano
tramutato in profitto i sacrifici degli Italiani, ma non risparmiò neppure il proletariato, nei
cui confronti anzi prese rapidamente corpo l'invidia. In fondo che i ricchi fossero ricchi o
ancora più ricchi, che i capitalisti sfruttassero ogni situazione per trarne profitto, era
nell'ordine naturale delle cose; quel che non era nell'ordine normale tradizionale delle cose
era che la classe operaia o i contadini si avvantaggiassero economi camente sul ceto medio e
mettessero in forse anche la tradizionale gerarchia sociale. Ed era invece quello che stava
accadendo...».
«Vittoria mutilata»
Nell'aprile del 1919, quando a Parigi si discusse ap punto della questione adriatica, il
presidente Wilson, non vincolato dal Patto di Londra che gli Stati Uniti non ave vano né
sottoscritto né riconosciuto, pubblicò un messaggio contrario alle pretese della nostra
delegazione: un messaggio che si concludeva con un appello diretto al popolo italiano,
negando di fatto la capacità di Orlando e di Sonnino di interpretarne gli inte ressi e le
aspirazioni. L'affronto per il presidente del Consiglio e per il ministro degli esteri non
poteva essere più grave: Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza di pace e si
precipitarono a Roma a chiedere un voto di fiducia; e la fiducia fu subito concessa a
grandissima maggioranza alla Camera e all'unanimità al Senato, mentre in tutta la penisola
grandi dimostrazioni di piazza, simili a quelle del «radioso maggio» del 1915, esprimevano
il sostegno «popolare» al governo. Il risultato del gesto teatrale fu però disa stroso: durante
l'assenza della delegazione italiana si decise infatti a Parigi la sorte delle colonie ex
tedesche, dalla cui spartizione noi rimanemmo completamente esclusi, e in Italia vennero
ulteriormente stimolati i sentimenti sciovinistici, animati dal mito della vittoria mutilata.
Questa formula demagogica, avallata dalla più autorevole delle fonti, esasperava gli ex
interventisti, che si sentivano traditi nelle loro legittime aspettative, e lasciava sgomenta la
popolazione di fronte al pubblico e solenne riconoscimento che i sa crifici della guerra
erano stati sostenuti invano.
«Caporetto liberale»
La scarsa incisività dell'azione governativa non era però imputabile personalmente al
Nitti, quanto piuttosto a una crisi del liberalismo che risultò evidentissima nelle ele zioni del
novembre 1919. In quell'occasione, infatti, la vecchia Ita lia prebellica subì una pesante
sconfitta: i socialisti ottennero 1 840 000 voti e 156 seggi, contro i 52 del 1913; il Partito
popolare, che per la prima volta affrontava il cimento elettorale, conquistò 1 175 000 voti
e 101 seggi; il resto dei suffragi andò alle diverse cor renti liberali e radicali, che conservarono
la maggioranza dei voti (circa tre milioni e mezzo), ma perdettero la maggioranza dei seg gi
ottenendone complessivamente 251 su 508. Era, come intitolò il suo commento La Stampa di
Torino, una vera e propria «Caporetto liberale», cui faceva riscontro la piena vittoria dei
partiti di massa.
I fascisti, per il momento, uscivano malconci dalla competizione e non ottenevano alcun
seggio.
Fallimento strategico
La strategia del Giolitti mirava: 1) a impegnare i socialisti, o almeno una frazione di essi,
nell'attuazione di una politica riformistica; 2) a ridurre i Popolari in una posi zione subalterna
(stile patto Gentiloni); 3) a utilizzare i fascisti come deterrente contro l'estremismo
socialista e a conceder loro quanto bastava perché essi rientrassero poi nella norma dello
Stato liberale («il fascismo — scriverà nelle sue Memorie — costituendo ormai una reale
forza nel paese, era bene avesse la sua rappresen tanza parlamentare, secondo il mio antico
concetto che tutte le forze del paese devono essere rappresentate nel Parlamento e trovarvi
il loro sfogo»). E questa serie di «miracoli» doveva essere compiuta senza che il Giolitti
avesse dietro di sé un apparato di attivisti, di stampa, di propaganda, di organizzazione
capillare, neppur da lontano paragonabile a quello dei partiti di massa. Così stando le cose,
il vecchio statista fallì completamente i suoi obiettivi strategici: i socialisti non si lasciarono
ridurre al riformismo, i popolari non accettarono d'essere egemonizzati, i fascisti, infine,
grazie allo straordinario fiuto del Mussolini, finsero di lasciarsi usare, ma in realtà finirono
coll'usare il Giolitti per ottenerne una patente di rispettabi lità.
Efficace e rapida fu invece l'iniziativa del Giolitti nell'attuazione dei singoli punti
programmatici del suo quinto governo.
Trattato di Tirana
In collaborazione col ministro degli esteri Carlo Sforza, il Presidente liquidò il
protettorato italiano sull'Albania (stabilitosi al termine della guerra per mandato della
conferenza di Parigi) che aveva dato luogo a una vera e propria in surrezione delle
popolazioni locali. Egli si limitò a conservare all'Italia l'isolotto di Sàseno, all'imboccatura
della Baia di Valona, importante per il controllo del Canale d'Otranto (trattato di Tirana, 20
luglio 1920).
Trattato di Rapallo
Per la questione adriatica, il Giolitti provvide a concludere accordi diretti con i
rappresentanti iugoslavi e strinse con essi il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), per il
quale l'Italia, conservando la città di Zara, rinunciava definitiva mente al resto della costa
dalmata, abitata effettivamente da popolazioni slave; Fiume veniva eretta a città libera, e il
confine orientale con la Iugoslavia veniva stabilito in modo che all'Italia rimaneva no tutta
l'Istria e alcune isole, come Cherso, Lussino eccetera.
"Natale di sangue"
Con ciò era decisa la fine dell'avventura dannunziana: dopo aver inutilmente tentato di
ridurre alla ragione il «Comandante» in via pacifica (e dopo essersi assicurato che il
Mussolini, il cui peso politico andava crescendo, non avreb be offerto al D'Annunzio se non
una solidarietà «platonica»), il Giolitti affidò l'incarico di intimargli lo sgombero da Fiume al
generale Caviglia che, con pochi colpi di cannone diretti al palazzo della reggenza, nel
Natale del 1920 costrinse i legionari e il poeta ad ab bandonare la città. I nazionalisti
parlarono perciò di un Natale di sangue, il Mussolini pubblicò sul Popolo d'Italia un
articolo di aspra condanna intitolato II delitto; ma tutto si esaurì in proteste verbali, mentre
sul piano dei fatti il paese traeva grande vantaggio dal conseguimento della pace.
Legislazione riformatrice
Per quanto riguarda la politica interna, il governo procedette speditamente all'attuazione
del programma enunciato nel discorso di Dronero: fra il giugno e la prima metà di agosto del
1920 fu approvata la legge che riformava l'articolo 5 dello Statuto e stabiliva la sovranità del
parlamento anche nel campo degli accordi internazionali e della dichiarazione di guerra*,
nonché altre leggi che limitavano la facoltà del governo di ricor rere a decreti legge i,
stabilivano una forte progressività nelle imposte di successione, imponevano la nominatività
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dei titoli, che fino allora erano stati titoli al portatore (ma questa decisione, di notevole
importanza, fu prima insabbiata dal Partito popolare e più tardi abrogata dal Mussolini).
Grazie a queste iniziative democratiche (appoggiate anche da gran parte dei deputati
socialisti), il Governo conseguì il prestigio sufficiente per proporre la graduale abolizione
del prezzo politico del pane, necessaria ad alleviare il disavanzo statale ma ovviamente molto
impopolare. Malgrado l'ostruzionismo dei socialisti, anche questa proposta passò nel
febbraio del 1921.
Proletariato sconfitto
Così, in poco più di due settimane, la spinta proletaria si esaurì, e gli operai dovettero
costatare che, senza il sostegno dei tecnici, degli impiegati, degli intellettuali, del le masse
contadine dell'Italia centrale e meridionale, essi non costi tuivano un blocco storico
autosufficiente. A metà settembre si riaprirono pertanto le trattative fra le rappresentanze
padronali e operaie con la mediazione del governo, e gli operai si impegnarono a
sgombrare pacificamente le fabbriche contro l'assicurazione che il governo avrebbe
presentato un progetto di legge «allo scopo di or ganizzare le industrie sulla base
dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario, o all'amministrazione
dell'azienda». Un tale risultato, che ottenuto con una normale lotta sindacale e come
obiettivo dichiarato delle organizzazioni politiche dei lavoratori sa rebbe stato un successo,
conseguito invece al termine di una lotta para-rivoluzionaria, con la mediazione e i buoni
uffici del governo, perdeva ogni significato e veniva vissuto dalle masse come una rea le
sconfitta; tant'è vero che in seguito neppure il Partito socialista si batté perché i progetti
di legge che dovevano tradurre in atto il pattuito controllo operaio sulle fabbriche venissero
discussi in parlamento.
Reazione padronale
L'esito dell'occupazione delle fabbriche e il conseguente scoraggiamento del proletariato
diedero spazio alla reazione padronale. Segni di una controffensiva borghese
si erano chiaramente annunciati nel corso di tutto il 1920 con molteplici tentativi di
organizzare corpi di volontari per la difesa del l'ordine e con la costituzione, nell'agosto, di
una Confederazione generale dell'agricoltura, intesa a rintuzzare l'offensiva delle leghe
contadine, particolarmente dura specialmente in Emilia e nella Bassa Padana.
Effettivamente, durante gli scioperi del «biennio ros so» gli atti di violenza (incendi di fienili,
distruzione di raccolti, uccisione di capi di bestiame, blocchi stradali eccetera) erano stati
frequentissimi, e le leghe esercitavano in intere regioni una sorta di dittatura di fatto. Questa
vera e propria «guerra sociale» non poteva però protrarsi indefinitamente e doveva
concludersi o con un esito rivoluzionario, che a suo modo l'avrebbe fatta cessare, o con un
contenimento della conflittualità entro limiti compatibili col si stema borghese. In realtà,
come risulta da un rapporto di Togliatti al IV Congresso dell'Internazionale comunista,
accadde invece che «la catena degli atti di forza e di violenza compiuti dalle organizza zioni
agricole non riuscì mai a chiudersi con una conquista del po tere centrale... e così la loro
azione, invece di apparire, come era, l'inizio della costruzione di una società nuova, finì per
apparire come un vano esercizio di prepotenza».
Crisi economica
La situazione generale, intanto, si veniva deterioran do per una crisi internazionale che
fra il 1920 e il 1921 metteva a dura prova le strutture economiche italiane. La produzione
industriale calava, e i capitalisti, di fronte alla drastica ri duzione dei loro profitti, erano
sempre meno disposti a concedere miglioramenti al proletariato; gli operai, d'altra parte,
minacciati dal pericolo del licenziamento per la diminuzione dei posti di lavo ro, erano
costretti sulla difensiva.
Squadrismo
Così, mentre la volontà di lotta del proletariato urbano s'andava spegnendo, cominciava
invece, verso la fine del 1920, una vistosa compenetrazione fra la reazione agraria e il
fascismo, che organizzava l'uso sistematico della violenza mediante le sue squadre d'azione.
Le modalità operative degli squadristi si ripetevano uniformemente: pagati e riforniti dagli
agrari, i fascisti colpivano i centri delle organizzazioni operaie e contadine, prima socialiste,
poi anche cattoliche, devastavano le Camere del Lavoro, bastonavano o uccidevano i capi
sindacali, saccheggiavano le cooperative, seminavano il terrore e la morte, men tre l'opinione
pubblica borghese e piccolo-borghese, salvo margina li riserve, applaudiva al loro operato.
Alla sutura del fascismo con la reazione agraria si aggiungeva ben presto quella con la
reazione degli industriali, usciti dagli scioperi del biennio rosso e dall'occupazione delle
fabbriche con propositi di sterminio delle organizzazioni operaie e profondamente
insoddisfatti della moderazione del Giolitti. Lo scontro di classe, in altri termini, scavalcava
la mediazione politica e statale, e avveniva ormai sul terreno militare: l'unico appunto sul
quale il proletariato si trovava in posizione di gravissima inferiorità.
«Blocchi nazionali»
Per lo svolgimento della lotta elettorale — scrisseegli stesso —, considerando che la più
grave debolezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro frazionamento, in confronto
alla unione e compattezza dei socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi
in cui tutte le forze dei vecchi partiti liberali e democratici fossero raccolte». In realtà il suo
non fu un semplice «consiglio», ma fu invece un attivo e determinante intervento per la
costituzione di Blocchi nazionali che dovevano essere l'equivalente liberale dei partiti di
massa, ma che furono invece il trampolino di lancio del fascismo, largamente rappre sentato
in tali blocchi e chiaramente avviato a diventare l'unico partito di massa fra le sparse
schiere del vecchio liberalismo.
I consensi al fascismo aumentavano infatti con straordinaria ra pidità: i Fasci, che nel marzo
del 1921 erano 317 con 80 476 iscritti, nel solo mese di aprile salirono a 417, con 98 399
iscritti, e subito dopo le elezioni balzarono di colpo a 1001 con 187 098 aderenti. Nel
medesimo tempo anche l'aggressività delle squadre d'azione si intensificava, tanto che
durante la campagna elettorale si ebbero gravissimi incidenti con decine di morti.
Esito delle elezioni
L'arretramento dei socialisti nelle elezioni, che si svolsero il 15 maggio 1921, fu
complessivamente inferiore alle previsioni: essi infatti conservarono 123 seggi (dei
precedenti 156), mentre 15 venivano «ricuperati» dai comunisti. Il Par tito popolare passava
da 101 a 107 seggi. I Blocchi nazionali ottenevano ben 275 seggi, ma 35 di questi seggi
venivano conquistati dai fascisti che, dopo aver ottenuto dal Giolitti l'ambita patente di
«costituzionalità», avevano impostato la campagna elettorale in termini nettamente
antigiolittiani. Né gli altri gruppi che avevano ade rito ai Blocchi potevano considerarsi
omogenei, dato che essi comprendevano tutte le gamme del liberalismo: dai nazionalisti,
oggettivamente imparentati coi fascisti, ai democratici radicali.
Squadrismo e costituzionalismo
Non per questo il Mussolini intende però identifi carsi senza riserve con lo squadrismo,
perché ciò lo esporrebbe al rischio di essere «scavalcato» dai «ras» che dominano nelle
singole province 1. Al contrario: gli squadristi devono bensì servirgli a conquistare spazi
sempre più vasti di potere, ma d'altra parte il suo «costituzionalismo» deve servirgli per
tener a segno gli squadristi. In questa prospettiva si collocano le sue non infrequenti
professioni di rispetto della legalità e il patto di pacificazione che, per sua esplicita e
tenace volontà, i rappresentanti del fascismo firmano il 3 agosto del 1921 con i
rappresentanti del Partito socialista: patto di scarsissima efficacia e che dura solo fino al 15
novembre, ma che serve al Mussolini per accreditare il proprio «perbenismo» politico. La
linea del «doppio binario» (squadristico e «legalitario») viene confermata anche nel III
Congresso che si svolge a Roma nel novembre e che trasforma il movi mento dei fasci in
Partito Nazionale Fascista (P.N.F.): nei docu menti che ne escono, infatti, mentre si
conferma ambiguamente che le istituzioni possono essere «efficaci in quanto i valori
nazionali vi trovino espressione e tutela», si dice anche che «ogni fascio ha l'obbligo di
costituire delle squadre di combattimento».
Sciopero legalitario
Il 31 luglio del 1922 tale Alleanza proclama uno sciopero generale di protesta, in difesa
della legalità («sciopero legalitario»). La direzione del P.N.F. non esita allora a
porre al governo Facta un vero e proprio ultimatum, minacciando l'intervento delle
squadre, se lo Stato non provvederà a stroncare lo sciopero entro quarantotto ore. Ed
effettivamente, nei giorni che seguono, le associazioni sindacali, le cooperative, i municipi
ad amministrazione socialista sono oggetto di un'offensiva fascista di vaste proporzioni, che
strappa ai "rossi" anche le roccaforti considerate imprendibili di Milano e di Genova.
Accostamento alla monarchia
Al pieno successo del colpo di stato fascista manca alla monarchia ormai solo il consenso
della dinastia, necessario per ottenere l'adesione degli ambienti militari, indifferenti alle
sorti delle istituzioni liberali ma fedeli al sovrano. Le tendenze repubbli cane del fascismo
erano state confermate dal Mussolini anche subito dopo le elezioni del 1921, quando il
«duce» e altri deputati del suo gruppo si erano addirittura rifiutati di partecipare alla
cerimonia d'apertura della nuova Camera, durante la quale, come di con sueto, il re aveva
tenuto il cosiddetto «discorso della Corona»; ma il "pragmatismo" fascista consentiva di
superare l'ostacolo con la massima disinvoltura. Il 20 settembre del 1922, infatti, il
Mussolini dichiarava in un discorso tenuto a Udine: «Io penso che si possa rinnovare
profondamente il regime, lasciando da parte la istituzio ne monarchica... Perché siamo
repubblicani? In un certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente
monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della na zione».
Nello stesso discorso, per tranquillizzare gli ambienti industriali che ancora consideravano
con sospetto i trascorsi socialisti dél «duce» e di altri esponenti del fascismo, si faceva
professione del più radicale liberismo economico: «Basta — diceva infatti il Mussolini —
con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo sta to assicuratore; basta con lo stato
esercente a spese di tutti i contribuenti».
Marcia su Roma
Le dichiarazioni del Mussolini circa la ormai «inevi tabile» vittoria del fascismo
divennero nei giorni successivi sempre più chiare ed esplicite, mentre, nella
decomposizione del vecchio stato liberale, i fascisti si preparavano alla presa del potere
con un atto di forza.
Il 24 ottobre 1922 si riunirono a Napoli alcune decine di migliaia di camicie nere, e il
Mussolini le arringò in questi termini: «O ci daranno il governo, o lo prenderemo calando
su Roma; ormai si tratta di giorni e forse di ore». Il 27 ottobre un comunicato della di rezione
fascista (affidata per l'occasione ai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi)
annunziò agli Italiani che l'esercito delle camicie nere marciava «disperatamente» su
Roma.
In verità la disperazione era solo nelle parole, perché la Marcia su Roma (28 ottobre
1922) non incontrò resistenze apprezzabili. Il re, rientrato precipitosamente a Roma da San
Rossore la sera del 27 ottobre, s'accordò in un primo tempo col Facta per la proclama zione
dello stato d'assedio, ma la mattina dopo si rifiutò di firmar lo, sicché al Facta non rimase
altra alternativa che quella di presentare le dimissioni.
L'incarico di formare il nuovo governo venne allora affidato da Vittorio Emanuele III al
Mussolini, quasicchè si trattasse di un normale avvicendamento di ministeri (31 ottobre).