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Il Biennio rosso sul manuale di storia delle superiori

Storia, A. Camera, R. Fabietti, Terza edizione

L'Italia nell'immediato dopoguerra


Come tutte le altre nazioni belligeranti, l'Italia uscì dalla guerra profondamente mutata. Le
commesse statali, l'inflazione, la mobilitazione delle risorse economiche per la guerra
avevano determinato forti concentrazioni industriali e grandi spostamenti di ricchezza dai
ceti a reddito fisso ai ceti più direttamente impegnati nella pro duzione e nelle speculazioni (i
cosiddetti «pescicani»); vaste masse erano state attivate dalla partecipazione alle esperienze
e ai sacrifici della guerra e dalle promesse di riforma che, specie dopo la rotta di Caporetto,
erano state fatte per allargare il consenso popolare; il nazionalismo presumeva di trovare
nella vittoria conseguita la conferma della propria validità; l'esempio della rivoluzione
bolscevica, vissuta come «mito», agiva potentemente sugli atteggia menti delle classi
subalterne; la piccola borghesia, donde erano usciti gran parte dei quadri inferiori
dell'esercito, avvertiva acutamente il disagio della propria scarsa consistenza di classe ed era
animata da un forte e confuso sentimento di autoaffermazione. Que sto complesso e
contraddittorio intreccio di trasformazioni oggetti ve e di attese psicologiche trovava
concreta espressione in un profondo mutamento del quadro politico: un mutamento che, in
linea di partenza ricco di virtualità democratiche, nel corso di quattro an ni (1919-1922) si
concluderà di fatto con l'avvento del fascismo*.
Le novità più rilevanti della situazione postbellica erano: una ra pida e massiccia
sindacalizzazione delle masse lavoratrici, una fortissima avanzata del Partito socialista (e
l'organizzazione nel suo ambito di frazioni dalle quali sarebbe nato il Partito comunista), la
nascita del Partito popolare, d’ispirazione cattolica, il tumultuoso affacciarsi sulla scena
politica di organizzazioni combattentistiche.

Incremento dei sindacati


La Camera Generale del Lavoro (C.G.L.), tendenziale dei sindacati mente socialista, che
nel 1918 contava circa 250 000 aderenti, passò a oltre un milione e mezzo nel 1919 e
superò i 2 300 000 aderenti nel 1920. Negli stessi anni la Confederazione Italiana dei
Lavoratori, sindacato bianco di ispirazione cattolica nato nel 1918 in concorrenza con i
sindacati rossi, riusciva ad organizzare 1 661 000 lavoratori e s'impegnava soprattutto nella
mobilitazione delle masse contadine, fra le quali otteneva la maggior parte dei consensi. In
tal modo, anche ambienti rimasti ai margini della vita politica e impermeabili alla
penetrazione dei «rossi» venivano iniziati all'attività associativa delle Leghe e delle
Cooperative.

Massimalismo socialista
L'accresciuta volontà rivendicativa delle masse che avevano sostenuto i sacrifici della
guerra, l'inasprimento della tensione sociale derivante dalla difficoltà di reinse rire nelle
strutture produttive le classi rapidamente smobilitate, la suggestione del bolscevismo russo
fecero enormemente aumentare il numero degli aderenti e dei simpatizzanti del Partito
socialista e fecero prevalere in esso l'ala massimalista, guidata da Giacinto Menotti
Serrati, che ripudiava ogni forma di collaborazione coi governi borghesi, quali ne fossero i
programmi, considerava la borghesia come un unico blocco di forze reazionarie e dava per
certa l'imminenza della rivoluzione. «Il partito socialista — dicevano le dichiarazioni
programmatiche del dicembre 1918 — si propone espressamente come obiettivo
l'istituzione della repubblica socialista e la dittatura del proletariato, con i seguenti scopi: 1)
socializzazione dei mezzi della produzione e dello scambio..., 2) distribuzio ne dei prodotti
fatta esclusivamente dalla collettività..., 3) abolizio ne della coscrizione militare e disarmo
universale, in seguito all'unione di tutte le repubbliche proletarie internazionali...».

Velleitaria Utopia
Un tale programma — verbalmente più avanzato delle Tesi di Aprile (1917) di Lenin
— pareva fatto apposta per isolare il proletariato, per il quale era invece necessario allargare,
per quanto possibile, le proprie alleanze. Il massimalismo dava per scontata e imminente la
nascita in tutto il mondo di repubbliche proletarie (che non sarebbero mai sorte) e
prescindeva dalla realtà effettuale italiana, nella quale la struttura capitalistica non era stata
affatto indebolita dalla guerra, la forza della Chiesa e del movimento cattolico era
rilevantissima, l'appello al nazionalismo aveva una forte presa, specie fra la piccola
borghesia "idealista e patriottica".

Bordiga e Gramsci
I massimalisti, del resto, agitavano solo a parole la prospettiva di una rivoluzione, tanto
che sia i socialisti napoletani facenti capo ad Amadeo Bordiga, sia i socialisti torinesi, facenti
capo ad Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Angelo Tasca, ne
denunciavano il velleitarismo e, pur convinti che la situazione italiana consentisse uno
sviluppo rivoluzionario, tentavano strade completamente diverse da quelle seguite dalla
direzione del partito. Il Bordiga progettava infatti un partito di rivoluzionari di
professione che non avrebbe dovuto neppur par tecipare alle competizioni elettorali. Il
Gramsci e i suoi compagni di Torino s'impegnavano nell'esperienza di Ordine Nuovo,
ossia nell'organizzazione di un movimento, nato nel 1919 intorno all'o monima rivista, che
nei consigli di fabbrica doveva preparare i qua dri dirigenti di un blocco storico di operai, di
contadini e di intellettuali, capace di guidare la rivoluzione e quindi di esercitare anche le
funzioni utili, svolte in una società borghese dai capitalisti.

Social ritormisti
Nel partito rimaneva per il momento anche l'ala mo derata minoritaria — guidata da
Filippo Turati e da Claudio Treves e largamente rappresentata fra i quadri della C.G.L. —
che, del tutto aliena da ipotesi rivoluzionarie, non osava però compromettersi in
collaborazioni governative per l'attuazione del suo programma di riforma democratica
dello stato e della società: l'unico programma nel quale credeva effettivamente.

Movimento cattolico
Nell'immediato dopoguerra giunge a maturazione anche il lungo processo di
accostamento dei cattolici allo stato italiano, che già aveva compiuto tappe significative
nelle elezioni del 1904 e soprattutto del 1913, nelle quali peraltro i cat tolici avevano svolto
una funzione subalterna rispetto alla classe dirigente liberale. La Rerum novarum — benché
dedicata a problemi sociali di carattere internazionale e non specificamente italiani — aveva
aperto la strada per una più attiva partecipazione dei cattoli ci alla vita politica anche in
Italia. Nel 1905 il Fogazzaro in un suo romanzo, intitolato II santo, aveva posto il problema
di una possibile conciliazione fra cattolicesimo e mondo moderno: il libro, condannato nel
1906 dalla Congregazione dell'Indice, aveva scatenato vaste polemiche in tutto il paese e
la condanna aveva fatto scalpore. Nel 1906 Giuseppe Toniolo, in un Trattato di economia
sociale, aveva delineato una soluzione cristiana dei problemi eco nomici, sociali e giuridici,
che si proponeva di superare l'utilitari smo delle concezioni sia liberistiche sia socialistiche
(v. cap. 42-9). Dal 1907 al 1911 era uscita a Milano la rivista II rinnovamento, che
riprendeva e ampliava la tematica del Fogazzaro. I più illustri re dattori del Rinnovamento,
Romolo Murri ed Ernesto Bonaiuti, erano stati a loro volta condannati dalla Chiesa per le
loro tendenze modernistiche, ma nel complesso le discussioni, le condanne e le polemiche
avevano preparato il terreno per un profondo rinnovamento del movimento cattolico
italiano.

Partito popolare italiano


D'altra parte, ben più che ai tempi del patto Gentilo ni (v. cap. 45-4), risultava evidente che
le varie frazioni del liberalismo italiano non avrebbero retto all'offensiva del socialismo,
sicché Benedetto XV, vincendo le ultime remore e revocando formalmente e definitivamente
il non expedit, autorizzò di fatto don Luigi Sturzo (1871-1959) a fondare un partito
dichiaratamente cattolico, che prese il nome di Partito popolare italiano e pubblicò il proprio
manifesto programmatico nel gennaio del 1919.
Il nuovo partito professava contemporaneamente la propria ispi razione cristiana e la propria
indipendenza politica dalla gerarchia ecclesiastica, si batteva per la colonizzazione del
latifondo e per la difesa della piccola e media proprietà contadina, per l'adozione del
sistema proporzionale 1 e per l'estensione del voto alle donne, per l'ampliamento delle
autonomie locali, in polemica con le tendenze centralistiche dello stato liberale. Faceva
professione di interclassismo, secondo una concezione corporativa per la quale le classi
sociali avrebbero dovuto contribuire armonicamente al rag giungimento del bene comune.
Puntava sul rafforzamento delle associazioni benefiche e assistenziali autonome, sulla libertà
di insegnamento e quindi sul potenziamento della scuola privata, per la maggior parte in
mano a istituti religiosi. Il problema specifico di una moderna società borghese, cioè lo
sviluppo dell'industria e delle città industriali, veniva lasciato ai margini, quasi si volesse
contrapporre la campagna, sede di una vita sana e virtuosa, alla città, fonte di
disgregazione e di corruzione.
In complesso, perciò, il Partito popolare non era esente né da equivoci (per la
compresenza in esso di possidenti, preoccupati soprattutto di combattere contro il
socialismo, e di masse contadine, come quelle guidate nel Cremonese da Guido Miglioli,
interessate a riforme radicali) né da impostazioni arcaiche, anticapitalistiche in quanto
precapitalistiche (e non era privo di significato il fatto che il partito assumesse come
simbolo lo scudo crociato di età comunale). Estremamente complicato era anche il
problema dell'autonomia del Partito popolare che, per usare le parole del Salvemini,
«era autonomo finché non avesse fatto nulla che potesse dispiacere alle autorità
ecclesiastiche; ma il giorno in cui queste avessero dichiarato di non poter approvare la sua
opera, esso si sarebbe trovato al bivio o di rinunciare all'autonomia e obbedire alle autorità
ecclesiastiche, o di rivendicare l'autonomia sfidando la condanna di quelle autorità».
Malgrado questi gravi limiti, la nascita del Partito popolare rimaneva comunque un evento
storico di grande e positiva importanza, perché comportava l'immissione diretta delle masse
cattoliche nel vivo circuito delle lotte politiche nazionali e, con la cessazione formale del
non expedit, eliminava almeno uno dei più gravi handicap dello stato italiano.

Associazione Nazionale Combattenti


Negli stessi mesi in cui avveniva la gestazione del Partito popolare, si andava
organizzando anche il movimento dei combattenti, che fin dal novembre del 1918 si
costituivano in Associazione Nazionale Combattenti e dichiaravano la propria sommaria
sfiducia in tutti i partiti: «Nessun partito, nessuna classe, nessun interesse, nessun giornale
— affermava l'Associazione — gode la nostra fiducia... Organizzati e in dipendenti, la
nostra politica la faremo noi stessi». Questo spirito di protesta indiscriminata presentava
evidenti pericoli di degenerazione "qualunquistica" (come diremmo oggi), ma
l'Associazione faceva propria una richiesta, appoggiata anche da altre forze, repub blicane,
social-riformistiche e sindacali, che avrebbe potuto avere un'importanza determinante
per lo sviluppo democratico del paese: essa chiedeva infatti la convocazione di
un'assemblea costituente che desse nuove basi al Regno d'Italia, nato nel 1861 me diante la
pura e semplice estensione a tutta la penisola dello Statu to albertino.

Ambiguità piccolo-borghese
Nelle organizzazioni combattentistiche confluivano per lo più individui di provenienza
piccolo-borghese che, abituati ai rischi della guerra e alle sofferenze della trincea ma non
alla routine del lavoro quotidiano, intendevano per un verso difendere i valori spirituali che
avevano portato il paese alla vittoria, per l'altro «presentare il conto» dei sacrifici sop portati
ed evitare il rientro nelle occupazioni abituali, troppo infe riori all'eroismo, vero o presunto,
delle loro gesta belliche.
«La posizione tradizionale del ceto medio — scriveva a questo proposito Lelio Basso —
contiene sempre un elemento di ambiguità: può essere rivolta contro il proletariato o contro
i capitalisti. Da un lato sono i capitalisti, i profittatori della congiuntura, gli arric chiti di
guerra, i "pescicani"... che governano questa società in cui il ceto medio non trova adeguata
posizione e soddisfazione; ma dall'altro è pur sempre vero che in questa società capitalistica
il ceto medio assolve a un ruolo di ufficiale e sottufficiale, o magari soltan to di caporale,
dell'ordine sociale, è investito in qualche modo di una particella dell'autorità della classe
superiore, è pertanto solidale con essa, solidale con l'ordine sociale in cui aspira a inserirsi
ancor meglio. Quest'ambiguità fu palese in quegli anni: l'avversione del ceto medio si
rivolse contro gli arricchiti di guerra, contro gli industriali e i capitalisti che avevano
tramutato in profitto i sacrifici degli Italiani, ma non risparmiò neppure il proletariato, nei
cui confronti anzi prese rapidamente corpo l'invidia. In fondo che i ricchi fossero ricchi o
ancora più ricchi, che i capitalisti sfruttassero ogni situazione per trarne profitto, era
nell'ordine naturale delle cose; quel che non era nell'ordine normale tradizionale delle cose
era che la classe operaia o i contadini si avvantaggiassero economi camente sul ceto medio e
mettessero in forse anche la tradizionale gerarchia sociale. Ed era invece quello che stava
accadendo...».

Fasci Italiani di Combattimento


Nell'àmbito equivoco e contraddittorio del combattentismo piccolo-borghese si muoveva
allora l'ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, che il 23 marzo 1919 fondò a Milano
i Fasci Italiani di Combattimento sulla base di rivendicazioni avanzatissime, comprendenti
fra l'altro il trapasso dalla monarchia alla repubblica e la convocazione di
un'assemblea costituente. «Il Fascismo italiano — diceva il pro gramma — vuole tenere
ancora uniti — con una forma di antiparti to o di superpartito — gli Italiani di tutte le fedi e
di tutte le classi produttrici per sospingerli alle nuove ineluttabili battaglie che si devono
combattere a completamento e a valorizzazione della gran de guerra rivoluzionaria».
L'antipartito risuscitava dunque il tema usuratissimo della guerra rivoluzionaria, ma né
questo richiamo né gli altri punti programmatici dovevano minimamente ritenersi
impegnativi, perché nel giorno stesso della fondazione dei Fasci il Mussolini scriveva sul
Popolo d'Italia: «Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici;
conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari, legalitari e illegalitari a seconda
delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».
Questa «spregiudicatezza», che come vedremo risulterà utilissi ma all'affermazione del
fascismo, era anche perfettamente confacente alla cultura e alla psicologia confusionaria
di buona parte della piccola borghesia. «Il risentimento — scriveva ancora Lelio Basso —
era allora il vero stato d'animo del ceto medio, e l'interpre te ideale ne era Mussolini».
IL 1919: TENSIONI SOCIALI, AVVENTURA FIUMANA, VITTORIA DEI PARTITI DI
MASSA
Orlando e Sonnino a Parigi
Il Patto di Londra aveva assegnato all'Italia un ampio tratto della costa dalmata, ma aveva
riservato la città di Fiume alla Croazia. In realtà al termine della guerra, mentre Fiume
esprimeva il suo voto di annessione all'Italia, il movimento delle popolazioni slave
approdava alla formazione del regno di Iugoslavia, al quale sarebbe stato assurdo chiedere
la rinuncia alla Dalmazia. La rappresentanza italiana alla conferenza di Parigi, guidata da
Orlando e da Sonníno, pretendeva però l'annessione di Fiume in base al conclamato
principio di autodecisione dei popoli, e l'annessione della Dalmazia in base alle clausole
del Patto di Londra.

«Vittoria mutilata»
Nell'aprile del 1919, quando a Parigi si discusse ap punto della questione adriatica, il
presidente Wilson, non vincolato dal Patto di Londra che gli Stati Uniti non ave vano né
sottoscritto né riconosciuto, pubblicò un messaggio contrario alle pretese della nostra
delegazione: un messaggio che si concludeva con un appello diretto al popolo italiano,
negando di fatto la capacità di Orlando e di Sonnino di interpretarne gli inte ressi e le
aspirazioni. L'affronto per il presidente del Consiglio e per il ministro degli esteri non
poteva essere più grave: Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza di pace e si
precipitarono a Roma a chiedere un voto di fiducia; e la fiducia fu subito concessa a
grandissima maggioranza alla Camera e all'unanimità al Senato, mentre in tutta la penisola
grandi dimostrazioni di piazza, simili a quelle del «radioso maggio» del 1915, esprimevano
il sostegno «popolare» al governo. Il risultato del gesto teatrale fu però disa stroso: durante
l'assenza della delegazione italiana si decise infatti a Parigi la sorte delle colonie ex
tedesche, dalla cui spartizione noi rimanemmo completamente esclusi, e in Italia vennero
ulteriormente stimolati i sentimenti sciovinistici, animati dal mito della vittoria mutilata.
Questa formula demagogica, avallata dalla più autorevole delle fonti, esasperava gli ex
interventisti, che si sentivano traditi nelle loro legittime aspettative, e lasciava sgomenta la
popolazione di fronte al pubblico e solenne riconoscimento che i sa crifici della guerra
erano stati sostenuti invano.

Agitazioni dell’estate 1919


Nel giugno del 1919 il ministero Orlando, scosso nel suo prestigio per l'imperizia
dimostrata nelle trattative di pace, entrò in crisi e fu sostituito da un ministero presieduto da
Francesco Saverio Nitti, mentre gli effetti gravissimi del carovita e della disoccupazione
determinavano un vasto movimento di agitazione popolare. Secondo la testimonian za di
Pietro Nenni (Storia di quattro anni), si trattò di un'agitazione «tumultuosa, anarcoide, priva di
direzione, di vedute d'insieme, di chiari e precisi obiettivi. Ogni città fece per proprio conto. I
negozi furono assaltati, saccheggiati i forni, s'imposero calmieri del 50% sui generi più
vari di consumo. Molte merci furono distrutte. Ogni villaggio, ogni cittadina ebbe il suo Marat
o il suo Lenin, di formato ridottissimo... In tutta Italia sorgevano improvvisati Soviet
annonari; nell'Emilia, nella Romagna, in Toscana, nelle Marche, si poteva parlare di vera e
propria insurrezione popolare, con frequenti e sintomatici casi di fraternizzazione fra rivoltosi
e truppe. A Firenze la massa era padrona della città... Invasioni e saccheggi avvenivano da
un capo all'altro della penisola. I poteri si trasferivano nelle Ca mere del Lavoro, dove si
videro i proprietari portare le chiavi dei loro magazzini».

La lotta nelle campagne


Contemporaneamente aveva inizio anche un vasto moto di contadini che procedevano
senz'altro all'occupazione di terre incolte (ma talvolta anche di terre ben coltivate) soprattutto
nelle regioni centro-meridionali della penisola; entro l'aprile del 1920 quasi 30 000 ettari di
terreno, dei quali circa la metà nel solo Lazio, furono così «confiscati» da coo perative e
associazioni di contadini. Forti agitazioni per la revisio ne dei contratti si effettuavano
intanto nella valle padana, appoggiate anche dai cosiddetti «bolscevichi bianchi» del Partito
popolare. In generale il contenuto delle rivendicazioni contadine era relativamente moderato,
ma le modalità dell'azione erano durissime, sicché in complesso nel biennio 1919-1920 —
passato alla storia come biennio rosso — lo spazio per una mediazione politica del con flitto
di classe si andava riducendo,

La «reggenza del Carnaro»


E non si riduceva solo per le iniziative "di sinistra" ora ricordate: il 12 settembre del
1919, infatti, il D'Annunzio, alla testa di alcuni reparti militari sottrattisi ai loro obblighi di
disciplina, s'impadroniva della città di Fiume, fino al lora soggetta a un regime di
occupazione interalleato, e vi instaurava una sua «reggenza del Carnaro», circondata di
molta retorica. Il colpo di testa dannunziano, diffondendo l'insubordinazione nell'e sercito,
feriva lo stato liberale in uno dei suoi gangli vitali, faceva correre all'Italia gravi pericoli di
conflitto con la Iugoslavia, risuscitava lo stile del «radioso maggio» e prefigurava il metodo
e il blocco di forze che tre anni più tardi avrebbero portato al potere il fascismo.

Provvedimenti del Nitti


Il Nitti, pur convinto che l'Italia non dovesse ri schiare le sue sorti «per follie o per sport
romantici e letterari di vanesi», di fatto non osò stroncare con la forza l'inizia tiva
dannunziana, così come non aveva potuto arginare le agitazio ni delle masse popolari, ma si
limitò per un verso a rafforzare l'apparato repressivo con l'istituzione della Guardia regia, per
l'altro a cercar di eliminare alcune delle cause più gravi del diffuso spirito di ribellione,
concedendo un'ampia amnistia ai disertori, varando un decreto che consentiva il passaggio
temporaneo delle terre incolte ad associazioni di lavoratori, conservando il prezzo politico
del pane, che costava allo stato oltre sei miliardi all'anno (corri spondenti a circa 5500
miliardi di lire 1986).

«Caporetto liberale»
La scarsa incisività dell'azione governativa non era però imputabile personalmente al
Nitti, quanto piuttosto a una crisi del liberalismo che risultò evidentissima nelle ele zioni del
novembre 1919. In quell'occasione, infatti, la vecchia Ita lia prebellica subì una pesante
sconfitta: i socialisti ottennero 1 840 000 voti e 156 seggi, contro i 52 del 1913; il Partito
popolare, che per la prima volta affrontava il cimento elettorale, conquistò 1 175 000 voti
e 101 seggi; il resto dei suffragi andò alle diverse cor renti liberali e radicali, che conservarono
la maggioranza dei voti (circa tre milioni e mezzo), ma perdettero la maggioranza dei seg gi
ottenendone complessivamente 251 su 508. Era, come intitolò il suo commento La Stampa di
Torino, una vera e propria «Caporetto liberale», cui faceva riscontro la piena vittoria dei
partiti di massa.
I fascisti, per il momento, uscivano malconci dalla competizione e non ottenevano alcun
seggio.

ULTIMO MINISTERO GIOLITTI


In un discorso pronunciato a Dronero durante la campagna elet torale, il Giolitti aveva
esposto un organico e avanzato programma di governo col quale aveva implicitamente
posto la sua candidatura a succedere al ministero Nitti. Nel giugno del 1920, ormai quasi
ottantenne, egli assunse effettivamente per la quinta volta la respon sabilità del governo, ma i
problemi della società italiana postbellica eccedevano ormai di gran lunga le sue capacità di
controllo e di diagnosi.

Handicap del governo Giolitti


Il Giolitti aveva bensì promosso lo sviluppo capitalistico industriale del primo Novecento,
ma non per questo era diventato l'uomo di fiducia dei capitalisti. I suoi rapporti con gli
ambienti del grande capitale, che non erano mai stati permanenti e organici, lo erano ora
meno che mai, perché la borghesia si avviava a ritirare il suo appoggio alle istitu zioni
liberali democratiche, che egli intendeva invece rafforzare.
Il Partito socialista rimaneva ancorato alle tesi massimalisti che (confermate nel XVI
Congresso svoltosi a Bologna nell'ottobre del 1919), e non era quindi disposto ad
appoggiare un programma di democrazia avanzata, quale il Giolitti proponeva.
Il Partito popolare, per le sue concezioni «agricole» arretrate, per i suoi legami di fatto
col Vaticano e per la sua aspirazione a non delegare la propria rappresentanza a un
esponente laico del liberalismo, non poteva fornire al Giolitti che un appoggio condi zionato,
che sarebbe venuto meno proprio su alcuni punti significativi del programma di governo.
Infine, la Camera, tradizionale strumento dell'egemonia giolittia na, non era più il centro
reale del potere, che si era largamente spostato nei partiti di massa: socialista, cattolico e, di lì
a poco, fascista.

Fallimento strategico
La strategia del Giolitti mirava: 1) a impegnare i socialisti, o almeno una frazione di essi,
nell'attuazione di una politica riformistica; 2) a ridurre i Popolari in una posi zione subalterna
(stile patto Gentiloni); 3) a utilizzare i fascisti come deterrente contro l'estremismo
socialista e a conceder loro quanto bastava perché essi rientrassero poi nella norma dello
Stato liberale («il fascismo — scriverà nelle sue Memorie — costituendo ormai una reale
forza nel paese, era bene avesse la sua rappresen tanza parlamentare, secondo il mio antico
concetto che tutte le forze del paese devono essere rappresentate nel Parlamento e trovarvi
il loro sfogo»). E questa serie di «miracoli» doveva essere compiuta senza che il Giolitti
avesse dietro di sé un apparato di attivisti, di stampa, di propaganda, di organizzazione
capillare, neppur da lontano paragonabile a quello dei partiti di massa. Così stando le cose,
il vecchio statista fallì completamente i suoi obiettivi strategici: i socialisti non si lasciarono
ridurre al riformismo, i popolari non accettarono d'essere egemonizzati, i fascisti, infine,
grazie allo straordinario fiuto del Mussolini, finsero di lasciarsi usare, ma in realtà finirono
coll'usare il Giolitti per ottenerne una patente di rispettabi lità.
Efficace e rapida fu invece l'iniziativa del Giolitti nell'attuazione dei singoli punti
programmatici del suo quinto governo.

Trattato di Tirana
In collaborazione col ministro degli esteri Carlo Sforza, il Presidente liquidò il
protettorato italiano sull'Albania (stabilitosi al termine della guerra per mandato della
conferenza di Parigi) che aveva dato luogo a una vera e propria in surrezione delle
popolazioni locali. Egli si limitò a conservare all'Italia l'isolotto di Sàseno, all'imboccatura
della Baia di Valona, importante per il controllo del Canale d'Otranto (trattato di Tirana, 20
luglio 1920).

Trattato di Rapallo
Per la questione adriatica, il Giolitti provvide a concludere accordi diretti con i
rappresentanti iugoslavi e strinse con essi il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), per il
quale l'Italia, conservando la città di Zara, rinunciava definitiva mente al resto della costa
dalmata, abitata effettivamente da popolazioni slave; Fiume veniva eretta a città libera, e il
confine orientale con la Iugoslavia veniva stabilito in modo che all'Italia rimaneva no tutta
l'Istria e alcune isole, come Cherso, Lussino eccetera.

"Natale di sangue"
Con ciò era decisa la fine dell'avventura dannunziana: dopo aver inutilmente tentato di
ridurre alla ragione il «Comandante» in via pacifica (e dopo essersi assicurato che il
Mussolini, il cui peso politico andava crescendo, non avreb be offerto al D'Annunzio se non
una solidarietà «platonica»), il Giolitti affidò l'incarico di intimargli lo sgombero da Fiume al
generale Caviglia che, con pochi colpi di cannone diretti al palazzo della reggenza, nel
Natale del 1920 costrinse i legionari e il poeta ad ab bandonare la città. I nazionalisti
parlarono perciò di un Natale di sangue, il Mussolini pubblicò sul Popolo d'Italia un
articolo di aspra condanna intitolato II delitto; ma tutto si esaurì in proteste verbali, mentre
sul piano dei fatti il paese traeva grande vantaggio dal conseguimento della pace.

Legislazione riformatrice
Per quanto riguarda la politica interna, il governo procedette speditamente all'attuazione
del programma enunciato nel discorso di Dronero: fra il giugno e la prima metà di agosto del
1920 fu approvata la legge che riformava l'articolo 5 dello Statuto e stabiliva la sovranità del
parlamento anche nel campo degli accordi internazionali e della dichiarazione di guerra*,
nonché altre leggi che limitavano la facoltà del governo di ricor rere a decreti legge i,
stabilivano una forte progressività nelle imposte di successione, imponevano la nominatività
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dei titoli, che fino allora erano stati titoli al portatore (ma questa decisione, di notevole
importanza, fu prima insabbiata dal Partito popolare e più tardi abrogata dal Mussolini).
Grazie a queste iniziative democratiche (appoggiate anche da gran parte dei deputati
socialisti), il Governo conseguì il prestigio sufficiente per proporre la graduale abolizione
del prezzo politico del pane, necessaria ad alleviare il disavanzo statale ma ovviamente molto
impopolare. Malgrado l'ostruzionismo dei socialisti, anche questa proposta passò nel
febbraio del 1921.

Occupazione delle fabbriche


Nel frattempo però erano accaduti nel paese fatti gravissimi, destinati a compromettere
irrimediabilmente le sorti del proletariato e con esse le speranze di una soluzione
democratica della crisi italiana. Dalla metà del lu glio 1920 erano in corso trattative fra la
Federazione Italiana Operai Metallurgici (FIOM) e le rappresentanze padronali sul
problema dell'adeguamento dei salari al carovita. Di fronte alla rigida resi stenza degli
industriali, la FIOM decise di ricorrere all'ostruzionismo, che cominciò ad essere praticato
dal 21 agosto coll'intesa che ad un'eventuale serrata le maestranze avrebbero risposto con
l'occupazione delle fabbriche. Pochi giorni dopo, gli operai — trovata la ditta Romeo di
Milano presidiata dalle forze di polizia che ne impedivano l'accesso — procedettero
all'occupazione di circa trecento stabilimenti, dislocati in tutto il triangolo industriale
(Milano, Torino, Genova). Superate di molto le sue origini sindacali, la lotta assunse pertanto
il significato di una sfida alle leggi vigenti. Il Par tito socialista, però, né seppe né volle
assumersi la responsabilità di una scelta rivoluzionaria che sarebbe stata coerente con le
premesse massimalistiche, sicché il proletariato fu lasciato allo sbaraglio e si profilò ben
presto la inevitabilità di una sconfitta*. Questa fu tan to più grave in quanto il Giolitti,
resistendo alle pressioni dell'opinione pubblica più sprovveduta, si astenne dal tentare una
repressione violenta, ma — per usare le sue stesse parole — lasciò che «l'esperimento si
compisse sino a un certo punto, perché gli operai avessero modo di convincersi della
inattuabilità dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il modo di rovesciare su altri la
responsabilità del fallimento».

Proletariato sconfitto
Così, in poco più di due settimane, la spinta proletaria si esaurì, e gli operai dovettero
costatare che, senza il sostegno dei tecnici, degli impiegati, degli intellettuali, del le masse
contadine dell'Italia centrale e meridionale, essi non costi tuivano un blocco storico
autosufficiente. A metà settembre si riaprirono pertanto le trattative fra le rappresentanze
padronali e operaie con la mediazione del governo, e gli operai si impegnarono a
sgombrare pacificamente le fabbriche contro l'assicurazione che il governo avrebbe
presentato un progetto di legge «allo scopo di or ganizzare le industrie sulla base
dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario, o all'amministrazione
dell'azienda». Un tale risultato, che ottenuto con una normale lotta sindacale e come
obiettivo dichiarato delle organizzazioni politiche dei lavoratori sa rebbe stato un successo,
conseguito invece al termine di una lotta para-rivoluzionaria, con la mediazione e i buoni
uffici del governo, perdeva ogni significato e veniva vissuto dalle masse come una rea le
sconfitta; tant'è vero che in seguito neppure il Partito socialista si batté perché i progetti
di legge che dovevano tradurre in atto il pattuito controllo operaio sulle fabbriche venissero
discussi in parlamento.

Reazione padronale
L'esito dell'occupazione delle fabbriche e il conseguente scoraggiamento del proletariato
diedero spazio alla reazione padronale. Segni di una controffensiva borghese
si erano chiaramente annunciati nel corso di tutto il 1920 con molteplici tentativi di
organizzare corpi di volontari per la difesa del l'ordine e con la costituzione, nell'agosto, di
una Confederazione generale dell'agricoltura, intesa a rintuzzare l'offensiva delle leghe
contadine, particolarmente dura specialmente in Emilia e nella Bassa Padana.
Effettivamente, durante gli scioperi del «biennio ros so» gli atti di violenza (incendi di fienili,
distruzione di raccolti, uccisione di capi di bestiame, blocchi stradali eccetera) erano stati
frequentissimi, e le leghe esercitavano in intere regioni una sorta di dittatura di fatto. Questa
vera e propria «guerra sociale» non poteva però protrarsi indefinitamente e doveva
concludersi o con un esito rivoluzionario, che a suo modo l'avrebbe fatta cessare, o con un
contenimento della conflittualità entro limiti compatibili col si stema borghese. In realtà,
come risulta da un rapporto di Togliatti al IV Congresso dell'Internazionale comunista,
accadde invece che «la catena degli atti di forza e di violenza compiuti dalle organizza zioni
agricole non riuscì mai a chiudersi con una conquista del po tere centrale... e così la loro
azione, invece di apparire, come era, l'inizio della costruzione di una società nuova, finì per
apparire come un vano esercizio di prepotenza».

Crisi economica
La situazione generale, intanto, si veniva deterioran do per una crisi internazionale che
fra il 1920 e il 1921 metteva a dura prova le strutture economiche italiane. La produzione
industriale calava, e i capitalisti, di fronte alla drastica ri duzione dei loro profitti, erano
sempre meno disposti a concedere miglioramenti al proletariato; gli operai, d'altra parte,
minacciati dal pericolo del licenziamento per la diminuzione dei posti di lavo ro, erano
costretti sulla difensiva.

Squadrismo
Così, mentre la volontà di lotta del proletariato urbano s'andava spegnendo, cominciava
invece, verso la fine del 1920, una vistosa compenetrazione fra la reazione agraria e il
fascismo, che organizzava l'uso sistematico della violenza mediante le sue squadre d'azione.
Le modalità operative degli squadristi si ripetevano uniformemente: pagati e riforniti dagli
agrari, i fascisti colpivano i centri delle organizzazioni operaie e contadine, prima socialiste,
poi anche cattoliche, devastavano le Camere del Lavoro, bastonavano o uccidevano i capi
sindacali, saccheggiavano le cooperative, seminavano il terrore e la morte, men tre l'opinione
pubblica borghese e piccolo-borghese, salvo margina li riserve, applaudiva al loro operato.
Alla sutura del fascismo con la reazione agraria si aggiungeva ben presto quella con la
reazione degli industriali, usciti dagli scioperi del biennio rosso e dall'occupazione delle
fabbriche con propositi di sterminio delle organizzazioni operaie e profondamente
insoddisfatti della moderazione del Giolitti. Lo scontro di classe, in altri termini, scavalcava
la mediazione politica e statale, e avveniva ormai sul terreno militare: l'unico appunto sul
quale il proletariato si trovava in posizione di gravissima inferiorità.

Connivenza delle istituzioni


Le istituzioni, d'altra parte, erano esse stesse largamente compromesse col fascismo, com'è
documentato (per scegliere un esempio fra mille tutti egualmente probanti) da questa
circolare diramata dallo Stato maggiore e diretta ai comandi di corpo d'armata
dell'esercito in data 24 set- tembre 1920: «Dalle notizie che pervengono in merito
all'attività dei Fasci di combattimento si rileva come essi in genere vadano as sumendo non
lieve importanza e che possono ormai considerarsi forze vive da contrapporre
eventualmente agli elementi antinazionali e sovversivi. Sembra pertanto opportuno che
codesto Ufficio procuri di tenere il contatto con i medesimi seguendone da vicino
l'attività ed informando eventualmente di quanto al riguardo risultasse specialmente
notevole». Né si trattava solo di collusione riguardante gli alti comandi, ché al contrario
fra gli ufficiali dei gradi inferiori e tra le forze dell'ordine (troppo spesso attaccate dai
«rossi» anche con provocazioni assolutamente assurde) le simpatie per il fascismo erano
diffusissime. Malgrado gli sforzi del Giolitti, che per la verità non mancava di
richiamare continuamente prefetti e questori all'esercizio imparziale del loro dovere, lo
stato liberale era dunque in completo sfacelo, e del tutto giustificate, almeno in
prospettiva, risultavano le parole del Gramsci che il 17 ottobre 1920 scriveva
sull'edizione piemontese dell'Avanti!: «Nell'attuale periodo, il terrorismo vuol passare
dal campo privato al campo pubblico; non si accontenta più dell'impunità concessagli
dallo Stato, vuole diventare Stato». Al Giolitti sfuggiva invece la nuova fi sionomia assunta
dal fascismo da quando esso si era organica mente legato alla reazione padronale e aveva
con ciò cessato di esere un movimento transitorio, facilmente riassorbibile nelle strut ture
dello stato liberale; e tale errore di diagnosi, allora assai diffu so, era facilitato dallo stesso
Mussolini che, con sicuro istinto, alternava atteggiamenti idonei, per un verso, a conservargli
il fondamentale supporto dell'«esercito» squadrista, per l'altro ad impedire la completa
identificazione del fascismo con la reazione armata, che non avrebbe ottenuto alla distanza
una sufficiente base di consenso.

Partito Comunista d’Italia


Poco dopo la liquidazione dell'avventura dannunzia na a Fiume, si riunì a Livorno il XVII
Congresso del Partito socialista (15-20 gennaio 1921), nel quale si manifestò in tutta la sua
asprezza la dissidenza dei gruppi di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci, che uscirono anche
formalmente dal partito e fondarono il Partito Comunista d'Italia*. Sui tempi e sui modi della
scissione, gli stessi Gramsci e Togliatti espressero più tardi un giudizio fortemente
autocritico, ed effettivamente, nel breve periodo, essa contribuì a indebolire ulterior mente
la capacità di resistenza del proletariato che, pur conservan dosi in gran parte fedele al Partito
socialista, rimase confuso e frastornato dalla durissima polemica condotta contro di esso dai
comunisti.

Scioglimento della Camera


Il Giolitti aveva invece sperato in una scissione «a destra» dei socialriformisti di Turati,
che sin dal primo Novecento egli aspirava a cooptare nell'esercizio del governo. Per quanto
deluso nella sua aspettativa, egli chiese comunque alla Corona lo scioglimento della
Camera, con un anticipo di tre anni sulla scadenza normale, allo scopo evidente, anche se
non dichiarato, di approfittare della crisi del socialismo per farlo duramente pu nire dagli
elettori e per poter poi trattare con i suoi esponenti da posizioni di forza.

«Blocchi nazionali»
Per lo svolgimento della lotta elettorale — scrisseegli stesso —, considerando che la più
grave debolezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro frazionamento, in confronto
alla unione e compattezza dei socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi
in cui tutte le forze dei vecchi partiti liberali e democratici fossero raccolte». In realtà il suo
non fu un semplice «consiglio», ma fu invece un attivo e determinante intervento per la
costituzione di Blocchi nazionali che dovevano essere l'equivalente liberale dei partiti di
massa, ma che furono invece il trampolino di lancio del fascismo, largamente rappre sentato
in tali blocchi e chiaramente avviato a diventare l'unico partito di massa fra le sparse
schiere del vecchio liberalismo.
I consensi al fascismo aumentavano infatti con straordinaria ra pidità: i Fasci, che nel marzo
del 1921 erano 317 con 80 476 iscritti, nel solo mese di aprile salirono a 417, con 98 399
iscritti, e subito dopo le elezioni balzarono di colpo a 1001 con 187 098 aderenti. Nel
medesimo tempo anche l'aggressività delle squadre d'azione si intensificava, tanto che
durante la campagna elettorale si ebbero gravissimi incidenti con decine di morti.
Esito delle elezioni
L'arretramento dei socialisti nelle elezioni, che si svolsero il 15 maggio 1921, fu
complessivamente inferiore alle previsioni: essi infatti conservarono 123 seggi (dei
precedenti 156), mentre 15 venivano «ricuperati» dai comunisti. Il Par tito popolare passava
da 101 a 107 seggi. I Blocchi nazionali ottenevano ben 275 seggi, ma 35 di questi seggi
venivano conquistati dai fascisti che, dopo aver ottenuto dal Giolitti l'ambita patente di
«costituzionalità», avevano impostato la campagna elettorale in termini nettamente
antigiolittiani. Né gli altri gruppi che avevano ade rito ai Blocchi potevano considerarsi
omogenei, dato che essi comprendevano tutte le gamme del liberalismo: dai nazionalisti,
oggettivamente imparentati coi fascisti, ai democratici radicali.

Dimissioni del Giolitti


La complessa e tortuosa manovra delle elezioni anticipate e dei Blocchi nazionali era dunque
fallita: nella nuova Camera, convocata 1'11 giugno 1921, il ministero presen tato dal Giolitti
ottenne la fiducia con una maggioranza limitata, e alcuni dei suoi stessi sostenitori espressero
riserve su punti significativi delle dichiarazioni programmatiche, sicché il Giolitti ritenne
necessario rassegnare le dimissioni.

Dal ministero Bonomi alla Marcia su Roma

Agonia dello stato liberale


Caduto il ministero Giolitti, l'incidenza dell'azione governativa si riduce notevolmente:
sotto i due deboli ministeri del Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e del Facta (febbraio-
ottobre 1922) i fascisti spadroneggiano su intere regioni, senza che i poteri dello stato
intervengano a difendere la legalità; anzi la collusione delle «forze dell'ordine» col
fascismo, salvo rare eccezioni e malgrado i richiami talvolta molto energici del Bonomi,
sì fa ogni giorno più manifesta.

Squadrismo e costituzionalismo
Non per questo il Mussolini intende però identifi carsi senza riserve con lo squadrismo,
perché ciò lo esporrebbe al rischio di essere «scavalcato» dai «ras» che dominano nelle
singole province 1. Al contrario: gli squadristi devono bensì servirgli a conquistare spazi
sempre più vasti di potere, ma d'altra parte il suo «costituzionalismo» deve servirgli per
tener a segno gli squadristi. In questa prospettiva si collocano le sue non infrequenti
professioni di rispetto della legalità e il patto di pacificazione che, per sua esplicita e
tenace volontà, i rappresentanti del fascismo firmano il 3 agosto del 1921 con i
rappresentanti del Partito socialista: patto di scarsissima efficacia e che dura solo fino al 15
novembre, ma che serve al Mussolini per accreditare il proprio «perbenismo» politico. La
linea del «doppio binario» (squadristico e «legalitario») viene confermata anche nel III
Congresso che si svolge a Roma nel novembre e che trasforma il movi mento dei fasci in
Partito Nazionale Fascista (P.N.F.): nei docu menti che ne escono, infatti, mentre si
conferma ambiguamente che le istituzioni possono essere «efficaci in quanto i valori
nazionali vi trovino espressione e tutela», si dice anche che «ogni fascio ha l'obbligo di
costituire delle squadre di combattimento».

Alleanza del Lavoro


Malgrado la resistenza che le squadre talvolta incontrano nella forza pubblica o negli
Arditi del popolo (nati per combattere i fascisti sul terreno militare, ma considerati con
diffidenza dai partiti di sinistra), la violenza antiproletaria as sume progressivamente una
tale ampiezza che negli ambienti sindacali e politici di sinistra s'affaccia allora l'idea di
abbandonare la lotta contro lo stato liberale e di appoggiare invece anche un gover no
borghese, purché questo si impegni a difendere le più elementa ri libertà dei lavoratori. Si
costituisce inoltre un'Alleanza del Lavoro fra la CGL ed altre organizzazioni sindacali, che
tenta, con scarsi risultati, di rendere più efficace la difesa dei lavoratori contro le aggressioni
fasciste.

Sciopero legalitario
Il 31 luglio del 1922 tale Alleanza proclama uno sciopero generale di protesta, in difesa
della legalità («sciopero legalitario»). La direzione del P.N.F. non esita allora a
porre al governo Facta un vero e proprio ultimatum, minacciando l'intervento delle
squadre, se lo Stato non provvederà a stroncare lo sciopero entro quarantotto ore. Ed
effettivamente, nei giorni che seguono, le associazioni sindacali, le cooperative, i municipi
ad amministrazione socialista sono oggetto di un'offensiva fascista di vaste proporzioni, che
strappa ai "rossi" anche le roccaforti considerate imprendibili di Milano e di Genova.
Accostamento alla monarchia
Al pieno successo del colpo di stato fascista manca alla monarchia ormai solo il consenso
della dinastia, necessario per ottenere l'adesione degli ambienti militari, indifferenti alle
sorti delle istituzioni liberali ma fedeli al sovrano. Le tendenze repubbli cane del fascismo
erano state confermate dal Mussolini anche subito dopo le elezioni del 1921, quando il
«duce» e altri deputati del suo gruppo si erano addirittura rifiutati di partecipare alla
cerimonia d'apertura della nuova Camera, durante la quale, come di con sueto, il re aveva
tenuto il cosiddetto «discorso della Corona»; ma il "pragmatismo" fascista consentiva di
superare l'ostacolo con la massima disinvoltura. Il 20 settembre del 1922, infatti, il
Mussolini dichiarava in un discorso tenuto a Udine: «Io penso che si possa rinnovare
profondamente il regime, lasciando da parte la istituzio ne monarchica... Perché siamo
repubblicani? In un certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente
monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della na zione».
Nello stesso discorso, per tranquillizzare gli ambienti industriali che ancora consideravano
con sospetto i trascorsi socialisti dél «duce» e di altri esponenti del fascismo, si faceva
professione del più radicale liberismo economico: «Basta — diceva infatti il Mussolini —
con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo sta to assicuratore; basta con lo stato
esercente a spese di tutti i contribuenti».

Marcia su Roma
Le dichiarazioni del Mussolini circa la ormai «inevi tabile» vittoria del fascismo
divennero nei giorni successivi sempre più chiare ed esplicite, mentre, nella
decomposizione del vecchio stato liberale, i fascisti si preparavano alla presa del potere
con un atto di forza.
Il 24 ottobre 1922 si riunirono a Napoli alcune decine di migliaia di camicie nere, e il
Mussolini le arringò in questi termini: «O ci daranno il governo, o lo prenderemo calando
su Roma; ormai si tratta di giorni e forse di ore». Il 27 ottobre un comunicato della di rezione
fascista (affidata per l'occasione ai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi)
annunziò agli Italiani che l'esercito delle camicie nere marciava «disperatamente» su
Roma.
In verità la disperazione era solo nelle parole, perché la Marcia su Roma (28 ottobre
1922) non incontrò resistenze apprezzabili. Il re, rientrato precipitosamente a Roma da San
Rossore la sera del 27 ottobre, s'accordò in un primo tempo col Facta per la proclama zione
dello stato d'assedio, ma la mattina dopo si rifiutò di firmar lo, sicché al Facta non rimase
altra alternativa che quella di presentare le dimissioni.
L'incarico di formare il nuovo governo venne allora affidato da Vittorio Emanuele III al
Mussolini, quasicchè si trattasse di un normale avvicendamento di ministeri (31 ottobre).

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