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La fondazione del PCI su impulso dell’Internazionale Comunista e dell’Unione Sovietica

Relazione della Segreteria Federale Emilia Romagna

1. La prima crisi generale, la rivoluzione Russa e la nascita dell’IC


All’inizio del XX secolo i paesi capitalisti si scontrarono con il limite intrinseco del modo di produzione capitalista che
Marx aveva indicato: la sovrapproduzione assoluta di capitale. Il capitale accumulato era oramai talmente grande che
se, nelle condizioni sociali esistenti, i capitalisti avessero impiegato nella produzione tutto il capitale che venivano
accumulando, la massa del profitto sarebbe diminuita. Solo una parte del capitale accumulato poteva quindi essere
impiegato come capitale produttivo. Così esplose allora la prima crisi generale del capitalismo (1875 circa – 1945).
La crisi nasceva dall’economia, ma la crisi economica non trovava soluzione in campo economico, come invece ancora
accadeva per le crisi cicliche del secolo XIX. Essa si trasformava necessariamente in crisi politica e culturale. Questa
prima crisi generale durò vari decenni ed ebbe fine solo grazie alle distruzioni delle forze produttive e agli
sconvolgimenti degli ordinamenti, delle istituzioni e della cultura culminati nella Seconda Guerra Mondiale.
All’inizio della prima crisi generale il mondo era stato già tutto diviso tra i gruppi imperialisti e i loro Stati. La
borghesia imperialista difendeva ferocemente, in ogni paese e a livello internazionale, gli ordinamenti esistenti (il
sistema coloniale, il sistema monetario aureo mondiale, gli ordinamenti giuridici e legislativi, ecc.) come forme del
proprio potere. Ma d’altra parte il capitale aveva oramai occupato tutti gli spazi di espansione che gli erano possibili
nell’ambito di quegli ordinamenti e non poteva più espandersi senza sovvertirli.
Le difficoltà incontrate dall’accumulazione del capitale sconvolgevano l’intero processo di produzione e riproduzione
delle condizioni materiali dell’esistenza dell’intera società. I rapporti tra borghesia imperialista e masse popolari
dispiegarono tutto il loro antagonismo. La classe dominante non poteva più regolare i rapporti tra i gruppi che la
componevano (ogni singolo gruppo imperialista quindi poteva allargare i suoi affari e aumentare i suoi profitti solo
occupando lo spazio di un altro gruppo imperialista) né tenere a bada le masse popolari con i vecchi sistemi, né le masse
potevano accettare la disgregazione e le sofferenze cui la crisi generale le portava e di cui la Prima Guerra Mondiale fu
la manifestazione concentrata. Iniziò allora una situazione rivoluzionaria in sviluppo.
Due vie erano possibili: o la borghesia trasformava le contraddizioni tra sé e le masse popolari in contraddizioni tra parti
delle masse popolari (mobilitazione reazionaria delle masse popolari) o la classe operaia mobilitava le masse
popolari contro la borghesia imperialista e su questa base le organizzava e univa (mobilitazione rivoluzionaria delle
masse popolari). In gioco e oggetto della lotta politica tra classi, partiti e individui era quale via seguire.
Dapprima prevalse la mobilitazione reazionaria. La mobilitazione reazionaria delle masse popolari assunse, e non
poteva che assumere la forma della guerra tra Stati e della guerra civile. La borghesia imperialista mobilitò grandi
masse, su scala mai vista prima, contro altre masse, straniere o dello stesso paese e la guerra riassunse il carattere più
primitivo di guerra di sterminio di massa, condotto però con le risorse e i mezzi più moderni e nello stesso tempo in
contrasto con la cultura e i sentimenti più avanzati che l’umanità aveva oramai prodotto. Questo è appunto il processo
che diede origine alla prima guerra mondiale (1915 – 1918).
I vecchi partiti socialdemocratici dei paesi imperialisti mostrarono tutta la loro inadeguatezza nel fare la rivoluzione
socialista. Molti, in particolare quello tedesco (SPD) che era il più grande e influente, si erano sottomessi alla borghesia
e avevano votato a favore della guerra nei rispettivi parlamenti. Successivamente, parteciparono finanche alla
repressione dei tentativi insurrezionali. Per questo, la II Internazionale, come unione internazionale di partiti che si
rifacevano al marxismo fu sciolta (1916, di fatto già nel 1914), in quanto i partiti aderenti in sostanza aderivano e
sostenevano governi che mobilitavano proletari a massacrarsi tra di loro.

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I limiti dei dirigenti del PSI in Italia e degli altri partiti socialdemocratici discendevano da due tare, che inficiavano la
concezione che guidava la loro attività: l’economicismo, cioè la riduzione del ruolo dei socialisti a promotori delle lotte
rivendicative e l’elettoralismo, ovvero la riduzione del ruolo dei socialisti a rappresentanti della classe operaia nelle
istituzioni borghesi. È in questo contesto che il Leninismo si afferma come seconda e superiore tappa del pensiero
comunista dopo il marxismo sul ruolo e la natura del Partito comunista come reparto d’avanguardia e Stato Maggiore
della classe operaia nella lotta per il potere.
La vittoria della Rivoluzione d’Ottobre in Russia (1917), come sbocco rivoluzionario della crisi imperialista grazie alla
nascita del partito leninista, sancì la giustezza di quella linea. Essa mutò radicalmente l'intera situazione internazionale,
pose gli imperialisti nella necessità di promuovere una pace generale “democratica”. Il massacro senza precedenti aveva
inoltre mostrato alle masse la necessità di farla finita con il capitalismo e instaurare il socialismo, che la vittoria della
Rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato essere possibile. Su quell’esempio si stavano sviluppando in tutta Europa
numerosi tentativi insurrezionali e rivoluzionari.
A fronte di questa situazione, si costituì nella neonata Unione Sovietica su impulso dei bolscevichi e sotto la direzione
di Lenin la I Internazionale Comunista (COMINTERN) con il suo I primo congresso di Mosca (2 – 6 marzo 1919). Essa
aveva sostanzialmente il compito di promuovere la “bolscevizzazione” dei Partiti socialisti europei e di promuovere la
nascita di partiti comunisti nei paesi oppressi, in una fase in cui erano due i paesi in cui la prospettiva della presa del
potere sembrava più vicina: la Germania e l’Italia.

2. L’Ordine Nuovo e la “scissione di Aprile”


Nel primo ventennio del XX secolo, l’Italia come il resto del mondo viveva una situazione rivoluzuonaria. Vaste masse
contadine erano state mobilitate dalla partecipazione alle esperienze e ai sacrifici della guerra e dalle promesse di
riforma che, specie dopo la rotta di Caporetto, erano state fatte per allargare il consenso popolare; l’esempio della
rivoluzione bolscevica agiva potentemente sugli atteggiamenti del proletariato. Il proletariato nelle fabbriche è stanco
ma armato. I quattro anni tra il 1919 e 1922 (il Biennio rosso e i due successivi anni di guerra civile tra il ‘21 e ‘22) non
sono altro che lotta tra la reazione e il progresso, lotta che in Italia sboccherà nel ventennio fascista principalmente per i
limiti soggettivi dei dirigenti più avanzati del movimento comunista.
Il PSI del 1919 è un partito socialdemocratico di stampo elettoralista, con quadri dirigenti con scarsa o poca
preparazione teorica rivoluzionaria. Sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre vede ingrossare le proprie file dai 24.000
mila membri del 1918 agli 87.500 dell’anno successivo. Al XVI Congresso a Bologna nell’ottobre del 1919 prevale la
mozione che per la prima volta (per quanto, si vedrà, solo a parole) rompe con la tradizione riformista e propugna
“l’istaurazione di un regime transitori di dittatura di tutto il proletariato”. È la mozione dei “massimalisti” così chiamati
perché appunto propugnano il programma massimo, la rivoluzione. Loro capo politico è Giacinto Menotti Serrati (1872
– 1926), uno dei più prestigiosi dirigenti del PSI e all’epoca direttore dell’Avanti!, organo ufficiale del PSI. Alla loro
destra i riformisti che, contrari a questo programma, considerano quella per la Rivoluzione d’Ottobre “un’infatuazione”.
Sono principalmente i dirigenti che compongono la pattuglia parlamentare, capitanata da Filippo Turati (1857 – 1932).
Invece, gli astensionisti, costituiti in “frazione comunista” nel 1919 intorno alla rivista Il Soviet, sono convinti che il non
partecipare alle elezioni sia la discriminate tra un partito rivoluzionario e uno riformista, ritengono il PSI irrecuperabile
e si muovono nella direzione della scissione interna per dar vita a “un partito puramente comunista”. Loro capo è
Amedeo Bordiga (1889 – 1970), napoletano, la cui “frazione” ha grande autorevolezza in particolare fra i giovani
membri del partito.

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La città di Torino rappresentava il più importante centro industriale d’Italia (vi erano le officine FIAT) con un grande
concentramento operaio. La notizia della Rivoluzione di marzo in Russia era stata accolta a Torino con gioia
indescrivibile. Gli operai piangevano di commozione quando appresero la notizia che il potere dello zar era stato
rovesciato dai lavoratori di Pietrogrado. Quando nel luglio del 1917 arrivò a Torino la missione inviata nell’Europa
occidentale dal Soviet di Pietrogrado, i delegati Smirnov e Goldemberg, che si presentarono dinanzi a una folla di
cinquantamila operai, vennero accolti da grida assordanti di “Evviva Lenin! Evviva i bolscevichi!”.
Dopo la fine della guerra imperialista il movimento proletario fece rapidi progressi. La massa operaia di Torino
comprese che il periodo storico aperto dalla guerra era profondamente diverso dall’epoca precedente la guerra. La
classe operaia torinese intuì subito che la III Internazionale era un’organizzazione del proletariato mondiale per la
direzione della guerra civile, per la conquista del potere politico, per l’istituzione della dittatura proletaria, per la
creazione di un nuovo ordine nei rapporti economici e sociali. I problemi della rivoluzione, economici e politici,
formavano oggetto di discussione in tutte le assemblee degli operai.
A Torno la sezione del Partito socialista conta 1.500 iscritti ed è organizzata sulla base di nuclei di azienda 1. Alla testa
c’è un gruppo di intellettuali: sono Antonio Gramsci (1881 – 1937), Palmiro Togliatti (1893 – 1964), Umberto Terracini
(1895 – 1983) e Angelo Tasca (1892 – 1960), tutti in età tra i 24 ed i 28 anni. Le migliori forze dell’avanguardia operaia
si riunirono per diffondere un settimanale di indirizzo comunista, L’Ordine Nuovo fondato nel 1919.
È attraverso i continui contatti tra i giovani de L’Ordine Nuovo e gli operai più coscienti della Fiat-Centro (che
raggruppa circa 10.000 operai) che nell’agosto 1919 nasce l’idea dei Consigli di fabbrica. Nelle aziende torinesi
esistevano già prima piccoli comitati operai, riconosciuti dai capitalisti, e alcuni di essi avevano già ingaggiato la lotta
contro il funzionarismo, lo spirito riformista e le tendenze costituzionali dei sindacati. Ma la maggior parte di questi
comitati erano creature dei sindacati: le liste dei candidati per questi comitati (chiamati “commissioni interne”)
venivano proposte dalle organizzazioni sindacali, le quali sceglievano di preferenza operai di tendenze opportuniste che
non avrebbero dato delle noie ai padroni, e avrebbero soffocato in germe ogni azione di massa.
I seguaci dell’Ordine Nuovo perorarono nella loro propaganda in prima linea la trasformazione delle commissioni
interne, e il principio che la formazione delle liste dei candidati dovesse avvenire nel seno della massa operaia e non
dalle cime della burocrazia sindacale. Ogni azienda si suddivide in reparti e ogni reparto in squadre di mestiere: ogni
squadra compie una determinata parte del lavoro; gli operai di ogni squadra eleggono un operaio, con mandato
imperativo e condizionato. L’assemblea dei delegati di tutta l’azienda forma un Consiglio che elegge dal suo seno un
comitato esecutivo. L’assemblea dei segretari politici dei comitati esecutivi forma il Comitato centrale dei consigli che
elegge dal suo seno un Comitato urbano, di studio per l’organizzazione e la propaganda, la elaborazione dei piani di
lavoro, per l’approvazione dei progetti e delle proposte delle singole aziende e perfino di singoli operai, e infine per la
direzione generale di tutto il movimento.
I compiti che essi assegnarono ai Consigli di fabbrica furono il controllo sulla produzione, l’armamento e la
preparazione militare delle masse, la loro preparazione politica e tecnica. Essi non dovevano più compiere l’antica
funzione di cani da guardia che proteggono gli interessi delle classi dominanti, né frenare le masse nelle loro azioni
contro il regime capitalistico.

1
“In ogni azienda esiste un gruppo comunista permanente con un proprio ente direttivo. I singoli gruppi si uniscono a seconda della
posizione topografica della loro azienda in gruppi rionali, i quali fanno capo a un comitato direttivo in senso alla sezione del Partito, che
concentra nelle sue mani tutto il movimento comunista e la direzione della massa operaia” Il movimento torinese dei consigli, Ordine nuovo
anno 1, n. 73.

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L’idea può racchiudersi una una formula, teorica e politica insieme: il moto proletario verso la rivoluzione deve
esprimersi dando vita a proprie istituzioni. Con questa linea gli “ordinovisti” traducevano in italiano i principali
postulati della dottrina dell’Internazionale Comunista e si facevano, in seno al PSI, il principale gruppo
promotore della linea dell’IC.
Le masse operaie torinesi percepirono immediatamente la giustezza di questo indirizzo. La nuova forma organizzativa
si diffuse per tutta l’industria superando così la forma corporativa, divisa per mestieri, che aveva caratterizzato fino ad
allora gli aggregati sindacali. I Consigli si diffusero in tutte le principali fabbriche di Torino e, a metà ottobre del 1919,
si ebbe la prima assemblea dei comitati esecutivi dei Consigli di fabbrica della città in rappresentanza di oltre 30.000
operai. Cio è anche indice del seguito che il movimento suscitato dall’Ordine nuovo aveva raggiunto in pochi mesi. Si
creò così un embrione di dualismo di potere destinato a far emergere l’antagonismo dello scontro di classe.
La scintilla per la prima grande battaglia la offrì l’applicazione dell’ora legale che avrebbe dovuto entrare in vigore con
il 21 marzo 1920, anticipando le lancette dell’orologio di un’ora. Il 22 marzo, alle Industrie Metallurgiche, la
Commissione Interna si oppone e un operaio rimette a posto le lancette che erano state spostate indietro dall’azienda
durante il turno di lavoro. È il pretesto cercato dagli industriali: la Direzione licenzia l’operaio e multa la Commissione
Interna. Il 28 marzo 1920, rispondendo alla sfida padronale, gli operai attuarono lo sciopero bianco. Gli industriali
replicarono con la serrata e fecero occupare gli stabilimenti dalle forze di polizia. Il “Comitato d’agitazione” lanciò lo
sciopero generale. In segno di solidarietà con i lavoratori piemontesi scesero in sciopero i lavoratori di numerosi centri
della penisola. A Genova, Pisa, Firenze, Livorno i ferrovieri manifestarono la loro solidarietà con i compagni torinesi
impedendo il trasporto delle truppe inviate dal governo nella capitale piemontese; i portuali di Livorno e Genova
sabotarono il movimento nei porti.
In questo contesto maturò la (mancata) “scissione di aprile”. Al convegno nazionale del PSI del 21 aprile, i massimi
dirigenti del Partito non intendono raccogliere e rilanciare l’appello che viene da Torino per non compiere “atti
irrimediabili”. Bordiga stesso oppone riserve dottrinarie in quanto un movimento diretto dai Consigli è un movimento
potenzialmente corporativo e quindi in contraddizione con la direzione rivoluzionaria che deve invece essere espressa
direttamente da organismi di partito. A Milano l’isolamento degli ordinovisti è dunque totale: sono i soli a sostenere un
allargamento della lotta. L’unità del gruppo dirigente è rotta ma gli ordinovisti per prudenza o disciplina decidono di
non ingaggiare una lotta aperta.
Nonostante la combattività dei lavoratori, il grandioso sciopero di aprile si concluse con un reflusso per la mancanza di
un Centro che fosse in grado di dirigerlo ed estenderlo e perché i padroni avevano saldamente mantenuto il controllo
degli stabilimenti.

3. Il II Congresso dell’IC
Il primo vero e proprio congresso internazionale dei comunisti fu il II congresso dell’Internazionale Comunista che si
aprì il 19 luglio 1920 a Pietrogrado e dal 23 luglio al 7 agosto tenne le sue sedute a Mosca.
Il Congresso dovette affrontare due deviazioni ideologiche, una a destra e una a sinistra. In molti paesi gli stessi
comunisti, che da poco tempo avevano abbracciato la causa del marxismo rivoluzionario, non si erano ancora liberati
dalle tradizioni opportunistiche ed elettoralistiche della socialdemocrazia. Era questo un pericolo proveniente dal
riformismo di destra, ma non meno pericoloso era il “sinistrismo”, generato dallo spirito di ribellione piccolo-borghese,
come pure dalla naturale aspirazione delle classi lavoratrici a metodi di lotta rivoluzionari, dal loro scontento per
l’opportunismo. Rispecchiando questi sentimenti alcuni dei cosiddetti comunisti di sinistra (Laufenberg e Wolffheim in
Germania, Sylvia Pankhurst in Gran Bretagna eccetera) erano contrari alla partecipazione dei comunisti all’attività

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parlamentare e contro il lavoro sindacale, allora diretto dai riformisti; negavano la necessità di una ferrea disciplina nel
partito e non riconoscevano i principi del centralismo democratico. La linea degli “estremisti” portava alla frattura tra la
avanguardia dei comunisti e la classe operaia e all’isolamento dei partiti comunisti, condannandoli al settarismo.
Grande importanza per la lotta contro il pericolo di destra e la deviazione di sinistra nel movimento comunista mondiale
ebbe lo scritto di Lenin del 1920 L’estremismo, malattia infantile del comunismo. In questa opera classica viene
descritto l’eroico cammino dei bolscevichi russi, il significato storico, valido per tutti i paesi, della loro lotta contro gli
opportunisti di destra, i centristi, i dottrinari di sinistra; viene sottolineato che solo la rottura con l’opportunismo aveva
dato al partito bolscevico la possibilità di ottenere la vittoria nella Rivoluzione d’Ottobre. Il bolscevismo era cresciuto
e si era sviluppato e temprato nella lotta su due fronti, contro l’opportunismo di destra e contro il dottrinarismo
di sinistra. Gli stessi compiti avrebbero dovuto essere affrontati dagli altri partiti comunisti.
L’estremismo, malattia infantile del comunismo divenne il programma d’azione di tutti i partiti comunisti. Le sue
conclusioni furono alla base delle decisioni prese dal II congresso dell’Internazionale comunista.
Partendo dalle posizioni leniniste, il II congresso definì i compiti fondamentali IC: compito principale era la unione
delle forze comuniste, allora frazionate, la formazione di un partito comunista in ogni paese (e il rafforzamento e il
rinnovamento dei partiti già esistenti) per intensificare il lavoro di preparazione del proletariato alla conquista del
potere. La risoluzione del congresso diede risposte adeguate sull’essenza della dittatura del proletariato e del potere
sovietico, spiegò il concetto di preparazione immediata e generale alla dittatura del proletariato e quale doveva essere la
natura dei partiti che già facevano parte o desideravano far parte dell’IC. A questo scopo, il congresso approvò le “21
condizioni” elaborate da Lenin per l’ammissione all’Internazionale comunista. In esse erano indicate le
caratteristiche proprie al partito di tipo nuovo, leninista, e si insegnava l’esperienza storica internazionale del
bolscevismo.
La “bolscevizzazione”, di cui le 21 condizioni erano strumento, significava partito centralizzato basato sulla teoria e
conseguente unità ideologica, disciplina ferrea e centralismo democratico (dentro il Partito ma anche tra il Partito e
l’IC), azione portata ovunque fra le masse (fra i contadini, nei sindacati, nell’esercito). Le 21 condizioni avevano
corollari organizzativi, a partire dal cambio di denominazione in “Partito Comunista sezione del tale paese della III
internazionale”, e dalla clausola di convocare un congresso per l’approvazione delle condizioni stesse che risultasse
anche nell’espulsione di tutti quegli elementi riformisti che si fossero opposti alla loro approvazione. Tra le 21
condizioni compare anche la questione del “lavoro illegale”, cioè della clandestinità, concepita come lavoro parallelo
che deve entrare in azione nel momento decisivo.
Al II Congresso, che avviene nell’estate del ’20, cioè nel pieno del Biennio rosso in Italia, partecipò una nutrita
delegazione italiana. Nella lista compaiono sia Serrati che Bordiga, ma non c’è Gramsci. Sulla linea dell’IC, l’ Ordine
nuovo si era espresso2 ponendo la questione essenziale: la direzione del PSI, malgrado l’intento “massimalista”, era
rimasta prigioniera del riformismo che bloccava la spinta delle masse; si doveva quindi eliminare dal Partito i riformisti
di destra (vedi ad esempio Turati), organizzare e coordinare le forze operaie e contadine in organizzazioni di massa e
“studiare, compilare e diffondere un programma di governo rivoluzionario”.
Serrati nel suo intervento al II Congresso a nome del PSI, rivendicò il diritto del Partito a mantenere il suo “nome
glorioso” ma soprattutto in sostanza espresse la propria contrarietà all’espulsione immediata dei riformisti. Lenin
ribatté: “Noi dobbiamo dire semplicemente ai compagni italiani che l’indirizzo dell’Internazionale comunista
corrisponde all’indirizzo dei militanti dell’Ordine nuovo”, un indirizzo vincolante per la nascente sezione italiana.
Approvate le 21 condizioni, al loro rientro Bordiga e Serrati ricevono un testo, firmato anche da Lenin, sotto forma di

2
Per un rinnovamento del Partito socialista. Cfr volume Ordine nuovo: 1919-1920 pag. 122.

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lettera aperta ai socialisti italiani sulle risultanze del congresso. È una bomba che esplode nel momento in cui la lotta di
classe vive in Italia il suo secondo momento culminante, quello essenziale, dell’agosto-settembre del 1920.

4. L’occupazione delle fabbriche


I fatti di marzo-aprile furono il prologo per un secondo e definitivo scontro. Il 20 agosto aveva avuto inizio
un’agitazione degli operai metallurgici per ottenere un miglioramento sul contratto collettivo nazionale. Il 30 agosto,
per prevenire la serrata che i capitalisti avevano cominciato a realizzare in alcuni stabilimenti, gli operai, forti
dell’esperienza del marzo, passarono all’occupazione delle fabbriche. Durante le occupazioni la direzione delle
fabbriche venne assunta dalle commissioni interne e dai Consigli di fabbrica. Per la prima volta nella storia del
movimento operaio italiano si verificò il caso di un proletariato che ingaggia la lotta per il controllo sulla
produzione, rivendicando cioè la direzione politica delle aziende e senza essere spinto all’azione dalla fame o dalla
disoccupazione. La massa intera dei lavoratori torinesi scese in campo a sostengo di questa lotta e, incurante delle
provazioni e dei sacrifici, la portò fino alla fine delle sue possibilità.
Le dimensioni assunte dall’occupazione delle fabbriche, la manifesta confusione e impotenza della borghesia italiana
posero ancora una volta il Partito socialista e la Confederazione del Lavoro di fronte al dilemma dello sbocco da dare al
movimento. Si sarebbero dovuti riprendere i negoziati con gli industriali, che apparivano pronti ad accogliere le
rivendicazioni dei lavoratori, o si sarebbero dovuti respingere i negoziati ordinando “l’insurrezione generale”? Per
sciogliere questo “nodo” venne indetto a Milano il 10 settembre un nuovo convegno con la partecipazione dei dirigenti
del Partito socialista, dei sindacati e di alcuni rappresentanti dei lavoratori in lotta. Il Partito socialista e il sindacato
cercavano di scaricarsi reciprocamente sulle spalle la responsabilità del movimento. Entrambi avevano di fatto già
scartato la soluzione rivoluzionaria e cercavano quindi di addossare all’altra parte la responsabilità di cercare di frenare
il movimento. La conclusione fu che l’occupazione delle fabbriche doveva avere carattere sindacale e che quindi i
sindacati avrebbero dovuto trattare un accordo con gli industriali e il governo.
Il 23 e 24 settembre si svolse nelle fabbriche occupate un referendum proposto dai sindacati sull’evacuazione o meno
degli stabilimenti industriali. La maggioranza dei lavoratori, demoralizzati dal tradimento del partito e del sindacato, si
pronunciarono favorevolmente e il 25 cominciarono ad abbandonare le fabbriche.

5. La fondazione del Partito Comunista d’Italia


Per migliaia di operai italiani divenne evidente quello che al Congresso di Mosca non era ancora abbastanza chiaro a
diversi dirigenti: la sconfitta registrata dalla classe operaia italiana nell’occupazione delle fabbriche pose in maniera
drammatica e ultimativa il problema della permanenza dei riformisti all’interno del partito socialista e della
natura e della struttura stessa del Partito.
All’indomani dell’occupazione delle fabbriche la linea dell’IC non cambia: “liberarsi della destra”. L’IC cioè vuole
scongiurare che il Partito comunista nasca da una scissione a sinistra, esito a cui invece lavorava Bordiga. Nel PSI si
strutturano le frazioni che dovranno poi contendersi la direzione del Partito al Congresso che avrebbe dovuto definire la
posizione del PSI sulle 21 condizioni. Da una parte la frazione “comunista unitaria” per l’adesione all’IC senza
espellere la destra. I riformisti – la loro roccaforte è Reggio Emilia – respingono apertamente la prospettiva
rivoluzionaria e Turati mette in discussione l’adesione all’IC. La frazione comunista si unifica a ottobre: Bordiga ne è il
capo, l’ispiratore principale e suo organizzatore. Il 15 ottobre bordighisti e ordinovisti firmano un Manifesto
Programma. L’impronta bordighista è prevalente perché l’unica che abbia un’autorevolezza riconoscibile da tutti i

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militanti che si oppongono alla linea riformista – in particolare giovani – della penisola. Gli ordinovisti hanno ormai
scelto – Gramsci per primo: senza Bordiga il Partito comunista non si fa, bisogna accettare la sua direzione.
Nel frattempo la polemica dell’IC con Serrati si fa perentoria. Grigorij Zinov’ev (1883 – 1936), Presidente del Comitato
Esecutivo dell’IC, scrive due lettere a Serrati: “Noi aspettiamo la vostra ultima parola, compagno Serrati!”. Serrati
sostiene l’attacco con fermezza. Nella sua Replica di un comunista unitario rivendica l’autonomia dei partiti nazionali e
esprime dubbi sulla natura della situazione rivoluzionaria.
Quando il 15 gennaio 1921 venne inaugurato al teatro Goldoni di Livorno il XVII congresso nazionale del Partito
Socialista Italiano alla presenza di 3.000 delegati, la sensazione è che “i giochi siano fatti”. La frazione comunista è già
un Partito, Serrati e i massimalisti hanno fatto la loro scelta. I rappresentanti comunisti chiesero che il Partito espellesse
i riformisti, che avevano boicottato in tutte le maniere la rivoluzione italiana, pur dichiarandosi a parole favorevoli alla
rivoluzione. I massimalisti si levarono a difesa del gruppo di destra. Il dibattito fu modesto e caotico ma, alle votazioni,
il 21 gennaio 1921 i massimalisti “unitari” ottennero la maggioranza 3 e le richieste dei comunisti furono respinte. I
delegati comunisti in risposta abbandonarono fisicamente il Congresso al canto dell’Internazionale e si riunirono
al teatro San Marco dove proclamarono la costituzione del Partito Comunista d’Italia, sezione italiana
dell’Internazionale Comunista.
Al nuovo partito aderirono: il gruppo napoletano del Soviet con Bordiga e gran parte della federazione giovanile
socialista, trasformatasi in federazione giovanile comunista; il gruppo torinese dell’Ordine Nuovo con Gramsci e
Terracini, che entrarono a far parte del Comitato Centrale, e Togliatti nominato direttore dell’organo centrale del partito
Il Comunista; alcuni massimalisti di sinistra4.
La direzione dell’Internazionale Comunista concepiva la scissione di Livorno come inizio (o un salto in avanti) nella
costruzione del partito comunista. Nel PCd’I vi erano numerosi non comunisti; nel PSI restavano forze recuperabili.
Gramsci giungerà nel 1923 a collegare la vittoria fascista con il modo della scissione, ad annotare che non essere riusciti
nel 1920-1921 a portare all’IC la maggioranza del proletariato italiano è stato “senza dubbio il più grande trionfo della
reazione”5. Le responsabilità dei comunisti verranno quindi da lui ricercate proprio in quella direzione: l’insufficienza, il
ritardo la mancata preparazione tempestiva di una grande frazione comunista nel biennio rosso e l’astrattezza
dell’impostazione data alla battaglia precongressuale, sotto la guida di Bordiga.

Conclusioni
Il nuovo partito non aveva ancora creato/assimilato e consolidato/verificato come suo proprio patrimonio una capacità
di analisi, di orientamento, di metodo di lavoro, di legame con le masse e di direzione del loro movimento che lo
avrebbe reso effettivamente un partito all’altezza lei compiti posti dalla situazione rivoluzionaria di lungo periodo che
corrispondeva alla prima crisi generale del capitalismo. In breve, non aveva ancora fatto proprio il marxismo-leninismo.
Il partito si dichiarava comunista, ma era ancora lontano dall’essere capace di dirigere, fase dopo fase, la rivoluzione
proletaria.
A causa di questi limiti della sua parte più avanzata, composta dagli ordinovisti, il nuovo partito fu dominato all’inizio
dall’influenza dei bordighisti. Essi avevano una marcata impronta di settarismo, anche se questa impronta esprimeva, in
gran parte, una reazione spontanea che partiva dal basso a quello che era considerato il “tradimento” dei vecchi capi
3
La mozione si Serrati ottiene 98.028 voti, quella “comunista pura” 58.783 e quella riformista 14.695.
4
Il Comitato Esecutivo del Comitato Centrale è composto da Bordiga, Fortichiari, Grieco, Repossi e Terracini. Gramsci è nel CC ma non
nell’Esecutivo.
5
Da un appunto, senza data, ma riferito al 1923, ora in La formazione ecc. p. 102.

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socialisti. Inoltre, Amedeo Bordiga non concepiva il movimento dei Consigli come pratica da cui viene la scienza
del movimento comunista e non li riconosceva neanche come organismi del potere del proletariato. Egli concepiva
giustamente il Partito comunista come centro del nuovo potere, organo del potere (la dittatura del Partito) ma lo isolava
dalla vera fonte del nuovo potere e del nuovo Stato, come se da solo dovesse combattere una lotta contro il vecchio
Stato.
Del resto gli ordinovisti, che erano più avanzati, non si assunsero fin da subito la responsabilità di dirigere il movimento
comunista. Il freno principale era l’errata concezione dei Consigli di Fabbrica. Gramsci aveva capito che il movimento
degli operai era la pratica da cui veniva la scienza che avrebbe guidato il proletariato nella rivoluzione socialista e nel
costruire il nuovo mondo. I Consigli sono l’organismo degli operai avanzati: con i Consigli questi aggregano attorno a
sé la massa degli operai. Ma agli ordinovisti faceva difetto la concezione del Partito come Stato maggiore, un
reparto d’avanguardia di cui fanno parte gli operai comunisti, che aggregano attorno a sé gli operai avanzati .
Complessivamente, non la forza della borghesia ma questi limiti soggettivi, così come non aver mai recepito
pienamente le indicazioni dell’Internazionale Comunista (processo di bolscevizzazione del Partito), che erano specchio
di errori di concezione, impedirono al Partito Comunista di far fronte alla reazione padronale che si andava dispiegando
dopo la sconfitta del movimento di occupazione delle fabbriche e portare a uno sbocco rivoluzionario della crisi.
Negli anni 1921 e 1922 Lenin mise chiaramente in luce in numerose circostanze (es. Lettera ai comunisti tedeschi
(agosto 1921), Note di un pubblicista (febbraio 1922), Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della
rivoluzione proletaria mondiale (novembre 1922)) che i partiti comunisti europei, formati per iniziativa
dell’Internazionale Comunista da frazioni dei vecchi partiti socialisti della II Internazionale, erano “partiti europei di
vecchio tipo, parlamentari, riformisti di fatto, con solo una spruzzatina di colore rivoluzionario” e che avrebbero dovuto
trasformarsi profondamente per diventare capaci di fare la rivoluzione socialista.

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