Sei sulla pagina 1di 102

Il mandolino è quella cosa...

Il mandolino, etimologicamente, è uno strumento più piccolo della mandola; e la mandola pei vocabolaristi è
uno strumento a corde non comune. E’ insita, dunque, nella definizione etimologica, l’umiltà di quello strumento
che prende il nome da un diminutivo ed è più comune di quello dal quale deriva. Più umile ancora se è
napoletano, poiché anche la sua cordiera è ridotta: la mandola ebbe nove o dieci corde, ed il mandolino milanese
ne serbò dieci, mentre il mandolino napoletano ne ha soltanto quattro paia, che in fondo sono un semplice
raddoppio delle quattro corde del liuto primitivo, montatura che in prosieguo crebbe a cinque ed infine alle sei
corde rimaste oggidì alla chitarra. Peggio: il mandolino milanese ha i suoi clubs, le sue società, le sue
accademie, mentre la mandola è confinata tra gli aggeggi da museo; ma il mandolino napoletano non ha clubs,
non ha società, non ha accademie: risente della tabe dissociativa che ammala ed impoverisce i cittadini di questa
città mussulmana del Tirreno: ha cultori isolati, un po’ simili ai citaredi di Viggiano cari alla poesia di Pietro
Paolo Parzanese…
Mandolino e mandola hanno un progenitore nel liuto – c’è dunque anche del darwinismo in fatto di strumenti, ma
in questo caso è darwinismo a rovescio: la scimmia, nella proporzione, sta più al mandolino che alla mandola - e
ne ricopiarono la forma. Poi la chitarra subentrò alla mandola come all’arpa subentrò l’organo. Ma il
mandolino, che se accompagnato dalla chitarra è delizioso, può fare anche a meno della chitarra: individualista
come i suoi concittadini, dunque!
Certo, la pleiade dei mandolinisti partenopei non conta le glorie dei liutisti famosi:sperduti tra le pieghe della
storia musicale, pure se ospitati in case principesche, valgono da meno: più manipolo di zingari che compagnie
disciplinate; più epigoni assetati di lucro che di gloria!………..

(Piedigrottino Mandolimario 1925, Casa Editrice E.A.Mario, Napoli


...Struttura costruttiva del Mandolino

La cassa armonica è quella parte di una strumento che serve per dare forza e pienezza ai suoni,
rinforzandone le armoniche ed arricchendone così il timbro.
Nel mandolino, la cassa ha una forma assimilabile a quella di una mezza pera tagliata, ha nel mezzo
uno sviluppo circolare di circa trenta centimetri, e può essere di lunghezza variabile intorno ai
305mm - 320mm
La parte convessa è formata da un sistema di stecche dette doghe, curvate ed incollate fra loro, di
numero variabile da tredici a più di trenta, costruite in legno di acero o palissandro ed intervallate da
filettature di faggio sulle giunte. Le stecche si costruiscono anche concave (doghe scannellate), cioè
alleggerite da sgusciature longitudinali, e possono talora trovarsi congiunte da filettature metalliche,
tali mandolini sono i più costosi.
Internamente il fondo a doghe è foderato di trucioli o di carta sottile per dare più resistenza al fondo,
caratteristica che però influisce negativamente sulle capacità sonore dello strumento rendendolo più
chiuso e nasale.
L'ideale, per ottenere un buon risultato sonoro, sarebbe che una cassa avesse poche doghe, largamente
sgusciate, nessun intarsio, pochi sostegni interni, e che la fodera interna fosse sostituita da piccole
striscette di pioppo sulle giunture, ma è chiaro che la ricerca del liutaio stia proprio nel trovare il giusto
compromesso tra estetica, sonorità e solidità. Vale però la pena di sottolineare la diversa funzione della
cassa armonica fra il violino ed in generale tutti gli strumenti ad arco ed il mandolino ed in generale
tutti gli strumenti a pizzico con la cassa a “mandorla”. Nel violino il fondo è la maggior parte radiante
che viene messa in movimento sincrono a quello della tavola dall'anima, in modo da evitare
smorzamenti sonori causati da differenze di fase, mentre nel mandolino il fondo ha invece una
funzione riflettente ed è stato studiato volutamente rigido.
La parte piana che chiude il fondo è invece costituita da una tavola di abete rosso, che nel modello
lombardo a ponticello fisso risulta piana, mentre in quello napoletano viene piegata trasversalmente in
prossimità del punto in cui verrà appoggiato il ponticello mobile. La tavola armonica è rinforzata
all'interno da un numero variabile di catene orizzontali, di solito tre, posizionate in punti strategici,
spesso in prossimità della buca e nel modello napoletano, ad esempio, se ne può trovare una proprio
sotto la piega, sicché la tavola possa resistere meglio alla pressione esercitata dalle corde.

La tavola è provvista di una buca di forma ellittica o circolare rinforzata da una rosetta che si trova,
nella maggior parte dei casi, dove finisce la tastiera, anche se in alcuni mandolini di concezione
moderna viene addirittura attraversata dalla stessa.
Le ff del violino e la Buca del mandolino possono avere in comune la funzione di relazione e
comunicazione fra l'aria interna dello strumento e quella esterna, si differenziano totalmente, però, oltre
che per la posizione ed il taglio, nella loro funzione principale: per le ff quella di isolare la parte centrale
della tavola permettendone la massima libertà di vibrazione, nella buca il convogliare all'esterno il
suono riflesso dal fondo rigido. A dimostrazione di questa tesi vi sono numerosi tentativi di utilizzo di
ff, anche posizionandole sulle fasce, o di altri buchi di risonanza negli strumenti a pizzico, che hanno
sempre riscontrato risultati deludenti.

Buchi di risonanza sopra il ponticello, brevetto Calace

E' ritenuto che verniciare la tavola influisca negativamente sulle prestazioni sonore dello strumento, per
questo motivo il piano armonico non viene quasi mai, se non erroneamente, verniciato. La verniciatura
si usa per tutte le altre parti, esclusa la tastiera, servendosi di un tampone imbevuto in una soluzione di
spirito, resine e gommalacca.
Per lo scudo, modernamente definito anche battipenna, e per gli altri ornamenti ad intarsio con i quali
s'abbelliscono i mandolini di pregio, si usa spesso avorio, tartaruga o celluloide e madreperla.
Il manico del mandolino è lungo pressapoco quaranta centimetri, viene costruito solitamente in legno
di pioppo impiallacciato o dipinto di nero e viene fatto in due pezzi, posteriormente il suo profilo può
essere più o meno arrotondato a seconda dei modelli e raccordarsi alla cassa più o meno in profondità.
Nel mandolino classico romano ed in alcuni napoletani si ha generalmente una sagoma a 'V', mentre la
maggior parte degli strumenti contemporanei hanno un profilo del dorso più simile ad una 'U'.

Esempio di manico con profilo ad “U” Esempio di manico con profilo a “V”
In quasi tutti i mandolini moderni il manico è inoltre munito al suo interno di un tirante metallico
regolabile con un dado a brugola il quale, oltre ad aumentarne resistenza e robustezza, permette di
controllarne la curvatura in senso longitudinale per compensarne la tendenza ad imbarcarsi sotto la
tensione delle corde.
La tastiera che viene costruita con legni duri come l'ebano o il palissandro, in modo che possa offrire
ulteriore resistenza all'insieme, è tastata e suddivisa per semitoni, spesso abbellita con intarsi
segnaposizione d'osso o madreperla al quinto, settimo, decimo e dodicesimo tasto. Ogni tasto è
ricavato da un segmento di profilato metallico a T incastonato in un'apposita fessura intagliata nella
tastiera con una strettissima tolleranza. Anticamente il metallo utilizzato era l'ottone crudo sagomato a
mano, una lega malleabile facile da lavorare ma soggetto ad una rapida usura a contatto con le corde.
Oggi il metallo che costituisce i tasti è una lega di alpacca al 18% di nickel oppure acciaio inox.. Il
numero di tasti può variare dai 17 dei modelli da studio ai 29 dei mandolini da concerto a tastiera
prolungata; molti strumenti di concezione moderna, grazie all'innesto che lascia fuori dal corpo una
porzione più lunga di manico, offrono una migliore accessibilità al registro acuto. Il capotasto, una
sbarretta d'osso posta a capo della tastiera, precisamente sagomata e scanalata, determina spaziatura ed
altezza sulla tastiera delle quattro coppie di corde, ed è uno dei due capi insieme al ponticello per
determinare la lunghezza della corda vibrante, o diapason, che nel mandolino spazia tra i 330mm del
Mandolino classico fino ai 350mm di molti strumenti moderni.
Nel Mandolino, inferiormente le corde sono ancorate ad una bottoniera, in metallo; all'altro capo ai
piroli rotanti della meccanica o a bischeri in legno infilati nella paletta.
La meccanica è formata da un rocchetto metallico dentato, su cui ingrana, una vite senza fine d'acciaio.
Per evitare eccessivi logorii rocchetto e vite devono essere lavorati in metalli di uguale durezza e i denti
vanno sagomati sul passo micrometrico della vite in modo che i due piani combacino perfettamente e lo
sforzo sia così ridotto al minimo e l'apparecchio risulti stabile in qualsiasi posizione venga fermato. I
piroli devono sporgere pochissimo dalla paletta ed alloggiare perfettamente nei loro fori d'uscita. Un
ottimo ausilio alla stabilità della meccanica è rappresentato dall'inclinazione della paletta: quanto più
l'angolo che essa fa col manico s'accosta al retto, tanto minore sarà la tensione esercitata dalle corde
sulla meccanica e sui piroli, perché la forza di tensione viene scomposta.
Il ponticello del mandolino napoletano e di quello romano, è una sottile
struttura in legno di profilo piramidale sormontata da un sottile filetto
di osso o di ebano tramite la quale le corde trasmettono la vibrazione
alla tavola, è essenziale che la base del ponticello combaci
perfettamente con la tavola al fine di offrire la massima superficie di
contatto e la massima trasmissione della vibrazione.
Il modello lombardo, monta un ponticello fisso incollato sulla tavola
più simile a quello di una chitarra.
I moderni mandolini montano corde di acciaio armonico, un metallo estremamente elastico.
I calibri possibili espressi in centesimi di pollice sono:
per il cantino da .009 fino a .015, per il la da .014 a .016, per il re .022 fino a .026 e per il sol da .032 a .041
Le prime due corde mi e la sono in acciaio nudo, in genere stagnato, argentato o dorato mentre la terza
e la quarta sono filate, cioè avvolte da una sottile spirale di filo metallico che ne aumenta la massa
conservandone le capacità vibratorie. L'avvolgimento può essere di filo di rame argentato, ottone,
bronzo, bronzo fosforoso, acciaio al carbonio, nickel o nickel/cromo; ogni metallo apporta differenti
caratteristiche fisiche che si rispecchiano in diverse sfumature timbriche.: il rame argentato è morbido
al tatto, produce un suono relativamente dolce, ma è soggetto ad una rapidissima usura ed è
praticamente ormai in disuso, il nickel dà un suono deciso e bilanciato ed ha una buona durata, l'acciaio
al carbonio, un suono forte e brillante, un grande volume ed un'ottima durata, l'ottone e il bronzo
hanno un timbro brillante e pastoso e una media durata, il bronzo fosforoso riproduce un suono aperto
e sono di lunga durata, ma le corde di quest'ultimo tipo hanno bisogno d'un periodo d'assestamento
per ridurne l'asprezza iniziale, inoltre sia l'ottone che il bronzo che il bronzo fosforoso sono di solito
associati a calibri un po' più grossi e quindi sono più indicate per i mandolini scavati dal massello più
robusti e dalla sonorità più percussiva. Recentemente sono state messe in commercio corde avvolte che
presentano un'ulteriore rivestimento sintetico per aumentarne scorrevolezza e durata.
Quando l'avvolgimento costituisce lo strato più esterno, la corda è denominata “round wound” e
produce un suono argentino, carico di armoniche, mentre quando questo è a sua volta rivestito da un
secondo strato metallico nastriforme, la corda detta “flat wound” emette un suono meno brillante, ma
con la fondamentale più in evidenza a tutto vantaggio della pulizia e della definizione del suono.
...An unsung Serenader

Al pari di molte delle strutture formali sviluppate durante il rinascimento, il concetto di gruppo
graduato o “famiglia” come principio ordinativo per gli strumenti musicali fu del tutto abbandonato
nel XVII secolo. I membri che sopravvissero di queste famiglie, valutati e sviluppati per il loro timbro
piuttosto che come elementi di un tutto, furono quelli che si trovavano agli estremi dell'estensione del
gruppo. Un esempio lampante è dato dalla scomparsa della famiglia della viola, che rese possibile tutta
via alla tenace viola da gamba di svolgere per molto tempo un ruolo significativo, sia come strumento
solista, che per il basso continuo. Anche la famiglia del liuto non sopravvisse intatta; l'aggiunta di un
grande numero di corde consentì agli ingombranti arciliuti di sopravvivere come strumenti per il basso
continuo, ma condusse infine ad un inevitabile scomparsa dovuta all'eccessiva sofisticazione. A quei
tempi la necessità di uno strumento soprano a pizzico era, tuttavia, assai sentita. I limiti della piccola
mandora tollerata per alcune generazioni come liuto quasi soprano, come strumento di gruppo vennero
allora sopravvalutati, Dice a questo riguardo l'abate Mersenne nel suo Armoniae Universelle scritto a
Parigi nel 1636: “...essa si imponde (n.d.a. la mandora) a tal punto all'orecchio che i liuti difficilmente
possono essere uditi”; essa trovò migliore accoglienza nella nuova sensibilità musicale del barocco.
Mersenne dà tre intonazioni alternative nell' “ordinaria intavolatura” per la mandora come possiamo
vedere nell'esempio sottostante:

----la---------------- ----la---------------- ----la-----------------


----si-----la--------- ----fa-----la--------- ----mi-----la---------
-----------fa------la- -----------fa------la- ------------fa------la-
-------------------si- -------------------si- ---------------------si-

La prima di queste è anche riportata, in data piuttosto tarda, da Walther (Lexicon 1732) che dà
l'intonazione seguente: sol re sol re. 'estensione di questa semplice mandora a quattro cori che fu presto
estesa a cinque e, più comunemente nel XVIII secolo, a sei cori: “...quelle con sei o più corde, le migliori
per imitare il liuto, sono dette Mandores Luthèes ...” Non si sa con certezza aquando venne usato per la
prima volta il termine mandolino; esso contivide l'etimo di mandora e mandola, derivati
dall'italiano”mandorla” per analogia di forma con il frutto e deve il diminutivo al suo più grande
predecessore, la mandola, forse per lo stesso processo che qualificò il violino come piccola viola.
“...A prescindere da come e da dove sia stato originato il termine “mandolino” la questione dell'origine
dello strumento resta un enigma. Ciò deriva in gran parte dalla lista apparentemente senza fine dei tipi
di mandolino, che si legge un po' come il menù dei piatti di spaghetti in una trattoria locale:
Milanese, Napoletano, Fiorentino, Siciliano, Genovese, Romano, Padovano, Veneziano, e come i piatti
di spaghetti, questi diversi strumenti sono poco più che varianti locali su due temi di base, vale a dire il
milanese ed il napoletano ed il cui sviluppo ha più a che fare con questioni di orgoglio cittadino che con
significativi vantaggi esecutivi...” (K.Coates – da Early Music, gennaio 77)

Curt Sachs nel suo “Reallexicon der musikinstrumentes” del 1913, rende conto delle caratteristiche di
questi “ibridi regionali”, delle loro peculiarità ed avanza ipotesi circa le loro accordature.
Ma torniamo ad i due tipi fondamentali. Come già accennato, la mandora continuò ad esistere nel XVIII
secolo come mandolino milanese, costruito in molte città d'Italia ed anche in Francia.

La famiglia di liutai rinomata per la produzione di questi strumenti fu quella dei Presbler che vissero
ed operarono a Milano, “...Doveva essere uno strumento molto popolare giacché ne sopravvivono molti
esemplari, fatto indubbiamente dovuto alla ricchezza delle cesellature ed al fascino civettuolo delle
miniature. E' interessante anche il fatto che frequentemente si trovano a coppie contrapposte come
pistole da duello, destinate molto probabilmente all'uso domestico, forse nello stesso senso...”
(K.Coates – da Early Music, gennaio 77)

Un delizioso dipinto di Pietro Longhi che si trova a Brera, “Il concerto” mostra due mandore /
mandolini milanesi suonati assieme: una rara raffigurazione.

L'altro importante tipo di mandolino del XVIII secolo , il solo strumento con fondo simile al liuto
tuttora in uso, è il mandolino napoletano. Vero figlio del suo tempo, esso è la combinazione tipicamente
barocca di idee prima separate: l'intonazione del violino con l'armatura del liuto, la forma e la tessitura
della mandora, il fondo della tavola inclinato e l'ancoraggio delle corde tipici della chitarra battente.
Queste due ultime caratteristiche del sistema d'incordatura, la tavola inclinata con fissaggio al fondo e
paletta con bischeri rivolti all'indietro, non furono comunque senza precedenti nella costruzione di
mandolini, potendosi trovare già nel mandolino genovese, una variante battente del mandolino
milanese dei primi del XVIII secolo.
E' facile capire perché venne fatta tale sintesi nel mandolino napoletano: l'efficacia dell'intonazione per
quinte del violino era di enorme vantaggio per l'esecuzione melodica, particolarmente in Italia dove
molti grandi compositori erano virtuosi di violino, le cui idee non avrebbero potuto essere facilmente
realizzate sul mandolino milanese intonato come il liuto, una disposizione più adatta all'intavolatura
che alla notazione sul pentagramma, fondamentale nella prassi esecutiva barocca.

Il corpo più profondo del mandolino napoletano è la tavola armonica, che agevola l'uso di corde
metalliche o di un insieme di corde di seta ricoperte di metallo e di corde di budello capaci di una
maggiore sensibilità di intervallo tonale e di potenza di suono, tanto necessaria per un piccolo
strumento che si trovava circondato da orchestre d'opera e da oratorio, o in contrapposizione ad esse
nei concerti strumentali.

E' quasi un mistero la questione relativa alla prima apparizione del mandolino napoletano.
Citazioni del mandolino, in opposizione alla mandora, apparvero in Italia all'inizio del XVIII secolo, le
prime apparizioni furono in melodrammi ed oratori come strumento obbligato si trovano in “Marte
placato” di Ariosti del 1704, nel “Gioseffo” di Conti del 1700 e nel “Teraspo” di Bononcini del 1709.
In Inghilterra il mandolino comparve per la prima volta nel 1713 nel concerto “Col Mandolino, uno
strumento molto in voga a Roma, ma mai presentato a questo pubblico” tenuto dal maestro Sodi.

I più antichi mandolini napoletani comunque sembra siano stati sviluppati nel famoso laboratorio della
famiglia Vinaccia, che operò a Napoli, durante il XVIII e XIX secolo, e che a partire dalla terza decade
del 1700 iniziò a costruire le mandole. I primi strumenti di Antonio Vinaccia restano i migliori mai
realizzati.

Le più antiche date trovate nei mandolini Vinaccia giunti fino a noi sembrano situarsi intorno al 1760.
La diversità di date può essere facilmente spiegata se si tiene conto che ogni menzione al mandolino
prima del 1750 si riferisce al tipo milanese a cinque o sei corde. Se, comunque, la stessa musica
anteriore 1750 viene accuratamente esaminata, è probabile che si riscontri che in molti casi era richiesto
uno strumento intonato per quinte come il violino.

L'oratorio Giuditha del 1714 composta da Vivaldi, per esempio, contiene una squisita aria in re
maggiore per soprano con mandolino obbligato che fa uso di figurazioni violinistiche di ottave
spezzate alternate da un passaggio in scala discendente. Con l'intonazione per quinte ciò comporta
l'uso di due corde adiacenti; inoltre la figurazione ritorna una quinta più bassa. Con tale scrittura, uno
strumento intonato come il violino può rendere l'essenziale effetto aereo di permettere a più di un coro
di vibrare contemporaneamente, nel mentre evita la pratica per nulla idiomatica, di dover saltare corde
intermedie con il plettro.

Un esempio simile si trova nel concerto in do maggiore dello stesso compositore, dove al mandolinista
si richiede di seguire una serie di veloci ottave spezzate, con almeno la stessa facilità con cui esse
vengono realizzate dai violini che accompagnano.
Ciò fa sorgere la discussa questione di quale mandolino intendesse Vivaldi, poiché il mandolino
milanese / mandora a sei corde ( il tipo a quattro corde era stato abbandonato nel XVII secolo) non era
in realtà adatto per l'esecuzione di queste composizioni, e nello stesso tempo non abbiamo notizia, i
questo periodo, di alcun mandolino accordato come il violino. A questo punto dobbiamo almeno
considerare la possibile esistenza di un certo tipo di strumento, ora scomparso, di transizione o, in
alternativa, di un'intonazione di transizione. In tali casi di anello mancante, i dipinti possono essere una
testimonianza inestimabile, ma come prima accennato, mandole e mandolini sono soggetti
sorprendentemente scarsi nei dipinti.
Viene comunque alla mente il quadro “Attributi della musica” del grande Jean Baptiste Simèon
Chardin, che dipinse molti soggetti musicali, molti dei quali sono sfortunatamente andati perduti.

Questa tela del periodo tardo di Chardin 1765, mostra molti strumenti musicali contemporanei: violino,
corno, tromba, cornamusa ed un piccolo strumento a pizzico che sembra essere un comune mandolino
napoletano: la tavola armonica con quattro paia di corde è chiaramente inclinata verso la nostra
direzione, ma se lo sguardo legge il disegno da sinistra notiamo che non c'è alcun caratteristico
battipenna e che la buca è inaspettatamente occupata da una rosa intagliata, al di sopra della quale il
legno della tavola prosegue nella tastiera. Quest'ultima caratteristica, sebbene spesso presente in liuti e
chitarre, è rara nel mandolino napoletano, ma è presente in un logoro, ma interessante ed antico
Vinaccia, datato 1753, trovato a Venezia, queste caratteristiche non si trovano in altre successive opere
della famiglia e come lo strumento di Chardin, questo Giovanni Vinaccia conserva le più agili
proporzioni della mandora essendo leggermente più piccolo perfino del piccolo modello utilizzato da
Antonio Vinaccia nel 1760.
Forse l'esempio più interessante di mandolino a quattro cori, più antico degli strumenti di Vinaccia e
Fabbricatore che si trovano nei musei di strumenti musicali, è fornito dall'eminente liutaio Antonio
Stradivari, che pare abbia dedicato parte del suo genio a progettare strumenti a pizzico, tra cui vari
mandolini e mandole. Sebbene non vi sia certezza sulla sopravvivenza di questi strumenti, infatti alcuni
anni fa un frammento di mandolino venne erroneamente attribuito a Stradivari da un antiquario di
Londra, la prodigiosa fama ed il rispetto che Stradivari acquisì per il lavoro incessante svolto durante
tutta la sua vita, ha assicurato la sopravvivenza di una rilevante collezione di sagome, modelli cartacei,
figure, disegni. Questi coprono un insieme sorprendentemente vasto di strumenti a corda, di forme
molto diverse e spaziano da ampi modelli di costruzione fino a particolari decorativi. Fra i modelli
cartacei che illustrano mandolini, riportiamo quello relativo al profilo del manico e del cavigliere di un
mandolino.

Questo è di tipo a voluta a “S” aperta, terminante in un ricciolo; soluzione comune in Stradivari al
problema del cavigliere quando non non scolpisce una delle sue squisite ed inimitabili volute; è una
scelta abbastanza comune nel periodo che si può trovare su molte mandore e strumenti “milanesi” ma,
laddove questi avrebbero dovuto presentare a quel tempo dieci o dodici fori di piroli per lo strumento a
cinque o sei cori, tale cavigliere prevede solo otto piroli per un mandolino a quattro cori.
L'esistenza del mandolino a quattro cori è del resto ampiamente documentata dalla letteratura musicale
dell'epoca: si pensi alle partite di Filippo Sauri (1700 intavolate per uno strumento con l'accordatura:
sol re la fa, oppure al riferimento di Tommaso Motta nella sua ”Armonia Capricciosa di Sonate Musicali
da Camera”, al mandolino a quattro, cinque o sei cori. Nel manico, in questo modello cartaceo in cui è
riportata la posizione per nove tasti, si trova inscritto per mano del liutaio Omobono, figlio di Antonio:
“misura del manicho del mandolino della forma nova”.

Indipendentemente dal fatto che la sua comparsa fosse annunciata o meno da qualche strumento
precursore, lo strumento napoletano ha soppiantato i suoi altri cugini mandolini a far data dalla
seconda metà del XVIII secolo, contando sul notevole vantaggio di poter disporre di un florido mercato
tra i violinisti del tempo. Il mandolino era, a quei tempi, uno strumento prevalentemente italiano, ma la
sua fama, nonché il suo utilizzo, si stava diffondendo.

Il compositore della corte di Dresda Johann Adolf Hasse, conosciuto in Italia come “Il Sassone”, scrisse
un piccolo grazioso concerto, così espressivo del carattere del mandolino, durante la sua permanenza a
Napoli (1724-1730). Pure Haendel visitò l'italia e dovette soccombere al fascino del mandolino: unì
infatti il timbro del mandolino a quello dell'arpa per evocare la “Lira d'oro” di Apollo, in una deliziosa
aria per soprano del suo oratorio Alexander Balus, rappresentato per la prima volta al Covent Garden
nel marzo del 1748. Se il fascino evocativo e la grazia del suono assicurarono al mandolino un posto
nell'orchestra barocca, fu la stessa attrattiva estetica dello strumento a determinarne la scomparsa dal
palcoscenico.
Ahimè! Nessuna fase dello sviluppo del mandolino, avrebbe potuto dimostrarsi più limitante: il fatto di
essere suonato sempre nell'ambito di serenate, marchiò lo strumento di un'immagine e funzione
destinate a decadere con l'idea stessa e con la qualità della serenata. La magia deve sempre svanire, per
il fatto stesso d'esser stata considerata tale, e questo palcoscenico di sognante irrealtà non doveva
sopravvivere alle turbolenze politiche e sociali della fine del secolo.
Sfortunatamente sopravvisse a tale cataclisma uno strumento rozzo, volgarizzato, da strada, che
riecheggia alla mente comune come “il mandolino”.

La forma raffinata, diciamo barocca del mandolino napoletano, ebbe allora un'esistenza piuttosto breve
e malinconica. Perfino in un illustre laboratorio come quello della famiglia Vinaccia, la perfezione
dapprima raggiunta nella concezione e nella fabbricazione dello strumento dal grande Antonio
Vinaccia, si deteriorò gradualmente fino a che la minor qualità nella fattura dello strumento si
accompagnò al contemporaneo declino del suo status sociale. Dopo questa caduta in disgrazia, nelle
due decadi e oltre durante le quali lo strumento ottenne pieno beneficio dall'arte liutaria, il suo corpo
minuscolo tanto più piccolo di quello del suo moderno rozzo discendente, fu riempito di ricche
decorazioni in osso, ebano, gusci di tartaruga laminati in oro, madreperla, corno e lacche.
Il legno parsimoniosamente usato per intarsi era solitamente di prima scelta e, nel caso delle costolature
scanalate, scolpito fino ad un trasparente spessore cartaceo. In breve alla stregua di molti strumenti
popolari del tempo, esso divenne un oggetto d'arte e di moda in quanto strumento musicale, nesso che
non doveva durare più a lungo della sobrietà di progetto dello strumento classico, a causa del crescente
orientamento verso una produzione a macchina e l'assemblaggio industriale.

Oltre che per le caratteristiche fisiche di dimensione e peso e per il fascino estetico, il mandolino
“barocco” differisce dal suo discendente moderno nella scelta delle corde e nella tecnica esecutiva.
Dapprima lo strumento ebbe in parte o in tutto corde di budello e seta attorcigliata, mentre le corde
completamente metalliche divennero prassi consolidata probabilmente a seguito dell'adozione di
meccaniche di metallo durante il XIX secolo.

Il mandolino napoletano venne sempre suonato con un plettro, mentre il “milanese” poteva essere
suonato con le dita o con la penna.
Michel Corrette nel suo “Nouvelle Méthode pour apprendre à jouer en très peu de tems la madoline“
del 1764, raccomanda l'uso della penna di corvo; un'altra autorità, Leone, un napoletano autore di
metodo per mandolino del 1770, suggerisce che le scaglie del guscio d'ostrica sono il materiale ideale
per i plettri e consiglia di lasciarle ruvide in punta al fine di rendere il suono profondo e vellutato. Non
si sa con certezza quando venne usato per la prima volta il guscio di tartaruga, con la sua caratteristica
flessibilità ed elasticità, per pizzicare le corde: Bertolazzi, virtuoso di mandolino, consiglia nel suo
metodo (1805) l'uso della scorza di ciliegio; ma il guscio di tartaruga, materiale già ampiamente
utilizzato nella decorazione di strumenti, doveva certamente essere di uso corrente.

A prescindere dal materiale del plettro, il mandolino venne dapprima utilizzato solamente nello stile “a
pennata”; il “tremolo”, sebbene già menzionato da Mersènne nel 1636 in riferimento alla tecnica
esecutiva in uso per la mandola, non venne usato sul mandolino fino alla fine del XVIII secolo, ed in
ogni caso solo come ornamento occasionale da usare con discrezione. Fu solo quando la scrittura per
mandolino cessò di essere idiomatica e gli esecutori smisero di essere selettivi nella scelta e
nell'adattamento dei brani che il diffusissimo “tremolo” divenne una sfortunata caratteristica del modo
popolare di suonare il mandolino. L'incapacità di sostenere una nota rappresentava talvolta una sfida
per l'esecutore e un problema per il compositore che fu pertanto costretto a mantenere la linea musicale
in costante movimento. A dispetto di ciò, l'articolata chiarezza del mandolino esercitò sicuramente un
certo fascino sui compositori del XVIII secolo, e molti vennero invogliati a scrivere per il suo timbro
unico ed argentino.

Verso l'inizio del XIX secolo il centro dell'attività mandolinistica si spostò a Vienna e Praga dove, al pari
della chitarra, sia il mandolino napoletano che una nuova e piuttosto panciuta variante del milanese a
corde singole, furono per breve tempo molto richiesti per le esecuzioni private di musica classica. Molti
restarono sorpresi nel sapere che Beethoven scrisse per il mandolino; sebbene la sua ispirazione non sia
stata esclusivamente musicale visto che due delle quattro composizioni rimaste furono scritte per una
graziosa fanciulla amante del mandolino, il risultato si dispiega in umori fortemente contrastanti e,
fortunatamente, nessuno di questi brani è in forma di serenata.

La scrittura per mandolino di Beethoven, nonostante la necessità di un fraseggio sostenuto che


caratterizza l'adagio, è sempre idiomatica.
Sfortunatamente lo stesso non può dirsi per l'accompagnamento; Beethoven specifica che non si tratta
di pianoforte ma alquanto anacronisticamente di clavicembalo. La combinazione timbrica è deliziosa
ma il fraseggio richiesto dal compositore nella parte del clavicembalo tradisce l'approccio del pianista,
non familiare alle qualità espressive del cembalo.

La giovane donna al cui fascino sono debitori i mandolinisti era la bella Joséphine, contessa di Clary. La
piccola “Sonatina in Do maggiore” e l ”Andante con variazioni in Re maggiore” furono scritti per lei,
mentre la “Sonatina in Do minore” ed il grazioso “Adagio, ma non troppo in Mi bemolle maggiore”
sono dedicati all'amico Wenzel Krumpholtz, virtuoso di mandolino e violino. Lavori su scala più ampia
vennero intrapresi dell'insegnante di Beethoven, Hummel, che scrisse un Concerto nel 1799 dedicato al
virtuoso Bortolazzi che si trovava a Vienna per uno dei suoi molti viaggi per concerti compiuti nel nord
Europa e una “Grande Sonata per il Clavicembalo o Pianoforte, con accompagnamento di Mandolino o
Violino Obligato”. Come suggerisce il sottotitolo, il tastierista ha la parte del leone, poiché questa parte
era destinata all'esecuzione dal parte dello stesso Hummel, che la suonò per primo insieme al
dedicatario del pezzo, il Signor Fr. Mora de Malfatti, mandolinista e medico di Beethoven. Un altro
compositore, piuttosto misterioso, che scrisse per il mandolino fu un tale (perché sembra che ce ne
siano stati più di uno) Johann Hofmann; consapevole della moda per l'italianità egli cambiò il proprio
nome in Giovanni e scrisse un concerto di brillante virtuosismo, come pure almeno quattro quartetti
(mandolino, violino, viola e liuto) ed un certo numero di trii e brevi brani con il mandolino e la chitarra,
abbastanza popolari a Vienna.
Un membro della famosa dinastia dei Giuliani, Giovanni Francesco, ci ha lasciato almeno sei quartetti
“in miniatura” con la stessa strumentazione, più altre composizioni da camera ed un concerto per due
mandolini viola e orchestra d'archi, tre raccolte di quartetti si trovano alla Biblioteca del Seminario
Arcivescovile di Lucca, la quarta è alla Biblioteca degli amici della musica di Vienna. A dispetto di tale
popolarità, il mandolino non sopravvisse a lungo oltre il XVIII secolo, almeno nel nord Europa. Verso
la metà del XIX secolo lo strumento era caduto in tale oblio che Berlioz ebbe a dolersi nel suo ”Traitè
d'Instrumentation” del 1843, che in tutta Parigi non si poteva trovare un solo mandolinista per
accompagnare Don Giovanni, tanto che perfino all'Opèra il povero Don Giovanni doveva cercare di
sedurre la cameriera di Donna Elvira con il solo ausilio di un violino pizzicato, il che, come lo stesso
Berlioz afferma, non è affatto la stessa cosa. L'ironia e la futilità di un mandolino trascinato sul
palcoscenico come un attrezzo scenico senza vita, mentre il suo suono viene imitato da un violino
pizzicato, non possono ritengo, essere ignorate in qualsiasi storia dello strumento. Questo grottesco
incidente simboleggia il destino del mandolino: valorizzato per le romantiche associazioni evocate dalla
sua immagine, ma denigrato per la grazia chiara e semplice della sua voce, il mandolino, come un
clown di Watteau, diventa null'altro che una drammatica parodia della gioia che dovrebbe trasmettere.

(K.Coates – da Early Music, gennaio 77)


...L'Evoluzione del Mandolino

Fino all'inizio del novecento, il mandolino napoletano era fornito di corde di budello e chiavi in legno,
come era uso nella chitarra prima dell'introduzione delle meccaniche e dell'evoluzione delle corde. Lo
strumento risultava però difficilmente accordabile e le corde avevano breve durata.
L'introduzione delle corde metalliche prima in ottone e poi in acciaio e l'invenzione della meccanica
moderna si devono alle intuizioni di Pasquale Vinaccia (Napoli, 1806), capostipite della famosa
famiglia di liutai partenopei e artefice delle più significative migliorie tecniche dell'attuale mandolino.
Altre importanti evoluzioni sono da attribuirsi ad un'altra importante famiglia di costruttori
napoletana: i Calace. Raffaele Calace fu un famoso compositore e concertista di mandolino, fondatore
dell'omonima fabbrica di strumenti musicali, nella quale poterono confluire tutta la sua esperienza e il
suo ingegno.
La fabbrica Calace brevettò un mandolino speciale che differiva dai comuni mandolini per la forma
della cassa a corazza, per la ricopertura che isolava la tavola armonica dal braccio di chi suonava
permettendo una migliore e più libera vibrazione, per la forma della buca con il fianco dritto, per un
battipenna più stretto e due buchi al di sopra del ponticello per la risonanza; la tastiera era
classicamente divisa in bianco ed in nero per facilitare l'insegnamento e l'esecuzione, il fermacorde, ad
otto bottoni per dare l'indipendenza alle corde, la tavola armonica, scura lucida, non si sporcava e non
subiva alterazioni atmosferiche, la costruzione era solidissima ed impeccabile.
L'uso principalmente ornamentale del mandolino che succede all'emigrazione dall'Italia meridionale in
terra Statunitense di moltissime famiglie in cerca di fortuna rende sempre più questo strumento un
oggetto da collezione o d'arredamento, ed il il fatto che venisse valutato più per la profusione
d'ornamenti che per le sue caratteristiche sonore, fa sì che gli artigiani si sbizzarriscano in delle vere e
proprie opere d'arte, strumenti di indubbio fascino e suggestione, ma estremamente chiusi e poveri dal
punto di vista timbrico e quindi poco interessanti per il musicista professionista o il concertista che
doveva suonare lo strumento, utilizzarlo per esibirsi in pubblico e quindi necessitava di caratteristiche
sonore migliori.
E' un esempio affascinante di questi strumenti da collezione il mandolino che vediamo nella foto
costruito da Angelo Mannello in occasione dell'Esposizione Universale di Strumenti Musicali di Buffalo
avvenuta alla fine dell'ottocento per il quale venne insignito il massimo riconoscimento.

Tutto la strumento eccetto il piano armonico è completamente coperto d'intarsi in avorio e tartaruga
Ecco un altro splendido esempio sempre a firma Angelo Mannello

Un dettaglio del fascione, è evidente la complessità artistica ed artigianale dell'intarsio in avorio


Ecco un altro esempio interessante questo magnifico strumento costruito da Umberto Ceccherini

I musicisti Italiani dell'inizio del secolo scorso erano soliti, invece, scegliere strumenti molto semplici
per ciò che concerne la rifinitura, non permettendosi nemmeno un minimo d'intarsio e d'appariscenza.
I loro strumenti migliori avevano il piano armonico in legno d'abete, la cassa armonica in acero ed il
manico generalmente in pioppo impiallacciato di ebano o palissandro o tinto di nero.
La tavola non era quasi mai verniciata, infatti si riteneva che verniciarla potesse intaccare le proprietà
acustiche dello strumento.
In Memorie d'un Mandolinista di Samuel Adelstein, il celebre professore musicista americano,
descrivendo gli usi del tempo presso i liutai italiani, dice:

“...Quando scelgono la tavola, prima ch'essa venga a far parte dello strumento, i liutai italiani hanno un
modo assai curioso di saggiare le qualità vibratorie e di risonanza del legno: colpiscono violentemente
il legno con un diapason e la durata delle vibrazioni determina la qualità ed il valore della tavola...”

“...ci sono persone interessate solo al proprio commercio che spingono i liutai di questo paese (n.d.a.:
U.S.A.) , ma anche quelli europei a costruire strumenti con rifiniture assai ricercate, intarsi ecc.
In Italia vi sono alcuni liutai che , se il compratore lo desidera, costruiscono su ordinazione strumenti
ricercati, con ornamentazioni e abbellimenti tali da raggiungere il prezzo di centinaia di dollari. Si
costruiscono però anche modelli di tutt'altro genere, assolutamente semplici, in legno d'acero e senza il
minimo ornamento (anche la rosetta essendo d'ebano). Questi sono chiamati mandolini da concerto
solista e sono fatti su espressa ordinazione per i solisti. Sarebbe un'eccellente idea se alcuni dei nostri
principali liutai seguissero l'esempio, e non c'è il minimo dubbio che un mandolino costruito con cura,
completamente privo d'ornamenti e con legno accuratamente selezionato, avrebbe un suono di gran
lunga superiore sia per dolcezza che per qualità e potenza in confronto allo stesso strumento decorato e
appesantito con metallo, avorio, madreperla...”

Anche il marchese Accorretti nel suo Studio sulla costruzione del mandolino napoletano nel capitolo
dedicato alla costruzione della cassa armonica dice: “si rileva però subito che la costruzione della cassa
a doghe contrasta in modo stridente con le principali qualità che distinguono e si ricercano nei legnami
di risonanza, ossia l'omogeneità e la continuità della fibra, che le stecche, invece, interrompono ad ogni
tratto. Esse inoltre, se non sono sgusciate, mal si prestano a formare pareti sottili ed elastiche quali si
convengono agli strumenti caratterizzati da voce acuta e squillante ed allo speciale timbro delle corde
di acciaio di infimo calibro, e risulteranno sempre più o meno, un ammasso di legno, di filettature, di
colla e di carta formanti un tutto certamente solido, ma greve, massiccio e perciò sordo...la cassa ideale
e teoricamente perfetta, ricavata da un sol pezzo di legno e sottilissima, non potrebbe farsi se non
superando enormi difficoltà, nulla impedisce di accostarvisi il più possibile formandola con un numero
di doghe minimo, larghe e sgusciate; asserzioni queste che faranno arricciare il naso a parecchi, a tutti
coloro cioè le cui indagini non hanno mai oltrepassato quel poco che è scritto nelle prefazioni dei
metodi e nei cataloghi illustrati...la sgusciatura delle doghe non è un ornamento ma è il mezzo per
conciliare la leggerezza della cassa alla solidità, la quale in questo caso è data dalle costole che si
formano nel punto di unione di due stecche consecutive...”

ed ancora: ”Vi siete mai domandati a cosa serva lambiccarsi il cervello per rintracciare legni speciali e
talvolta anche rari e preziosi, se poi l'onore del primo amplesso con le onde sonore nell'interno della
cassa è riservato al vile truciolo o alla carta da imballo?...”
...Differenze tra il Mandolino Napoletano e il Mandolino Lombardo

Esteticamente il mandolino lombardo e quello napoletano si assomigliano abbastanza nella forma,


ma sono invece le caratteristiche strutturali, a farne due strumenti completamente differenti.

Il Mandolino Lombardo è dotato di una tavola armonica piana su cui viene incollato un ponticello
fisso, proprio come nelle moderne chitarre classiche. E' dotato di sei corde singole che originariamente
erano tre di minugia o budello e tre di seta fasciate di filo di rame argentato; quelle di budello
servivano per i suoni più acuti ed erano di tre differenti diametri che decrescevano in funzione della
maggior altezza del suono che dovevano emettere, venivano numerate dalla prima, quella più acuta
detta anche cantino, alla sesta più grave.
La tastiera è divisa in diciannove tasti ognuno corrispondente ad un semitono: al quinto tasto si trova in
ciascuna corda l'unisono di quella che segue, tranne che nella sesta che ha l'unisono al quarto tasto,
mentre al settimo tasto si trova invece l'ottava della corda che precede, eccezion fatta per la quinta
corda il cui intervallo d'ottava rispetto alla sesta ha luogo nel tasto ottavo. Il dodicesimo tasto, invece,
corrisponde all'intervallo di ottava di ciascuna corda considerata singolarmente.
La tastiera del mandolino lombardo si estende dal sol sotto il rigo con due tagli in collo, prodotto dalla
sesta corda vuota, al mi sopra il rigo con sei tagli in collo, che si ottiene premendo il ventesimo tasto del
cantino.

Come si può evincere dallo schema le sei corde vuote del mandolino sono: sol, re, la, mi, si, sol
Tra la sesta e la quinta corda intercorre un itervallo di terza maggiore, tra le altre, l'intervallo
corrisponde ad una quarta giusta.
L'origine del mandolino napoletano si fa risalire alla metà del XVII secolo; in questo periodo sembra
stesse incominciando la sua produzione la celebre casa Vinaccia.

I primi mandolini avevano corde di budello e chiavi in legno e la tastiera di quattordici o quindici tasti
si estendeva fino al re acuto solamente.
Ne sono un esempio alcuni strumenti costruiti dai Vinaccia Gaetano e Vincenzo tra il 1770 ed il 1779,
anche se è da precisare però, che dai medesimi costruttori, nello stesso periodo, venivano già costruiti
mandolini la cui tastiera si estendeva fino al la come è d'uso nei mandolini moderni.
Nel Mandolino Napoletano la tavola non è piana, bensì piegata all'altezza del ponticello in modo da
poter meglio sopportare la pressione delle corde, il ponticello è mobile come era d'uso nella chitarra
barrente.
Ha otto corde intonate all'unisono due a due (quattro corde doppie), i cantini sono di filo sottile di
acciaio, le seconde sono sempre d'acciaio ma di un diametro maggiore, le terze e le quarte d'acciaio
rivestito di filo di rame argentato.
I tasti sono diciassette, corrispondenti ad un semitono ciascuno, in corrispondenza del quinto si trova
per ciascuna paio di corde l'ottava del paio precedente, al settimo tasto, l'unisono del paio che segue. Al
dodicesimo tasto si compie l'ottava di ciascuna corda vuota.
La tastiera del mandolino napoletano si estende dal sol sotto il rigo con due tagli in collo sulle quarte
corde vuote, al la acuto sopra il rigo con quattro tagli in collo, in corrispondenza dell'ultimo tasto dei
cantini.

Le corde vuote del mandolino napoletano come abbiamo detto sono accordate all'unisono a gruppi di
due, intonate ai suoni mi, la, re, sol. Ciascun paio di corde dista dall'altro un'intervallo di quinta giusta.
(n.d.a. Come nel violino)
Il mandolino napoletano

Il mandolino a quattro corde doppie è conosciuto anche con il nome di Mandolino Romano, essendo a
Roma molto diffuso. I liutai romani in generale, specie nel passato, costruivano i mandolini a quattro
corde doppie con la tastiera leggermente convessa ed il manico triangolare ( a “V”), invece che
rotondeggiante (a “U”). Sono questi i segni caratteristici del mandolino romano. Inutile dire che
essendo perfettamente identici nella tastiera non differivano per nulla nello studio e nella pratica.
...un Mandolino di Stridente?

Il mandolino che ci troviamo ad analizzare contiene un'etichetta che si riferisce ad un certo Masspacher
Un grande fabbricante-rivenditore parigino di inizio '900 chiamato Paul Beuscher, importava e poi
distribuiva gli strumenti di parecchie città italiane con il nome di Masspacher.
Ne rileviamo la presenza nell' “Archives commerciale de la France” dove, a pagina 52, viene citato come:

Versailles 866 Masspacher et Cie — Instruments de musique — 20 ans — 80,000 fr.— Paris 695
Si ha notizia certa, fin da 1908, dell'importazione e della vendita, ad esempio, di molte fisarmoniche tra
cui le prime Paolo Soprani a 36 "bassi" che provenivano da Castelfidardo, di alcuni violini italiani e di
molti mandolini napoletani dai quali era solito però rimuovere l'etichetta originale per sostituirla con
quella del suo negozio, e questo sfortunatamente sembra proprio essere il nostro caso.

La forma tipica del mandolino napoletano, il disegno delle decorazioni intorno alla buca e delle
incisioni sulla meccanica, l'uso di gommalacca per i riempimanti tra gli intarsi della buca, la forma della
paletta ci hanno riportato subito alla mente lo stile di Vinaccia e dei grandi maestri partenopei che
operarono a cavallo tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, e quindi la possibilità che questo
mandolino potesse essere stato costruito appunto in Italia e non in Francia come avrebbe voluto farci
pensare l'etichetta al suo interno. I fratelli Vinaccia erano però soliti utilizzare carta bianca carta bianca
per ricoprire l'interno del guscio e questa è una prima differenza rispetto al nostro strumento.

Lo stile molto ricco con molte doghe scannellate intervallate da intarsi d'argento la grande profusione
d'ornamenti e di decorazioni, l'uso di legni esotici come il bois de rose per il bordo del fascione ed il
palissandro indiano per il guscio tipico degli artigiani napoletani di inizio novecento e di materiali
pregiati come la tartaruga nello scudo e nell'impiallacciatura del manico e della madreperla per gli
intarsi oltre che le ottime condizioni di conservazione ci suggeriscono inoltre che questo fosse uno
strumento importante e costoso, sicuramente suonato poco o non suonato del tutto, destinato
certamente alla collezione e non ad un uso musicale o concertistico.
La fortuna ci venne incontro quando sfogliando il catalogo della liuteria dei fratelli Lodi di Modena ci
sembrò di riconoscere quello che, a tutti gli effetti, sembrava il gemello dl nostro strumento in
questione.
Ne riportiamo di seguito anche una foto a colori che può render meglio l'idea della straordinaria
somiglianza con lo strumento che ci approcciamo ad analizzare

Eccezion fatta per il taglio della paletta, la forma ed il disegno dello scudo e l'incisione sulla meccanica i
due strumenti sono identici.
Paragonandolo poi con altri mandolini che hanno conservato al loro interno l'etichetta originale di
“Stridente”, le molte analogie riscontrate ci inducono a ritenere che il nostro strumento possa avere
qualcosa in comune con quelli che vennero prodotti nella piccola fabbrica napoletana.
Sembra quindi ormai aperta una possibilità riguardo all'artefice dello strumento
che potrebbe essere appunto, Stridente...ma è solo un'ipotesi.
Purtroppo il tempo ha cancellato qualunque notizia riguardo alla fabbrica di mandolini e chitarre
“Stridente”, sappiamo che era una piccola fabbrica di scuola Vinaccia, sappiamo l'indirizzo desunto
dall'etichetta, ovvero Napoli, via Antonio, 22; ma l'ironia della sorte volle che anche la via nella quale
sembra sorgesse la fabbrica non esista più e che nessuno all'archivio storico della città sappia più dare
alcuna ulteriore informazione a riguardo.

Molti liutai si sono trovati ad effettuare riparazioni o restauri di strumenti di Stridente, ma anche loro
non hanno saputo dire nulla di preciso che ci potesse aiutare ad isolarne un contesto storico e
biografico. Non sappiamo chi effettivamente lavorasse in questa fabbrica e possiamo solo desumerne lo
stile vicino a quello di Pasquale e d Achille Vinaccia a posteriori. Siamo riusciti a trovarne menzione
soltanto sul “Dizionario dei costruttori di strumenti a pizzico in Italia dal xv al xx secolo” di Giovanni
Antonioni a pag 137 e sui tre cataloghi di aste londinesi, due di Phillips e uno di Sotheby's da lui citati.
Descrizione:

La paletta ha una forma sinuosa con un foro decorativo nella parte più alta, è impiallacciata in tartaruga
o celluloide e ornata esternamente da un bordo di madreperla che prosegue lungo tutto il profilo del
manico. Le meccaniche sono in alpacca decorate ad incisione
Il manico ha diciassette tasti in argentone, il quinto, il settimo, il decimo ed il dodicesimo sono abbelliti
da un intarsio in madreperla.
Il retro del manico è impiallacciato con una sottilissima pellicola di celluloide o tartaruga.
La tavola armonica è in abete rosso, piegata, com'è consuetudine nel mandolino napoletano all'altezza
del punto dove viene appoggiato il ponticello. La buca è di forma ellittica
Il filetto esterno è composto da segmenti di madreperla intervallati da filetti in legno.
Internamente, la decorazione a motivo floreale dell'intarsio in madreperla è affiancata dai due lati da
filetti in legno. Questo tipo di ornamento è utilizzato anche intorno alla buca, nella quale però viene
abbandonato il motivo floreale a favore di una forma più grafica di decorazione.
Lo scudo che potrebbe essere di tartaruga o celluloide.. L'intarsio dello scudo è in madreperla.
Il guscio è composto da ben trentacinque doghe scannellate costruite in palissandro indiano,
intervallate da filetti in argentone, la ricopertura interna è di truciolo o carta marrone, il fascione è in
palissandro indiano con i bordi in bois de rose.
La Bottoniera a quattro bottoni è in alpacca.
I.P.I.A.L.L. "Antonio Stradivari" – Cremona
Condition Report

Strumento: Mandolino napoletano


Costruito da: Artigiano sconosciuto di scuola Vinacciana
Luogo e Data: Napoli, primi del '900
Proprietario: M° Orlandi Ugo

Note sullo stato di conservazione:

Lo strumento ci è arrivato smontato e si presenta in buono stato.


Il ponticello, che ci perviene disgiunto dallo strumento, è composto da una base ottimamente
conservata in ebano con una parte piana che appoggia sulla tavola, la striscetta d'osso su cui
appoggiano le corde è invece consumata.
La tavola presenta una crepa sul punto di giunzione del filetto nella parte inferiore inferiore in
prossimità della cordiera. Su gran parte della superficie della tavola evidenziamo la presenza di
macchie probabilmente dovute all'umidità o alla presenza di muffa.
Lo scudo, che potrebbe essere in celluloide o tartaruga ,non presenta grossi segni d'usura.
Lo stucco di gommalacca che riempie gli spazi fra gli intarsi nel contorno della buca presenta delle
piccole crepe. I filetti che contornato la tavola sono in buono stato. La tastiera non ha grandi segni di
usura, eccezion fatta per l'intarsio laterale in madreperla del VI tasto leggermente fuori posizione.
L'impiallacciatura del manico si ben conservata, il capotasto in osso è solcato nel punto in cui verrebbe
sormontato dalle corde. Le doghe del guscio non mostrano grandi cedimenti e nessun danno evidente.
Ci sono alcuni segni provocati da urti che segnano alcune doghe e alcune concavità che rendono un po'
più fragile il guscio, ma non rovinano la struttura dello strumento.
Il manico non presenta segni di cedimento, pur essendo lievemente incurvato, la paletta è in buono
stato, l'impiallacciatura in tartaruga è graffiata, il contorno in madreperla è in condizioni discrete, ci
sono dei segni di colla. Le meccaniche sono in buone condizioni e funzionanti, una delle impugnature
in madreperla delle chiavette risulta un po' rovinata, la placca in argentone che chiude la meccanica
dietro la paletta è in ottimo stato di conservazione così come la bottoniera alla base della tavola, sempre
in argentone.

Materiali:

La tavola è in Picea Excelsa (abete rosso)


Il guscio è in Dabergia Latifoliae (palissandro Indiano)
le doghe scannellate sono intervallate da filetti in argentone, lo stesso materiale utilizzato per la
fabbricazione della placca delle meccaniche e della bottoniera.
Il fascione è in palissandro Indiano con i bordi più chiari in Bois de Rose.
Il manico e la paletta sono in Pioppo ricoperto da una sottilissima impiallacciatura di celluloide o finta
tartaruga, materiale utilizzato anche per lo scudo battipenna.
Gli intarsi, le decorazioni del manico, la goccia del manico sono in madreperla, Il materiale di
riempimento negli intarsi della buca è stucco di gommalacca
B - Larghezza massima della tavola armonica R - Diametro della buca
D - Lunghezza della tavola armonica S - Dist. tra il bordo esterno del ponticello ed il bordo della cassa
F - Altezza T - Larghezza massima della paletta
J - Spessore del manico al IX tasto U - Larghezza della tastiera al capotasto
L - Spessore del maico al I tasto V - Larghezza della tastiera al congiungimento con la cassa
M - Lunghezza della paletta Y - Larghezza ponticello
O - Lunghezza totale dello strumento X - Altezza Ponticello
P - Diapason corda vibrante Z - Spessore ponticello

B - mm 190,5
D - mm 305 (199 mm fino alla piega e 106 mm dalla piega alla bottoniera)
F - mm 140
J - mm 25
L - mm 18,8
M - mm 147
O - mm 600
P - mm 333
R - mm 40 (larghezza mm 71)
S - mm 106
T - mm 67
U - mm 27,4
V - mm 36,4
Y - mm 125
X - mm 7
Z - mm 4,4

Ecco un paragone con le misure di un mandolino di :

Pasquale Vinaccia del 1884 e con uno firmato dai fratelli Vinaccia del 1906

B - mm 198,5 B - mm 199
D - mm 320 D - mm 305
F - mm 132 F - mm 140
J - mm 22 J - mm 22,5
L - mm 19 L - mm 18,6
M - mm 144 M - mm 150
O - mm 577 O - mm 600
P - mm 330 P - mm 330
R - mm 41,5 R - mm 47
S - mm 120 S - mm 116
T - mm 69 T - mm 72
U - mm 28,6 U - mm 27
V - mm 37,4 V - mm 37
Y - mm 112 Y - mm 115
X - mm 6 X - mm 6
Z - mm 4,7 Z - mm 8

NOTA: Tutte le misure sono rilevate con calibri, eccezion fatta per le misure “B”, “D”, “F”, “O” e “
che sono state rilevate con un metro flessibile
Analisi stilistica

L'origine poco chiara del nostro strumento, che non ci permette di attribuire ad un liutaio specifico la
paternità dello stesso, ci porta a confrontarlo con la scuola liutaia napoletana a cui più si avvicina.
Il periodo storico e il contesto stilistico fanno pensare ad un possibile allievo della celeberrima scuola
Vinaccia.
I Vinaccia erano una delle più importanti fabbriche di liuteria napoletana che abbiano mai lavorato a
Napoli.
L'importanza di questa fabbrica è documentata in numerosi cataloghi e in saggi che nel corso degli
ultimi duecento anni hanno portato a numerosi studi sugli strumenti che furono costruiti dalle abili
mani degli artigiani che lavoravano in quel tempio della liuteria napoletana(inserire citazione sulla
conferenza del cnsrc). Le prime etichette trovate risalenti ai Vinaccia sono quelle di Gennaro
Vinaccia,capostipite della longeva famiglia,e sono risalenti ai primi anni del'1700.
Come molti altri liutai napoletani i Vinaccia non si limitavano a strumenti a pizzico ma costruivano
anche numerosi strumenti ad arco ispirandosi al modello dei Gagliano.

Mandolino Vinaccia
Le similitudini con il nostro strumento confrontandolo con uno strumento vinaccia, non si limitano alla
mera questione della articolazione degli intarsi,la incredibile somiglianza che li accomuna, ma anche ad
un discorso di modello, che nell'ambito storico coincide portando ad una riflessione sulla possibile
influenza della scuola Vinaccia sull'autore dello strumento.

Qui è possibile notare la forte somiglianza degli intarsi sulla buca,questo non necessariamente significa
che l'autore degli stessi abbia lavorato nella bottega dei Vinaccia essendo diffuso in quel periodo
l'acquisto da parte dei liutai napoletani della madreperla lavorata in filetti presso artigiani intagliatori
che si occupavano appunto di simili lavori. L'intarsio veniva poi fissato nel filetto apposito tramite uno
stucco di pece e gomma lacca che veniva poi lucidato con cera e pietra pomice rendendolo un tutt'uno
con l'intarsio.

Particolare del foro armonico del nostro mandolino


Mandolino Stridente Mandolino Vinaccia

Qui abbiamo a disposizione due strumenti degli autori che stiamo prendendo in analisi;il primo è uno
Stridente, una ditta napoletana di fine '800 inizio '900, molto somigliante allo strumento che abbiamo
utilizzato per la prova strutturata, il secondo,invece, è un Vinaccia.
Sono molte le somiglianze fra i due strumenti: stessa attaccatura della tastiera alla tavola armonica e
allo zocchetto superiore, stessi motivi sui filetti in madreperla che contornano la tavola e la buca.
Certo, non sono una prova certa del possibile contatto fra le due ditte ma le possibilità che Stridente
possa essere stato un allievo di Vinaccia non sono poche.
Mandolino Stridente Mandolino Achille e Pasquale Vinaccia

Qui è possibile vedere altri due strumenti per una prima analisi. Il primo è uno Stridente; il secondo è
dei fratelli Achille e Pasquale Vinaccia, i due fratelli da cui Stridente avrebbe potuto prendere
ispirazione per eseguire i propri lavori. Come si può notare dalla foto il primo strumento segue il
modello del secondo apportandogli qualche modifica come l'attaccatura dello zocchetto superiore e
della tavola al manico che è spostata in posizione abbassata rispetto al Vinaccia. La buca assume una
forma più ellittica e meno circolare portando ad un prolungamento della tastiera su di essa
probabilmente per celare una possibile catena.
Il disegno del battipenna è molto simile e i filetti benché più ricchi ricordano molto lo strumento del
confronto.
Questo può essere un segno del discostamento dalla scuola Vinaccia, quasi a voler dimostrare di poter
migliorare maggiormente il modello di base da cui prende spunto per eseguire i propri lavori.
A differenza del primo esempio, che è effettuato su strumenti antecedenti a questi ultimi, stridente
tiene, in questo caso, una maggiore sobrietà dei materiali aumentando però la qualità manuale del
lavoro cercando forse di enfatizzare l'aspetto più musicale dello strumento. Il fatto che questo
strumento in particolare abbia all'interno il cartiglio dell'autore fa pensare che lo strumento potesse
essere destinato ad un cliente italiano o napoletano, perché a differenza del nostro strumento e di quella
analizzato nella pagina precedente la maggior sobrietà suggerisce un utilizzo strumentale.
Ma allora perché negli strumenti precedenti, quelli più ricchi e maestosi, il cartiglio è sostituito con
quello del commerciante?
Alla fine dell'ottocento la famiglia Vinaccia era il fornitore ufficiale della famiglia reale del regno
Borbonico e quindi teneva il monopolio di tutti gli strumenti di un certo valore,ovvero quelli decorati
con materiali rari e molto costosi,rendendo quindi molto difficile la vendita e la produzione di
strumenti simili a Napoli da rivali e concorrenti.
Essendo in Francia uno dei più grandi mercati musicali del periodo ed essendo presente un notevole
interesse per la liuteria napoletana artistica, il monopolio vinaccia ha creato un afflusso maggiore di
questo tipo di strumenti al nord, sotto, ovviamente, a condizioni vantaggiose per i commercianti.
Quindi un liutaio probabilmente sapeva che il prezzo da pagare per poter vendere strumenti simili
poteva essere, per esempio la rimozione del proprio cartiglio con la sostituzione di quello del
commerciante che poteva quindi far pubblicità al proprio magazzino.
Qui abbiamo per un analisi finale i due strumenti che ci hanno portato a tante
speculazioni.
Il primo, già utilizzato per i precedenti confronti, è lo Stridente, il secondo è il
nostro strumento.
...Esame Radiografico

I raggi X furono scoperti, per caso, dal Prof. Roentgen, una sera del Novembre 1895.
Roentgen studiava i fenomeni associati al passaggio di corrente elettrica attraverso gas a pressione
estremamente bassa. Stava lavorando in una stanza oscura ed aveva avvolto accuratamente il tubo di
scarica in uno spesso foglio di cartone nero per eliminare completamente la luce, quando s'accorse che
uno schermo ricoperto da un lato di cianuro di platino e bario, una sostanza fluorescente, posto
casualmente su di un tavolo vicino, appariva fluorescente in prossimità del tubo.

Spiegò il fenomeno come dovuto all'emissione, dal tubo di scarica, di raggi invisibili che eccitavano la
fluorescenza. Egli scoprì anche che, per mezzo di tali radiazioni, era possibile fotografare anche le parti
interne degli oggetti. Ad esempio era possibile fotografare la struttura ossea della mano a causa della
maggiore attenuazione che i raggi X subivano da parte delle ossa rispetto a quella relativa agli altri
tessuti.
Le fotografie ottenute facendo attraversare oggetti e persone dai raggi X vennero chiamate radiografie.

Come la luce, le onde radio e i raggi gamma, i raggi X appartengono al gruppo delle radiazioni
elettromagnetiche.
Hanno una lunghezza d'onda compresa approssimativamente tra 10 nanometri (nm) e 1/1000 di
nanometro.

I raggi X con una lunghezza d'onda superiore a 0,1 nm sono chiamati raggi X molli.
A lunghezze minori, sono chiamati raggi X duri.
I raggi X duri si affiancano ai raggi gamma, più energetici, ma differiscono da essi per due importanti
aspetti:
a) i raggi gamma hanno origine dal nucleo atomico, mentre i raggi X vengono generati in seguito a
variazioni degli elettroni orbitali e dall’interazione elettrone-campo nucleare;
b) mentre i raggi gamma hanno energie discrete definite (spettro discontinuo), i raggi X presentano una
distribuzione continua di energia.

Per generare i raggi x viene comunemente utilizzata una macchina detta gruppo radiogeno,
nella quale un polo negativo catodo ed uno positivo anodo si trovano in condizione di vuoto spinto. E'
un sistema poco efficiente in quanto solo il 2% dell'energia prodotta si trasforma in raggi x e non viene
dissipato in calore.
L'intensità della radiazione dipende dal flusso degli elettroni prodotti dal catodo e viene regolata
tramite una manopola che regola i mA variando il grado d'incandescenza del filamento; è inoltre
possibile regolare il lasso di tempo in cui deve avvenire l'irraggiamento.

Il tubo radiogeno è una ampolla di vetro sotto vuoto spinto, che contiene un catodo e un anodo ad alta
tensione. Il catodo (o polo negativo), come nelle normali valvole termoioniche, a sua volta è composto
dal filamento riscaldatore (alimentato a bassa tensione) e dal catodo vero e proprio collegato al circuito
ad alta tensione.
L'anodo (polo positivo) invece, situato al polo opposto dell'ampolla, è costituito da un disco obliquo di
metallo pesante (per i tungsteno per i tubi diagnostici tradizionali, molibdeno o rodio per i tubi usati in
diagnostica senologica ). L'anodo può essere anche detto anticatodo.
Il tubo radiogeno è contenuto a sua volta in una guaina metallica (generalmente di alluminio, con
schermature di piombo) riempita di olio dielettrico:l'olio consente sia di dissipare il calore generato dal
tubo in funzione, che di garantire l'isolamento elettrico tra i contatti esterni di anodo e catodo. Scopo
della guaina è sia di protezione meccanica, sia di assorbire alcune delle lunghezze d'onda dei raggi X
emessi dal tubo che non sono utili agli scopi preposti.
I tubi radiogeni emettono una radiazione X di molte lunghezze d'onda diverse, cioè policromatica: tali
lunghezze d'onda dipendono sia dal tipo di metallo del disco anodico sia, soprattutto, dalla tensione di
funzionamento: quanto più la tensione è alta, tanto più breve è la lunghezza d'onda dei raggi X
(radiazione più dura, più penetrante): mentre operando a tensione più bassa si avranno raggi X molli
meno penetranti. Inoltre, aumentando la corrente aumenta proporzionalmente l'intensità della
radiazione emessa: l'operatore deve quindi regolare questi parametri a seconda delle necessità.
Ogni materiale di diversa densità attenua, anche in base al suo spessore, il fascio di raggi x, ne consegue
che sulla pellicola ne arrivino in ogni punto quantità diverse: più raggi riescono ad attraversare il
materiale più la pellicola risulterà scura, più ne verranno dissipati o assorbiti, su un punto, più questo
risulterà bianco.

Rispetto all'impiego ospedaliero vengono utilizzate potenze molto basse e tempi di esposizione molto
più lunghi, ad esempio per il corpo di un violino si utilizzerà una potenza i 37/38 KV per un tempo di
65 secondi, per la testa una potenza di 47/48 KV sempre per 65 secondi poiché il maggior spessore è
più difficile da attraversare. Nel caso del nostro mandolino il problema è rappresentato dall'enorme
quantità di materiali molto densi utilizzati per gli intarsi come la madreperla e la tartaruga e per
l'argentone con cui è fatta la meccanica della paletta. La radiazione non riesce a passare attraverso
questi materiali che di solito rendono soltanto sulla pellicola varie sfumature di bianco; è quindi
necessaria una potenza dai 32 ai 38 KV ed un tempo di più d'un minuto.
Per effettuare l'esame radiografico dello strumento ci siamo avvalsi di un gruppo radiogeno
della ditta Gilardoni, modello “Radiolight”.
numero di matricola: 05011044

di seguito le specifiche tecniche

Alimentazione - 220 V ; 50 Hz
Potenza - 06 KVA
Tensione Massima - 80 KV
Corrente Massima - 5mA

Tubo n° 31/068

Lo sviluppo è avvenuto su lastre di diverso formato:

Per il corpo dello strumento: 30 x 40 Kodak Medical X-Ray Film


(lotto:2702040120 – ref:1290527)
Per manico e paletta: 24 x 30 Kodak XDA Plus
(ref: CAT1319540)
E' stata utilizzata per lo sviluppo della lastrauna soluzione acquosa composta da:

SVILUPPO - 150cc di FERRANIA LIFE RAYS APS DEVELOPER in 1300cc di acqua


FISSAGGIO - 300cc di FERRANIA LIFE RAYS APS FIXER in 1000cc di acqua

L'esame comincia in camera oscura dove si prendono le lastre vergini e si mettono in buste di plastica
nera in modo che non filtri nemmeno un filo di luce, basta pochissimo infatti perché la luce s'imprima
sulla pellicola rovinandola irrimediabilmente. A questo punto si raggiunge il laboratorio scientifico per
effettuare la radiografia. La stanza dove è situato il gruppo radiogeno dev'essere schermata per evitare
la diffusione dei raggi . Sotto al gruppo radiogeno c'è un tavolo in piombo; un materiale abbastanza
denso per bloccare il passaggio delle radiazioni. La lastra viene appoggiata, senza rimuoverla dalla
busta, sul tavolo di piombo e sopra le viene appoggiato lo strumento da radiografare; un'asse
telescopico sul gruppo radiogeno dà il punto centrale di esposizione ai raggi.
Coperta con una lastra di piombo la parte di lastra inutilizzata per poterla riutilizzare in seguito, si
mettono dei segnalini numerati in piombo che con la radiazione s'imprimeranno sulla pellicola per
poter riconoscere le lastre, fra tutte le altre, dopo lo sviluppo. A questo punto si esce dalla stanza
schermata e si raggiunge il pannello di controllo della macchina.
Per il corpo del mandolino utilizzeremo una potenza di 32Kv per un tempo di 75 secondi.
Per il manico e la paletta una potenza di 38 Kv erogati per 60 secondi.
Regolati opportunamente i parametri della macchina accendiamo la luce rossa dando così inizio alla
radiografia.
Il contatore della potenza ha una doppia scala una fino a 50 KV l'altra da 50 ad 80 Kv, si passa dall'una
all'altra scala tramite l'interruttore.
Quando la luce verde è accesa significa che la macchina è accesa ma non sta emettendo raggi
Quando la luce rossa è accesa significa che la macchina è in funzione e sta irradiando.
Alla fine dell'esame si prendono le lastre e si portano n camera oscura per lo sviluppo.
La soluzione di FERRANIA LIFERAY APS HQ DEVELOPER e acqua viene messa in una bacinella
a fianco, in un'altra bacinella metteremo la soluzione di FERRANIA LIFE RAY APS FIXER e acqua, una
terza bacinella contiene acqua per il risciacquo delle lastre.
In condizioni di buio totale, illuminati dalla sola luce rossa, si estraggono le lastre una per volta dalle
buste e si lasciano, sempre una per volta, 15 / 20 secondi nella prima bacinella che svilupperà
l'immagine.
Se accendessimo la luce n questo momento, questa s'imprimerebbe sulla pellicola cancellando
l'immagine.
Passati i venti secondi si mette la lastra nella seconda bacinella, quella del fissaggio e vi si lascia per 150
secondi, successivamente si sciacqua abbondantemente la lastra con acqua e si appende perché possa
asciugare qualche ora.
Grazie a questa radiografia è possibile evidenziare la posizione delle tre catene dello strumento: una sopra e
due sotto la buca con angolazioni opposte. Poiché il metallo non viene attraversato dalla radiazione sono
bene in evidenza anche i filetti di argentone fra le doghe. Il fatto che anche gli intarsi presenti sullo scudo, sul
manico, sulla paletta e sui filetti non siano stati passati dai raggi ci induce a ritenere che il materiale con cui
sono stati costruiti sia madreperla che ha un'altissima densità; contrariamente emergono per lo stesso motivo
dei dubbi sull'originalità della tartaruga, che potrebbe essere invece celluloide. Rileviamo la presenza di tre
viti sotto la bottoniera infilate nello zocchetto inferiore e di un diamantino sulla giunta del piano armonico.
In questo ingrandimento le tre viti sotto la bottoniera infilate nello zocchetto inferiore.
Più in alto con le fibre orizzontali, il diamantino di sostegno sulla giunta della tavola.
L'utilizzo di una lastra scaduta, ha reso difficile lo sviluppo ed il risultato è un po' più scuro di come
dovrebbe essere.

Non sono presenti elementi rilevanti. Non sono stati evidenziati interventi di restauro. La placca in
argentone delle meccaniche risulta bianca, la sottilissima impiallacciatura del manico presenta delle
sottilissime linee verticali, il colore ci suggerisce che non si tratta di un materiale molto denso, poiché
nonostante lo spessore del manico il complesso appare scuro.

Cogliamo l'occasione il maestro Negroni ed il maestro Vaia per la gentilezza e la disponibilità dimostrata.
...Lampada di Wood

Per lampada di Wood o luce nera (Luce di Wood o Black light in Inglese) si intende una sorgente
luminosa che emette radiazioni elettromagnetiche prevalentemente nella gamma degli ultravioletti ed
in misura trascurabile nel campo della luce visibile.
Fu inventata da un fisico di Baltimora, il dottor Robert W. Wood, nel 1903 e fu impiegata per la prima
volta in medicina nel 1925 per la diagnosi delle infezioni dermatofitiche del capillizio.
La luce di Wood è una luce ultravioletta (UV), generata da un arco di mercurio ad alta pressione,
corredato da un filtro di silicato di bario e ossido di nichel al 9%, il quale consente l'emissione selettiva
di luce UV di lunghezza d'onda compresa fra 320 e i 400 nm.

L'osservazione con luce di Wood, che va effettuata in ambiente assolutamente buio, serve per studiare
le composizioni di materiali poiché ogni materiale ha diversa fluorescenza a seconda del tipo di luce
che li incide. L'ultravioletto lavora solo sullo strato superficiale, quindi è adatto ad individuare lo strato
superficiale della vernice o dei consolidanti, ma solo se organici.
Dal tipo di fluorescenza si capisce se la vernice è una resina naturale oppure una verniciatura proteica
(es. bianco d'uovo).
Come accade anche per le radiazioni visibili, un oggetto colpito dai raggi ultravioletti può rifletterli o
assorbirli in maniera differenziata a seconda dei materiali di cui è composta la sua superficie; questa
infatti può emettere dei raggi U.V. «riflessi» che non sono percepibili dall'occhio umano ma possono
venir registrati fotograficamente (con una pellicola in bianco e nero munita di un filtro che, bloccando
le radiazioni visibili, faccia passare solo i raggi U.V. riflessi). I raggi U.V. possono anche eccitare i
materiali colpiti provocando un fenomeno detto «fluorescenza ultravioletta» che è sia percepibile
all'occhio umano sia registrabile fotograficamente (con una pellicola a, colori e un filtro che blocchi i
raggi U.V. riflessi e faccia passare le radiazioni visibili).

Con una lampada di Wood si possono evidenziare successivi ritocchi e riverniciature che con la
fluorescenza appaiono come macchie di colore differente rispetto a quello originale.
Un efficace metodo d'analisi, usato quasi esclusivamente dai restauratori di dipinti, è quello di
prepararsi delle stesure di campione, ad esempio si può utilizzare un pigmento che non ha da
riflessioni, tipo una terra e su questa stendere vari tipi di vernici, utilizzando vari solventi, e poi
confrontare il campione e la stesura sull'opera. Ovviamente l'invecchiamento della vernice sull'opera
rispetto ad una stesura fresca influirà sul tono e sull'intensità della risposta in UV, ma si riesce
comunque ad essere abbastanza precisi.
Si può anche barare, su un ritocco facendo agire della formaldeide, così il ritocco "invecchierà" e
l'ultravioletto non lo leggerà più come un ritocco recente, questa è una tecnica spesso usata da chi vuole
falsificare e nascondere il proprio intervento.
In laboratori specializzati è possibile eseguire esami molto più complessi: ad esempio la spettroscopia
ad infrarossi, l'osservazione tramite microscopio elettronico a scansione
Queste radiazioni vengono impiegate anche per la spettrofotometria all'ultravioletto che, basandosi
sulla specifica e nota reattività di ogni elemento ai raggi U.V., permette di stabilire quali sono gli
elementi presenti in un microcampione (solubilizzato) prelevato dall'oggetto che si vuole analizzare.
Ovviamente questa pratica è del sconsigliabile in liuteria in quanto si tratta di un metodo d'indagine
invasivo.

Per effettuare l'esame ci rechiamo nel laboratorio fotografico della scuola.


Lo strumento viene sospeso e gli vengono messe davanti due lampade di Wood
Per l'esame utilizzeremo una macchina fotografica Canon EOS 400 Digitale

Il tempo d'esposizione di 15 secondi


Gli antichi maestri della liuteria napoletana erano soliti utilizzare uno stucco composto di pece e
gommalacca per riempire gli spazi fra gli intarsi, riceviamo conferma di ciò dalla fluorescenza
arancione tipica della gommalacca tutt'intorno agli intarsi.
Le macchie chiare che come stelline puntinano la tavola sono probabilmente dovute a qualche ritocco,
mentre l'ombra scura è probabilmente data dalla presenza di una muffa.
Il materiale dello scudo si presenta con una colorazione azzurra nuvolata come del resto
l'impiallacciatura di manico e paletta.
La fluorescenza calda sul guscio ci suggerisce che per verniciare lo strumento abbiano utilizzato una
soluzione di spirito e gommalacca, i puntini bianchi sono tracce di stucco o di colla
Uno dei segmenti in madreperla del manico, all'altezza del quinto tasto risulta fuori posizione.
Sulla paletta un intervento di restauro al filetto in madreperla dove la fluorescenza rende visibile un
segmento di colore diverso, più chiaro, probabilmente sostituito in un momento successivo alla
costruzione, si nota anche un intervento di riparazione ad una delle chiavi della meccanica.
La prospettiva posteriore del manico.
Si può vedere l'impiallacciatura che risponde all'ultravioletto con un colore nuvolato azzurro.
L'unghia del manico in madreperla restituisce la medesima tonalità del materiale usato per gli intarsi
nella parte anteriore dello strumento.
La macchia più scura sul manico è probabilmente solo un segno di sporco o un residuo di qualche
prodotto usato per lucidare.
Per avere un metro di paragone abbiamo deciso di fare un test con la lampada di Wood ad un antico
plettro che eravamo sicuri fosse in tartaruga. Com'è evidente la risposta del materiale è completamente
diversa da quella che abbiamo riscontrato sull'impiallacciatura del manico, il colore è più uniforme e
anche l'effetto “nuvolato” è decisamente differente. Si può a questo punto avanzare l'ipotesi che
l'impiallacciatura del manico e lo scudo, siano di celluloide, un materiale plastico che imitava le
caratteristiche della tartaruga, ma che era molto più economico.
...Endoscopia

L'endoscopia (dal greco ἔνδον – éndon- , “Dentro” e σkοπή – skopé - , “Osservazione”)


è un metodo di indagine non invasiva,permette di guardare all'interno di cavità altrimenti inaccessibili.

Viene utilizzato un tubo ottico che può essere rigido flessibile detto “Endoscopio”, munito di una fonte
di luce e di microcamere attraverso le quali è possibile visualizzare su uno schermo, i particolari di
cavità inaccessibili, che altrimenti richiederebbero un intervento invasivo per essere analizzati. Si
potranno vedere i materiali degli zocchetti o il posizionamento e le forme delle catene; spesso
un'endoscopia può rivelare eventuali restauri danni non visibili dall'esterno dello strumento.
Il primo endoscopio fu inventato nel 1852 da Desormeaux, venne migliorato poi, nel 1930, con
l'invenzione dell'endoscopio semiflessibile, fino alla scoperta attorno al 1950, delle fibre ottiche: fasci
con fibre di vetro in grado di condurre la luce, che permetteranno di fabbricare un endoscopio
interamente flessibile detto fibroscopio che viene utilizzato in campo medico.
Esistono anche dei tipi di endoscopio nei quali un prisma regolabile permette di ampliare il campo
visivo.
In questo primo scatto è possibile vedere lo zocchetto superiore in abete e una porzione del guscio.
Il guscio come si può vedere è rivestito da un sottile strato che potrebbe essere di truciolo o carta da
imballo. I vinaccia erano soliti utilizzare carta bianca per foderare i gusci dei loro strumenti, questa è
marrone e rappresenta una prima differenza.
Un altro particolare dello zocchetto inferiore. In questo caso è possibile vedere una porzione di tavola.
E' evidente la giunta e confermiamo la presenza di un diamantino di rinforzo sotto di essa, già messo
in evidenza dalla radiografia.
Un particolare di una controfascia. Lo stato di conservazione è ottimo
Un particolare di due catene di rinforzo della tavola nel punto d'innesto con le controfasce.
Da questa angolazione la tavola risulta in basso.
Si vede la catena che risulta perfettamente incollata alla tavola, si vede l'innesto con la controfascia.
Le macchie sulla controfascia sono i residui della colla che è stata utilizzata per fissare il truciolo al
fondo. Si può notare che la ricopertura del guscio non arriva fino alle controfasce, ma si ferma un poco
al di sopra di esse.
Ecco un'altra catena, lo smusso serve per alleggerirla ottenendo il massimo del
rinforzo senza inficiare le possibilità di vibrare della tavola, la controfascia è in pioppo.
Anche qui il truciolo che riveste l'interno del guscio si ferma un poco al di sopra delle controfasce.
Probabilmente, un intervento di restauro sulla controfascia.
L'etichetta all'interno dello strumento
Lo strumento ci è pervenuto smontato, per questo motivo non è stato possibile eseguire alcun esame
acustico, così abbiamo deciso di riempire questo “vuoto” con qualche fondamentale concetto di
acustica che aiutare a capire il funzionamento e lo scopo dello strumento musicale stesso.

...La Risonanza
Il rinforzo di un suono, detto risonanza, si verifica tutte le volte che vi sia un corpo atto a rendere un
numero di vibrazioni uguale a quello del suono che in esso corpo si propaga.
Se questo corpo è l'aria, come avviene in tutti gli strumenti muniti di cassa armonica, gli esperimenti
dimostrano che il massimo rinforzo sono dati da una colonna d'aria contenuta in un tubo che ha
un'altezza pari ad un quarto della lunghezza d'onda del suono prodotto:
Così il Do3 di 261 vibrazioni che ha una lunghezza d'onda di un metro e trenta centimetri (la quale si
ricava dividendo 340, ovvero i metri percorsi dal suono in un secondo nell'aria a 10°C, per il numero
delle vibrazioni) riceve il massimo rinforzo da una colonna d'aria di cm 32,5 circa; mentre il LA
diapason normale che ha una frequenza di 440 vibrazioni ed una lunghezza d'onda di cm 77,27
risponderà ad una colonna di circa 19,31 cm.

In teoria, dunque, ogni suono vorrebbe una forma propria di cassa armonica.

L'esempio migliore di questa verità è rappresentato dalla nostra bocca, vera e perfetta cassa di
risonanza: si ponga mente alle varie forme che prende la cavità orale nell'atto di pronunciare le vocali
fondamentali u, i, a. Per la lettera u si allungano e si stringono le labbra e si abbassa la lingua in modo
da aumentarne la lunghezza e la capacità del vano a renderlo atto a rinforzare il suono più basso; per l'i
si solleva la lingua sin quasi a farle toccare il palato, si avvicinano le mascelle e si ritirano le le labbra;
per la a, infine, la posizione delle labbra e della lingua è intermedia fra le due correlativa u ed i , però la
bocca è molto aperta. Infiniti poi sono i movimenti per produrre le altre lettere; la cavità laringea, la
faringe, le fosse nasali concorrono a rinforzare o modificare il suono prodotto nella glottide.

Il liutaio, malgrado tutte queste difficoltà da superare, cercò, studiò, e trovò le forme più convenienti da
dare ai vari strumenti, ma queste casse che rinforzano i suoni prodotti, in apparente contrasto con le
leggi fisiche esposte, furono trovate con tentativi lunghi e pazienti, senza sapere come il fenomeno si
produceva.

La risposta arrivò assai più tardi, quando per mezzo dei risonatori di Helmhotz se ne poté fare l'analisi
e si scoprì che ogni suono è accompagnato da altri formanti la serie delle note armoniche.
Queste, nei toni più acuti, sono assai ravvicinate, susseguenti, di modo che un suono risulta composto
di quasi tutte le note della scala e così la cassa si trova sempre nelle condizioni volute per rinforzare
qualcuna delle secondarie e dar così forza alla fondamentale.

L'abilità del liutaio è quella di costruire casse che per la loro forma e per quella delle pareti, le quali
prendon parte anch'esse al moto vibratorio, rinforzino ugualmente tutti i suoni senza incorrere nel
difetto, che più spesso si riscontra nei pianoforti, di avere bassi robusti mentre non lo sono gli acuti e
viceversa.
Val la pena di notare, perché non rimanga l'apparente contrasto con le leggi fisiche esposte che negli
esperimenti l'obbiettivo ricercato è il “massimo rinforzo” e che il suono, essendo prodotto da un diapason
metallico a forchetta, ovvero una tra le pochissime origini sonore in grado di generare suoni semplici
senza armoniche, può riceverlo solo alla condizione assoluta che la colonna d'aria abbia l'altezza di 1/4
dell'onda.

I liutai intuirono inoltre che per dare una voce gradevole, eguale e robusta occorreva rivolgere maggior
cura alla scelta del legno e servirsi soltanto di quelli che in più in alto grado posseggono la capacità di
rinforzare e condurre il suono. In questa ricerca fu il genio dei liutai bresciani e cremonesi a fare la
differenza, che pur occupandosi quasi esclusivamente nella fabbricazione di violini, viole e violoncelli,
pur non disdegnando liuti e chitarre tracciarono le linee guida che valgono per tutti gli strumenti dotati
di cassa armonica, soprattutto per gli strumenti che hanno una deficiente origine sonora, come il
mandolino che a differenza del violino, può affidare la produzione sonora a sottilissime corde di
metallo che fendendo pochissima aria, necessitano di un'amplificazione notevole.
Il legno di risonanza deve avere grande elasticità uniforme, perché la forza del suono oltre che
dall'intensità della vibrazione, dipende dal modo com'è ripetuta e trasmessa, devono essere alberi
fissili, cioè di facile fenditura, con gli elementi del tessuto rettilinei.
Il vero soprano dei legni, il migliore per guidare e rinforzare i suoni, oltre che il più utilizzato è l'abete
rosso o Abies Picea Excelsa e si usa perciò come tavola armonica degli strumenti a corda. Il pregio di
questo legname stà soprattutto nella semplicità della struttura, nella fibra dritta e nell'omogeneità del
tessuto. Il suo peso specifico è 0,42-0,45, quindi leggerissimo. Gli antichi liutai italiani, per scegliere i
tronchi d'abete rosso si ponevano lungo i canali, detti risine, dentro i quali si fanno scendere i tronchi
tagliati nelle alte giogaie, riconoscendo i mogliori dal suono limpido, cantante, che fa vibrar l'aria
d'intorno prodotto dagli urti contro le pareti di legno del canale.
Le migliori qualità si riscontrano in piante che vivono tra i 900 ed i 1200 metri d'altitudine, in terreni
magri ed in condizioni climatiche sfavorevoli in modo che l'accrescimento annuale sia minimo ed in
piante di duecentocinquanta o trecento anni d'età.
..Il Timbro

Una definizione comunemente accettata di timbro è la seguente:

Il timbro è la qualità percepita di un suono che ci permette di distinguere due suoni che hanno la stessa altezza e la stessa intensità.

In parole più semplici il timbro è la qualità del suono che ci permette di distinguere la voce di un
violino da quella di un mandolino, quando i due strumenti stanno emettendo una stessa nota.
Non c'è dubbio che la medesima nota prodotta dai due strumenti sia della stessa altezza eppure, anche
un orecchio non musicalmente allenato è in grado di percepire la diversa qualità del suono.
Ma quali sono i fattori che concorrono a determinare il timbro percepito?
La risposta a questa domanda diventa estremamente complessa non appena si cerca di definire il
timbro non in base a quello che permette di fare (distinguere i diversi strumenti musicali) ma in base a
parametri oggettivi e misurabili.
Una prima risposta che spesso si legge è che il timbro di uno strumento è dovuto, in larghissima
parte, alla composizione spettrale del suono che esso emette. Il concetto di contenuto spettrale è
complesso, per semplificare si potrebbe dire che quando uno strumento emette una nota di una
determinata frequenza, a causa dei vincoli imposti dalla "geometria" delle parti oscillanti che lo
compongono genera, insieme alla nota fondamentale, più note di frequenza multipla intera della
fondamentale dette appunto armoniche.
Lo spettro dei diversi strumenti differisce per la diversa distribuzione dell'energia (e quindi delle
ampiezze) tra la nota fondamentale e le armoniche superiori. In effetti confrontando gli spettri di un
mandolino e di una chitarre che producono un la diapason normale (430-440hz) è possibile osservare il
diverso contributo delle varie armoniche.
Ad ogni composizione spettrale corrisponde una ben precisa forma d'onda ottenuta "sommando" le
varie armoniche (procedimento chiamato sintesi additiva, quindi potremmo dire in modo più
immediato che il timbro di uno strumento è dovuto, in larghissima parte, alla forma d'onda del
suono che esso emette.
Inoltre indistintamente dal suono di cui approcceremo un'analisi, lo si potrà sempre vedere come una
parabola ben delineata e scandita da diverse fasi temporali: generalmente:

1-Attacco (attack) corrisponde alla fase iniziale del suono e dura fino al
momento in cui l'onda sonora ha raggiunto la massima ampiezza.
Può essere molto rapido come negli strumenti a percussione e nel
pianoforte (della durata di circa 1/100 di secondo) o durare più a lungo
nel tempo. Negli strumenti ad arco e a fiato l'esecutore può variare, a
seconda delle esigenze musicali, i vari tipi di attacco modulandone la
durata e le modalità di raggiungimento del picco di energia.
È ovvio che ogni suono ha una fase di attacco, in quanto ogni sistema
fisico vibrante risponde con un tempo caratteristico: il tempo necessario
all'instaurarsi delle onde stazionarie, o all'affermarsi di un particolare
modo di vibrazione del sistema.
2-Decadimento (decay), detto anche decadimento iniziale o primo
decadimento. Esso è presente in quegli strumenti (es. tromba) in cui il
suono scatta solo se un determinato parametro fisico (ad esempio
pressione del soffio) supera una certa soglia. In tale casi il musicista
corregge leggermente lo "scatto" dovuto al superamento della soglia,
determinando, prima della fase di stabilizzazione del suono, una breve
diminuzione dell'ampiezza.
3-Tenuta (sustain). È la fase in cui il suono rimane stabile mentre l'esecutore
continua a fornire energia. Ovviamente tale fa se non esiste negli strumenti a
evoluzione libera. È interessante osservare che tale fase sembra la più
facilmente riproducibile da un sintetizzatore elettronico. In realtà nella fase
di sustain l'esecutore introduce fatalmente qualche involontaria fluttuazione
in ampiezza che caratterizza il suono da strumenti "veri" rispetto a quelli
elettronici.
4-Rilascio (release), detto anche decadimento finale - È la fase che inizia nel
momento in cui l'esecutore smette di dare energia e il suono decade più o
meno rapidamente. Tale fase può essere anche molto lunga negli strumenti a
evoluzione libera (si pensi alle note base di un pianoforte, o al suono di un
gong), mentre di solito è breve in quelli a evoluzione controllata.
Ovviamente tutti i suoni hanno un rilascio.
Durante ognuna di queste fasi il contenuto spettrale del suono emesso varia nel tempo.
Gli spettri "statici" possono fornire una discreta approssimazione del timbro reale solo per la fase di
regime degli strumenti ad evoluzione controllata come archi e fiati, nei quali è possibile "far durare" il
suono. Anche se le fasi di attacco e di decadimento contribuiscono sempre alla determinazione del
timbro, il suono prodotto dagli strumenti ad evoluzione controllata può essere mantenuto stazionario e
prolungato a piacere.
Negli strumenti percussivi, tra i quali sono compresi tutti quelli in cui le corde vengono pizzicate, il
suono, dopo essere stato generato non è più sotto il controllo dell'esecutore, ma subisce un'evoluzione
libera ed il loro timbro non può in nessun caso essere sintetizzato a partire da uno spettro statico.

Bisogna poi sempre tener presente che uno strumento musicale, dal punto di vista di un fisico è
semplicemente un sistema atto a generare onde sonore ed irradiarle nell'ambiente.

In particolare esso si compone (almeno) di:

-Una sorgente primaria di vibrazione (corda, membrana,


lastra, aria) accordabile a diverse frequenze che genera
l'armonica fondamentale e, secondo ampiezze in genere
rapidamente decrescenti, le parziali (armoniche e non);
-Un risuonatore (cassa armonica, canna chiusa e aperta, tavola
armonica) con la funzione di amplificare la vibrazione in modo
selettivo in frequenza, e dare una nuova forma all'onda sonora
rispetto a quella originariamente emessa dall'elemento
vibrante;
-Un adattatore di impedenza tra il sistema vibrante e l'aria
circostante per aumentare l'efficienza di irradiazione del suono.
E' interessante soffermarsi sul procedimento di amplificazione selettiva che avviene ad opera del
risonatore.
Come già detto all'inizio, la particolare conformazione di ogni strumento musicale è studiata perché il
risonatore presenti determinate frequenze di risonanza. Ad esempio nel caso del violino, il risonatore è
costituito dalla cassa armonica la cui forma irregolare seleziona frequenze risonanti attorno a 600 Hz e
1000 Hz (dette risonanze del legno) ed altre risonanze molto ravvicinate nella zona tra i 2000 Hz e i
4000 Hz. Vi è poi anche una risonanza dell'aria detta risonanza di Helmholtz dovuta all'aria che entra e
esce dalla cassa attraverso i fori ad effe e che si colloca attorno alla frequenza di 300 Hz. Quando tale
risonatore viene investito dalla vibrazione generata dall'elemento vibrante (l'accoppiamento tra
elemento vibrante e risonatore è reso efficiente adattando l'impedenza tra cassa armonica e corda
tramite il ponticello), esso "risuona", cioè si mette in oscillazione, soprattutto alle frequenze vicine alla
propria frequenza di risonanza e ciò indipendentemente dal contenuto spettrale del suono generato
dalla sorgente primarie di vibrazione. L'effetto pratico è che il contenuto spettrale del suono originario
viene modificato dall'effetto filtrante del risuonatore: si formano bande di frequenza dette formanti
nelle quali l'emissione sonora dello strumento è dominante.

Probabilmente la posizione delle formanti, essendo dovuta alla geometria dello strumento e non alla frequenza
della nota emessa, e l'elemento determinante per la riconoscibilità del timbro di uno strumento.

Le corde reali poi, si differenziano da quelle ideali, e pertanto non sono in grado in grado di generare
una serie di risonanze perfettamente armoniche (cioè multiple intere della frequenza fondamentale),
ma incorrono nella formazione di effetti anarmonici.

In particolare le corde reali possono allontanarsi dalle condizioni ideali per:

1. diametro finito: anche se molto piccolo il diametro finito di una corda può
influenzare le frequenze di risonanza
2. presenza di attriti interni: la tensione non è mai perfettamente omogenea
lungo la corda
3. presenza di attriti ai vincoli: i vincoli estremali (come capotasto e ponticello)
non sono perfettamente fissi (anche se i loro movimenti sono generalmente
trascurabili rispetto all'ampiezza massima delle oscillazioni della corda)
4. esistenza di forze interne di taglio: specie alle alte frequenze non è possibile
considerare la corda perfettamente flessibile perché sezioni consecutive che
si muovano in opposizioni di fase possono esercitare anche forze trasversali,
oltre alla tensione. Lo si vede bene cercando di "annodare stretta" una corda:
più piccole sono le anse che essa descrive più difficile risulta l'impresa.
Questo risulta in un effettiva dispersione del mezzo, che porta le armoniche
superiori ad avere frequenza maggiore del rapporto armonico ideale. Questo
effetto, tuttavia è molto più evidente negli strumenti a corde pizzicate o
percosse che in quelli a corde sfregate, perché lo sfregamento distribuisce
meno energia alle armoniche estremamente acute rispetto alla percussione o
al pizzicato.

La funzione principale delle dita della mano sinistra è quella di modificare la


lunghezza del tratto di corda vibrante, permettendo la produzione di note diverse
da quelle delle sole corde libere (i musicisti le chiamano corde "vuote"). Tuttavia
bisogna osservare che le dita hanno anche funzione espressiva non solo per quanto
riguarda l'aggiustamento dell'intonazione e del vibrato. In particolare una stessa
nota può essere eseguita in modi diversi, accorciando corde diverse. Si dice che la
nota può essere prodotta con diverse "diteggiature". Nella complessa sequenza di
note che costituisce un brano la scelta di una diteggiatura piuttosto che un'altra può
essere di importanza capitale, sia per semplificarne l'esecuzione, ma anche per
ottenere un particolare timbro o una qualità del suono.
Musica e musicisti per mandolino
fra '800 e '900

I nomi di Vivaldi, di R.Calace sono i più noti tra i mandolinisti di tutto il mondo, ma nel corso
dell'evoluzione di questo strumento ,musicisti e compositori meno conosciuti come Giacomo Sartori
hanno contribuito a ingrandire il repertorio di questo strumento.
In questa sezione parleremo dei compositori e virtuosi che hanno operato sulla nostra penisola
interessandoci in particolar modo a quelli che sono vissuti nelle nostre zone.

Lo straordinario eclettismo di Raffaele Calace (Napoli 1863-1934)questo grande uomo di cultura


napoletano, ha rappresentato un ostacolo ad un suo definitivo riconoscimento nell'ambiente musicale
moderno.
Il brevetto del mandolino '900 (l'odierno classe A), l'allungamento della tastiera ed il maggiore volume
della cassa armonica sono le innovazioni tecniche-costruttive introdotte da Raffaele Calace quale
rappresentante di una lunga tradizione liutaria.
Questa tradizione iniziata dal capostipite Nicola I alla fine del diciottesimo secolo e tramandata di
padre in figlio, è tuttora attiva in Napoli grazie all’attività di Raffaele Jr.
Una testimonianza del virtuosismo strumentale di Raffaele Calace si trova nelle “Mandolin Memories”
di Samuel Adelstein (San Francisco,1902): “Five years ago while on a second visit the writer had
another instrument made especially to order ( photo of this instrument accompanies this article) by
Raffaele Calace, who inscribed in it :

“Raffaele Calace . Ricordo liuto fabbricante speciale per il carissimo amico Samuel Adelstein.
1895 Napoli.

La presenza di Raffele Calace nella sua attività di editore musicale e fondatore della rivista musicale
“Musica Moderna” 1905-1910) nella quale confluiscono in una specie di cenacolo artistico musicisti,
letterari e pittori, creando un notevole impulso alla diffusione della nasciente musicale italiana e
sostenendo artisti come G. Martucci, N. Romano, G. napoli, R. Garavaglios, R.Serrao e G. Sgambati.
L’ influenza di questo ambiente crea in Raffaele Calace l’ esigenza di aumentare quantitivamente e
qualitivamente il repertorio destinato agli strumenti a plettro.
La famiglia Calace ha sempre partecipato attivamente alla vita musicale napoletana ; grazie alle
“Mandolin Memories” S. Adelstein abbiamo testimonianze di un’ orchestra a Napoli fin dal 1890.IL
circolo, così alla fine dell’800 venivano chiamate le orchestre a plettro, era diretto dal fratello maggiore
Nicola (Napoli 1859) che ha lasciato interessanti brani per mandolino e pianoforte e quartetto: figura
importante, nel 1900 si trasferisce in America del Nord dove muore nel 1923.
L’attività del circolo prosegue sotto la guida di Raffaele Calace e della figlia Maria (1896- 1967)
anch’essa ottima mandolinista con la quale forma un duo dedicandole alcune composizioni.
Nell’ambiente del Circolo Mandolinistico Napoletano convivevano ottimi esecutori, fra i quali
ricordiamo Francesco Delle Rose e la figlia Mafia, Maria Sgaxnbati. Nicola Romano e il grande virtuoso
Ernesto Rocco, uno dei più grandi mandolinisti del nostro secolo. Raffaele è strumentista raffinato e
compositore, frequenta l’ambiente salottiero napoletano della musica colta, tiene concerti con il suo
strumento in tutto il mondo. Nelle sue composizioni si riscontra un virtuosismo difficilmente
eseguibile, tanto da farlo soprannominare “il Paganini del mandolino”. Le cronache del tempo ne
esaltano le capacità strumentali, unite ad una genialità compositiva legata per la maggior parte al
mondo popolare della musica napoletana. L’autore è tendenzialmente impressionista, di scrittura colta
e ricercata nella strumentazione. Pochi compositori del periodo sono così raffinati nell’uso degli
strumenti a plettro. Nelle sue partiture si riscontra la volontà di superare la disposizione consueta degli
strumenti, creando combinazioni originali, frutto di una ricerca del suono assai personale. Sicuramente
una parte di questa ricerca è dovuta alla sua abilità di strumentista, non disunita da un notevole
“mestiere” nella composizione che lo pone tra gli esempi più illuminanti di strumentazione per questi
tipi di organici.

Giacomo Sartori nasce l'8 marzo del 1860 ad Ala, al confine meridionale dell'impero.
In famiglia i Sartori vivono in via Nuova, ci si dedica alla bottega, barberia e profumeria. Ma nel
secondogenito, cui spetta cogliere il mestiere paterno, la vocazione musicale si manifesta precocemente
e in modo irresistibile. L'iscrizione alla Società musicale di Ala come "apprendista di violino" risale al
marzo del 1881. Giacomo porta ad un buon piano di professionalità lo studio dell'arco. Il mandolino e
la chitarra li approfondisce da autodidatta, raggiungendo un notevole livello esecutivo. E' una crescita
artistica favorita dalla frequentazione del fiorentino Tito Brogialdi, presente ad Ala come direttore della
banda, e di Giovanni Toss, figura di compositore ed organista..Nel retrobottega c'è l'armonium, lo
strumento che per tutta la vita ,Lì si discute, si suona, si passano anche fogli clandestini di animo
irredentista. Fin dalla prima giovinezza lo accompagna il sogno di dedicarsi completamente alla
musica. Di fatto il giovane Giacomo è presto l'anima della vita musicale di Ala: nella parrocchiale
apprezzato interprete ed improvvisatore alla tastiera dell'organo, quindi esecutore e concertatore nel
Quintetto, didatta, autore fecondo ed intraprendente. L'anno 1889 vede il matrimonio di Giacomo con
Elvira Wagmeister. Nasceranno quattro figli. Giacomo sarà poi prematuramente vedovo e dovrà
provvedere da solo alla famiglia, negli anni della prima guerra mondiale, senza l'aiuto del figlio
Giovanni e del genero chiamati al fronte. A Verona i Sartori si rifugiano in cerca di una sufficiente
tranquillità e di un lavoro, fuggendo i pericoli cui esponeva Ala, città di confine e dunque obiettivo
dell'artiglieria.E' il 1915. Giacomo partecipa ai concerti sinfonici come primo violino.
Dopo la guerra la residenza e l'attività artistica si spostano a Trento. D'ora in poi, fino alla morte
sopraggiunta nel 1946, vive presso la famiglia della figlia Gisella. A Trento, dal 1919 e senza
interruzione fino al '38, dirige l'orchestra mandolinista del Club Armonia in una intensa attività
concertistica, si dedica all'insegnamento privato del violino ed alla composizione.. Quanto alla
composizione pubblica con regolarità le proprie partiture. Nella rivista torinese "Il Mandolino"nata nel
1892 il Monticone esprime nei commenti alle opere pubblicate la più viva ammirazione.. Le note del
Sartori piacciono, vendono, creano repertorio, fanno vivere le associazioni mandolinistiche, che spesso
sono intitolate al maestro alense: è il caso, tra i tanti, dell'orchestra di plettri messicana di Guadalajara
che nel '32 si mette in contatto con Monticone per ottenere notizie sul compositore, "la cui musica è
grandemente ammirata". Da Belluno come da Parma, dalla Renania come da Lipsia, da Innsbruck,
Monaco di Baviera, Praga e Parigi, pervengono dichiarazioni di stima da parte di circoli mandolinistici
che pongono nel proprio repertorio numerosi titoli del maestro. La quasi totalità delle duecento
composizioni di Giacomo Sartori sono dedicate agli strumenti a pizzico; fanno eccezione pochi brani
per violino o canto.Spicca l'assenza in questo catalogo di opere per mandolino solo e per quartetto a
plettro classico (senza la chitarra, con mandoloncello).

Tra gli organici tradizionali della musica da camera per gli strumenti a pizzico possiamo ritrovare il
Duo (mand. e chitarra ),il Trio ( due mand. e chit.), ; il Quartetto a plettro romantico e l'Orchestra,
definita anche a plettro o mandolinistica . Un altro insieme estremamente particolare, meglio definibile
come "da sala", tipico del periodo storico, é quello chiamato dal musicista alense "Orchestrina", nel
quale si poteva impiegare un organico misto abbastanza aperto con mandolini, archi,fiati, chitarre,
contrabbasso e percussioni .In questo "corpus musicale" così eterogeneo possiamo trovare unite dalla
stessa destinazione strumentale danze, brani d'occasione e di cerimonia, forme musicali colte (solo
nell'aspetto, dato che la matrice culturale ha un carattere profondamente popolare) oppure veri e propri
"scherzi musicali" (costume reso possibile dalla cadenza quindicinale delle edizione del periodico "Il
Mandolino" come nel caso de "Il Racconto del Nonno" seguito da "Il Racconto è finito" o il brano "Serata
Invernale" con dedica "a tutti i freddolosi"!) veri e propri "ritratti musicali" creati per ricordare amici,
occasioni importanti legate alla vita dell'autore. L'utilizzo intelligente, sarcastico a volte pungente altre
volte dolce, amorevole delle dediche (numerose, presenti nella metà della opere) trasforma le
composizioni in "cartoline sonore" portatrici di brevi e significative dichiarazioni pubbliche
dell'autore. Il comporre per G. Sartori non era mestiere ma un'appassionata necessità. Egli non segue,
al contrario di molti (una buona parte) suoi colleghi compositori/mandolinisti, una moda ma
semplicemente la crea! ! Questo non solo per talento innato o particolare ingegno ma probabilmente per
una dote genetica (bisogna ricordare che nel lontano 1619 M.Praetorius descrive nel vol. II del suo
importante trattato "Syntagma Musicum" la tradizione mandolinistica dei barbieri come lo era per
tradizione familiare G. Sartori). Dalla provincia periferica del Regno sforna nuove composizioni con un
ritmo vertiginoso (una ogni 15 giorni) creando in breve tempo un bisogno inarrestabile di novità
musicali e facendo la fortuna dei giornali mandolinistici i quali si moltiplicheranno a vista d'occhio
nelle maggiori città italiane. E' stato definito il "Lehar" del mandolino.
La Musica ed il Mandolino a Cremona

I primi documenti che testimoniano la presenza del mandolino a Cremona sono costituiti dai disegni,
forme e modelli provenienti dalla bottega di Antonio Stradivari, ora custoditi presso il Museo
Stradivariano. Non siamo in grado di stabilire con certezza l’origine dell’interesse di Stradivari per il
mandolino, sicuramente non sporadico data la corposità del materiale rimasto. E’ probabile che la
produzione fosse destinata sia al mercato interno che a quello esterno, vista la presenza di “nobili
dilettanti” di mandola e mandolino nel Ducato di Milano, nella Repubblica Veneta, nel Regno di
Sardegna e nello Stato Pontificio. Abbiamo la fortuna di poter ammirare due esemplari di mandolini
del modello “corista” a testimonianza della genialità e della perfezione dell’arte del maestro cremonese,
questi strumenti sono generalmente datati al 1680.

Mandolino di A. Stradivari
Esiste anche una citazione antecedente, riferita ad uno strumento di Marco Carlomorti, Cremona 1660,
citato da Konrad Wolki in Geschichte der mandoline (Berlin, 1939) ma purtroppo lo strumento non è
più rintracciabile. Sono arrivati a noi invece anche gli strumenti di Matteo Scolari e di Michelangelo e
Carlo Bergonzi, con i quali arriviamo addirittura alla definizione organologica di “mandolino
cremonese o bresciano” riportata da Bartolomeo Bortolazzi (Toscolano s/garda 1773-?) virtuoso
mandolinista, chitarrista e compositore, nel suo “Anweisung fur die mandoline fur kennen zu lernen,
Leipzig 1805”, il primo manuale didattico per mandolino in lingua tedesca. Bisogna pazientare altro
tempo per incontrare notizie della pratica mandolinistica a Cremona . E’ infatti alla fine dell’800 che
troviamo incredibilmente la città di Cremona in una posizione di eccellenza, e a tal proposito riteniamo
che un approfondimento delle ricerche potrebbe regalarci delle positive sorprese riguardo al periodo
precedente. Per circa 50 anni i mandolinisti cremonesi del Circolo Filodrammatici rappresentano uno
dei massimi livelli artistici , vincendo tutti i concorsi per orchestre a plettro in Italia e nel mondo, come
rivela un’ampia documentazione oggi conservata presso l’archivio della Società Filodrammatica
Cremonese. Le figure di musicisti come G.F.Poli, M. D’Alessandro, i fratelli G. e E. Denti, i fratelli P. G.
e E. Ferodi, O. Riva, A. Gnaga, U. Sterzati, G. Anelli, S. Valerani; un virtuoso come G. Vailati; le
associazioni come il Circolo mandolinisti e mandoliniste Filodrammatici, il Circolo mandolinistico
Euterpe, il Circolo mandolinistico giovanile, l’Orchestra a plettro G.F.Poli, il Circolo mandolinistico del
Zaccaria, l’Estudiantina di Casalmaggiore, il Quartetto a plettro di Castelleone, il Circolo mandolinisti
di Crema, l’Orchestra di Isola Dovarese, il Circolo mandolinistico operaio di Pandino sono invece le
incredibili testimonianze della diffusione della cultura mandolinistica a Cremona e nella sua provincia.

Alcuni fra I più rappresentativi compositori dell'epoca legati al territorio cremoese furono:

Luigi Casazza (Cremona 29 maggio 1848, ivi 6 gennaio 1940)


Musicista dilettante, di professione Ragioniere della Pia Istituzione Musicale, per lungo tempo (oltre 30
anni) commissario della Banda Cittadina di Cremona e socio del Circolo Filodrammatici. Collabora alla
fondazione del Circolo Mandolinistico di Cremona (il “Filo”) non solamente per la comune amicizia
con M. D’Alessandro (allora direttore della Banda) e G. F. Poli (e probabilmente di molti altri
“Filarmonici”, come A. Lechi ) ma partecipando anche ai concerti in qualità di esecutore all’ armonium.
La Sinfonia Originale per quartetto a plettro, 3° Premio nel Concorso internazionale indetto dalla
Unione Magistrale Ligure nel 1905 a Genova, è dedicata “Al Circolo Mandoliniste e Mandolinisti di
Cremona”. Viene pubblicata nel 1906 dalla rivista “Arte Mandolinistica” di Genova nella “riduzione
del M° Francesco Poli Dirett. Del Circolo Mandoliniste e Mandolinisti di Cremona” per quartetto a
plettro. Nella stessa annata la rivista riporta entusiastiche recensioni della sua esecuzione:
“Sampierdarena, All’Oratorio S.Gaetano, nell’accademia Musicale-Drammatica …ottenne un nuovo
successo la Sinfonia Originale di Luigi Casazza, che pubblicheremo prossimamente, eseguita
dall’Orchestrina mandolinistica dell’Istituto Musicale Genovese “Camillo Sivori” in unione al Quartetto
Rossini” …… “Eseguita con grande successo al Concerto Mandolinistico tenutosi in Genova nell’ex
Oratorio di S.Filippo”….

Pietro Feroldi (Cremona 30 agosto 1879, ivi 28 febbraio 1934)


Compie gli studi nei conservatori di musica di Milano e di Napoli (allievo prediletto di R.Caravaglios).
Capomusica del 78° reggimento fanteria di stanza a Bergamo (lo stesso incarico ricoperto
precedentemente da A. Amadei), ha successivamente diretto nelle province lombarde di Pavia,
Bergamo, Brescia, Lecco, arrivando nel 1927 alla direzione della Banda Cittadina di Cremona e nel 1928,
dopo la morte di G.F.Poli, a quella del Circolo Mandolinistico dei Filodrammatici.
I fratelli Feroldi erano molto conosciuti nell’ambiente musicale cremonese; oltre a Pietro, Ettore
dirigeva il Circolo Mandolinistico “Euterpe”, Giovanni (mandolinista nel Circolo del “Filo”) aveva una
prestigiosa fabbrica di Pianoforti. L’ Ouverture Lariana, brano vincitore del Concorso Internazionale
indetto dall’Estudiantina Bergamasca nel 1926 a Bergamo e qui proposto nell’adattamento per
Orchestra a plettro di C. Mandonico e U. Orlandi, purtroppo non è mai stata eseguita. Di essa rimane
solo il manoscritto originale per banda, probabilmente lo stesso presentato al concorso, dato che sul
frontespizio è riportato il motto “In labore virtus et vita” con il quale era siglato il brano. Questo
particolare è ulteriore testimonianza del profondo legame che, all’epoca, univa l’associazionismo
musicale; attraverso la comunione e l’interscambio di esecutori, direttori e composizioni, le bande e le
orchestre a plettro (in alcune realtà anche con la partecipazione dei gruppi corali), hanno rappresentato
una vera è propria unione d’intenti e di ideali artistici, divulgando la cultura nel più meritevole “diletto
musicale”.

Michele D’Alessandro (Larino (CB) 12 dicembre 1859, Cremona 10 ottobre 1918)


Compie gli studi musicali al Conservatorio di Parma. Dal 1891 occupa il ruolo di prima cornetta solista
e di vice maestro presso la banda cittadina di Cremona, succedendo dal 1897 al 1914 nella direzione
della stessa a Raffaele Coppola. In Cremona è anche prima cornetta nell’ orchestra del Teatro
Concordia, poi Ponchielli, insegnante di musica al collegio Vita e direttore artistico della Fabbrica
italiana rulli sonori traforati per pianoforti meccanici. Per il teatro ha scritto la novella Ronwald (1897),
l’opera il Poeta e l’operetta Nini-Bily (1906), il brano Bimbi e fiori, Polka per pianoforte o 2 mandolini e
chitarra, vede la stampa per la rivista musicale mandolinistica cremonese “Monitore Musicale C.
Monteverdi”, ed è dedicato “Al Cav. Alfonso Mandelli per la festa dei Fiori, 1894”. La versione qui
presentata è custodita nell’archivio del Circolo “Filodrammatici” nell’arrangiamento per
quartetto/orchestra a plettro, con aggiunta di flauto, pianoforte e timpani ad lib., secondo le
consuetudini del periodo.

Antonio Lechi (Lecchi?) (Brescia 25 novembre 1851, Cremona 2 agosto 1908)


Le poche notizie raccolte intorno alla sua figura ci dicono della sua qualifica di “Filarmonico in
Cremona” nonchè di “Professore”, probabilmente per la sua professione di violinista, nei programmi
dei concerti del primo decennio del Circolo Mandoliniste e Mandolinisti di Cremona, nel quale
ricopriva il ruolo di 1° mandolino solista. Curiosamente, pur suggerendo il suo nome una discendenza
dalla nobile famiglia di musicofili bresciani, non risulta una sua esplicita appartenenza alla stessa.
Potremmo trovarci di fronte ad un discendente non riconosciuto, il che darebbe anche la spiegazione
alla stranezza della doppia dicitura del nome riportato in diversi documenti. Nobiltà e Saggezza, valzer
da concerto per flauto e clarinetto e orchestra a plettro è “dedicato all’Ing. Poli direttore del Circolo
Mandolinistico dei Filodrammatici” .

Oreste Riva (Cremona 21 luglio 1862, ivi 31 dicembre 1936)


Compie gli studi musicali presso il conservatorio di Parma, sotto la guida di Giovanni Bottesini, Giusto
Dacci e Arrigo Boito, diplomandosi in violoncello e in composizione nel 1889. Chiamato alle armi viene
arruolato nella banda del reggimento granatieri. Successivamente dirige le bande di Suzzara (MN),
Mirandola (MO), Castagnaro (VR), Verona e Brescia. Ritornato a Cremona si dedica alla composizione
ed all’insegnamento. Violoncellista, critico musicale, poeta e caricaturista, ha scritto vari articoli sotto lo
pseudonimo di “Pilade Sponda”. Ha composto le opere Forgael e la Doppia beffa, l’operetta Le
avventure di un coscritto(1884), la favola mitologica Narciso(1933), il ballo il Trionfo del giocattolo
italiano(1918), nel 1906 viene accettato come socio del Circolo Filodrammatici. Currenti calamo, per
mand. e p.forte, è stato pubblicato dalla rivista “Monitore Musicale C. Monteverdi”, è stato anche
arrangiato per orchestra a plettro da G.F. Poli ed eseguito in varie occasioni dal Circolo Mandolinistico
di Cremona. Le Geishe, Polka per 2 mand e chitarra, è stato pubblicato dal periodico mandolinistico il
Plettro di Milano, nel 1908.
Andrea Gnaga (Crema 1860, Milano, casa di riposo “G.Verdi”, il 12 settembre 1938)
Compie gli studi musicali al conservatorio di Milano, diplomandosi in composizione con Cesare
Domeniceti. Ha composto le opere Gualtiero Swarthen, diretta da Arturo Toscanini e interpretata dal
tenore F. Tamagno, Teatro Costanzi, Roma 1892, l’opera comica Bartolomeo Khan di Persia, vincitore
del concorso indetto nel bicentenario Virgiliano per un Inno a Virgilio. Amico fraterno del pittore
trentino Giovanni Segantini ne pianse la morte dedicandogli una Elegia cantata da F. Tamagno a
Maloja. La Serenata amorosa (1937?) per orchestra a plettro, edita dal periodico Il Plettro di Milano nel
1938 è una delle sue ultime composizioni.

Giuseppe Anelli (Trigolo (CR) 19 maggio 1873, Torino agosto 1926)


Riceve i primi insegnamenti musicali dal padre Antonio (organista, allievo di V. Petrali e fondatore
della banda di Trigolo nel 1848). A Milano continua gli studi musicali con Michele Saladino e Amintore
Galli ma a 18 anni, causa la morte del padre, rientra a Trigolo occupando il posto di organista e di
direttore della banda. Nel 1895 si diploma alla Accademia Filarmonica di Bologna. Dopo varie
esperienze nella provincia di Cremona vince il concorso per maestro di banda a Carmagnola (TO)
prestando contemporaneamente la sua opera presso le bande di Carignano (TO), Racconigi (CN),
Brà(CN) ove insegna anche violino e pianoforte, della orchestra Filarmonica di Fossano (CN) ed infine a
Saluzzo (CN) dove diviene anche direttore dell’Istituto musicale. Ha composto le opere Ave!, Aurora,
Mania, le operette Amori e scompigli, Peripezie della vita, vincendo numerosi concorsi di
composizione per strumenti a plettro, indetti dalle riviste mandolinistiche Il Mandolino, Mandolinismo
e Arte Mandolinistica. La Sinfonia Romantica per orchestra a plettro, edita nel 1924 dal periodico
musicale Il Mandolino, reca la seguente scritta: “all’Illustre Statista Sua Ecc. Ill.ma Paolo Boselli,
Senatore del Regno Cancelliere dell’Ordine della Corona d’Italia. L’autore riconoscente con
venerazione dedica”

Amilcare Ponchielli (1834-1886)


Non si conoscono composizioni dedicate dal maestro cremonese agli strumenti a corde pizzicate.
Grazie però al recente lavoro di Sergio Lodi ( la catalogazione del fondo musicale del “Filo”) sono
emerse numerose composizioni ballabili originariamente per banda, nella trascrizione per quartetto a
plettro. Questo materiale, tutto manoscritto dalla stessa mano, è molto probabilmente opera del
chitarrista del quartetto a plettro dei Filodrammatici (Ugo Soldi?), dato che solo nelle parti di chitarra
viene riportata la data di trascrizione relativa al periodo dal 1900 al 1930. Pare interessante notare che i
brani originali per banda di Ponchielli sono stati tramandati autografi o su copie manoscritte uniche,
conservate presso l’archivio cittadino della banda e che pertanto il trascrittore doveva aveva effettuato
le trascrizioni per quartetto a plettro dalle partiture lì conservate.
Giuseppe Denti (Pugnolo di Cella Dati(CR) 1882, Cremona 1977)
Insieme al fratello Ettore (1884), apprende dal padre, Rodolfo, i fondamenti della musica e della pittura.
A 13 anni vince il concorso per il ruolo di organista della parrocchia di Quistro. Si diploma maestro
elementare con il massimo dei voti a Crema e nel 1901 è già maestro di ruolo a Cingia de’ Botti (CR)
dove organizza e dirige la banda. Nel 1915 è richiamato alle armi, combatte sul Carso ed è fatto
prigioniero durante la battaglia di Caporetto. Viene tradotto nel campo di concentramento di Rastatt,
nel Baden- Württemberg, e poi nel lager di Celle, presso Hannover. Durante la prigionia organizza una
incredibile attività musicale, allestendo spettacoli musicali d’intrattenimento, da intermezzi ad opere,
la costituzione di una “orchestra”, formata dai più diversi strumenti suonati dai prigionieri, e
componendo numerose composizioni per vari insiemi strumentali. Buon esecutore alle tastiere,
formidabile improvvisatore all’organo, è stato a lungo organista sostituto di F. Caudana nella
Cattedrale di Cremona, Ha diretto il coro del “Circolo Musicale Euterpe” e maestro sostituto nelle
stagioni liriche del Teatro “Ponchielli” come direttore del coro dei bambini e del coro femminile.
Data la forte amicizia che legava i fratelli Denti ai fratelli Feroldi, i brani per strumenti a plettro sono
tutti scritti per il Circolo Mandolinistico “Euterpe” di Cremona al quale anche il fratello minore, Ettore
(affermato scultore e socio del Circolo Filodrammatici), ha dedicato alcune composizioni per plettri. Lo
Scherzo (1918) è una delle composizioni nate nel lager di Celle, nella versione per p.forte e due violini,
poi rivisitata per plettri dall’autore.

Umberto Sterzati (Caratinga (Minas Geiras,Brasile) 16 agosto 1909, Cremona 9 maggio 1972)
Figlio di emigranti, il padre, Primo, nativo di Casalbuttano emigra giovanissimo per lavorare in Brasile.
Rientrato con la famiglia all’inizio degli anni ’30, Umberto, violoncellista e chitarrista autodidatta,
ottiene l’abilitazione all’insegnamento della chitarra classica. Temperamento artistico eclettico e geniale,
si diletta con il banjo e la chitarra hawaiana, compone brani per chitarra e per quartetto a plettro, è
considerato un ottimo scultore. L’amore per la città lo porta a comporre canzoni e stornelli in vernacolo
cremonese, a comporre e scrivere i testi di spettacoli e commedie per le riviste musicali accompagnando
musicalmente Ugo Tognazzi. Nella soffitta della sua casa, in Via del Sale, sono passati alcuni fra i più
importanti maestri della chitarra del’900: Ida Presti, Siegfried Behrend, Narciso Jepes, Carmen Lenzi
Mozzani, Lolita S. Tagore, Emile Pujol, a testimonianza della sua personalità artistica.

Giovanni Vailati (Crema 13 aprile 1815, ivi 25 novembre 1890)


È stato il più importante virtuoso mandolinista dell’800, definito il “Cieco di Crema” e “Il Paganini del
mandolino”, al di là di una corposa documentazione relativa agli ultimi dieci anni di vita, non si hanno
notizie precise e attendibili circa l’avvenuta cecità, gli studi musicali e l’avvio della carriera
mandolinistica. Utilizzava prevalentemente il mandolino spagnolo, la bandurria, montata con corde
singole di budello alla maniera del mandolino milanese, si racconta fosse amico di numerose celebrità
quali G.Rossini, G.Verdi, C.Gounod, V.Hugo, G.Garibaldi. Malgrado la fama ed una florida posizione
economica morì in miseria presso l’ Istituto dei Poveri di Crema abbandonato e derubato di tutti gli
averi, compreso gli strumenti musicali, dal suo segretario. Di lui rimangono due composizioni: Il Fiore,
Romanza per baritono e p.forte (brano più volte citato nelle recensioni dei suoi concerti), e la Fantasia
sull’opera “I Due Foscari” di G. Verdi per mandolino e p.forte.
Il ”Monitore Musicale Claudio Monteverdi”
Dalla fortunata collaborazione fra le geniali figure di ARISTIDE CAVALLI e GIOVANNI POLI, nel
1890 nasce questo periodico musicale sull’esempio delle riviste mandolinistiche presenti nelle maggiori
città italiane: Il Mandolino Torino, il Concerto Bologna e il Mandolino Romano Roma.
Obiettivo principale della rivista è quello di pubblicizzare gli strumenti musicali prodotti dalla Ditta
“Cavalli e Poli” ma ben presto essa diventa anche casa editrice, iniziando così una serie di
pubblicazioni frutto della collaborazione di varie amicizie, fra i quali D’Alessandro, Casazza, Riva, F.
Bellini, e Pucci.

Luigi Pucci (Cava de’ Tirreni (SA)1868, Giarre (CT) 1920)


Compie gli studi musicali al conservatorio di Napoli con Stanislao Ruggeri (violino) e Temistocle
Marzano (contrappunto), diplomandosi poi in composizione e strumentazione per banda al
conservatorio di Palermo sotto la guida di Carlo Graffeo e Guglielmo Zuelli. Attivo come come
violinista e direttore d’orchestra ha diretto le bande di Torchiara, Ravello (Salerno) e, in Sicilia, di
Avola, Comiso e Giarre.

Ettore Carosio (Alessandria ?-1914) chitarrista e fratello del più famoso Ermenegildo, è una delle
personalità di spicco della tradizione mandolinistica fra ‘800 e ‘900. Ha composto centinaia di brani per
chitarra, trio e quartetto a plettro pubblicati sulle maggiori riviste mandolinistiche italiane ed estere.
Membro stabile nelle giurie di vari concorsi è segnalato, fra l’altro, anche nella giuria del concorso di
Genova del 1905, dove L. Casazza ottenne il premio con la Sinfonia Originale.
W. CREMONA, polka-studio per chitarra, è un brano scritto in ricordo del Concorso Mandolinistico
Internazionale di Cremona (1910) ed è dedicato “al valente Maestro Ing. G.F. Poli Direttore Circolo
Mandolinisti di Cremona”.

Giovanni Francesco Poli (Cremona 5 aprile 1867, ivi 18 ottobre 1927)


Consigliere della Pia Istituzione Musicale, Commissario della banda Cittadina, Ingegnere del Teatro
Ponchielli. E’ senza alcun dubbio il personaggio principale di questa meravigliosa avventura, fatta di
storie ed intrecci artistici e musicali legati ai circoli culturali della “scapigliatura” lombarda.
Aleggia, infatti, al di sopra di tutte queste note biografiche l’ombra amichevole di Arrigo Boito, il quale,
nei suoi scritti (Tobia Gorrio, La musica in piazza: La scuola del Gippa (1868), in: Gazzetta Musicale,
1870), dedica numerose pagine alla questione mandolinistica, mostrando una profonda preparazione
storica e organologica. Questo è l’annuncio pubblicato da Poli nel 1893, fresco di laurea, al suo rientro a
Cremona: “Giovane ingegnere oggi laureato, cerca modesto impiego: occuperebbesi anche come
suonatore di tromba per incanti o per vendite di scarpe e pantofole a buon prezzo. Scrivere a Giovanni
Francesco Poli-Cremona”. Di professione ingegnere, ha però vissuto musicalmente la sua vita,
organizzando gruppi musicali fra i più diversi: “il Trio Jalomestico” “La fanfara della Società
Ginnastica”, “La Fanfara Ciclistica di Casalbuttano”, e suonando vari strumenti: la tromba, il
mandolino ed il “jalomelo” , sorta di armonica a bicchieri. Nel 1901, nell’ambito delle manifestazioni
del Concorso mandolinistico di Lodi, avviene l’incontro con Carlo Munier (1856-1911) virtuoso del
mandolino, didatta e compositore, figura fondamentale nella storia della tradizione mandolinistica
mondiale. Il quartetto del “Filo” vince il primo premio con l’esecuzione del primo quartetto di Munier e
da allora si instaura una vera e propria amicizia artistica che lega il nostro a Poli ed il “Circolo
mandolinistico di Cremona”. Anche la vicenda legata alla dedica del Quartetto in Do maggiore, op. 203
(1904), è rivelatrice dell’idillio nato a Lodi: infatti originariamente il quartetto è dedicato “al Cav. Uff.
Leonida Giovanetti, Presidente del Regio Circolo mandolinisti Regina Margherita”, la quale verrà poi
modificata nell’edizione a stampa del 1908 con la seguente “ded. All’ Ing. G.Poli”.
Il mandolino e la musica a Brescia

Il mandolino a Brescia: dai Collegi alle Associazioni.


“Lietissime consonanze di Mandolini, Leuti, Sordini e Bassi pizzicati, che da trè Orchestre si provocano
e rispondono in concerto col Cembalo...” (da: La musica a Brescia nel Settecento, M.T.Barezzani, M.Sala,
D.Rossato, G.Pagani. pag.10- Grafo Edizioni, 1981 Brescia)

Così il mandolino si presenta nei ricordi musicali di Brescia durante una Accademia “consecrata” nel
1729 al Cardinale Querini per festeggiarne la nomina a vescovo della città.Fervidissima fin dai tempi
remoti, la storia musicale bresciana gode di non sporadica attenzione da parte degli studiosi: molte
epoche sono state indagate, tanti documenti sono stati portati alla luce e anche la musica ha trovato,
edizioni moderne, trascrizioni ed esecuzioni. Ma mai abbastanza si è sottolineato il ruolo fondamentale
che questa città ha avuto nello sviluppo dell’arte musicale italiana e quindi europea, con posizioni di
vero predominio (si pensi alla letteratura vocale policorale del primo barocco e alla canzone
strumentale dello steso periodo). Ancor meno ci si è occupati della vivace attività bresciana degli
strumenti a pizzico, primo fra tutti proprio il mandolino. . Vogliamo qui, allora, ripercorrere
brevemente la storia del mandolino “bresciano”, per rendere - a lui e agli altri strumenti a pizzico -
l’onore dovuto. Fin dal XVIII secolo l’insegnamento del mandolino era compreso nel piano di studi
degli allievi dei Collegi nobiliari cittadini: nel Collegio di S.Bartolomeo dei Padri Somaschi, per
esempio, si poteva scegliere fra mandolino, violino, flauto e clavicembalo; nel Collegio di S.Antonio
Viennese, invece il virtuoso bresciano Pietro Fioletti insegnava il colascioncino. Nella solenne
Accademia Cavalleresca in onore del vescovo Gradenigo ,l’anno 1692 ,non mancò un concerto di vari
strumenti a corda suonati da insegnanti e da allievi. . Molto probabilmente è da questa notevole attività
didattica ed esecutiva che nascono i grandi virtuosi bresciani attivi nelle corti europee del settecento ed
è un fatto abbastanza curioso il trovare due coppie di fratelli bresciani primeggiare nel campo degli
strumenti a pizzico nei primi 70 anni del secolo XVIII: i fratelli Colla ed i fratelli Merchi.
Verso la fine del secolo appare un altro grande virtuoso, Bartolomeo Bortolazzi, sicuramente il più
rappresentativo e l’unico ad essere ancora oggi conosciuto. E’ con la fine dell’800 che si costituiscono ,,
i primi gruppi mandolinistici. Nel 1893 nasce la Società Mandolinistica Umberto I, l’anno successivo si
crea la Società mandolinistica Femminile, ambedue dirette dal maestro Angelo Chibarro (capo musica
del 34.o Fanteria, presente alla Esposizione Universale di Genova del 1892 con un suo brevetto di uno
strumento a percussione .Nel 1894 il maestro Francesco Andriotti dirige l’Orchestra del Circolo
Mandolinistico e Chitarristico Bresciano .
Da qui in avanti è tutto un fiorire di associazioni di dilettanti, in città e in provincia, la più importante
delle quali - la gloriosa Costantino Quaranta - partecipa con successo a numerosi concorsi nazionali fra
il 1920 e il 1930 e, in un secondo periodo di particolare vivacità sotto la guida di Giovanni Ligasacchi,
coglie premi internazionali a Kerkrade (1966, 1970) e a Koslar (1968).E’ proprio Ligasacchi il generoso
protagonista della storia più recente del mandolino a Brescia. A lui si deve la ricostituzione della
Federazione Mandolinistica Italiana, con sede nella nostra città (1969). Nello stesso anno “il maestro”
istituisce, nel popolare quartiere del carmine, il “Centro Giovanile Bresciano di Educazione Musicale” .I
fratelli Merchi. Bernardo Giuseppe (Brescia, 28 novembre 1723 - Parigi, 22 maggio 1793) e Giacomo
Merchi (Brescia, 18 agosto 1726 - Parigi, 1800 Ca.) sono i primi bresciani virtuosi del mandolino e di
altri strumenti a pizzico. Inseparabili, formarono una famosa coppia di esecutori diffondendo - insieme
con altri due fratelli bresciani Domenico e Francesco Colla - l’uso del mandolino e del colascioncino in
tutta Europa (viaggiarono dalla Francia all’Inghilterra, stabilendosi definitivamente a Parigi).
Nonostante le chiare indicazioni scritte su alcuni frontespizi di loro musiche a stampa (“..composti da
Giacomo Merchi da Brescia”) è stata spesso attribuita loro, erroneamente, un’origine napoletana.

Bartolomeo Bortolazzi
Nato a Toscolano sul Garda il 3 marzo 1772, divenne ben presto un ottimo suonatore di mandolino. A
18 anni tentò l’avventura, con altri compagni musicanti, lasciando la casa natia e suonando nelle piazze,
nelle osterie e nei teatri italiani e, in seguito, anche francesi. Ritornati in patria alle prime avvisaglie
della Rivoluzione Francese, ripartirono poi per Vienna dove il pianista Colò, impressionato dalla
musicalità di Bortolazzi, lo avviò a seri studi. Iniziò per lui una carriera ricca di successi in tutta Europa,
spesso accompagnato alla chitarra dal giovane figlio Giacomo Giuseppe: a dimostrazione della sua
fama e della sua bravura, basti ricordare che Hummel gli dedicò il famoso Concerto per mandolino e
orchestra in Sol maggiore.
Romanticamente tragica la sua morte, così come ci è riportata dallo storico bresciano Andrea Valentini:
“Non sazio mai di onori, di luci e di avventure, volle traversare l’oceano per amore, dicesi, di una bella
peccatrice coronata, di cui aveva sprezzato l’amore nei giorni delli splendidi trionfi di Dresda e che a
lui tendeva pur sempre le sue braccia desiose, Per naufragio, con la moglie e con l’unico figlio,
miseramente periva nel 1820, cinquantenne appena”.

Paolo Chimeri (Lonato, 1852 - Brescia, 1934)


Bambino prodigio, sotto la guida del padre, raccolse i suoi primi successi come pianista a soli sette anni,
suonando in favore dei feriti nella guerra d’Indipendenza. A quattordici anni fu nominato direttore dei
cori al Teatro Grande e due anni dopo assunse la direzione dell’orchestra del Teatro Guillaume (poi
Teatro sociale). Maestro generoso e severo, per molti anni si dedicò all’insegnamento del pianoforte
all’Istituto Venturi a titolo completamente gratuito. La sua figura di musicista domina la vita musicale
cittadina a cavallo fra i due secoli: compositore di indole romantica e valente didatta, ha avuto tra i suoi
allievi Arturo Benedetti Michelangeli.
Simone Salvetti (Breno, 1870 - Darfo, 1932)
Nato a Breno nel 1870, il piccolo Simone rivela subito uno spiccato uno spiccato talento artistico. Inizia
gli studi musicali presso la Banda di Breno e li conclude brillantemente al Conservatorio di Parma,
dove si diploma in Composizione. Della sua produzione musicale ci rimangono circa un centinaio di
brani per strumenti a plettro suddivise per vari organici: per duo di mandolino e chitarra, per trio di
due mandolini e chitarra, per quartetto di due mandolini, mandola e chitarra, per quintetto di due
mandolini, mandola, mandoloncello e chitarra nonché per orchestra a plettro.
Con la composizione “Mormorio del Mare” Intermezzo per due mandolini, mandola e chitarra [XIV
(1905), n. 12], dedicata “All’amico carissimo Piero Greppi”, Salvetti vinse il primo premio con medaglia
d’oro del concorso di composizione indetto dalla rivista “Il Mandolino” di Torino.Poche sono le notizie
riguardanti la sua vita Le scarse testimonianze si riferiscono soltanto al periodo dal 1920 alla sua morte
quando assunse la direzione della Banda di Darfo. Potremmo definirlo anche come un “pittore con la
musica”; la profonda amicizia con il pittore camuno G.B.Nodari ha sicuramente accompagnato la
creazione della maggior parte delle composizioni di Salvetti .scorrendo l’elenco delle sue opere anche ai
non musicisti ritornano immediatamente alla memoria le immagini più suggestive della nostra
provincia: Alla fonte Igea. Valzer, dedicata “A tutti i frequentatori delle Terme di Boario”, Una gita a
Pontedilegno. Marcia, dedicata “Ai soci dello Ski-Club Dalignese”, Poesia Alpestre. Ouverture, Ricordi
di Breno. Valzer, Tramonto d’estate sul monte Tonale. Oltre all’amata Val Camonica non potevano
mancare le romantiche immagini del lago: Sulle onde del Sebino. Valzer, Sul Lago Sebino. Remigata,
dedicata “Ai Mandolinisti della Riviera Sebina” e della maestosa figura del nostro castello: Sul colle
Cidneo. Valzer lento, dedicata “All’amico Antonio Favero”. Sul versante del repertorio per banda
rimangono invece poche composizioni di S. Salvetti, sembrerebbe questa una contraddizione per un
musicista che ha passato la sua esistenza a stretto contatto con l’associazionismo filarmonico locale
trasmettendo con cura e competenza l’arte musicale. Il secondo punto riguarda il tasto dolente della
ricerca storica e biografica, fino ad oggi nulla è stato fatto dalle istituzioni (comunità, comuni,
provincia, enti) per una giusta valutazione della figura e dell’opera di Simone Salvetti. Ciò che è stato
fatto, dai pochi appassionati (voglio citarne uno per tutti noi: Giovanni Ligasacchi) ha permesso di
tenere vivo il suo ricordo. Dobbiamo allora rilevare come oggi sia disponibile, sia alla fruizione che
all’ascolto, nemmeno il 10 % della produzione musicale di S.Salvetti e la maggior parte delle sue opere
non è disponibile in Italia o in Europa ma è custodita in Giappone.

Isidoro Capitanio (Brescia, 1874 – 1944)


Figlio d’arte, il padre Guglielmo era compositore e pianista, evidenziò giovanissimo un notevole
talento musicale. Ebbe come maestri P.Chimerì per il pianoforte, Mascardi per l’organo, Mapelli e
Mattioli per la composizione. Ottiene vari incarichi come organista e nel 1911 si diploma in
composizione presso il Liceo Musicale G.B.Martini di Bologna. Compositore fecondo e abile
improvvisatore all’organo fu appassionato cultore della musica strumentale, collaborando come
pianista in numerose formazioni, dal trio al quintetto. Da sottolineare il suo impegno didattico
all’interno del Liceo Musicale “Venturi”, ove insegnò pianoforte, armonia e composizione, e nel 1934
ottenne la nomina a Direttore

Carlo Allegretti (Savigliano, 1885 - Brescia, 1965)


Figlio di un compositore e direttore di banda, si diplomò giovanissimo in pianoforte, flauto e
composizione. Arrivato a Brescia nel 1925 per lavorare come progettista tecnico alla Togni, assunse la
direzione della “Costantino Quaranta”, divenuta poi “Orchestra Mandolinistica del Dopolavoro Togni
-sezione C. Quaranta”, per rinascere in forma autonoma nel 1951, dopo le traversie belliche.
Dedicò la sua vita artistica all’orchestra a plettro, lasciando numerose composizioni e trascrizioni note
in Italia e all’Estero per la loro qualità. Solamente nel 1956 Allegretti si ritirò dalla direzione
dell’orchestra per motivi di salute.
Franco Margola (Orzinuovi, 1908 - Brescia 1992)
Ha studiato violino con R. Romanini e composizione con G.Guerrini, C.Jachino, A.Longo e A.Casella,
diplomandosi al Conservatorio di Parma nel 1926 e nel 1934. Direttore del Liceo Musicale di Messina
dal 1938 al 1940, ha poi insegnato composizione nei conservatori di Cagliari, di Bologna, di Milano e di
Roma. Nel 1960 vince il concorso di direttore del Conservatorio di Cagliari, e dal 1964 ha insegnato
composizione al Conservatorio di Parma fino al 1975, Si è dedicato prevalentemente alla musica
sinfonica e da camera, equilibrando elementi tradizionali e stilemi del linguaggio contemporaneo.
Citiamo di seguito alcune riflessioni del maestro riguardanti la Grande Sonata contenute nel copioso
carteggio epistolare intercorso con l’editore padovano G.Zanibon: (30 maggio 1982) “In questi ultimi
giorni ho terminato un grosso pezzo per mandolino e chitarra. Mi sono riconciliato col mandolino (che
detestavo) quando ho scoperto che anche il collega Beethoven ha scritto per tale strumento pur
evitando di trattarlo alla napoletana così come ha fatto il sottoscritto (27 ottobre 1983) “Ho scritto una
Gran Sonata per mandolino e chitarra che due valorosi concertisti di Brescia stanno mettendo allo
studio (il mandolinista ha la cattedra di Padova; cattedra che fu di Anedda. L ‘altro (il chitarrista Bono).
Questa Gran Sonata ha un torto; è veramente grande (17 pagine); è un opera di grande respiro che fila
dritta senza interruzioni:”

Claudio Mandonico (Brescia 1957)


E’cresciuto musicalmente nel Centro Giovanile Bresciano di Educazione Musicale dove ha intrapreso lo
studio di saxofono, pianoforte e contrabbasso. Si è poi diplomato in composizione presso il
Conservatorio di Brescia, sotto la guida del maestro G. Facchinetti.
Autore ed esecutore eclettico ha composto brani per i più svariati gruppi strumentali con una speciale
predilezione per la Banda e l’Orchestra. Numerose le edizioni stampate e discografiche di suoi lavori
che sono entrati nel repertorio di gruppi strumentali di tutto il mondo, con particolare rilievo per la sua
cospicua produzione per strumenti a pizzico.
Fantasia Bulgara costruita sulla canzone “imala maika edno nii chedo” (la mamma ha un bambino di
nome Nicola) risente del clima ritmico e armonico delle musiche etniche dell’area balcanica a noi note
soprattutto attraverso l’opera di ricerca e compositiva di B.Bartok. Il brano tb scritto in occasione della
tournée in Bulgaria dell’Orchestra Città di Brescia nel 1980 ed a essa dedicata.

Mauro Montalbetti (Brescia 1963)


ha studiato composizione sotto la guida di A.Giacometti, perfezionandosi in seguito con G.Grisey,
M.Stroppa, I.Danieli e C.Maresca. Le sue partiture sono state segnalate e premiate in diversi concorsi
nazionali:
V.Buccbi di Roma (1988), F.Evangelisti di Roma (1990), S.Bebrend della Federazione Mandolinistica
Italiana (1991), Nord/Sud Consonance di N.York (1993), E.Bloch di Lugano (1994) e Composer’s Arena
di Amsterdam (1996).
Interessato alla didattica musicale collabora con la S.I.E.M. sezione di Brescia tenendo corsi di
propedeutica e musica d’insieme.
IMMOBILE, è una breve composizione scritta nel 1991 per il concorso “Behrend” dove ha ottenuto una
segnalazione di merito. La caratteristica principale del brano è la ricerca sul colore timbrico, ottenuta
grazie all’ allqgamento dell’organico classico dell’Orchestra a plettro con flauto, arpa e percussioni.
Nelle sei sezioni che compongono il brano le soluzioni armoniche (alternanza di cluster e armonie più
consonanti) e ritniiche (sovrapposizioni poliritmiche) vengono proposte in finzione della enfatizzazione
degli impasti timbrici che si succedono.
...Nomenclatura Degli Strumenti a Plettro

MANDOLINO VENEZIANO:
Epoca di diffusione: 1650 – 1750
Numero di cori e corde: 5 x 2
Accordatura: si mi la re sol
Lunghezza corda vibrante: 330 mm.
Particolari: Tavola Piana, Corde di budello, Ponticello Fisso

MANDOLINO LOMBARDO:
Epoca di diffusione: 1650 – 1800
Numero di cori e corde: 6 x 2
Accordatura: sol si mi la re sol
Lunghezza corda vibrante: 300 - 330 mm.
Particolari: Tavola Piana, Corde di budello, Ponticello Fisso

MANDOLINO BRESCIANO O MANDOLINO CREMONESE:


Epoca di diffusione: 1650 – 1850
Numero di cori e corde: 4 x 1
Accordatura: sol re la mi
Lunghezza corda vibrante: 310 - 330 mm.
Particolari: Tavola Piana, Corde di budello, Ponticello Fisso

MANDOLINO GENOVESE:
Epoca di diffusione: 1750 – 1820
Numero di cori e corde: 6 x 2
Accordatura: mi la re sol si mi
Lunghezza corda vibrante: 310 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

MANDOLINO NAPOLETANO:
Epoca di diffusione: 1740 ad oggi
Numero di cori e corde: 4 x 2
Accordatura: sol re la mi
Lunghezza corda vibrante: 330 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

MANDOLINO MILANESE:
Epoca di diffusione: 1760 - 1900
Numero di cori e corde: 6 x 1
Accordatura: sol si mi la re sol
Lunghezza corda vibrante: 290 - 320 mm.
Particolari: Tavola Piana, Corde di budello, Ponticello Fisso
MANDOLIRA:
Epoca di diffusione: 1890 - 1930
Numero di cori e corde: 4 x 2
Accordatura: sol re la mi
Lunghezza corda vibrante: 330 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

MANDOLINO SICILIANO:
Epoca di diffusione: 1900
Numero di cori e corde: 4 x 3
Accordatura: sol re la mi
Lunghezza corda vibrante: 330 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

MANDOLA TENORE:
Epoca di diffusione: dalla seconda metà dell’800 ad oggi
Numero di cori e corde: 4 x 2
Accordatura: sol re la mi
Lunghezza corda vibrante: 410 - 450 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

MANDOLA CONTRALTO:
Epoca di diffusione: dalla seconda metà dell’800 ad oggi
Numero di cori e corde: 4 x 2
Accordatura: do sol re la
Lunghezza corda vibrante: 380 - 410 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

MANDOLONCELLO:
Epoca di diffusione: dalla seconda metà dell’800 ad oggi
Numero di cori e corde: 4 x 2
Accordatura: do sol re la
Lunghezza corda vibrante: 550 - 650 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

LIUTO CANTABILE:
Epoca di diffusione: dalla seconda metà dell’800 ad oggi
Numero di cori e corde: 5 x 2
Accordatura: do sol re la mi
Lunghezza corda vibrante: 550 - 650 mm.
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile

ARCILIUTO O MANDOLBASSO:
Epoca di diffusione: 1880 - 1950
Numero di cori e corde: 1 x 1, 3 x 2
Accordatura: mi la re sol
Particolari: Tavola Spezzata, Corde di metallo, Ponticello Mobile
..Abstract

MOTIVATION
The many critics received for our choices of analyzing a mandolin for this research brought us to mark
all the points in common and all the differences that match this two instruments to demonstrate that
mandolin had his importance in culture and in the history of European and American music too, even
thought it’s considered just a popular instrument.

PROBLEM STATEMENT
Since the mandolin has been rediscovered an studied just in the last years we faced big issues in the
research of the information.
The mandolin is also considered by many an inferior instrument compared to bow instruments,
therefore it has been difficult to go over with examination and collect sufficient information in order to
produce a dignified work.

APPROACH
In order to demonstrate our theory, it has been necessary to make a cultural research on the
background of the instrument to understand how they used to work in Naples in the end of the 19 th
century, which where the features, the style and the materials used.
We studied the acoustic and structural characteristics isolating all the points of contact and all the
differences with the violin, without any doubt of the bow instruments the most similar to the mandolin
both for the tuning and the range.

Through lamp of wood exame, we can tell what materials had been used for the construction of this
instrument, radiography and endoscope had shown structural particulars otherwise concealed, with
the assistance and the experience of some masters luthiers we had made a stylistic analisys.
It's been impossible to attend the acoustic test because the instrument had come unassembled.

RESULTS
At the end of our researches we found very interesting information, like the fact that the instrument is
not french as the label indicates, after the radiography examination the materials had revealed original
and the observation that we exposed in motivation had their confirm.
With the lamp of wood we effectuated tests on other materials to certain the originality of the style.
With endoscope we clouded analyse the integrity of the internal structure.
In the end of examination the result had been foundamental for the research

CONCLUSION
The neapolitan mandoline is a sort of coktail between violin tuning with the lute stringing, the body
form and the tessitura of the mandore, the pegsystem, the necksystem and the headsystem of the
guitar, together with the raked soundboard and the string anchorage of the chitarra battente.
These last two features concerning the stringing system used, they could be find in the Genovese
mandoline, an early eighteen-century variation of the milanese intsrument.
The tuning of the mandoline is the same of the violin's from the fourth string, the thickest one, to the
first the notes are G,D,A and E
Bibliografia:

ORLANDI Ugo, a cura di – Il Periodo d'oro del Mandolino


Cremona, Turris editrice, 1996

ACCORRETTI G. - Studio sulla costruzione del mandolino napoletano.


Ancona, stabilimento tipografico del commercio, 1923

PISANI Agostino – Manuale Teorico pratico del mandolinista.


Milano, Ulrico Hoepli editore, 1913

GALANTE A. - Il Mandolino ed istrumenti affini.


conferenza tenuta al circolo dilettanti mandolinisti e chitarristi di Milano il 22 marzo 1891,
illustrata e pubblicata per cura di Antonio Monzino

ADELSTEIN Samuel – Memorie di un Mandolinista, “Mandolin Memories”.


a cura di Orlandi Ugo,
Cremona, Turris editrice, 1999

STEINER Rudolf – L'Essenza della Musica e l'Esperienza del Suono nell'Uomo,


Milano, Editrice Antroposofica, 1987

FRIGNANI Lorenzo – Chitarre e Mandolini, “Piccola collezione di strumenti italiani dell'800 e del '900”.
Modena, 2002

COATES Kevin – The Mandoline, an unsung serenade,


in Early Music 5, 1977, pp75, 87
Traduzione di G. Stolfini
LEONI P. - Méthode raisonée pour passer du Violon à la mandoline
Parigi, 1768

MERSENNE Marin - Harmonie Universelle.


Parigi, 1636

PIERCE R. - La Scienza del suono


Zanichelli Editore, 1988

EVEREST – Manuale di Acustica


Ulrico Hoepli Editore, 1996

ANTONIONI Giovanni – Dizionario dei costruttori di strumenti a pizzico in Italia dal XV al XX secolo
Turris editrice, Cremona

Liuteria F.lli Lodi, catalogo.


Sezione strumenti antichi
Carpi, MO

MOTTA Tommaso – Armonia Capricciosa di suonate musicali da camera


Milano, 1681

CORRETTE Michel – Nouvelle mèthode pour apprendre à jouer en trés peu de tems la Madoline
Parigi, 1764

Catalogo della ditta Antonio Monzino


Milano
Ringraziamenti:

Ringraziamo Ugo Orlandi per la fiducia e la disponibilità, il maestro Aromatico, senza il


quale nulla sarebbe stato possibile, il maestro Tiziano Rizzi della Civica Scuola di Liuteria
di Milano per le spiegazioni e la simpatia, il maestro Negroni ed il maestro Vaia per le
radiografie, il maestro Amighetti per le preziose informazioni, il maestro Scarpini per I
consigli e le dritte.

Un ringraziamento speciale va a Massimo Pagliari dall'infinita pazienza, un altro alla


stampante della scuola e all'assistente tecnico Gabriele.

Ringraziamo Il professor Smerieri, il professor Rossini, la professoressa Brambilla per il


tempo dedicatoci.

Ettore Mariani e Daniele Orlandi


Grazie a mia madre, mio padre e mio fratello...

..alla possibilità ed al futuro..

..e a tutti quelli che sorridono e non mi rovinano le giornate...

Potrebbero piacerti anche