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Strumenti musicali in Sicilia tra Rinascimento e Barocco


Giovanni Paolo Di Stefano

Premessa uno granacordio [gravicordio], una viola di sandalo cum la sua ca-
La rappresentazione di scene musicali nelle arti figurative rispon- xia [cassa] uno lixuto [liuto] et certa alia bona existentia in posse
de generalmente ad intenti estetici e simbolici: soltanto di rado ad presens Dominici Alliata Tamborini. Item un altro cimbalo exi-
fornisce spaccati realistici o pienamente attendibili della vita e del- stenti in potiri di lo magnifico Antonello Vultagio pro ducatis sex.
le pratiche musicali dei secoli passati. Se valutate con la dovuta Item un altro manicordio [clavicordo] existenti in potiri di uno frati
cautela, le fonti iconografiche costituiscono comunque una pre- di Santo Francisco per uncias 1.3. Item un altro cimbalo existenti in
ziosissima risorsa di informazioni, specialmente per l’organologia, potiri di Nicolao de Modica per quadam fidecommissionem presti-
la disciplina musicologica che studia la storia e la tecnologia degli tam per eundem testatorem erga Marcum Antonium Grifu et non
strumenti musicali [1]. L’analisi iconografica può infatti fornire im- soluti. Item un altro manicordio existenti in potiri di lo magnifico
portanti indicazioni sulle tipologie e sulle caratteristiche costrutti- Francesco Percolla per uncias 2.6 [5].
ve degli strumenti musicali in uso o semplicemente noti all’epoca Come abbiamo accennato, molti nobili isolani nutrirono notevo-
in cui l’opera d’arte fu realizzata e di cui magari oggi si sono perse le interesse per la pratica musicale. Tra questi, Francesco Monca-
le tracce. Per questa ragione, data l’esiguità di strumenti rinasci- da conte di Caltanissetta, protettore di musici ed artisti (tra i quali
mentali e barocchi di provenienza siciliana oggi esistenti, l’icono- Giandomenico Martoretta, Pietro Vinci e Antonio Il Verso) nonché
grafia musicale riveste un ruolo di particolare importanza per for- dilettante di liuto, nel 1571 possedeva nel suo palazzo: “due ce-
mulare ipotesi sulle tipologie strumentali in uso nell’isola nei secoli tre [cetere], un liutello, una viola d’oro e un liuto ciascuno con la
passati. L’analisi delle testimonianze figurative diviene poi ancora sua inbusta [custodia]” [6]. Lo stesso interesse per la musica era
più efficace se supportata ed integrata dall’esame di altre fonti in quegli anni coltivato dal messinese Giovanni La Rocca barone
documentarie coeve, in particolare quelle archivistiche, musicali e della Placa il cui inventario del 1572 citava: “una spinetta con uno
letterarie. Il presente contributo intende dunque mettere in rela- minacordio/ Item un’altra spinetta vecchia la quali la bona anima
zione proprio tali fonti e proporre una visione d’insieme, seppur ei desi a mico/ Item uno trombonj et una trombetta/ Item tri liri,
ovviamente non esaustiva, delle principali tipologie di strumenti in una grandi et dui piculi/ Item una arpa minata/ Item dui ribichet-
uso in Sicilia tra la seconda metà del XV e l’inizio del XVIII secolo. ti vechi/ Item tri liuti, uno di ebano et li altri dui di legnami/ Item
una viola lunga/ Item una chitarra lavorata/ Item quattro conserti
Raccolte di strumenti musicali in Sicilia di musica minati” [7]. A giudicare dalla ricchezza di tale collezio-
tra Rinascimento e Barocco ne, si può ben immaginare che il palazzo del barone della Placa –
Dall’inizio del Cinquecento raccolte di strumenti sono documen- che nel 1576 accoglieva i festeggiamenti per celebrare la fine del-
tate in tutti i principali centri italiani e ribadiscono il capillare in- la peste che aveva afflitto Messina – fosse a quel tempo uno dei
teresse per la pratica musicale che coinvolse in modo travolgente luoghi di rilievo per le attività musicali cittadine. Proprio nel 1576,
tutta la penisola. Un recente studio di Renato Meucci ha messo in altri strumenti erano citati nell’inventario dei beni appartenuti a
evidenza la portata di tale fenomeno ed illustrato la straordinaria un fiorentino, di nome Filippo Barducci, dimorante ad Alcamo:
ricchezza delle collezioni italiane cinque-seicentesche che talvol- “uno liuto con la sua cascia, uno minacordio pichiulo, uno cornet-
ta contavano anche centinaia di strumenti, alcuni dei quali erano to, uno flaudo, diversi pezi di libri di musica” [8]. Piccole raccolte
dei veri e propri gioielli di arte applicata [2]. Ma se è notevole il di strumenti musicali erano infatti presenti non solo nelle princi-
numero di documenti d’archivio, fino ad oggi noti, riguardanti le pali città della Sicilia – Palermo, Messina e Catania in testa – ma
antiche collezioni di strumenti musicali dell’Italia settentrionale, anche in paesi decentrati. Nel 1593, ad esempio, l’inventario stila-
meno conosciuto è il caso del meridione e soprattutto della Si- to alla morte del barone Pirro Perollo di Sciacca menzionava: “dui
cilia. L’analisi di alcuni inventari di antiche raccolte siciliane con- cimbali/ Item uno conserto di violoni d’arco dati a consonanza per
sente una ricognizione preliminare delle tipologie strumentali in ditto condam barone in la terra del Burgio a don Cola Bajamontj”
uso nell’isola tra Rinascimento e Barocco. Sin dall’inizio del XVI [9]. Sempre nel 1593 l’inventario di Ercole Branciforti duca di San
secolo, gli strumenti musicali sono infatti costantemente presen- Giovanni elencava: “cinque viole di arco/ dui cascioni grande per
ti negli inventari testamentari dei nobili isolani e ribadiscono quel dette viole/ uno organetto grandicello che sta alla Cappella/ uno
vivo interesse per la pratica musicale che spingeva il ceto aristo- zimbalo con organo/ una spinetta/ uno organetto piciolo” [10].
cratico alla costante richiesta di musica profana d’intrattenimento A Palermo, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, un
(si pensi ad esempio all’imponente corpus madrigalistico siciliano interessante gruppo di strumenti era poi in possesso di Luigi Sca-
cinque-seicentesco). Tra i più antichi inventari di strumenti musi- vuzzo e Russo barone di Cefalà il cui palazzo, dove abitualmente si
cali rintracciati finora e quasi tutti inediti, vi è quello del nobile pa- tenevano accademie musicali, fu una delle sedi più rinomate della
lermitano Mariano Vernagallo che nel 1519, oltre a preziosi gioielli città per questo genere d’attività d’intrattenimento. Già nel 1562,
e suppellettili, registrava tra i suoi beni: “chimbali dui grandi/ Item il barone aveva assunto al suo servizio il musico Giuseppe Morello
Pietro Novelli, Co- un altro chimbalo rupto/ Item dui violi con soi caxa” [3]. Dei tre per “suonare nella sua casa due volte al giorno e mettere in co-
munione di Santa cembali che figurano nell’inventario, uno “longitudinis palmorum pia madrigali e cose pertinenti ad musiche e insegnargli per due
Maria Maddalena octo et cum taxtis quinquaginta” (lungo otto palmi con cinquan- anni” [11]. Quarantacinque anni più tardi, nel 1607, l’inventario
(1642), Palermo, ta tasti) era stato acquistato dal Vernagallo nel 1512, al prezzo di degli strumenti redatto alla morte del barone comprendeva: “Sei
Galleria Regionale nove onze, presso la bottega del cembalaro e organaro palermita- violi d’arco con li soi archi e con li soi caxi virdi/ Un zimbalo d’eb-
della Sicilia, n. inv. no Giovanni Blundo [4]. bano con li soi tasti d’avolio et con l’organo di sotto/ Dui ligutti
5181: particolare Sempre alla prima metà del XVI secolo risale l’inventario di stru- d’ebbano et altra legnami/ Una lira et uno violuni/ Uno zimbalo
con angelo che menti musicali, principalmente a tastiera, contenuto nel testa- dobulo [doppio]” [12]. Nel 1624, alla morte del nobile palermi-
suona il liuto. mento redatto nel 1535 dal palermitano Vincenzo Ramondino: tano Giovanni Calogero Tagliavia, erano stati inventariati e messi
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in vendita altri strumenti musicali del cui ricavato – come gentil- ta l’opera Gli equivoci nel sembiante di Alessandro Scarlatti [19].
mente ci informa Roberto Pagano – aveva beneficiato la Casa dei Nella biblioteca, tra centinaia di volumi, non mancava poi una co-
figlioli dispersi (ossia Conservatorio del Buon Pastore): “in primis pia delle celebri “Toccate di daulatura [sic = intavolatura] di Cim-
onze 6 per prezzo di un Cimbalo con suo coiro [cuoio] di sopra bali et organo del Fresco Baldi” per la cui esecuzione il nobiluomo
e suoi trispiti [cavalletti] venduto a M.ro Francesco Consales/ E aveva a disposizione “un cimbalo con sue piedi, tre spinette, [e]
più onze 3 per prezzo d’una teordia [sic = tiorba] con sua cascia un organo” situato nella cappella [20].
venduta a Don Francesco Italia/ E più tarì venti quattro prezzo
d’una chitarra con sua cassa venduta a Don Francesco Platamo-
ne” [13]. Purtroppo questi inventari generalmente non rivelano
i nomi dei costruttori degli strumenti e non è dunque facile ac-
certarne la provenienza. Come riscontrato per molte altre tipolo-
gie di manufatti (ad esempio porcellane, cristalli, tessuti e dipinti),
possiamo comunque immaginare che nelle ricche dimore non do-
vessero mancare strumenti musicali importati da altri centri del-
la penisola (ad esempio da Napoli, Roma e Venezia) e dall’estero.
Questo lascerebbe ad esempio intendere l’elenco di strumenti che
intorno al 1629 appartenevano alla nobilissima Donna Giovanna
d’Austria, nipote dell’imperatore Carlo V e consorte di Francesco
Branciforti principe di Pietraperzia e marchese di Militello. Questo
inedito inventario, la cui conoscenza devo alla gentile segnalazio-
ne di Luciano Buono, citava strumenti di grandissimo pregio e ra-
rità: “un cimbalo et una spinetta, onze 40; un milacordio picciolo,
onze 4.24 […] una chitarra di ebano, onze 5.18 […] uno scrittorio
di ebano et avolio istoriato con le sue porte et una spinetta, onze
200 […] un scrittorio di Alemagna con un organo dentro con una
investa [coperta] di velluto verde con due maniche di argento in-
dorati, onze 120” [14]. Come ci informa Vincenzo Abbate, altri
strumenti importati dal “continente” erano presenti tra quelli do-
nati nel 1630 da Giovanni Maria Gisulfo, arcidiacono della catte-
drale di Agrigento, al chierico Lorenzo Grado: “in primis un liuto
d’avolio e di nuci d’India con la cascia/ Item una chitarra napolita-
na/ Item un theorbino/ Item una spinetta venetiana/ Item un mi-
nacordo” [15]. A Palermo, strumenti d’importazione erano anche
citati nell’inventario del principe Giovanni Valdina che nel 1665
possedeva: “Un cimbalo plano foderato d’Alacchi [lacche] rossi
con passamano d’argento/ Una chitarra di legno/ […] Una chitar-
ra di ebano/ Un cimbalo grande Romano comprato onze 40 fode-
rato di coiro rosso con fascetti adorati [dorati] dentro cassa/ Una
spinetta Veneziana regalatomi dal Marchese Pallavicino/ Un con- Clavicembalo di Carlo Grimaldi (Messina, 1697), Norimberga, Germani-
certo di Viole tutti n. 6 con suoi archi” [16]. Diversi pregevoli stru- sches National Museum, n. inv. MIR 1075.
menti, alcuni dei quali certamente importati da Venezia, erano
poi in possesso di un altro membro della già citata famiglia Bran-
ciforti, Ottavio vescovo di Catania, che nel 1646 includeva nel suo Tra i nobili che ebbero parte attiva nella vita musicale palermitana
inventario: “Due spinetti tutto d’un pezzo una grande nella qua- del Seicento vi era stato poi Antonio Lucchese principe di Cam-
le n’entra l’altra picola con li tasti d’avolio/ Un Zimbalo Cromatico pofranco nel cui palazzo molti signori, accomunati da “l’amicizia
di sonare grande usato/ Una Cassa con concerto di viole d’arco e l’assiduità de’ virtuosi esercizij”, cantavano, suonavano e danza-
venetiane consistenti in sei violi e due violini” [17]. Tra le fami- vano nel corso di dilettevoli accademie musicali [21]. L’inventario
glie d’alto lignaggio, i Branciforti (o Branciforte) furono una casata redatto nel 1652, alla morte del principe di Campofranco, testi-
particolarmente dedita alle attività musicali. Geronimo Branciforte monia lo strumentario a disposizione dei “Nobili Filarmonici di Pa-
conte di Cammarata era stato citato da Giulio Cesare Monteverdi, lermo” che, tempo addietro, avevano usato incontrarsi presso la
nella sua premessa agli Scherzi musicali (Venezia, 1607) del fra- sua dimora: “un Cimbalo et un theorbino con soi pedi e coverza
tello Claudio, come uno dei principali compositori della “Seconda di cojro vechia/ […] Item dui tamburina/ […] Item dui chitarri con
Pratica” a fianco dei più noti Cipriano de Rore, Gesualdo da Veno- soi casci ”; ma anche degli strumenti in disuso ormai stipati in un
sa e Emilio del Cavaliere [18]. Altrettanto interessato alla musica magazzino: “Item una triorbia et un arciligutto [una tiorba e un
doveva poi essere stato il potentissimo Carlo Maria Carafa e Bran- arciliuto] con sua cassa vechia rutti/ Item dui viuluni vechi espel-
ciforti, principe di Butera, Grande di Spagna e ambasciatore di re lati/ Item un ligutu vechiu ruttu con sua cascia” [22]. Ovviamen-
Carlo II. Nel suo maestoso palazzo di Mazzarino vi era persino un te, accanto a queste piccole raccolte private vi erano quelle delle
teatro privato dove nel Carnevale del 1688 era stata rappresenta- istituzioni religiose. Nel Conservatorio del Buon Pastore di Paler-
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mo, costituito all’inizio del Seicento, erano presenti strumenti ad
uso dei giovani che venivano educati allo studio della musica. Una
nota di spese del 1721 informava che il deputato priore dell’isti-
tuto aveva incaricato un suo procuratore dell’acquisto a Napoli di
“alcuni strumenti da fiato usati per l’ammontare di onze 9 e tarì
27 […], un violino, corde di ricambio, carta da musica per onze
4 e tarì 4 […], un cembalo con corde e sordine di rame, un vio-
lingello, una viola, altro cembalo con ottava stesa per il contrap-
punto” [23]. Ma purtroppo di questi strumenti, come di molti altri
che nel tempo si aggiunsero alla ancor oggi esistente collezione
del Conservatorio di Palermo (da cui provengono il contrabbasso
di Vincenzo Trusiano e il violoncello di Carlo D’Avenia qui in mo-
stra) non è rimasta traccia.
I documenti e gli inventari sopra citati mostrano la varietà di stru-
menti in uso in Sicilia tra Cinque e Settecento a cui gli artisti del
tempo poterono ispirarsi per le rappresentazioni pittoriche con
soggetti musicali. L’analisi di tali tipologie strumentali, integrata
da altre testimonianze documentarie, sarà affrontata in modo più
dettagliato nei paragrafi che seguono.

Cordofoni a manico
Nel 1412, l’accordo di Caspe sancì l’annessione della Sicilia ai regni
di Aragona, Catalogna e Valenza sotto la corona di Ferdinando di
Castiglia. Da allora il governo dell’isola fu, di volta in volta, affi-
dato ai viceré, quasi sempre spagnoli. Al loro seguito funzionari,
militari, cortigiani, religiosi, artigiani, mercanti, artisti e musicisti
di provenienza iberica importavano nell’isola la propria cultura e
nuovi gusti artistici, letterari e musicali.
Filippo Paladini, Madonna in gloria e Santi (1605), Palermo, chiesa di S.
Tra gli strumenti introdotti in Sicilia e nell’Italia meridionale dagli
Ignazio all’Olivella: particolare con angelo che suona la viola da mano.
spagnoli vi furono innanzitutto due cordofoni a manico, la vihue-
la de mano e la vihuela de arco [24]. La vihuela de mano indicata
con il termine italiano viola da mano, ma spesso detta semplice-
mente “viola”, aveva una cassa con tavola armonica e fondo piatti
e fasce con rientranze laterali a spigolo. I sei ordini di corde (che
talvolta potevano essere anche cinque, sette o otto) erano accor-
dati per quarte con una terza maggiore in mezzo come nel liuto.
La tecnica esecutiva era dunque praticamente identica a quella di
quest’ultimo strumento e, come nel liuto, le corde venivano pizzi-
cate con le dita o con l’ausilio di un plettro. Come dimostrano di-
versi trattati cinquecenteschi, liuto e viola da mano erano quindi
due strumenti intercambiabili: ad entrambi era ad esempio dedi-
cato il trattatello del “Reverendo Don Bartholomeo Lieto Panhor-
mitano” intitolato Dialogo Quarto di Musica dove si ragiona sotto
un piacevole discorso delle cose pertinenti per intavolare le opere
di Musica esercitarle con viola a mano o ver Liuto (Napoli, 1556).
La viola da mano dovette avere un largo successo in Sicilia duran-
te il Rinascimento e se ne trova ancora traccia in opere pittoriche
dell’inizio del Seicento (si vedano ad esempio i dipinti di Filippo Pa-
ladini). La vihuela de arco ossia viola da arco, era assai simile dal
punto di vista costruttivo al modello da mano ma tenuta in posi-
zione verticale e suonata con l’archetto. Durante il Cinquecento,
come era avvenuto alla fine del secolo precedente nella provincia
di Valenza, anche in Sicilia si diffuse una nuovo tipo di viola, suo-
nata sia da arco sia da mano, che aveva una forma più arrotonda-
ta, simile a quella delle moderne chitarre, e priva delle rientranze
a spigolo dei modelli più antichi.
Dalla fine del Quattrocento, in Italia le viole da arco spagnole fu-
Filippo Paladini, Madonna Assunta in gloria (1612-13), Enna, chiesa Madre rono comunque dotate di un ponticello arcuato che, sostituen-
S. Maria della Visitazione: particolare con angelo che suona la viola da mano. do quello piatto del modello iberico, consentiva l’esecuzione della
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musica polifonica. Altre mo- artigiani specializzati nella lavorazione dell’ebano e dell’avorio (si
difiche costruttive, ad esem- vedano a tal proposito gli elaborati intarsi sugli strumenti ad arco
pio l’adozione di una tavola raffigurati nella Madonna degli angeli di Smiriglio) [27]. A giudi-
armonica più spessa e bom- care dalle fonti archivistiche, la produzione di liuti e di altri cordo-
bata che contrastasse la mag- foni a manico realizzati nelle botteghe palermitane (almeno una
giore pressione esercitata dal cinquantina tra la fine del XVI e la fine del XVIII secolo) fu davve-
ponticello arcuato, portarono ro ragguardevole.
alla nascita dei primi model- Il liuto nel Cinquecento era lo strumento più diffuso e suonato
li di viola da gamba. Costrui- tanto che alcuni musici costituirono delle vere e proprie scuole per
te in più taglie per consentire l’insegnamento di tale strumento [28]. Ma già all’inizio del Seicen-
l’esecuzione delle diverse par- to venne insidiato dalla chitarra: dopo il 1630, a Palermo i termini
ti della musica polifonica, le “liutaro” o “violaro” – che designavano i costruttori di cordofoni
viole da gamba (che comun- a manico – furono sostituiti da “citarraro”. Nel 1618, ad esempio,
que per almeno tutto il Cin- l’inventario degli strumenti presenti nella bottega del liutaio pa-
quecento furono ancora dette lermitano Paolo Cullaro enumerava 81 chitarre (tra strumenti ulti-
viole da arco) ebbero larghis- mati, in fase di costruzione e usati) a fronte di appena “4 ligutazzi
sima diffusione in Italia. Come vechi” [29]. Furono due le tipologie di chitarra diffuse in Sicilia,
abbiamo detto, questi stru- come nel resto d’Italia, all’inizio del Seicento. Una era la chitarra
menti venivano generalmente spagnola, con cassa a forma di 8 come gli strumenti moderni, che
costruiti, e dunque acquistati, aveva normalmente dieci corde, suddivise in cinque cori. A questo
in gruppi di taglie differenti, strumento furono dedicate numerose composizioni e pubblicazio-
detti “concerti”, per l’esecu- ni tra cui vale la pena qui ricordare quella del sacerdote Antonino
zione delle parti gravi, me- Di Micheli della città di Tusa intitolato La Nuova Chitarra di Rego-
die ed acute delle composi- le, Dichiarazioni e Figure (Palermo, 1680) [30].
zioni polifoniche (si veda ad Una tipologia più antica era la cosiddetta chitarra italiana che ave-
esempio il basso di viola da va una cassa a guscio come quella del liuto ed era probabilmente
gamba con i fori di risonan-
za a forma di baffi rappresen-
Viola da gamba di Antonio Ci- tata nella Santa Cecilia di Ter-
ciliano (Venezia, XVI secolo con mini Imerese). Come s’è detto
modifiche di epoca successiva), in precedenza, la presenza di
Bologna, Museo Internazionale concerti di viole d’arco è as-
e Biblioteca della Musica, n. inv. sai frequente negli inventari
1761. delle collezioni cinque-seicen-
tesche: si ricordi, ad esem-

pio, quello realizzato “a consonanza” per il nobile Pirro Perollo di


Sciacca (1593), il gruppo di “cinque viole di arco” appartenuto ad
Ercole Branciforti (1593), le “sei violi d’arco” del barone di Cefalà
(1607) e del principe di Valdina (1665), o ancora il concerto di due
violini e sei “violi d’arco venetiane” di Ottavio Branciforti (1646).
Proprio a Venezia fu attivo uno dei più importanti costruttori ita-
liani di viole da gamba del Cinquecento, Antonio Ciciliano (o Si-
ciliano), il cui soprannome lascerebbe ipotizzare un’origine sicula
sebbene non siano accertate precise testimonianze documentarie Antonino Di Micheli, La Nuova Chitarra di Regole, Dichiarazioni e Figure
a riguardo [25]. (Palermo, Barbera, Rummolo & Orlando, 1680).
Le relazioni tra Venezia e la Sicilia in fatto di strumenti musica-
li sono comunque attestate da un buon numero di inediti docu- dotata di quattro o cinque ordini di corde. Come ha recentemen-
menti d’archivio, riguardanti liutai e violari attivi a Palermo tra la te spiegato Meucci in un illuminante saggio, questo modello ebbe
fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, che non di rado acquistavano larga diffusione in Italia per tutto il Rinascimento e primo Barocco
nella repubblica veneta liuti ma anche singole parti di strumenti fin quando, intorno alla metà del Seicento, fu progressivamente
(ad esempio le tavole armoniche e i gusci) che venivano poi lavo- spodestato dalla chitarra spagnola. Dal modello italiano deriva-
rate e assemblate in loco [26]. Proprio a Palermo, tra Cinque e Sei- rono due strumenti di taglia più acuta: il chitarrino o bordelletto
cento, si sviluppò infatti una vivace comunità di liutai le cui botte- e la mandola detta anche mandora (uno possibilmente incorda-
ghe erano situate nella zona del Ponticello, tra la Chiesa del Gesù to con quattro corde di budello raddoppiate per i primi tre cori e
a Casa Professa e quella di San Giuseppe dei falegnami (dopo il l’altra dotata di quattro corde singole) [31]. Tra Cinque e Seicen-
1612 dei Teatini) della cui confraternita tali artigiani erano mem- to, tali strumenti ebbero diffusione anche in Sicilia e se ne trova
bri. Alcuni di questi liutai operarono anche in collaborazione con testimonianza nelle fonti iconografiche e d’archivio. Nel 1618, ad
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Antonello Crescenzio, Assunta tra Cherubini e Angeli musicanti (Palermo, inizio XVI secolo), Palermo, Galleria Regionale della Sicilia: particolare con
angelo che suona la ribeca.

esempio, “un bordoletto – ancora – senza cordi” era in fase di co- Crescenzio). Suonatori di “rebechina” fecero parte degli organici
struzione nella bottega del violaro palermitano Paolo Cullaro [32]. strumentali delle cappelle musicali siciliane, tra cui quelle di Ca-
Dalla chitarra italiana fu poi derivato anche un modello di mag- tania e di Caltagirone, fino alla metà del Seicento quando questi
giori dimensioni, il chitarrone (il cui nome è appunto l’accrescitivo strumenti furono definitivamente rimpiazzati dai violini [34]. Biso-
del termine “chitarra”), anch’esso con cassa a guscio ma dotato di gnò invece attendere i primi anni del Settecento perché le taglie
lunghe corde aggiunte al grave e fissate ad un cavigliere supple- gravi della famiglia del violino – viola, violoncello e contrabbasso
mentare che era raccordato a quello principale [33]. Nel Seicen- – facessero la comparsa negli organici strumentali siciliani sosti-
to il chitarrone fu poi progressivamente identificato come tiorba. tuendosi in breve tempo alle viole da gamba.
Come testimonia il citato inventario del principe di Campofranco
(1652), anche in Sicilia la tiorba fu comunque ben distinta, sotto il Arpe
profilo terminologico, dall’arciliuto che si differenziava sostanzial- Diversamente da quanto avvenne nella penisola iberica, in Sicilia
mente da quella per la minore lunghezza delle corde. l’arpa non fu mai lo strumento prediletto per l’esecuzione del bas-
Non sembra invece che il violino, le cui prime attestazioni italiane so continuo, tradizionalmente eseguito come nel resto d’Italia al-
risalgono al primo ventennio del Cinquecento, abbia trovato con- l’organo o al clavicembalo. Dalle fonti archivistiche apprendiamo
creta diffusione in Sicilia prima dell’inizio del Seicento. Fino a quel comunque che le arpe ebbero una discreta diffusione in Sicilia. Gli
periodo, oltre alla lira e alla viola da braccio, fu la ribeca lo stru- strumenti raffigurati nei dipinti cinque-seicenteschi, sebbene tal-
mento ad arco da braccio più diffuso. Derivata dal rabab arabo volta riprodotti in modo piuttosto approssimativo, sono general-
(di cui si trova ad esempio testimonianza iconografica negli affre- mente arpe di piccolo formato, con una sola fila di corde e spesso
schi della Cappella Palatina di Palermo), la ribeca ebbe diffusione con colonne e modiglioni scolpiti o sormontati da elaborate scul-
in tutto il Regno d’Aragona. Il modello rinascimentale, suonato in ture lignee (ad esempio le arpe raffigurate nella Madonna degli
una prima fase da gamba e in seguito da braccio con la mano al angeli di Bazzano e di Smiriglio incluse nel catalogo). Ben poco è
disopra dell’archetto, aveva una cassa allungata a forma di pera invece noto sull’impiego in Sicilia dell’arpa cromatica a due o tre
con una tavola armonica in cui di solito si aprivano due fori di ri- ordini di corde (la cosiddetta arpa doppia). Inventata nel Cinque-
sonanza a forma di “c”. Le corde, da tre a sei, erano messe in tra- cento, presumibilmente a Napoli dove furono attivi valenti virtuosi
zione mediante piroli infissi ai lati di un cavigliere a falcetto che di questo strumento (tra cui Ascanio Majone e Andrea Falconieri),
talvolta poteva essere sormontato da una testa d’animale scolpita l’arpa doppia si diffuse in tutta la penisola. Sulla sua possibile cir-
(si veda il bell’esemplare a quattro corde, suonato da gamba, raf- colazione in Sicilia, data l’assenza di notizie certe, vorremmo co-
figurato nell’Assunta tra cherubini e angeli musicanti di Antonello munque formulare un’ipotesi basata sull’interpretazione di alcune
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virtuoso di arpa doppia della quale Scipione Cerreto nel suo Del-
l’albore musicale (Napoli, 1608) sosteneva fosse stato perfino l’in-
ventore [39]. Di certo, il termine “arpone”, accrescitivo di “arpa”,
lascerebbe pensare ad uno strumento più grande e con più corde
rispetto alle piccole arpe diatoniche rinascimentali: tali erano le
arpe doppie barocche a due o tre ordini di corde.

Strumenti a tastiera
Tra gli strumenti a tastiera anche in Sicilia il primato spetta all’orga-
no, attestato sin dall’inizio del Trecento in molte chiese. Al secolo
successivo risale, tuttavia, il fiorire nell’isola di numerose botteghe
organarie. All’inizio del Cinquecento, gli organi siciliani erano ge-
neralmente dotati di una tastiera di quarantacinque o cinquanta
tasti e disponevano di più file di canne: uno o più registri principali
a cui potevano aggiungersi dei registri di ripieno. Assai frequente
era poi l’uso del registro del flauto che poteva essere di due tipi:
“aperto” o “tappato alla todisca” [40]. Numerosissimi furono gli
organari attivi nell’isola tra Rinascimento e Barocco tra i quali il più
celebre fu il palermitano Raffaele La Valle la cui fama giunse persi-
no a Roma dove fu invitato dal Pontefice Paolo V [41]. In base alla
loro destinazione d’uso e alle disponibilità economiche della com-
mittenza, gli organi venivano costruiti in vari formati. Piccoli orga-
Pietro Novelli, Comunione di Santa Maria Maddalena (1642), Palermo, ni portativi erano impiegati per processioni, esecuzioni musicali
Galleria Regionale della Sicilia, n. inv. 5181: particolare con angelo che all’aperto ma anche destinati alle dimore patrizie. Troviamo, ad
suona l’arpa. esempio, un “organetto piccolo dorato” nell’inventario del 1571
di don Francesco Ferdinando d’Avalos che possiamo immagina-
fonti documentarie del XVII secolo in cui figura un misterioso stru- re simile ai tanti piccoli organi rappresentati nelle pitture siciliane
mento detto “arpone”. Di tale tipologia, il cui impiego è attesta- coeve [42]. Ma sin dall’inizio del Cinquecento, gli organari sicilia-
to in ambito liturgico e processionale, dà per esempio notizia nel ni produssero anche cordofoni a tastiera, in primo luogo il clavi-
1687 Lodovico Pappalardo nella sua descrizione della processione cembalo. Uno dei primi fu l’organaro Giovanni Blundo, autore nel
per la festa dell’Annunziata di Pedara: 1512 del già citato clavicembalo del nobile Vernagallo e di un al-
Giravano risuonando con fervido brontolamento intanto per l’af- tro “zimbalo” consegnato nel 1516, assieme ad un organo, a tale
follate istrade i giubilosi tamburri, in mezzo de’ quali udivasi il più Blasio Timpanello di Palermo [43]. Come gli organi coevi, i clavi-
delle volte armoneggiar de’ rustici Pecorai i boscarecci flauti; al- cembali cinquecenteschi, erano provvisti di una tastiera di quaran-
l’hora se di più chitarroni, e di mandole osolar [sic!] volevi il mor- tacinque-cinquanta tasti. Sembra comunque che non di rado fos-
morio sonante potevi sentirlo, mentre in un angolo d’un cantone sero realizzati in Sicilia, tra Cinque e Seicento, anche clavicembali
miravi i suonatori che li flagellavano. Ti scorrea per l’orecchio alcu- a due tastiere: fatto abbastanza insolito nell’ambito della tradizio-
ne fiate in braccio à zefiri il vetusto concento delle cornamuse pa- ne cembalaria italiana che privilegiava strumenti ad un solo ma-
storali. […] Chi con la destra arpeggiante passeggiava un Arpone nuale [44]. Un “cimbalum dublum” era infatti stato costruito già
e chi co’l rostro d’un corbo beccava una cetra. Chi faceva attaccati nel 1527 a Palermo dall’organaro palermitano Antonino Ortis per
al Cembalo tintinnar i striduli sonagli, e molte altre sinfonie [35]. il nobile di origini pisane Alessandro Rosolmini. Un altro “zimbalo
Quello di Pedara non è un caso isolato. Arponi sono infatti do- dobulo” era poi menzionato nel 1607 nel citato inventario del ba-
cumentati anche a Catania nel 1620, in occasione della festa di rone di Cefalà, mentre “un cembalo vecchio con due tastature”
Sant’Agata, e nel 1645 quando Francesco Ruggero era stipendia- nel 1717 tra i beni ereditari del celebre cembalaro messinese Car-
to come “sonatore d’arpone” e di arpa presso la Cappella delle lo Grimaldi [45]. Proprio a Messina, come d’altronde a Napoli e a
Quarantore [36]. L’uso di tale strumento è poi attestato anche a Ferrara, secondo quanto indicato da Giovanni Battista Doni nelle
Palermo dove nel 1660, in occasione di un dialogo in musica te- sue Annotazioni sopra il compendio (Roma, 1640), furono inoltre
nutosi presso i Padri Cappuccini, era possibile udire le voci dei can- costruiti clavicembali enarmonici, dotati dunque di più di dodici
tanti avvolte dai “flutti sonori degli stromenti Organo, Arpone e tasti per ottava, che consentivano appunto l’esecuzione di suoni
Violino” [37]. Oltre che in Sicilia, nel Seicento il termine arpone ri- enarmonici (ad esempio Re diesis e Mi bemolle) [46]. Tra le altre
corre anche a Napoli. Nella capitale partenopea, come raccontava tipologie meno usuali di clavicembalo italiano costruite in Sicilia,
Giovanni Giovenale Ancina nel Tempio Armonico della Beatissima spicca il clavicembalo pieghevole. Si trattava di uno strumento fa-
Vergine (Roma, 1599), era infatti apprezzato il virtuoso Gian Leo- cilmente trasportabile, richiudibile in tre parti: uno degli esem-
nardo dell’Arpa che si esibiva presso l’oratorio di San Filippo Neri plari italiani più belli esistenti fu costruito a Messina da Grimaldi
“scorrendo ‘l campo triangolare dell’indorato suo stupendo Arpo- ed è oggi conservato presso il Museo Nazionale degli Strumenti
ne”. Nella stessa città, dopo il 1639, era poi attivo Andrea Falco- Musicali di Roma (a tal riguardo si veda la scheda dello strumen-
nieri, maestro di “canto di gorga e di arpone” [38]. Il musico Gian to inclusa in questo catalogo). Ma Grimaldi realizzò anche un’al-
Leonardo Mollica detto dell’Arpa fu compositore ed apprezzato tra tipologia di strumento a tastiera, oggi pressoché dimenticata,
48
il claviorgano. Questo strumento, che combinava un clavicembalo tificazione quale spinetta incordata in budello, che ebbe diffusio-
ad un piccolo organo, ebbe in Sicilia larghissima diffusione duran- ne nell’Italia centro-meridionale, si deve ad un recente studio di
te il Barocco. Se infatti, intorno al 1704, Grimaldi aveva appunto Francesco Nocerino [50]. Oltre al “theorbino con soi pedi” del
realizzato due esemplari di “cimbalo et organo assieme” per le principe di Campofranco (1652) – la cui occorrenza nel citato in-
residenze palermitane del viceré Francesco Del Giudice e del prin- ventario è una delle prime attestate in Italia – un “tiorbinetto”
cipe di Cattolica, questo strumento figura frequentemente nelle era in costruzione nel 1717 nella bottega messinese del cembala-
fonti documentarie siciliane almeno dall’inizio del Seicento [47]. ro Grimaldi [51]. Un’altra tipologia di spinetta la cui esistenza nel-
Tra gli altri strumenti a tastiera che ebbero larga diffusione sin l’ambito della tradizione cembalaria napoletana è stata scoperta
dall’inizio del Cinquecento vi fu poi la spinetta, costantemente soltanto di recente dallo stesso Nocerino, è la spinetta doppia (la
presente nelle fonti d’archivio e che possiamo presumere fosse cui diffusione in Italia era pressoché sconosciuta mentre se ne co-
realizzata, come nel resto d’Italia, con cassa sia poligonale sia ret- nosceva assai bene il successo in area fiamminga) [52]. Si tratta-
tangolare. Poco ricorrente è tuttavia in Sicilia il termine “arpicor- va di una spinetta a pianta rettangolare nella quale, accanto alla
do” che nel resto della penisola definiva il primo modello, ma tastiera, era praticato un vano che accoglieva un’altra piccola spi-
ad esso potrebbe riferirsi l’espressione “gravicordio” documen- netta all’ottava. I due strumenti potevano dunque esser suonati
ta nell’isola nel Cinquecento. Una spinetta poligonale di presun- contemporaneamente da due diversi esecutori oppure, estraendo
ta costruzione siciliana, realizzata nel 1530 dal cembalaro Marcus la spinettina e ponendola sopra quella grande, da un unico stru-
Siculus, è conservata presso la Benton Fletcher Collection di Lon- mentista. Come indicato in precedenza, “due spinetti tutto d’un
dra. Lo studio condotto da Grant O’Brien sulle unità di misura im- pezzo – ossia costituite da un’unica cassa – una grande nella qua-
piegate per la costruzione di questo strumento ha dimostrato la le n’entra l’altra picola con li tasti d’avolio […] rivestita di velluto
loro corrispondenza con l’oncia siciliana (sottounità del palmo) e verde chiaro assai bella” figurava nel 1646 nell’inventario di Otta-
ha dunque reso probabile l’origine sicula di questa spinetta e del vio Branciforti vescovo di Catania e costituisce uno dei più antichi
suo costruttore altrimenti a noi ignoto. L’aspetto di questa spinet- riferimenti attestanti la presenza di questo genere di strumenti in
ta rispecchia in modo abbastanza evidente alcune caratteristiche Italia [53]. Per tornare invece a cordofoni a tastiera meno insoli-
costruttive degli strumenti realizzati a Venezia sebbene le misu- ti, un’altra tipologia citata sin dal Cinquecento negli inventari e in
re dello strumento non siano compatibili con l’oncia veneziana altre fonti siciliane è il clavicordo ossia “manacordio (o “minacor-
[48]. Non è dunque da escludere che Siculus possa aver conosciu- dio”), come esso fu più comunemente detto in Sicilia e nel resto
to quella tradizione costruttiva, che in Sicilia era certamente nota d’Italia in epoca antica. Tra le tante testimonianze, cito quella – la
attraverso l’introduzione di strumenti veneti (si è già illustrato il cui conoscenza devo a Giovanni Mendola – relativa all’organista
caso dei liuti). “Una spinetta veneciana” figura nel 1618 a Messi- palermitano Francesco Guarnera che nel 1627 insegnava ad un
na nell’inventario di un tale Giovanni Paolo de Ancona, nel 1630 certo Salvatore Carrà “a suonare di minacordio” presso la bottega
ad Agrigento tra gli strumenti di don Giovanni Maria Gisulfo e nel di Antonio La Valle, figlio d’arte del celebre organaro Raffaele, e
1665 a Palermo nel citato inventario del principe Giovanni Val- in cambio di tali lezioni otteneva “un minacordio atto a suonare”
dina. Un “cimbalo di tavola veneziana con sua coperta di cuoio [54]. La diffusione di tutti i cordofoni a tastiera qui elencati era
stampata e suoi piedi pinti turchini e d’oro torniati” era poi pre- spesso legata ad organisti ed organari. Realizzati nelle botteghe di
sente a Palermo nel 1734 presso il palazzo del principe Nicolò Pla- quest’ultimi, clavicembali, spinette e clavicordi – nelle loro diverse
cido Branciforti [49]. varianti – costituivano infatti una più comoda e facile alternativa
Non mancano, nelle fonti archivistiche, riferimenti ad altre tipi all’organo per il cui funzionamento il musicista era sempre obbli-
meno noti di cordofoni a tastiera. Tra di essi il tiorbino la cui iden- gato ad avvalersi dell’aiuto di uno o più addetti al sollevamento

Spinetta poligonale di Marcus


Siculus (Sicilia [?], 1540),
Londra, The Benton Fletcher
Collection at Fenton House. 49
dei mantici che portavano l’aria alle canne (si notino a tal propo-
sito i “tiramantici” raffigurati accanto agli organi dipinti da Baz-
zano, Smiriglio e Paladini). Non è allora strano che un organista,
come nel 1674 il sacerdote Onofrio Cossentino di Alcamo, posse-
desse nella sua casa vari strumenti a tastiera: “uno organo, uno
cimbalo, una spinetta, e uno minacordio” [55].

Strumenti a fiato
Gli strumenti a corde fino ad ora descritti, dal timbro dolce e deli-
cato, trovavano largo impiego nella “musica bassa” (a bassa voce)
cioè da camera, quelli di cui tratteremo adesso erano invece im-
piegati per le pubbliche cerimonie. Si tratta di strumenti a fiato
e a percussione, dal suono squillante e fragoroso, che venivano
suonati durante le manifestazioni musicali all’aperto: processio-
ni, parate, cortei, festeggiamenti cittadini. Lo strumento a fiato
per eccellenza della musica “alta” fu nel Rinascimento il piffe-
ro o bombarda, aerofono ad ancia doppia dalla forma allungata
terminante con un padiglione svasato (nella provincia di Messina
questo strumento, di grosso formato – detto “pifara”, “bifara” o
“bifira” – fu impiegato in ambito popolare fino alla metà del XX
secolo). Ma con il sostantivo plurale “piffari”, tra Cinque e Seicen-
to, in tutta la penisola si intese più genericamente un complesso di
strumenti ad ancia e a bocchino generalmente costituito non solo
da suonatori di pifferi propriamente detti ma anche di trombone
e cornetto. Quest’ultimo – assai diffuso, almeno fino alla metà del
Seicento, nei due modelli “curvo” e “diritto” (ossia “muto”) – ave-
va un bocchino che veniva appoggiato al lato della bocca cosicché
lo strumento era impugnato in posizione leggermente obliqua (si
vedano le tante raffigurazioni nelle Madonne tra angeli musicanti
qui in mostra). Lo strumento di taglia più grave della famiglia dei
cornetti, chiamato serpentone (detto anche “serpone”), spesso
compare negli organici strumentali in alternativa al trombone. Nel
Cinquecento le città italiane ebbero al proprio servizio dei veri e
propri gruppi strumentali municipali di “piffari”. In Sicilia nel 1587 Bartolomeo Montalbano, Sinfonie (Palermo, Giovanni Battista
la città di Trapani acquistava a Napoli al prezzo di 18 scudi “sei Maringo, 1629).
pifari” concordando con i suonatori che, qualora tali strumenti
non fossero arrivati per tempo quelli avrebbero suonato i “trum-
buni et cornetti” già in loro possesso [56]; nel 1602 a Caltagiro- Molti strumenti a fiato in uso in Sicilia, ad eccezione di quelli di
ne veniva istituito un gruppo di “sunaturi di piffari” composto da tradizione prettamente popolare, venivano generalmente impor-
4 elementi che dal 1628 fu denominato “concerto dei piffari” e tati (spesso da Napoli). A differenza di quanto avvenuto nel setto-
collaborò con la cappella musicale [57]. Questi gruppi di strumen- re organario, cembalario e liutario, non è infatti fino ad oggi do-
tisti figurano costantemente anche in occasione di feste religiose cumentata nell’isola una tradizione artigianale specializzata nella
e processioni, come quella di Messina del 1619 per la festa della costruzione di strumenti a fiato.
Candelora in occasione della quale i “pifari” avevano suonato per
“dui vesperi et missa grandi et processioni” [58]. Proprio in oc-
casione di tali cerimonie le fonti archivistiche spesso menzionano
un altro strumento che ebbe diffusione nell’Italia meridionale, il
buttafoco. Con questo nome si indicava uno strumento composi-
to costituito da una sorta di cetra percossa da una mano con una
bacchetta mentre l’altra suonava un flautino a tre fori. Tra le tan-
te occorrenze di suonatori di buttafoco, citiamo quella del 1571,
quando a Caltagirone un certo Lorenzo di Salvo aveva “sonato lo
buttafoco innanzi lo gloriosissimo Corpo di Cristo”; a Catania nel
1601 un altro buttafoco fu impiegato durante la processione per
la festa di Sant’Agata [59]. In tali occasioni si incontrano altri stru-
menti a fiato di tradizione semicolta o popolare: tra gli altri, il flau-
to doppio (ossia “biscanto”), la zampogna, la tromba dritta detta
generalmente “trombetta” (tutti questi strumenti sono raffigurati
nella Pentecoste e Trinità della chiesa di Santa Maria a Randazzo).
50
Ignoto, Pentecoste e Trinità, Randazzo, chiesa di Santa Maria: particolare con angeli musicanti che suonano (da sinistra) trombe, cornetto, bombarda,
trombone, zampogna, buttafoco, flauto doppio, regale, tamburino e flautino.

Strumenti a percussione rini, tamburelli grandi e tamburelli piccoli, di cui mille erano stati
Concludo questo panorama degli strumenti in Sicilia tra Rinasci- inviati a Trapani, cinquecento a Termini ed altrettanti ad Alcamo.
mento e Barocco, accennando ad alcuni strumenti a percussione Altri duemila strumenti, destinati alle stesse città, erano stati pro-
frequentemente raffigurati nelle fonti iconografiche cinque-sei- dotti da Aleonora Baruni nel 1608 [63].
centesche. Tra questi vi erano in primo luogo il tamburo e il tam- Assai spesso troviamo raffigurato anche il triangolo (o “acciari-
burino (quest’ultimo, di dimensioni minori, era talvolta percosso no”) la cui forma, a partire dal Cinquecento, fu simbolo della Divi-
con una mano mentre l’altra suonava un flutino a tre fori). Tali na Trinità. Ma il triangolo in uso durante il XV secolo aveva forma
membranofoni furono spesso impiegati assieme alle trombette trapezoidale e nella barretta orizzontale alla base erano inseriti
per scandire il ritmo delle cerimonie ufficiali, di processioni e cor- anelli metallici, poi presenti fino alla fine del XIX secolo anche nel
tei. Assai comune era anche il cerchio a sonagliera (detto “circhet- modello triangolare, che la percussione della bacchetta di ferro
to”), un cerchietto in legno dotato di piastrine metalliche messe sullo strumento metteva in movimento (si veda il triangolo suona-
in vibrazione per scotimento. Il tamburello (anche detto “tammu- to da uno degli angeli dell’Assunta di Antonello Crescenzio).
rello” o “tammureddu”), diversamente dal cerchio a sonagliera,
era dotato di una membrana di pelle spesso dipinta. Nel 1542,
ad esempio, il prete alcamese Bernardo Gulino entrava in socie-
tà con il pittore Filippo Giuffré per realizzare “tamburelli et tam-
panelli cum immagine crucifixi et altri immagini” [60]. A Paler-
mo, nel 1604, il “violaro” Gaspare de Yraci aveva acquistato dagli
artigiani Antonino e Francesco Lavocato “tamburellos mille bo-
nos depintos” di cui duecento grandi e i restanti “pichiulini” [61].
Quello stesso anno de Yraci aveva comprato, per poi rivenderli,
altri duemila strumenti (trecento tamburelli grandi e medi, cento
tamburini e mille e seicento tamburelli piccoli) presso la bottega
di Aleonora Baruni, Sigismonda Rizzo e Agata la Scola che – caso
di imprenditoria femminile ante litteram – avevano costituito una
società per la costruzione di tamburelli e setacci [62]. Questa bot-
tega, verosimilmente una delle più importanti della Sicilia, riforni-
va anche altri centri dell’isola. Nel 1607 Aleonora Baruni si era ad
esempio impegnata a costruire ben duemila strumenti, tra tambu-
51
1. Per ulteriori considerazioni sull’interpreta- Ferraris, vol. 13636, cc. 129-135. Il documento è da gamba, dà notizia Giorgio Vasari secondo il
zione delle fonti iconografico-musicali si veda stato recentemente pubblicato, su segnalazione quale di questo “eccellente sonatore di violo-
Meucci 2000, pp. 47-57. della stessa studiosa (che ne stapreparando una ne” fu dipinto un ritratto da Orazio Vecellio fi-
2. Cfr. Meucci 2007, pp. 29-47. pubblicazione integrale) anche in Meucci 2007, glio di Tiziano. Cfr. Cummings 2003, p. 66.
3. Archivio di Stato Palermo, Fondo notai de- p. 44. 26. Per una più ampia trattazione dell’argo-
funti, notaio Gerardo La Rocca, vol. 2510, c. 13. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai mento corredata da un esteso apparato docu-
171. Questo inventario mi è stato gentilmente defunti, notaio Gioacchino Miraglia, vol. 1978, mentario si rimanda al mio studio di prossima
segnalato da Giovanni Mendola. c. 736. pubblicazione dal titolo Liutai, violari, chitarrari,
4. Archivio di Stato Palermo, Fondo notai de- 14. Questo ricco inventario, che non reca una cembalari e organari palermitani dei secoli XVI-
funti, notaio Vincenzo Sinatra, vol. 1602, c. data ma che fu presumibilmente redatto nel XVIII.
141v. Ringrazio Paola Scibilia per avermi segna- 1629 a seguito della morte di Donna Giovan- 27. Sulla Madonna degli angeli di Smiriglio si
lato questo documento. na, è in corso di pubblicazione a cura di Lucia- veda il contributo di Maria Antonella Balsano in
5. Archivio di Stato di Palermo, Fondo corpo- no Buono. questo stesso volume.
razioni religiose soppresse, Monastero di San 15. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai 28. Tra i tanti maestri di liuto, a Palermo negli
Giuliano: Rollo d’atti, contratti et scritture del- defunti, notaio Francesco Comito, vol. 927, c. anni ’80 del Cinquecento fu attivo il liutista Giu-
la venerabile. Confraternita di Santo Giulia- 448. L’inventario cita anche: “Item li libri di mu- seppe Lombardo detto Sgarracatalano che nel
no della felice Città di Palermo, vol. 122, anni sica cioè il primo libro delli canzoni in partitu- 1587 ebbe per allievo Raffaele La Valle – pre-
1553-1700, 20 novembre 1535, c. 65v. Un sen- ra di Fresco baldi stampate in Roma nell’anno sumibilmente il noto organaro palermitano – il
tito ringraziamento ad Ilaria Grippaudo per aver 1626/ Item la canzone del Cesana/ Item le can- quale si recava “a sonari di liguto […] in la scola
portato alla mia attenzione questo documen- zone di Giulio Gianpietro di negro/ Item l’arie di lo detto magistro ioseppi tantum et a dui vol-
to. ad’una voce di Stefano Landi/ Item il secondo li- ti il giorno pro anno”. Cfr. Archivio di Stato di
6. Di quest’inventario dà notizia De Luca 2006, bro delli mottetti a tre, e quattro voci di fra Ata- Palermo, Fondo notai defunti, notaio Giacomo
p. 195. Il documento si trova in Archivio di Sta- nasio de pisticci minore osservante/ Item il pri- Solito, vol. 11572, c. 474v. Ringrazio Arturo An-
to di Caltanissetta, Fondo notai defunti, no- mo libro delle canzone del Guglielmini/ Item il zelmo per avermi gentilmente segnalato questo
taio Giovan Battista Calà, vol. 188, c. 1112. Nel- primo libro di mottetti a due, tre e quattro voci documento.
l’agosto del 1591 Diego Osorio, gentiluomo di di diacono Marino Cicerale/ Item sette passi di 29. Per una trascrizione completa di questo in-
camera del principe, ricevette 87 onze affin- libri di musica scritti a mano di diversi autori”. teressantissimo inventario, da noi rintracciato
ché si recasse “in Napoli e Roma per comprare 16. Archivio di Stato di Palermo, Fondo Archivio presso l’Archivio di Stato di Palermo, si veda Di
istrumenti di musica, calzette di seta e dama- Papé di Valdina, vol. 1201, c. 19v. Una annota- Stefano, Liutai, violari, chitarrari, cembalari pa-
sco, guanti e altre robbe”. Cfr. De Luca 2006, zione, a c. 20, ci informa che nel 1679 “il con- lermitani.
p. 194. certo di Viole si ha regalato al Signor Stefano 30. Sul trattato del Di Micheli si veda Failla
7. Questo interessantissimo inventario, oggi Mont’aperto”. 1979, pp. 244-271.
purtroppo disperso a seguito del terremoto 17. Archivio di Stato di Palermo, Carte Trabia, 31. Cfr. Meucci 2001, pp. 37-57.
che nel 1908 devastò la città e l’Archivio di Sta- serie prima, vol. 84, c. 391. Questa lista di stru- 32. Cfr. Di Stefano, Liutai, violari, chitarrari,
to di Messina, fu fortunatamente citato appe- menti è stata parzialmente citata in Abbate cembalari palermitani.
na cinque anni prima del disastro in Arenapri- 1989, p. 46. Ringrazio Anna Tedesco per aver- 33. Cfr. Meucci 2001, pp. 56-57.
mo 1903, pp. 198-199. Il documento si trovava mi segnalato questo scritto. 34. Cfr. Policastro 1950, pp. 313-316; ed anche
presso l’Archivio di Stato di Messina, Fondo no- 18. Cfr. Pagano 2001, p. 256. Buono 1988, p. 140.
tai defunti, notaio Giovanni Domenico Milane- 19. Cfr. Tedesco 1992, pp. 86-87. 35. Pappalardo 1687, pp. 138-139.
se, 29 gennaio 1572. 20. Archivio di Stato di Palermo, Carte Trabia, 36. Cfr. Policastro 1950, pp. 306, 317.
8. Cfr. Cataldo 1997, pp. 55-56. Il documento si serie prima, vol. 180, 25 giugno 1695, cc. 104, 37. Cfr. D’Arpa 1988, p. 28.
trova in Archivio di Stato di Trapani, Fondo no- 163, 176v. Oltre agli strumenti citati, nell’inven- 38. Cfr. Fabris 1991, pp. 48, 53, 58.
tai defunti, notaio Giovan Vincenzo De Mulis, 7 tario, a c. 108, è menzionata anche una trom- 39. Cfr. Meucci 1998, p. 247.
dicembre 1576. ba. 40. Cfr. Dispensa Zaccaria 1988, p. 17. Il regi-
9. Cfr. Navarra 1984, pp. 58-59. Il documento è 21. Cfr. Pagano 2001, pp. 256-257. stro tappato “alla tedesca”, diffuso negli organi
conservato in Archivio di Stato di Sciacca, Fon- 22. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai dell’Italia settentrionale all’incirca alla metà del
do notai defunti, notaio V. Palermo, vol. 889, defunti, notaio Matteo d’Ippolito, vol. 270, 12 Cinquecento, ebbe largo impiego in Sicilia an-
c. 380. aprile 1652, cc. 339v, 349, 350v-351. cora nei primi decenni del Seicento.
10. Archivio di Stato di Palermo, Carte Trabia, 23. Il documento, disperso a seguito dei bom- 41. Cfr. Buono 2005.
sez. I, vol. 298, cc. 9-30. Questo documento è bardamenti che distrussero l’archivio del Con- 42. L’inventario di Francesco Ferdinando d’Ava-
citato in Abbate 2001, p. 296. servatorio di Palermo durante la Seconda Guer- los è stato pubblicato in Bernini 1996, p. 433.
11. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai ra Mondiale, è citato in De Maria 1941, p. 21. 43. Cfr. Dispensa Zaccaria 1988, p. 129.
defunti, notaio Giacomo Lucido, vol. 1901, c. 24. Per un’ampia trattazione dell’argomento si 44. L’esistenza, seppur rara, di cembali a due ta-
480. Devo la conoscenza di questo documento veda Woofield 1999, pp. 46-113. stiere è comunque documentata nel corso del
alla gentile segnalazione di Giovanni Mendola. 25. Anche il figlio di Antonio, Giovanni Battista XVI e XVII secolo anche a Verona e Roma. Cfr.
12. Tale documento, gentilmente segnalatomi da Siciliano, fu un apprezzato costruttore di vio- Meucci 2007, pp. 45, 47. Si ricordi, inoltre, che
Anna Tedesco, si trova presso l’Archivio di Stato le da gamba. Di un Giovanni Battista Sanso- un cembalo italiano a due tastiere attribuito ad
di Palermo, Fondo notai defunti, notaio Vito de ne detto “il Siciliano”, valente virtuoso di viola Antonio Migliai di Firenze è conservato presso
52
il Germanisches National Museum di Norimber- castro 1950, p. 306.
ga (n. inv. MIR 1078). Cfr. Wraight 1997, vol. 2, 60. Cfr. Cataldo 1997, p. 63. Possiamo presu-
pp. 215-216. mere che i “tampanelli” citati nel documento
45. Cfr. Buono 1994, p. 9. L’inventario dei beni fossero degli altri membranofoni, forse dei pic-
esistenti nella bottega di Grimaldi è stato anche coli timpani ossia “timpanelli”.
pubblicato in Costantini 1993, pp. 211-219. 61. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai
46. Cfr. Meucci 1998, pp. 248-249. defunti, notaio Lorenzo Isgrò, vol. 8403, 13
47. La trascrizione del documento del 1704 ri- marzo 1604, cc. 734v-735v.
guardante i due claviorgani di Grimaldi è inclu- 62. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai
so in uno studio sull’organaria siciliana a cura di defunti, notaio Lorenzo Isgrò, vol. 8403, 13
Luciano Buono di prossima pubblicazione. marzo 1604, cc. 736-737v. La società tra que-
48. Cfr. O’Brien 1999, pp. 108-171. ste tre donne fu rinnovata nel 1610. Si veda-
49. Il documento sulla spinetta veneziana, che no, a tal riguardo, i documenti conservati pres-
mi è stato gentilmente segnalato da Luciano so l’Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai
Buono, si trova presso l’Archivio di Stato di Mes- defunti, notaio Lorenzo Isgrò, vol. 8409, cc. 41,
sina, Fondo notarile, notaio Francesco Manna, 501-502v, 640v-641, 930. La presenza di arti-
vol. 110, cc. 67-73. L’inventario di Nicolò Placi- giani specializzati nella costruzione sia di tam-
do Branciforti è invece citato in Abbate 2001, buri e tamburelli sia di setacci è documentata a
p. 305 che rileva tale documento in Archivio di Palermo, nella zona del Ponticello (dove furono
Stato di Palermo, Carte Trabia, serie prima, vol. attive le suddette artigiane) fino al XX secolo.
183, 22 marzo 1734. 63. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai
50. Cfr. Nocerino 2000b, pp. 95-109; ed anche defunti, notaio Lorenzo Isgrò, vol. 8406, 17
O’Brien, Nocerino 2005, pp. 184-208. maggio 1607, cc. 827-828; idem, vol. 8407, 19
51. Ricordiamo anche il “theorbino” nel citato maggio 1608, cc. 561v-562.
inventario del 1530 di Giovanni Maria Gisulfo
che possiamo ipotizzare fosse, anche in que-
sto caso, una spinetta piuttosto che una picco-
la tiorba. Il riferimento ai piedi del “theorbino”
dell’inventario de principe di Campofranco ren-
de evidente che si trattasse di uno strumento a
tastiera. Sul tiorbino costruito da Grimaldi cfr.
Buono 1994, p. 10.
52. Si veda a tal riguardo Nocerino 2000a, pp.
317-321.
53. Archivio di Stato di Palermo, Carte Trabia,
serie prima, vol. 84, c. 396. Il documento non
precisa il costruttore di tale spinetta per cui non
è chiaro se essa fosse un prodotto meridionale
o piuttosto uno strumento introdotto in Sicilia
dalle Fiandre.
54. Archivio di Stato di Palermo, Fondo notai
defunti, notaio Dalmazio De Noto, vol. 872, c.
87v.
55. Archivio di Stato di Trapani, Fondo notai de-
funti, notaio Vincenzo Longo, 16 giugno 1674.
Anche questo inventario è citato in Cataldo
1997, p. 56. L’organo del Cossentino, uno stru-
mento portativo, era stato acquistato nel 1672
al prezzo di 30 onze presso la bottega dell’or-
ganaro trapanese Antonio De Simone. Cfr. Ca-
taldo 1997, p. 57.
56. Questo documento è citato in Navarra
1986, p. 67. Il documento si trova in Archivio di
Stato di Trapani, Fondo notai defunti, notaio G.
V. Vitale, vol. 9901, 26 agosto 1587.
57. Cfr. Maccavino 1988, p. 101.
58. Cfr. La Corte Cailler 1982, p. 220.
59. Cfr. Maccavino 1988, p. 96; ed anche Poli-
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