Sei sulla pagina 1di 17

Certo non magnifici ma forse neanche sette: percorsi tra i peccati capitali

Paolo Bernardini
Per Paola

Il fascino del numero “sette” non ha risparmiato neppure George Steiner. Il


grande critico e comparativista cosmopolita, infatti, giunto ormai al crepuscolo
della vita, in My Unwritten Books (2007), parla dei sette libri che egli non ha
scritto, e forse non scriverà più. In omaggio ad un’altra espressione del numero
sette, forse, il secondo saggio del volume tratta di uno dei (sette) canonici peccati,
dell’invidia (il peggiore), partendo da quella che ha provato, o dovrebbe aver
provato Cecco D’Ascoli. Nei confronti di Dante. Singolare punto d’avvio: ma
Steiner attinge spesso a recondite pieghe nel réservoir del suo immenso sapere.
Quasi leggendaria la rivalità tra Cecco e Dante, due grandissime menti entrambi,
e purtuttavia la prima destinata all’oblio – relativo, naturalmente, molti lo
studiano e lo valorizzano, in Italia, codesto vivace e geniale precursore di Galileo –
e perfino al rogo; la seconda alla celebrità, anche se l’aspro destino in vita di
Dante poco aveva da esser invidiato. Forse la sua, relativa, celebrità. Quando
Steiner si domanda, ma perché su questo tema che tanto mi è caro non ho scritto
un libro, la risposta è “It came to near to the bone”, il che vuol dire: “mi pungeva
troppo sul vivo”, mi toccava, propriamente, le ossa, ovvero le carni. Le ossa: sì
l’invidia spesso è un mieloma. Distrugge e logora lentamente, e nulla ci possiamo
fare per fermarla. Non è fuori luogo notare come il terzo dei sette saggi steineriani
sia dedicato al sesso, e al rapporto tra sesso e linguaggio: quasi che l’ottantenne
critico di fama mondiale voglia dimostrare d’esser stato, non ostante il fisico
minuto e un lieve handicap, anche un grande amatore. Ma, sia detto non per
invidia, qui il cosmopolita cade nel banale, quando (si) chiede da quali stimoli
sessuali sia mosso un sordomuto. La vista e l’olfatto muovono il corpo talora
assai più dell’udito. Il cervello immagina anche suoni. Absit invidia verbo.

1
Dunque, i peccati capitali tornano di moda, ricordiamo tutti l’agghiacciante
film Seven di Fincher del 1995, esordio della Paltrow decapitata, anche perché ci
chiediamo sempre più a cosa corrispondano, se siano davvero sette – San
Tommaso ne contava saggiamente otto, così il Cassiano (de octo vitiorum remediis)
ma forse sono ancor di più – e, tra le divagazioni più o meno serie al riguardo,
una simpatica microcollana della Cortina di Milano, che traduce la collana della
Oxford University Press (a sua volta nata da una serie di conferenze presso la
New York Public Library), dedica ad ogni peccato un volumetto. Gli autori sono
stati scelti da personaggi di spicco della scena letteraria anglosassone, non
necessariamente filosofi (anche se Blackburn è un filosofo e di prima grandezza).
Di séguito, presenterò criticamente (come si suole o soleva dire) i volumi, e
concluderò con alcune riflessioni personali – altamente ispirate dallo Scupoli,
teatino del tardo Cinquecento e dal suo Combattimento spirituale (1589)– sui
peccati (capitali e no). L’ordine di trattazione dei peccati capitali è così, qui, il
seguente: Accidia; Avarizia; Gola; Invidia; Ira; Lussuria; Superbia. Cominciano da
un vizio con cui in tempi remoti molto ho combattuto. L’accidia. Ma prima una
notazione preliminare.

Come appare subito, ho scelto uno degli ordini possibili, quello più
elementare, ovvero l’ordine alfabetico, che si regge soltanto, ovviamente,
nell’ambito della lingua italiana, dove peraltro sono abbondanti sì le trattazioni
sui vizi o peccati capitali. Tuttavia, la loro classificazione si deve al Medioevo
latino, dove l’ordine alfabetico non è mai stato preso in considerazione, anche se
reggerebbe (con la variante che la “accidia” veniva spesso tradotta con “pigrizia”,
che alfabeticamente la farebbe slittare al penultimo posto). Piuttosto, allora,
giustamente, si prendeva in considerazione l’ordine di gravità. Il peccato
naturalmente più grave e origine degli altri è la superbia, intesa come il voler
essere come Dio. Lo Eritis sicut diis della tentazione serpentina. Come nel caso
che segue, la distinzione era assai chiara tra “ignavia”, “accidia”, e “pigrizia”:
l’ignavia è quel peccato davvero mortale per cui si lascia il Male agire. Ne parla la
Scolastica, prima e seconda. Ne parla, ad esempio, Edmund Burke, il primo acuto
critico della rivoluzione francese: “i cattivi avranno sempre buon giuoco, se i
buoni rimarranno inerti”. Ma un limite forse degli autori che tratteremo, è che
sono tutti (credo) protestanti.

2
Accidia

Wendy Wasserstein, scrittrice americana dalla penna felice, ironica e leggera,


affronta nella serie il vizio capitale dell’accidia. E’ un testo godibile, pieno di
aneddoti divertenti, una sorta di elogio della pigrizia (Sloth il titolo originale), dove
si dimostra che se tanti uomini fossero stati più pigri, non avrebbero combinato i
disastri che hanno combinato, “nessuno ha mai ucciso in nome dell’accidia”, e il
mondo sarebbe andato assai meglio. “Con l’accidia trascorrerete una vita più
lunga, più felice e più gratificante. Vi libererete da ogni aspettativa, falsa speranza
o motivazione. L’accidia, una volta che l’avrete raggiunta, richiede pochissimo per
essere mantenuta”. Il libro offre spunti per riso e sorrisi, e si legge d’un fiato. Può
essere riassunto in un simpatico invito: “Consideratevi in vacanza a tempo
indefinito”. Il problema, però, è che si regge su un equivoco di fondo, come non
accade per gli altri vizi capitali. L’accidia non è esattamente la pigrizia (sloth), che
dà il titolo al libro, ed è anche il nome in inglese del bradipo – qui spesso
chiamato in causa – animale per eccellenza pigro, ovvero lento. Anche se tale è la
traduzione corrente inglese anche in ambito teologico e filosofico. L’accidia è
qualcosa al contempo di più complicato e di più nefasto, e questo era ben chiaro
non solo ai Padri della Chiesa, ai dottori medievali, ma anche, ad esempio, ad un
poeta come Petrarca. Accidia è quell’inerzia colpevole che impedisce il
perseguimento del bene e della virtù, si lega ad un peccato gravissimo (anche se
spesso taciuto), quello di omissione. La sua stessa etimologia, a-kedia,
“mancanza di cura” (kedos) indica un’attitudine negativa verso di se e verso gli
altri, ben prima che un filosofo come Heidegger individuasse nella “cura” la chiave
dell’intersoggettività, e del rapporto con il mondo. Wendy è scrittrice spigliata, ma
forse la sua cultura ebraica – in questo assai diversa da quella cattolica – le
impedisce di vedere le ramificazioni nefaste dell’accidia, e si limita ad esaltare i
benefici indubbi, semplicemente, di una vita più rilassata e meno competitiva.
Tuttavia l’accidia meriterebbe un trattamento più ampio. Distinta dalla pigrizia,
può essere vista come all’origine della vita contemplativa, posto che la
contemplazione riguardi la bellezza e l’armonia del mondo. L’accidia, nella teoria
rinascimentale degli umori, si lega all’atrabiliare malinconia, e dunque può
produrre, dall’inerzia fisica, una splendida produzione meramente intellettuale ed

3
artistica. Ed ecco il divorzio tra il fare e lo scrivere, tra trasformare il mondo e
contemplarlo soltanto. Con scuole di pensiero contrapposte, ora volte ad esaltare
la prima cosa, ora la seconda. L’accidia del poeta è ben altra cosa dalla piacevole
pigrizia che può cogliere qualcuno di noi come uno stato temporaneo, ed anzi
auspicabile. L’accidia si può ben congiungere con altri vizi, come l’invidia, quei
vizi capitali “passivi” che sono i più nefasti. La pigrizia è invece un esercizio
salutare. Questo dicono spesso le persone non pigre. E dalla pigrizia possiamo
passare all’avarizia. Non mancano legami.

Avarizia

Se è vero che un autore non sospetto di legami con il Cristianesimo, Orazio,


poneva da epicureo la “avaritia” nel novero dei vizi capitali – già sei, e poi sette,
nella tradizione ebraica ben nota a Roma – siamo dinanzi ad un “peccato”
stigmatizzato, ampiamente, in tutta la tradizione occidentale. Di cotesto vizio dà
conto Phyllis A. Tickle, prolifica giornalista americana, esperta di storia delle
religioni. Della serie è il volume più avaro di pagine, ed anche più indigesto,
incerto com’è tra la tradizione storica ed una panoramica sullo “stato del vizio”
nel mondo contemporaneo. Molto di quel che vien detto nelle note avrebbe potuto
essere riportato nel testo: ad esempio, l’ambivalente, ma fondamentale, nozione
ebraica di “avarizia”, come “potere creativo negativo” (yetzer hara), o il
fondamentale elogio della “avaritia” di Poggio Bracciolini, nel suo dialogo
omonimo del 1429, davvero un testo protocapitalistico e pre-libertario: “senza
avidità, la carità stessa, uno dei principali valori cristiani, verrebbe meno:
nessuno potrebbe più essere liberale e generoso , ché non sarebbe possibile dare
agli altri non avendo nulla in più. Se bisognasse bandire dalle città tutti gli avidi
allora esse rimarrebbero deserte.” Così al riguardo Diego Fusaro. E’ un libro però
non privo di meriti: tra l’altro, quello di porre energicamente all’attenzione del
mondo un artista geniale e controverso quale Mario Donizetti, e di fornire una
bibliografia sull’avarizia piuttosto completa e originale. Quel che manca, è
quell’abilità, tutta scolastica e neoscolastica (a quando finalmente un libro sulla
dottrina dei vizi nella Seconda Scolastica, che sarebbe rivelatore!) a discernere e
comparare, a ponderare e a riflettere sulla casistica. Ché infatti il punto di

4
partenza per comprendere la “avaritia” è la sua duplice, e contrastante natura, di
avarizia, appunto, e di avidità. La prima si contrappone alla generosità e
prodigalità, di se stessi innanzi tutto. Si può essere avari senza possedere beni,
paradossalmente. L’avidità invece, intesa come ricerca produttiva della ricchezza,
è positiva nella misura in cui si associa alla volontà non solo di produrre denaro,
ma di immetterlo, per dir così, nel circolo della vita. E far sì che essa, migliorata,
continui. Tale duplicità semantica è presente nell’inglese “greed”, e questo
confonde le acque. Tickle avrebbe dovuto partire da questa fondamentale
ambivalenza del concetto, per scrivere un libro più attento, e privo di confusione.
L’avidità come elemento fondamentale per lo sviluppo della società è stata trattata
in ambito cattolico da Bracciolini, in ambito protestante da Mandeville, ad inizio
Settecento, con la sua “favola delle api”. L’avarizia è paradossalmente il suo
contrario, il tener tutto per sé, anche il poco, il minimo che si ha. Non è
produttiva, ma distruttiva. Questo è il vizio turpe della Psychomachia di
Prudenzio, che scende in campo alla fine della battaglia tra vizi e virtù per fare
razzia, in compagnia, triste, di, tra gli altri, Inganno, Frode, Sozzura. E nel
discrimine tra avidità e avarizia, in qualche modo, si giocano ora le sorti
dell’individuo, ad Occidente come ad Oriente. Un salto logico ci porta alla gola (se
ci pensiamo bene).

Gola

Nella serie di Cortina La gola di Francine Prose, brillante scrittrice, critica d’arte
americana, si distingue per la chiarezza concettuale e la ricchezza di riferimenti al
panorama vivo del pensiero medievale, il vero réservoir per chiunque voglia
studiare i sette vizi. La gola manifesta più di una relazione con la lussuria.
Innanzi tutto, è un vizio che dà piacere, al contrario di ira e invidia, ad esempio.
Inoltre, cosa ancora più importante, esso si lega indissolubilmente alla necessità
di mantenimento, e proseguimento nel tempo, dell’individuo, e di quella somma di
individui che è la specie umana. E’ dunque un vizio “degenerativo”, si potrebbe
dir così. Nasce da un istinto, come la lussuria non ci sarebbe senza il naturale – e
dunque non certo biasimevole – istinto di procreazione. E’ dunque vizio di difficile
definizione, si potrebbe dire forse l’abuso di una facoltà. Da Agostino, durissimo
con la gola, a Tommaso, assai più indulgente – la leggenda lo vuole di ottima

5
forchetta – la gola viene guardata con mille distinguo. Concettualmente, il vizio si
ha, come per la lussuria, alla fine, solo quando l’azione del mangiare – e del bere
– viene considerata e praticata solo per se stessa, come il far l’amore “protetto”.
Dunque, quando uno strumento della naturale diviene esso stesso fine. Prose ci
conduce in un mondo, anche iconografico – splendide le descrizione dei vizi di
Bosch, in particolare nell’inquietante tavole dei sette peccati capitali ora al Prado
– che giunge al presente con una sorpresa. I peccatori di gola vengono identificati
con gli obesi, alla fine, ma siamo sicuri che sia così? Un dottore sottile del nostro
bellissimo Medioevo – ricco di pensatori che la modernità si scorda – non direbbe
così, l’obeso alla fine non prova quel gran piacere. Diverso l’atletico OO7 che
centellina caviale e champagne, mentre con gli occhi e la mente pregusta le delizie
d’altro ma affine genere che la bellissima creatura femminile davanti a sé gli
riserverà in una camera barocca di un grande Hotel nel Montenegro. Trattenersi
dal cibo, come dal sesso, è vero esercizio dei Santi. Ed ecco astinenza e digiuno, i
nemici giurati di lussuria e gola, ecco un’epopea agiografica medioevale, che
giunge fino a noi, e si perpetua in quasi tutte le culture, e le religioni, del mondo.
Ma di quali mirabili prodigi del corpo e della mente è alla fine capace l’asceta! Un
libro dunque dove si scoprono tante cose, perfino elementi ignoti di giudeofobia:
Giovanni Crisostomo vedeva negli ebrei “divoratori di manna”, le vittime prime
della gola, che a causa di essa “non si sollevano dalla loro rovina, ma continuano
a strisciarsi”. La gola come peccato ora forse è caduto nell’oblio, chi si
confesserebbe ancora dicendovi di esservi caduto? Altri tempi quando, come nel
Medioevo, il rapporto con il cibo era caratterizzato da situazioni di frequente
scarsità, piuttosto che di abbondanza, almeno per chi è così fortunato, e non è
tutto il mondo, di vivere in essa. Francine ci conduce dunque in mondi di gioia
terrene, ripagate poi da pene infernali. Per chi è ancora in vita. Dalla gola
all’invidia il salto è altrettanto naturale. Letteralmente, dalla padella che cuoce
alimenti nella brace che cuoce solo chi vi finisce, noi stessi.

Invidia

La copertina del volume dedicato all’invidia di Joseph Epstein – giornalista e


scrittore americano noto per il best seller sugli snob – è rigorosamente verde.
Colore, paradossalmente, anche della speranza, e dell’erba in primavera. Ma in

6
questo caso si tratta, naturalmente, dell’erba del vicino, proverbialmente, sempre,
“più verde” della nostra. Epstein ci conduce in un percorso tra invidiosi ed
invidiati che poco amiamo. Chi può dirsi infatti scevro da invidia? Forse i santi,
suggerisce Epstein, “donne bellissime”, “rampolli di miliardari”. Tra i sette vizi è
quello e solo che non dà piacere; in qualche modo l’ira libera, perfino dell’accidia
ci si compiace. E che dire di gola e lussuria? E di avarizia e superbia? L’invidia
può essere il motore di sistemi di teoria politica. Non nasconde Epstein, sulla scia
di un altro noto “invidiologo”, Helmut Schoeck, la cui opera fondamentale è stata
tradotta in italiano da Liberilibri di Macerata nel 2007, che dall’invidia sociale
nasce il comunismo, la rivoluzione francese, e molte altre sollevazioni che sono
state viste altrimenti dalla maggioranza dei loro interpreti. L’invidia è oggetto di
riflessioni per ogni cultura, per ogni tradizione religiosa. I Greci temevano coloro
che volevano farsi pari agli dèi, perché poi gli dèi li avrebbero accecati, l’orgoglio
eccessivo, la hybris, avrebbe portato allo phthonos, appunto, all’invidia distruttiva
della divinità. Per cui taluni moralisti suggerivano di “vivere nascostamente”. Di
invidia si parla assai nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, ed Epstein affronta la
questione del tentativo, da parte di Gesù, di estirpare cotale mala pianta dai
propri discepoli, “eliminando la sua causa più subdola: la rivalità”. Eppure se
guardiamo al Vangelo, in tempi natalizi pratica quanto mai buona, vediamo come
forse Gesù stesso divenne oggetto di invidia. Da parte di Pilato, che disconobbe la
verità stessa, quando si chiese cosa fosse, e non rispose; da parte del popolo,
però, che quando gli venne chiesto se volessero libero Barabba o Gesù, senza
esitare si pronunciò in coro per il primo. Non vi è nulla di buono nell’invidia, è un
peccato che conduce ad altri peccati, è un vizio che può degenerare in ossessione.
Certamente, un lampo di invidia attraversa tutti noi, ma finché è breve,
rapsodico, non induce a malvagità. Per questo, altra cosa è l’invidia, altra cosa
l’invidioso cronico. Insomma, una cosa è il peccato, un’altra – ben lo sapevano i
Dottori della Chiesa – la sua reiterazione. E’ vero anche che è difficile, come scrive
Epstein, “essere ambiziosi senza essere invidiosi”, ma una sana ambizione muta
l’invidia in spirito di emulazione, in spinta verso il miglioramento, proprio e altrui.
Invidia e ira vanno a braccetto molto più di quanto non lo andassero altre “i”: ad
esempio le famose tre “i” della nuova università della Moratti, “inglese”,
“informatica”, “impresa”, come se queste “i” fosse la scuola (!) a doverle insegnare.

7
Ad essa basterebbe eccome riuscire a sconfiggere una “I” altrettanto nefasta, e
spesso congiunta, alla “I” di invidia, appunto.

Ira

Il primo, forse il più grande poema epico dell’Occidente, comincia con la parola
“ira”. Nella traduzione classica del Monti: l’ira (menis) funesta (oulomene) di
Achille, che “infiniti addusse lutti agli Achei”. E il primo pensiero dello studente è
anche il più rivelatore: ma l’ira di Achille non avrebbe se mai dovuto rivolgersi, e
rovinare, i nemici, i Troiani? Anche questo accade, ma come per la maggior parte
– forse tutti – i vizi capitali, il primo ad esserne sconvolto è proprio colui che li
pratica, ovvero, se sono emozioni prima di tutto, li prova. Infatti è l’ira di Achille a
seppellirlo, egli sa bene che l’uccisione di Ettore – non avrebbe potuto
accontentarsi di una “transazione”, come gli suggeriva il saggio Aiace? – gli
costerà la vita, l’arco preciso di Paride gli invierà, estremo messo di morte, la
freccia letale nel proverbiale tallone. Di ira è pieno il poema, in tutte le sue
varianti, anche linguistiche. Solo nel primo libro, abbiamo quella di Achille e di
Apollo, e un Agamennone anch’egli irato, “gli occhi di brace” (v. 104). Giunge ad
illuminarci sull’ira nelle serie di Cortina R. Thurman, e lo fa da un’ottica
peculiare, quella buddista. Ché l’ira infatti è vizio e pratica naturalmente
stigmatizzata anche dal Buddismo. In gran parte il libro è una spiegazione di una
delle sue frasi proemiali: “Nell’Oriente buddista, l’Ira (dvesha) è definita come un
attaccamento (klesha) o veleno (visha), uno dei tre veleni-radice (insieme ad
attaccamento e ignoranza) che sono la vera causa di una vita di sofferenza
(samsara) o di quell’infinito ciclo di vite di non illuminata frustrazione.” Thurman
è tra i massimi esperti di buddismo, e la sua descrizione dell’ira, in un crescendo
catartico, è come un viatico per liberarsene. Ma la tradizione occidentale
manifesta più di una ambiguità verso l’ira. Irato appare spesso, troppo spesso, il
Dio di Israele, ora contro il proprio popolo, ora contro i nemici di questo, spazzati
via dalle onde. Irati ed irosi taluni dei capi, pronti a difendere l’ortodossia
punendo crudelmente gli idolatri. Gesù stesso cede talvolta all’ira – ed infatti si
comprende bene il Suo stesso pentimento – quando, ad esempio, scaccia i
mercanti dal tempio, non tanto perché mercanteggiavano, quanto perché lo
facevano in un luogo sacro. T. W. Adorno aveva, nella sua tarda Dialettica

8
negativa, individuato nell’ira, un’ipertrofia violenta dell’io, le origini dell’Idealismo.
L’ira accompagna quasi tutti gli altri vizi – forse anche l’accidia altro non è che
un’ira “sorda”, passiva-aggressiva, si direbbe ora – e perfino l’azione degli uomini
di Stato. Quante guerre sono iniziate per eccessi di ira, poi, come la freccia partita
dall’arco – la metafora è di Seneca, autore, insieme a Plutarco, utilmente
consultabile al proposito – non si è più riuscito a fermarle, in tutti i loro
devastanti, ed imprevisti/imprevedibili effetti. Solo trattenendo l’ira, facendola
diventare energia positiva da negativa, secondo la dottrina buddistica – e non solo
quella – essa si potrà trasformare nella “luce blu notte dello zaffiro”, la luce della
purezza interiore, rivolta verso l’edificazione. E ora dall’ira passiamo ad un altro
vizio passionale senz’altro, la lussuria.

Lussuria

La lussuria viene trattata da Simon Blackburn, filosofo di gran fascino, ora, dopo
decenni negli USA, tornato a Cambridge. Un antirelativista convinto – la verità
c’è, e conta! – ci conduce alla scoperta del meno sgradevole, ma più stigmatizzato
dei vizi, la lussuria appunto. Singolare peccato: al contrario degli altri non
danneggia di solito la vittima; anzi, due (o più) lussuriosi compiono quella
“unione perfetta”, nel coinvolgimento erotico, che Hobbes vedeva come il senso di
comunione più alto con l’altro; perfino maggiore di quello – e le sue parole non
mancarono di suscitar scandalo nell’Inghilterra anglicana – della comunione dei
santi con il divino. L’ira e l’accidia, l’invidia (naturalmente), la gola e l’avarizia e la
superbia sono vizi antisociali. La lussuria è interpersonale. Ed è punto cruciale
per capire temi ora all’attenzione del mondo. Ad esempio, il celibato ecclesiastico
cattolico, o ancora la posizione della Chiesa nei confronti dei rapporti
prematrimoniali, o anche di quelli matrimoniali ma non volti al concepimento. Il
libro ci conduce in un percorso torrido, tra amici e nemici del piacere fisico.
Questi ultimi contano tra le loro fila anche Kant, che vedeva nella lussuria un
modo di trattare l’altro non come fine, ma come mezzo di soddisfacimento del
proprio desiderio. Ma se entrambi trattano l’altro come mezzo, necessario e unico,
i mezzi non si trasformano forse in fini? Certo nella tradizione ebraico-cristiana la
sessualità non se la passa bene, dalla condanna di Eva all'incerto stato teorico
degli “atti impuri”. Anche il Paradiso, al contrario di quello islamico, assai carnale

9
per gli eroi soprattutto, è de-sessualizzato, in quanto incorporeo. Ma alla fine le
strade attuali della lussuria passano per scorciatoie virtuali, spesso, ahimè
troppo spesso. In un certo senso, l’apparentamento con gli altri vizi resiste solo
qui quando si parli di lussuria individuale, di pratiche solitarie. Si complicano le
cose quando il desiderio diviene veicolo per la procreazione, senza cui non ci
sarebbe il mondo, senza cui lo stesso invito divino – “crescete e moltiplicatevi” –
non potrebbe essere seguito. D’altra parte, si sa che il comandamento originario è
stato mal tradotto: “non desiderare la moglie – e non la donna! – di altri”.
Insomma, un certo spazio al desiderio e al suo soddisfacimento – lo si chiami
pure lussuria – è stato concesso, con il fine generale del proseguimento della
specie, “l’astuzia della natura” per Schopenhauer, nella tradizione testamentaria.
Anche se l’Eva tentatrice è all’origine di tutto, tra frutti – e non mele!, altra
traduzione sbagliata – e serpenti. Blackburn giustamente individua in Freud – e
potremmo dire nella sua epoca – il peggior nemico della lussuria. Assai più
tollerante alla fine la tradizione cristiana stessa, che ha nel detto forse gesuitico
“nisi caste saltem caute” un’ottima, astuta (qualcuno direbbe ipocrita) apertura
verso il riconoscimento di una realtà: che siamo fatti di un corpo, e che gli altri
corpi, meglio se giovani e sani, inevitabilmente ci attirano. Lussuria e superbia
hanno sottili legami – un buon esercizio della mente è quello di ritrovarli, sulla
pista dell’ “io” che s’enfia – e dunque è un bene parlare della seconda qui di
séguito.

Superbia

L’ambivalenza semantica del termine “superbia” in inglese, “pride”, che significa


anche “orgoglio”, è la chiave per comprendere il volume di Michael E. Dyson
dedicato appunto alla Superbia. Se infatti l’orgoglio non è tanto vizio, quando
caratteristica dell’individuo – se non lo ha deve riacquistarlo, in un modo o
nell’altro – la superbia, il suo eccesso, è davvero il più mortale dei peccati mortali.
Significa credersi, in sostanza, pari agli dèi. La hybris classica dunque, la
tracotanza, che nel greco classico ha singolari, anche buffe espressioni, il “salire
in bigoncia” dei ricordi liceali. Ma anche nella traduzione ebraico-cristiana, quel
rivaleggiare con Dio che fu di Lucifero, e mal gliene incolse: il diavolo, una
singolare, esplosiva commistione tra invidia e superbia. Un cocktail micidiale che

10
può rendere i vizi, per parafrasare Spooner, davvero crimini, nel momento in cui
si trasformano in azioni. Il libro di questo famoso intellettuale nero, riguarda
molto l’orgoglio come virtù, virtù dei singoli ma anche delle genti, nel caso
particolare, dei neri d’America, cui è dedicato in gran parte. Offrendo così una
prospettiva davvero molto singolare: il vizio della superbia viene trattato
soprattutto nella sua forma di virtù, l’orgoglio appunto. Da Aretha Franklin a M.
L. King, dunque, passando attraverso le canzoni di James Brown, da poco
scomparso: “Non voglio che tu mi dia qualcosa, basta che apri la porta e me la
prendo da solo”. Se dunque la superbia è nefasta – ma alla fine Prometeo è
superbo per gli dèi, ma orgoglioso per gli uomini – occorre trovare il modo per
restituire l’orgoglio a chi lo ha perduto, sia esso un individuo o un popolo, o una
minoranza: ma la minoranza vera, secondo le parole di Ayn Rand, è proprio
l’individuo, ed è la minoranza più minacciata. Dyson ci conduce in un singolare
percorso autobiografico, nel modo in cui egli come nero ed i neri d’America negli
ultimi cinquant’anni hanno vissuto l’ambivalente rapporto con l’orgoglio e la sua
degenerazione, la superbia. Certamente, altre strade sarebbero state percorribili.
Ha ragione Dyson nel ricordare che secondo Agostino la superbia era il peccato
fondamentale. Eritis sicut diis. Ma un’altra tradizione, quella aristotelico-
tomistica, moderava il giudizio sul vizio. In qualche modo l’orgoglio può essere
addirittura visto come l’arma migliore contro tutti gli altri vizi, in grado di
disinnescarli. Si rilegga il Purgatorio. Dante sa bene che la sua stanza tra gli
invidiosi, ad esempio, sarà breve, ma assai più lunga per questo quella tra gli
orgogliosi. E ugualmente periglioso è il culto dell’umiltà. Scrive un grande autore
di aforismi (e non solo) di Como, che andrebbe ripubblicato, G. B. Giovio (1748-
1814): “L’orgoglio dell’umiltà è la quintessenza della superbia”. Dyson preferisce
condurci nel grande percorso della riscoperta dell’orgoglio di un popolo.
Certamente, allora, occorre opporgli l’argomento che se i popoli sanno essere
orgogliosi, a volte possono diventare anche terribilmente superbi. E la superbia di
un popolo può fare assai più danni di quella di un singolo.

In chiusura qualcosa di marziale…

Per comprendere la dialettica tra vizi e virtù, senza la quale non si comprendono,
come bene aveva intuito e argomentato San Tommaso, le gerarchie e la natura
11
stessa dei peccati, occorre adottare una prospettiva appunto dialettica, ovvero
bellica. I vizi sono al centro della lotta dell’uomo contro il Male: in qualche modo,
sono le loro armate visibili, e combattive. Non sono il Male stesso, ma ne sono la
principale emanazione. Questo lo aveva bene intuito il Vecchio e il Nuovo
testamento, la Chiesa era una militia, e il Cristiano il miles che combatteva contro
il Male, con tutte le armi necessarie. Solo in questo modo, dando una strategia e
una tattica al miles, viene insegnata la dottrina morale cristiana, o teologia
morale. Se guardiamo al film “graphic” 300, dedicato al sacrificio di Leonida e dei
suoi alle Termopili, film godibilissimo, possiamo analizzarlo dal punto di vista di
una serie di assalti (alla fine trionfale, ma per un tradimento interno, non per un
cedimento della militia) del Male contro il Bene. Anzi, data la varietà delle truppe
totalmente disorganizzate, una sorta di Grande Armée persiana, senza Napoleone
a guidarla (anzi Xerses è altissimo, vanaglorioso e superbo sì, ma assai poco
concreto, poco genovese, o còrso), si può pensare che ad ogni assalto corrisponda
la manifestazione di un vizio: vi appare perfino una sorta di obeso rinoceronte
grottesco, che fa rapida ed ingloriosissima fine. Insomma, una lettura del film a
partire dal dispiegamento di forze del Male in forma di vizio armato, sarebbe assai
interessante. Ma dalla pur sottile filosofia hollywoodiana, vorrei passare, per
concludere, alla densa teologia morale di un teatino della Confroriforma, Lorenzo
Scupoli. Perché se di combattimento, di dialettica in azione si tratta, ebbene la
sua opera è la migliore al riguardo. Diceva de Il Combattimento spirituale il suo
grande ammiratore Francesco di Sales, che lo lesse nel tardo Cinquecento,
quando era un inquieto studente di teologia presso l’Ateneo patavino:
«Coloro che credono che questo libro sia oscuro, si figurano delle ombre a mezzogiorno e
sono simili a quegli Israeliti che si infastidirono della manna, perché era cascata loro dal
cielo con troppa facilità e abbondanza... È una piccola profumiera di soavissimi aromi,
un breve ritratto di tutte le perfezioni cristiane, un’epitome della teologia mistica. È un
compendio delle grandi massime Evangeliche, specialmente di quelle riguardanti il
disprezzo e l’abnegazione di se stesso. Uno non può leggerlo senza restarne edificato;
chiunque saprà servirsene diverrà presto un uomo di spirito e imparerà in breve tempo a
distaccarsi dalle creature per unirsi al Creatore.»

Scupoli era nato a Otranto nel 1529, ed era entrato nell’Ordine dei Chierici
Regolari, istituito da Gaetano da Thiene, nel 1569. Aveva ricevuto l’ordinazione
nel 1577. Il suo Combattimento spirituale, pubblicato a Venezia anonimo nel
1589, era divenuto un best-seller in brevissimo tempo. Con traduzioni nelle
maggiori lingue europee, e quasi 700 edizioni fino ad oggi (lo studio di queste si

12
deve al lavoro encomievole di Paola Barni). Scupoli morì, non senza aver subito
una dura condanna dalla Chiesa, il 28 Novembre 1610 a Napoli. Pochi giorni
dopo, a Bologna, alla fine di Dicembre, venne pubblicata un’edizione del
Combattimento che finalmente portava il suo nome. Si tratta di un testo
ricchissimo sia letterariamente sia dal punto di vista della teologia morale. Sul
modello tomistico prevale, nello Scupoli, quello agostiniano. E dunque non vi è
alcuna classificazione sistematica, alcuna tassonomia dei vizi. Il modello
platonico-agostiniano si incentra sull’interiorità e da lì si diparte. Il libro
singolarmente nasce come un’istruzione militaresca per una giovinetta, a cui ad
un certo punto viene suggerito perfino di combattere “virilmente”. Non esiste una
definizione chiara del vizio, che è solo “sregolata passione”. Alla metafora costante
della battaglia si affiancano metafore minori, come quella, rappresentata in prosa
suggestiva e viva, dell’ascesi come ascesa alla “sommità del monte, dove l’anima,
fatta perfetta, opera poi senza fastidio, anzi con gusto e giubilo, perché, avendo
già vinte e domate le sregolate passioni e soprastando a tutto ‘l creato e a se
stessa, vive felicemente nel cuore dell’altissimo e, quivi soavemente travagliando,
prende riposo e conforto”. L’ascesa al monte, già metafora del Petrarca, origina
nella Vulgata (Is., II, 2-5) e si trasmette poi, nell’età dello Scupoli, in Juan de
Bonilla, Juan de la Cruz, e soprattutto Teresa d’Avila: il Camino de perfeccion è
del 1564-1567. Dal libretto dello Scupoli si apprende la natura simile e
intrecciata di tutti i vizi, le numerose parentele tra di essi, che non permettono
una vera distinzione tra quelli della carne, ad esempio, lussuria e gola. La stessa
“accidia”, intesa come ignavia, si comprende solo attraverso il suo contrario, la
diligenza, l’attenzione o vigilanza costante: nelle parole di una delle fonti dello
Scupoli, Caterina da Bologna: “La prima arma dico che è la dillizentia, cioè
solecitudine nel bene adoperare”. Asperrimo nemico, lo Scupoli, dell’ignavia: “fina
negligenza, che col suo veleno non pure infetta la volontà, facendola aborrire
l’opera, ma anche acceca l’intelletto…” (Cap. 16). Il Combattimento è pieno di
paradossi fulminanti, acutissimi: “Il soldato di Cristo deve stare sempre pacifico”:
nessun turbamento, nessuna “inquietudine d’animo” o “malinconia” (ira,
tristezza), ma “animo quieto e tranquillo”, e se mai “dolore pacifico”. I vizi stessi si
scompongono come attraverso i riflessi di un prisma dalle molte facce: la
vanagloria, vizio tra i vizi, diviene ad esempio “loquacità”, e il capitolo 20 di una
delle edizioni principali si intitola appunto “Del modo di regolare la lingua” ed è

13
splendido e attualissimo elogio del silenzio: “la loquacità è madre dell’accidia (una
delle poche ricorrenze del termine nel Combattimento, n.n.), argomento
d’ignoranza e pazzia, porta di detrazione, ministra di bugie e raffreddamento del
devoto fervore”. Vi sono poi intuizioni notevolissime: certamente è un peccato la
gola, ma quando è fine a se stessa, come la lussuria, fondamentalmente, piacere
carnale che ha scopo solo se stesso, ma non la procreazione, ovvero non sente
come origine né come meta il disegno divino. Questo è punto fondamentale per
comprendere tutta la dottrina dei peccati capitali, anche aldilà della loro
considerazione sub specie theologiae. Scupoli sconsiglia le crapule, ma parla
spesso positivamente del “gusto”. Ad esempio: “Gustando cibo e bevanda,
considera che Iddio è Quegli che le dà quel sapore e, in Lui solo dilettandoti,
potrai dire: ‘Rallegrati, anima mia, che, come fuori del tuo Dio non ha alcun vero
contento, così in Lui solo tu puoi in ogni cosa unicamente dilettarti”. Certo, non
può mancare una intransigenza fortissima contro il “vizio della carne”, che
Scupoli definisce senza mezzi termini “maledetto”. Ma significativa è proprio la
sua attenzione verso l’Io, pure negativamente: l’opera parte con la distinzione
fondamentale tra “diffidenza di noi stessi” (il modo migliore per scardinare il vizio
principale, la superbia), cui è dedicato il secondo capitolo, e la, speculare e
contraria, “confidenza in Dio”. Segue poi un elogio dell’intelletto, ed una
distinzione tra volontà alta e volontà bassa, entrambi capaci di orientare
l’intelletto operando insieme ad esso. “Ignoranza” e “curiosità” sono nemici da
combattere, fanno parte dell’esercito del Male, e tuttavia paiono in
contraddizione. Centrale, per i vizi, è il capitolo 16, dove si parla della guerra “che
ha la volontà nostra superiore con la inferiore”, e dove bene si mostra che viziosi,
e vitandi, non sono solo i “vizii maggiori”, ma anche le “vogliette” e “passioncelle
di minor conto”. Un’opera dunque che, come tutta la teologia morale, le opere di
devozione, santità e pietà, insegna soprattutto a conoscere noi stessi, in qualche
modo mostra tutta la propria efficacia nell’antropologia che disegna, piuttosto che
nel rigorismo morale cui intende assoggettarla.
Opere come queste aiutano a comprendere la complessa dimensione dei vizi. Il
loro retaggio medievale è grande, si trova in tutte le loro sottili distinzioni. Che
mancano spesso agli autori contemporanei, come quelli, nessuno di loro è
cattolico, che abbiamo preso in considerazione in questo saggio. Ad esempio,
comprendere il significato della “moderazione”, ben presente allo Scupoli e a

14
Tommaso, è un modo se non per scusare, almeno per comprendere, ed
indirizzare, il comportamento umano. Il quid nimis, e l’autoreferenzialità
dell’azione, non orientata a Dio, rendono il vizio tale. Pensiamo solo ai vizi della
carne, alla lussuria. Ma la consapevolezza di questo lascia l’amaro in bocca,
dunque, la prima punizione della lussuria è proprio l’abbattimento che ne segue:
post coitum omne animal triste, se, forse, ha perseguito con autocompiacimento
quest’atto, senza inserirlo in un disegno più grande. Allo stesso tempo, la
dogmatica del peccato rende l’atto sterile, in qualche modo, anche se orientato ad
altri fini: apparivano davvero i cartelli “non lo fo per piacer mio, ma per far
piacere a Dio”, in tante italiche alcove dei tempi passati? Insomma, conoscere in
un modo o nell’altro vizi e virtù è soprattutto un grande esame di noi stessi, un
modo di conoscerci approfonditamente, seguendo il socratico messaggio della
Sibilla: “Conosci te stesso!”. Opere come queste aiutano, intrattenendo, anche se
prive della sottigliezza di San Tommaso, o della passione razionale dello Scupoli,
grande stratega della virtù.

Nota bibliografica

Fernando Savater, I sette peccati capitali, Milano, Mondadori, 2007, pp. 131. Una
ricognizione generale ma molto debole da parte di uno dei più sopravvalutati
intellettuali spagnoli viventi (1947-), docente di Etica presso l’Universidad
Complutense di Madrid.
Dag Tessore, I vizi capitali, Roma, Città Nuova, 2007, pp. 80. Una breve guida,
assai utile, che tocca il tema dei vizi a partire da alcuni importanti tematizzazioni
medioevali, in particolare tre libri: Gli otto spiriti della malvagità di San Nilo di
Anciria; le Istituzioni cenobitiche di San Giovanni Cassiano e La scala del paradiso
di San Giovanni Climaco.
Livio Fanzaga, Vizi capitali e contrapposte virtù, Milano, Sugarco, 2003. Libro
importante perché, seguendo San Tommaso, mostra bene come ad ogni vizio
venga contrapposta, sia dal punto di vista morale, sia dal punto di vista
epistemologico-euristico, una virtù.
Carla Casagrande, Silvana Vecchi, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel
Medioevo, Torino, Einaudi, 2000. Un’ottima introduzione alla teoria tomistica dei
15
peccati capitali, da cui si diparte tutta la riflessione successiva, e il miglior
volume disponibile sul tema in italiano.
Gerardo Giocoli Nacci, Quei magnifici sette. Rivisitazione dei sette vizi capitali,
Edizioni del Grifo, 2002.
San Tommaso d’Aquino, Vizi capitali, Milano, Rizzoli (BUR), 2000. La miglior
trattazione che sia mai stata scritta sui peccati capitali, da leggersi e rileggersi.
Dalla Summa, quaestio II, 2.
Franca Pellegrini, a cura di, Capricci gobbi amore guerra bellezza. Incisioni di
Jacques Callot dalle raccolte del Museo d’arte di Padova, Padova, Il Poligrafo,
2002. Questo è un riferimento a una descrizione visiva, sette incisioni, a mio
avviso tra le più efficaci, anche se non originalissima, dei sette peccati. Jacques
Callot fu un importante incisore nato a Nancy nel 1592 e morto colà nel 1635,
dopo una vita di viaggi, che lo portarono anche in Veneto. La serie dei peccati
capitali è custodita presso il Museo Civico di Padova.
Benedetto Varchi, L’invidia, a cura di Laura Orsi, di prossima pubblicazione. Un
magnifico testo rinascimentale.
Del Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli esistono due edizioni sul
mercato: a cura di D. Marranci, Amicizia Cristiana editore, 2007; e San Paolo
edizioni, 2000. Cito tuttavia dalla tesi di laurea inedita di Paola Barni (Università
Cattolica del Sacro Cuore, Milano, relatore Prof. Giuseppe Frasso, a.a. 1994-
1995), che dello Scupoli ha curato anche il manuale per sacerdoti che trattano
con i morienti, Esercizio per gli infermi, Vita e Pensiero, 2007. Del testo si trovano
edizioni online sia in francese e in inglese, sia in italiano
(http://www.monasterovirtuale.it/scupoli.html). L’eccellente lavoro della Barni, che riproduce il
testo senza le spiacevoli e assurde “modernizzazioni” delle edizioni recenti,
contiene anche una bibliografia accuratissima di tutte le edizioni del
Combattimento, in Italia e all’estero, e l’edizione critica del testo a partire da due
varianti della princeps.

16
Desidero in chiusura ringraziare i cari amici Annina Jacopino e Renato Banchi,
fondatori e maestri della Scuola Hui Neng di energetica junghiana, con sede a
Genova, e tutti gli studenti del corso 2006-2007. Il presente lavoro nasce infatti da
una serie di lezioni da me tenute presso la sede della Scuola, nel quartiere di
Albaro a Genova, davanti ad un pubblico attento e vivace, nell’ambito di un corso
dedicato a questi temi tra Oriente e Occidente.

Paolo Bernardini

17

Potrebbero piacerti anche