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PROSPETTIVA FILOSOFICA

” Ogni cosa mette in gioco tutta la potenza infinita della natura secondo la prospettiva determinata che essa esprime

Le teorie dei colori di Goethe, Kandinsky e Klee – 3


19 LUGLIO 2016 ~ GIULIANO ANTONELLO

3 – La teoria dei colori di Goethe

Premessa

La Teoria dei colori (Zur Farbenlehre), pubblicata nel 1810 presso l’editore Cotta, Stuttgart und Tübingen, è l’opera maggiore dedicata da Goethe
all’Ottica. Essa è preceduta dai tre saggi Contributi all’ottica (Beiträge zur Optik), due pubblicati a Weimar nel corso del 1791 e il terzo, terminato
nel 1792, rimasto inedito. Quasi tutto il contenuto dei Beiträge viene assorbito dalla Farbenlehre.

La Teoria dei colori si divide in tre parti: una prima parte didattica, contenente i lineamenti generali della teoria, basata su un gran numero di
osservazioni ed esperimenti raccolti da Goethe durante molti anni; una seconda parte polemica esplicitamente rivolta contro la teoria di
Newton, accusata di aver “ostacolato fortemente una libera visione delle manifestazioni dei colori“. (TC, ‘4’); infine una terza parte storica, in cui si
delinea un’interessante panoramica delle maggiori teorie ottiche e cromatiche dall’antica Grecia al Settecento.

In un celebre passo della Prefazione alla Parte Didattica della Farbenlehre Goethe paragona la teoria dei colori di Newton a un’antica rocca,
sempre più fortificata e consolidata da tutti i suoi sostenitori nel corso degli anni per fronteggiare attacchi e ostilità. Eppure, afferma Goethe:

Nessuno si accorge che l’antica costruzione è divenuta inabitabile. […]. Si va a essa in pellegrinaggio, se ne mostrano rapidi schizzi per tutte
le scuole e la si raccomanda all’ammirazione di una recettiva gioventù, mentre in realtà l’edificio è già vuoto, sorvegliato soltanto da alcuni
invalidi, che in tutta serietà si credono armati. […] Questa ottava meraviglia del mondo ci pare piuttosto un’antichità che minaccia il crollo
e, senza troppe cerimonie, cominciamo a smantellarla a partire dal comignolo e dal tetto, cosicché il sole finalmente entri a far luce in quel
nido di topi e civette, rivelando allo stupito viandante l’incoerente e labirintica costruzione e, quindi, ancora quanto vi è d’imposto dalle
necessità, quanto vi è di casuale, di intenzionalmente artificiale, di malamente raccomandato. (TC, ‘5-6’)

La parte didattica, unica delle tre parti che analizzerò, si divide a sua volta in sei sezioni, di cui le prime tre, rispettivamente dedicate ai colori
fisiologici, fisici e chimici, prendono in considerazione la natura materiale del colore nelle sue varie manifestazioni; la quarta, studiando la
struttura formale del cerchio dei colori (in calce al testo si trova una riproduzione di questo strumento), fornisce un utile criterio di unificazione
alla teoria; la quinta tratta “quelle relazioni di prossimità nelle quali la teoria dei colori intenderebbe disporsi rispetto agli altri settori del sapere, del fare,
dell’agire” (TC, 14); infine la sesta determina gli effetti sensibili e morali del colore, aprendosi in tal modo alla sfera estetica, immaginativa e
mistica.

Intendo qui evidenziare la profonda unità che lega tra loro le varie parti della Farbenlehre, unità basata su quel concetto globale di esperienza
che già si può cogliere nelle sue linee essenziali studiando le altre opere scientifiche di Goethe. Da questo punto di vista ritengo giusto rifiutare
non solo quelle concezioni che hanno frettolosamente e superficialmente liquidato la Teoria dei colori come un serio infortunio scientifico,
germogliato in un’epoca, quella romantico-idealistica, costituzionalmente incline a costruzioni fantastiche, ma anche quelle più “benevole” che
hanno ritenuto doveroso “salvarne” almeno alcune parti, soprattutto quelle meno compromesse dalla polemica antinewtoniana, come lo studio
dei colori fisiologici o quello dell’azione morale e sensibile del colore. A questo proposito è interessante vedere l’opinione di uno scienziato di
poco posteriore a Goethe, cioè di Hermann Helmholtz, che si è pubblicamente espresso in due prolusioni (una tenuta nel 1853 a Königsberg e
l’altra nel 1892 a Weimar) sulle opere scientifiche di Goethe. In un saggio di Carlo Del Lungo, Goethe e Helmholtz, Bocca, Milano, 1903, si trova
tradotta la parte dedicata alla teoria dei colori della conferenza  del 1853 (p. 132-150). Il filo conduttore del discorso sta tutto nel tentativo di
giustificare il “madornale errore” di Goethe, cioè nel trovare delle ragioni per “perdonare” la Teoria dei colori. Queste ragioni sono individuabili
innanzitutto nelle caratteristiche dell’ingegno goethiano, costruito per la comprensione intuitiva del mondo organico (dove operò
mirabilmente) ma inaccessibile ai concetti astratti della fisica e della matematica. Un’altra ragione sta nell’incertezza che allora esisteva nel
rintracciare l’esatta relazione tra le sensazioni e le loro cause fisiche esterne.

Ambedue gli schieramenti, quello negativo e quello possibilista, mostrano di leggere la Farbenlehre solo come un’opera polemica, antifisicalista,
e in quanto tale oramai definitivamente smentita dalla scienza. È una prospettiva unilaterale e ingiusta, attraverso la quale si perde il vero
valore dell’opera. Ma è anche una prospettiva antistorica, in quanto fa coincidere la formulazione della teoria con la nota esperienza fatta da
Goethe nel 1793 con il prisma di Büttner, ignorando così che il nucleo essenziale della dottrina era già chiaramente precisato nei Beiträge.

Nelle sue linee generali, la dottrina è già completa quando, nel 1791, escono i due primi Contributi all’Ottica. Goethe guardò attraverso il
prisma prestatogli dal consigliere aulico di Jena Büttner nel 1793 e vide che la parete anziché scomporsi nello spettro cromatico teorizzato
da Newton, rimase bianca, tranne nei punti in cui il buio si incontrava con il chiaro. Questa esperienza, che ha formalmente dato il via a
tutta la polemica antinewtoniana in campo ottico, è quindi posteriore all’ideazione della Teoria dei colori, che pertanto va letta come opera
autosufficiente. (Bruno Maffi, Nota a Teoria dei colori, in Op5, 286)

L’antinewtonianesimo di Goethe, che spesso assume toni molto aspri e inconsueti per la sua misurata personalità, va considerato non motivo
ispiratore dei suoi studi ottici, ma consapevolezza della profonda novità della sua concezione, radicalmente diversa da quella del fisico inglese.
La Teoria dei colori ha in sé la propria ragione d’essere, nei principi teorici e filosofici che la ispirano; ed è su di essi che conviene concentrare
l’attenzione per approntare un discorso corretto. La scelta antimeccanicistica e qualitativa di Goethe è pienamente motivata dal grande valore
che egli attribuisce alla dimensione estetica dell’uomo, e con ciò dal rifiuto di una concezione puramente intellettuale dell’esperienza. Per
Goethe il rapporto tra soggetto e oggetto non si risolve nell’ambito astratto e devitalizzato del concetto, dove la realtà si irrigidisce in
formulazioni categoriali con una perdita netta di contenuto, ma si costituisce in un vivo intreccio di  motivazioni, per cui l’esperienza oltre che
conoscenza è anche memoria e immaginazione, passione e azione, gusto e desiderio, insomma un mondo concreto e perciò fortemente segnato
dai connotati qualitativi. Il luogo dell’incontro tra Io e Mondo dove tutte queste caratteristiche si conservano è il fenomeno, zona in cui la
relazione, anziché presentarsi come statica opposizione di entità eterogenee da adeguare vicendevolmente, si istituisce come dinamica
formazione di senso. Da notare come anche il colore si determini in una zona intermedia tra luce e tenebra, le quali, come soggetto e oggetto in
sé presi, sono pure astrazioni.

Quell’elemento neutro che è la polarità non è esprimibile, semplicemente perché non è ancora determinato. Pretendere di cogliere la luce in
sé o l’oscurità in sé sarebbe una pretesa strana, poiché quanto ci appare è in ogni caso determinato e non può che essere tale. (Renato
Troncon, op. cit., in TC, 239)

Se ogni esperienza è, in tal modo, significativa, essa è anche immediatamente leggibile come teoria. Mentre nel meccanicismo il passaggio
dall’esperienza alla teoria avviene attraverso un processo di impoverimento del materiale esperito, prima purificato dalla “ganga” delle qualità
secondarie, poi rigorosamente formalizzato dall’inflessibile linguaggio matematico, in Goethe tutto ciò non avviene: l’esperienza, anziché
“ridotta” a teoria, viene “trascritta” in teoria. Qui sta l’inconciliabilità in materia di colori tra Goethe e Newton: per Goethe la teoria dei colori è
l’esperienza, nel senso pieno del termine, che del colore viene fatta, per Newton essa viene dedotta da un’esperienza già ampiamente
compromessa e resa artefatta dall’uso aberrante dei congegni meccanici. Intendo analizzare la Farbenlehre sotto questo angolo di visuale e
mostrare, attraverso la validità dei risultati in essa raggiunti, tutta la fecondità dell’impostazione goethiana. Mi soffermo con particolare
attenzione sulla natura materiale del colore, dove l’esperienza goethiana si forma nel contatto primario con i fenomeni cromatici e il suo studio
qualitativo sa recuperare alla scienza aspetti della realtà precedentemente rifiutati.

La natura materiale del colore

I colori fisiologici

La sezione che Goethe ha dedicato ai colori fisiologici è una delle parti della sua opera meno osteggiate dalla critica, che anzi ha visto in essa
delle geniali anticipazioni di psicofisiologia della visione.

Una delle prime teorie sulla visione dei colori è quella di Young (1802), in seguito perfezionata da Helmoltz. Esisterebbero tre tipi di ricettori
cromatici, sensibili al rosso, all’azzurro e al verde. I colori risulterebbero dalla stimolazione combinata di questi tre recettori: il giallo, ad
esempio, deriverebbe dalla stimolazione dei ricettori del rosso e del verde. Questa teoria, però, non spiega il motivo per cui un soggetto cieco al
rosso-verde vede benissimo il giallo. Un’altra importante teoria è quella di Ewald Hering (1870), secondo la quale esisterebbero tre tipi di coni
sensibili ai gradi di luminosità e alle coppie rosso-verde e azzurro-giallo. Uno dei colori della coppia sarebbe prodotto da una fase
anabolizzante del ricettore, l’altro da una fase catabolizzante (le due fasi non possono verificarsi contemporaneamente). Nel 1964 McNichol ha
trovato elementi di sostegno per entrambe le tesi, grazie a un procedimento denominato microspettrofotometria: utilizzando onde luminose, ha
potuto individuare nei coni tre tipi di pigmenti (il primo sensibile alla fascia azzurra, il secondo alla fascia verde, il terzo alla fascia giallo-
rossa); ha inoltre dimostrato l’esistenza di un processo di tipo binario nelle cellule bipolari e in quelle del corpo genicolato laterale, con caratteri
simili a quello ipotizzato da Hering. Su questi argomenti v. Ernest R. Hilgard, Richard C. Atkinson e Rita L. Atkinson: Psicologia. Corso
introduttivo, Giunti-Barbera, Firenze, 1979, p. 141-143. V. ancora The Open University, Le basi biologiche del comportamento, 2 voll., EST
Mondadori, Milano, 1978, vol. I, p. 190-192. Da sottolineare una recente proposta di Edwin H. Land, secondo la quale l’identificazione dei
colori si baserebbe su triplette di informazioni relative alla riflettanza degli oggetti che vengono elaborate da un sistema retina-corteccia. V.
Edwin H. Land, Una nuova teoria della visione dei colori, in “Le Scienze” (ed. it. di Scientific American), n. 115, Marzo 1978, p. 52-68.

Al di là della presenza effettiva di tali anticipazioni, ritengo che questa parte sia importante in quanto in essa è pienamente formulato e reso
operante quel concetto di esperienza precedentemente individuato.

I colori che legittimamente collochiamo qui all’inizio, poiché appartengono del tutto o in gran parte al soggetto e all’occhio, costituiscono il
fondamento dell’intera teoria e svelano quell’armonia cromatica che è tema di tante dispute. Questi colori sono stati fino a ora considerati
inessenziali e casuali, alla stregua di illusioni e deficienze. (TC, ‘1’) A essi aggiungiamo subito i colori patologici, che rendono possibile una
più piena comprensione di quelli fisiologici. (TC, ‘4’)

A fondamento dell’intera teoria Goethe pone, dunque, dei colori che hanno come principale caratteristica quella di essere soggettivi, cioè di
appartenere completamente all’occhio e di svelarsi, in questa loro dipendenza, totalmente instabili ed effimeri. Ma in Goethe, è ormai noto, i
sensi, se bene interrogati, anziché ingannare sono portatori di un significato non arbitrario: essi, nelle condizioni loro proprie di esperienza,
obbediscono a leggi costanti e strutturali del fenomeno. Perciò Troncon sottolinea giustamente il fatto che il carattere soggettivo dei colori
fisiologici non compromette il rigore dell’analisi.

Se cioè le manifestazioni soggettive di colore sono instabili, altrettanto non lo sono i principi che le riguardano. Questi ultimi sono anzi
propri di qualsiasi manifestazione cromatica, di qualunque genere essa sia. I colori fisiologici rappresentano semplicemente un punto di
vista dal quale guardare al colore: l’esperienza di essi, quella scientifica inclusa, non è un’esperienza del casuale, bensì del necessario.
(Renato Troncon, op. cit., in TC, 223)

A ulteriore conferma che qualsiasi esperienza del colore svela un’intrinseca costanza normativa, Goethe non esita ad attribuire significatività
anche ai colori patologici. Punto di partenza è l’attività dell’occhio, cioè la funzione del vedere esplicata dalla retina secondo le leggi della
polarità.

È utile, a questo punto, accennare brevemente al contenuto del volume: Arthur Schopenhauer, La vista e i colori e Carteggio con Goethe,
Boringhieri, Torino, 1959, per l’importanza che il filosofo tedesco attribuisce all’attività della retina nella formulazione di una teoria dei colori.
Secondo Schopenhauer, merito di Goethe è

È
di aver dato in piena misura con la sua opera eccellente ciò che il titolo promette: dati per la teoria dei colori. (p. 26) [È ora necessario]
completare l’opera di Goethe, far risaltare in abstracto quel principio supremo su cui si fondano tutti i dati in essa contenuti e così fornire la
teoria del colore nel senso più stretto della parola. (p. 29)

Partendo dalla convinzione che i colori risiedano nell’occhio, Schopenhauer fa precedere alcune considerazioni riguardanti la vista in generale,
dove si possono leggere importanti osservazioni gnoseologiche, come ad esempio l’intellettività dell’intuizione, la distinzione tra intelletto e
ragione e tra parvenza (inganno dell’intelletto, concerne la realtà) ed errore (inganno della ragione, concerne la verità), l’individuazione della
conoscenza come carattere specifico dell’animalità. (p. 34-53) Affrontando direttamente l’attività della retina, nel capitolo riguardante i colori
(p. 54-153), Schopenhauer nota che “sotto l’azione della luce, o del bianco, la retina è in piena attività: con l’assenza di ambedue, vale a dire con l’oscurità
o il nero, subentra l’inattività della retina“. (p. 57) L’attività della retina viene poi distinta secondo l’intensità (gradualità di luce, penombra, oscurità,
oppure di bianco, grigio, nero), l’estensione (coesistenza di molteplici impressioni) e la qualità (generazione del colore). Schopenhauer definisce
il colore come

l’attività divisa qualitativamente della retina. La diversità dei colori è il risultato della diversità delle metà qualitative in cui questa attività
può scindersi e del loro rapporto reciproco. […] A ogni colore, dopo la sua apparizione, seguirà il suo complemento alla piena attività della
retina, che è restato nell’occhio e si chiama spettro fisiologico. (p. 69-70) [In quanto] bipartizione qualitativa dell’attività della retina, il colore
si presenta sempre come dualità: cromatologicamente, perciò, non si può parlare di colori singoli, bensì soltanto di coppie di colori, delle
quali ciascuna contiene l’intera attività della retina scissa in due metà(p. 73)

Dopo aver definito polare l’attività della retina, Schopenhauer affronta il tema della natura umbratile del colore, già affermato da Goethe, e ne dà
una spiegazione teorica:

Per l’attività della retina divisa qualitativamente, abbiamo trovato che la comparsa di una metà è essenzialmente condizionata, […]
dall’inattività dell’altra metà. Ma, […] inattività della retina vuol dire tenebre. Perciò l’apparire come colore della metà qualitativa
dell’attività della retina deve essere assolutamente accompagnato da un certo grado di tenebre, quindi da una certa oscurità. (p. 76)

Da questa breve e schematica esposizione, si può già notare come la teoria dei colori di Schopenhauer riduca il fenomeno cromatico al suo solo
aspetto fisiologico mostrando così, al di là dei formali elogi, una sostanziale inconciliabilità con la Farbenlehre goethiana. Il breve Carteggio che
segue al testo (17 lettere, di cui 9 di Schopenhauer e 8 di Goethe) mette in mostra, nell’atteggiamento evasivo di Goethe, l’esistenza di questo
disaccordo. Su questi argomenti v. Vasco Ronchi, Schopenhauer con Goethe e contro Goethe in tema di colore, in “Physis”, n. 4, 1959, p. 279-292.

Goethe osserva come la retina possa trovarsi in due condizioni estreme e opposte: di massima recettività (occhi aperti al buio completo) o di
massima insensibilità (occhio abbagliato da una superficie bianca fortemente illuminata) condizioni che, nella normale attività fisiologica del
vedere, compaiono contemporaneamente e in gradi di intensità differenziati. Le stesse reazioni polari di recettività e insensibilità che l’occhio
produce nei confronti della luce e delle tenebre si trovano in presenza di immagini bianche e nere. Qui Goethe dà una spiegazione del noto
fenomeno secondo il quale un oggetto scuro appare più piccolo di uno chiaro della stessa grandezza.

Il nero, come rappresentante dell’oscurità, lascia l’occhio in posizione di quiete, il bianco, come rappresentante della luce lo pone in attività.
[…] La retina in quiete, lasciata a sé, si contrae in se stessa e occupa uno spazio minore che nella condizione di attività. (TC, ’18’)

A questo punto, Goethe fa due importanti affermazioni riguardanti la permanenza e l’inversione delle sensazioni di chiaro e scuro. Chi al
risveglio fissi la crociera di una finestra sullo sfondo di un cielo crepuscolare e poi chiuda gli occhi, conserverà l’immagine di una croce nera su
sfondo bianco per alcuni istanti (TC, ’20’), tempo che, in caso di astenia oculare, può prolungarsi molto di più. Se, anziché chiudere gli occhi, si
guarda verso una superficie grigio-chiara, si verifica l’inversione: la crociera apparirà chiara e lo spazio del vetro scuro. (TC, ’29’) La
spiegazione di questo fenomeno viene data sulla base del comportamento polare dell’occhio visto prima.

La parte della retina sulla quale cade l’immagine della crociera scura è da considerarsi rilassata e recettiva. Su di essa la superficie
moderatamente illuminata agisce più vivacemente che sulle altre parti, che ricevono invece la luce attraverso i vetri. Di conseguenza queste
ultime, dopo essere state poste in azione da uno stimolo notevolmente più forte, percepiscono la superficie grigia solo come superficie
scura. (TC, ’31’)

È la manifestazione di un’attività continua da parte dell’occhio che, trovandosi in una condizione specifica, deve subito produrre il suo opposto
per ristabilire quella condizione di interezza verso cui tende: nella visione, la categoria modale dell’effettualità, con la sua determinatezza e
specificità, deve rovesciarsi nell’interezza indeterminata della possibilità. Già in questa prima ed elementare attività del vedere si svela la
“formula della vita”, per cui ogni sistole presuppone la sua diastole:

non appena all’occhio si presenta lo scuro ecco che esso richiama il chiaro, mentre ecco lo scuro quando gli si ponga dinanzi il chiaro. (TC,
’38’)

Questa legge di polarità, assieme ai principi di permanenza e inversione dell’immagine colti nello studio della visione del chiaro e dello scuro,
si estende anche ai colori fisiologici, che Goethe ha osservato per la prima volta in occasione dell’indebolirsi di immagini in colori abbaglianti.

Nel paragrafo dedicato alle immagini colorate, Goethe ci presenta delle bellissime esperienze volte a mettere in luce le strutture di opposizione
e richiamo, attive nella visione cromatica. Vediamone due molto significative raccontate dal poeta.

Dopo che, verso sera, fui entrato in un’osteria e un’avvenente fanciulla, dal volto bianchissimo, capelli neri, e un corsetto rosso scarlatto
entrò nella mia camera, la fissai mentre stava a una certa distanza da me, in una debole luce. Quando infine ella si  mosse, sul fondo della
parete bianca a me dirimpetto scorsi un volto nero circondato da un bagliore chiaro, e le vesti della nitida figura di un bel verde mare. (TC,
’52’)

[…]

Il 19 giugno del 1799, passeggiando a tarda sera in giardino assieme a un amico, durante il passaggio del crepuscolo in una notte chiara,
notammo che in prossimità e sui fiori del papavero orientale – di un rosso assai intenso – si poteva osservare qualcosa di simile a delle
fiamme. […] Si trattava di un fenomeno appartenente ai colori fisiologici, e il lampo che dicevano era propriamente l’immagine apparente
dei fiori, nel richiamato color verde-azzurro. (TC, ’54’)

Esperienze analoghe possono riguardare non solo immagini determinate, ma anche l’intera retina, come si verifica allorché si pongono lastre di
vetro colorato davanti agli occhi: una volta levate, gli oggetti brillano tutti di un altro colore.
Queste osservazioni ci introducono direttamente nella fondamentale problematica dei colori complementari rivelati dalle immagini successive,
problematica che trova un’adeguata descrizione attraverso il cerchio dei colori. Quest’ultimo è ordinato in modo tale da disporre i colori che si
richiamano reciprocamente in opposizione diametrale l’uno all’altro. Sono istituibili tre coppie privilegiate: i tre colori principali, giallo, rosso e
azzurro richiamano rispettivamente i tre colori secondari, violetto, verde e arancio. La regolarità e la costanza di queste strutture di
opposizione e richiamo che osservate per le immagini successive si ritrovano anche nel contrasto simultaneo, secondo cui

se su una parte della retina si presenta un’immagine colorata, la parte restante si trova subito orientata a produrre i corrispondenti colori.
(TC, ’56’)

A questo punto, l’affermazione che Goethe ha posto all’inizio della sezione, secondo la quale i colori fisiologici costituiscono il fondamento
dell’intera teoria in quanto mostrano che le leggi della visione sono orientate verso la totalità e l’armonia, può essere colta nella sua giusta luce.
Un solo colore, infatti, mette in moto tutti i meccanismi di richiamo, per cui l’occhio “serra in se stesso il cerchio cromatico“: ad esempio, nel
violetto richiamato dal giallo sono racchiusi il rosso e l’azzurro e questi, a loro volta, richiamano i rispettivi complementari verde e arancio.
(TC, ’60’) L’armonia, poi, nasce quando nella totalità sono ancora osservabili gli elementi da cui è costituita. (TC, ’61’)

È interessante notare come il metodo di Goethe proceda sempre interno all’esperienza, come la teoria dei colori complementari che egli elabora
manifesti pienamente le proprietà del fenomeno nell’immediatezza del suo apparire. Essendo la teoria dei colori, in ultima analisi, descrizione
dell’esperienza che del colore si fa, l’attenzione maggiore è in essa rivolta verso “aspetti di ordine formale“, verso lo svelamento dei nessi che si
istituiscono tra le immagini, i colori e altre istanze. (v. Renato Troncon, op. cit., in TC, 221-222)

Nell’importanza che Goethe attribuisce alla struttura dell’esperienza nel suo darsi immediato, senza che in essa intervengano procedimenti
analitici a mediarla, si possono forse rintracciare alcune anticipazioni della psicologia della Gestalt. Ma tutta la sezione dedicata ai colori
fisiologici è densa di geniali intuizioni, che si estendono dalla fenomenologia empirica alla pratica artistica. Come osserva Argan nella sua
Introduzione alla Teoria dei colori, Goethe è andato vicinissimo a teorizzare i principi cromatici impressionisti, trattenuto in questo solo da una
non superata ipoteca neoclassica, dominante nella cultura figurativa del suo tempo, per cui il colore si definiva ancora come sovrastruttura a
una “forma” individuata dalla gradazione chiaroscurale (v. Giulio Carlo Argan, Introduzione a TC, XVI). Infatti, se Goethe avesse approfondito
l’analisi, sarebbe giunto a tre fondamentali deduzioni per ciò che riguarda il contrasto simultaneo:

(a) Il contrasto simultaneo, ponendo ogni colore in rapporto soltanto con altri colori, elimina il riferimento comune alla scala chiaroscurale
dal bianco al nero; (b) la simultaneità del contrasto ne indica il tempo, l’assoluto presente; (c) due complementari sono i due colori più
lontani tra loro, quindi la loro associazione segna il momento di massima “attività’” (che significa anche presenza) della mente percettiva o
dell’occhio. (Giulio Carlo Argan, op. cit., in TC, XIX)

La sezione dedicata ai colori fisiologici si conclude con le interessantissime osservazioni riguardanti le ombre colorate e gli aloni soggettivi.
Dopo un rapido accenno alle ombre e ai colori, Goethe individua le due condizioni necessarie al verificarsi delle ombre colorate: primo nella
presenza di una luce agente che colori la superficie bianca, secondo in quella di una luce ausiliaria che illumini l’ombra (TC, ’64’). Anche qui si
applicano quei principi di opposizione e richiamo visti trattando le immagini consecutivie e il contrasto simultaneo. La regolarità della
manifestazione è tale da poterne fare una legge che permetta di considerare il colore dell’ombra come un cromatoscopio delle superfici
illuminate.

Chi vede delle ombre colorate – osserva Goethe – deve guardare di quale colore è tinta la superficie chiara sulla quale appaiono; l’ombra
avrà il colore complementare. (TC, ’72’)

Tutta questa parte è ricca di osservazioni tratte dalla viva esperienza di Goethe, come ad esempio le ombre osservate durante un’escursione
sullo Harz, a conferma del nesso indissolubile che il poeta stabilisce tra istanze teoriche e scientifiche ed esigenze di concretezza.

Durante la giornata si erano già osservate, unite al tono giallino della neve, ombre di un delicato violetto, […] ma quando finalmente il sole
si avvicinò al tramonto, e i suoi raggi filtranti dalle dense foschie ricoprirono l’intero mondo che mi circondava con il più bel porpora mai
visto, il colore delle ombre si tramutò in un verde che poteva essere paragonato, per trasparenza a un verde mare e, per bellezza, al verde di
uno smeraldo. L’apparizione diveniva sempre più intensa e luminosa, ci si credeva in un mondo di fate, poiché tutto si era vestito di quei
due colori vivi e in così bel accordo, fino a quando con il tramonto del sole lo splendore di questa vista si perse in un crepuscolo grigio e, a
poco a poco, in una notte stellata di luna chiara. (TC, ’75’)

Dopo alcune brevi annotazioni, riguardanti le manifestazioni di colore connesse alle luci che agiscono debolmente, Goethe affronta il tema
degli aloni soggettivi, riservando alla sezione dedicata ai colori fisici la trattazione degli aloni oggettivi. La causa degli aloni soggettivi sta nel
fatto che l’immagine luminosa non agisce solo come immagine, ma anche come energia, e perciò si espande dal centro verso la periferia. Essi
manifestano inoltre particolare vivacità quando  l’occhio è riposato e recettivo. Goethe interpreta gli aloni soggettivi come un conflitto tra la
luce e uno spazio vivente:

Dal conflitto di ciò che si muove con ciò che è mosso ha origine un movimento ondulatorio. Si possono prendere a paragone gli anelli
nell’acqua. […] Se quindi nella rappresentazione ci si avvicina bene a ciò che può accadere sulla retina quando viene colpita da un oggetto
luminoso, va però ricordato che la retina, in qualità di organismo vivente, possiede già nella sua organizzazione una certa disposizione alla
forma del circolo. (TC, ’98’)

Alla sezione dei colori fisiologici è aggiunta un’appendice riguardante i colori patologici ma, per le ragioni viste sopra, essa va considerata
come organicamente connessa a tutto il discorso precedentemente fatto. “I fenomeni morbosi – infatti – rinviano in egual modo a leggi organiche e
fisiche” (TC, ‘102’), per cui essi possono fornire molte indicazioni utili a una migliore comprensione delle manifestazioni di colore soggettive in
generale. Interessante è la discussione su una deviazione dalla visione cromatica regolare, la acianoblepsia, di cui Goethe dà un esempio
concreto mostrando un paesaggio colorato secondo i criteri di questa cromatopatia: il cielo assumerebbe un colore rosa e verde, tutto quanto si
esprimerebbe in una tonalità che va dal giallo fino al rosso-marrone, con una certa rassomiglianza a un paesaggio autunnale (TC, ‘113). La
acianoblepsia sarebbe spiegabile ritenendo che i soggetti colpiti da questa malattia siano dotati di un minor numero di colori del normale.
Secondo le moderne teorie, l’occhio normale sa discriminare tre coppie cromatiche: giallo-azzurro, rosso-verde e la gradazione chiaro-scuro. La
deficienza di uno o due di questi sistemi viene chiamata discromatopsia, di cui la forma più comune è la cecità al rosso-verde. V. E. R. Hilgard,
op. cit., p. 136-141. Per una trattazione completa sulla visione dei colori v. Giuseppe Ovio, La scienza dei colori. Visione dei colori, Hoepli, Milano,
1927.

Riferendosi al cerchio cromatico, Goethe nota:


Togliamo dal nostro cerchio dei colori l’azzurro: verranno a mancarci azzurro, violetto e verde. Il rosso puro si estende al posto dei primi
due e, se si incontra col giallo, invece del verde produrrà un arancio. (TC, ‘112’)

La trattazione delle patologie cromatiche prosegue prendendo in considerazione un’ampia casistica di deviazioni dalla vista normale, come
quelle che si presentano, ad esempio, in vari tipi di malattie organiche, come la cataratta e l’itterizia o il già considerato caso di astenia oculare,
in cui la permanenza delle immagini sulla retina si prolunga ben oltre il tempo fisiologico.

Nella sezione dei colori fisici si ritrovano, sostituendo all’occhio i mezzi torbidi, quelle stesse leggi attivamente operanti nei colori fisiologici.

I colori fisici

Se la parte dedicata ai colori fisiologici rappresenta legittimamente il fondamento dell’intera Farbenlehre, in quanto lì è stato possibile
rintracciare le leggi caratteristiche della manifestazione cromatica, non v’è dubbio, però, che il centro nevralgico di tutta la teoria sia costituito
dallo studio dei colori fisici dove, oltre a essere confermata l’applicabilità di quelle stesse leggi anche in un contesto “oggettivo”, è possibile
cogliere il fenomeno puro della formazione del colore nella mediazione che la torbidezza opera tra chiaro e scuro. Le due parti sono quindi
strettamente collegate l’una all’altra in un rapporto di reciproca implicazione, come risulta anche dai numerosi rimandi che Goethe stesso
stabilisce tra le due sezioni. Eppure, mentre la teoria dei colori fisiologici ha trovato parecchi estimatori anche in campi ostili a Goethe
scienziato, quella dei colori fisici ha reso reticenti anche molte delle opinioni più favorevoli al poeta.

Credo che sia secondario il fatto che Goethe, sbagliando, ritenesse falsa la teoria ottica di Newton e che a essa opponesse la sua concezione
secondo la quale il colore nascerebbe da una mediazione (non mescolanza, che darebbe il grigio) tra il chiaro e lo scuro. Secondo Heisenberg, su
questo punto non esisterebbe una insanabile contraddizione tra le teorie di Goethe e di Newton:

Dal bianco i colori possono essere separati mediante azioni dall’esterno. Poiché per questa separazione è sempre necessaria materia, che
sottrae luce e quindi è paragonabile a ciò che Goethe chiamò l’opaco o l’oscuro, così anche secondo la teoria di Newton è benissimo
comprensibile che i colori nascano dalla luce bianca soltanto grazie alla reciproca influenza fra il bianco e l’opaco. [Subito dopo individua il
vero motivo della discordia] … Il fenomeno più semplice della teoria di Newton è il raggio luminoso monocromatico strettamente limitato,
depurato mediante complicati dispositivi dalla luce di altro colore e di altra direzione. Il concetto più semplice della teoria di Goethe è la
chiara luce del giorno che ci circonda. (W. Heisenberg, op. cit., p. 84)

Solo la prospettiva stravolta di considerare la Farbenlehre nient’altro che una risposta polemica all’Ottica del fisico inglese ne fa il punto
centrale, smarrendo quindi, nell’opacità di un fatto contingente, tutta la trasparente significatività della concezione goethiana della scienza e
della natura. L’inappellabile condanna che grava sulla sezione dedicata ai colori fisici è dovuta agli effetti perversi provocati da questo
orientamento. Il reale punto della contesa sta in una questione ben più generale, esaminata nel corso dei due precedenti capitoli e che può
essere schematicamente individuata come un’opposizione tra una concezione qualitativa e una quantitativa della natura, vedendo nella prima
l’espressione di un’esigenza di organicità e interezza dell’esperienza (fondata sul recupero e la centralità del luogo primario dell’uomo, la
dimensione estetica) e nella seconda l’affermazione di una tendenza contraria, analitica e obiettivistica, volta a consegnare il mondo vivo delle
qualità (e con esso una parte consistente dell’uomo) al degrado dell’arbitrario e dell’effimero.

In base a tutto ciò, si può rilevare l’istanza primaria che sta al centro della Teoria dei colori: essa è l’intento di spiegare l’esperienza del colore
nella totalità delle sue manifestazioni, ricorrendo a delle leggi che non solo valgono generalmente nei vari contesti dell’espressione cromatica
(soggettivo od oggettivo, materiale o morale o estetico, ecc.) ma che si ritrovano, nella loro semplicità e originarietà, in tutti i campi della
natura. Esattamente l’opposto dell’Ottica di Newton, mirante a dare del colore una definizione meramente fisica, anzi matematica. Ma la teoria
di Newton, che riesce perfettamente a realizzare ciò che si propone, vuole imporre questa prospettiva deliberatamente riduttiva come esaustiva
e paradigmatica di ogni indagine sulla natura, veicolando così un concetto di esperienza e natura che, in questa pretesa, è decisamente
inaccettabile. Anche la teoria di Goethe dà risposte coerenti alle domande che si è posta: essa rende conto dell’esperienza del colore secondo le
leggi proprie dell’esperienza stessa, ed è perciò una teoria scientifica a tutti gli effetti, così come lo è ogni fenomenologia coerente.

Ecco perché il goethiano fenomeno originario della nascita del colore non può essere confutato dalla teoria newtoniana: Goethe non ha
l’intenzione di scoprire il fatto meramente obiettivistico del colore, quel fatto premeditatamente svincolato da qualunque esperienza concreta.
Egli non usa di proposito la matematica nello studio del colore, così come i mezzi che adopera nelle sue ricerche non diventano mai strumenti,
cioè enti che artificializzano l’esperienza, tormentando la natura e oscurando i fenomeni originari. Non lo fa perché un’esperienza artefatta
perde il proprio carattere dinamico e si fissa in un’astratta dimensione atomistica.

Tutta la sezione seconda è un’immensa riserva di esperienze e osservazioni sempre meticolose, talvolta persino pignole, e tuttavia mai
rattrappite in formule algide e indeclinabili nel mondo concreto. Goethe definisce fisici

quei colori per la cui nascita sono necessari mezzi materiali di un determinato genere i quali, tuttavia, di per sé non hanno alcun colore e
possono essere o trasparenti o torbidi o traslucidi, oppure, infine completamente opachi. […] Se attribuiamo loro una sorta di obiettività,
tuttavia la transitorietà e la difficoltà di fissarli restano il loro contrassegno. (TC, ‘136’)

Da questa definizione si nota che, a differenza dei colori fisiologici che richiamano l’attenzione sull’occhio, i colori fisici pongono al centro della
ricerca i mezzi. Inoltre, a causa della loro natura intermedia e transeunte, ci mettono in condizione di porre “un fenomeno oggettivo a fianco di uno
soggettivo” e perciò di studiare a fondo la natura di questa connessione (TC, ‘138’). Esistono quattro tipi di colori fisici, distinti dai modi
secondo i quali la luce può venir condizionata dai mezzi:

1. Colori catottrici: si manifestano per riflessione o rispecchiamento della luce;


2. Colori parottici: si formano quando la luce sfiora con i suoi raggi un corpo non trasparente e incolore;
3. Colori diottrici: si formano per rifrazione della luce in un corpo traslucido o trasparente;
4. Colori epottici: si formano per vari motivi sulla superficie di un corpo incolore e tendono a persistere per un certo tempo. (TC, ‘140’)

Quasi tutta la sezione è dedicata ai colori diottrici, gli unici, secondo Goethe, fisici nel senso proprio del termine, situandosi i colori catottrici e
quelli parottici vicino a quelli fisiologici, e condividendo i colori epottici molte proprietà dei colori chimici. I colori diottrici si ripartiscono in
due classi, nella prima delle quali si trovano le manifestazioni cromatiche che si formano con mezzi torbidi e traslucidi e nella seconda, di gran
lunga la più importante, quelle sorte tramite un mezzo trasparente.
La trattazione dei colori diottrici della prima classe è preceduta da una necessaria messa a punto dei concetti di trasparenza e torbidezza, con
l’importante osservazione che “la trasparenza stessa, considerata da un punto di vista empirico, già rappresenta il primo grado della torbidezza” (TC,
‘148’). Subito dopo vi è tutta una serie di esperienze attraverso le quali siamo condotti alla contemplazione del “fenomeno originario” della
nascita del colore. Tutte queste esperienze possono riportarsi a una legge generale: una sorgente luminosa guardata attraverso un mezzo
relativamente torbido appare gialla, mentre l’oscurità osservata attraverso un mezzo torbido illuminato da una luce incidente appare azzurra.
Da queste esperienze giallo e azzurro possono essere definiti come i due colori rispettivamente più vicini e più lontani dalla luce.

I campi in cui, a questo riguardo, Goethe ha operato le sue osservazioni sono molteplici e, come al solito, strettamente collegati all’esperienza
quotidiana e immediata: si va dall’osservazione del sole che, attraverso una nebbia abbastanza densa, appare come un disco giallino (TC,
‘154’), alla constatazione che l’azzurro del cielo altro non è che l’oscurità dello spazio infinito “vista attraverso i vapori atmosferici illuminati dalla
luce diurna” (TC, ‘155’), o a quella che le montagne ci sembrano azzurre in quanto “si comportano come un oggetto completamente scuro, che appare
azzurro in virtù dei torbidi vapori interposti” (TC, ‘156’). Oltre ai vapori, anche i mezzi liquidi, come l’acqua o le vernici, o quelli solidi, come il
vetro appositamente preparato o la pergamena, si prestano a giustificare la teoria dei mezzi torbidi, rendendo così sempre più vasto e
molteplice il campo d’indagine. Esemplare è la descrizione che Goethe ci fa di un caso di torbidezza momentanea: si tratta del ritratto di un
teologo, dipinto con una “smagliante veste di velluto” molto ammirata, che, avendo con il tempo perduta molta vivacità, viene affidato a un
pittore per il restauro. Con sgradita sorpresa, il restauratore si accorge che, dopo aver passato più volte una spugna bagnata d’acqua sul quadro
per pulirlo, la bella veste di velluto si era improvvisamente trasformata in una veste felpata azzurra. La mattina seguente, ancor più
sorprendentemente, la veste aveva riacquistato il suo colore originario. Goethe spiega questo caso con la teoria dei mezzi torbidi: la vernice del
quadro, assorbendo parte dell’acqua, si era intorbidita, facendo apparire di un colore azzurro il nero sottostante; l’asciugarsi dell’acqua
permetteva poi il ritorno del colore originale. (TC, ‘172’)

A questo punto Goethe propone delle importanti riflessioni sul modo di condurre una ricerca in campo naturale e sulle caratteristiche
dell’Urphänomen. Egli ordina i fenomeni trovati nell’esperienza in tre categorie: quelli empirici, alla portata di qualunque osservatore a causa
della loro datità e ovvietà, quelli scientifici, disponibili attraverso gli esperimenti e capaci di manifestare organizzazioni prima sconosciute, e
infine i fenomeni originari o puri, risultato ultimo di ogni esperienza, i quali permettono, “dopo essere saliti fino a essi, di scendere fino al caso più
comune dell’esperienza quotidiana” (TC, ‘175’). Nello scritto Esperienza e scienza del 1798, Goethe basa la sua metodologia scientifica su una
analoga tripartizione dei fenomeni: a) fenomeno empirico, che ognuno percepisce in natura; b) fenomeno scientifico, colto in circostanze e
condizioni diverse da quelle precedenti; c) fenomeno puro, che non può mai essere isolato, ma si mostra in una serie costante di fenomeni.

Qui, se l’uomo sapesse accontentarsi, sarebbe raggiunto il limite dei nostri sforzi, giacché qui non si chiedono cause, ma condizioni sotto le
quali i fenomeni appaiono; se ne osserva e percepisce la successione rigorosa, l’eterno ricorso in mille circostanze, l’uniformità e variabilità,
se ne riconosce la determinatezza, che, a sua volta, lo spirito umano determina. (Op5, 42-44)

Saper cogliere i fenomeni originari e non scambiarli con quelli derivati è l’unico modo per evitare “gli imbrogli e le sbalorditive confusioni delle
quali la teoria della natura ancora patisce” (TC, ‘176’). È necessario, pertanto, che lo scienziato della natura non turbi “la loro quiete e grandezza
eterna” con ulteriori ricerche e che il filosofo li accolga nel suo ambito speculativo come “un materiale degno di ulteriore trattazione in se stesso“,
senza altri rimandi. (TC, ‘177’)

Già si è visto come Goethe non ricerchi nel fenomeno o nel tipo originario una semplice astrazione dall’esperienza, una pura idealità priva di
concreta realtà. Esso è, al contrario, intuizione della realtà nella sua verità, cioè di una realtà che non si dà nel già formato o nel pre-formato
dell’intuizione empirica (intuizione di forme o Gestalten) ma nel vivo del suo processo morfogenetico (intuizione di formazioni o Bildungen). Il
carattere di concreto divenire, ben diverso dal divenire logico hegeliano, che ha per Goethe la realtà non può essere colto senza l’apporto della
sensibilità che, per sua stessa natura, è in questo divenire totalmente immersa. Non stupiscono quindi le parole di incondizionato elogio che,
all’inizio della parte riguardante i colori diottrici della seconda classe, il poeta dedica ai sensi umani, in quanto fonti di attendibili conoscenze e
informazioni sul mondo esterno.

Dal momento che i nostri sensi, in quanto siano sani, esprimono le relazioni esterne nel modo più veritiero, possiamo essere persuasi che
essi, dove sembrano contraddire il reale, tanto più sicuramente indicano con esattezza gli autentici nessi. Ciò che ci è lontano ci appare per
esempio più piccolo, e appunto così noi cogliamo la distanza. In relazione a oggetti incolori invece, mediante mezzi incolori, producevamo
manifestazioni colorate, e contemporaneamente venivamo richiamati al grado di torbidezza di quei mezzi. (TC, ‘182’)

Come l’affidabilità dell’occhio permette, nell’ambito dei colori fisiologici, di considerare la permanenza o l’inversione retinica delle immagini
non alla stregua di ingannatrici illusioni ottiche, ma necessarie attività dell’occhio sano, così ora, in occasione della rifrazione che “deroga dalla
legge del vedere in linea retta, […] divengono noti all’occhio i differenti gradi della densità di mezzi trasparenti, e perfino anche altre loro proprietà fisiche o
chimiche“. (TC, ‘183’)

Goethe sottolinea l’analogia tra il punto di vista soggettivo e quello oggettivo conducendo una serie di esperienze, riguardanti questa seconda
classe di colori diottrici, da entrambe le prospettive e mostrando come esse si accordino tra loro. Nota che le due classi di colori diottrici sono
strettamente affini:

Quelli della prima classe si presentano nell’ambito dei mezzi torbidi, quelli della seconda in quello dei mezzi trasparenti. Ma dal momento
che ogni oggetto empiricamnete trasparente già in sé può essere considerato come torbido, come prova qualsiasi aumento di materia di un
mezzo definito come trasparente, ne possiamo concludere che la stretta parentela dei due generi è sufficientemente evidente. (TC, ‘178’)

Negli esperimenti soggettivi, “l’oggetto è visto dall’osservatore attraverso un mezzo rifrangente” (TC, ‘194’), mentre in quelli oggettivi è
necessariamente richiesta la luce del sole, con tutte le accidentalità che ciò comporta. (TC, ‘303’)

Si possono fissare i punti salienti del discorso di Goethe su questi colori senza seguire puntualmente tutte le esperienze presentate, molte delle
quali, dato il carattere didattico dell’opera, svolgono una pura funzione di a fortiori. Si presenta subito un importante concetto, quello che la
manifestazione cromatica avviene solo attraverso lo spostamento di immagini delimitate, e precisamente ai margini dell’immagine, là dove
essa contrasta con un oggetto più chiaro o più scuro (TC, ‘198’). Lo spostamento di un’immagine chiara su uno sfondo scuro tramite un prisma
produce un margine azzurro, quando invece lo sfondo scuro si sposta sull’immagine chiara, si ha la produzione del giallo. Poiché, nella
rifrazione, la manifestazione di colore avviene con lo spostamento del margine di un’immagine verso l’immagine stessa, oppure sopra il fondo,
ne consegue che per ottenere un incremento cromatico è sufficiente produrre un maggior spostamento dell’immagine (TC, ‘209’). In questo
caso, a differenza che altrove, sono maggiormente significativi gli esperimenti oggettivi, in quanto

offrono il vantaggio di poter presentare il divenire del fenomeno – la sua genesi – fuori di noi, e contemporaneamente di renderla intuitiva
con rappresentazioni grafiche, ciò che con gli esperimenti soggettivi non è possibile. (TC, ‘325’)
Utilizzando strisce  bianche o nere abbastanza sottili su sfondi di gradazione opposta e osservandole con il prisma, si può eliminare la parte
centrale acromatica delle strisce, dando così vita a due differenti serie di colori. Con una striscia bianca su sfondo nero si ha la seguente
sequenza: rosso-giallo, giallo, verde, azzurro, rosso-azzurro; con una striscia nera su sfondo bianco: azzurro, rosso-azzurro, porpora, rosso-
giallo, giallo. Queste due serie danno lo schema dell’intensificazione cromatica e la possibilità di rappresentarlo compiutamente nel cerchio dei
colori.

Giallo e azzurro, i rappresentanti della luce e dell’oscurità nell’ambito del colore, possono congiungersi verso il basso, neutralizzandosi e
dando luogo al verde, oppure possono riunirsi verso l’alto, […] e il risultato è il rosso intenso o porpora. […] (Nel cerchio dei colori) non
solo le strutture dell’opposizione e del richiamo vi vengono illustrate, ma anche quelle della riunione, che essenzialmente si realizza
relativamente alla dimensione della forza […] del colore. (Renato Troncon, op. cit., in TC, 227)

Nella sezione dedicata ai colori chimici l’unione di azzurro e giallo nel verde è definita come “atomistica” e solo il porpora rappresenta
l’autentica mediazione dinamica tra i due colori estremi, il vero superamento della frattura che tra essi intercorre. (TC, ‘539’)

Per spiegare i fenomeni cromatici descritti, il poeta si serve della teoria delle immagini primarie e secondarie. Goethe divide le immagini usate
in primarie od originarie e secondarie o derivate, intendendo con le prime quelle immagini che si formano nel nostro occhio con la presenza
reale dell’oggetto esterno e che quindi ci informano effettivamente della sua esistenza, e con le seconde quelle immagini che permangono
nell’occhio anche dopo la scomparsa dell’oggetto, come ad esempio le immagini consecutive (TC, ‘221’). L’immagine primaria può anche essere
intesa come diretta, cioè formatasi nell’occhio direttamente a partire dall’oggetto, mentre quella secondaria verrebbe ad assumere il carattere di
immagine indiretta che si forma tramite la mediazione di un mezzo riflettente o trasparente.

Se il corpo che riflette è trasparente ed è costituito di due superfici parallele disposte una sopra l’altra, da ogni superficie può essere inviata
all’occhio un’immagine, venendosi così a formare immagini doppie, in quanto l’immagine superiore non coincide del tutto con quella
inferiore. (TC, ‘223’)

Infine, trattando delle manifestazioni prismatiche, l’immagine primaria può essere identificata con quella principale e quella secondaria con
l’immagine attigua, sorta di immagine doppia inseparabile da quella principale (TC, ‘226’). Ora, Goethe afferma che la manifestazione
prismatica dei colori non è altro che un’immagine attigua (TC, ‘234’), in analogia a quanto affermato nella sezione dei colori fisiologici, dove il
colore era indicato come affine all’ombra (TC, ’69’). Infatti la caratteristica dell’immagine attigua è la semitrasparenza, quindi attenuazione
della luce, e può a tutti gli effetti svolgere la funzione di mezzo torbido.

I colori possono dunque, nel caso della rifrazione, essere agevolmente derivati dalla teoria dei mezzi torbidi. Poiché nel punto in cui l’orlo
anteriore dell’immagine attigua torbida si estende dallo scuro sopra il chiaro appare il giallo, e dove viceversa un confine chiaro si
sovrappone al fondo scuro, appare l’azzurro. (TC, ‘239’)

Immagini secondarie, mediate o attigue, stanno quindi alla base della formazione del colore e tramite esse è possibile approntare uno schema
che unifichi le manifestazioni soggettive e quelle oggettive.

Dopo aver brevemente trattato il fenomeno del decremento della manifestazione cromatica, Goethe lascia il campo degli esperimenti con le
immagini bianche e nere e passa a esporre i fenomeni che si verificano con lo spostamento tramite la rifrazione di immagini grigie e colorate.
Più che un’ulteriore elaborazione, si tratta di un’estensione della teoria e perciò è sufficiente ricordare solo il gran numero di esperienze che
Goethe ci presenta, senza analizzarle in dettaglio. Di maggior interesse è invece ricordare che nella rifrazione, oltre alla proprietà fisica del
mezzo, è opportuno tener conto anche di una proprietà chimica, fatto che sarà sviluppato con maggiore ampiezza nella sezione terza della
Farbenlehre, dedicata appunto ai colori chimici.

In mezzi con uguale o quasi uguale capacità di rifrazione si mostra l’interessante circostanza per la quale un Più e un Meno della
manifestazione di colore possono venire prodotti mediante un trattamento chimico. Il Più viene provocato da acidi, il Meno da alcali. (TC,
‘290’)

Questo fenomeno è osservabile usando due tipi diversi di vetri, il vetro di Flint che dà la manifestazione di colore più energica e quello di Crown,
meno intensa (TC, ‘291’). Attraverso l’azione combinata con prismi di questi due tipi di vetri, Goethe dimostra il fenomeno dell’ipercromaticità,
che è l’eccedenza di colore mostrata dall’immagine spostata con vetro di Flint rispetto a quella spostata con vetro di Crown. (TC, ‘293-296’)

Alle altre tre specie di colori fisici, Goethe dedica la parte conclusiva della sezione. Come i colori diottrici si manifestano attraverso la
rifrazione, così i colori catottrici si formano con la riflessione. Essi sono i colori fisici più vicini  a quelli fisiologici e molto spesso si confondono
con gli aloni soggettivi. Anche i colori catottrici sono legati all’esistenza di immagini. Infatti, affinché il fenomeno si produca,

insieme al riflesso deve prendervi parte anche una qualche immagine, un alternarsi dello scuro e del chiaro. (TC, ‘372’)

Si corroda una lastra di argento levigato con dell’acqua forte, in modo tale che il rame che vi si trova venga sciolto, e che la superficie
divenga ruvida. Si faccia poi rispecchiare l’immagine del sole sulla lastra, ed essa verrà riflessa singolarmente da ogni punto brillante
infinitamente piccolo, mentre la superficie apparirà in colori variopinti. (TC, ‘373’)

Gli aloni oggettivi, causati dall’attenuazione che la luce subisce attraverso la riflessione, appartengono di pieno diritto a questa classe di colori.
Così ad esempio, gli aloni colorati che talvolta appaiono attorno alla luna sono dovuti al riverbero del disco che si riflette nei vapori o nelle
nuvole che lo circondano. (TC, ‘383-384’)

I colori parottici si formano “quando la luce sfiora con i suoi raggi un corpo non trasparente e incolore” (TC, ‘388’): essa, infatti, lambendo il contorno
dei corpi, causa delle ombre, al cui interno, coerentemente al principio generale che lega la manifestazione cromatica all’attenuazione della
luce, si possono osservare i colori (TC, ‘392’). Questi colori possono presentare affinità sia con i colori diottrici che con i colori catottrici: anche
nei primi, infatti, il colore si forma ai margini, dove avviene l’incontro di immagini e quindi la percezione del contrasto chiaroscurale (TC,
‘415’): e per i secondi è legittimo assimilare ai margini le graffiature, i tenui filamenti, ecc., attraverso i quali essi si manifestano. (TC, ‘416’)

I colori fisici, che attraverso i catottrici, i parottici e i diottrici si possono collegare senza soluzione di continuità a quelli fisiologici, si
qualificano, nella loro oggettività, come dotati di un’effimera stabilità, strettamente dipendente dalle condizioni del loro sorgere. Il vero e
proprio passaggio ai colori chimici, oggettivamente fissati ai corpi, è invece rappresentato dai colori epottici, la cui caratteristica è quella di
persistere anche al cessare delle condizioni che li hanno prodotti (TC, ‘429’). Goethe individua sette condizioni del loro sorgere.
1. Contatto di due superfici lisce di corpi trasparenti solidi.
2. Appannamento con il respiro di una superficie di vetro.
3. Connessione delle due condizioni precedenti: pressione di vetri appannati.
4. Bolle di sapone, birra, vino, cioccolata, ecc.
5. Pellicole sottili e lamelle di soluzioni minerali.
6. Arroventamento di metalli.
7. Corrosione della superficie di vetro. (TC, ‘431’)

Goethe dimostra come tutte queste condizioni siano in qualche modo legate alla torbidezza, cioè rientrino senza problemi nell’ambito della sua
teoria. Nella prima condizione, ad esempio, lo stretto contatto tra i due vetri, trasforma la trasparenza in torbidezza, al cui interno si
manifestano i colori (TC, ‘452’). Anche l’ossidarsi dell’acciaio, con le manifestazioni cromatiche a esso connesse, può essere spiegato con la
teoria dei mezzi torbidi. Infatti, si può considerare l’appannamento prodotto dal calore come una leggera torbidezza, alla cui variazione si
collega tutta la gamma dei colori che l’acciaio assume nel corso del processo, dal giallo all’azzurro chiaro. (TC, ‘485’)

I colori chimici

Con la sezione dedicata ai colori chimici Goethe affronta il tema del colore nella sua indipendenza dal soggetto. I colori chimici, infatti, hanno
come caratteristica principale quella di essere stabilmente fissati sui corpi e si contrappongono, quindi, per la loro durata, sia alla fugacità dei
colori fisiologici, sia alla transitorietà di quelli fisici. Ma qui è necessaria una chiarificazione: per Goethe, teoria dei colori significa esperienza
dei colori, cioè descrizione e risoluzione dell’essenza “colore” nelle sue apparizioni a un soggetto. I colori chimici, nella loro oggettività e
indipendenza dal soggetto, sembrano incrinare la coerenza della visione goethiana, sembrano prestarsi a una trattazione esclusivamente
obiettivistica, in cui si disperde il carattere vivo ed eventuale dell’esperienza. Già la lettura delle prime frasi della sezione dimostra però come
tutto ciò non avvenga. L’oggettività dei colori chimici, indiscutibile nella sua autonomia, è un’oggettività che si dà a un soggetto e che viene
assunta, in tal modo, come fenomeno. L’indipendenza di questi colori dal soggetto non li rende a esso indifferenti e irrelazionati.

Quasi tutta la sezione, sintomaticamente, più che ai colori in sé già dati agli oggetti, si rivolge alle tecniche fabbrili della trasmissione,
mescolanza, privazione e generazione del colore, dove l’interazione tra soggetto e oggetto si fa proficua.

Chiamiamo così (chimici) quei colori che provochiamo su certi corpi, che manteniamo per un tempo più o meno breve, che crescono su essi
di intensità, che a essi sottraiamo e che possiamo trasmettere ad altri corpi e ai quali, quindi, anche per questi motivi, attribuiamo una certa
proprietà immanente. (TC, ‘486’)

Nel campo dei colori chimici, l’opposizione tra luce e tenebra viene sostituita da quella tra acidi e alcali, caratterizzati rispettivamente da una
valenza polare di Più e Meno, intorno a cui si dispongono le due estremità cromatiche del giallo e dell’azzurro.

Il compito che Goethe fissa allo scienziato è qui quello di mostrare le modalità essenziali di determinazione e specificazione di questa
polarità: scopo dell’analisi sarà anche in questo caso la determinazione della Bildung, della conformazione dinamica di quest’ambito di
manifestazioni. (Renato Troncon, op. cit., in TC, 229)

Dopo aver trattato la derivazione del bianco, considerato come la totale e completa torbidezza (TC, ‘494’), e quella del nero, che in natura non si
presenta in maniera così originaria come il bianco (TC, ‘498’), Goethe affronta direttamente la generazione del colore constatando che “un
bianco che si scurisce, che si intorbida, diviene giallo; il nero che si schiarisce diviene invece azzurro” (TC, ‘502’). Ma, a questo ormai noto principio si
aggiunge quello per cui la produzione del colore avviene con maggior frequenza “sul versante del Più” piuttosto che su quello del Meno (TC,
‘514-515’), lasciando intuire come questa polarità, lungi dal risolversi in una naturale e indifferente opposizione, sia dinamicamente orientata
verso l’ascesa. L’introduzione di questo vettore ascendente all’interno della polarità Più e Meno, giallo e azzurro, permette di comprendere il
significato che Goethe attribuisce alla distinzione tra relazione dinamica e relazione atomistica.

L’atteggiamento atomistico prescinde dal fatto che ogni dato non è in realtà che momento di un intero e che si tratta, dunque, di un
momento di relativo arbitrio e astrazione. L’atteggiamento dinamico assume invece le qualità dei complessi come proprie di essi e non
come riducibili alle loro parti isolate. (Renato Troncon, op. cit., in TC, 229)

Nel verde, prodotto dalla mescolanza di giallo e azzurro, vi è neutralizzazione o pacificazione dell’opposizione, in quanto i due colori estremi
entrano tra loro in relazione atomistica, cioè come due astratte quantità che si elidono vicendevolmente, senza riguardo alcuno per il contesto
in cui sono inserite. La mescolanza di giallo e azzurro nel verde si opera con indifferenza rispetto all’azione che i due colori svolgono
all’interno dell’opposizione, alla “forza” che essi esplicano; solo la loro posizione di estremi contrari ha importanza, perciò il loro incontro è
solo quantitativamente determinato così come lo è la mescolanza del bianco e del nero nel grigio. Ben diverso è il caso del porpora, che nasce
dalla relazione dinamica del giallo e dell’azzurro, dalla loro intensificazione. Qui, anziché confondersi, i due elementi si mediano, si incontrano
ascendendo entrambi lungo il vettore della forza cromatica. È la relazione dinamica (porpora tra giallo e azzurro, colore tra bianco e nero) che
porta i valori di autenticità, poiché essa non mortifica le parti a elementi, l’intero vivente ad aggregato meccanico, come avviene invece con
l’unione atomistica (verde tra giallo e azzurro, grigio tra bianco e nero). Il versante del Più, dove i fenomeni cromatici si generano e si
intensificano con maggiore frequenza che in quello del Meno, viene così ad assumere una funzione emblematica: direzione privilegiata lungo
la quale si istituisce la relazione dinamica.

Quando Goethe affronta il problema della mescolanza reale dei colori è pienamente consapevole di operare in campo atomistico, dove il colore
si specifica come pigmento esattamente individuabile in qualche punto del cerchio cromatico (TC, ‘551’) e la mescolanza di tutte le tonalità
porta al grigio. A questo proposito rivolge la sua classica obiezione alla teoria newtoniana:

che tutti i colori mischiati producono il bianco è un’assurdità che, accanto ad altre assurdità, si è abituati a ripetere fiduciosi da un secolo, e
in contrasto con la testimonianza degli occhi. (TC, ‘558’)
I colori mescolati insieme trasferiscono la loro oscurità nel composto. Quanto più scuri essi sono, tanto più scuro risulta il grigio, che potrà
essere prossimo al nero. Quanto più chiari sono i colori, tanto più chiaro risulta il grigio, che infine si avvicinerà al bianco. (TC, ‘559’)

È un’obiezione che in questo caso non può essere assolutamente contestata, perché sorretta da una grande evidenza empirica: il riferimento è
infatti a quella che viene chiamata mescolanza sottrattiva, cioè a unione di pigmenti, il cui risultato è indubbiamente il grigio scuro. A causa del
suo carattere atomistico, la mescolanza reale può essere assimilata, secondo Goethe, alla mescolanza apparente, dove i colori rimangono
separati e la mescolanza si produce solo come effetto ottico. Come esempio, cita il caso di una polvere gialla e azzurra grattata insieme che
appare verde a occhio nudo, oppure quello di strisce gialle e azzurre che da lontano sono viste verdi (TC, ‘560’). Anche nella trasmissione
effettiva o in quella apparente (mediante riflessi) il colore porta con sé la sua proprietà oscura, mostrando così analogia con i fenomeni
cromatici fisiologici e chimici (TC, ‘573-575’).

L’attenzione sempre rivolta alla concretezza della realtà porta Goethe ad alcune interessanti notazioni tecniche, riguardanti la professione del
tintore: quest’ultimo, infatti, per il fatto che ogni colore per essere visto deve avere una luce in appoggio, avrà come impegno principale quello
di procurarsi dei sostrati bianchi e luminosi (TC, ‘583-585). Per questo e per altri usi, la privazione del colore come tecnica dello sbiancamento
ha grande importanza. Nella voce Colore (a cura di Manlio Brusatin) “Enciclopedia Einaudi”, vol. III, Torino, 1978, a proposito della tecnica
dello sbiancamento si osserva che con essa “si tende a eliminare lo sporco dei colori naturali e della lavorazione delle materie tessili prima di
somministrare il colorante“, p. 405. Per quanto riguarda il bianco, Goethe fa notare che esso ci è necessario e gradito per molti usi, spesso connessi
a motivi igienici (TC, ‘594’). Lo sbiancamento avviene tramite l’azione di alcuni mezzi, come l’aria, l’acqua, l’alcol, gli acidi e soprattutto la luce.
Quest’ultima, infatti, “s’impossessa del colore a essa affine, […] dissolvendo nella generalità ciò che in esso vi è di specifico e di determinato“. (TC, ‘596’)

Ogni essere vivente tende al colore, al particolare, alla specificazione, all’effetto, alla non trasparenza, fino agli ultimi dettagli. Ogni ente
privo di vita si muove verso il bianco, verso l’astrazione, verso la generalità, verso la trasfigurazione, verso la trasparenza. (TC, ‘586’)

Ma la privazione del colore non avviene, purtroppo, solo per volontà dell’uomo, in quanto esso può dissolversi anche per vie naturali, come
ben sa la pittura che “si trova nella condizione di vedere i più bei lavori dello spirito e della fatica distrutti in diversi modi nel corso del tempo“, (TC, ‘603’)
oppure la produzione di tappezzerie dove, il diseguale tempo di durata dei vari colori produce sgradevoli conseguenze alle superfici
variopinte. (TC, ‘604’)

Goethe si rivolge poi al problema della nomenclatura del colore, distinguendo le indicazioni di valore cromatico da quello di valore acromatico
e di insudiciamento. Le prime possono essere fissate in quattro espressioni primarie che si presentano all’immaginazione come qualcosa di
generale: giallo, azzurro, rosso e verde; attraverso l’inserimento di notazioni intermedie è possibile esprimere tutte le sfumature del cerchio dei
colori: giallo-rosso, rosso-giallo, azzurro-rosso, rosso-azzurro, verde-giallo, giallo-verde, verde-azzurro, azzurro-verde (TC, ‘610-611’). Ai valori
cromatici si possono poi aggiungere le indicazioni di chiaro e scuro, bianco e nero, e quello di insudiciamento, grigio e marrone.

La morfologia dei colori oggettivi, che Goethe delinea, affronta infine l’importante nesso che si stabilisce tra colore e grado di evoluzione di enti
naturali.

Il colore non è né per l’uomo qualcosa di muto e indifferente, né per la natura. Il primo trova in esso una quantità di significati, vi trova
l’espressione palese e segreta a un tempo di ciò che vi è di più universale ed essenziale, ma anche la seconda in esso si esprime e in esso si
rivela. Così una parte integrante delle considerazioni svolte è rappresentata dal tentativo di sviluppare una morfologia del colore non solo
nella sua generalità, […] ma anche in rapporto e come segno di processi naturali più profondi. (Renato Troncon, op. cit., in TC, 230)

Sul significato delle differenze di forme e colori negli esseri naturali v. Adolf Portmann, Le forme degli animali, Feltrinelli, Milano, 1960.

Tali differenze eccedono di gran lunga qualsiasi necessità di ordine funzionale. […] I tratti caratteristici della forma hanno un particolare
valore morfologico che non può essere compreso né con la funzione di conservare la vita, né con quella di manifestare i cambiamneti degli
intimi umori. Questo valore morfologico ci rende visibile la speciale natura di ogni organismo particolare. Le qualità proprie, presenti nella
struttura invisibile della sostanza vivente, e cioè del protoplasma, di una determinata specie fanno risentire il loro influsso in tutte le
reazioni del sangue e determinano anche il peculiare modo di comportarsi della specie stessa; queste qualità divengono evidenti,
esprimendosi nell’aspetto esterno. L’olandese Buytendijk, […] chiamò una volta questo significato del loro aspetto “valore esibito
dell’esistenza”. Io l’ho chiamato come il “valore della presentazione”. (Darstellungswert) Il porre l’accento sul ‘”valore della presentazione”
dovrebbe attrarre di nuovo il nostro sguardo verso la proprietà più significativa delle forme organiche, che è quella di rendere manifesta,
nel linguaggio dei sensi, la peculiare natura dei singoli esseri viventi e di portare, di detta natura, la testimonianza diretta nelle loro fogge
particolari. (p. 238-240)

Goethe osserva con attenzione tutti i regni naturali, da quello minerale a quelli vegetale e animale, trovando uno stretto legame tra grado di
organizzazione dell’ente ed elaborazione del colore, secondo il principio che “quanto più una creatura è nobile, tanto più ogni genere di materia è in
esso elaborata“. Dovendo la superficie di un essere evoluto mostrarsi in relazione con il suo interno, esso non potrà presentare colori elementari,
poiché se “tutto deve formare insieme un intero perfetto, non è possibile che qualcosa di specifico qua e là si separi” (TC, ‘666’). Ecco perché nei
mammiferi i colori elementari lasciano il posto ai colori composti, “smorzati mediante combustione organica“, fatto che si presenta nella sua
massima evidenza con l’uomo, la cui pelle presenta un colore altamente elaborato.

La sezione si chiude con alcune note riguardanti gli effetti chimici e fisici dell’illuminazione colorata, soprattutto per quanto concerne la
temperatura cromatica, per la quale vale l’osservazione che la luce bianca è la più calda e che la temperatura diminuisce passando dalla luce
gialla a quella azzurra, cioè dalla luce più chiara a quella più scura.

Con i colori chimici, Goethe esaurisce tutto il suo ampio discorso sulla natura materiale del colore, tema che occupa più della metà della parte
didattica della Farbenlehre a testimonianza del ruolo decisivo che a esso il poeta affida. Le tre sezioni sono costruite secondo un criterio
strettamente unitario e coerente che mette in evidenza come colori fisiologici, fisici e chimici siano tre aspetti di una stessa realtà.
L’importantissima sezione che Goethe dedicheràa all’azione sensibile e morale del colore va letta non come un’aggiunta esterna alla teoria,
come una riflessione che, secondo criteri extracromatici, conduce su un piano diverso, ma come uno sviluppo interno al discorso. Perciò, i
tentativi operati per fare del simbolismo cromatico goethiano una parte autonoma e staccata della sua teoria mostrano perlomeno superficialità
se non addirittura profonda incomprensione.

Unità interna e relazioni esterne della Farbenlehre

L’interno del cerchio dei colori

Anche se l’unità di fondo del fenomeno cromatico è emersa in tutta la sua evidenza con lo studio della natura materiale del colore, Goethe
sente, tuttavia, l’esigenza di affrontare in una sezione autonoma questo argomento fondamentale. Il cerchio dei colori rappresenta la struttura
unificatrice di tutta la teoria in quanto esso definisce i colori dai punti di vista:

1. analitico o atomistico, fissandone la disposizione topografica;


2. sintetico o dinamico, attivandone la polarità Più e Meno;
3. simbolico, evidenziando l’immanenza del contenuto immaginativo nella struttura cromatica stessa.

Il cerchio cromatico non è una costruzione aposterioristica dell’esperienza del colore, ma una sua descrizione analogica, grazie alla quale è
possibile rivelarne le leggi, che sono quelle dell’opposizione, del richiamo, dell’intensificazione e della totalità.

Come si è visto, il fenomeno cromatico è il risultato di un processo di specificazione o determinazione della luce e della tenebra che, in sé prese,
sono generiche e indeterminate. Nei colori fisiologici la mediazione avviene nell’occhio, in quelli fisici è operata dalla torbidezza del mezzo e
infine in quelli chimici il colore trasmette la sua proprietà oscura al corpo stesso. In tutti e tre i casi il colore introduce particolarità,
differenziazioni, immagini, emergenze, interazioni, caratterizzazioni, significati: insomma, un mondo reale e organizzato, rispetto al quale la
luce non delimitata “presenta sé e gli oggetti in una assoluta neutralità e ci rende consapevoli di un presente senza significato“. (TC, ‘695’)

Il cerchio esibisce il carattere determinativo e realizzante dei colori: il giallo e l’azzurro, nella loro opposizione reale, non sono mere
rappresentazioni del chiaro e dello scuro, ma loro manifestazioni determinate secondo una polarità al cui interno il verde e il porpora
introducono il movimento verso il basso e verso l’alto, mentre le strutture di richiamo tra colori complementari forniscono all’insieme
un’organizzazione compiuta. Nel cerchio cromatico, quindi, l’originaria e astratta opposizione tra chiaro e scuro si viene a determinare e a
concretizzare in una totalità di elementi compresenti che, nella loro disposizione, producono un’impressione di armonia.

Rapporti di prossimità

Goethe ha piena coscienza di aver toccato, con la Farbenlehre, un arco di problemi che va ben oltre quello specifico del colore o, meglio ancora,
sa benissimo che nessuna ricerca naturale può esaurirsi in se stessa, specializzarsi nella propria sfera di competenza, isolandosi da un contesto
più generale e comprensivo. L’aver cercato esplicitamente i rapporti di prossimità tra la sua teoria e altre discipline come la filosofia, la
matematica, la tecnica del tintore, la fisiologia, la fisica generale, la teoria del suono, fornisce un ulteriore motivo di differenziazione
dall’impostazione newtoniana, tutta tesa, quest’ultima a eliminare dal suo oggetto di studio ogni riferimento esterno, ogni intromissione di
istanze estranee.

Con il fenomeno originario il filosofo riceve dalle mani del fisico “un ultimo che con lui diventa primo” (TC, ‘720’), un punto di partenza per
un’indagine realmente immanente alla natura: ecco perché uno dei desideri del poeta è quello di “avvicinare al filosofo” la teoria dei colori (TC,
‘721’). Molto più critico, non negativo comunque è il rapporto della Farbenlehre con la matematica, disciplina nella quale Goethe dichiara la
propria incompetenza (TC, ‘723’). La matematica, da cui, secondo il poeta, lo studio della natura può prescindere, reca spesso grandi danni
come nel caso della teoria dei colori, i cui “progressi sono stati notevolmente ritardati dall’essere stata assimilata al resto dell’ottica, che non può fare a
meno della geometria” (TC, ‘725’). Goethe, perciò, si cura di tener ben distinta la Farbenlehre dalla matematica, anche se non ne rifiuta un rapporto
privo di pregiudizi (TC, ‘727’). Le opinioni del poeta sulla matematica non sono ostili, ma attente a definirne i limiti di applicazione nelle
scienze naturali, a evitare l’abuso della sua logica formale e riduttiva e delle sue formulazioni rigide e quantitative. Molto bene dice Heisenberg
quando afferma che

Ciò a cui Goethe rinuncia non è propriamente la matematica in sé, ma semplicemente il mestiere matematico. Se parliamo della matematica
nella sua forma più pura, come quella che si rivela nella teoria delle simmetrie e dei numeri interi, si riconosce facilmente che anche la
dottrina di Goethe contiene una non piccola parte di matematica. Nel capitolo sull’azione del colore sui sensi e sul costume si parla del loro
ordine simmetrico secondo rapporti polari. […] Questa trattazione delle relazioni fra i colori mediante il cerchio cromatico ci ricorda le
simmetrie matematiche che si trovano, per esempio, in un ornato artistico o che nella forma più semplice ci pone dinanzi agli occhi un
caleidoscopio. È possibile seguire in tutta l’opera semplici ordinamenti simmetrici di questo tipo. (Werner Heisenberg, op. cit., p. 87-88)

Se Goethe rifiuta il “mestiere irrealizzante” del matematico, ben diverso è il suo atteggiamento nei confronti della tecnica del tintore, per il cui
progresso è oramai necessario un preciso assetto teorico che la sappia sollevare oltre il piano della mera empiria. È evidente il versante concreto
in cui Goethe si muove, la sua intenzione di legare il colore a esigenze pratiche e “mondane”, ove il carattere esperienziale si mantiene attivo e
significativo senza essere impoverito da astratte procedure conoscitive obiettivanti. Perciò, oltre alla scienza pratica del tintore, Goethe prende
in considerazione anche quei campi che intervengono direttamente nei diversi aspetti della vita naturale, come la fisiologia e la patologia o, più
in generale, la storia naturale stessa.

Il colore – infatti -presentandosi all’occhio nella sua massima varietà sulla superficie di esseri viventi, si definisce come uno dei segni esterni
più importanti in virtù dei quali apprendiamo ciò che all’interno di essi ha luogo. (TC, ‘735’)

La mobilità del colore, se per un verso ci può rendere diffidenti per la sua indeterminazione, si propone, peraltro, come criterio del movimento
della vita (TC, ‘736’). Profonda è la convergenza della teoria dei colori con la fisica generale: con essa, infatti, condivide la legge universale
secondo la quale tutto ciò che si manifesta “deve rinviare a una scissione generale, capace di ricomposizione, o a un’unità originaria capace di scindersi”
(TC, ‘739’). Come nell’elettricità, nel magnetismo o nel galvanismo vi è opposizione tra vetro e ambra, nord e sud, più o meno, così in campo
cromatico opera una polarità originaria di luce e oscurità, dalla cui mediazione nasce il mondo visibile di luce, ombra e colore. (TC, ‘742-744’)

Goethe, infine, rivolge la sua attenzione ai rapporti tra colore e suono, due qualità che sono state molto spesso accomunate secondo criteri
analogici, come dimostra la condivisione di alcuni termini tecnici quali, ad esempio, timbro, scala, armonia, ecc. Gillo Dorfles sostiene un punto
di vista decisamente contrario all’istituzione di qualunque parallelismo normativo tra colori e suoni.

Altra cosa è discorrere di immagini cromatiche risvegliate in noi da un brano musicale, dalla lettura di un poema, o di immagini sonore che
vengono ad associarsi ad altre stimolazioni artistiche, e altra voler trovare delle rispondenze ‘”scientifiche” tra tali assolutamente larvali
appercezioni: è ormai dimostrata l’assoluta imprecisione e l’accidentalità delle sinestesie cromatiche cui alcuni poeti ebbero a riferirsi
(Rimbaud) e del pari di quelle cui accennarono alcuni musicisti. [E ancora] Impossibile dunque confrontare il “valore” pressoché assoluto
d’un blu, d’un verde e d’un violetto […] con i valori relativi di un mi, di un la, di un sol. E altrettanto impossibile confrontare la unica
“ottava” cromatica, con le molte “ottave” sonore. (Gillo Dorfles, Il divenire delle arti, Einaudi, Torino, 1959, p. 177-181)

Goethe si preoccupa di fissare un limite preciso alla contaminazione reciproca di questi due campi eterogenei.

Colore e suono sono come due fiumi che nascono da un’unica montagna, ma che scorrono in condizioni del tutto diverse, in due regioni che
nulla hanno di simile, cosicché nessun tratto dei due corsi può essere confrontato con l’altro. (TC, ‘748’)
La sezione si conclude con alcune considerazioni sull’uso del linguaggio nella descrizione dei fenomeni naturali. Ancora una volta, Goethe si
schiera contro qualunque visione unilaterale della realtà, contro ogni tentativo di fissarla nell’astrazione di una formula. Le formule
metafisiche, infatti, sono profonde ma vuote, quelle matematiche hanno in sé “qualcosa di rigido e inarticolato“, quelle meccaniche e corpuscolari
sono grezze e tramutano “ciò che è vivo in ciò che è morto“, quelle morali, infine, “appaiono come mere metafore“. (TC, ‘752’)

Se tuttavia si fosse capaci di impiegare consapevolmente questi modi di rappresentazione ed espressione, offrendo in un linguaggio
articolato le proprie considerazioni sui fenomeni naturali, evitando ogni unilateralità e formulando in un’espressione viva un significato
vivente, diverrebbe possibile mettere a parte di tanti aspetti interessanti. (TC, ‘753’)

Azione sensibile e morale del colore

La sesta e ultima sezione, dedicata all’azione etico-sensibile del colore, è senza alcun dubbio la più famosa di tutta l’opera. Essa, in effetti,
rappresenta il coronamento naturale della Farbenlehre, il momento in cui l’esperienza del colore si propone come globalmente significativa sotto
tutti gli aspetti, non solo materiali, ma anche estetici e simbolici. Anche l’azione che il colore esercita sui sensi e sull’animo è comprensibile
secondo quelle leggi generali di polarità e ascesa che regolano la manifestazione materiale del colore. Questa sezione, come le altre, può essere
perciò realmente compresa solo se organicamente inserita nell’opera intera. Nessun credito può essere allora concesso a quelle letture che,
ignorando o criticando aspramente tutto il resto della teoria dei colori, acclamano con particolare entusiasmo solo questa parte.

I colori si dispongono all’interno dell’opposizione tra luce e tenebre (Più e Meno). In questa polarità prende vita un movimento che può essere
di intensificazione degli estremi nel rosso o di loro atomistica riunione nel verde. Questa descrizione, che ha nel cerchio cromatico una
rappresentazione adeguata, definendo l’ambito dei colori (dal giallo all’azzurro) in relazione alla loro prossimità o lontananza dalla luce, si
basa su un criterio empiricamente accertabile.

Ma in che modo giudicare l’insieme di significati ulteriori di cui si carica l’opposizione originaria? Il fatto che  al Più del giallo si aggiungano le
determinazioni di azione, luce, chiaro, forza, caldo, vicinanza, respingere, affinità con gli acidi, e al Meno dell’azzurro quelle contrarie di
privazione, ombra, scuro, debolezza, freddo, lontananza, attrarre, affinità con gli alcali? (TC, ‘696’). Come giustificare l’indicazione evidente di
una direzione della valorizzazione immaginativa? Questo è il senso del problema che si pone Troncon quando afferma

Si potrebbe perfino osare di proporre il passaggio dei termini della colonna del Più a quella del Meno e viceversa, senza per questo
commettere, ‘”propriamente” un errore. Come dobbiamo interpretare questa possibilità? E come dobbiamo invece interpretare la
circostanza che essa, sostanzialmente, per Goethe non si dà? (Renato Troncon, op. cit., in TC, 232)

Per comprendere il reale significato che Goethe dà al concetto di esperienza è molto importante andare a fondo di questo discorso. L’esperienza
non è un rapporto con il mondo fatto di successive stratificazioni di senso, dove l’oggetto esterno e la natura altro non sono che inerti e neutri
supporti di significati arbitrari. Essa è invece un momento produttivo di valori, non solo percettivo-materiali, ma anche simbolici,
immaginativi, estetici ed etici. Quella compresenza di significati che Goethe coglie in qualunque fenomeno naturale rettamente inteso, quella
capacità che ha la natura di parlare all’uomo nella sua interezza sono aspetti che, nella prospettiva riduttivistica del meccanicismo, risultano
privi di valore.

Le qualità delle cose non appartengono a una sfera “soggettiva” (cioè arbitraria, secondo le scienze naturali) della realtà: le determinazioni con
le quali Goethe ha arricchito la polarità luce e tenebre scaturiscono dall’interno stesso dell’esperienza cromatica, sono cioè suoi aspetti
costitutivi. Un colore, manifestandosi, non solo esibisce la propria natura materiale, cioè le leggi che lo costituiscono come fenomeno naturale,
ma, contemporaneamente, esprime anche la propria natura simbolico-immaginativa. Il fatto che i valori qualitativi di un fenomeno non siano a
esso aggiunti come alcunché di estraneo, non appartengono cioè a una realtà altra, ma siano espressioni proprie del suo essere materiale e
concreto, assegna alla natura un ruolo ben diverso da quello puramente recettivo di significati e di forme che appartiene alla visione
meccanicistica. Tutto nella natura si propone come rilevante ed espressivo, anche il colore esibisce valori che gli sono immanenti, che non
ricava da altri contesti.

Secondo Goethe un effettivo uso simbolico del colore non è un uso extracromatico di esso. Quando dunque si lascia agire il colore “secondo
la sua natura’”, senza l’intervento di codici di interpretazione esterni a esso, si può cogliere il significato di un colore con altrettanta
immediatezza e certezza con la quale si stabilisce il suo grado di chiarezza rispetto a un altro colore. In conclusione Goethe esclude
possibilità di valorizzazione immaginativa e simbolica del colore che non partano direttamente dal fenomeno cromatico (Renato Troncon,
op. cit., in TC, 235).

V. quanto dice Giovanni Piana sul tema delle potenzialità espressive dei materiali percettivi, dove, a proposito della distinzione dei suoni in
gravi e acuti, sostiene una posizione di “oggettivismo fenomenologico”:

I dati percettivi non sono magmi informi nemmeno se li consideriamo dal punto di vista dell’immaginazione. Un contenuto qualunque non
può essere valorizzato in una direzione qualunque. All’apertura delle direzioni di valorizzazione deve essere imposto, per così dire, un
preciso limite inferiore. E di fronte a un atteggiamento che toglie ogni limite, tenderemo a ribadire il nostro ‘”oggettivismo
fenomenologico”: a mettere l’accento sul fatto che la stessa natura fenomenologica del suono pone il suono stesso come sfuggente sul piano
immaginativo proprio in quella direzione. […] La valorizzazione immaginativa sta alla radice della potenzialità espressiva dei materiali
percettivi così come della produzione di simboli. In entrambi i casi il contenuto viene colto secondo “protenzsioni” in un senso affatto
nuovo, che non rinvia a integrazioni che irrigidiscono la cosa nella determinatezza chiusa del suo essere, ma la aprono nelle direzioni
dell’immaginazione. […] È per noi importante insistere sul fatto che questa animazione immaginativa del dato, non venga intesa come una
sorta di proiezione estrinseca, ma scaturisca dal suo interno, come se in esso fosse nascosto un potenziale di immagini che debbano essere
attualizzate. (Giovanni Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, 1979, p. 155-160)

Goethe affronta l’impiego simbolico, allegorico e mistico del colore nella parte finale della sezione: l’uso simbolico si ha quando ci si serve del
colore secondo la sua azione e il vero nesso esprime subito il significato, quando cioè non intervengono meccanismi artificiali di traduzione
(TC, ‘916’); l’impiego allegorico, invece “contiene una quota maggiore di casualità e arbitrarietà“, tale che il nesso si presenta mediato e
convenzionale (TC, ‘917’); l’interpretazione mistica, infine, si fonda sul fatto che “lo schema nel quale è possibile rappresentare la molteplicità dei
colori ci rinvia a rapporti originari“. (TC, ‘918’)
Una discussione approfondita sul concetto di simbolo e allegoria in Goethe, importante per comprendere a fondo alcuni aspetti del suo
pensiero, metterebbe in campo una serie di problemi che ci porterebbero lontani dal nucleo della presente ricerca. Mi limito perciò a riportare
quel famoso passo delle Massime e riflessioni, dove Goethe stabilisce la differenza tra simbolo e allegoria:

È cosa molto diversa se il poeta cerca il particolare in funzione dell’universale, o se nel particolare scorge l’universale. Dalla prima maniera
risulta l’allegoria, dove il particolare non è che l’emblema, l’esempio dell’universale; ma la seconda è propriamente la natura della poesia:
essa esprime un particolare, senza pensare all’universale, o senza alludervi. Chi questo particolare lo coglie vivo, coglie in pari tempo
l’universale, senza avvedersene, o avvedendosene solo tardi. (Citato da Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1971, p.
168)

Per una prima introduzione al problema v. G. F. W. Hegel, Estetica, cit., la parte dedicata alla forma d’arte simbolica (p. 401-562), di cui sono
molto importanti le p. 401-416, dove si parla del simbolo in generale. Walter Benjamin, op. cit., v. il capitolo intitolato Allegoria e dramma barocco
(p. 166-257). Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, Fabbri, Milano, 1972, v. il paragrafo I limiti della Erlebniskunst. Riabilitazione dell’allegoria (p.
98-110). György Lukàcs, Estetica, 2 voll., Einaudi, Torino, 1970, v. il capitolo Allegoria e simbolo (p. 1473-1516).

Questa natura vivente, pregna di significati e di valori, può manifestarsi in tutta la sua verità perché l’uomo è a essa affine, ha cioè la
conformazione adeguata per coglierla. I sensi non sono inerti recettori ma attivi momenti di elaborazione della realtà, luogo in cui la natura si
fa trasparente all’uomo. Come dice Gillo Dorfles

l’uomo e ogni suo organo – per quel che riguarda la Farbenlehre, l’occhio dell’uomo – non è mai considerato alla stregua dell’apparecchio
fisico, dello strumento meccanico, ma sempre in relazione a una spiritualità della sua funzione (come ogni fenomeno della natura viene
studiato nel suo dato metamorfico e formativo e non staticamente meccanicistico). Attraverso l’occhio, l’uomo percepisce i colori; ma questi
colori hanno una loro funzione, oltre che sensoriale, anche morale (sinnliche e sittliche); investono tutta quanta la personalità umana e non
riducono l’organo di senso al rango sterile e puerile dell’ordigno meccanico – sorta di radar crudelmente incastrato nella nostra orbita. (Gillo
Dorfles, Goethe e la teoria dei colori, in ‘La Rassegna d’Italia’, 1949, n. 11-12, p. 1232. L’articolo di questa rivista è riportato con alcune
modifiche formali nella nota a) di  A proposito della Farbenlehre di Goethe, in Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Nistri-Lischi, Pisa, 1952, p.
221-225)

È il senso, quindi, che forma e conduce un fenomeno della natura ad appartenere “secondo il suo proprio significato” all’uomo. Il colore esercita
un’azione specifica, sia preso nelle sue singolarità che in combinazioni armoniche, caratteristiche e non caratteristiche ed è un’azione che si
riallaccia direttamente al momento morale (TC, ‘758’). La profondità di questa azione e l’inesprimibile piacere che ne deriva ha portato, osserva
Goethe, ad attribuire alle pietre preziose colorate particolari virtù terapeutiche (TC, ‘759’). Per l’applicazione del colore in campo di diagnosi e
terapia psicologica, v. Max Lüscher, Il test dei colori (a cura di Gianmario Balzarini), Astrolabio, Roma, 1976, e Waldo Bernasconi, Potenziale
terapeutico del colore, in ‘Pulsazione’, 1979, n. 4, p. 43-48. Sulle reazioni fisiologiche al colore, v. Rudolph Arnheim, Arte e percezione visiva,
Feltrinelli, Milano, 1971, p. 267-269.

Le osservazioni che Goethe fa sui vari colori e combinazioni cromatiche sono di una bellezza unica e affascinante per chiunque le avvicini.
L’unanimità dei consensi che hanno ottenuto dimostra il livello di universalità raggiunto dal poeta, la sua capacità di frequentare luoghi
dell’esperienza che appartengono al patrimonio naturale dell’umanità come tale.

Goethe parte dalla distinzione tra colori appartenenti al lato del Più che sono il giallo, il giallo-rosso (arancio) e il rosso-giallo (minio e cinabro)
e che danno luogo a stati d’animo attivi, vivaci, tendenti all’azione (TC, ‘764’) e colori appartenenti al lato del Meno, cioè l’azzurro, l’azzurro-
rosso, il rosso-azzurro, che dispongono a uno stato di inquietudine, di tenerezza e nostalgia (TC, ‘777’). Nella voce Colore, in “Enciclopedia
Einaudi”, cit., p. 390, si trova una distinzione tra colori nella tonalità del rosso, chiamati “ostensivi” o “conativi”, usati nella pratica della
colorazione cosmetica delle labbra e di altri parti del corpo, e colori nei toni blu scuro e verde, chiamati “obliteranti” o “emotivi”, usati per
occultare.

Il giallo, colore più prossimo alla luce, ha in sé la natura del chiaro e perciò possiede una qualità di serenità e di gaiezza. Un paesaggio
guardato attraverso un vetro giallo allieta l’occhio, allarga il cuore e rasserena l’animo. Ma il giallo è anche un colore molto delicato,
sensibilissimo all’impurità, che su di esso agisce invertendone le caratteristiche: un giallo sporco, condotto verso il lato del Meno, produce
un’impressione sgradevole, la dignità e il diletto si invertono in ripulsa, infamia e disagio. (TC, ‘765-771’)

Opposto al giallo è l’azzurro, “che conduce sempre con sé qualcosa di scuro“. Esso è un “nulla eccitante” e ci dà un senso di freddo che ci richiama
l’ombra. Un paesaggio guardato attraverso un vetro azzurro si presenta immerso in una luce triste. Mentre il giallo non tollera contaminazioni,
l’azzurro mescolato con qualche colore del lato del Più assume tonalità piacevoli, come ad esempio il verdemare. (TC, ‘778-785’)

Le tonalità intermedie del lato del Più tendono a intensificare le caratteristiche del giallo: il giallo-rosso cresce in energia e risulta gradevole
negli ambienti e addirittura magnifico nel vestiario (TC, ‘772-773’), il rosso-giallo può condurre le sensazioni di calore ed energia fino a una
violenza intollerabile. È il colore degli uomini energici, sani, rudi, oppure della libera e giocosa attività dell’infanzia. Per la sua forza risulta
sgradito alla prudente sensibilità di una persona colta (“Ho conosciuto – dice Goethe – persone colte alle quali riusciva insopportabile incontrare
qualcuno con una veste scarlatta in una giornata grigia“). (TC, ‘774-776’)

Come l’intensificazione dal lato del Più porta nel colore una maggiore energia e vivacità, quella del lato del Meno provoca un aumento
dell’inquietudine. L’azzurro-rosso dà maggiore efficacia all’azzurro, ma più che animare rende inquieti; in quella tonalità rarefatta conosciuta
con il nome di lilla, possiede una vivacità priva di letizia (TC, ‘786-789’). Con il rosso-azzurro l’inquietudine si fa ancora più forte e, se usato
come carta da parati, questo colore assume una presenza insopportabile. È il colore dell’alto clero che, mirando alla porpora cardinalizia, “si
appoggia agli irrequieti scalini di una continua tensione verso l’alto“. (TC, ‘790-791’)

Il rosso, che per la sua grande dignità Goethe chiama porpora, realizza, nell’unione dei poli, un appagamento ideale. Esso si presta a esprimere
sia la dignità e la gravità della vecchiaia, sia la grazia e l’amabilità della giovinezza. Un ambiente su questo tono assume sempre un carattere
solenne e sfarzoso. “Un paesaggio ben illuminato, attraverso un vetro color porpora, si mostra in una luce terribile“, come quella del giorno del
Giudizio (TC, ‘792-800’). Con il verde, il nostro occhio realizza un appagamento naturale; “occhio e animo si riposano su questo composto come se si
trattasse di qualcosa di semplice” (TC, ‘801-802’). Argan ha colto molto bene le caratteristiche di questo due colori centrali:

Con la sua perfetta medianità, dedotta dalla mescolanza perfettamente equilibrata delle due entità più lontane, il verde è una qualità
dedotta da due quantità. Perciò è il colore simbolo del naturale: non fosse una contraddizione, potrebbe dirsi che è la relatività assoluta. […]
Il rosso: il più spirituale dei colori, come il verde è il più naturale. Deriva da combinazioni più complesse (e per la verità alquanto
improbabili), quasi alchemiche, e teoricamente contiene tutti i colori, parte actu e parte potentia. (G. C. Argan, Introduzione a TC, XVI-XVII)
Se è vero che ogni colore svolge la sua azione specifica, è altrettanto vero che il caso di una percezione monocromatica rappresenta sempre
qualcosa di unilaterale, di forzato. Infatti, in accordo con quanto avevamo già osservato per i colori fisiologici:

Quando l’occhio percepisce il colore viene subito posto in attività, ed è conforme alla sua natura la produzione, tanto inconsapevole quanto
necessaria, di un altro colore che con quello dato racchiude la totalità del cerchio dei colori. Ogni colore singolo stimola nell’occhio,
mediante una sensazione specifica, l’aspirazione all’universalità. (TC, ‘805’)

Goethe stabilisce un primo tipo di combinazioni, chiamate armoniche, date dall’unione dei colori complementari: giallo e azzurro-rosso,
azzurro e giallo-rosso, porpora e verde. Se ci riferiamo al cerchio dei colori, è possibile ottenere queste combinazioni facendo ruotare in esso un
diametro: i due estremi indicheranno i colori che si richiamano a vicenda (TC, ‘809-810’). Per esprimere compiutamente il carattere di
semplicità e la sensazione di totalità che queste combinazioni forniscono, si presta molto bene il cerchio. A questo proposito, Goethe contesta
che l’arcobaleno possa presentare degnamente la totalità dei colori, poiché in esso manca il porpora. Per Klee, come si vedrà nel V capitolo,
l’arcobaleno costituisce invece il punto di partenza per lo studio dei colori, in quanto esso è un “fenomeno che sta al di sopra di tutte le cose colorate,
[…] pura astrazione cromatica“. Ma anche il pittore svizzero sente l’insufficienza dell’iride che, attraverso un atto creativo, deve essere
trasformata nel cerchio cromatico, che rappresenta la perfezione (TFF1, 465-470).

Oltre a quelle armoniche, Goethe stabilisce altri due tipi di combinazioni: caratteristiche e non caratteristiche. Come nota Arnheim:

A paragone dei gruppi complementari, le altre combinazioni di colori, benché spesso altrettanto armoniche e sufficientemente distinte,
presentano una unilateralità che sembra esigere un completamento. (Rudolph Arnheim, op. cit., p. 289)

Sono quelle composizioni che nel cerchio dei colori vengono individuate non più da diametri ma da corde (TC, ‘816’).

Mentre le combinazioni armoniche avvengono sempre tra un colore principale (giallo, azzurro, rosso) e il suo rispettivo complementare
(violetto, arancio, verde) che è sempre quel colore secondario risultato dalla mescolanza dei due rimanenti principali, le combinazioni
caratteristiche sono invece prodotto di due colori principali o di due colori intermedi. Esse quindi sono: giallo e azzurro, giallo e porpora,
azzurro e porpora, rosso-giallo e rosso-azzurro, verde e rosso-azzurro, verde e rosso-giallo (queste ultime due non considerate da Goethe).
Goethe chiama caratteristiche quelle combinazioni che nel loro insieme:

hanno qualcosa di notevole che si impone con una certa espressione, ma di cui non ci sentiamo appagati. Ogni elemento caratteristico nasce
solo come parte componente di un intero col quale ha una relazione, senza tuttavia dissolversi in esso. (TC, ‘817’)

Nella combinazione di giallo e azzurro, infatti, si nota un eccessivo impoverimento per la mancanza del porpora, anche se la prossimità al
verde può evocare la possibilità dell’appagamento reale (TC, ‘819’). Malgrado susciti un’impressione di gaiezza e splendore, giallo e porpora è
una combinazione che ha un accentuato carattere di unilateralità, in quanto l’unione dei due estremi del lato attivo che qui si realizza non
riesce a esprimere il continuo divenire (TC, ‘820’). Altrettanto inadeguate a esprimere la totalità, anche se non sgradevoli nel loro effetto, sono
le combinazioni di azzurro e porpora (i due estremi del lato passivo) e di rosso-giallo e rosso-azzurro (gli estremi intensificati dei due lati).

Quando uno dei colori principali si combina con uno dei due intermedi di cui è parte costitutiva, si hanno composizioni prive di carattere
(individuabili nel cerchio cromatico da corde brevi) che tuttavia conservano ancora “una certa legittimità indicando un progresso i cui nessi però
possono divenire appena percepibili” (TC, ‘827’). Queste combinazioni sono: rosso e rosso-azzurro, rosso e rosso-giallo, azzurro e rosso-azzurro,
azzurro e verde, giallo e verde, giallo e rosso-giallo.

Il discorso sulle composizioni si chiude considerando gli effetti della combinazione di un colore con il chiaro e lo scuro, dove si nota che:

Il lato attivo, composto col nero, guadagna in energia; quello passivo ne perde. Combinato col bianco e il chiaro, il lato attivo perde in
energia, quello passivo acquista in gaiezza. Porpora e verde con nero appaiono scuri e tetri, con bianco mostrano un carattere festoso. (TC,
‘831’)

A questo punto, prima di passare ad affrontare l’importante argomento dell’azione estetica del colore, Goethe si sofferma su alcune
considerazioni storiche osservando, tra l’altro, le correlazioni esistenti tra il grado di evoluzione culturale e la passione per i colori vivaci. Le
persone colte, ad esempio, mostrano una certa avversione al colore, in parte determinata da “un’incertezza del gusto che tende a mettersi al riparo
del nulla” (TC, ‘841’). Non solo fattori climatici, storici o psicologici influiscono sulla scelta dei colori, ma anche aspetti tecnici giocano un ruolo
importante, come dimostra la storia della tintoria: molto spesso, determinati colori si sono imposti su altri per il fatto di essere più adatti a un
certo tipo di stoffa (TC, ‘837’).

La parte dedicata all’azione estetica del colore tocca temi di straordinaria importanza per ciò che riguarda la pittura. Dopo aver affrontato il
problema del chiaroscuro, che Goethe considera un aspetto a se stante, autonomo dal colore (“L’artista risolverà prima l’enigma della
rappresentazione se comincerà a pensare il chiaroscuro indipendentemente dal colore“) (TC, ‘851’), il poeta si rivolge al colore vero e proprio, che rende
l’opera piacevole all’occhio, in quanto permette di superare la violenta astrazione del bianco e nero (TC, ‘862’). Oltre al colorito ambientale,
determinato nel suo tono dalla prospettiva aerea (TC, ‘872’) e a quello locale degli oggetti, si ha il colorito caratteristico e quello armonico. Il
primo può essere energico o blando a seconda che nell’opera prevalgano i colori del lato del Più o quelli del lato del Meno (TC, ‘880-884’), il
secondo si verifica quando tutti i colori prodotti l’uno accanto all’altro sono in equilibrio, dando vita così a un insieme caratterizzato da
qualcosa di generico (TC, ‘885-886’). Secondo Dorfles, nei concetti di colorito armonico e di variopinto sarebbe chiaramente individuata la
distinzione tra colore tonale e colore timbrico; con il termine bunt, variopinto:

Goethe voleva appunto indicare quella sorta di colore, intenso e schietto, che altrove ho individuato come timbrico e il cui uso, soprattutto
all’epoca in cui il poeta scriveva, era andato pressoché perduto, dato il prevalere nella pittura sette-ottocentesca d’una preoccupazione
spiccatamente tonale da parte degli artisti. (Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, cit., p. 223)

Nella stessa opera si definisce cromatismo tonale quello dove

le diverse componenti cromatiche di un dipinto sono fuse tra di loro in modo da ottenere quasi un accordo tra i diversi colori. […] I singoli
elementi cromatici vengono a perdere le loro caratteristiche individuali e acquistano una natura comune, volta a creare in un dipinto
l’atmosfera e dunque il tono. […] Con l’avvento dei fauves, e indi dei numerosi indirizzi astratti e concreti, che dovevano svincolare sempre
di più la pittura dalla rappresentatività, il colore, non solo riacquistò quel carattere araldico […], ma assunse persino un’assoluta
preminenza nel dipinto. (ibid, p. 105)
Il variopinto viene prodotto allorché si pongono i colori in maniera empirica “l’uno accanto all’altro nella pienezza della loro energia“, (TC, ‘896’)
quando cioè il colore spicca per la sua individualità senza considerazione per le esigenze di armonia dell’insieme. Lo studio sull’azione estetica
del colore si chiude con alcune note riguardanti il fondo e i pigmenti.

A questo punto, è importante discutere brevemente un problema sollevato da Troncon concernente la natura della libertà dell’artista nella
Teoria dei colori.

Autentico spunto critico può essere trovato nella circostanza che i principi di una teoria dell’impiego in funzione estetica del colore non
sono diversi da quelli di una teoria del colore semplicemente. I temi di quest’ultima sono immediato fondamento anche della prima. […] In
questo quadro la libertà dell’artista sembra di ordine più quantitativo che qualitativo. Vorremmo quasi osservare che al pittore viene tolta la
capacità di dare vita a un linguaggio cromatico che originariamente non è compreso nell’esperienza comune del colore. (Renato Troncon, op.
cit., in TC, 236)

Ritengo che questa critica non sia realmente fondata, in quanto fraintende il concetto goethiano di esperienza. È vero che per Goethe
l’esperienza è sempre un fatto unitario, che essa non si divide in settori e che, rettamente intesa, conduce sempre a penetrare nel profondo della
natura, a coglierne le leggi che ne fanno una totalità. Ma questa totalità conserva al particolare tutta la sua autonomia e concretezza: l’intero
non si fissa in una statica uniformità, dove il dato singolo viene totalmente assorbito e umiliato dalle ragioni del tutto. Questa libertà della
natura nelle sue manifestazioni particolari e concrete non significa però arbitrarietà, cioè sottrazione del dato da un orizzonte di senso che lo
qualifica come sintomo di una realtà più generale.

L’esperienza che l’uomo fa della natura deve essere unitaria non uniforme, deve permettere di cogliere la realtà nella sua interezza non ridurla
a un unico denominatore. Nel nostro caso, il colore si offre all’esperienza umana come un fatto omogeneo esprimentesi in una multiformità di
aspetti. La natura percettivo-materiale del colore, la sua azione sensibile, morale ed estetica sono momenti irriducibili l’uno all’altro, anche se
tutti trasparentemente significativi di quell’unitaria realtà concreta che è il colore in quanto tale.

L’artista, allora, è portatore, nell’uso del colore, di un’elaborazione originale, di un’esperienza che arricchisce l’ambito delle manifestazioni
cromatiche di un’efficacia tutta nuova, inspiegabile nei termini di una mera maggiorazione quantitativa dell’esperienza comune. Sia il rosso
che il verde portano in sé i valori del giallo e dell’azzurro, ambedue questi colori permettono di penetrare nella natura intima dei fenomeni
cromatici e di scoprirla rigorosamente unitaria, tuttavia, ciò non toglie che rosso e verde, pur nell’identità dei loro riferimenti, manifestino
valori non assimilabili. L’isomorfismo tra i diversi livelli di esperienza del colore e la loro contemporanea peculiarità ci dà la testimonianza del
carattere concreto dell’esperienza umana, del suo saper cogliere l’universale nel particolare.

L’opera si chiude con un’appassionata difesa del diritto di studiare la natura da dilettanti, di non rendere questo studio esclusivo dominio
degli specialisti: infatti, “tutte le nature dotate di una sensibilità felice, le donne, i bambini, sono capaci di comunicarci osservazioni vivaci e pertinenti“.
Perciò, nella teoria delle scienze si troverà che “molti risultati notevoli furono ottenuti da individui singoli, spesso da semplici profani“. (TC, ‘212’)

Tutta la Farbenlehre, esprime l’ideale di un uomo pienamente realizzato, non riducibile a un suo unico aspetto: scienziato, artista, tecnico sono
determinazioni che, in sé prese, non possono esaurire il concetto di uomo. Restituendo alla realtà tutte le sue qualità, Goethe ha
contemporaneamente restituito piena dignità all’uomo. Perciò la sua opera rappresenta una vetta dell’umanesimo, una radicale alternativa a
qualunque modello riduttivistico di uomo, dall’astratto e arido razionalista al mortificante e fanatico moralista.

Il cerchio dei colori

PUBBLICATO SU FILOSOFIA, TEMI, CONCETTI, PROBLEMI


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FISIOLOGICI NEWTON PITTURA PRISMA SIMBOLO TORBIDEZZA

Pubblicato da Giuliano Antonello

Alcune mie pubblicazioni - Prospettiva Deleuze. Filosofia, arte, politica, ombre corte, 2011 - Il problema dell’individuazione in “Differenza e
ripetizione”, "aut aut", 277-278/1997 - L'aver luogo dell'individuo, Chiasmi International, 7/2005 Molti dei materiali proposti sono testi di miei
seminari o corsi tenuti all'Università di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1986 al 2010 Mostra tutti gli articoli di Giuliano Antonello

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