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PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA

FACOLTÀ DI TEOLOGIA

_____________________________________________
Seminario di Teologia Morale TB3003M

ARDHANA Nicolaus Yudi (23967)

LA SFIDA DEL RELATIVISMO


esercitazione scritta

Professore: Leonardo Salutati

Roma 2021
1. CHE COSA È IL RELATIVISMO

Il mondo si è globalizzato, di conseguenza la pluralità è ormai inevitabile perché è


penetrata in tutti gli aspetti della vita. Questo fatto crea vari cambiamenti nel sistema di
relazione della nostra vita. Uno dei questi cambiamenti tocca anche il rapporto tra la fede e
la sua attualizzazione. Da questa situazione nasce uno dei problemi affrontati in
quest'epoca cioè il relativismo, che nasce dalla lotta tra la verità e la pluralità della realta.
La Chiesa cattolica, ha preso posizione contro il relativismo. Giovanni Paolo II, fin
dai primi anni ’90, aveva richiamato l’attenzione: «Dopo la caduta, in molti Paesi, delle
ideologie che legavano la politica a una concezione totalitaria del mondo si profila un
rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per
il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni
essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla
convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del
riconoscimento della verità»1. Dal canto suo, Benedetto XVI ha accenato anche più volte
su questo tema, quando era cardinale lui aveva definito il relativismo come il problema più
grande della nostra epoca2.
Il termine relativismo stesso divenne popolare nel XIX secolo, anche se in realtà ha
le sue radici nella storia dell'antica filosofia greca. La prima affermazione sul relativismo è
emersa dal filosofo sofista, Protagora (490-420 aC). Questo filosofo tra i sofisti era
presente con un concetto di scetticismo, il cui il loro punto di partenza è dubitare di tutto.
Loro credono che non ci sono verità assolute, solo verità soggettive, verità individuali, e
non verità oggettive. Giusto o sbaglio sono solo una questione di opinione. Se la verità è lì,
i relativisti ancora non credono che gli esseri umani possano arrivare a quella verità 3. Il
relativismo vede che la verità parte sempre da una particolarità. Cioè, la verità sempre
parte e dipende da una determinata condizione, storia, cultura, sfera sociale e ambito
antropologico. Quindi, il relativismo nega qualsiasi affermazione considerata come verità
oggettiva e universale4.
Nella storia di filosofia greca, Protagora ha voluto affermare che tutti i fenomeni che
appaiono all’uomo appariranno in un modo unico e diverso per ogni individuo. La sua
frase contiene diverse conseguenze logiche che ogni conoscenza è sempre una conoscenza

1
1 GIOVANNI PAOLO II, enciclica Veritatis splendor (1993), n. 101.
2
RATZINGER J., Fede, verità, tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, 78
3
H. Diels dalam Sejarah Filsafat Yunani (Yogyakarta: Kanisius, 1999), 87 dan 113.
4
Lih. Erwin Fahlbusch, Jan Milič Lochman, dkk., ed., The Encyclopedia of Christianity (Jerman: Brill and
Eerdmans, 1986), 563.

1
che proviene dall'osservazione sensoriale. Questa esperienza è formulata in una
conoscenza personale e soggettiva, dipende da ciò che ogni individuo comprende e dà un
senso ad essa.
Sembra che questo pensiero sia semplice, ma diventerà un problema serio quando si
tratterà di un ambito più ampio del problema. Se guardiamo indietro alle conseguenze
dell'affermazione di Protagora, forse alcune persone si renderanno conto che se il punto di
vista e la misura è il sé umano, allora tutto è giusto e non c'è conoscenza sbagliata perché
la situazione o la condizione di ogni persona è diversa dagli altri. Protagora in realtà voleva
dimostrare che l'uomo è l’unica misura e l’unico standard per tutte le cose. Ogni verità
dipende dall'uomo. In effetti, l'intera verità deve essere considerata relativa ad ogni
individuo interessato.
Ogni conoscenza, secondo il relativismo, fa sempre riferimento e rimanda al soggetto
che la coglie, a un determinato oggetto, elemento o fatto, o a una determinata situazione o
circostanza. Pertanto, ogni conoscenza ha la sua logica di verità a seconda di chi viene
riferito. Possiamo riassumere che nel relativismo non c'è una conoscenza sbagliata, perché
ogni conoscenza ha il suo dominio e il suo riferimento, dipende dal soggetto, non c'è
conoscenza oggettivamente corretta. Se non esiste una conoscenza oggettivamente corretta,
non è necessario un processo formale dell'educazione, perché tutto è semplicemente vero5.
Per le scienze umane, il ragionamento è molto simile. Il relativista ritiene che
esistono solo tante culture, tutte di uguale dignità, alcune delle quali assai diverse da quella
occidentale, così come esistono tanti individui alcuni dei quali seguono valori differenti dai
nostri nella loro vita quotidiana6. In quest'ottica nessuno è migliore di nessun altro, nessuno
realmente svantaggiato, nessuno mai realmente diminuito nelle proprie caratteristiche di
persona. Dunque l'idea è questa: abitualmente ci vediamo diversi solo perché abbiamo
punti di vista diversi.
Nel suo sviluppo successivo, i suoi orizzonti venivano allargati specialmente nel
campo della morale. Sebbene la sua tesi fosse ancora semplice, loro sostenevano che la
moralità non era fissa e persistente, ma cambiava in base a determinate istituzioni e
situazioni sociali. Questa comprensione ha aperto la strada al movimento relativistico
morale, affermando che i giudizi morali sono sempre basati su eventi, abitudini e pensieri
che si sviluppano in una particolare cultura7.

5
Giovanni Jervis. “Contro il relavitismo.” Apple Books. Hal.64
6
Giovanni Jervis. “Contro il relavitismo.” Apple Books. Hal.79
7
Lih. Jean Yves Lacoste, ed., Encyclopedia of Christian Theology (New York: Routledge, 2005), 1355.

2
Nell’era romantica in cui i filosofi sostengono che i valori morali sono culturalmente
inerenti e poiché ogni cultura è un'entità indipendente. Questi valori culturali sono relativi
a ciascuna società e la ricerca di valori morali universali è uno sforzo che è difficile da
capire logicamente8. In questo contesto, il relativismo nasce in seguito al fallimento storico
delle grandi ideologie del XIX e XX secolo, come reazione al mancato adempimento di
tante promesse che avevano fatto sognare intere generazioni9.
Quindi, si può dire che il relativismo sia lo sbocco a cui ha condotto la concezione
illuministica della vita. Non si nega che l’illuminismo abbia generato la democrazia e abbia
affermato e difeso la libertà e i diritti umani; nello stesso tempo, però, si deve riconoscere
che il progetto illuministico di un’etica fondata sulla sola ragione, universalmente accettata
da tutti, è clamorosamente fallito10. «Perciò il clima di incertezza che caratterizza l’inizio
del terzo millenio conferma che la ragione, la scienza, la tecnica, la crescita economica, da
sole però non bastano a liberare l’uomo; non sono sufficienti a renderlo libero»11.

2. I LIMITI E LE CONTRADDIZIONI DEL RELATIVISMO

8
Lih. Bhikhu Parekh, Rethinking Multiculuralism (Yogyakarta: Kanisius, 2008), 174, 175.
9
Bartolomeo Sorge 233.
10
GIOVANNI PAOLO II, enciclica Veritatis splendor (1993), n. 101.
11
Sorge 235.

3
L’uomo moderno che aveva creduto di potercela fare da solo, oggi è deluso e
disorientato, in preda a un relativismo paralizzante per cui una verità vale l’altra, dove tutte
le opinioni sono uguali, tutti i comportamenti sono legittimi. Si mette in questione, dunque,
il concetto stesso di persona. L’uomo tecnologico vive ormai in stato di ebbrezza: è
riuscito a carpire perfino il segreto della vita, fino a riprodurla in laboratorio; perché mai
dovrebbe credere che la persona umana è creata a immagine e somiglianza di Dio, quando
la clonazione rende possibile di crearla a immagine e somiglianza di un altro uomo? Chi
potrà mai stabilire a priori che cosa è bene o che cosa è male? La bontà e la malvagità – si
sostiene – si potranno giudicare solo dalle conseguenze del comportamento libero
dell’uomo. Quindi tutti i comportamenti, in principio, si equivalgono, sono leciti. Così il
relativismo è «il problema più grande della nostra epoca» e della stessa democrazia12.
Quando i relativisti affermano che nulla è assoluto, loro intrinsecamente affermano
qualcosa di assoluto cioè il valore della relatività. L'affermazione che tutto è relativo
diventa un'affermazione che conferma assolutamente una certa comprensione senza voler
accetare altre definizioni. In altre parole, il relativismo veniva reso come una verità
assoluta dai relativisti. Questo è una contraddizione in termini che un difetto nel
relativismo stesso. Se devono essere fedeli all'affermazione che tutto è relativo, i relativisti
devono essere coerenti nel dire che anche il relativismo è relativo.
Dal suo emergere nella filosofia greca, Platone e Socrate hanno espresso una critica
al pensiero del relativismo di Protagora. Secondo Platone, infatti, i relativisti si sbagliano
nel negare se stessi. Platone ha spiegato in Thaetetus 161c-162a, se Protagora ha sostenuto
che nulla è sbagliato e tutto è vero, allora l'opinione di coloro che rifiutano e affermano che
il relativismo è sbagliato come Socrate e Platone deve essere accettata da Protagora come
una verità13. Questo relativismo fu criticato da Platone e Socrate perché negava la bella
natura della verità stessa. Se si presume che qualsiasi conoscenza in qualsiasi metodo sia
sempre corretta, come dichiarato da Protagora, l'uomo non è mai interessato alla verità
della conoscenza stessa. Così, il relativismo stesso si identifica con il soggettivismo. Cioè,
la conoscenza relativa è la conoscenza che dipende o ha un riferimento in base
all'argomento soggetivo.
Il nucleo del relativismo sta nel concetto individualistico-radicale di libertà. Infatti,
secondo la tradizione illuministica, la libertà va intesa come possibilità di scegliere e di
fare ciò che si vuole: l’unico limite è il rispetto della libertà altrui, e l’unico principio di
12
Sorge 236.
Bdk. Chris Swoyer, “Relativism” artikel dalam http://plato.stanford.edu/entries/relativism/. Diakses pada 3
13

November 2014 pukul 22.20.

4
autorità e verità è la volontà della maggioranza. Libertà quindi, è sinonimo di tolleranza e
di permissivismo. Le diverse opinioni politiche, culturali, morali e religiose sono da
considerare tutte ugualmente legittime. Lo Stato non può sceglierne una e obbligare tutti i
cittadini a seguirla, ma a ciascun cittadino va lasciata piena libertà di ispirarsi all’opinione
che più gli aggrada. Solo il rispetto di questo relativismo culturale ed etico – si sostiene –
eviterà di cadere nell’intolleranza e nell’autoritarismo. Pertanto, al di fuori del diritto altrui
e della volontà della maggioranza, non esistono una presunta verità e una norma etica
trascendenti, che possano impedire la libera autodeterminazione dell’individuo.
Infatti, il relativismo che nega ogni assoluto si presenta poi come una sorta di dogma,
che va accettato senza possibilità di essere messo in discussione: il suo vero limite è di
essere «un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione,
e in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo
superato e che può essere adeguatamente relativizzato» . Ora, non si nega che
l’illuminismo abbia condotto ad acquisizioni importanti: la democrazia, la libertà di
coscienza, l’uguaglianza dei diritti. Tuttavia, come dimostra la storia, una libertà senza
limiti e senza alcuna norma morale porta alla autodistruzione della stessa libertà.
I valori non dipendono dalla volontà libera degli uomini, né da maggioranze
provvisorie e mutevoli; non li crea, né li decide lo Stato. Essi vengono prima della libera
organizzazione della società; sono inscritti nella coscienza di ogni uomo e, in quanto tali,
sono punto di riferimento normativo per la stessa legge civile. Compito dello Stato è
tutelarli e coordinarli in vista del bene comune, ponendoli a fondamento dell’ordinamento
democratico. Perciò, Giovanni Paolo II, dopo aver bollato come dannosa e pericolosa
l’«alleanza tra democrazia e relativismo etico», ribadisce: «Se non esiste nessuna verità
ultima, la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono
esser facilmente strumentalizzate per fini di potere.
Dunque mentre da un lato è giusto riconoscere i «meriti» dell’illuminismo, in
particolare per aver generato la democrazia, d’altro lato, però, occorre ribadire che il fine
della democrazia è l’uomo con la sua dignità e con le sue libertà personali e sociali. Il
sistema democratico è solo uno strumento e, come tale, riceve la sua moralità dal fine cui
serve. Una democrazia, priva della sua anima etica, può trasformarsi paradossalmente in
strumento di oppressione, in totalitarismo più o meno mascherato.
Una seconda fonte di contraddizioni interne al relativismo è la sua ambigua
concezione di legalità e del rapporto tra individuo e società. La legalità non può consistere
essenzialmente nella mera osservanza formale delle regole in senso individualistico-

5
libertario, ma è intrinsecamente sociale. La legalità comincia certo da noi stessi, dalla
nostra vita privata, ma ha sempre una ricaduta sociale nel bene e nel male.
Infatti la società è una comunità di persone in relazione tra loro, non è un gregge di
individui anonimi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali pensa solo a se stesso: non c’è
libertà personale senza responsabilità sociale. Il bene comune non è la somma dei beni
individuali, ma è il bene di tutti e di ciascuno. Il Concilio Vaticano II lo ha ribadito con
chiarezza: «Dall’indole sociale dell’uomo appare evidente come il perfezionamento della
persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti,
principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana,
come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità. Poiché la vita sociale
non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla
sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli» 14.
In conclusione, il relativismo non solo riduce il concetto di persona a mero individuo, ma è
riduttivo pure della idea di bene comune e conseguentemente anche del concetto di politica
e riduce la fede cristiana a mero spiritualismo o sentimento privato. Il problema, perciò, è
di passare dall’individualismo a un neo-personalismo solidale.

3. LA RISPOSTA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA AL RELATIVISMO

Joseph Ratzinger, negli scritti degli anni del concilio e in quelli postconciliari, si
occupa dei temi strettamente teologico-dogmatici e intraecclesiali. E anche se in qualche
titolo vi trovassimo l’indicazione ad un tema che potesse essere legato a quello del
14
CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 25.

6
relativismo (dove successivamente tratterà temi come mondo, storia, sistemi politici, e così
via), tale cenno indica sempre un trattamento teologico differente da quelli successivi in
cui collocherà quello del relativismo15. Benedetto XVI anche ha contribuito a rimettere in
luce la razionalità originaria della religione del logos, e ha contribuito a liberare il
cristianesimo da condizionamenti storici e politici che avevano finito col trasformarlo in
religione di Stato16 .
Bisognerà dunque proseguire nella riscoperta del rapporto tra fede e ragione, tra
morale e ragione, che in passato era stato sottovalutato, collocando erroneamente la fede
religiosa al di là (o al di sotto) della conoscenza scientifica, l’unica ritenuta valida. Paolo
VI lo aveva rilevato – molti anni fa – con una espressione, rimasta famosa: «La rottura tra
Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca»17 . Giovanni Paolo II
approfondisce il discorso, a partire dalle conseguenze devastanti che quel «dramma» ha
prodotto. In passato – egli dice – la «rottura» si traduceva prevalentemente nel contrasto
aperto tra la fede e le grandi correnti del pensiero moderno, le quali rivendicavano
l’autonomia della ragione nei confronti di qualsiasi autorità dottrinale trascendente. Oggi,
però, quella frattura si è allargata smisuratamente e l’orgoglio di ieri si è tramutato in
inquietudine. La ragione che prima dubitava di Dio, ora è giunta a dubitare di se stessa.
Pertanto – aggiunge –, «è illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole,
abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito
o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non
è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere» 18 . Ecco perché la
Chiesa è profondamente convinta «che fede e ragione si recano un aiuto scambievole,
esercitando l’una per l’altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a
progredire nella ricerca e nell’approfondimento»19.
La sfida, dunque, è il dialogo interculturale quale luogo privilegiato dell’incontro tra
la ragione e la fede, tra credenti e non credenti. Ciò è tanto più importante oggi che

15
Cf. J. RATZINGER, Problemi e risultati del Concilio Vaticano II, (Queriniana, Brescia 1967); J. RATZINGER,
“Salvezza e storia”, in Storia e dogma, (Jaca Book, Milano 1971) 93-110 [orig.: J. RATZINGER, Heil und
Geschichte, in Wort und Wahrheit 25 (1970), 3-14]; J. RATZINGER, C. PAUWELS, Y. CONGAR, E. SCHWEITZER,
A. WINKLHOFER, La chiesa ai nostri giorni, (Edizioni Paoline, Roma 1968) 7-26 [orig. in tedesco 1965]; J.
RATZINGER, “Democratizzazione della Chiesa?”, in J. RATZINGER - H. MAIER, Democrazia nella Chiesa.
Possibilità, limiti, pericoli, (Edizioni Paoline 1971) 5-56 [orig. in tedesco 1970]; J. RATZINGER, Fede e futuro,
(Queriniana, Brescia 2005) [orig. in tedesco 1970]; J. RATZINGER, Il senso dell’esistenza cristiana, (Edizioni
Paoline, Francavilla 1966).
16
Cfr RATZINGER J., L’Europa nella crisi delle culture, cit
17
PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 20
18
GIOVANNI PAOLO, Fides et ratio, n. 48.
19
Ivi, n. 100.

7
problemi gravissimi – come quelli cosiddetti «eticamente sensibili», insieme a quelli della
pace, della salvaguardia del creato, della convivenza multietnica e multiculturale – esigono
l’incontro e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro
razza, la loro cultura, la loro religione. La risposta alla sfida è «passare dall’individuo alla
persona», proporre cioè un personalismo integrale e solidale che consenta di «andare oltre»
le vecchie residue contrapposizioni ideologiche, per fare unità nella diversità, mantenendo
ciascuno le proprie radici e la propria storia, ma superandosi in una visione superiore
comune.
La condanna del relativismo come degenerazione della cultura moderna non significa
affatto il rifiuto dell’illuminismo e della modernità. La Chiesa non nega gli apporti positivi
del pensiero moderno; esso ha avuto soprattutto il merito di concentrare la attenzione
sull’uomo, con il risultato di favorire lo sviluppo di vari ambiti del sapere: l’antropologia,
la logica, le scienze della natura, la storia, il linguaggio...; la Chiesa – come spiega
Giovanni Paolo II – denuncia il fatto che «la ragione, sotto il peso di tanto sapere, si è
curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso
l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere»20.
Di conseguenza, l’uomo contemporaneo è divenuto preda dello scetticismo:
l’accettazione del legittimo pluralismo si è trasformata nella falsa concezione che tutte le
posizioni si equivalgono, che tutto si riduce a mera opinione; perciò, l’uomo oggi «si
accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul
senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale» 21. Il risultato più
grave di questa frammentazione esistenziale è la drammatica e generalizzata «crisi di
senso»: «I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono
talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all’affermarsi del fenomeno della
frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un
senso. Anzi [...] non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul
senso»22. E l’uomo è disorientato. Cade nel nichilismo.
Ciononostante, non mancano significativi punti di convergenza tra cristianesimo e
modernità, a cominciare dal discorso sui valori fondamentali di libertà, uguaglianza e
universalità dei diritti umani. La religione cristiana è stata sempre gelosa della libertà, e si
è rifiutata di lasciarsi assorbire dall’ordinamento statale pagano, anche a costo del martirio;
la fedeltà al messaggio universale di salvezza l’ha portata a rivolgersi indiscriminatamente
20
GIOVANNI PAOLO II, enciclica Fides et ratio (1998), n. 5.
21
Ivi.
22
Ivi, n. 81.

8
a ogni popolo, di ogni lingua, razza e nazione, considerando gli uomini tutti fratelli e
uguali tra di loro nella dignità e nei diritti fondamentali. Sono i medesimi valori portati
avanti dall’illuminismo. Non è quindi esagerato affermare che l’illuminismo è di origine
cristiana, e non è un caso che esso si sia affermato nello stesso ambito culturale e
geografico in cui maggiormente era espansa la fede cristiana. Anzi – come ama ripetere
Benedetto XVI – ha contribuito a rimettere in luce la razionalità originaria della religione
del logos, e ha contribuito a liberare il cristianesimo da condizionamenti storici e politici
che avevano finito col trasformarlo in religione di Stato23.
Bisognerà dunque proseguire nella riscoperta del rapporto tra fede e ragione, tra
morale e ragione, che in passato era stato sottovalutato, collocando erroneamente la fede
religiosa al di là (o al di sotto) della conoscenza scientifica, l’unica ritenuta valida. Paolo
VI lo aveva rilevato – molti anni fa – con una espressione, rimasta famosa: «La rottura tra
Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca» 24. Giovanni Paolo II
approfondisce il discorso, a partire dalle conseguenze devastanti che quel «dramma» ha
prodotto. In passato – egli dice – la «rottura» si traduceva prevalentemente nel contrasto
aperto tra la fede e le grandi correnti del pensiero moderno, le quali rivendicavano
l’autonomia della ragione nei confronti di qualsiasi autorità dottrinale trascendente. Oggi,
però, quella frattura si è allargata smisuratamente e l’orgoglio di ieri si è tramutato in
inquietudine. La ragione che prima dubitava di Dio, ora è giunta a dubitare di se stessa.
Ecco perché la Chiesa è profondamente convinta «che fede e ragione si recano un
aiuto scambievole, esercitando l’una per l’altra una funzione sia di vaglio critico e
purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell’approfondimento» 25. La sfida,
dunque, è il dialogo interculturale quale luogo privilegiato dell’incontro tra la ragione e la
fede, tra credenti e non credenti. Ciò è tanto più importante oggi che problemi gravissimi –
come quelli cosiddetti «eticamente sensibili», insieme a quelli della pace, della
salvaguardia del creato, della convivenza multietnica e multiculturale – esigono l’incontro
e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro razza, la loro
cultura, la loro religione. La risposta alla sfida è passare dall’individuo alla persona,
proponendo un personalismo solidale che consenta di «andare oltre» le contrapposizioni,
per fare unità nella diversità, mantenendo ciascuno le proprie radici e la propria storia, ma
superandosi in una visione superiore comune.

23
Cfr RATZINGER J., L’Europa nella crisi delle culture, cit
24
PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 20
25
Ivi, n. 100.

9
4. CONCLUSIONE

È necessario che la Chiesa prenda coscienza di questa nuova situazione e riconosca


le sfide che le si presentano. Non sarebbe proficuo né avviare una polemica infuocata
contro una società superficiale del benessere, concentrata solo sul suo piacere, né assumere
un atteggiamento relativista o fondamentalista. Occorre piuttosto un'analisi approfondita e
differenziata delle molteplici cause e forme della situazione attuale.

10
Le rapide trasformazioni sociali e il grande spaziare delle conoscenze, che diventano
sempre più vaste e confuse, così che molti si sentono disorientati ed arrivano a considerare
ogni pretesa assoluta come arbitraria. Fra le cause contingenti, molti contemporanei
vedono anche la concreta forma storica della Chiesa e le sue debolezze. Anche per
l'indifferentismo e relativismo valgono anche ciò che il Concilio Vaticano Il ha detto
sull'ateismo: “considerato nella sua interezza non è qualcosa di originario, bensì deriva da
cause diverse, e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni e, in
alcune regioni, proprio e anzitutto contro la religione cristiana” (GS 19). La non credenza,
l'indifferenza, e il relativismo religioso sollecitano dunque da parte della Chiesa una presa
di coscienza ed un atteggiamento autocritico.
La Chiesa dovrà reagire di fronte alla situazione attuale. L'autocritica che dovrà
esercitare la Chiesa non significa affatto rassegnazione, non significa perdita della fiducia
in sé, cambiamento dell'immagine che ella ha dell'uomo, il quale è e rimane per sua natura
creatura che cerca Dio e la sua verità rivelata, né significa sfiducia nel proprio messaggio
evangelico o nella propria natura di testimone, segno e strumento della verità di Dio e
dell'uomo. Le due verità trovano infatti il loro compimento in Gesù Cristo, che come vero
Dio e vero uomo, è l'ultima rivelazione, è la verità su Dio e sull'uomo, cosi che “solamente
nel mistero di Cristo trova vera luce il mistero dell'uomo” (GS 22). Pertanto, nel mondo di
oggi, l'annuncio del vangelo e la testimonianza della fede non possono essere
semplicemente imposti, ma devono essere interpretati affinché possano illuminare
l'esperienza umana; soprattutto il mistero del dolore e della morte, che al di fuori del
vangelo ci opprime, riceve luce da Cristo e in Cristo.
Occorre dunque che la Chiesa rimanga Chiesa e non si conformi superficialmente
alla situazione attuale, cedendo al relativismo e al pluralismo religioso e rinunciando al
carattere unico ed assoluto del suo messaggio oppure appiattendosi al livello di un'agenzia
sociale ed umanitaria. Anzi, il motto dev'essere: “adattamento nella contraddizione” (D.
Bonhoeffer). Precisamente in una situazione in cui tutto diventa indifferente e anonimo e,
dunque, grigio e noioso, la Chiesa si fa interessante e, ponendosi come alternativa, sollecita
attenzione e domande; essa diventa credibile come testimone, cioè come martire, tramite la
sua esistenza, come una rappresentazione ed un'anticipazione dell'Assoluto, nella
situazione relativista postmoderna può diventare un mezzo preferenziale per l'annuncio del
vangelo.
74. La dottrina sociale trova il suo fondamento essenziale nella Rivelazione biblica e
nella Tradizione della Chiesa. A questa sorgente, che viene dall'alto, essa attinge

11
l'ispirazione e la luce per comprendere, giudicare e orientare l'esperienza umana e la storia.
Prima e al di sopra di tutto sta il progetto di Dio sul creato e, in particolare, sulla vita e sul
destino dell'uomo chiamato alla comunione trinitaria.
La fede, che accoglie la parola divina e la mette in pratica, interagisce efficacemente
con la ragione. L'intelligenza della fede, in particolare della fede orientata alla prassi, è
strutturata dalla ragione e si avvale di tutti i contributi che questa le offre. Anche la dottrina
sociale, in quanto sapere applicato alla contingenza e alla storicità della prassi, coniuga
insieme « fides et ratio » ed è espressione eloquente del loro fecondo rapporto.
75 La fede e la ragione costituiscono le due vie conoscitive della dottrina sociale,
essendo due le fonti alle quali essa attinge: la Rivelazione e la natura umana. Il conoscere
della fede comprende e dirige il vissuto dell'uomo nella luce del mistero storico-salvifico,
del rivelarsi e donarsi di Dio in Cristo per noi uomini. Questa intelligenza della fede
include la ragione, mediante la quale essa, per quanto possibile, spiega e comprende la
verità rivelata e la integra con la verità della natura umana, attinta al progetto divino
espresso dalla creazione, ossia la verità integrale della persona in quanto essere spirituale e
corporeo, in relazione con Dio, con gli altri esseri umani e con le altre creature.
La centratura sul mistero di Cristo, pertanto, non indebolisce o esclude il ruolo della
ragione e perciò non priva la dottrina sociale di plausibilità razionale e, quindi, della sua
destinazione universale. Poiché il mistero di Cristo illumina il mistero dell'uomo, la
ragione dà pienezza di senso alla comprensione della dignità umana e delle esigenze morali
che la tutelano. La dottrina sociale è un conoscere illuminato dalla fede, che — proprio
perché tale — esprime una maggiore capacità di conoscenza. Essa dà ragione a tutti delle
verità che afferma e dei doveri che comporta: può trovare accoglienza e condivisione da
parte di tutti.
In conclusione, il dialogo interculturale può diventare il luogo privilegiato
dell’incontro tra la religione e la fede, tra credenti e non credenti. Infatti, pur guidati
dall’intelligenza ulteriore che la fede aiuta ad avere della storia, è possibile svillupare una
riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per chi non affera ancora la verità piena
che la Rivelazione divina manifesta a noi26. Il motivo è che ogni uomo è inserito in una
cultura, e ogni cultura porta impressa in sé e lascia trasparire la tensione verso un
compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la possibilità di accogliere la
rivelazione divina27. Per questo, di fronte alla sfida del relativismo c’è bisogno soprattutto

26
Fides et Ratio,n.104
27
Ibid. n.71

12
di cristiani adulti e maturi. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso
Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia
illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelleto possa
parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto
attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini28.

28
Ratzinger, L’europa nella crisi delle culture.

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