L’artista prima era considerato un artigiano che imparava le tecniche del maestro.
Ora è un intellettuale, perché oltre a imparare una tecnica, studia l’anatomia, le
scienze, la matematica, la geometria.
La luce assume un ruolo di grande importanza perché l’artista vuole dare una
rappresentazione fedele della realtà. Utilizza quindi precisi effetti di chiaroscuro:
in tal modo, i volumi sono percepiti in tutta la loro consistenza.
FILIPPO BRUNELLESCHI
Sempre Vasari ci racconta che tra i partecipanti furono “Filippo e Donato, Lorenzo
Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da Colle, Francesco di Valdambrina e
Niccolò d’Arezzo”. Ognuno di loro si cimenta con la storia del sacrificio di Isacco e
subito appare chiaro che la gara è tutta tra Brunelleschi, il giovane, la rivelazione e
Ghiberti, lo scultore già affermato, solido rappresentante della tradizione tardo
gotica.
I consoli faticano non poco a designare il vincitore. Alla fine la scelta ricade sul
Ghiberti, artista d’esperienza, garante della buona riuscita dell’impresa. A
Brunelleschi viene offerto di collaborare con il più maturo maestro Lorenzo ma
egli rifiuta “avendo animo di volere essere più tosto primo in una sola arte, che
pari o secondo in quell’opera”. Già è evidente l’ambizione del giovane che si è
messo in evidenza per la sua perizia tecnica e la sua innovativa energia espressiva
ma che non vuole dividere la gloria con nessuno. Com’è noto Ghiberti realizzerà la
splendida seconda porta bronzea del Battistero mentre Filippo lascerà Firenze per
andare a Roma con l’amico Donatello dove trascorrerà un periodo fecondo di studi
e di totale immersione nell’antichità, dove condurrà la sua appassionata ricerca
filologica sui principi dell’architettura antica, dove scoprirà e riscoprirà le ragioni
matematiche e geometriche della prospettiva, dove in altre parole maturerà
pienamente il concetto di “Rinascita”, propulsore della grande stagione del
Quattrocento fiorentino.
Tornato a casa Filippo si dedica per qualche anno alla scultura affrontando anche
la lavorazione della pietra, l’intaglio del legno e le grandi dimensioni. Ne è un
superbo esempio il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella, realizzato intorno al
1410, in cui traduce nel sacro i principi proporzionali dell’uomo vitruviano; Ma dal
1417 tutta la sua attenzione è catalizzata sul quel vuoto che la sua città ancora non
è riuscito a colmare. L’Opera del Duomo lancia un concorso di idee, diciassette gli
architetti chiamati a trovare una soluzione. La sfida non è soltanto quella di
progettare una cupola immensa ma di trovare le soluzioni tecniche adeguate e
soprattutto di contenere la spesa, il costo delle armature e delle centine rischia
infatti di superare quello delle murature. Era stato lo stesso Brunelleschi a
suggerire di consultare architetti toscani, francesi e tedeschi ma al solo scopo di
rendere ancora più grande la sua impresa, di dare risalto alla sua genialità. Egli
propone una soluzione innovativa: una doppia calotta autoportante costituita cioè
da due cupole, l’una dentro l’altra con un camminamento tra le due e un cantiere
fisso con ponteggi istallati all’altezza del tamburo anziché innalzati dal suolo.
Accorgimenti che consentivano un notevole risparmio sul materiale e rendevano
sicura la permanenza degli operai a quaranta metri d’altezza. L’opera gli darà
affidata nel 1420. Lo affianca Ghiberti ma a tutti è chiaro che solo a lui si devono il
progetto e l’esecuzione della più grande opera architettonica mai condotta dai
tempi dell’impero romano. I lavori proseguono per oltre vent’anni e alla morte di
Brunelleschi, nel 1446, alla cupola manca ancora la lanterna per la quale il
maestro lascia però un modello e precise indicazioni esecutive.
L’idea è ripresa negli anni quaranta nella Cappella de’ Pazzi, in cui l’elemento
dello spazio cubico sormontato da una cupola è ripreso anche nel piccolo elegante
portico antistante.
Nel curriculum di Brunelleschi non mancano gli edifici civili, il più celebre dei
quali assume un vero e proprio valore urbanistico, determinando l’assetto di
un’intera piazza e dando forma tangibile all’idea antica e moderna di bello e utile.
LO SPEDALE DEGLI INNOCENTI: DESCRIZIONE E
SIGNIFICATO
MASACCIO
Non sappiamo molto della biografia di questo pittore del ‘400: senza dubbio la sua
fu una carriera fulminea, nella quale egli si fece promotore di nuovi modelli
artistici prontamente saldi all’ epoca quattrocentesca nella quale egli operò. Per
riuscire ad affermarsi in una Firenze ancora perdutamente innamorata del Gotico
Internazionale, Masaccio dovette mettersi in società con con un pittore a lui più
anziano, quale Masolino, e di lì a poco questa collaborazione diede vita a
Sant’Anna Metterza, tipologia iconografica dove veniva raffigurata la Madonna col
Bambino e sant’Anna “messa a fare da terza” o “medesima terza”, cioè dove si
evidenziava il rango della santa come terza in ordine di importanza.
SANT’ANNA METTERZA
Tre angeli reggicortina stendono un drappo preziosamente damascato dietro al
gruppo sacro, che crea uno sfondo piatto, più moderno del completo sfondo oro, e
che crea un piano intermedio, che ha il potere di proiettare verso lo spettatore le
figure, facendole risaltare. In basso si trovano poi due angeli spargi-incenso: le
figure angeliche seguono ancora proporzioni di tipo gerarchico, essendo molto
più piccole delle figure sacre. Il gruppo sacro si trova su un trono, che si può
immaginare composto da due gradoni, con in basso una pedana dove si trova
un’iscrizione dedicatoria alla Vergine. L’iconografia prevedeva che fosse risaltata
maggiormente la figura di sant’Anna, madre di Maria e nonna di Cristo, la quale
deve tenere tra le gambe la Madonna col Bambino, in un gesto protettivo e
confidenziale. La plasticità delle figure della Madonna e del Bambino sono un
vero spartiacque tra l’esperienza gotica anteriore e i futuri sviluppi del
Rinascimento, dove Masaccio riesce per la prima volta a creare delle figure
modellate da un forte chiaroscuro che emergono dal dipinto come se fossero dei
rilievi scolpiti, quali solidi blocchi posizionati in uno spazio preciso. Il chiaroscuro
ne squadra i volumi e blocca, pietrificandoli, gli energici gesti. Si veda ad esempio
la robusta corporatura del bambino, ispirato a un Ercole bambino ancora presente
agli Uffizi (con l’interpolazione di un’espressione vivace ispirata alla quotidianità
tipica delle opere di Donatello) o l’ovale tridimensionale del volto della Madonna,
la cui fisionomia si svincola dalla tradizionale aristocraticità del gotico per creare
una ritratto di madre più viva, presa dalla quotidianità e con un modellato che
riflette la conoscenza della reale struttura ossea.
LA CAPPELLA BRANCACCI
Una questione molto dibattuta è quella degli aiuti che i due pittori offrirono
reciprocamente in scene destinate all’altro. Alcuni studiosi tendono ad escluderle,
altri, basandosi su confronti stilistici, le sottolineano. Per esempio si attribuiva in
genere a Masaccio lo schema prospettico della Guarigione dello storpio e
resurrezione di Tabita, identico a quello del Tributo, ma forse venne elaborato da
entrambi. A Masaccio sono attribuite le montagne realistiche nella Predica di San
Pietro, come mai ne dipinse in lavori successivi, mentre a Masolino è stata
attribuita la testa del Cristo nel Pagamento del Tributo, dolcemente sfumata come
quella dell’Adamo masolinesco nella Tentazione di Adamo ed Eva. L’opera rimase
incompiuta, anche per l’esilio di Felice Brancacci nel 1436, a causa del suo
schierarsi nel partito avversario a Cosimo de’ Medici. Solo con la riammissione
della famiglia Brancacci a Firenze, nel 1480, la decorazione della cappella poté
essere portata a termine incaricando Filippino Lippi, che oltre che essere un
artista di spicco era adatto all’incarico anche perché figlio di Fra Filippo, uno dei
primissimi allievi di Masaccio. Filippino cercò di temperare il suo stile, adeguando
la sua tavolozza alla cromia degli affreschi più antichi e mantenendo la solenne
impostazione delle figure, per non rompere l’omogeneità dell’insieme.
Nonostante ciò il suo stile appare oggi facilmente riconoscibile, poiché
improntato a un chiaroscuro più maturo e dotato della linea di contorno che è
tipica dello stile intellettualistico del Rinascimento all’epoca di Lorenzo il
Magnifico e che è opposto alla pittura “di getto” fatta di veloci stesure di colore e
luce di Masaccio. Masolino è di solito inquadrato come continuatore della pittura
tardogotica, o tutt’al più come figura di transizione, mentre Masaccio applica più
rigorosamente le nuove idee che furono alla base della rivoluzione rinascimentale:
definizione spaziale precisa, individuazione psicologica degli individui raffigurati
e riduzione all’osso degli elementi decorativi. Tutto questo è evidente nella
Cacciata dal Paradiso terrestre, dove operarono sia Masaccio che Masolino.
Masolino infatti propone un Adamo ed Eva fortemente ancorati alla
bidimensionalità generali della raffigurazione, che sembrano quasi galleggiare in
uno sfondo neutro, dal quale emerge un albero con il serpente dalla testa umana,
in Masaccio invece c’è una quanto mai più evidente tridimensionalità delle figure,
che si coglie dalle ombre, e dalli quali si percepisce un evidente stato angoscioso,
turbato del proprio animo, che invece è inesistenza nella posa composta, assente
dell’Adamo ed Eva del Masolino.
IL TRIBUTO
LA CROCIFISSIONE DI CAPODIMONTE
LA TRINITÀ
Al suo interno Cristo è sulla croce. Dio Padre, al di sopra, sostiene il corpo. Tra di
loro si libera lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca. In basso, a sinistra
Maria indica il Figlio crocifisso. A destra invece San Giovanni guarda Gesù con
un’espressione sofferente. In basso all’esterno del vano, di fronte alle paraste sono
raffigurati i due committenti. Sono inginocchiati ed in preghiera a sinistra il
marito e a destra la moglie interamente coperta da un velo blu. Alla base
dell’affresco sopra lo scheletro dipinto, deposto sul finto sarcofago, compare una
scritta. L’iscrizione latina invita l’osservatore a meditare sull’ineluttabilità della
morte e si definisce un “memento mori” (ricordati che devi morire). La scritta
recita: IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE
La narrazione parte dal basso, dallo scheletro appoggiato sul sarcofago. Questo
scheletro che rappresenta la morte dalla quale ci si può salvare elevandosi verso
Dio Padre. Infatti è attraverso la preghiera simboleggiata dai committenti che si
ottiene la fede necessaria per conquistare la vita eterna. Maria indica con la mano
il Figlio cioè colui che ha tracciato la via da seguire. Attraverso l’esempio di Cristo
e lo Spirito Santo si giunge così a Dio padre che concede la salvezza.
DONATELLO
nasce a Firenze nel 1386, si forma nella bottega del Ghiberti e nell’ambito dei
cantieri del Duomo, e probabilmente è qui che conosce e diventa amico di Filippo
Brunelleschi. Donatello insieme a Brunelleschi compie il suo primo viaggio a
Roma: qui ammira da vicino le opere scultoree della tradizione classica. L’attività
artistica principale di Donatello si svolge a Firenze ma lavora anche a Pisa e a
Prato, in cui esprime la sua arte attraverso il Pulpito del Duomo, e lavora alla
decorazione del Battistero e del Duomo di Siena.
IL DAVID
SAN GIORGIO
Nel proporre questa bellezza scontrosa come modello per un eroe, Donatello
affermò una delle sue più profonde convinzioni: la grandezza degli antichi si
ritrovava nel popolo che per coraggio dignità e sentimento concreto della vita era
degno di interpretare i valori di quello straordinario passato, l’artista trasformava
così i popolani in santi ed eroi perché nella gente comune identificava le virtus
degli antichi.
BANCHETTO DI ERODE
IL DAVID IN BRONZO
IL CROCIFISSO
Secondo un aneddoto raccontato da Giorgio Vasari nelle sue Vite, pubblicate nella
loro seconda edizione nel 1568, Donatello chiese a Filippo Brunelleschi (1377-
1446), che era suo grande amico di esprimere un suo parere in merito a
quest’opera, «parendogli aver fatto una cosa rarissima»; e questi, ruvido e schietto
come suo solito, gli rispose che quel Cristo gli sembrava un contadino. Donatello
ovviamente si offese e commentò che è molto più facile criticare che fare. Sicché
Filippo scolpì a sua volta un crocifisso, identificato dal Vasari nel Crocifisso di
Santa Maria Novella, e lo mostrò a Donatello, il quale umilmente affermò: «a te è
conceduto fare i Cristi, et a me i contadini».
LA PITTURA FIAMMINGA
LA LUCE
Lo spazio dei fiamminghi è molto diverso anche dallo spazio degli italiani,
improntato alla prospettiva lineare centrica. Gli italiani usavano infatti un unico
punto di fuga posto al centro dell’orizzonte, dove tutto è perfettamente strutturato
ordinatamente, con rapporti precisi tra le figure e un’unica fonte di luce che
definisce le ombre. Secondo questa impostazione lo spettatore resta tagliato fuori
dalla scena e ne ha una visione completa e chiara.
Per i fiamminghi invece lo spettatore è incluso illusoriamente nello spazio della
rappresentazione, tramite alcuni accorgimenti quali l’uso di più punti di fuga (tre,
quattro) o di una linea dell’orizzonte alta, che fa sembrare l’ambiente “avvolgente”
o in procinto di rovesciarsi su chi guarda. Lo spazio è quindi tutt’altro che chiuso e
finito, anzi spesso si aprono finestre che fanno intravedere un paesaggio lontano,
o, come nel celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, possono essere
addirittura presenti specchi che raddoppiano l’ambiente, mostrando le spalle dei
protagonisti.
La luce dei fiamminghi inoltre non è selettiva, cioè illumina con la stessa
attenzione l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e facendo da medium
per unificare tutta la rappresentazione. Vengono sfruttate più fonti luminose, che
moltiplicano le ombre e i riflessi, permettendo di definire acutamente le diverse
superfici: dal panno alla pelliccia, dal legno al metallo, ciascun materiale mostra
una reazione specifica ai raggi luminosi (il “lustro”).
L’UOMO
l’uomo non può essere il centro del mondo, come teorizzavano gli umanisti, anzi è
solo una parte del ricchissimo Universo, dove non tutto è riconducibile al
principio ordinatore della razionalità. Se da una parte i gesti e le azioni dell’uomo
non hanno quella forza culturale di fare “storia”, dall’altra i singoli oggetti
acquistano importanza nella raffigurazione, ottenendo una forte valenza
simbolica che può essere letta su vari strati
LO STUDIOLO
Lo Studiolo di Federico da Montefeltro è uno degli ambienti più celebri del
Palazzo Ducale di Urbino, poiché oltre che essere un capolavoro di per sé, è l’unico
ambiente interno del palazzo ad essere rimasto pressoché integro, permettendo di
ammirare il gusto fastoso della corte urbinate di Federico. Venne realizzato tra il
1473 e il 1476, da artisti fiamminghi appositamente chiamati a corte dal Duca. Con
loro operarono vari artisti italiani, tra cui forse anche il celebre Melozzo da Forlì.
Lo studiolo si trova al piano nobile del palazzo ed era lo studio privato del Duca. Il
soffitto è a cassettoni dorati con le imprese ducali. I colori smaglianti e i continui
rimandi tra architettura reale e fantastica dovevano creare nello spettatore un
effetto di grande meraviglia.
Le pareti sono coperte da tarsie lignee tuttora in situ, che creano effetti
illusionistici di continuazione dell’architettura.
Le tarsie sono attribuite a vari autori, come Giuliano da Maiano e, per i disegni,
Botticelli, Francesco di Giorgio Martini e il giovane Donato Bramante. Spiccano
però le tarsie attribuite a Baccio Pontelli[1] e caratterizzate dalle complesse
costruzioni prospettiche di oggetti geometrici, che creano un continuo scambio
tra realtà e finzione, dilatando lo spazio della stanza altrimenti minuscola.
Gli oggetti ritratti negli armadi alludono ai simboli dell’Arti, ma anche alle Virtù
(la mazza della Fortezza, la spada della Giustizia, ecc.), come se l’esercizio delle
prime aprisse la strada alle seconde. Spesso le finte architetture delle tarsie
attenuano le irregolarità della stanza.
ARCHITETTURA PALAZZO
Il palazzo in sé è un eccezionale esempio di architettura gotico-rinascimentale
veneziana, costruito nelle forme attuali a partire dal Trecento su edifici e strutture
militari medievali preesistenti. Benché un Palazzo Ducale (che in effetti fu
sempre, oltre che residenza ufficiale dei Dogi, anche sede del governo e tribunale
della Repubblica) già esistesse probabilmente nel nono secolo, l’edificio che
vediamo oggi prese forma principalmente nel tardo Medioevo e nel Rinascimento.
Il complesso palatino è formato da tre corpi principali. L’ala più antica, che
accoglie anche l’imponente Sala del Maggior Consiglio, è quella affacciata su
Canal Grande, costruita a partire dal 1340. Il corpo che si apre su Piazza San Marco
venne realizzata nel 1424. L’ala che ospita gli appartamenti del Doge venne invece
edificata tra il 1483 ed il 1565, in questo lasso di tempo fu anche completamente
rinnovato il grande cortile monumentale.
IL DITTICO
IL RITRATTO DI BATTISTA
IL RITRATTO DI MONTEFELTRO
I trionfi (carri allegorici) erano un tema caro agli umanisti, perché rievocavano il
mondo dell’Antica Roma ed erano carichi di suggestioni letterarie derivate
dall’opera del Petrarca.
Federico è ritratto sul carro trionfale trainato da due cavalli bianchi, mentre una
Vittoria alata lo incorona d’alloro. Nella parte anteriore del carro siedono le
quattro Virtù cardinali: Giustizia (frontale, con spada e bilancia), Prudenza (di
profilo, con lo specchio), Fortezza (con la colonna spezzata) e Temperanza (di
spalle). Un amorino poi guida i cavalli, anche se è chiaro come l’ordine pervenga
da Federico stesso, che, vestito dell’armatura, impugna il bastone del comando,
evidenziato dal prolungamento della linea orizzontale tramite una strada nello
sfondo. L’iscrizione in lettere capitali romane esalta le virtù del sovrano: "CLARVS
INSIGNI VEHITVR TRIVMPHO QVEM PAREM SVMMIS DVCIBVS PERHENNIS
FAMA VIRTVTVM CELEBRAT DECENTER SCEPTRA TENENTEM (È portato in
insigne trionfo quell’illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra
degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri).
Il trionfo di Battista esalta invece le virtù coniugali: essa è colta durante la lettura,
con le tre Virtù teologali della Carità (vestita di nero con in grembo il pellicano,
simbolo di sacrificio materno che dona le proprie stesse carni per la sopravvivenza
dei figli), la Fede (vestita di rosso col calice e l’ostia), la Speranza (di spalle) e una
quarta virtù, la Temperanza (frontale). Un amorino guida due liocorni, simbolo di
castità. L’iscrizione recita: “QVE MODVM REBVS TENVIT SECVNDIS CONIVGIS
MAGNI DECORATA RERVM LAVDE GESTARVM VOLITAT PER ORA CVNCTA
VIRORVM” (Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola
su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito).
La scena mostra una Madonna stante col Bambino tra due angeli, all’interno di
un’abitazione. Il taglio del dipinto è insolito e mostra i protagonisti come mezze
figure, tagliate dal margine inferiore del dipinto. Il Bambino, in atto di benedire,
tiene in mano una rosa bianca, simbolo della purezza della Vergine, mentre al
collo ha una collana di perle rosse con un corallo, un simbolo arcaico di
protezione degli infanti, che nel caso delle scene sacre acquistava anche un valore
di premonizione della Passione per via del colore rosso-sangue.
Gli angeli, dalle tenui vesti di colore grigio e rosa salmone, sono fedelmente ripresi
dalla Pala di Brera, tanto che alcuni ipotizzano l’intervento di allievi che
copiarono le fisionomie dell’opera precedente.
Sullo sfondo si vede a destra un armadio a muro con mensole inquadrato da una
cornice scolpita con una candelabra, come ne esistevano nel Palazzo Ducale di
Urbino (sebbene non ne ritragga nessuna in particolare), mentre a sinistra si apre,
alla maniera fiamminga, un altro ambiente da dove proviene un doppio raggio di
sole tramite una finestra aperta, rifrangendosi sulla parete ombrosa non prima di
aver illuminato il pulviscolo atmosferico lungo la traiettoria. La luce disegna poi
riflessi sui rilievi della decorazione della nicchia, sulle piccole nature morte del
cestello con il panno di lino e della scatola cilindrica d’avorio nell’armadio, e poi
nei capelli, nelle vesti e nei gioielli dei quattro protagonisti. Marchi scrisse: “come
in nessun’altra opera di Piero la luce vi svolge un ruolo fondante”[3]. La luce, che
attraversa il vetro a rondelle senza romperlo, è anche una metafora del mistero
dell’Incarnazione[4], che attraversa il corpo di Maria, nella concezione e nel parto,
senza violarlo.
LA PALA MONTEFELTRO
La pala di Brera è esemplare delle ricerche prospettiche compiute dagli artisti del
centro Italia nel secondo Quattrocento. Si tratta di un’opera monumentale, con un
trattamento magnifico della luce, astratta e immobile, e un repertorio
iconografico di straordinaria ricchezza. Innanzitutto sono inconsuete sia le
dimensioni sia l’assenza di scomparti laterali, come nei tradizionali polittici,
risultando la prima Sacra Conversazione sviluppata prevalentemente in verticale:
numerose tavole da altare, in tutta l’Italia centrosettentrionale, vi si ispirano.
Il Bambino porta al collo un ciondolo di corallo che cela rimandi al rosso del
sangue, simbolo di vita e di morte, ma anche della funzione salvifica legata alla
resurrezione di Cristo. La stessa posizione addormentata era una prefigurazione
della futura morte sulla croce.
Federico è esposto più all’esterno, fuori dall’insieme degli angeli e dei santi, come
prescriveva il canone gerarchico dell’iconografia cristiana rinascimentale.
San Giovanni Battista, barbuto, con la pelle scura e il bastone, la cui presenza è
giustificata dalla Chiesa in suo onore nella città di Gubbio dove è morta Battista
Sforza, moglie di Federico; San Bernardino da Siena, in secondo piano, la cui
presenza è giustificata dal fatto che Bernardino conobbe Federico, ne divenne
amico e forse confessore; inoltre spiega la collocazione nel convento che porta il
suo nome; San Girolamo, a sinistra rispetto alla Madonna, con la veste lacera
dell’eremita e il sasso per percuotersi il petto; egli, in quanto studioso e traduttore
della Bibbia, era considerato il protettore degli umanisti; San Francesco d’Assisi,
che mostra le stimmate la cui presenza viene messa in relazione con una possibile
destinazione originaria per la chiesa francescana di San Donato degli Osservanti,
che peraltro ospitò per un periodo la stessa tomba del Duca Federico; San Pietro
martire, con il taglio sulla testa; San Giovanni Evangelista, con il libro e il mantello
tipicamente rosato. Gli abiti, molto ricercati, le pietre degli angeli e l’armatura
sono dipinti con minuziosi particolari, secondo un gusto tipicamente fiammingo.
Federico da Montefeltro è vestito dell’armatura, con la spada e un ricco mantello a
pieghe, mentre in terra si trovano l’elmo, descritto fin nei più ricercati riflessi
metallici della luce e dell’elsa della spada, il bastone del comando e le parti
dell’armatura che coprono mani e polsi, per permettergli di giungere le mani in
preghiera. Le sue mani hanno trattamento minuzioso e tondeggiante che è
estraneo alla pittura “di luce” di Piero: vengono attribuite allo spagnolo di
formazione fiamminga Pedro Berruguete, artista di corte di Federico dal 1474 al
1482. Il profilo mostrato è, come di consueto quello sinistro, poiché quello destro
era mutilato dalla perdita di un occhio durante un torneo.
La sua figura inoltre non solo è di proporzioni uguali alle divinità, come aveva già
rivoluzionato Masaccio, ma è anche coinvolta inequivocabilmente nello spazio
della sacra conversazione, suscitando anche nell’osservatore, per emulazione, la
sensazione di trovarsi nello spazio della chiesa. Molti dei santi mostrano le ferite
del loro martirio, e anche il duca, nell’elmo ammaccato, ricorda la sofferenza
terrena.
Nei gioielli indossati dagli angeli o nella croce tenuta da san Francesco nella mano
destra il pittore poté dare un saggio di virtuosismo nel rendere i riflessi luminosi
sulle diverse superfici, anche quelle più preziose e ricercate, come facevano i
fiamminghi.
SFONDO
LA CONCHIGLIA E L’UOVO
In fondo alla nicchia si trova un’esedra semicircolare dove colpisce la geometrica
purezza della calotta della semicupola nella quale è scolpita una conchiglia
(esempi simili si trovano nell’arte fiorentina dell’epoca, a partire dalla
donatelliana nicchia della Mercanzia in Orsanmichele, del 1425 circa),
magnificamente evidenziata dalla luce, al culmine della quale è appeso un uovo di
struzzo, che sembra fluttuare sulla testa di Maria. L’uovo è messo in risalto dalla
luce su uno sfondo in ombra, proiettandosi otticamente in primo piano.
La conchiglia è simbolo della nuova Venere, Maria madre di Gesù Cristo, e della
bellezza eterna nonché della natura generatrice della Vergine e del suo legame con
il mare e le acque. L’uovo di struzzo, che è anche emblema della perfezione divina,
è collocato in una posizione leggermente sfalsata rispetto all’asse mediano del
quadro, come simbolo della superiorità della Fede rispetto alla Ragione.[1] L’uovo
è un complesso richiamo al dogma della verginità di Maria, che doveva essere
noto agli umanisti del XV secolo. Si rifà alla storia di Leda, sposa del re di Sparta,
dove si trovava appeso in un tempio un analogo uovo, che venne fecondata da
Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi
divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.
L’uovo era anche inteso comunemente come simbolo di vita, della Creazione (vedi
Uovo cosmico). In numerose chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano-
ortodosso viene spesso appeso nel catino absidale un uovo proprio con
quest’ultimo valore, come segno di vita, di nascita e rinascita. Proprio questa
valenza rimanderebbe alla nascita del figlio del duca, tanto più che lo struzzo era
uno dei simboli della casata del committente. Inoltre l’uovo, illuminato da una
luce uniforme, esprime l’idea di uno spazio centralizzato, armonico e
geometricamente equilibrato: “centro e fulcro dell’Universo”. L’uovo, inoltre, è il
simbolo del casato di Montefeltro, e insieme al ciondolo di corallo, simboleggia la
vita.
Secondo altri la figura ovoidale sarebbe invece una perla, generata dalla
conchiglia senza alcun intervento maschile.
TEMPIO MALATESTIANO
ESTERNO*
INTERNO
L’interno, durante i lavori rinascimentali, venne mantenuto ad aula unica
aggiungendo alcune profonde cappelle laterali, incorniciate da arcate a sesto
acuto, rialzate di un gradino e chiuse da balaustre marmoree dalla ricca
ornamentazione. Vennero usati elementi classicheggianti, ma svincolati da
rapporti di proporzione, con una preminenza della decorazione plastica, la quale
arriva a mettere in secondo piano la struttura architettonica. Sulle prime tre
cappelle di ciascun lato, risalenti all’epoca di Sigismondo, viene ripetuta
l’iscrizione latina della facciata.
La copertura è a semplici capriate lignee, con travi e tavelle visibili, realizzata dai
francescani a loro spese in seguito all’interruzione delle fabbriche di Malatesta.
La facciata della vecchia chiesa gotica era rimasta incompiuta nel XIV secolo;
Alberti quindi dovette conciliare il suo progetto con la preesistenza della parte
inferiore, già occupata da nicchie-sepolcro e in parte rivestita a tarsie marmoree
bianche e verdi, secondo la tradizione romanico-gotica fiorentina. Anche i tre
portali e l’ampio rosone circolare erano già stati aperti e dimensionati; l’aspetto
della facciata era infine condizionato dai livelli delle navate retrostanti.
PALAZZO RUCELLAI
CITTÀ IDEALE
L’opera mostra una vasta piazza in prospettiva lineare centrica. Al centro spicca
un grande edificio circolare, che ha un carattere di edificio pubblico, religioso
come chiarisce la croce sulla sommità. Esso è rialzato di alcuni gradini e
circondato da colonne corinzie addossate alla parete, con tre portali sugli assi
visibili, composti con protiri a timpano ad arco. Oltre un cornicione si trova un
secondo piano di forma analoga, ma dimensioni più piccole, con finestrelle
quadrate e una finestra classicheggiante con timpano triangolare sull’asse
centrale. Sopra una seconda cornice si trova la copertura conica con fasce
bicrome, che culmine nella lanterna. Le pareti sono animate da specchiature in
marmo bicolore (bianco e verde serpentino), che riproducono rettangoli regolari,
che ricordano il romanico fiorentino.
PIENZA
Luogo di nascita di Pio II, decise di intervenire sulla città affidando il progetto a
Rossellino. Gran parte del patrimonio storico-artistico si concentra nella piazza
dedicata al pontefice Pio II che cercò di farne la sua “città ideale” del
Rinascimento. I suoi progetti vennero completati solo parzialmente, ma restano
tutt’oggi uno degli esempi più significanti di progettazione urbanistica razionale
del Rinascimento italiano. Piazza: L’area su cui Rossellino raggruppa i principali
edifici di Pienza è estremamente stretta. Duomo: è uno dei monumenti più
importanti del Rinascimento italiano ma per alcuni particolari come il tetto a due
spioventi e l’occhio centrale ricorda le chiese gotiche francescane e risente
dell’influenza di Leon Battista Alberti. La facciata è tripartita e quattro paraste la
dividono in tre zone corrispondenti alle navate interne. Una cornice marcapiano
divide la facciata in due zone; in quella inferiore ci sono le tre porte d’ingresso, in
quella superiore tre arconi sorretti da colonne. Sotto gli archi laterali sono state
create nicchie di reminiscenza classica, in quello centrale si apre un oculo. Ci sono
finestre gotiche che permettono una grande e suggestiva luminosità interna.
L’interno è diviso in tre navate della stessa altezza. Palazzo Piccolomini: si ispira a
Palazzo Rucellai, è a pianta quadrata, sviluppato su tre piani con un leggero
bugnato, dal basso fino alla sommità. Al primo e secondo piano presenta due
ordini di finestre di notevole ampiezza, equidistanti l’una dall’altra, con lesene e
profilature con i conci sporgenti. Ciascuna finestra è divisa in due parti da una
sottile colonna. Al di sotto delle finestre, come ad evidenziare i solai interni, una
cornice corre tutt’intorno al palazzo. Sulla facciata nord si trova il grandissimo
portale che costituisce l’entrata principale del palazzo. All’interno il palazzo
racchiude una corte anch’essa rettangolare con un loggiato sostenuto da colonne
di pietra.
BOTTICELLI
LA PRIMAVERA (T1)
Sandro Botticelli introdusse con quest’opera una grande novità a livello formale
nel frequentatissimo tema dell’Adorazione, ossia la visione frontale della scena,
con le figure sacre al centro e gli altri personaggi disposti prospetticamente ai lati;
prima di questa infatti, si usava svolgere la scena in maniera orizzontale, con la
Sacra Famiglia a un’estremità e i Magi col proprio seguito che procedevano verso
di essa dispiegandosi essenzialmente sul primo piano in una sorta di corteo, uno
dietro l’altro, ricordando l’annuale rievocazione della cavalcata dei Magi, una
rappresentazione sacra che si teneva per le vie fiorentine. Al centro, in posizione
ingegnosamente rialzata, si trova la capanna diroccata della natività, composta da
una roccia, un tetto ligneo retto da alcuni tronchi issati e da una parete a angolo in
rovina, richiamo all’antichità perduta ribadito anche dagli edifici crollati a
sinistra. La Vergine col Bambino, vegliata da dietro da san Giuseppe, viene a
trovarsi al vertice di un triangolo ideale a cui mirano le linee prospettiche delle
quinte laterali e lo scalare dei personaggi disposti. Dal vertice di questo triangolo
un moto ascensionale sposta l’occhio dello spettatore verso l’altro, tramite la
figura di Giuseppe, fino alla luce divina che spiove dall’alto. Un pavone,
appollaiato a destra, simboleggia l’immortalità, poiché fin dall’antichità le sue
carni erano ritenute immarcescibili. I tre Magi, che come al solito rappresentano
le tre età dell’uomo (gioventù, maturità e anzianità) si trovano in posizione
centrale. Quello più anziano è inginocchiato in adorazione del Bambino ed ha già
deposto il suo dono ai piedi della Vergine, mentre il secondo e il terzo attendono il
loro turno davanti, di spalle, con i loro preziosi doni ancora in mano, mentre le
corone sono già state deposte (una si vede davanti a quello vestito di bianco).
In queste tre figure sono ritratti rispettivamente Cosimo de’ Medici e i suoi figli
Piero il Gottoso (col mantello rosso foderato d’ermellino) e Giovanni. La loro
posizione davanti alla Vergine è rigidamente dinastica. Dietro di loro infatti si
trova Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero, con una lunga veste bianca e una berretta
come cappello, a cui fa da contraltare, sul lato opposto in posizione simmetrica,
suo fratello minore Giuliano (che perì pochi anni dopo nella Congiura dei Pazzi),
ritratto col vestito corto nero e rosso bordato d’oro in un’espressione pensosa.
Trattandosi di una rappresentazione di discendenza, poco importa che già i tre
personaggi che formano i Magi fossero morti almeno al 1473, né è rilevante la
mancanza di somiglianza degli effigiati, molto più idealizzati nella solennità
dell’episodio. All’estrema destra il giovane in primo piano che guarda verso lo
spettatore, con un ampio mantello arancione, sarebbe un autoritratto dello stesso
Botticelli. Le rovine alludono a un episodio della Legenda Aurea di Cristo,
secondo cui l’imperatore Augusto, che si vantava di aver pacificato il mondo,
incontrò un giorno una Sibilla che gli predisse l’arrivo di un nuovo re, che sarebbe
riuscito a superarlo e ad avere un potere ben più grande del suo. Essi perciò
rappresentano simbolicamente il mondo antico e il paganesimo in declino,
mentre la cristianità raffigurata nella scena della Natività si trova in primo piano
perché essa costituisce il presente ed il futuro del mondo.
LEONARDO DA VINCI
VITA (T1)
Leonardo nacque a Vinci il 15 aprile del 1452. Nel 1469 si trasferì con tutta la
famiglia a Firenze, quì entrò a far parte della bottega del Verrocchio dove vi rimase
per otto anni e dove apprese l’arte del disegno, l’uso della prospettiva e
dell’anatomia. Questo è ben attestato nel suo intervento nel Battesimo di Cristo
del Verrocchio, dove realizzò l’angelo con estrema sapienza compositiva ed
equilibrio ed inoltre in una delle sue prime realizzazioni: l’Annunciazionedi
Monteoliveto oggi alla galleria degli Uffizi a Firenze, dipinta tra il 1475 e il 1478,
nella quale abbiamo una straordinaria qualità cromatica, e uno studio attento
verso i particolari soprattutto naturali. Abilissimo nel disegno, questa sua dote è
evidente in due opere iniziate nel 1482 circa e rimaste incompiute: San Girolamo e
l’Adorazione dei Magi. In quest’ultima, rimasta incompiuta per la sua partenza per
Milano, interpreta in modo nuovo il soggetto: intorno alla figura della Vergine col
Bambino si raccoglie una folla gesticolante che ci lascia intendere l’emozione per
l’evento sacro. Ancora del periodo fiorentino sono il Ritratto di Ginevra Benci il
cui volto è delineato da delicati effetti chiaroscurali mentre sullo sfondo si staglia
un paesaggio di acqua e piante. Leonardo arrivò a Milano nel 1482 e vi rimase per
ben sedici anni al servizio di Ludovico il Moro e dove si occupò dei diversi campi
delle scienza e delle arti, ma si dedicò prevalentemente all’attività di pittore,
infatti, qui realizzò opere molto importanti tra le quali la Vergine delle rocce in cui
ambienta i suoi personaggi in un’atmosfera quasi irreale, in un luogo ombroso e
chiuso da grosse rocce in cui la luce filtra a malapena, l’atmosfera è resa in modo
magistrale grazie anche alla sua particolare tecnica di chiaroscuro sfumato che è
uno degli elementi caratteristici della sua arte. Eseguì molte altre opere tra cui la
Dama con l’ermellino di Cracovia, ilRitratto di dama del Louvre, ma il capolavoro
dell’attività svolta a Milano è considerato l’Ultima Cena che realizza intorno al
1495-1497 nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie. Il soggetto è
trattato in maniera innovativa, rappresentando il momento in cui Cristo annuncia
che verrà tradito. Nel trattato della pittura Leonardo scrive:" il bono pittore ha da
dipingere due cose principali, cioè l’homo e il concetto della mente sua. Il primo è
facile, il secondo difficile perché s’ha a figurare con gesti e movimenti delle
membra. Nel Cenacolo Leonardo realizzò in pieno questa sua idea,
rappresentando il Cristo come fulcro della composizione, intorno a cui si
distribuiscono gli Apostoli in atteggiamenti diversi che lasciano trasparire il loro
pensiero e le loro emozioni. Nel 1499 Ludovico il Moro fuggì da Milano, dopo
l’invasione del ducato da parte dei francesi, e Leonardo intraprese una serie di
viaggi, si recò a Mantova, a Venezia, e poi ritornò a Firenze. Qui gli venne
commissionato un’affresco per il salone di Palazzo Vecchio che rappresenta la
Battaglia di Anghiari, in gara con Michelangelo che doveva affrescare nella parete
opposta la Battaglia di Cascina. Il dipinto purtroppo però è andato perduto. In
questi anni iniziò anche il famoso ritratto della Gioconda, un dipinto a lui caro
che portò con se anche in Francia dove rimane tutt’oggi, al museo del Louvre. E’ il
ritratto di una gentildonna fiorentina, identificata con Monna Lisa di Giocondo,
rappresentata a mezza figura e di tre quarti sullo sfondo di un paesaggio roccioso
con due laghi posti su un diverso livello. L’atmosfera suggestiva e il sentimento di
malinconia che suscita sia il paesaggio che la figura è accentuato dall’uso dello
sfumato leonardesco. Nel 1506 si recò nuovamente a Milano, negli ultimi anni
della sua vita l’artista alternò il suo soggiorno in questa città con brevi viaggi a
Firenze. Le sue ultime opere sono Sant’Anna con Madonna e Bambino, di cui
aveva già preparato un cartone nel 1501e il San Giovanni Battista. Nella Sant’anna
con Madonna e Bambino rappresenta i personaggi in una composizione
piramidale il cui vertice è rappresentato dal volto di Sant’Anna, lo sfondo è ancora
una volta rappresentato da un paesaggio rupestre in lontananza. Nel 1516 accettò
l’invito del re di Francia e si recò ad Amboise dove trascorre gli ultimi anni della
sua vita e dove morì nel 1519
LA GIOCONDA (T2)
Il dipinto ritrae a metà figura una giovane donna con lunghi capelli scuri. È
inquadrata di tre quarti, il busto è rivolto alla sua destra, il volto verso
l’osservatore. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia
a quello che sembra il bracciolo di una sedia. Indossa un sottile abito scuro che si
apre sul petto in un’ampia scollatura. Il capo è coperto da un velo trasparente e
delicatissimo che ricade sulle spalle in un drappeggio. I capelli sono sciolti e
pettinati con una scriminatura centrale, i riccioli delicati ricadono sul collo e sulle
spalle. Gli occhi grandi e profondi ricambiano lo sguardo dello spettatore con una
espressione dolce e serena. Le labbra accennano un sorriso. Non indossa alcun
gioiello, sulle vesti non appare nessun ricamo prezioso. La semplicità con cui si
presenta esalta la sua bellezza naturale a cui, evidentemente, non necessita alcun
orpello.
Alle sue spalle è visibile la linea retta di una balaustra. Il balcone si affaccia su un
paesaggio limpido e lontanissimo. Sulla sinistra del quadro si scorge una strada
che si snoda attraverso una valle, fiancheggiata da ripide montagne, quindi uno
specchio d’acqua, probabilmente un lago a giudicare dall’andamento dei riflessi,
quindi ancora formazioni montuose sullo sfondo. Sul lato destro ancora una linea
serpentinata descrive il corso di un fiume impetuoso, sono visibili rapide e cascate
e un ponte su tre arcate. Il corso del fiume si perde in un altopiano aldilà del quale
si scorge un altro lago, posto ad una quota più elevata rispetto al primo. Quindi
ancora montagne che in modo graduale si innalzano fino a raggiungere altissimi
ghiacciai. La linea dell’orizzonte taglia la figura all’incirca all’altezza della fronte,
che risulta quindi essere quasi del tutto immersa nel paesaggio.
Alla perfezione tecnica si unisce poi quell’elemento di moto che costituisce la vera
e propria magia del dipinto: la figura è stante ma non immobile. La morbidezza
delle carni lascia percepire il leggero movimento del respiro. Il volto, non in asse
con le spalle, lascia intendere una delicata rotazione della testa. Una rotazione che
ancora non si è conclusa, come suggerisce lo sguardo che compie un passo
ulteriore rispetto alle spalle e al viso. Il sorriso e l’ovale dai contorni sfumati
suggeriscono che le labbra e le guance stanno delicatamente cambiando
espressione. Il moto è anche nella natura che la avvolge e accoglie: le rocce sono
ora aspre ora erose, l’apparente immobilità dei ghiacciai si scioglie nelle acque
tranquille dei laghi e in quelle rapide del fiume. È la vita stessa Il miracolo che si
rivela in questo dipinto.
CONTRAPPOSTO
SFUMATO
PROSPETTIVA AEREA
Per i pittori del ‘400 la prospettiva è una rigida questione matematica. Si fissa un
punto di fuga coerente con il punto di vista e si fanno convergere verso questo
punto tutte le linee che nella visione geometrica della realtà sono tra loro
parallele. Questo determina il rimpicciolimento proporzionale degli oggetti, dei
corpi, delle architetture e dà all’occhio l’illusione della profondità. Leonardo, da
investigatore qual è della natura, non può accontentarsi di questa visione tutta
teorica. Il senso della distanza e della lontananza passano anche attraverso il
colore e la luce. L’aria, che ha una sua consistenza, frapponendosi tra l’occhio e
l’oggetto sbiadisce il primo e aumenta il tono della seconda. Ecco dunque che le
rocce scure di cui si compongono le montagne in primo piano diventano in
lontananza sempre più chiare arrivando quasi a confondersi con il cielo.
Gli apostoli sono disposti a gruppi di tre alla sua destra e alla sua sinistra.
L’apostolo Pietro è il quarto da sinistra. L’uomo si sporge in avanti impugnando un
coltello con la destra. Giuda ha con se una borsa con del denaro e nella sorpresa
rovescia una saliera. A destra si trovano Matteo, Giuda Taddeo e Simone. Il quinto
da destra è Giacomo Maggiore mentre Filippo stringe le mani al petto
dichiarandosi innocente. Leonardo da Vinci non seguì la tradizionale
rappresentazione dell’Ultima Cena. Infatti il tema veniva solitamente
rappresentato con una precisa interpretazione iconografica. Il maestro si
concentrò sul tentativo di rappresentare la sorpresa degli apostoli. In seguito
all’annuncio del tradimento ognuno ha una propria reazione che si esprime con la
postura, il gesto e l’espressione del viso. Inoltre l’apostolo Pietro anticipa il taglio
dell’orecchio di Malco, il servo del Sommo Sacerdote, al momento dell’arresto di
Cristo. L’apostolo infatti impugna un coltello in modo minaccioso
apparentemente rivolto al traditore seduto tra i commensali. Giuda non è
rappresentato come nella tradizione isolato e all’opposto degli altri apostoli.
L’uomo è in mezzo ai compagni. L’apostolo Giovanni che di solito è raffigurato
adagiato sul petto o sul grembo di Cristo, da Leonardo viene dipinto in atto di
ascoltare le parole di Pietro.
Lo sfondo è scuro (ma lo era molto meno prima di un restauro operato nel XIX
secolo); inoltre, dall’analisi ai raggi X emerge che dietro la spalla sinistra della
dama era originariamente dipinta una finestra.
Lo sfondo è diviso in due parti dai due alberi, il primo un alloro simbolo di trionfo
sulla morte (resurrezione) e il secondo una palma, simbolo della passione di
Cristo, che dirigono lo sguardo dello spettatore in profondità. Qui si trovano
alcune architetture in rovina (il Tempio di Gerusalemme), rimando tradizionale al
declino dell’Ebraismo e del Paganesimo (quest’ultimo sottolineato pure dalla lotta
convulsa dei cavalli in secondo piano, che non ha ancora ricevuto la lieta Novella)
da cui si originò la religione cristiana[7]. L’edificio con le scale è stato paragonato
al presbiterio della chiesa di San Miniato al Monte; su di esso si trovano alcuni
arbusti, come si vedono talvolta su alcune costruzioni delle quali la natura ha
avuto tutto il tempo di impadronirsi nuovamente. Secondo altri autori, invece, il
modello fu la villa medicea di Poggio a Caiano che allora doveva essere un
cantiere in divenire con il solo piano porticato e la doppia scalinata parallela oggi
non più esistente. A destra si trova una zuffa di armati, uomini disarcionati e
cavalli che s’impennano, come simbolo della follia degli uomini che non hanno
ancora ricevuto il messaggio cristiano, e un abbozzo di rocce svettanti tipiche del
paesaggio leonardesco. Secondo alcuni esperti inoltre, il fanciullo all’estrema
destra del quadro, che guarda verso l’esterno, potrebbe essere un autoritratto
giovanile di Leonardo; più probabilmente è da mettere in relazione con l’uomo
che medita sul lato opposto, come invito a riflettere sul mistero dell’Incarnazione.
VOLTA
STORIE CENTRALI
Per ciò che riguarda le storie centrali della Genesi, vediamo che sono suddivise in
gruppi di tre relativi all’origine dell’universo, del male e dell’uomo. Ai primi tre
episodi dominati dalla figura di Dio Seguono quelli della creazione di Adamo ed
Eva in cui compaiono le figure dell’uomo e della donna nella loro nudità, simbolo
dell’innocenza, che invece verrà perduta con il peccato originale rappresentato
nel riquadro successivo insieme alla conseguente cacciata dal paradiso terrestre.
Gli ultimi tre affreschi ( sacrificio di Noè ebbrezza di Noè) mostrano la caduta
dall’umanità e la sua rinascita con la rinascita di Noè, prescelto da Dio come unico
uomo destinato a salvarsi per ripopolare la terra dopo la decisione del Creatore di
distruggervi ogni essere vivente.
SIBILLE E PROFETI
Profeti e sibille invece sono seduti su troni monumentali che si alternano sui lati
lunghi, mentre su quelli corti vi sono le figure di Zaccaria (raffigurato come un
vecchio barbuto con il busto di profilo nell’atto di lettura di un libro) e di Giona. I
veggenti sono identificati da una scritta nella targa sottostante e sono coloro che
per primi intuirono la venuta del Redentore. I profeti e le Sibille Dunque
testimoniano la continua attesa di redenzione da parte dell’umanità.
PENNACCHI
I Pennacchi posti agli angoli della Volta narrano quattro episodi della miracolosa
salvazione del popolo di Israele interpretabili come prefigurazioni del Messia voi
che testimoniano la costante presenza di Dio nella vita del suo popolo e il
continuo rinnovarsi della promessa della redenzione.
è dominata al centro da una figura femminile ritratta seduta in posa frontale che
guarda verso l’esterno immobile impassibile e questa figura indossa una veste
verde aderente che lascia intravedere la mascolina muscolatura tipica delle donne
michelangiolesche e le gambe con i piedi intrecciati sono coperte da un manto
viola chiaro. Una mano è adagiata sulle gambe mentre l’altra tocca con il dorso la
guancia esaltandone lo sguardo enigmatico che risulta estraneo alle altre due
figure appena abbozzate che sono quella di un uomo è di un bambino ed infine ci
sono gli ignudi bronzei che sono di spalle rispetto allo spettatore che sembrano
rivolgere lo sguardo VERSO l’alto.
IL GIUDIZIO UNIVERSALE
PARETE NORD
La parete nord ospita affreschi raffiguranti scene della vita di Cristo, realizzati dal
1481 al 1482. Anche qui la serie inizialmente comprendeva otto riquadri, uno dei
quali, “la natività del Perugino”, lasciò spazio al Giudizio Universale. Ad oggi, il
primo riquadro raffigura il battesimo di Cristo, anch’esso realizzato dal Perugino
ed è l’unica opera firmata di tutte quelle presenti nella cappella. Il secondo
raffigura le tentazioni di Cristo e la purificazione del lebbroso, realizzato da
Sandro Botticelli nel 1481. Il terzo, di Domenico Ghirlandaio, illustra la vocazione
di Pietro ed Andrea, i primi due apostoli, e la chiamata di Giovanni e Giacomo. Nel
successivo osserviamo la predica sulla montagna e la guarigione del lebbroso,
testimonianza dei primi miracoli di Cristo. E’ attribuito a Cosimo Rosselli ed è
contrapposto alla Discesa dal Monte Sinai, in quanto la montagna è il luogo in cui
Dio manifesta la sua volontà e stabilisce un rapporto con gli uomini.
Rincontriamo Pietro Perugino che nel quinto riquadro realizza un’opera pittorica
di fondamentale importanza, la “Consegna delle chiavi”, che simboleggia la
trasmissione del potere spirituale a Pietro, di cui i pontefici sono i successori.
Inoltre sullo sfondo troviamo i due episodi del pagamento del tributo e la tentata
lapidazione di Cristo. Cosimo Rosselli chiude la serie con “L’ultima cena “, sullo
sfondo vi sono alcuni episodi della Passione come l’Orazione nell’orto, la Cattura
di Gesù e la Crocifissione. Sulla parete d’ingresso nel 1572 Hendrik van den Broeck
riaffresca la Resurrezione di Cristo, sul precedente modello di Domenico
Ghirlandaio, danneggiato irrimediabilmente a causa di interventi sulla
fondazione della parete orientale.
PARETE INGRESSO
Su questa parete sono raffigurati i due episodi conclusivi dei cicli di Mosé e di
Cristo: la Resurrezione di Cristo (Matteo 28. 1-8) e la Disputa sul corpo di Mosè
(Lettera di Gluda 9).I due affreschi, in origine opera rispettivamente del
Ghirlandaio e del Signorell, furono distrutti nel crollo dell’architrave della porta
avvenuto nel 1522 e sostituiti durante il pontificato di Gregorio XIIl (pontefice dal
1572 al 1585) dalle opere di identico soggetto eseguite da Hendrik van den Broeck e
Matteo da Lecce. Come sulle pareti nord e sud oltre alle storie della vita di Mosé di
Cristo sona raffigurati in alto alcuni pontefici e le lunette e nel registro inferiore i
finti tendaggi.
DAVID MICHELANGELO
LA PIETÀ
TONDO DONI
Maria ha il busto ruotato dalla parte opposta rispetto alle gambe, a materializzare
un movimento ascendente che culmina nelle braccia sollevate per sostenere
saldamente il Bambino. Quest’ultimo è colto nel momento in cui Giuseppe lo
porge a Maria, a visualizzare un altro movimento circolare contrapposto a quello
della Madonna.
Nel gruppo della Sacra Famiglia, infatti, è stata evidenziata la presenza della
cosiddetta “figura serpentinata“, cioè di quella posa per cui uno o più personaggi
avvitati su se stessi sono visibili contemporaneamente dall’unico punto di vista
dell’osservatore, dando concretezza visiva alla sinuosità e alla linea spiraliforme,
con una spinta che è insieme fisica e concettuale ed evoca il movimento continuo
verso l’alto. I colori sono prevalentemente chiari, freddi, talvolta accostati per
contrasto: ciò determina la presenza di riflessi improvvisi che ricordano la
lucentezza del marmo. I corpi sono realizzati con perfezione anatomica e con forte
senso del volume; la linea definisce il contorno delle figure, consentendo loro
maggior stacco dal fondo: del resto la pittura di Michelangelo si avvicina alla
scultura, e di questa ha la forza plastica.
RAFFAELLO
Raffaello, che soggiornò a Firenze dal 1504 al 1508, seppe evolvere rispetto alla
lezione del maestro Perugino, studiando le cose vecchie di Masaccio, e
approfondendo il tutto nell’arte Leonardiana e in Michelangelo. E di questi,
accolse la disposizione piramidale delle figure, il paesaggio spesso roccioso, gli
specchi d’acqua, lo sfumato, gestualità dell’anima delle figure.
Un riflesso del tondo doni, specie per i moti dell’animo nelle loro gestualità.
VOLTA
La volta fu la prima parte ad essere affrescata, dalla fine del 1508. Cornici a
grottesche dividono lo spazio in tredici scomparti. Al centro si trova un ottagono
con putti che reggono lo stemma papale Della Rovere. Attorno si dispongono
quattro troni (diametro 180 cm) con le personificazioni della Teologia, della
Giustizia, della Filosofia e della Poesia. Agli angoli si trovano invece quattro
riquadri a finto mosaico (120x105 cm ciascuno) con Adamo ed Eva, il Giudizio di
Salomone, il Primo moto e Apollo e Marsia. Tra l’ottagono e i rettangoli si trovano
quattro scomparti minori a forma di trapezio con i lati stondati. In ciascuno di essi
si trovano due rappresentazioni, di cui quella superiore è a monocromo, a
soggetto storico e derivata da Tito Livio, mentre quella inferiore è policroma, a
soggetto mitologico e derivata da Igino. Piccoli spazi triangolari, infine, si trovano
tra i medaglioni e i quadri principali, decorati da querce roveresche. Negli
scomparti maggiori le figure simulano effetti a rilievo su un fondo oro che imita il
mosaico. Le scene rappresentate sono in diretto collegamento con le lunette
sottostanti e con gli elementi, ai quali si rifanno anche i putti dipinti sugli arconi
di ciascuna lunetta, ciascuno con un emblema che lo caratterizza come genietto di
un elemento. Fanno eccezione i putti di aria e fuoco, che appaiono scambiati, e
che testimonierebbero un cambiamento di programma in corso d’opera. Le
rappresentazioni minori con scene storiche e il riquadro centrale sono
generalmente attribuite al Sodoma. Adolfo Venturi assegnò l’ottagono centrale al
Bramantino. Le grottesche inoltre spettano probabilmente allo specialista tedesco
Johannes Ruysch. Sui battenti della porta della stanza (realizzata probabilmente
da Giovanni da Udine) venne raffigurato, anni dopo, l’elefante Annone, un
animale esotico molto celebre all’epoca, donato a Leone X dal re del Portogallo, e
che venne immortalato anche da Giulio Romano in un affresco in Vaticano ora
perduto.
Come accennato sopra, nella Disputa del Sacramento Raffaello trasformò la parata
di teologi da una semplice galleria di ritratti a un vero e proprio consesso, in cui la
Chiesa militante, nella metà inferiore, agisce al cospetto della Chiesa trionfante,
nel cerchio di nubi superiore. Lo studio dei numerosi disegni preparatori permette
infatti di osservare una progressiva accentuazione della gestualità e del calore
emozionale dei personaggi, coordinati comunque da un punto focale, che è
rappresentato dall’ostia consacrata sopra l’altare.
SCUOLA DI ATENE
MICHELANGELO ARCHITETTO
CAMPIDOGLIO
PALAZZO FARNESE
All’inizio del XVI secolo papa Giulio II decretò la ricostruzione della basilica di
San Pietro in Vaticano, affidando il progetto all’architetto Donato Bramante.
Bramante non lasciò un unico progetto definitivo della basilica, ma è opinione
comune che le sue idee originarie prevedessero un rivoluzionario impianto a
croce greca (ideale richiamo ai primi martyrium della cristianità), caratterizzato
da una grande cupola emisferica posta al centro del complesso. I lavori
procedettero ininterrotti fino alla morte del pontefice, avvenuta nel 1513, con la
realizzazione del centrocroce. Con il successore di Giulio II, papa Leone X de’
Medici, alcune modifiche furono apportate da Raffaello Sanzio, prima insieme a
Fra’ Giocondo e poi come architetto capo dell’intera fabbrica. Alla morte di
Raffaello, nel 1520, i lavori furono proseguiti da Antonio da Sangallo il Giovane, il
suo disegno, che si poneva come una sintesi tra un impianto a croce greca ed uno
a croce latina, con una cupola a sesto rialzato, con doppio tamburo, coronata da
una svettante lanterna. Nel 1543 il Sangallo era giunto alla costruzione dei
pennacchi d’imposta del tamburo.[7] Dopo Sangallo, deceduto nel 1546, alla
direzione dei lavori subentrò Michelangelo Buonarroti, all’epoca ormai
settantenne, il quale, esprimendo un giudizio fortemente negativo sull’opera del
predecessore,[8] mise in atto una serie di puntuali, quanto strategiche,
demolizioni, per tornare ad una pianta centrale più affine al disegno originario.
RINASCIMENTO VENETO
GIORGIONE LA TEMPESTA
In primo piano, sulla destra, una donna seminuda che allatta un bambino (la
“cingana” o “zigagna” cioè la gitana o zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi
li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate
alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un
ruscelletto. Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città
passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine,
infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo. Da un punto di vista
stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi
dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare a
un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea
leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma
anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria
tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame
degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi. Numerose sono le
ipotesi sul significato dell’opera: da episodi biblici, come il ritrovamento di Mosè,
a mitologici, Giove ed Io, ad allegorici, Fortuna, Fortezza e Carità. Un’ipotesi
interessante è quella di Adamo ed Eva da progenitori in seguito alla cacciata dal
paradiso, dove il fulmine rappresenterebbe L’angelo che caccia i due dal paradiso.
LA VENERE DORMIENTE
È un’opera che dà inizio ad un nuovo genere : una donna seminuda sdraiata che
sottolinea la sensualità di essa e che allude ad un amore estetico, svincolato dalla
dimensione neoplatonica tipica in Botticelli. Il dipinto ritrae una donna nuda,
languidamente addormentata all’aperto, distesa su un telo bianco e un cuscino
coperto da un drappo rosso, sullo sfondo di un paesaggio aperto. Ed è un’opera
iniziata da Giorgione e conclusa da Tiziano, cui si devono il drappo rosso, la massa
rocciosa dietro la testa della donna. Sottili implicazioni erotiche si trovano nel
braccio alzato di Venere e nel posizionamento della sua mano sinistra sul suo
inguine, che riprende la posa della Venus pudica (Venere pudica), sebbene
aggiornandola a una posizione distesa. Si tratta però di un’atmosfera
misuratamente sensuale e sognante, molto diversa dalle interpretazioni che
daranno gli artisti successivi del tema, dove la donna ben sveglia si rivolge
spudoratamente allo spettatore, esibendo apertamente la propria nudità;
Nell’opera domina una luce calda che si conforma alla tonalità chiara della pelle
della fanciulla, è enfatizzata da questo panneggio increspato.
LA PALA DI CASTELFRANCO
Il dipinto raffigura la Madonna col Bambino su un alto trono, a sua volta sopra un
basamento che poggia su un sarcofago di porfido, con lo stemma della famiglia
Costanzo. Probabilmente la volontà di far rivolgere uno sguardo triste e assorto al
reale sarcofago, che idealmente racchiudeva il figlio morto del committente,
condizionò l’organizzazione iconografica della scena, creando quella che potrebbe
essere definita come un’altissima piramide, con al vertice la testa della Vergine e
alla base i due santi che si trovano in basso davanti a un parapetto: a destra
Francesco (ripreso dalla Pala di San Giobbe di Giovanni Bellini) e a sinistra Nicasio
(identificabile dall’insegna dei cavalieri di Malta). L’artista abbandonò, rispetto ai
modelli lagunari, il tradizionale sfondo architettonico, impostando un’originale
partizione: una metà terrena inferiore, con il pavimento a scacchi in prospettiva e
un parapetto liscio di colore rosso come fondale (in realtà sembrerebbe un telone
srotolato attorno alla struttura di sostegno cilindrica) e una metà celeste
superiore, con un paesaggio ampio e profondo, formato da campagne e colline e
popolato a destra da due minuscole figure di guerrieri in armatura (allusione al
tema della guerra e della pace) e a sinistra da un borgo fortificato; La continuità è
però garantita dall’uso perfetto della luce atmosferica, che unifica con toni
morbidi e avvolgenti i vari piani e le figure, pur nelle differenze dei vari materiali:
dalla lucidità dell’armatura di san Nicasio, alla morbidezza dei panni della
Vergine. Stilisticamente la pala è costruita attraverso un tonalismo dato dalla
progressiva sovrapposizione di velature a strati colorati, che rendono il
chiaroscuro morbido e avvolgente. La forma piramidale, qui portata a un’estrema
purezza compositiva.
TIZIANO
PALA DELL’ASSUNTA
L’opera fu commissionata a Tiziano dai francescani del convento dei Frari come
pala d’altare e rivela la volontà del pittore di rinnovare il modo di concepire
l’impostazione compositiva dei dipinti destinati agli altari.
La pala, alta quasi sette metri, ha uno straordinario legame con l’architettura
gotica della basilica, preannunciandosi fin da lontano al termine della prospettiva
delle navate con archi ogivali e del coro ligneo intagliato quattrocentesco. In tale
senso lo squillante rosso della veste della Vergine e di alcune vesti degli apostoli
sembra riflettersi nei mattoni delle pareti, accendendoli.
IMPOSTAZIONE GENERALE
APOSTOLI
Sullo sfondo di un cielo azzurro ceruleo, la zona inferiore è occupata dal gruppo
degli apostoli che assistono increduli all’evento miracoloso. L’uso
dell’illuminazione, ora diretta ora soffusa e in ombra, crea contrasti che
amplificano il risalto di alcuni personaggi su altri e suggeriscono la profondità
spaziale. Così la zona d’ombra al centro fa pensare a una posizione più
indietreggiata degli apostoli, disposti informalmente a semicerchio al di sotto
della nube. Spicca, come accennato, l’apostolo di spalle vestito di rosso, forse
Giacomo maggiore, mentre a sinistra si vede un altro, con veste rossa, forse
Giovanni, che alza il gomito per mettersi teatralmente una mano al petto in segno
di sorpresa. Vicino a lui si trovano un apostolo vestito di bianco e verde,
probabilmente Andrea, piegato e con lo sguardo attento verso l’apparizione
celeste, e san Pietro, seduto in ombra al centro. In tutto si contano undici
personaggi, ciascuno colto in una posizione differente, in un tripudio di gesti di
agitazione e turbamento.
Soprattutto in questa parte si notano gli echi raffaelleschi, nei gesti eloquenti ma
accuratamente studiati e nella monumentalità classica; Vi si riscontrano inoltre
alcune tinte fredde, che vanno però riscaldandosi col salire, fino ad arrivare a Dio,
punto da cui la luce emana e vertice della piramide.
VERGINE
Anche qui il colore rosso della veste crea una macchia squillante di colore che
attira immediatamente l’occhio dello spettatore, soprattutto nel nodo focale, tra la
testa di Maria e Dio Padre, dove ha il centro quell’abbagliante sfera di luce, che
abbraccia l’andamento curvilineo della centina superiore. Si tratta di un’efficace
rappresentazione dei cerchi del Paradiso, immaginati come delle ruote di serafini
via via più luminose, fino al chiarissimo spazio centrale. Per far risaltare al
massimo i protagonisti, Tiziano accentuò il contrasto tra primo piano e sfondo,
scurendo i toni della Vergine e del Dio Padre.
Come nella metà inferiore, l’alternarsi di luci ed ombre sulle figure, come la zona
d’ombra creata dall’apparizione divina sul gruppo di angeli a destra, crea una
diversificazione spaziale e “meteorologica” tra i soggetti, all’insegna di una
rappresentazione più sciolta e naturale, tipica della “maniera moderna”.
DIO PADRE
La figura del Creatore appare in controluce, ciò per due motivi fondamentali:
innanzitutto, per garantire una fonte di luce autonoma al dipinto; in secondo
luogo, ciò dona a Dio l’aspetto di una visione soprannaturale dai contorni confusi.
Il Padre Eterno è rappresentato immobile, segno della sua eterna essenza divina.
LA VENERE DI URBINO
Ai suoi piedi sta rannicchiato un cagnolino, dipinto con amorevole realismo (lo
stesso del Ritratto di Eleonora Gonzaga Della Rovere), che simboleggia la fedeltà,
facendo da esempio alla sposa del granduca: il messaggio è quello di essere
sensuali, ma solo per il proprio sposo. La dea ha infatti un anello al dito mignolo e
indossa, oltre a un bel bracciale d’oro con pietre preziose, una perla a forma di
goccia come orecchino, simbolo di purezza. I capelli biondi sono acconciati con
una treccia che gira attorno alla nuca, e sciolti sulle spalle, in bei ricci dorati che
hanno la morbidezza tipica delle migliori opere dell’artista. La fisionomia della
donna ricorda quella di altre figure femminili di Tiziano (ad esempio la Bella, il
Ritratto di fanciulla in pelliccia e il Ritratto di fanciulla con cappello piumato) e
forse era un’amante dell’artista che faceva da modella[2].
I toni scuri o freddi dello sfondo fanno inoltre risaltare il calore delle luminose
carni femminili, grazie anche alla presenza della macchia colore rosso nei
materassi scoperti ad arte. In secondo piano vengono rappresentata due ancelle
che cercano i vestiti della dea nel vestiario.
AMBIENTAZIONE
stanza dal pavimento a riquadri, in cui due ancelle stanno frugando in un cassone
i vestiti da far indossare alla dea[2]. Una è infatti inginocchiata a rovistare e l’altra,
con un vestito rosso e un’elegante acconciatura, tiene già un ricco vestito sulla
spalla.
IL MANIERISMO
ROSSO FIORENTINO
IL MANIERISMO
IL BAROCCO
Come “gotico” e “maniera” anche “barocco” nasce come etichetta negativa di una
stagione culturale ormai conclusa di cui si vedevano i tratti dominanti. Ma cosa si
intende per barocco? Il barocco è il superlativo di bizzarro, l’eccesso del ridicolo
(Francesco Milizia) : qualcosa legato alla sfera semantica dell’irregolare, la cui
armonia è confusa, che rimanda alla perla portoghese non sferica che ne ricorda
gli aspetti caratterizzanti. Gli ambiti in cui questa parola bene esprime il suo
concetto sono svariati : dall’architettura, alla scultura, alla pittura, alla musica e
così via : senza dubbio il contesto proprio del termine è la Roma dei primi decenni
del 600, dove questo nuovo gusto figurativo prende forma, per diffondersi poi in
Italia e in Europa, fino alla prima metà del secolo successivo. Ma attenzione : se è
vero che il Barocco prende le distanze nei gusti figurativi rispetto al Rinascimento,
è altrettanto vero che dell’epoca Rinascimentale non cancella tutto : ecco perché
Roberto Longhi parla di portiere notturno del Rinascimento, rifacendosi al
termine, cioè come conclusione di un periodo culturale e figurativo iniziato nei
primi anni del 400 a Firenze. E tutto questo assume una veridicità inconfutabile,
se confrontiamo ad esempio il Bacco di Caravaggio con quello di Michelangelo : in
entrambi i casi c’è il rimando alla classicità e la ricerca di rapporto con
l’interlocutore, attraverso l’offerta della coppa colma di vino. Tuttavia il Barocco
può essere visto anche come fase iniziale dell’arte moderna : si consideri il Bar de
Folies Bergére di Manet, dove questo dialogo con l’interlocutore è reso esplicito, la
cui identità è esplicita da uno specchio posto alle spalle della barista. Ma i
caratteri comuni sono svariati: a partire dalla natura morta, la trasperanza dei
cristalli, il vino in champagne, e così via. Ma il Barocco va visto come
superamento dei confini. Il voler misurarsi a grandi come Michelanzio, Raffaello e
altri delle epoche precedenti.
Il Barocco nasce a Roma, con Annibale Caracci e Caravaggio, che rompono con la
tradizione maniersta e inaugurano una nuova era figurativa, poi portata nel resto
d’Italia e in Europa dai propri seguaci. Il Seicento coincide con la separazione
definitiva delle scienze umane da quelle scientifiche. Ed ecco che c’è lo
smarrimento. Chi nell’entusiamo, accoglie questo nuovo porsi al mondo, chi nella
confusione, si ancora a ciò che fino a quel momento aveva rappresentato le
proprie certezze. Napoli è la città più popolosa della penisola, alla pari di Londra o
Parigi, sebbene i centri culturali maggiori siano Venezia, Roma, Firenze. È un
secolo tumultuoso per la controriforma, ma soprattutto animato dalle guerre :
vedi la guerra dei 30 anni.
Lo sguardo più lucido relativamente al ’600 è quello delle Vite dei pittori, scultori,
architetti di Pietro Bellori, che, sullo sfondo autobiografico principale dell’opera,
analizza i maggiori protagonisti di questa nuova stagione culturale. Bellori vede in
Caravaggio e in Carracci i due artisti di maggiore discontinuità rispetto all’arte
manierista del ‘500; e i confini entro i quali operano questi due artisti è Roma(dal
1595 al 1670), e queste novità poi si diffonderanno nel resto d’ Italia e in Europa.
Nel frattempo In Lombardia era emerso il filone di una pittura semplice, diretta,
che faceva leva sul mondo degli umili piuttosto che al fasto dell’aristocrazia
spagnola o veneziana. Una pittura che sembra rammentare la quotidianità d’un
tempo, il paesaggio puro delle campagne prima dell’assalto delle industrie e del
mercato. Le capitali di questo linguaggio furono Brescia e Bergamo, dove la luce il
colore di Tiziano divennero strumenti di introspezione della realtà medesima,cosi
come si presentava.
IL BACCO
Nella canestra di frutta risalta il modo solenne con il quale le figure delineano gli
spazi, la luce assoluta, nel rappresentare solo ed esclusivamente frutta : ma frutta
rappresentata con la stessa dignità e attenzione riservata ai santi e alle divinità.
La Maddalena pentita invece rappresenta questa fanciulla a sedere su una
seggiola (Bellori) con le mani in seno, dove la sedia, il pavimento la luce sono
quelli dell’umile studio tipico in Caravaggio, che egli non nasconde, anzi risalta
quasi fosse il protagonista vero e proprio dell’opera in sé.
VOCAZIONE DI MATTEO
Nel 1599 Francesco del Monte commissiona a Caravaggio tre tele per la Cappella
Contarelli in San Luigi dei Farnesi, i cui soggetti erano stati fissati molto prima,
nella prima metà del secolo, cioè le storie di San Matteo. Lo schema compositivo
desiderato dall’amministratore di Gregorio XIII(Cointrel) voleva un quadro nel
quale fosse dipinto San Matteo in un magazzino o ver salone nell’atto dei
riscossione dei tributi (forte il legame denaro - Cointrel). Caravaggio risolse
anzitutto il banco dei gabellieri in una tavolata di giocatori, intorno questa branca
di persone, solo buio, sotto il tavolo, sopra le teste, quasi a rappresentare un
desolato scantinato che timandasse allo Sudio dell’artista (come nella
Maddalena). La porta aperta in cima alle scale fornisce qualche spiffero di luce,
che al compagna l’ingresso dei due personaggi : un San Pietro che quasi nasconde
il Cristo, che alza la mano in un silenzio eterno, che si coniuga allo sfondo cupo,
buio dell’opera medesima
IL MARTIRIO DI CARAVAGGIO
Nel Martirio Caravaggio sembra ritrarsi nella zona dei codardi che non fanno
nulla contro il sicario inviato ad uccidere il santo e ancora un secondo San Matteo,
che sull’altare parla con un’angelo impertinente, mentre è in bilico su uno
sgabello. Zucchari vede in Caravaggio una continuità con Giorgione, non solo
perché egli si rifà all’arte del primo 500,ma anche nel rapporto libero nel trattare i
soggetti religiosi.
ASSUNZIONE DI MARIA
Il dipinto fu commissionato nel 1601 dal giurista Laerzio Cherubini per la propria
cappella in Santa Maria della Scala, la chiesa più importante dell’ordine dei
Carmelitani Scalzi a Roma. La scena è inserita in un ambiente umile con al centro
il corpo morto della Vergine, in primo piano la Maddalena, seduta su una
semplice sedia, che piange con la testa tra le mani, e tutt’intorno gli Apostoli
addolorati; l’intonazione cromatica molto scura è illuminata dal rosso della veste
della morta e della tenda, elemento di una scenografia povera. Inoltre, la
composizione degli apostoli, allineati davanti al feretro, forma, in linea col corpo e
col braccio di Maria, una croce perfetta.
Nel 1606 Caravaggio è costretto a fuggire da Roma perché è stato coinvolto in una
rissa che ha portato alla morte di un avversario. Ed ecco che quindi, sullo sfondo
di questo clima di particolari tensione per l’artista, Caravaggio giunge a Napoli, in
Sicilia, a Malta dando inizio a una nuova stagione culturale. Ed ecco che già al
primo soggiorno napoletano, Caravaggio è impegnato nella pala delle Sette Opere
di Misericordia, dipinta per il Pio Monte. È opera dove si fondono diverse
dimensioni, a partire dal mito, e dalla Bibbia fino ad arrivare all’agiografia che
vede un cadavere portato fuori dal carcere e illuminato da una torcia condotto alla
sepoltura. Due pellegrini che si rivolgono ad un oste e un claudicante che chiede
l’elemosina. È una rappresentazione forte nella misura in cui è soggetto di una
pala d’altare la vita di strada, e c’è poi la Madonna, che plana ogni cosa e due
angeli che le stendono un drappo che si confonde con i panni stesi ad asciugare.
Nel 1610 Caravaggio si accinge a tornare a Roma, dopo aver ottenuto la grazia
papale, tuttavia per circostanze non note finisce sulle spiagge del Monte
Argentario vi si ammala e muore a Porto Ercole nel 1610.
Il David con la testa di Golia è un ritratto: dove David non è trionfante, anzi appare
quasi riluttante di ciò che ha compiuto, uccidendo Golia. E Caravaggio da la
propria testa a Golia, pagando la pena capitale inflittagli.
Quando Caravaggio muore, sebbene non avesse lasciato allievi, né una scuola,
nulla, come nota Bellori, la sua rivoluzionaria pittura ha una diffusione talmente
straordinaria da non avere eguali nella storia occidentale. E la fenomenologia di
questa diffusione fu particolarmente variegata : interessò generazioni diverse, da
quelle contemporanee all’artista, a quelle successive. Furono apprezzate le scene
di genere e crudeltà, la pittura di luci e tenebre, il mezzo Busto e così via. Quando
parliamo di Caravaggismo intendiamo quindi diversi autori : da Gentileschi a
Manfredi, fino ad arrivare a Valazquez, dei Bombaccianti e dei fiamminghi
Vermeer e Rembrandt.
GENTILESCHI