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IL RINASCIMENTO

"Come suggerisce il nome, il Rinascimento, che convenzionalmente perdura dal


1400 al 1492, è il secolo della rinascita delle arti, della politica, della società. Il

L’ARTE RINASCIMENTALE METTE L’UOMO AL CENTRO


DELL’UNIVERSO

L’arte nel Rinascimento mette l’uomo al centro di tutte le sue manifestazioni. La


pittura e la scultura mostrano allora attenzione alle espressioni, alle forme e alle
proporzioni del corpo umano; in architettura invece si realizzano edifici in cui lo
spazio interno non è più quello delle grandi cattedrali gotiche, ma al contrario uno
spazio “a misura d’uomo”. Mutano anche i soggetti, perché accanto ai soggetti
sacri si affiancano quelli profani. Si diffonde poi il genere del ritratto: sovrani,
condottieri, papi e uomini di Chiesa, nobili e mercanti, si fanno ritrarre con le loro
famiglie oppure da soli. Lo scopo è quello di mostrare la loro potenza (si fanno
ritrarre con scettri e manti di ermellino), la ricchezza (indossano vesti preziose), il
coraggio (impugnano armi), la pietà religiosa (posano in atteggiamento devoto), il
proprio amore per la cultura.

PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTI SONO CONSIDERATI


ARTISTI E NON PIÙ ARTIGIANI

L’artista prima era considerato un artigiano che imparava le tecniche del maestro.
Ora è un intellettuale, perché oltre a imparare una tecnica, studia l’anatomia, le
scienze, la matematica, la geometria.

SI DIFFONDE L’USO DELLA PROSPETTIVA

L’arte rinascimentale scopre la prospettiva. I quadri del Medioevo appiattivano i


volumi e non davano il senso della distanza e della profondità. Ora le nuove regole
della prospettiva permettono di rappresentare la realtà in tre dimensioni
(lunghezza, larghezza e profondità), così come appare ai nostri occhi. Per un
approfondimento leggi L’invenzione della prospettiva in arte.

L’IMPORTANZA DELLA LUCE

La luce assume un ruolo di grande importanza perché l’artista vuole dare una
rappresentazione fedele della realtà. Utilizza quindi precisi effetti di chiaroscuro:
in tal modo, i volumi sono percepiti in tutta la loro consistenza.
FILIPPO BRUNELLESCHI

Pochi artisti come Filippo Brunelleschi hanno saputo incarnare l’essenza


dell’Umanesimo rinascimentale, spalancando per le arti figurative le porte dell’età
moderna. Racconta Vasari che dai tempi di Andrea Pisano non si metteva più
mano al Battistero di Firenze. Nessuno scultore aveva saputo realizzare i battenti
bronzei della seconda porta dopo quelli fusi all’inizio del Trecento. Ora però i
tempi erano maturi, una nuova generazione di artisti si affacciava sulla scena
toscana e portava un vento carico di talento e di novità. L’Arte di Calimala si
assume l’onere e l’onore di finanziare il nuovo progetto e di invitare i più bravi
scultori a concorrere tra loro per aggiudicarsi il prestigioso lavoro.

Sempre Vasari ci racconta che tra i partecipanti furono “Filippo e Donato, Lorenzo
Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da Colle, Francesco di Valdambrina e
Niccolò d’Arezzo”. Ognuno di loro si cimenta con la storia del sacrificio di Isacco e
subito appare chiaro che la gara è tutta tra Brunelleschi, il giovane, la rivelazione e
Ghiberti, lo scultore già affermato, solido rappresentante della tradizione tardo
gotica.
I consoli faticano non poco a designare il vincitore. Alla fine la scelta ricade sul
Ghiberti, artista d’esperienza, garante della buona riuscita dell’impresa. A
Brunelleschi viene offerto di collaborare con il più maturo maestro Lorenzo ma
egli rifiuta “avendo animo di volere essere più tosto primo in una sola arte, che
pari o secondo in quell’opera”. Già è evidente l’ambizione del giovane che si è
messo in evidenza per la sua perizia tecnica e la sua innovativa energia espressiva
ma che non vuole dividere la gloria con nessuno. Com’è noto Ghiberti realizzerà la
splendida seconda porta bronzea del Battistero mentre Filippo lascerà Firenze per
andare a Roma con l’amico Donatello dove trascorrerà un periodo fecondo di studi
e di totale immersione nell’antichità, dove condurrà la sua appassionata ricerca
filologica sui principi dell’architettura antica, dove scoprirà e riscoprirà le ragioni
matematiche e geometriche della prospettiva, dove in altre parole maturerà
pienamente il concetto di “Rinascita”, propulsore della grande stagione del
Quattrocento fiorentino.

Tornato a casa Filippo si dedica per qualche anno alla scultura affrontando anche
la lavorazione della pietra, l’intaglio del legno e le grandi dimensioni. Ne è un
superbo esempio il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella, realizzato intorno al
1410, in cui traduce nel sacro i principi proporzionali dell’uomo vitruviano; Ma dal
1417 tutta la sua attenzione è catalizzata sul quel vuoto che la sua città ancora non
è riuscito a colmare. L’Opera del Duomo lancia un concorso di idee, diciassette gli
architetti chiamati a trovare una soluzione. La sfida non è soltanto quella di
progettare una cupola immensa ma di trovare le soluzioni tecniche adeguate e
soprattutto di contenere la spesa, il costo delle armature e delle centine rischia
infatti di superare quello delle murature. Era stato lo stesso Brunelleschi a
suggerire di consultare architetti toscani, francesi e tedeschi ma al solo scopo di
rendere ancora più grande la sua impresa, di dare risalto alla sua genialità. Egli
propone una soluzione innovativa: una doppia calotta autoportante costituita cioè
da due cupole, l’una dentro l’altra con un camminamento tra le due e un cantiere
fisso con ponteggi istallati all’altezza del tamburo anziché innalzati dal suolo.
Accorgimenti che consentivano un notevole risparmio sul materiale e rendevano
sicura la permanenza degli operai a quaranta metri d’altezza. L’opera gli darà
affidata nel 1420. Lo affianca Ghiberti ma a tutti è chiaro che solo a lui si devono il
progetto e l’esecuzione della più grande opera architettonica mai condotta dai
tempi dell’impero romano. I lavori proseguono per oltre vent’anni e alla morte di
Brunelleschi, nel 1446, alla cupola manca ancora la lanterna per la quale il
maestro lascia però un modello e precise indicazioni esecutive.

ASPETTO TECNICO DELLA CUPOLA

La capertura a doppia calotta, una particolare muratura a spina di pesce, e il


ricorso a costoloni ogivali di matrice gotica, assai diverso dal formato della cupola
romana per eccellenza, quella del Pantheon.

LA CHIESA DI SAN LORENZO

L’impegno nella fabbrica del Duomo non impedisce a Brunelleschi di lasciare la


sua impronta anche nel resto della città. Santa Maria del Fiore, pur con la nuova
cupola era pur sempre un edificio medievale, la nuova sfida è portare a Firenze
l’antico imparato a Roma.
I progetti di ristrutturazione per le chiese di San Lorenzo e di Santo Spirito
realizzati negli anni venti si basano su strutture di forte impronta classica: lo
spazio interno è scandito in navate sul modello delle basiliche paleocristiane, file
di colonne con eleganti capitelli corinzi sorreggono archi a tutto sesto.

Il soffitto cassettonato della navata centrale si interrompe in prossimità


dell’incrocio dei bracci della croce, su cui si innesta la cupola a spicchi. La visione
prospettica sottolinea l’andamento in direzione dell’altare. A differenza delle
chiese romaniche e gotiche queste sono strutture contenute, bilanciate, non
esageratamente slanciate in altezza. Brunelleschi, pur nelle grandi dimensioni,
crea uno spazio armonico, equilibrato a misura d’uomo. I principi dell’umanesimo
prendono in questi spazi una forma concreta, non sono pensati tanto per esaltare
il divino quanto per calarlo nella dimensione umana.
Equilibrio, proporzione e armonie geometriche guidano la progettazione di
Brunelleschi anche quando deve cimentarsi con piccoli spazi. Nella Sacrestia
Vecchia di San Lorenzo, progettata nel terzo decennio, elabora una soluzione
semplice e geniale al tempo stesso: sulla pianta perfettamente quadrata si innesta
una cupola sorretta da pennacchi e suddivisa in dodici spicchi, lo stesso schema è
ripetuto in dimensioni più piccole nel sacello dell’altare, i due elementi sono uniti
mediante l’elemento dei pilastri angolari e della cornice marcapiano che li
percorre senza soluzione di continuità.

L’idea è ripresa negli anni quaranta nella Cappella de’ Pazzi, in cui l’elemento
dello spazio cubico sormontato da una cupola è ripreso anche nel piccolo elegante
portico antistante.

Nel curriculum di Brunelleschi non mancano gli edifici civili, il più celebre dei
quali assume un vero e proprio valore urbanistico, determinando l’assetto di
un’intera piazza e dando forma tangibile all’idea antica e moderna di bello e utile.
LO SPEDALE DEGLI INNOCENTI: DESCRIZIONE E
SIGNIFICATO

Questo edificio è opera di un minuzioso progetto ideato inizialmente da Filippo


Brunelleschi, a cui si deve il loggiato esterno, e terminato da alcuni collaboratori.
Venne commissionato dall’Accademia della Seta, di cui si trova lo stemma nella
facciata esterna. È il primo orfanotrofio pubblico europeo e ciò si può capire dal
suo nome: il termine spedale infatti deriva dal dialetto fiorentino ed è una forma
aferetica di ospedale, a cui appunto venne tolta la prima lettera. Degli Innocenti
sarebbe da intendersi come dei bambini abbandonati, facendo riferimento biblico
all’episodio della strage degli innocenti. Questo progetto è da considerarsi come
una delle prime architetture rinascimentali, infatti venne costruito a partire dal
1419 e terminato nel 1427. Inoltre contiene al suo interno la maggior parte delle
caratteristiche tipiche di questo periodo ed essenziali anche per la comprensione
di Filippo Brunelleschi.

L’armonioso loggiato esterno maschera alcuni locali: il dormitorio, le cucine, una


chiesa ed il refettorio; tutti si affacciano su un cortile a pianta quadrata. Il loggiato
è lungo 71 metri ed è composto da nove campate aventi archi a tutto sesto e volte a
vela che si innalzano sopra a colonne in pietra serena; quest’arenaria, insieme
all’intonaco bianco, crea un ottimo senso di equilibrio. Il tutto risulta molto
leggero ed elegante grazie alla gradinata da cui è rialzato. Evidenti sono il modulo
ed il rispetto di canoni geometrici che l’artista decise di applicare. Il modulo da
considerare è lungo circa 5,84 metri ed è da calcolare tra i due punti esterni delle
basi delle colonne, si ripete poi nell’altezza delle stesse, dalla base al pulvino, nel
diametro degli archi, nella larghezza del portico e nell’altezza del piano
sovrastante se misurata aldilà del cornicione. Se si dimezza questo modulo si
potranno trovare l’altezza delle finestre ed il raggio delle volte, se infine si
raddoppia si trova l’altezza dal calpestio fino all’inizio delle finestre

MASACCIO

Non sappiamo molto della biografia di questo pittore del ‘400: senza dubbio la sua
fu una carriera fulminea, nella quale egli si fece promotore di nuovi modelli
artistici prontamente saldi all’ epoca quattrocentesca nella quale egli operò. Per
riuscire ad affermarsi in una Firenze ancora perdutamente innamorata del Gotico
Internazionale, Masaccio dovette mettersi in società con con un pittore a lui più
anziano, quale Masolino, e di lì a poco questa collaborazione diede vita a
Sant’Anna Metterza, tipologia iconografica dove veniva raffigurata la Madonna col
Bambino e sant’Anna “messa a fare da terza” o “medesima terza”, cioè dove si
evidenziava il rango della santa come terza in ordine di importanza.

SANT’ANNA METTERZA
Tre angeli reggicortina stendono un drappo preziosamente damascato dietro al
gruppo sacro, che crea uno sfondo piatto, più moderno del completo sfondo oro, e
che crea un piano intermedio, che ha il potere di proiettare verso lo spettatore le
figure, facendole risaltare. In basso si trovano poi due angeli spargi-incenso: le
figure angeliche seguono ancora proporzioni di tipo gerarchico, essendo molto
più piccole delle figure sacre. Il gruppo sacro si trova su un trono, che si può
immaginare composto da due gradoni, con in basso una pedana dove si trova
un’iscrizione dedicatoria alla Vergine. L’iconografia prevedeva che fosse risaltata
maggiormente la figura di sant’Anna, madre di Maria e nonna di Cristo, la quale
deve tenere tra le gambe la Madonna col Bambino, in un gesto protettivo e
confidenziale. La plasticità delle figure della Madonna e del Bambino sono un
vero spartiacque tra l’esperienza gotica anteriore e i futuri sviluppi del
Rinascimento, dove Masaccio riesce per la prima volta a creare delle figure
modellate da un forte chiaroscuro che emergono dal dipinto come se fossero dei
rilievi scolpiti, quali solidi blocchi posizionati in uno spazio preciso. Il chiaroscuro
ne squadra i volumi e blocca, pietrificandoli, gli energici gesti. Si veda ad esempio
la robusta corporatura del bambino, ispirato a un Ercole bambino ancora presente
agli Uffizi (con l’interpolazione di un’espressione vivace ispirata alla quotidianità
tipica delle opere di Donatello) o l’ovale tridimensionale del volto della Madonna,
la cui fisionomia si svincola dalla tradizionale aristocraticità del gotico per creare
una ritratto di madre più viva, presa dalla quotidianità e con un modellato che
riflette la conoscenza della reale struttura ossea.

LA CAPPELLA BRANCACCI

È frutto della collaborazione tra Masaccio e Masolino, alla quale però è da


aggiungersi la mano di Filippino Lippi, chiamato a completare l’opera 50 anni
dopo.

Masolino e Masaccio lavorarono separatamente a scene diverse, pianificando


accuratamente i loro interventi in modo da poter operare contemporaneamente.
Essi usarono un solo ponteggio dipingendo scene contigue, in modo da evitare
una netta separazione tra le loro opere, che avrebbe creato maggior squilibrio
rispetto a una divisione “a scacchiera” come si vede oggi. Sul ponteggio di forma
rettangolare l’uno dipingeva la scena sulla parete laterale, l’altro su quella
frontale, per poi scambiarsi i compiti sul lato opposto. Con questo metodo venne
sicuramente eseguito il registro superiore e forse la parte delle lunette, mentre
l’interruzione dei lavori comportò la mancata applicazione nel registro inferiore.

Una questione molto dibattuta è quella degli aiuti che i due pittori offrirono
reciprocamente in scene destinate all’altro. Alcuni studiosi tendono ad escluderle,
altri, basandosi su confronti stilistici, le sottolineano. Per esempio si attribuiva in
genere a Masaccio lo schema prospettico della Guarigione dello storpio e
resurrezione di Tabita, identico a quello del Tributo, ma forse venne elaborato da
entrambi. A Masaccio sono attribuite le montagne realistiche nella Predica di San
Pietro, come mai ne dipinse in lavori successivi, mentre a Masolino è stata
attribuita la testa del Cristo nel Pagamento del Tributo, dolcemente sfumata come
quella dell’Adamo masolinesco nella Tentazione di Adamo ed Eva. L’opera rimase
incompiuta, anche per l’esilio di Felice Brancacci nel 1436, a causa del suo
schierarsi nel partito avversario a Cosimo de’ Medici. Solo con la riammissione
della famiglia Brancacci a Firenze, nel 1480, la decorazione della cappella poté
essere portata a termine incaricando Filippino Lippi, che oltre che essere un
artista di spicco era adatto all’incarico anche perché figlio di Fra Filippo, uno dei
primissimi allievi di Masaccio. Filippino cercò di temperare il suo stile, adeguando
la sua tavolozza alla cromia degli affreschi più antichi e mantenendo la solenne
impostazione delle figure, per non rompere l’omogeneità dell’insieme.
Nonostante ciò il suo stile appare oggi facilmente riconoscibile, poiché
improntato a un chiaroscuro più maturo e dotato della linea di contorno che è
tipica dello stile intellettualistico del Rinascimento all’epoca di Lorenzo il
Magnifico e che è opposto alla pittura “di getto” fatta di veloci stesure di colore e
luce di Masaccio. Masolino è di solito inquadrato come continuatore della pittura
tardogotica, o tutt’al più come figura di transizione, mentre Masaccio applica più
rigorosamente le nuove idee che furono alla base della rivoluzione rinascimentale:
definizione spaziale precisa, individuazione psicologica degli individui raffigurati
e riduzione all’osso degli elementi decorativi. Tutto questo è evidente nella
Cacciata dal Paradiso terrestre, dove operarono sia Masaccio che Masolino.
Masolino infatti propone un Adamo ed Eva fortemente ancorati alla
bidimensionalità generali della raffigurazione, che sembrano quasi galleggiare in
uno sfondo neutro, dal quale emerge un albero con il serpente dalla testa umana,
in Masaccio invece c’è una quanto mai più evidente tridimensionalità delle figure,
che si coglie dalle ombre, e dalli quali si percepisce un evidente stato angoscioso,
turbato del proprio animo, che invece è inesistenza nella posa composta, assente
dell’Adamo ed Eva del Masolino.

IL TRIBUTO

La scena è scandita in tre momenti, tripartita: Al centro c’è Cristo, accerchiato


dagli apostoli che invita Pietro ad andare a pescare la moneta necessaria per
entrare in città dalla bocca di un pesce, a sinistra Pietro che svolge l’ordine, e a
destra Pietro che paga l’imposta. Prospettiva che si coglie dagli alberi che seguono
proporzionalmente la distanza dell’occhio, e tridimensionalità che si coglie
dall’architettura generale dell’edificio, che richiama lo stile del Brunelleschi.

LA CROCIFISSIONE DI CAPODIMONTE

La tridimensionalità è esplicitata nel gesto della piangente Maddalena, umanità


della scena nel raffigurare Cristo quasi senza collo, a sottolineare il sottinsu della
testa senza vita.

LA TRINITÀ

L’immagine dipinta ne La Trinità di Masaccio raffigura una nicchia all’interno


della quale si trova una scena con una crocifissione. Sotto di essa inoltre è
rappresentato un sarcofago con uno scheletro appoggiato al di sopra. Al centro
viene rappresentata la Santissima Trinità e a fianco sono dipinti i coniugi oranti.
L’architettura che incornicia la scena è composta da un arco classico sostenuto da
due colonne con capitello. Esternamente ai lati delle colonne inoltre sono
raffigurate due paraste con capitello corinzio. Infine all’interno del vano dove è
rappresentata La Trinità è presente una volta a botte con lacunari.

Al suo interno Cristo è sulla croce. Dio Padre, al di sopra, sostiene il corpo. Tra di
loro si libera lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca. In basso, a sinistra
Maria indica il Figlio crocifisso. A destra invece San Giovanni guarda Gesù con
un’espressione sofferente. In basso all’esterno del vano, di fronte alle paraste sono
raffigurati i due committenti. Sono inginocchiati ed in preghiera a sinistra il
marito e a destra la moglie interamente coperta da un velo blu. Alla base
dell’affresco sopra lo scheletro dipinto, deposto sul finto sarcofago, compare una
scritta. L’iscrizione latina invita l’osservatore a meditare sull’ineluttabilità della
morte e si definisce un “memento mori” (ricordati che devi morire). La scritta
recita: IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE

La narrazione parte dal basso, dallo scheletro appoggiato sul sarcofago. Questo
scheletro che rappresenta la morte dalla quale ci si può salvare elevandosi verso
Dio Padre. Infatti è attraverso la preghiera simboleggiata dai committenti che si
ottiene la fede necessaria per conquistare la vita eterna. Maria indica con la mano
il Figlio cioè colui che ha tracciato la via da seguire. Attraverso l’esempio di Cristo
e lo Spirito Santo si giunge così a Dio padre che concede la salvezza.

DONATELLO

nasce a Firenze nel 1386, si forma nella bottega del Ghiberti e nell’ambito dei
cantieri del Duomo, e probabilmente è qui che conosce e diventa amico di Filippo
Brunelleschi. Donatello insieme a Brunelleschi compie il suo primo viaggio a
Roma: qui ammira da vicino le opere scultoree della tradizione classica. L’attività
artistica principale di Donatello si svolge a Firenze ma lavora anche a Pisa e a
Prato, in cui esprime la sua arte attraverso il Pulpito del Duomo, e lavora alla
decorazione del Battistero e del Duomo di Siena.

perché fu il primo a superare la tradizione scultorea greco-romana, dando ai


personaggi umanità, introspezione psicologica e i valori dell’uomo,
sperimentando tutte le tecniche e materiali possibili.

IL DAVID

A 22 anni Donatello riceve la sua prima e importante commissione per l’abside di


Santa Maria del Fiore: deve realizzare in marmo una statua di David. La statua del
David marmoreo, terminata un anno dopo, resta inutilizzata nei magazzini; solo
nel 1416 viene trasportata nel Palazzo della Signoria a Firenze (oggi si trova al
Museo del Bargello). Nel David sono presenti elementi gotici che si ritrovano nella
linea falcata della figura e nell’atteggiamento. Le braccia sono
sproporzionatamente lunghe, una mano è posta sul fianco e l’altra è portata in
avanti che sfiora la gamba che è più in avanti rispetto all’altra. Inoltre l’anatomia
non è sviluppata con precisione ma nella figura si avverte ugualmente la volontà
di conferirle energia e vita. L’opera si presenta naturale nella vivacità e nella
morbidezza: le guance morbide, i grandi occhi la bocca piccola e il mento
appuntito.

SAN GIORGIO

Nel 1415 circa l’Arte dei Corazzai e Spadai commissiona a Donatello la


realizzazione della statua di San Giorgio, loro santo protettore, per le nicchie
esterne della chiesa di Orsanmichele.

Il San Giorgio, eseguito tra il 1416 e il 1420, rappresenta un nuovo modo di


concepire e realizzare la figura nello spazio. Il corpo è perfettamente
proporzionato e articolato, ed è dotato di una naturalezza di gesti e di forme quale
non si vedeva dall’epoca classica. Le gambe sono divaricate e costituiscono una
solida base mentre il busto e la testa sono lievemente ruotati rispetto all’asse
centrale. San Giorgio ha le mani poggiate sullo scudo: una linea dal piede a destra
sale allo scudo alla mano stesa poi a quella posata in alto per raggiungere il
braccio, il gomito, la spalla e la testa formando una specie di spirale che attraversa
la statua e le toglie staticità. La figura appare compatta nelle sue forme legate
attraverso uno schema rigoroso, l’opera è eccezionale soprattutto per la resa
dell’anatomia e per le proporzioni impeccabili.

Nel proporre questa bellezza scontrosa come modello per un eroe, Donatello
affermò una delle sue più profonde convinzioni: la grandezza degli antichi si
ritrovava nel popolo che per coraggio dignità e sentimento concreto della vita era
degno di interpretare i valori di quello straordinario passato, l’artista trasformava
così i popolani in santi ed eroi perché nella gente comune identificava le virtus
degli antichi.

Nel basamento del San Giorgio Donatello ha rappresentato in un bassorilievo San


Giorgio e il drago. Nella lastra Donatello ha esemplificato i risultati sulle sue
riflessioni sullo spazio: egli credeva molto nelle forme sperimentali e in questo
bassorilievo ha interpretato la prospettiva creando un abisso di atmosfera e di luce
dal quale affiorano le forme. Lo scultore in un sapiente stiacciato ha evocato la
profondità e ha definito i volumi. Per suggerire il movimento e il senso dell’azione
ha rinunciato a realizzare figure e ambienti con precisione: cavallo e cavaliere
sono leggermente abbozzati e il drago quasi una massa indistinta si contrae sotto
l’urto della lancia. Sullo sfondo è presente un paesaggio: l’edificio ad archi e gli
alberi appena rilevati che si vedono in lontananza e nella proporzionata
composizione.

BANCHETTO DI ERODE

Erode è un rilievo in bronzo dorato realizzato da Donatello (in collaborazione con


Ghiberti e Jacopo della Quercia) tra il 1423 e il 1427 per la fonte battesimale del
Battistero di Siena. La formella rappresenta il momento in cui viene mostrata al
tetrarca Erode la testa mozzata di Giovanni Battista. La composizione, complessa
e ricca di figure, si muove su due registri: quello emotivo e quello razionale.
Analizziamo gli atteggiamenti: Erode si ritrae davanti al vassoio con la testa
recisa, Salomè avanza ondeggiando, la figura in secondo piano si copre il volto con
una mano. Razionale è l’impianto della scena in cui la prospettiva dà ordine e
proporzione a figure ed eventi, una prospettiva che a differenza del San Giorgio
non si stempera per dar risalto alla drammaticità dell’episodio, ma si definisce con
evidenza.

L’impianto prospettico divide la scena in due parti: la prima definita da un muro


su cui si impostano archi a tutto sesto con l’evento principale, la seconda in cui si
vedono in lontananza figure e ambienti con scene di diversa natura. Sul fondo,
entro l’arco, un personaggio porta su un vassoio la testa del Battista che si vede
anche in primo piano, si tratta di un momento anteriore rispetto alla
rappresentazione principale della scena.

IL DAVID IN BRONZO

Il David in bronzo, realizzato da Donatello per Cosimo de Medici nel 1440,


rappresenta il giovane che decise la vittoria degli ebrei contro i filistei uccidendo il
gigante Golia con un sasso scagliato dalla sua fionda. La statua richiama le forme
classiche e con Donatello il nudo riacquista il significato di purezza ideale: l’eroe è
nudo perché difeso solo dal suo coraggio. Il nudo, quindi, ritorna sulla scena
artistica dopo secoli di oblio, ed è un ritorno di grande significato che si oppone al
concetto di nudo medievale (simbolo del peccato) e ripropone la struttura
anatomica e proporzionale del corpo umano.

Il David, che secondo alcuni studiosi rappresenterebbe invece Mercurio, ha le


sembianze di un adolescente acerbo e spigoloso, ha tratti del viso plebei, indossa
uno strano cappello ornato di un serto d’alloro, gambali e sandali decorati da
motivi classici. Inoltre, ai suoi piedi si trova la testa del gigante, sulla visiera
dell’elmo è rappresentata una biga trainata da putti; il cappello a larga tesa, la
corona d’alloro e la testa di Golia sono serviti allo scultore per ombreggiare il viso
dell’eroe e per creare una zona d’ombra alla base della statua. Pur nello stato di
riposo il David riesce ad esprimere energia, ancora un omaggio agli antichi è la
tecnica del bronzo con la quale è stata realizzata la statua.

IL CROCIFISSO

Il Crocifisso di Santa Croce di Donatello è una scultura in legno policromo


(168x173 cm), attribuita al 1406-1408 circa e conservata nella Cappella Bardi di
Vernio in capo al transetto sinistro Santa Croce a Firenze.

Secondo un aneddoto raccontato da Giorgio Vasari nelle sue Vite, pubblicate nella
loro seconda edizione nel 1568, Donatello chiese a Filippo Brunelleschi (1377-
1446), che era suo grande amico di esprimere un suo parere in merito a
quest’opera, «parendogli aver fatto una cosa rarissima»; e questi, ruvido e schietto
come suo solito, gli rispose che quel Cristo gli sembrava un contadino. Donatello
ovviamente si offese e commentò che è molto più facile criticare che fare. Sicché
Filippo scolpì a sua volta un crocifisso, identificato dal Vasari nel Crocifisso di
Santa Maria Novella, e lo mostrò a Donatello, il quale umilmente affermò: «a te è
conceduto fare i Cristi, et a me i contadini».

I due crocifissi sono in effetti molto diversi, sia nell’impostazione sia


nell’interpretazione del soggetto. Il Cristo donatelliano presenta caratteri gotici
evidenti, come l’andamento sinuoso del perizoma e l’eccessivo allungamento
delle membra; è costruito secondo un asse centrale, come se la figura fosse eretta,
e richiede un punto di vista frontale. Allo stesso tempo, tuttavia, il suo
naturalismo è senza precedenti, soprattutto nel volto, rappresentato nel momento
dell’agonia con gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta. È chiaro che Donatello si
concentrò sulla sofferenza e l’umanità del Cristo, assecondando il gusto dei
committenti francescani. Il Crocifisso brunelleschiano presenta invece un
modellato dolcissimo e il suo volto, reclinato senza stanchezza, mostra
un’espressione priva di pathos. Il corpo ruota verso la propria destra, consentendo
numerosi angoli visuali. L’altezza, che coincide con la larghezza delle braccia, ne
fa il primo mirabile esempio di homo ad quadratum rinascimentale, costruito
secondo i dettami vitruviani.

LA PITTURA FIAMMINGA

Le caratteristiche principali dell’arte fiamminga sono:

Uso dei colori ad olio

• Spazialità unificata tramite la luce


• Visione particolareggiata della realtà
• Gusto per il miniaturismo
• Ritratti con posa di tre quarti

I colori a olio, già conosciuti dall’antichità e utilizzati sicuramente nel Basso


Medioevo, avevano alcuni difetti poiché asciugavano male rimanendo a lungo
appiccicosi; inoltre le vernici utilizzate alteravano la cromia desiderata scurendo o
sbiadendo.

I fiamminghi nel XV secolo perfezionarono e svilupparono la tecnica della pittura


ad olio ponendo rimedio a questi e ad altri inconvenienti. Al contrario della
tempera che asciugava rapidamente e permetteva di effettuare sfumature e
passaggi di toni solo con molta difficoltà, i colori nel nuovo legante oleoso si
lasciavano sfumare uno nell’altro più facilmente, rendendo possibile il procedere
per successive velature, cioè per strati di colore più o meno trasparenti, che
rendevano il dipinto brillante e lucido permettendo di definire la diversa
consistenza delle superfici fin nei più minuti particolari. Le pitture così realizzate
inoltre non abbisognavano più di essere verniciate come in passato.
L’uso del legante oleoso non può però spiegare da solo la rinascita artistica
fiamminga legata alla resa della luce ed al suo manifestarsi sulle più diverse
superfici, certi esiti si riscontrano infatti anche in opere prodotte con tecniche
diverse, come ad esempio le miniature. Gli studi condotti durante il restauro del
Polittico dell’Agnello mistico e di molte altre opere del periodo hanno permesso di
chiarire solo in parte le circostanze tecniche con cui le migliori opere fiamminghe
vennero prodotte. Il procedimento si può grosso modo riassumere così: il pittore
tracciava innanzitutto sull’imprimitura bianca un disegno sommario e
suscettibile di variazioni seguito da un abbozzo del modellato; su di esso stendeva
poi una tinta di base (detta mestica) che rappresentava il colore medio delle tinte,
sulla quale iniziava a lavorare il chiaroscuro; ogni figura veniva quindi ripresa con
strati successivi di velature lievemente chiaroscurate, in numero e spessore assai
variabili a seconda degli effetti desiderati.

Da registrare la sostanziale assenza nella pittura fiamminga di affreschi, tecnica


che pure tanta parte ha avuto nella storia della pittura europea. Questo fatto è
spiegato in primo luogo con la circostanza che molti dei caratteri costitutivi della
pittura fiamminga sono intrinsecamente connessi alla pittura ad olio e sono
difficilmente riproducibili nella pittura ad affresco. Altra causa di questo
fenomeno sta probabilmente nella consuetudine di affidare, in quell’era, la
decorazione parietale agli arazzi piuttosto che a pitture ed infatti nelle Fiandre si
eccelse in questa pratica, non solo per la parte strettamente tessile, ma anche
nella stesura dei cartoni preparatori. Molti dei maggiori artisti di area
nederlandese affiancavano abitualmente alla pittura di cavalletto la preparazione
di cartoni d’arazzo. Sia pure eccezionali tuttavia non mancano buone prove di
artisti fiamminghi nella tecnica ad affresco: ne costituisce un esempio Michael
Coxcie che nella chiesa romana di Santa Maria dell’Anima affrescò due cappelle
(delle quali una sola si è conservata) con dipinti che la critica antica e moderna ha
giudicato di buona fattura.

LA LUCE

In maniera analoga ai pittori toscani contemporanei, anche i fiamminghi


svilupparono un interesse verso la realtà e la rappresentazione naturalistica.
Anche in questo caso le ricerche si mossero a partire dai canoni dell’arte
tardogotica, e ben presto i fiamminghi, in particolare Van Eyck, seppero arrivare a
una completa integrazione tra figure e paesaggio, dove la luce è l’elemento che
unifica tutta la scena, delineando con incisività scrupolosa tanto le figure
principali quanto i singoli oggetti di corredo. Andava così perdendo di interesse la
spazialità sospesa e astratta delle raffigurazioni tardogotiche, dove tutto
concorreva a dare un’apparenza da favola o da balletto ben architettato.

Lo spazio dei fiamminghi è molto diverso anche dallo spazio degli italiani,
improntato alla prospettiva lineare centrica. Gli italiani usavano infatti un unico
punto di fuga posto al centro dell’orizzonte, dove tutto è perfettamente strutturato
ordinatamente, con rapporti precisi tra le figure e un’unica fonte di luce che
definisce le ombre. Secondo questa impostazione lo spettatore resta tagliato fuori
dalla scena e ne ha una visione completa e chiara.
Per i fiamminghi invece lo spettatore è incluso illusoriamente nello spazio della
rappresentazione, tramite alcuni accorgimenti quali l’uso di più punti di fuga (tre,
quattro) o di una linea dell’orizzonte alta, che fa sembrare l’ambiente “avvolgente”
o in procinto di rovesciarsi su chi guarda. Lo spazio è quindi tutt’altro che chiuso e
finito, anzi spesso si aprono finestre che fanno intravedere un paesaggio lontano,
o, come nel celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, possono essere
addirittura presenti specchi che raddoppiano l’ambiente, mostrando le spalle dei
protagonisti.

La luce dei fiamminghi inoltre non è selettiva, cioè illumina con la stessa
attenzione l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e facendo da medium
per unificare tutta la rappresentazione. Vengono sfruttate più fonti luminose, che
moltiplicano le ombre e i riflessi, permettendo di definire acutamente le diverse
superfici: dal panno alla pelliccia, dal legno al metallo, ciascun materiale mostra
una reazione specifica ai raggi luminosi (il “lustro”).

L’UOMO

l’uomo non può essere il centro del mondo, come teorizzavano gli umanisti, anzi è
solo una parte del ricchissimo Universo, dove non tutto è riconducibile al
principio ordinatore della razionalità. Se da una parte i gesti e le azioni dell’uomo
non hanno quella forza culturale di fare “storia”, dall’altra i singoli oggetti
acquistano importanza nella raffigurazione, ottenendo una forte valenza
simbolica che può essere letta su vari strati

RITRATTO CON POSA DI TRE QUARTI

I fiamminghi, inoltre, inventarono un altro modo di visualizzare il personaggio:


non di profilo, non frontale, ma a tre quarti, appunto. Questo cambiamento nella
rappresentazione del punto di vista, permette all’osservatore di cogliere maggiori
informazioni della fisionomia di uno stesso volto. Adesso la posa del volto è a tre
quarti, girato quindi a sinistra o destra guardando un punto vuoto.

IL PALAZZO DUCALE E LO STUDIOLO

Il progetto più ambizioso di Federico da Montefeltro, uomo coltissimo e raffinato,


fu la costruzione del Palazzo Ducale e di pari passo, la sistemazione urbanistica di
Urbino, facendone la città “del principe”. Prima degli interventi di Federico, la
residenza ducale era un semplice palazzo sul colle meridionale, al quale si
aggiungeva un vicino castellare, sull’orlo del dirupo verso la Porta Valbona.

LO STUDIOLO
Lo Studiolo di Federico da Montefeltro è uno degli ambienti più celebri del
Palazzo Ducale di Urbino, poiché oltre che essere un capolavoro di per sé, è l’unico
ambiente interno del palazzo ad essere rimasto pressoché integro, permettendo di
ammirare il gusto fastoso della corte urbinate di Federico. Venne realizzato tra il
1473 e il 1476, da artisti fiamminghi appositamente chiamati a corte dal Duca. Con
loro operarono vari artisti italiani, tra cui forse anche il celebre Melozzo da Forlì.

Lo studiolo si trova al piano nobile del palazzo ed era lo studio privato del Duca. Il
soffitto è a cassettoni dorati con le imprese ducali. I colori smaglianti e i continui
rimandi tra architettura reale e fantastica dovevano creare nello spettatore un
effetto di grande meraviglia.

Le pareti sono coperte da tarsie lignee tuttora in situ, che creano effetti
illusionistici di continuazione dell’architettura.

Le tarsie sono attribuite a vari autori, come Giuliano da Maiano e, per i disegni,
Botticelli, Francesco di Giorgio Martini e il giovane Donato Bramante. Spiccano
però le tarsie attribuite a Baccio Pontelli[1] e caratterizzate dalle complesse
costruzioni prospettiche di oggetti geometrici, che creano un continuo scambio
tra realtà e finzione, dilatando lo spazio della stanza altrimenti minuscola.

Lo schema della decorazione lignea prevede nella parte superiore un alternarsi di


sportelli semiaperti, che rivelano armadi con oggetti, e di nicchie con statue;
segue una fascia sottostante con fregi di vario genere sotto ciascun pannello,
mentre la parte inferiore imita degli stalli, con assi appoggiate sopra, sulle quali
sono disposti strumenti musicali ed altri oggetti, mentre lo sfondo degli stalli è
composto da grate magistralmente eseguite, pure imitanti degli sportelli aperti o
chiusi.

Gli oggetti ritratti negli armadi alludono ai simboli dell’Arti, ma anche alle Virtù
(la mazza della Fortezza, la spada della Giustizia, ecc.), come se l’esercizio delle
prime aprisse la strada alle seconde. Spesso le finte architetture delle tarsie
attenuano le irregolarità della stanza.

In origine le pareti erano decorate nella parte superiore da un fregio contenente


ventotto ritratti di Uomini illustri del passato e del presente, disposti su due
registri, opera di Giusto di Gand e Pedro Berruguete, del 1473-1476 circa.
Quattordici di questi ritratti originali sono oggi al Museo del Louvre, al quale sono
pervenuti a seguito delle note spoliazioni napoleoniche e mai più restituiti. Gli
altri quattordici sono ancora in loco nello stesso ambiente per il quale sono stati
pensati. I ritratti, che comprendevano sia personaggi civili che ecclesiastici,
cristiani e pagani, erano concepiti da un punto di vista leggermente ribassato e su
di uno sfondo unificante, così da creare l’impressione prospettica di una galleria
reale. Purtroppo l’effetto complessivo è alterato poiché gli originali sottratti in
epoca napoleonica sono oggi rimpiazzati da copie di minor valore.

ARCHITETTURA PALAZZO
Il palazzo in sé è un eccezionale esempio di architettura gotico-rinascimentale
veneziana, costruito nelle forme attuali a partire dal Trecento su edifici e strutture
militari medievali preesistenti. Benché un Palazzo Ducale (che in effetti fu
sempre, oltre che residenza ufficiale dei Dogi, anche sede del governo e tribunale
della Repubblica) già esistesse probabilmente nel nono secolo, l’edificio che
vediamo oggi prese forma principalmente nel tardo Medioevo e nel Rinascimento.

Il complesso palatino è formato da tre corpi principali. L’ala più antica, che
accoglie anche l’imponente Sala del Maggior Consiglio, è quella affacciata su
Canal Grande, costruita a partire dal 1340. Il corpo che si apre su Piazza San Marco
venne realizzata nel 1424. L’ala che ospita gli appartamenti del Doge venne invece
edificata tra il 1483 ed il 1565, in questo lasso di tempo fu anche completamente
rinnovato il grande cortile monumentale.

PIERO DELLA FRANCESCA

IL DITTICO

I due dipinti sono oggi separati, ma anticamente collegati da un’unica cornice. La


pittura su entrambe le parti farebbe infatti pensare a un oggetto privato, piuttosto
che a un ritratto pubblico da appendere, o magari fu richiesto da Federico stesso
come ricordo dell’amatissima moglie, come sembra suggerire anche un certo tono
malinconico dell’opera.

I sovrani sono raffigurati di profilo, come nelle medaglie, in un’immobilità


solenne, sospesi in una luce chiarissima davanti a un lontano e profondo
paesaggio a perdita d’occhio, che accentua le figure in primo piano.
L’infinitamente lontano e l’infinitamente vicino (rappresentato dalla cura dei
particolari nei ritratti) sono mirabilmente fusi, dando origine a una realtà
superiore e ordinata, dominata da leggi matematiche che fanno apparire gli esseri
umani non più come mortali ma come idealmente eterni, grazie alla loro
superiorità morale. Nel paesaggio la luce è calda, tanto da arrossare le curve dei
colli.

Le effigi si ispirano ai cammei tardo-imperiali e ai dittici consolari in avorio: non a


caso la doppia iscrizione inizia con “Clarus” e finisce con “Virorum”, rievocando le
tipiche iscrizioni del “vir clarissimus” romano. La luce è unica e proviene alle
spalle di Federico.

IL RITRATTO DI BATTISTA

Il ritratto di Battista ha una colorazione chiara, con la pelle di un candore ceruleo


come imponeva l’etichetta del tempo: una pelle chiara era infatti segno di nobiltà,
in contrapposizione all’abbronzatura dei contadini che dovevano stare all’aperto.
La fronte è altissima, secondo la moda del tempo che imponeva un’attaccatura
molto alta (con i capelli che venivano rasati col fuoco di una candela), e
l’acconciatura elaborata, intessuta di panni e gioielli. Piero, al pari dei
fiamminghi, si soffermò sulla brillantezza delle perle e delle gemme, restituendo,
grazie all’uso delle velature a olio, il “lustro” (riflesso) peculiare di ciascuna
superficie, a seconda del materiale.

IL RITRATTO DI MONTEFELTRO

Il ritratto di Federico è invece più naturalistico: la sua figura è possente,


incorniciata dal forte rosso della veste e della berretta, che isola il profilo, mentre
l’ispida calotta dei capelli accentua gli effetti di massa volumetrica. I capelli sono
irsuti, lo sguardo fiero e lontano. Il naso adunco e rotto era una cicatrice ottenuta
durante un torneo in cui aveva perso anche l’occhio destro: per questo si faceva
sempre ritrarre di profilo sinistro. La pelle è dipinta nei minimi particolari con
distaccata oggettività, dalle rughe e ai piccoli nei, riprendendo i modi dell’arte
fiamminga. La corte di Federico dopotutto proprio negli anni sessanta del
Quattrocento viveva l’apice del suo splendore, con artisti italiani e fiamminghi che
lavoravano fianco a fianco influenzandosi reciprocamente.

I trionfi (carri allegorici) erano un tema caro agli umanisti, perché rievocavano il
mondo dell’Antica Roma ed erano carichi di suggestioni letterarie derivate
dall’opera del Petrarca.

Federico è ritratto sul carro trionfale trainato da due cavalli bianchi, mentre una
Vittoria alata lo incorona d’alloro. Nella parte anteriore del carro siedono le
quattro Virtù cardinali: Giustizia (frontale, con spada e bilancia), Prudenza (di
profilo, con lo specchio), Fortezza (con la colonna spezzata) e Temperanza (di
spalle). Un amorino poi guida i cavalli, anche se è chiaro come l’ordine pervenga
da Federico stesso, che, vestito dell’armatura, impugna il bastone del comando,
evidenziato dal prolungamento della linea orizzontale tramite una strada nello
sfondo. L’iscrizione in lettere capitali romane esalta le virtù del sovrano: "CLARVS
INSIGNI VEHITVR TRIVMPHO QVEM PAREM SVMMIS DVCIBVS PERHENNIS
FAMA VIRTVTVM CELEBRAT DECENTER SCEPTRA TENENTEM (È portato in
insigne trionfo quell’illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra
degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri).

Il trionfo di Battista esalta invece le virtù coniugali: essa è colta durante la lettura,
con le tre Virtù teologali della Carità (vestita di nero con in grembo il pellicano,
simbolo di sacrificio materno che dona le proprie stesse carni per la sopravvivenza
dei figli), la Fede (vestita di rosso col calice e l’ostia), la Speranza (di spalle) e una
quarta virtù, la Temperanza (frontale). Un amorino guida due liocorni, simbolo di
castità. L’iscrizione recita: “QVE MODVM REBVS TENVIT SECVNDIS CONIVGIS
MAGNI DECORATA RERVM LAVDE GESTARVM VOLITAT PER ORA CVNCTA
VIRORVM” (Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola
su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito).

Le iscrizioni celebrative sono pienamente autografe di Piero, come ha evidenziato


Clark confrontando il carattere usato con quello delle firme su altri dipinti.

Il paesaggio è di chiara derivazione fiamminga, dove la foschia schiarisce le cose


più lontane (prospettiva aerea) e il cielo sfuma verso l’orizzonte, come all’alba.
LA MADONNA DI SENIGALLIA

La scena mostra una Madonna stante col Bambino tra due angeli, all’interno di
un’abitazione. Il taglio del dipinto è insolito e mostra i protagonisti come mezze
figure, tagliate dal margine inferiore del dipinto. Il Bambino, in atto di benedire,
tiene in mano una rosa bianca, simbolo della purezza della Vergine, mentre al
collo ha una collana di perle rosse con un corallo, un simbolo arcaico di
protezione degli infanti, che nel caso delle scene sacre acquistava anche un valore
di premonizione della Passione per via del colore rosso-sangue.

Gli angeli, dalle tenui vesti di colore grigio e rosa salmone, sono fedelmente ripresi
dalla Pala di Brera, tanto che alcuni ipotizzano l’intervento di allievi che
copiarono le fisionomie dell’opera precedente.

Sullo sfondo si vede a destra un armadio a muro con mensole inquadrato da una
cornice scolpita con una candelabra, come ne esistevano nel Palazzo Ducale di
Urbino (sebbene non ne ritragga nessuna in particolare), mentre a sinistra si apre,
alla maniera fiamminga, un altro ambiente da dove proviene un doppio raggio di
sole tramite una finestra aperta, rifrangendosi sulla parete ombrosa non prima di
aver illuminato il pulviscolo atmosferico lungo la traiettoria. La luce disegna poi
riflessi sui rilievi della decorazione della nicchia, sulle piccole nature morte del
cestello con il panno di lino e della scatola cilindrica d’avorio nell’armadio, e poi
nei capelli, nelle vesti e nei gioielli dei quattro protagonisti. Marchi scrisse: “come
in nessun’altra opera di Piero la luce vi svolge un ruolo fondante”[3]. La luce, che
attraversa il vetro a rondelle senza romperlo, è anche una metafora del mistero
dell’Incarnazione[4], che attraversa il corpo di Maria, nella concezione e nel parto,
senza violarlo.

La mancanza di punti di appoggio tra le figure e lo spazio impedisce di


determinare la distanza reciproca, facendo apparire i protagonisti vicinissimi allo
spettatore.

Nonostante la ricchezza di analogie con la Pala di Brera, la Madonna di Senigallia


ha un carattere molto diverso, più intimo, con l’allusione alla camera dal letto
dell’Incarnazione (presente tradizionalmente nelle raffigurazioni
dell’Annunciazione). Di derivazione fiamminga sono anche l’uso del legno di noce
al posto del consueto pioppo, la tecnica pittorica con un largo uso di leganti oleosi,
nonché i delicati effetti materici nella pittura, come il velo sulla testa della
Madonna, le luccicanti rotondità dei gioielli degli angeli e le pieghe plastiche e
luminose dei panneggi.

LA PALA MONTEFELTRO

La pala di Brera è esemplare delle ricerche prospettiche compiute dagli artisti del
centro Italia nel secondo Quattrocento. Si tratta di un’opera monumentale, con un
trattamento magnifico della luce, astratta e immobile, e un repertorio
iconografico di straordinaria ricchezza. Innanzitutto sono inconsuete sia le
dimensioni sia l’assenza di scomparti laterali, come nei tradizionali polittici,
risultando la prima Sacra Conversazione sviluppata prevalentemente in verticale:
numerose tavole da altare, in tutta l’Italia centrosettentrionale, vi si ispirano.

L’opera presenta al centro la Madonna in trono in posizione di adorazione, con le


mani giunte verso Gesù Bambino addormentato sul suo grembo. La sua figura
domina la rappresentazione e il suo volto è il punto di fuga dell’intera
composizione. Il trono si trova poggiato su un prezioso tappeto anatolico, un
oggetto raro e prezioso ispirato a dipinti analoghi dell’arte fiamminga.

Attorno vi è una schiera di angeli e santi. La particolare disposizione del gruppo


sacro centrale è rara, ma è documentata già nella bottega muranese dei Vivarini o
in un polittico di Antonio da Ferrara presente nella chiesa urbinate di San
Donato.La posizione venne probabilmente scelta dal committente per il
collegamento con un sentimento a lui caro, la pietà filiale. In basso a destra si
trova, appunto, inginocchiato e in armi, il duca Federico. Fa da sfondo alla
composizione l’abside di una chiesa dalla struttura architettonica
classicheggiante.

Il Bambino porta al collo un ciondolo di corallo che cela rimandi al rosso del
sangue, simbolo di vita e di morte, ma anche della funzione salvifica legata alla
resurrezione di Cristo. La stessa posizione addormentata era una prefigurazione
della futura morte sulla croce.

Federico è esposto più all’esterno, fuori dall’insieme degli angeli e dei santi, come
prescriveva il canone gerarchico dell’iconografia cristiana rinascimentale.

L’impianto prospettico del dipinto converge in un unico punto di fuga centrale,


collocato all’altezza degli occhi della Vergine il cui volto ovale si pone
perfettamente in linea con l’uovo di struzzo che pende dal catino absidale, di cui
riproduce la forma perfetta. L’armonia della composizione è ottenuta attraverso la
ripetizione di un modulo circolare: la volta a botte in alto, lo sfondo scandito da
pannelli di marmo e i santi disposti intorno alla Vergine sottolineano la struttura
semicircolare dell’abside.

I santi ai lati sono (da sinistra):

San Giovanni Battista, barbuto, con la pelle scura e il bastone, la cui presenza è
giustificata dalla Chiesa in suo onore nella città di Gubbio dove è morta Battista
Sforza, moglie di Federico; San Bernardino da Siena, in secondo piano, la cui
presenza è giustificata dal fatto che Bernardino conobbe Federico, ne divenne
amico e forse confessore; inoltre spiega la collocazione nel convento che porta il
suo nome; San Girolamo, a sinistra rispetto alla Madonna, con la veste lacera
dell’eremita e il sasso per percuotersi il petto; egli, in quanto studioso e traduttore
della Bibbia, era considerato il protettore degli umanisti; San Francesco d’Assisi,
che mostra le stimmate la cui presenza viene messa in relazione con una possibile
destinazione originaria per la chiesa francescana di San Donato degli Osservanti,
che peraltro ospitò per un periodo la stessa tomba del Duca Federico; San Pietro
martire, con il taglio sulla testa; San Giovanni Evangelista, con il libro e il mantello
tipicamente rosato. Gli abiti, molto ricercati, le pietre degli angeli e l’armatura
sono dipinti con minuziosi particolari, secondo un gusto tipicamente fiammingo.
Federico da Montefeltro è vestito dell’armatura, con la spada e un ricco mantello a
pieghe, mentre in terra si trovano l’elmo, descritto fin nei più ricercati riflessi
metallici della luce e dell’elsa della spada, il bastone del comando e le parti
dell’armatura che coprono mani e polsi, per permettergli di giungere le mani in
preghiera. Le sue mani hanno trattamento minuzioso e tondeggiante che è
estraneo alla pittura “di luce” di Piero: vengono attribuite allo spagnolo di
formazione fiamminga Pedro Berruguete, artista di corte di Federico dal 1474 al
1482. Il profilo mostrato è, come di consueto quello sinistro, poiché quello destro
era mutilato dalla perdita di un occhio durante un torneo.

La sua figura inoltre non solo è di proporzioni uguali alle divinità, come aveva già
rivoluzionato Masaccio, ma è anche coinvolta inequivocabilmente nello spazio
della sacra conversazione, suscitando anche nell’osservatore, per emulazione, la
sensazione di trovarsi nello spazio della chiesa. Molti dei santi mostrano le ferite
del loro martirio, e anche il duca, nell’elmo ammaccato, ricorda la sofferenza
terrena.

Nei gioielli indossati dagli angeli o nella croce tenuta da san Francesco nella mano
destra il pittore poté dare un saggio di virtuosismo nel rendere i riflessi luminosi
sulle diverse superfici, anche quelle più preziose e ricercate, come facevano i
fiamminghi.

SFONDO

La scena è ambientata davanti a un’abside monumentale che si trova molto


indietro rispetto alle figure, come dimostra lo studio delle proporzioni
architettoniche. Secondo il critico Clark le strutture dipinte sarebbero ispirate
dalla chiesa di Sant’Andrea di Leon Battista Alberti. L’opera venne iniziata nel
1471, ma è probabile che tra i due artisti ci sia stato uno scambio di pareri e magari
di disegni progettuali durante un loro probabile incontro a Rimini e forse nella
stessa Urbino. La struttura riecheggia anche lo schema dell’architettura reale della
chiesa di San Bernardino, di Francesco di Giorgio Martini, anche se la chiesa è
un’opera ritenuta successiva, edificata dal 1482.

Entro un monumentale arco di trionfo, retto da paraste al di sopra di un’elaborata


trabeazione con una fascia continua di marmo rosso, si sviluppa una volta a botte
con cassettoni scolpiti con rosette. Il numero dei cassettoni su ciascuna fila è
dispari, come nell’architettura classica, ma diversamente dalle opere dell’Alberti o
dalla stessa Trinità di Masaccio, di brunelleschiana ispirazione. Archi analoghi
sono impostati sui lati, come in un ipotetico transetto. Nella parte inferiore si
trovano specchiature marmoree policrome, accordate su toni delicati che fanno
risaltare le figure, amplificando la sacralità e la monumentalità. L’impianto
prospettico è esaltato dai contrasti fra luce e ombra che si creano nei cassettoni
della volta a botte.

LA CONCHIGLIA E L’UOVO
In fondo alla nicchia si trova un’esedra semicircolare dove colpisce la geometrica
purezza della calotta della semicupola nella quale è scolpita una conchiglia
(esempi simili si trovano nell’arte fiorentina dell’epoca, a partire dalla
donatelliana nicchia della Mercanzia in Orsanmichele, del 1425 circa),
magnificamente evidenziata dalla luce, al culmine della quale è appeso un uovo di
struzzo, che sembra fluttuare sulla testa di Maria. L’uovo è messo in risalto dalla
luce su uno sfondo in ombra, proiettandosi otticamente in primo piano.

La conchiglia è simbolo della nuova Venere, Maria madre di Gesù Cristo, e della
bellezza eterna nonché della natura generatrice della Vergine e del suo legame con
il mare e le acque. L’uovo di struzzo, che è anche emblema della perfezione divina,
è collocato in una posizione leggermente sfalsata rispetto all’asse mediano del
quadro, come simbolo della superiorità della Fede rispetto alla Ragione.[1] L’uovo
è un complesso richiamo al dogma della verginità di Maria, che doveva essere
noto agli umanisti del XV secolo. Si rifà alla storia di Leda, sposa del re di Sparta,
dove si trovava appeso in un tempio un analogo uovo, che venne fecondata da
Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi
divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.

L’uovo era anche inteso comunemente come simbolo di vita, della Creazione (vedi
Uovo cosmico). In numerose chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano-
ortodosso viene spesso appeso nel catino absidale un uovo proprio con
quest’ultimo valore, come segno di vita, di nascita e rinascita. Proprio questa
valenza rimanderebbe alla nascita del figlio del duca, tanto più che lo struzzo era
uno dei simboli della casata del committente. Inoltre l’uovo, illuminato da una
luce uniforme, esprime l’idea di uno spazio centralizzato, armonico e
geometricamente equilibrato: “centro e fulcro dell’Universo”. L’uovo, inoltre, è il
simbolo del casato di Montefeltro, e insieme al ciondolo di corallo, simboleggia la
vita.

Secondo altri la figura ovoidale sarebbe invece una perla, generata dalla
conchiglia senza alcun intervento maschile.

TEMPIO MALATESTIANO

ESTERNO*

L’esterno del tempio malatestiano fu progettato da Leon Battista Alberti alcuni


anni dopo l’avvio dei lavori all’interno. Egli ideò un involucro marmoreo[16] che
lasciasse intatto l’edificio preesistente. L’opera, incompiuta, prevedeva nella parte
bassa della facciata una tripartizione con archi inquadrati da semicolonne con
capitello composito, mentre nella parte superiore era previsto una specie di
frontone con arco al centro affiancato da paraste. La mancanza dell’arco superiore
permette di vedere, ancora oggi, un pezzo della semplice facciata medievale a
capanna di San Francesco. Sopra di essa è poi collocata una piccola croce, simbolo
del cristianesimo cattolico praticato nel Duomo.

INTERNO
L’interno, durante i lavori rinascimentali, venne mantenuto ad aula unica
aggiungendo alcune profonde cappelle laterali, incorniciate da arcate a sesto
acuto, rialzate di un gradino e chiuse da balaustre marmoree dalla ricca
ornamentazione. Vennero usati elementi classicheggianti, ma svincolati da
rapporti di proporzione, con una preminenza della decorazione plastica, la quale
arriva a mettere in secondo piano la struttura architettonica. Sulle prime tre
cappelle di ciascun lato, risalenti all’epoca di Sigismondo, viene ripetuta
l’iscrizione latina della facciata.

Generalmente gli storici escludono un intervento diretto di Alberti nel disegno


complessivo dell’interno, assegnato a Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio,
tuttavia alcuni non escludono che Alberti possa aver dato indicazioni generali
sull’intervento.[20]

La copertura è a semplici capriate lignee, con travi e tavelle visibili, realizzata dai
francescani a loro spese in seguito all’interruzione delle fabbriche di Malatesta.

In particolare vennero riccamente decorati i due pilastri di accesso di ciascuna


cappella, divisi in settori con rilievi allegorici o narrativi. Protagonista di questa
decorazione fu Agostino di Duccio, che sviluppò un proprio stile fluido a partire
dallo stiacciato donatelliano, di una grazia un po’ fredda, “neoattica”. I temi sono
soprattutto profani e intrecciano complesse allegorie decise probabilmente dallo
stesso Sigismondo. Oltre ad Agostino di Duccio, contribuirono all’opera anche
Roberto Valturio, Basinio da Parma.

SANTA MARIA NOVELLA

La facciata della vecchia chiesa gotica era rimasta incompiuta nel XIV secolo;
Alberti quindi dovette conciliare il suo progetto con la preesistenza della parte
inferiore, già occupata da nicchie-sepolcro e in parte rivestita a tarsie marmoree
bianche e verdi, secondo la tradizione romanico-gotica fiorentina. Anche i tre
portali e l’ampio rosone circolare erano già stati aperti e dimensionati; l’aspetto
della facciata era infine condizionato dai livelli delle navate retrostanti.

Ordini architettonici classici sono posti su un doppio livello e il prospetto si


conclude con un frontone triangolare, alla maniera di un tempio greco. Due
grandi volute laterali nascondono le pendenze delle navate minori. L’uso delle
tarsie marmoree, l’impostazione rigorosamente bidimensionale, la risoluzione di
tutti i problemi attraverso il disegno sono componenti già tipiche del linguaggio
architettonico medievale fiorentino; la facciata di Santa Maria Novella, erede
legittima della Basilica di San Miniato e del Battistero, si poneva dunque come un
tipico esempio di modernità rispettosa della tradizione.

Le colonne e le lesene da lui disegnate per la facciata appaiono, per esempio,


piuttosto “snelle”, perché allungate rispetto al diametro di base; l’alto attico, posto
a separare la parte inferiore gotica da quella superiore classicistica, è certamente
un elemento inedito, ovvio e geniale insieme, necessario per bilanciare l’eccessivo
verticalismo della decorazione gotica e per ordinare più correttamente quel
prospetto da tempietto tetrastilo (con quattro colonne in facciata) impostato in
alto.

Il portale centrale è la forma classicisticamente più corretta dell’intera


architettura e si attiene a un modello desunto dal Pantheon

Wittkower ha osservato che «l’intera facciata di Santa Maria Novella si inscrive


esattamente in un quadrato. Un quadrato minore, il cui lato è la metà di quello
maggiore, definisce il rapporto fra i due piani. L’ordine inferiore può essere diviso
in due di tali quadrati, mentre uno, identico, circoscrive il piano superiore. In altre
parole, l’intero edificio sta rispetto alle sue parti principali nel rapporto di uno a
due

PALAZZO RUCELLAI

Il palazzo è il modello esemplare per l’architettura residenziale fiorentina della


nuova borghesia mercantile emergente, inteso come manifesto del benessere e del
potere familiare; in questa opera Alberti rivela chiaramente la propria
disposizione a considerare l’architettura romana come norma per l’architettura
moderna, non solo religiosa ma anche civile: egli combina le citazioni di elementi
classici con la rigorosa razionalità geometrica rinascimentale.

La facciata è suddivisa orizzontalmente in tre piani da fasce marcapiano classiche,


mentre è ripartita verticalmente da lesene i cui capitelli propongono una
sequenza di ordini classici: tuscanico, composito e corinzio. E’ il primo tentativo
di codificazione degli ordini. Anche il trattamento murario è classico: lo zoccolo,
in cui sono incisi finti plinti per le lesene, riproduce l’opus reticulatum romano,
mentre il resto della facciata è a bugnato a conci levigati. Il coronamento è
costituito da una cornice fortemente aggettante che poggia su mensoloni classici.
Mentre al piano terreno le porte architravate e le finestre sono inquadrate da
cornici classiche modanate, nei piani superiori le finestre sono bifore di
ascendenza romanica. Equilibrio delle parti e rigore classico non impediscono un
effetto generale di movimento e ariosità, anche grazie alla varietà dei conci e alle
numerose aperture, dato innovativo nell’edilizia civile, che fino ad allora aveva
avuto un aspetto fortificato. Assente è il cortile interno, tipico dei palazzi
fiorentini, sostituito da un’altana, cioè una costruzione a loggia posta sul tetto e
non visibile dalla strada perchè arretrata rispetto alla facciata.

CITTÀ IDEALE

L’opera mostra una vasta piazza in prospettiva lineare centrica. Al centro spicca
un grande edificio circolare, che ha un carattere di edificio pubblico, religioso
come chiarisce la croce sulla sommità. Esso è rialzato di alcuni gradini e
circondato da colonne corinzie addossate alla parete, con tre portali sugli assi
visibili, composti con protiri a timpano ad arco. Oltre un cornicione si trova un
secondo piano di forma analoga, ma dimensioni più piccole, con finestrelle
quadrate e una finestra classicheggiante con timpano triangolare sull’asse
centrale. Sopra una seconda cornice si trova la copertura conica con fasce
bicrome, che culmine nella lanterna. Le pareti sono animate da specchiature in
marmo bicolore (bianco e verde serpentino), che riproducono rettangoli regolari,
che ricordano il romanico fiorentino.

PIENZA

Luogo di nascita di Pio II, decise di intervenire sulla città affidando il progetto a
Rossellino. Gran parte del patrimonio storico-artistico si concentra nella piazza
dedicata al pontefice Pio II che cercò di farne la sua “città ideale” del
Rinascimento. I suoi progetti vennero completati solo parzialmente, ma restano
tutt’oggi uno degli esempi più significanti di progettazione urbanistica razionale
del Rinascimento italiano. Piazza: L’area su cui Rossellino raggruppa i principali
edifici di Pienza è estremamente stretta. Duomo: è uno dei monumenti più
importanti del Rinascimento italiano ma per alcuni particolari come il tetto a due
spioventi e l’occhio centrale ricorda le chiese gotiche francescane e risente
dell’influenza di Leon Battista Alberti. La facciata è tripartita e quattro paraste la
dividono in tre zone corrispondenti alle navate interne. Una cornice marcapiano
divide la facciata in due zone; in quella inferiore ci sono le tre porte d’ingresso, in
quella superiore tre arconi sorretti da colonne. Sotto gli archi laterali sono state
create nicchie di reminiscenza classica, in quello centrale si apre un oculo. Ci sono
finestre gotiche che permettono una grande e suggestiva luminosità interna.
L’interno è diviso in tre navate della stessa altezza. Palazzo Piccolomini: si ispira a
Palazzo Rucellai, è a pianta quadrata, sviluppato su tre piani con un leggero
bugnato, dal basso fino alla sommità. Al primo e secondo piano presenta due
ordini di finestre di notevole ampiezza, equidistanti l’una dall’altra, con lesene e
profilature con i conci sporgenti. Ciascuna finestra è divisa in due parti da una
sottile colonna. Al di sotto delle finestre, come ad evidenziare i solai interni, una
cornice corre tutt’intorno al palazzo. Sulla facciata nord si trova il grandissimo
portale che costituisce l’entrata principale del palazzo. All’interno il palazzo
racchiude una corte anch’essa rettangolare con un loggiato sostenuto da colonne
di pietra.

BOTTICELLI

LA PRIMAVERA (T1)

La Primavera è un dipinto a tempera su tavola,databile per il 1478 circa. Realizzata


per la villa medicea di Castello, l’opera d’arte è conservata nella Galleria degli
Uffizi a Firenze. In un ombroso boschetto, che forma una sorta di semi-cupola di
aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo azzurrino, sono disposti
nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e
fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col drappo
rosso e verde sulla veste setosa. Il suolo è composto da un verde prato,
disseminato da un’infinita varietà di specie vegetali e un ricchissimo campionario
di fiori (viole, gelsomini, margherite, papaveri etc). L’opera è ambientata nel
giardino delle Esperidi, e va letta da destra verso sinistra, forse perché la
collocazione dell’opera imponeva una visione preferenziale da destra[2]. Zefiro,
vento di nord ovest e di primavera che piega gli alberi, attira col suo soffio, rapisce
per amore la ninfa Clori (in greco Clorìs) e la mette incinta; da questo atto ella
rinasce trasformata in Flora, la personificazione della stessa primavera
rappresentata come una donna dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le
infiorescenze che tiene in grembo. A questa trasformazione allude anche il filo di
fiori che già inizia a uscire dalla bocca di Clori durante il suo rapimento. Al centro
campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia
e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell’amore più elevato[1]. Sopra di
lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le sue tre tradizionali
compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un’armoniosa danza
in cui muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita. Chiude il gruppo a
sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia
le nubi per preservare un’eterna primavera.

LA NASCITA DI VENERE (T2)

La Nascita di Venere è un dipinto a tempera su tela di lino realizzata per la villa


medicea di Castello, e conservata attualmente nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Rappresenta una delle creazioni più elevate dell’estetica del pittore fiorentino,
oltre che un ideale universale di bellezza femminile, così come il David è
considerato il canone di bellezza maschile. Contrariamente al titolo con cui
l’opera è nota, essa non raffigura la nascita della dea, ma il suo approdo sull’isola
di Cipro. Venere avanza leggera fluttuando su una conchiglia lungo la superficie
del mare increspata dalle onde, in tutta la sua grazia e ineguagliabile bellezza,
nuda e distante come una splendida statua antica. Viene sospinta e riscaldata dal
soffio di Zefiro, il vento fecondatore, abbracciato a un personaggio femminile con
cui simboleggia la fisicità dell’atto d’amore, che muove Venere col vento della
passione. Forse la figura femminile è la ninfa Clori, forse il vento Aura o Bora.
Sulla riva una fanciulla, una delle Ore che presiede al mutare delle stagioni, in
particolare la Primavera, porge alla dea un magnifico manto rosa ricamato di fiori
per proteggerla (mirti, primule e rose)[5]. Essa rappresenta la casta ancella di
Venere ed ha un vestito setoso riccamente decorato con fiori e ghirlande di rose e
fiordalisi. La posa della dea, con l’equilibrato bilanciamento del “contrapposto”,
deriva dal modello classico della Venus pudica (cioè che si copre con le braccia il
seno e il basso ventre) e Anadiomene (cioè “emergente” o nascente dalla spuma
marina).

L’opera nasconde un’allegoria neoplatonica basata sul concetto di amore come


energia vivificatrice, come forza motrice della natura. Sicuramente la nudità della
dea non rappresentava per i contemporanei una pagana esaltazione della bellezza
femminile, ma piuttosto il concetto di Humanitas, intesa come bellezza spirituale
che rappresenta la purezza, la semplicità e la nobiltà dell’anima. Non a caso è stato
fatto un parallelismo tra Venere e l’anima cristiana, che nasce dalle acque del
battesimo. Sarebbe dunque un’allegoria dell’amore inteso come forza motrice
della Natura e la figura della dea e la posa di Venus pudica (ossia mentre copre la
sua nudità con le mani ed i lunghi capelli rossi) rappresenterebbe la
personificazione della Venere celeste, simbolo di purezza, semplicità e bellezza
disadorna dell’anima.
UN’ADORAZIONE DEI MAGI (T3)

Sandro Botticelli introdusse con quest’opera una grande novità a livello formale
nel frequentatissimo tema dell’Adorazione, ossia la visione frontale della scena,
con le figure sacre al centro e gli altri personaggi disposti prospetticamente ai lati;
prima di questa infatti, si usava svolgere la scena in maniera orizzontale, con la
Sacra Famiglia a un’estremità e i Magi col proprio seguito che procedevano verso
di essa dispiegandosi essenzialmente sul primo piano in una sorta di corteo, uno
dietro l’altro, ricordando l’annuale rievocazione della cavalcata dei Magi, una
rappresentazione sacra che si teneva per le vie fiorentine. Al centro, in posizione
ingegnosamente rialzata, si trova la capanna diroccata della natività, composta da
una roccia, un tetto ligneo retto da alcuni tronchi issati e da una parete a angolo in
rovina, richiamo all’antichità perduta ribadito anche dagli edifici crollati a
sinistra. La Vergine col Bambino, vegliata da dietro da san Giuseppe, viene a
trovarsi al vertice di un triangolo ideale a cui mirano le linee prospettiche delle
quinte laterali e lo scalare dei personaggi disposti. Dal vertice di questo triangolo
un moto ascensionale sposta l’occhio dello spettatore verso l’altro, tramite la
figura di Giuseppe, fino alla luce divina che spiove dall’alto. Un pavone,
appollaiato a destra, simboleggia l’immortalità, poiché fin dall’antichità le sue
carni erano ritenute immarcescibili. I tre Magi, che come al solito rappresentano
le tre età dell’uomo (gioventù, maturità e anzianità) si trovano in posizione
centrale. Quello più anziano è inginocchiato in adorazione del Bambino ed ha già
deposto il suo dono ai piedi della Vergine, mentre il secondo e il terzo attendono il
loro turno davanti, di spalle, con i loro preziosi doni ancora in mano, mentre le
corone sono già state deposte (una si vede davanti a quello vestito di bianco).

In queste tre figure sono ritratti rispettivamente Cosimo de’ Medici e i suoi figli
Piero il Gottoso (col mantello rosso foderato d’ermellino) e Giovanni. La loro
posizione davanti alla Vergine è rigidamente dinastica. Dietro di loro infatti si
trova Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero, con una lunga veste bianca e una berretta
come cappello, a cui fa da contraltare, sul lato opposto in posizione simmetrica,
suo fratello minore Giuliano (che perì pochi anni dopo nella Congiura dei Pazzi),
ritratto col vestito corto nero e rosso bordato d’oro in un’espressione pensosa.
Trattandosi di una rappresentazione di discendenza, poco importa che già i tre
personaggi che formano i Magi fossero morti almeno al 1473, né è rilevante la
mancanza di somiglianza degli effigiati, molto più idealizzati nella solennità
dell’episodio. All’estrema destra il giovane in primo piano che guarda verso lo
spettatore, con un ampio mantello arancione, sarebbe un autoritratto dello stesso
Botticelli. Le rovine alludono a un episodio della Legenda Aurea di Cristo,
secondo cui l’imperatore Augusto, che si vantava di aver pacificato il mondo,
incontrò un giorno una Sibilla che gli predisse l’arrivo di un nuovo re, che sarebbe
riuscito a superarlo e ad avere un potere ben più grande del suo. Essi perciò
rappresentano simbolicamente il mondo antico e il paganesimo in declino,
mentre la cristianità raffigurata nella scena della Natività si trova in primo piano
perché essa costituisce il presente ed il futuro del mondo.

LEONARDO DA VINCI

VITA (T1)
Leonardo nacque a Vinci il 15 aprile del 1452. Nel 1469 si trasferì con tutta la
famiglia a Firenze, quì entrò a far parte della bottega del Verrocchio dove vi rimase
per otto anni e dove apprese l’arte del disegno, l’uso della prospettiva e
dell’anatomia. Questo è ben attestato nel suo intervento nel Battesimo di Cristo
del Verrocchio, dove realizzò l’angelo con estrema sapienza compositiva ed
equilibrio ed inoltre in una delle sue prime realizzazioni: l’Annunciazionedi
Monteoliveto oggi alla galleria degli Uffizi a Firenze, dipinta tra il 1475 e il 1478,
nella quale abbiamo una straordinaria qualità cromatica, e uno studio attento
verso i particolari soprattutto naturali. Abilissimo nel disegno, questa sua dote è
evidente in due opere iniziate nel 1482 circa e rimaste incompiute: San Girolamo e
l’Adorazione dei Magi. In quest’ultima, rimasta incompiuta per la sua partenza per
Milano, interpreta in modo nuovo il soggetto: intorno alla figura della Vergine col
Bambino si raccoglie una folla gesticolante che ci lascia intendere l’emozione per
l’evento sacro. Ancora del periodo fiorentino sono il Ritratto di Ginevra Benci il
cui volto è delineato da delicati effetti chiaroscurali mentre sullo sfondo si staglia
un paesaggio di acqua e piante. Leonardo arrivò a Milano nel 1482 e vi rimase per
ben sedici anni al servizio di Ludovico il Moro e dove si occupò dei diversi campi
delle scienza e delle arti, ma si dedicò prevalentemente all’attività di pittore,
infatti, qui realizzò opere molto importanti tra le quali la Vergine delle rocce in cui
ambienta i suoi personaggi in un’atmosfera quasi irreale, in un luogo ombroso e
chiuso da grosse rocce in cui la luce filtra a malapena, l’atmosfera è resa in modo
magistrale grazie anche alla sua particolare tecnica di chiaroscuro sfumato che è
uno degli elementi caratteristici della sua arte. Eseguì molte altre opere tra cui la
Dama con l’ermellino di Cracovia, ilRitratto di dama del Louvre, ma il capolavoro
dell’attività svolta a Milano è considerato l’Ultima Cena che realizza intorno al
1495-1497 nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie. Il soggetto è
trattato in maniera innovativa, rappresentando il momento in cui Cristo annuncia
che verrà tradito. Nel trattato della pittura Leonardo scrive:" il bono pittore ha da
dipingere due cose principali, cioè l’homo e il concetto della mente sua. Il primo è
facile, il secondo difficile perché s’ha a figurare con gesti e movimenti delle
membra. Nel Cenacolo Leonardo realizzò in pieno questa sua idea,
rappresentando il Cristo come fulcro della composizione, intorno a cui si
distribuiscono gli Apostoli in atteggiamenti diversi che lasciano trasparire il loro
pensiero e le loro emozioni. Nel 1499 Ludovico il Moro fuggì da Milano, dopo
l’invasione del ducato da parte dei francesi, e Leonardo intraprese una serie di
viaggi, si recò a Mantova, a Venezia, e poi ritornò a Firenze. Qui gli venne
commissionato un’affresco per il salone di Palazzo Vecchio che rappresenta la
Battaglia di Anghiari, in gara con Michelangelo che doveva affrescare nella parete
opposta la Battaglia di Cascina. Il dipinto purtroppo però è andato perduto. In
questi anni iniziò anche il famoso ritratto della Gioconda, un dipinto a lui caro
che portò con se anche in Francia dove rimane tutt’oggi, al museo del Louvre. E’ il
ritratto di una gentildonna fiorentina, identificata con Monna Lisa di Giocondo,
rappresentata a mezza figura e di tre quarti sullo sfondo di un paesaggio roccioso
con due laghi posti su un diverso livello. L’atmosfera suggestiva e il sentimento di
malinconia che suscita sia il paesaggio che la figura è accentuato dall’uso dello
sfumato leonardesco. Nel 1506 si recò nuovamente a Milano, negli ultimi anni
della sua vita l’artista alternò il suo soggiorno in questa città con brevi viaggi a
Firenze. Le sue ultime opere sono Sant’Anna con Madonna e Bambino, di cui
aveva già preparato un cartone nel 1501e il San Giovanni Battista. Nella Sant’anna
con Madonna e Bambino rappresenta i personaggi in una composizione
piramidale il cui vertice è rappresentato dal volto di Sant’Anna, lo sfondo è ancora
una volta rappresentato da un paesaggio rupestre in lontananza. Nel 1516 accettò
l’invito del re di Francia e si recò ad Amboise dove trascorre gli ultimi anni della
sua vita e dove morì nel 1519

LA GIOCONDA (T2)

Il dipinto ritrae a metà figura una giovane donna con lunghi capelli scuri. È
inquadrata di tre quarti, il busto è rivolto alla sua destra, il volto verso
l’osservatore. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia
a quello che sembra il bracciolo di una sedia. Indossa un sottile abito scuro che si
apre sul petto in un’ampia scollatura. Il capo è coperto da un velo trasparente e
delicatissimo che ricade sulle spalle in un drappeggio. I capelli sono sciolti e
pettinati con una scriminatura centrale, i riccioli delicati ricadono sul collo e sulle
spalle. Gli occhi grandi e profondi ricambiano lo sguardo dello spettatore con una
espressione dolce e serena. Le labbra accennano un sorriso. Non indossa alcun
gioiello, sulle vesti non appare nessun ricamo prezioso. La semplicità con cui si
presenta esalta la sua bellezza naturale a cui, evidentemente, non necessita alcun
orpello.

Alle sue spalle è visibile la linea retta di una balaustra. Il balcone si affaccia su un
paesaggio limpido e lontanissimo. Sulla sinistra del quadro si scorge una strada
che si snoda attraverso una valle, fiancheggiata da ripide montagne, quindi uno
specchio d’acqua, probabilmente un lago a giudicare dall’andamento dei riflessi,
quindi ancora formazioni montuose sullo sfondo. Sul lato destro ancora una linea
serpentinata descrive il corso di un fiume impetuoso, sono visibili rapide e cascate
e un ponte su tre arcate. Il corso del fiume si perde in un altopiano aldilà del quale
si scorge un altro lago, posto ad una quota più elevata rispetto al primo. Quindi
ancora montagne che in modo graduale si innalzano fino a raggiungere altissimi
ghiacciai. La linea dell’orizzonte taglia la figura all’incirca all’altezza della fronte,
che risulta quindi essere quasi del tutto immersa nel paesaggio.

Nell’esecuzione di questo ritratto Leonardo ha posto un’attenzione maniacale


nello studio di ogni dettaglio: nella trasparenza del velo come nella terra rossa che
ricopre la strada; nell’incarnato delle mani e del collo come nei riflessi dell’acqua;
nello studio delle ombre sul volto come nella resa atmosferica. Lo studio
dell’anatomia e dell’espressione umana si sposa perfettamente con l’indagine
paesaggistica e geologica.

Alla perfezione tecnica si unisce poi quell’elemento di moto che costituisce la vera
e propria magia del dipinto: la figura è stante ma non immobile. La morbidezza
delle carni lascia percepire il leggero movimento del respiro. Il volto, non in asse
con le spalle, lascia intendere una delicata rotazione della testa. Una rotazione che
ancora non si è conclusa, come suggerisce lo sguardo che compie un passo
ulteriore rispetto alle spalle e al viso. Il sorriso e l’ovale dai contorni sfumati
suggeriscono che le labbra e le guance stanno delicatamente cambiando
espressione. Il moto è anche nella natura che la avvolge e accoglie: le rocce sono
ora aspre ora erose, l’apparente immobilità dei ghiacciai si scioglie nelle acque
tranquille dei laghi e in quelle rapide del fiume. È la vita stessa Il miracolo che si
rivela in questo dipinto.
CONTRAPPOSTO

Il miracolo della vita o della natura naturans, si esprime nell’opera di Leonardo


attraverso sofisticate elaborazioni tecniche. Il contrapposto, introdotto da
Leonardo e Michelangelo, e largamente usato da tutti i pittori del ‘500, consiste
nella rotazione in direzioni opposte delle gambe, del busto e della testa. Questa
torsione, che può essere più o meno evidente, infonde movimento alla figura
seduta e consente al pittore di ricavare dal corpo umano la massima potenza
espressiva.

SFUMATO

Lo sfumato, di cui si fa largo uso nella Gioconda, consiste in un passaggio soffuso


e graduale dalle superfici che descrivono i volti e gli incarnati a ciò che li circonda.
Nel suo Trattato della Pittura Leonardo raccomanda di non tracciare il viso con
contorni netti, perché questo li renderebbe rigidi e spigolosi. Nel viso di Monna
Lisa, l’impossibilità di individuare una precisa linea di contorno delle gote, del
mento e delle labbra fa sì che l’espressione appaia cangiante, in divenire.

PROSPETTIVA AEREA

Per i pittori del ‘400 la prospettiva è una rigida questione matematica. Si fissa un
punto di fuga coerente con il punto di vista e si fanno convergere verso questo
punto tutte le linee che nella visione geometrica della realtà sono tra loro
parallele. Questo determina il rimpicciolimento proporzionale degli oggetti, dei
corpi, delle architetture e dà all’occhio l’illusione della profondità. Leonardo, da
investigatore qual è della natura, non può accontentarsi di questa visione tutta
teorica. Il senso della distanza e della lontananza passano anche attraverso il
colore e la luce. L’aria, che ha una sua consistenza, frapponendosi tra l’occhio e
l’oggetto sbiadisce il primo e aumenta il tono della seconda. Ecco dunque che le
rocce scure di cui si compongono le montagne in primo piano diventano in
lontananza sempre più chiare arrivando quasi a confondersi con il cielo.

VERGINE DELLE ROCCE (T3)

La Madonna avvolge con la mano destra la spalla di San Giovannino inginocchiato


mentre Gesù Bambino accenna una benedizione nei confronti del cugino.
L’angelo dipinto dietro al Bambino osserva in direzione dello spettatore e sorride
indicando il Battista. Sopra la mano dell’angelo si dispone quella di Maria, aperta
in atto di proteggere il capo di Gesù. Il terreno sul quale sono disposti i personaggi
è roccioso, umido e ricoperto di muschi. Il paesaggio è occupato dalla costruzione
rocciosa che ricorda l’interno di una caverna. Tra le rocce che spuntano dal
terreno e quelle che scendono dall’alto si intravedono lontananze rocciose. Il
paesaggio, oltre la costruzione rocciosa, è dipinto con l’uso della prospettiva
aerea. I colori vengono modulati in lontananza e diventano più chiari, meno
saturi, più offuscati e tendenti al grigio azzurro. Le figure umane sono
amalgamate al paesaggio attraverso la tecnica dello sfumato, definito, appunto,
leonardesco. I contorni dei corpi e degli abiti si fondono con la materia pittorica
dello sfondo. Lo sfumato permette, così, di ottenere una resa atmosferica e
integrare le figure con l’ambiente. Sfumato e prospettiva aerea saranno
magistralmente utilizzati nella Gioconda. Le forme anatomiche sono apprezzabili
nei corpi dei bambini. Da notare la grande attenzione verso le mani dei personaggi
che vengono rappresentate secondo diverse angolature. Soprattutto la mano della
Vergine è stata rappresentata da Leonardo utilizzando un forte scorcio di non
facile costruzione. Il colore che ricopre l’intero dipinto è una risultante di verde e
marrone tendenti al grigio. Su questa base emergono i toni dorati degli incarnato
dei volti e dei corpi. Il colore che domina per intensità è il rosso del mantello
indossato dall’angelo seguito dalla piccola porzione di blu del manto di Maria. Nel
dipinto sono presenti due fonti di illuminazione. Quella calda e proveniente da
sinistra che colpisce le figure e quella fredda e brumosa del paesaggio di fondo.
Leonardo concepì la prospettiva aerea utilizzandola già parzialmente
nell’Annunciazione dipinta nel periodo giovanile. Lo spazio non è costruito con la
prospettiva lineare. Infatti non sono presenti le menti architettonici che possano
creare fughe prospettiche. A costruire la profondità dello spazio sono la
sovrapposizione dei corpi e la progressiva diminuzione della dimensione delle
rocce e della vegetazione. Contribuisce, sullo sfondo, anche, la prospettiva aerea e
la prospettiva di innalzamento rispetto alla campo del piano dipinto. Le forme più
lontane sono dipinte più in alto, verso sommità del piano pittorico. Il primo piano
è occupato interamente dal gruppo di figure disposte in modo simmetrico. I due
bambini, infatti, si specchiano sull’asse verticale creando una linea obliqua. Il
Battista e l’Angelo sono posti sullo stesso piano e, per ultima, la Vergine. La loro
disposizione crea una figura trapezoidale che corrisponde all’unione delle teste
dei personaggi. Le mani creano un movimento circolare di rimandi. Prima, quella
indicante dell’angelo, la mano che benedice di Gesù Bambino, poi, le mani giunte
del Battista e, infine, la mano protesa in avanti della Vergine. Ne La Vergine delle
rocce le figure si dispongono secondo una piramide dalla base molto allargata.

ULTIMA CENA (T4)

Il Cenacolo vinciano o Ultima cena è la raffigurazione dell’Ultima Cena di Cristo


più famosa della storia dell’arte occidentale. La scena dell’Ultima Cena
rappresentata nel Cenacolo vinciano è ambientata all’interno di uno spazio
architettonico chiuso. Il soffitto è decorato con un cassettone a lacunari. Sulle
pareti invece sono appesi alcuni arazzi ora non più visibili. Sulla parete di fondo vi
sono poi tre finestre. Sul tavolo sono presenti pietanze e stoviglie curate nei
minimi dettagli. La grande tavola dietro la quale sono seduti gli apostoli e Cristo
occupa tutta la porzione orizzontale. Gesù si trova al centro da solo. Le sue braccia
sono posate sul tavolo e il viso è reclinato. Gli occhi sono semiaperti e le labbra
appena scostate.

Gli apostoli sono disposti a gruppi di tre alla sua destra e alla sua sinistra.
L’apostolo Pietro è il quarto da sinistra. L’uomo si sporge in avanti impugnando un
coltello con la destra. Giuda ha con se una borsa con del denaro e nella sorpresa
rovescia una saliera. A destra si trovano Matteo, Giuda Taddeo e Simone. Il quinto
da destra è Giacomo Maggiore mentre Filippo stringe le mani al petto
dichiarandosi innocente. Leonardo da Vinci non seguì la tradizionale
rappresentazione dell’Ultima Cena. Infatti il tema veniva solitamente
rappresentato con una precisa interpretazione iconografica. Il maestro si
concentrò sul tentativo di rappresentare la sorpresa degli apostoli. In seguito
all’annuncio del tradimento ognuno ha una propria reazione che si esprime con la
postura, il gesto e l’espressione del viso. Inoltre l’apostolo Pietro anticipa il taglio
dell’orecchio di Malco, il servo del Sommo Sacerdote, al momento dell’arresto di
Cristo. L’apostolo infatti impugna un coltello in modo minaccioso
apparentemente rivolto al traditore seduto tra i commensali. Giuda non è
rappresentato come nella tradizione isolato e all’opposto degli altri apostoli.
L’uomo è in mezzo ai compagni. L’apostolo Giovanni che di solito è raffigurato
adagiato sul petto o sul grembo di Cristo, da Leonardo viene dipinto in atto di
ascoltare le parole di Pietro.

DAMA CON ERMELLINO (T5)

In quest’opera lo schema del ritratto quattrocentesco, a mezzo busto e di tre


quarti, venne superato da Leonardo, che concepì una duplice rotazione, con il
busto rivolto a sinistra e la testa a destra. Vi è corrispondenza tra il punto di vista
di Cecilia e dell’ermellino; l’animale infatti sembra identificarsi con la fanciulla,
per una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi dei due, che sono intensi e allo
stesso tempo candidi. La figura slanciata di Cecilia trova riscontro armonico
nell’animale.

La dama sembra volgersi come se stesse osservando qualcuno sopraggiungente


nella stanza, e al tempo stesso ha l’imperturbabilità solenne di un’antica statua.
Un impercettibile sorriso aleggia sulle sue labbra: per esprimere un sentimento
Leonardo preferiva accennare alle emozioni piuttosto che renderle esplicite.
Grande risalto è dato alla mano, investita dalla luce, con le dita lunghe e affusolate
che accarezzano l’animale, testimoniando la sua delicatezza e la sua grazia.

L’abbigliamento della donna è curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso, per


l’assenza di gioielli, a parte la lunga collana di granati, che sono simbolo di amore
fedele (la collana era probabilmente un dono di Ludovico il Moro) e nel contempo
fanno un bel contrasto con la bella carnagione chiara della giovane. Come tipico
nei vestiti dell’epoca, le maniche sono le parti più elaborate, in questo caso di due
colori diversi, adornate da nastri che, all’occorrenza, potevano essere sciolti per
sostituirle. Un laccio nero sulla fronte tiene fermo un velo dello stesso colore dei
capelli raccolti.

Lo sfondo è scuro (ma lo era molto meno prima di un restauro operato nel XIX
secolo); inoltre, dall’analisi ai raggi X emerge che dietro la spalla sinistra della
dama era originariamente dipinta una finestra.

ADORAZIONE DEI MAGI (T6)


Leonardo riuscì a rivoluzionare il tema tradizionale sia nell’iconografia che
nell’impostazione compositiva. Innanzitutto, come in altre sue famose opere,
decise di centrare l’episodio in un momento ben preciso, ricercandone il più
profondo senso religioso, cioè nel momento in cui il Bambino, facendo un gesto di
benedizione, rivela la sua natura divina agli astanti quale portatore di Salvezza,
secondo il significato originario del termine “epifania” (“manifestazione”). Ciò è
chiaro nella reazione degli astanti, presi in un vorticoso rutilare di gesti, attitudini
ed espressioni di sorpresa e turbamento, al posto della tradizionale compostezza
del corteo dove i pittori erano soliti sfoggiare dettagli ricchi ed esotici[3]. L’effetto
è quello di uno sconvolgimento interiore di fronte al manifestarsi della divinità.
Da un punto di vista compositivo Leonardo fece sue le innovazioni impostate da
Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi di Santa Maria Novella (1475 circa),
ponendo la Sacra Famiglia al centro e i Magi alla base di un’ideale piramide che ha
come vertice la figura di Maria. La forma pressoché quadrata della tavola gli
permise infatti di organizzare la composizione lungo le direttrici diagonali, con il
centro nel punto di incontro, dove si trova la testa della Vergine. La figura di
Maria, collocata in posizione leggermente arretrata, accenna un movimento
rotatorio, con le gambe orientate a sinistra e il busto, nonché il volto, verso il
Bambino a destra[8].

Sviluppò inoltre ulteriormente tale novità disponendo il corteo a semicerchio


dietro alla Vergine, lasciando uno spazio vuoto, di forma più o meno circolare,
nell’ideale centro dello spazio, dove si trova una roccia con un albero. Il leggero
moto della Vergine sembra così propagarsi per cerchi concentrici, come un’onda
generata dalla rivelazione divina. Il risultato è una scena estremamente moderna
e dinamica, dove solo le figure in primo piano sono relativamente statiche, con
uno studio intenso dei moti dell’animo e delle manifestazioni “corporee”[3].

Lo sfondo è diviso in due parti dai due alberi, il primo un alloro simbolo di trionfo
sulla morte (resurrezione) e il secondo una palma, simbolo della passione di
Cristo, che dirigono lo sguardo dello spettatore in profondità. Qui si trovano
alcune architetture in rovina (il Tempio di Gerusalemme), rimando tradizionale al
declino dell’Ebraismo e del Paganesimo (quest’ultimo sottolineato pure dalla lotta
convulsa dei cavalli in secondo piano, che non ha ancora ricevuto la lieta Novella)
da cui si originò la religione cristiana[7]. L’edificio con le scale è stato paragonato
al presbiterio della chiesa di San Miniato al Monte; su di esso si trovano alcuni
arbusti, come si vedono talvolta su alcune costruzioni delle quali la natura ha
avuto tutto il tempo di impadronirsi nuovamente. Secondo altri autori, invece, il
modello fu la villa medicea di Poggio a Caiano che allora doveva essere un
cantiere in divenire con il solo piano porticato e la doppia scalinata parallela oggi
non più esistente. A destra si trova una zuffa di armati, uomini disarcionati e
cavalli che s’impennano, come simbolo della follia degli uomini che non hanno
ancora ricevuto il messaggio cristiano, e un abbozzo di rocce svettanti tipiche del
paesaggio leonardesco. Secondo alcuni esperti inoltre, il fanciullo all’estrema
destra del quadro, che guarda verso l’esterno, potrebbe essere un autoritratto
giovanile di Leonardo; più probabilmente è da mettere in relazione con l’uomo
che medita sul lato opposto, come invito a riflettere sul mistero dell’Incarnazione.

CAPPELLA SISTINA La Cappella Sistina prende il nome da Papa Sisto IV della


Rovere che fece restaurare l’antica Cappella Magna tra il 1477 e il 1480. La
decorazione quattrocentesca delle pareti comprende : i finti tendaggi, le Storie di
Mosè( pareti sud e ingresso) e di Cristo (pareti nord e ingresso) e i ritratti dei
pontefici (pareti nord, sud, ingresso). Essa fu eseguita da un’equipe di pittori tra
cui Pietro Perugino, Botticelli, Ghirlandaio Rosselli e coadiuvati ovviamente dalle
rispettive botteghe ed alcuni tra i più stretti collaboratori tra cui ricordiamo Biagio
di Antonio Bartolomeo della gatta e Luca Signorelli.

VOLTA

Da quello che ci è dato sapere la decisione di Giulio II di riproporre la decorazione


della volta fu causata da problemi di natura statica che interessarono la sestina fin
dai primi anni del pontificato di Giulio II che portarono questi ad incaricare In un
primo momento Bramante, Allora architetto Di palazzo e poi successivamente di
affidare a Michelangelo una nuova decorazione pittorica.

Dunque entro una possente architettura, ovviamente dipinta Michelangelo pose


nove storie centrali raffiguranti episodi della Genesi con figure di IGnudi
sostenenti medaglioni con scene tratte dal libro dei Re alla base della struttura
architettonica 12 veggenti parliamo Infatti dei Profeti delle Sibille siedono su
Troni monumentali a cui si contrappongono della sezione inferiore Gli antenati di
Cristo raffigurati nelle Vele e nelle lunette ed infine nei quattro Pennacchi l’artista
presenta alcuni episodi della miracolosa salvazione del popolo di Israele. Nel 1510
Michelangelo riuscì a portare a termine la prima metà della volta fino alla
creazione di Eva e il lavoro fu completato invece nel 1512.

STORIE CENTRALI

Per ciò che riguarda le storie centrali della Genesi, vediamo che sono suddivise in
gruppi di tre relativi all’origine dell’universo, del male e dell’uomo. Ai primi tre
episodi dominati dalla figura di Dio Seguono quelli della creazione di Adamo ed
Eva in cui compaiono le figure dell’uomo e della donna nella loro nudità, simbolo
dell’innocenza, che invece verrà perduta con il peccato originale rappresentato
nel riquadro successivo insieme alla conseguente cacciata dal paradiso terrestre.
Gli ultimi tre affreschi ( sacrificio di Noè ebbrezza di Noè) mostrano la caduta
dall’umanità e la sua rinascita con la rinascita di Noè, prescelto da Dio come unico
uomo destinato a salvarsi per ripopolare la terra dopo la decisione del Creatore di
distruggervi ogni essere vivente.

SIBILLE E PROFETI

Profeti e sibille invece sono seduti su troni monumentali che si alternano sui lati
lunghi, mentre su quelli corti vi sono le figure di Zaccaria (raffigurato come un
vecchio barbuto con il busto di profilo nell’atto di lettura di un libro) e di Giona. I
veggenti sono identificati da una scritta nella targa sottostante e sono coloro che
per primi intuirono la venuta del Redentore. I profeti e le Sibille Dunque
testimoniano la continua attesa di redenzione da parte dell’umanità.
PENNACCHI

I Pennacchi posti agli angoli della Volta narrano quattro episodi della miracolosa
salvazione del popolo di Israele interpretabili come prefigurazioni del Messia voi
che testimoniano la costante presenza di Dio nella vita del suo popolo e il
continuo rinnovarsi della promessa della redenzione.

VELA DELLA LUNETTA DAVID SALOMON

è dominata al centro da una figura femminile ritratta seduta in posa frontale che
guarda verso l’esterno immobile impassibile e questa figura indossa una veste
verde aderente che lascia intravedere la mascolina muscolatura tipica delle donne
michelangiolesche e le gambe con i piedi intrecciati sono coperte da un manto
viola chiaro. Una mano è adagiata sulle gambe mentre l’altra tocca con il dorso la
guancia esaltandone lo sguardo enigmatico che risulta estraneo alle altre due
figure appena abbozzate che sono quella di un uomo è di un bambino ed infine ci
sono gli ignudi bronzei che sono di spalle rispetto allo spettatore che sembrano
rivolgere lo sguardo VERSO l’alto.

VELA LUNETTA IOSIAS, SALATHIEL

La Vela sopra la Lunetta di josias e salatiel fu dipinta in due giorni trasferendo


sull’intonaco il disegno del cartone mediante spolvero. In questo gruppo
probabilmente è raffigurata la famiglia di iekonias ritratto con la moglie e il figlio
salatiel. Le tre figure sono sdraiate sulla nuda terra e Iekonias, a piedi scalzi in
primo piano, dorme semisdraiato volgendosi verso l’esterno. Indossa una camicia
gialla con pantaloni bianchi stretti alle caviglie che creano un netto stacco
cromatico rispetto all’ ombra nera sullo sfondo. più indietro siede sua moglie con
il capo avvolto in uno scialle bianco che le scende sulla tunica violacea che tra le
braccia tiene amorevolmente il figlioletto accostando il volto a quello del bimbo
con materna dolcezza.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

La grandiosa composizione realizzata tra il 1536 e 1541 s’incentra intorno alla


figura dominante del Cristo colto nell’attimo che precede quello in cui verrà
emesso il verdetto del giudizio come appunto suggerisce il Vangelo di Matteo. Il
suo gesto, pacato, sembra allo stesso tempo richiamare l’attenzione e placare
l’agitazione circostante Egli dà Infatti l’avvio ad un ampio e lento movimento
rotatorio in cui sono coinvolte tutte le figure. Accanto a Cristo è la Vergine che
volge il capo in un gesto di Rassegnazione. Ella Infatti non può più intervenire
nella decisione, ma solo attendere l’esito del giudizio. Anche i santi e gli eletti,
disposti intorno alle due figure della madre e del figlio, attendono con ansia di
conoscere il verdetto. Alcuni di essi sono facilmente riconoscibili, a partire da San
Pietro con le tue chiavi, San Lorenzo, San Bartolomeo con la propria pelle in cui Si
suole ravvisare l’autoritratto di Michelangelo, San Caterina d’Alessandria con la
ruota dentata, San Sebastiano e così via. Nella fascia sottostante, al centro gli
angeli dell’Apocalisse risvegliano i morti al suono al suono delle trombe; a sinistra
i risorti in ascesa al cielo recuperano i corpi (Resurrezione Carne), a destra angeli e
demoni fann os gara per precipitare i dannati nell’inferno. Infine in basso Caronte
fa scendere i dannati dalla sua imbarcazione per condurli davanti al giudice
infernale Minosse, con il corpo avvolto dalle spire del serpente.

PARETE NORD

La parete nord ospita affreschi raffiguranti scene della vita di Cristo, realizzati dal
1481 al 1482. Anche qui la serie inizialmente comprendeva otto riquadri, uno dei
quali, “la natività del Perugino”, lasciò spazio al Giudizio Universale. Ad oggi, il
primo riquadro raffigura il battesimo di Cristo, anch’esso realizzato dal Perugino
ed è l’unica opera firmata di tutte quelle presenti nella cappella. Il secondo
raffigura le tentazioni di Cristo e la purificazione del lebbroso, realizzato da
Sandro Botticelli nel 1481. Il terzo, di Domenico Ghirlandaio, illustra la vocazione
di Pietro ed Andrea, i primi due apostoli, e la chiamata di Giovanni e Giacomo. Nel
successivo osserviamo la predica sulla montagna e la guarigione del lebbroso,
testimonianza dei primi miracoli di Cristo. E’ attribuito a Cosimo Rosselli ed è
contrapposto alla Discesa dal Monte Sinai, in quanto la montagna è il luogo in cui
Dio manifesta la sua volontà e stabilisce un rapporto con gli uomini.
Rincontriamo Pietro Perugino che nel quinto riquadro realizza un’opera pittorica
di fondamentale importanza, la “Consegna delle chiavi”, che simboleggia la
trasmissione del potere spirituale a Pietro, di cui i pontefici sono i successori.
Inoltre sullo sfondo troviamo i due episodi del pagamento del tributo e la tentata
lapidazione di Cristo. Cosimo Rosselli chiude la serie con “L’ultima cena “, sullo
sfondo vi sono alcuni episodi della Passione come l’Orazione nell’orto, la Cattura
di Gesù e la Crocifissione. Sulla parete d’ingresso nel 1572 Hendrik van den Broeck
riaffresca la Resurrezione di Cristo, sul precedente modello di Domenico
Ghirlandaio, danneggiato irrimediabilmente a causa di interventi sulla
fondazione della parete orientale.

PARETE INGRESSO

Su questa parete sono raffigurati i due episodi conclusivi dei cicli di Mosé e di
Cristo: la Resurrezione di Cristo (Matteo 28. 1-8) e la Disputa sul corpo di Mosè
(Lettera di Gluda 9).I due affreschi, in origine opera rispettivamente del
Ghirlandaio e del Signorell, furono distrutti nel crollo dell’architrave della porta
avvenuto nel 1522 e sostituiti durante il pontificato di Gregorio XIIl (pontefice dal
1572 al 1585) dalle opere di identico soggetto eseguite da Hendrik van den Broeck e
Matteo da Lecce. Come sulle pareti nord e sud oltre alle storie della vita di Mosé di
Cristo sona raffigurati in alto alcuni pontefici e le lunette e nel registro inferiore i
finti tendaggi.
DAVID MICHELANGELO

Da sempre considerato l’ideale di bellezza maschile nell’arte così come la Venere


di Sandro Botticelli è considerata il canone di bellezza femminile, ritrae l’eroe
biblico nel momento in cui si appresta ad affrontare Golia, in uno schema
compositivo differente da quelli consolidati nel passato. I muscoli del corpo sono
poderosi ma ancora a riposo, tuttavia capaci di trasmettere il senso di una
straordinaria potenza fisica. L’espressione accigliata e lo sguardo penetrante
rivelano la forte concentrazione mentale, manifestando quindi la potenza
intellettuale che va a sommarsi a quella fisica. nella mano destra, infatti, stringe il
sasso con il quale sconfiggerà il nemico da lì a poco. Lo sguardo fiero e
concentrato è rivolto al nemico, con le sopracciglia aggrottate, le narici dilatate e
una leggera smorfia sulle labbra che forse tradisce un sentimento di disprezzo
verso Golia. Nella realizzazione degli occhi Michelangelo perfezionò la tecnica di
perforare le pupille affinché potessero evitare la luce e creare un gioco di ombre
che rende gli occhi molto più penetranti. Per evitare di porre il peso della statua
sulla parte sinistra del blocco, più debole, Michelangelo appoggia tutto il peso
sulla gamba destra, rafforzata da un piccolo tronco che ha una funzione
essenzialmente statica, come nella statuaria antica. La posa è quella tipica del
contrapposto, che, tramandata anche nel medioevo, derivava dal canone di
Policleto. Infatti il braccio destro e la gamba sinistra sono rilassate, al contrario
delle altre due estremità.

Il corpo atletico, al culmine della forza giovanile, si manifesta tramite un


accuratissimo studio dei particolari anatomici, dalla torsione del collo
attraversato da una vena, alla struttura dei tendini, dalle venature su mani e piedi,
alla tensione muscolare delle gambe, fino alla perfetta muscolatura del torso. Per
dare maggiore espressività e risalto Michelangelo ingrandisce leggermente la testa
e le mani, nodi cruciali, perfezionati armonicamente con la veduta privilegiata dal
basso. Questo effetto è adesso meno apprezzabile in seguito al suo trasferimento
nel museo dove la statua è stata collocata su un piedistallo più basso di 63
centimetri. In queste variazioni di proporzione si possono leggere anche
motivazioni di carattere filosofico: la testa rappresenta la ragione, quindi il mezzo
che permette all’uomo di pensare e di distinguersi dalle bestie; le mani sono
invece lo strumento di cui la ragione si serve per operare e creare.

LA PIETÀ

L’iconografia della Pietà veniva tradizionalmente risolta in uno schema piuttosto


rigido, con la contrapposizione tra il busto eretto e verticale di Maria e il corpo
irrigidito in posizione orizzontale di Gesù: Michelangelo innovò invece la
tradizione concependo il corpo di Cristo come mollemente adagiato sulle gambe
di Maria con straordinaria naturalezza, privo della rigidità delle rappresentazioni
precedenti e con un’inedita compostezza di sentimenti. Le due figure sembrano
fondersi in un momento di toccante intimità, dando origine a un’originale
composizione piramidale, raccordate dall’ampio panneggio sulle gambe di Maria,
dalle pieghe pesanti e frastagliate, generanti profondi effetti di chiaroscuro.
Fortemente espressivo è anche il gesto della mano sinistra, che pare invitare lo
spettatore a meditare sulla rappresentazione davanti ai suoi occhi. La Vergine
siede su una sporgenza rocciosa, qui ben finita con piccole fessure ad arte (a
differenza di altre opere dell’artista in cui era semplicemente l’avanzo della
sbozzatura del marmo), che simboleggia la sommità del monte Calvario.

Il livello di finitezza dell’opera è estremo, soprattutto nel modellato anatomico del


corpo di Cristo, con effetti di levigatura e morbidezza degni della statuaria in cera,
come il dettaglio della carne tra il braccio e il costato, modificata dalla salda presa
di Maria opposta al peso del corpo abbandonato. La bellezza della statua risiede
forse proprio nel naturalismo straordinariamente virtuoso della scena, fuso con
un’idealizzazione e una ricerca formale tipica del Rinascimento, e un notevole
spessore psicologico e morale

TONDO DONI

Il Tondo Doni è realizzato da Michelangelo Buonarroti per Agnolo Doni, ricco


mercante di Firenze, collezionista d’arte e mecenate. Al centro, in primo piano,
stanno Maria, il Bambino e san Giuseppe. In secondo piano, oltre un muretto che
funge da separazione: a destra sta san Giovannino; dietro di lui un gruppo di
figure nude. Lo sfondo è appena accennato, perché non il paesaggio ma le figure
mostrano il vero significato dell’opera. Le figure nude in secondo piano
rappresentano infatti il mondo pagano che precede la venuta di Cristo; la Sacra
Famiglia, invece, il mondo cristiano; il muretto è il confine tra presente e passato,
di cui san Giovannino fa ancora parte, ma è l’unico a guardare verso Maria,
Giuseppe e il Bambino, perchè è colui che è stato chiamato a fare da mediatore e a
preparare la strada alla predicazione di Gesù.

Maria ha il busto ruotato dalla parte opposta rispetto alle gambe, a materializzare
un movimento ascendente che culmina nelle braccia sollevate per sostenere
saldamente il Bambino. Quest’ultimo è colto nel momento in cui Giuseppe lo
porge a Maria, a visualizzare un altro movimento circolare contrapposto a quello
della Madonna.

Nel gruppo della Sacra Famiglia, infatti, è stata evidenziata la presenza della
cosiddetta “figura serpentinata“, cioè di quella posa per cui uno o più personaggi
avvitati su se stessi sono visibili contemporaneamente dall’unico punto di vista
dell’osservatore, dando concretezza visiva alla sinuosità e alla linea spiraliforme,
con una spinta che è insieme fisica e concettuale ed evoca il movimento continuo
verso l’alto. I colori sono prevalentemente chiari, freddi, talvolta accostati per
contrasto: ciò determina la presenza di riflessi improvvisi che ricordano la
lucentezza del marmo. I corpi sono realizzati con perfezione anatomica e con forte
senso del volume; la linea definisce il contorno delle figure, consentendo loro
maggior stacco dal fondo: del resto la pittura di Michelangelo si avvicina alla
scultura, e di questa ha la forza plastica.

RAFFAELLO
Raffaello, che soggiornò a Firenze dal 1504 al 1508, seppe evolvere rispetto alla
lezione del maestro Perugino, studiando le cose vecchie di Masaccio, e
approfondendo il tutto nell’arte Leonardiana e in Michelangelo. E di questi,
accolse la disposizione piramidale delle figure, il paesaggio spesso roccioso, gli
specchi d’acqua, lo sfumato, gestualità dell’anima delle figure.

MADONNA DEL CARDELLINO

Così chiamato dall’uccellino presentato da San Giovannino al piccolo Gesù;

SANTA FAMIGLIA CANIGIANI

Un riflesso del tondo doni, specie per i moti dell’animo nelle loro gestualità.

LA STANZA DELLA SEGNATURA

Così chiamata, perché dal 1540 avrebbe ospitato il tribunale ecclesiastico


“Segnatura Apostolica”. In origine, fu pensata per ospitare lo studio di Giulio II, le
immagini dunque alludono alle discipline studiatisi nel Medioevo= autore Perin
della Vaga

VOLTA

La volta fu la prima parte ad essere affrescata, dalla fine del 1508. Cornici a
grottesche dividono lo spazio in tredici scomparti. Al centro si trova un ottagono
con putti che reggono lo stemma papale Della Rovere. Attorno si dispongono
quattro troni (diametro 180 cm) con le personificazioni della Teologia, della
Giustizia, della Filosofia e della Poesia. Agli angoli si trovano invece quattro
riquadri a finto mosaico (120x105 cm ciascuno) con Adamo ed Eva, il Giudizio di
Salomone, il Primo moto e Apollo e Marsia. Tra l’ottagono e i rettangoli si trovano
quattro scomparti minori a forma di trapezio con i lati stondati. In ciascuno di essi
si trovano due rappresentazioni, di cui quella superiore è a monocromo, a
soggetto storico e derivata da Tito Livio, mentre quella inferiore è policroma, a
soggetto mitologico e derivata da Igino. Piccoli spazi triangolari, infine, si trovano
tra i medaglioni e i quadri principali, decorati da querce roveresche. Negli
scomparti maggiori le figure simulano effetti a rilievo su un fondo oro che imita il
mosaico. Le scene rappresentate sono in diretto collegamento con le lunette
sottostanti e con gli elementi, ai quali si rifanno anche i putti dipinti sugli arconi
di ciascuna lunetta, ciascuno con un emblema che lo caratterizza come genietto di
un elemento. Fanno eccezione i putti di aria e fuoco, che appaiono scambiati, e
che testimonierebbero un cambiamento di programma in corso d’opera. Le
rappresentazioni minori con scene storiche e il riquadro centrale sono
generalmente attribuite al Sodoma. Adolfo Venturi assegnò l’ottagono centrale al
Bramantino. Le grottesche inoltre spettano probabilmente allo specialista tedesco
Johannes Ruysch. Sui battenti della porta della stanza (realizzata probabilmente
da Giovanni da Udine) venne raffigurato, anni dopo, l’elefante Annone, un
animale esotico molto celebre all’epoca, donato a Leone X dal re del Portogallo, e
che venne immortalato anche da Giulio Romano in un affresco in Vaticano ora
perduto.

LA DISPUTA DEL SACRAMENTO

Come accennato sopra, nella Disputa del Sacramento Raffaello trasformò la parata
di teologi da una semplice galleria di ritratti a un vero e proprio consesso, in cui la
Chiesa militante, nella metà inferiore, agisce al cospetto della Chiesa trionfante,
nel cerchio di nubi superiore. Lo studio dei numerosi disegni preparatori permette
infatti di osservare una progressiva accentuazione della gestualità e del calore
emozionale dei personaggi, coordinati comunque da un punto focale, che è
rappresentato dall’ostia consacrata sopra l’altare.

SCUOLA DI ATENE

La Scuola di Atene, dedicata alla filosofia, è ambientata in una profonda navata di


un edificio scoperto, ispirato ai progetti di Bramante per la nuova Basilica
vaticana, ed evoca l’idea di “tempio della sapienza”. Vi si trovano filosofi e saggi
dell’antichità raccolti su una gradinata attorno a Platone e Aristotele sul culmine. I
gruppi si articolano dinamicamente, concatenando gesti ed espressioni, e
rispettando una certa gerarchia simbolica che non irrigidisce però mai la
rappresentazione, che appare sempre sciolta e naturale. A vari personaggi
Raffaello affidò le effigi di artisti contemporanei (Leonardo, Michelangelo,
Bramante, sé stesso e il Sodoma) come per ribadire la nuova, orgogliosa
autoaffermazione di dignità intellettuale dell’artista moderno

MICHELANGELO ARCHITETTO
CAMPIDOGLIO

Michelangelo non fu esclusivamente impiegato nell’ambito della pittura, ma


anche e soprattutto per volere di Giulio III, ricevette a partire dal 1535 la
soprintendenza dei Palazzi Apostolici,tanto che negli anni successivi ci fu un
processo di riqualificazione del Campidoglio. Come l’autore sottolinea in un breve
excursus del luogo, il Campidoglio già in antica Roma ospitava il tempio di Giove
Capitolino e il Tabularium, archivio di Stato. Sui resti di questo, nel XII secolo fu
costruito il Palazzo Senatorio con il quale prendeva forma la piazza
successivamente progettata da Michelangelo e realizzata post mortem dell’autore.
Prima dell’intervento, il Palazzo guardava sul Foro, successivamente invece
costituirà lo sfondo di una piazza rivolta verso il centro della città. Michelangelo
lavorò sulle preesistenze, rinnovando il P.S. ( doppia scala e fontana con gruppi
scultorei) e il Palazzo dei Conservatori (i 4 conservatori di Roma). Relativamente
alla pianta della Piazza, adottò una soluzione trapezoidale che esaltasse il Palazzo
Senatorio (vedi Pienza). Palazzo Conservatori e Palazzo Nuovo si
contraddistinsero per il porticato al piano terreno, la balaustra a coronamento; la
piazza fu pavimentata con un motivo geometrico, accogliendo la statua di Marco
Aurelio, conservata oggi al Palazzo Conservatori, sede dei Musei Capitolini.

PALAZZO FARNESE

Michelangelo fu coinvolto anche nel cantiere del Palazzo Farnese, inizialmente


commissionato ad Antonio Sangallo il Giovane. Nel 1546, alla morte di questi, fu
affidata a Buonarroti, che portò il focus sulla facciata, concepita come una vera e
propria scultura rimodulando il finestrone cui aggiunse lo stemma pontificio.

CUPOLA SAN PIETRO

All’inizio del XVI secolo papa Giulio II decretò la ricostruzione della basilica di
San Pietro in Vaticano, affidando il progetto all’architetto Donato Bramante.
Bramante non lasciò un unico progetto definitivo della basilica, ma è opinione
comune che le sue idee originarie prevedessero un rivoluzionario impianto a
croce greca (ideale richiamo ai primi martyrium della cristianità), caratterizzato
da una grande cupola emisferica posta al centro del complesso. I lavori
procedettero ininterrotti fino alla morte del pontefice, avvenuta nel 1513, con la
realizzazione del centrocroce. Con il successore di Giulio II, papa Leone X de’
Medici, alcune modifiche furono apportate da Raffaello Sanzio, prima insieme a
Fra’ Giocondo e poi come architetto capo dell’intera fabbrica. Alla morte di
Raffaello, nel 1520, i lavori furono proseguiti da Antonio da Sangallo il Giovane, il
suo disegno, che si poneva come una sintesi tra un impianto a croce greca ed uno
a croce latina, con una cupola a sesto rialzato, con doppio tamburo, coronata da
una svettante lanterna. Nel 1543 il Sangallo era giunto alla costruzione dei
pennacchi d’imposta del tamburo.[7] Dopo Sangallo, deceduto nel 1546, alla
direzione dei lavori subentrò Michelangelo Buonarroti, all’epoca ormai
settantenne, il quale, esprimendo un giudizio fortemente negativo sull’opera del
predecessore,[8] mise in atto una serie di puntuali, quanto strategiche,
demolizioni, per tornare ad una pianta centrale più affine al disegno originario.

La storia del progetto di Michelangelo è documentata da una serie di documenti


di cantiere, lettere, disegni dello stesso Buonarroti e di altri artisti, affreschi e
testimonianze dei contemporanei, come Giorgio Vasari. Malgrado ciò, le
informazioni ricavabili spesso sono in contraddizione tra loro. Il motivo
principale risiede nel fatto che Michelangelo non redasse mai un progetto
definitivo per la basilica vaticana, preferendo procedere per parti.[9] Tuttavia,
dopo la morte di Michelangelo furono stampate diverse incisioni nel tentativo di
restituire una visione complessiva del disegno concepito dall’artista toscano, tra
cui quelle di Stefano Dupérac, che subito si imposero come le più diffuse e
accettate.[10] Alla pianta di Bramante, con una croce maggiore affiancata da
quattro croci minori, Michelangelo sostituì una croce centrata su un ambulacro
quadrato, semplificando quindi la concezione dello spazio interno. In questo
modo il fulcro del nuovo progetto divenne la cupola emisferica, per certi versi
ispirata, nella concezione della doppia calotta, a quella progettata da Filippo
Brunelleschi per la cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore. La cupola ha
una struttura a doppia calotta: la calotta interna, dello spessore di circa 2 metri, ha
funzione portante, mentre l’esterna, rivestita in lastre di piombo, è realizzata a
protezione della prima ed ha uno spessore di circa 1 metro. Tra le due calotte si
snoda il percorso che consente l’accesso alla sommità; una serie di abbaini di
forma protobarocca permette l’illuminazione naturale di questa intercapedine. La
lanterna, che riprende il tema delle colonne binate dei contrafforti, è sormontata
da una serie di candelieri ed è chiusa, oltre la cuspide concava, da una palla
sormontata da una croce. Più in alto, oltre i finestroni delimitati da paraste binate,
la superficie della cupola è scandita dal ritmo dei costoloni, con 96 figure
racchiuse in campiture trapezoidali e rotonde. L’apparato ornamentale è
incentrato attorno all’oculo luminoso della lanterna, dove, circondato da otto
teste di angeli, è raffigurato Dio Padre.

RINASCIMENTO VENETO

Il Rinascimento veneto fu una delle declinazioni fondamentali del Rinascimento


italiano, ed arrivò in Veneto con il soggiorno di Donatello a Padova, diffondendosi
a Venezia grazie a Giovanni Bellini, quindi Giorgione e Tiziano; il Rinascimento
veneto si conclude con Veronese e Tintoretto, l’ultimo morente nell’ultima decade
del XVI secolo, alludendo al manierismo.

La lezione di Donatello fece da modello invece soprattutto per i pittori,


specialmente riguardo all’enfasi prospettica e alla linea intesa quale elemento
generatore della forma. Ed è proprio con Giorgione che nasce il tonalismo : la
graduale stesura tono su tono, in velature sovrapposte, di colore, ad ottenere,
essenzialmente, un morbido effetto plastico e di fusione tra soggetti e ambiente
circostante. Il colore inoltre diventa l’elemento che costituisce volume e spazio
prospettico. Così si possono ottenere effetti di luce, ombra e profondità senza l’uso
del chiaroscuro, ma solo con variazioni di colore.

GIORGIONE LA TEMPESTA

In primo piano, sulla destra, una donna seminuda che allatta un bambino (la
“cingana” o “zigagna” cioè la gitana o zingara), mentre a sinistra un uomo in piedi
li guarda, appoggiato a un’asta (il “soldato”); tra le due figure sono rappresentate
alcune rovine. I personaggi sono assorti, non c’è dialogo fra loro, sono divisi da un
ruscelletto. Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città
passando sotto un ponte, che sta per essere investito da un temporale: un fulmine,
infatti, balena da una delle dense nubi che occupano il cielo. Da un punto di vista
stilistico, in quest’opera Giorgione rinunciò alla minuzia descrittiva dei primi
dipinti (come la Prova di Mosè e il Giudizio di Salomone agli Uffizi), per arrivare a
un impasto cromatico più ricco e sfumato, memore della prospettiva aerea
leonardiana (verosimilmente mutuata dalle opere dei leonardeschi a Venezia), ma
anche delle suggestioni nordiche, della scuola danubiana. La straordinaria
tessitura luminosa è leggibile, ad esempio, nella paziente tessitura del fogliame
degli alberi e del loro contrasto con lo sfondo scuro delle nubi. Numerose sono le
ipotesi sul significato dell’opera: da episodi biblici, come il ritrovamento di Mosè,
a mitologici, Giove ed Io, ad allegorici, Fortuna, Fortezza e Carità. Un’ipotesi
interessante è quella di Adamo ed Eva da progenitori in seguito alla cacciata dal
paradiso, dove il fulmine rappresenterebbe L’angelo che caccia i due dal paradiso.

LA VENERE DORMIENTE

È un’opera che dà inizio ad un nuovo genere : una donna seminuda sdraiata che
sottolinea la sensualità di essa e che allude ad un amore estetico, svincolato dalla
dimensione neoplatonica tipica in Botticelli. Il dipinto ritrae una donna nuda,
languidamente addormentata all’aperto, distesa su un telo bianco e un cuscino
coperto da un drappo rosso, sullo sfondo di un paesaggio aperto. Ed è un’opera
iniziata da Giorgione e conclusa da Tiziano, cui si devono il drappo rosso, la massa
rocciosa dietro la testa della donna. Sottili implicazioni erotiche si trovano nel
braccio alzato di Venere e nel posizionamento della sua mano sinistra sul suo
inguine, che riprende la posa della Venus pudica (Venere pudica), sebbene
aggiornandola a una posizione distesa. Si tratta però di un’atmosfera
misuratamente sensuale e sognante, molto diversa dalle interpretazioni che
daranno gli artisti successivi del tema, dove la donna ben sveglia si rivolge
spudoratamente allo spettatore, esibendo apertamente la propria nudità;
Nell’opera domina una luce calda che si conforma alla tonalità chiara della pelle
della fanciulla, è enfatizzata da questo panneggio increspato.

LA PALA DI CASTELFRANCO

Il dipinto raffigura la Madonna col Bambino su un alto trono, a sua volta sopra un
basamento che poggia su un sarcofago di porfido, con lo stemma della famiglia
Costanzo. Probabilmente la volontà di far rivolgere uno sguardo triste e assorto al
reale sarcofago, che idealmente racchiudeva il figlio morto del committente,
condizionò l’organizzazione iconografica della scena, creando quella che potrebbe
essere definita come un’altissima piramide, con al vertice la testa della Vergine e
alla base i due santi che si trovano in basso davanti a un parapetto: a destra
Francesco (ripreso dalla Pala di San Giobbe di Giovanni Bellini) e a sinistra Nicasio
(identificabile dall’insegna dei cavalieri di Malta). L’artista abbandonò, rispetto ai
modelli lagunari, il tradizionale sfondo architettonico, impostando un’originale
partizione: una metà terrena inferiore, con il pavimento a scacchi in prospettiva e
un parapetto liscio di colore rosso come fondale (in realtà sembrerebbe un telone
srotolato attorno alla struttura di sostegno cilindrica) e una metà celeste
superiore, con un paesaggio ampio e profondo, formato da campagne e colline e
popolato a destra da due minuscole figure di guerrieri in armatura (allusione al
tema della guerra e della pace) e a sinistra da un borgo fortificato; La continuità è
però garantita dall’uso perfetto della luce atmosferica, che unifica con toni
morbidi e avvolgenti i vari piani e le figure, pur nelle differenze dei vari materiali:
dalla lucidità dell’armatura di san Nicasio, alla morbidezza dei panni della
Vergine. Stilisticamente la pala è costruita attraverso un tonalismo dato dalla
progressiva sovrapposizione di velature a strati colorati, che rendono il
chiaroscuro morbido e avvolgente. La forma piramidale, qui portata a un’estrema
purezza compositiva.

TIZIANO

AMOR SACRO E AMOR PROFANO

In un paesaggio bucolico due donne, una vestita e una seminuda (rappresentanti


rispettivamente Amor Profano e Amor Sacro), stanno nei pressi di una fontana,
nel quale un bambino alato (Eros) rimesta le acque ivi contenute. Le due donne
presentano una fisionomia identica e questo significa, secondo la psicologia di
Tiziano, che ogni persona possiede entrambe le caratteristiche di natura opposta,
che in questo caso sono, appunto, l’amore sacro/divino e l’amore
profano/passionale. Sullo sfondo si vedono una città all’alba (a sinistra)
contrapposta da un villaggio al tramonto (a destra), dei cavalieri e dei pastori.

L’opera rappresenta tutte le sfaccettature della donna, quella carnale e quella


spirituale. La venere con il manto rosso tiene in mano aromi per gli dei, l’altra
venere ha un vaso che ricorda le faccende domestiche. Ci sono dei conigli che
rappresentano buon auspicio e fertilità. Il paesaggio appare suddiviso in due
sezioni, equamente ripartite da un albero posto al centro della scena, dietro al
putto, così che ognuna delle due porzioni accompagni una delle due donne.
L’opera risente profondamente dell’influenza di Giorgione, soprattutto nell’uso
dello sfondo bucolico e nel colore steso secondo la tecnica del tonalismo: si può
quindi considerare un’opera di transizione nella maturazione artistica del pittore.

PALA DELL’ASSUNTA

L’opera fu commissionata a Tiziano dai francescani del convento dei Frari come
pala d’altare e rivela la volontà del pittore di rinnovare il modo di concepire
l’impostazione compositiva dei dipinti destinati agli altari.

La pala, alta quasi sette metri, ha uno straordinario legame con l’architettura
gotica della basilica, preannunciandosi fin da lontano al termine della prospettiva
delle navate con archi ogivali e del coro ligneo intagliato quattrocentesco. In tale
senso lo squillante rosso della veste della Vergine e di alcune vesti degli apostoli
sembra riflettersi nei mattoni delle pareti, accendendoli.

IMPOSTAZIONE GENERALE

Il soggetto dell’assunzione della Vergine, cioè della salita in cielo di Maria al


cospetto degli Apostoli, accolta in paradiso, venne risolto in maniera innovativa:
scomparso il tradizionale sarcofago di Maria, e quindi i riferimenti alla morte,
tutto si concentra sul moto ascensionale di Maria, sulla sfolgorante apparizione
divina e sullo sconcerto creato da tale visione. I momenti dell’assunzione e
dell’incoronazione sono accostati con originalità[4]. I tre registri sovrapposti (gli
Apostoli in basso, Maria trasportata su una nube spinta da angeli al centro e Dio
Padre tra angeli in alto) sono collegati da un continuo rimando di sguardi, gesti e
linee di forza, evitando però qualsiasi schematismo geometrico. In basso infatti il
monumentale apostolo vestito di rosso, di spalle in primo piano, fulcro visivo
della porzione terrena del dipinto, protende in alto le braccia verso il corpo di
Maria, secondo una doppia diagonale rafforzata dai due angioletti i cui corpi si
dispongono in parallelo. Egli si trova nella stessa posizione che avrebbe assunto
per scagliare Maria in cielo, amplificando il senso di moto ascensionale. Le due
vesti rosse appaiono come legate lungo un’unica fascia, rotta poi dal manto blu
scuro di Maria che, gonfiato dal vento, taglia perpendicolarmente la prima
diagonale e si sviluppa nella posizione delle braccia sollevate di Maria, in scorcio
verso destra, che conducono direttamente, assieme al suo sguardo rivolto verso
l’alto, verso l’apparizione dell’Eterno, il cui piano, ancora una volta è sfasato.

Si crea così una sorta di movimento ascensionale a serpentina, di straordinario


dinamismo. La composizione può essere letta anche come una piramide, schema
prediletto dai pittori del Rinascimento da Leonardo in poi, con alla base i due
apostoli vestiti di rosso e al vertice la testa di Maria. Inoltre, la centina dell’opera è
proseguita idealmente dalla curva semicircolare formata dalle nubi che
sorreggono la Vergine: si forma così una sorta di circolo ideale che separa il
mondo terreno degli Apostoli da quello divino della Vergine e Dio.

APOSTOLI

Sullo sfondo di un cielo azzurro ceruleo, la zona inferiore è occupata dal gruppo
degli apostoli che assistono increduli all’evento miracoloso. L’uso
dell’illuminazione, ora diretta ora soffusa e in ombra, crea contrasti che
amplificano il risalto di alcuni personaggi su altri e suggeriscono la profondità
spaziale. Così la zona d’ombra al centro fa pensare a una posizione più
indietreggiata degli apostoli, disposti informalmente a semicerchio al di sotto
della nube. Spicca, come accennato, l’apostolo di spalle vestito di rosso, forse
Giacomo maggiore, mentre a sinistra si vede un altro, con veste rossa, forse
Giovanni, che alza il gomito per mettersi teatralmente una mano al petto in segno
di sorpresa. Vicino a lui si trovano un apostolo vestito di bianco e verde,
probabilmente Andrea, piegato e con lo sguardo attento verso l’apparizione
celeste, e san Pietro, seduto in ombra al centro. In tutto si contano undici
personaggi, ciascuno colto in una posizione differente, in un tripudio di gesti di
agitazione e turbamento.

Soprattutto in questa parte si notano gli echi raffaelleschi, nei gesti eloquenti ma
accuratamente studiati e nella monumentalità classica; Vi si riscontrano inoltre
alcune tinte fredde, che vanno però riscaldandosi col salire, fino ad arrivare a Dio,
punto da cui la luce emana e vertice della piramide.

VERGINE
Anche qui il colore rosso della veste crea una macchia squillante di colore che
attira immediatamente l’occhio dello spettatore, soprattutto nel nodo focale, tra la
testa di Maria e Dio Padre, dove ha il centro quell’abbagliante sfera di luce, che
abbraccia l’andamento curvilineo della centina superiore. Si tratta di un’efficace
rappresentazione dei cerchi del Paradiso, immaginati come delle ruote di serafini
via via più luminose, fino al chiarissimo spazio centrale. Per far risaltare al
massimo i protagonisti, Tiziano accentuò il contrasto tra primo piano e sfondo,
scurendo i toni della Vergine e del Dio Padre.

La Vergine non ha ancora completato la sua ascesa all’Empireo, ed è per questo


che il suo volto non è totalmente illuminato dalla luce divina: l’ombra infatti
richiama il mondo terreno, cui la Vergine rimane legata fintanto che non abbia
completato la salita. Nelle vesti di Maria sono presenti il rosso ed il blu, due colori
che, sin dai primi secoli del suo culto, simboleggiano la divinità e la Passione (il
rosso) e la sua umanità (il blu).

Come nella metà inferiore, l’alternarsi di luci ed ombre sulle figure, come la zona
d’ombra creata dall’apparizione divina sul gruppo di angeli a destra, crea una
diversificazione spaziale e “meteorologica” tra i soggetti, all’insegna di una
rappresentazione più sciolta e naturale, tipica della “maniera moderna”.

DIO PADRE

La figura del Creatore appare in controluce, ciò per due motivi fondamentali:
innanzitutto, per garantire una fonte di luce autonoma al dipinto; in secondo
luogo, ciò dona a Dio l’aspetto di una visione soprannaturale dai contorni confusi.
Il Padre Eterno è rappresentato immobile, segno della sua eterna essenza divina.

LA VENERE DI URBINO

Tiziano rappresentò la sua Venere mettendo in secondo piano i riferimenti


mitologici, trasponendola anzi in un ambiente domestico moderno. La sensuale
dea, completamente nuda, è infatti distesa su un letto coperto da un lenzuolo
bianco (che lascia intravedere il doppio materasso con un motivo tessuto a fiori),
appoggiando il busto e un braccio su due cuscini, mentre guarda lo spettatore e
con la sinistra si copre il pube (tema della Venere pudica[4]), mentre con la destra
lascia cadere lentamente alcune rose rosse, fiore sacro alla dea. Ciò indica il
passare del tempo: infatti, proprio il fatto che sia una bella dea come la Venere a
tenere in mano un simbolo con tale significato vuol dire che la bellezza svanisce
con l’avanzare della vecchiaia e che quindi bisogna basare la propria esistenza su
altre qualità più durature, quali, appunto, la fedeltà.

Ai suoi piedi sta rannicchiato un cagnolino, dipinto con amorevole realismo (lo
stesso del Ritratto di Eleonora Gonzaga Della Rovere), che simboleggia la fedeltà,
facendo da esempio alla sposa del granduca: il messaggio è quello di essere
sensuali, ma solo per il proprio sposo. La dea ha infatti un anello al dito mignolo e
indossa, oltre a un bel bracciale d’oro con pietre preziose, una perla a forma di
goccia come orecchino, simbolo di purezza. I capelli biondi sono acconciati con
una treccia che gira attorno alla nuca, e sciolti sulle spalle, in bei ricci dorati che
hanno la morbidezza tipica delle migliori opere dell’artista. La fisionomia della
donna ricorda quella di altre figure femminili di Tiziano (ad esempio la Bella, il
Ritratto di fanciulla in pelliccia e il Ritratto di fanciulla con cappello piumato) e
forse era un’amante dell’artista che faceva da modella[2].

A differenza della Venere dormiente di Giorgione, la dea di Tiziano fissa in modo


deciso l’osservatore, noncurante della sua nudità, con una posa ambigua, a metà
strada tra il pudore e l’invito. La forte cesura della parete scura alle spalle della
dea, che si interrompe a metà del dipinto, crea una decisa linea di forza che
indirizza lo sguardo dello spettatore proprio verso l’inguine, per risalire poi lungo
il ventre e il petto, fino allo sguardo.

I toni scuri o freddi dello sfondo fanno inoltre risaltare il calore delle luminose
carni femminili, grazie anche alla presenza della macchia colore rosso nei
materassi scoperti ad arte. In secondo piano vengono rappresentata due ancelle
che cercano i vestiti della dea nel vestiario.

AMBIENTAZIONE

stanza dal pavimento a riquadri, in cui due ancelle stanno frugando in un cassone
i vestiti da far indossare alla dea[2]. Una è infatti inginocchiata a rovistare e l’altra,
con un vestito rosso e un’elegante acconciatura, tiene già un ricco vestito sulla
spalla.

Candelabre dorate decorano le pareti, mentre le cassapanche hanno girali


all’antica con elementi antropomorfi, segno di un arredamento aggiornatissimo
alle tendenze più recenti. La luce, oltre che da davanti, entra dalla finestra sullo
sfondo, dotata di colonna al centro e dalla quale si vede, oltre al vaso di mirto, un
cielo rischiarato dalla luce dorata e un albero, che allude all’esistenza di un
giardino. Inoltre l’illuminazione nella stanza proviene da sinistra e getta una netta
ombra della serva in piedi sulla parete dietro di essa.

IL MANIERISMO

ROSSO FIORENTINO

Vasari ricorda soprattutto un “bellissimo deposto di croce a Volterra”, la pala del


Rosso infatti fu richiesta da una confraternite per la Cappella della Croce del
Giorno.

DEPOSIZIONE DELLA CROCE


La croce, solida e geometrica prende forma in un paesaggio desolato, che occupa
circa 1/4 del fondale, costituito da un cielo azzurro sul quale risaltano i personaggi.
Tragiche maschere tridimensionali che si arrampicano sulla 3 scale, dipinte molto
essenzialmente, in un’atmosfera di asimmetria. Nella contorsione di Giovanni è il
dolore, mentre la Maddalena inginocchiata si slancia alla 3 donne in
raccoglimento. Come Michelangelo, anche Rosso Fiorentino punta sulla figura
umana, ma rinuncia ai muscoli e al plasticismo dei corpi. I volumi non sono
torniti, ma tendono ad una generale geometrizzazione.

IL MANIERISMO

Con il manierismo gli artisti successori a Leonardo, Michelangelo, Raffaello


sperimentarono linguaggi artificiosi, anticlassici ed eccentrici. Questa tendenza è
il Manierismo. Uno stile che non si ispira alla natura, ma alla maniera di altri
maestri. E tra gli artisti di riferimento della tendenza abbiamo Pontormo e Rosso
Fiorentino, Parmigianino con l’autoritratto. Fu anzittuo una sperimentazione, ma
poi divenne una moda. Questo principio della Maniera si coglie in Michelangelo,
con il quale il Giudizio Universale rappresentava il manifesto della Maniera,
proprio perché coglieva le figure umane in un linguaggio particolarmente
innaturale e contorto. Si fa il ritorno a queste pose serpentinate, che assomigliano
alla tortuosità di un serpente quando striscia. Il Manierismo sarà una tendenza da
Corte, inadatta per raccontare il Vangelo al popolo comune. Il Manierismo fu
condannato dalla Controriforma, e nel 700 l’insuccesso fu tale che il più
importante ciclo Di affreschi di Pontormo, complicato racconto che intrecciava le
storie della Genesi e il Giudizio Universale senza ordine di Storia né misura, né
tempo, andò distrutto. Solo nel ‘900 l’ arte della Maniera fu riscoperta, con
l’affermarsi del Cubismo, del Surrealismo etc., con l’intento di questo - ismo a
maniera come a sottolinearne una connotazione di avanguardia: Pontormo un
surrealista ante litteram, in Rosso Fiorentino dei primi lineamenti del Cubismo e
così via. Questi artisti, come Pontormo, operarono nella Firenze rilanciata da Papa
de Medici, anche se negli anni successivi la situazione politica fiorenta sarebbe
drasticamente mutata in peggio, la Repubblica fiorentina sarebbe finita.

LA DEPOSIZIONE DI SANTA FELICITA

È una tavola particolarmente curiosa, che Pontormo dipinse per la Cappella


Capponi, presso l’ingresso della Chiesa di Santa Felicita. Dipinta tra il 1526 e il
1528. Come Vasari stesso ci sottolinea, è una variante di una composizione
piramidale, priva di un fondale architettonico e costituita da 11 figure avvinte in
un nodo inestricabile, dove la volumetria ci porta a Michelangelo, sembrano
essere gonfi di aria, piuttosto che di muscoli. I volti sono allucinati, i colori di
tonalità accese. Èd è un’opera che fu particolarmente apprezzata ma anche ai
giorni nostri nel cortometraggio La Ricotta di Pasolini, ma anche in Bill Viola ad
apprezzarne le dinamiche compositive.

IL BAROCCO
Come “gotico” e “maniera” anche “barocco” nasce come etichetta negativa di una
stagione culturale ormai conclusa di cui si vedevano i tratti dominanti. Ma cosa si
intende per barocco? Il barocco è il superlativo di bizzarro, l’eccesso del ridicolo
(Francesco Milizia) : qualcosa legato alla sfera semantica dell’irregolare, la cui
armonia è confusa, che rimanda alla perla portoghese non sferica che ne ricorda
gli aspetti caratterizzanti. Gli ambiti in cui questa parola bene esprime il suo
concetto sono svariati : dall’architettura, alla scultura, alla pittura, alla musica e
così via : senza dubbio il contesto proprio del termine è la Roma dei primi decenni
del 600, dove questo nuovo gusto figurativo prende forma, per diffondersi poi in
Italia e in Europa, fino alla prima metà del secolo successivo. Ma attenzione : se è
vero che il Barocco prende le distanze nei gusti figurativi rispetto al Rinascimento,
è altrettanto vero che dell’epoca Rinascimentale non cancella tutto : ecco perché
Roberto Longhi parla di portiere notturno del Rinascimento, rifacendosi al
termine, cioè come conclusione di un periodo culturale e figurativo iniziato nei
primi anni del 400 a Firenze. E tutto questo assume una veridicità inconfutabile,
se confrontiamo ad esempio il Bacco di Caravaggio con quello di Michelangelo : in
entrambi i casi c’è il rimando alla classicità e la ricerca di rapporto con
l’interlocutore, attraverso l’offerta della coppa colma di vino. Tuttavia il Barocco
può essere visto anche come fase iniziale dell’arte moderna : si consideri il Bar de
Folies Bergére di Manet, dove questo dialogo con l’interlocutore è reso esplicito, la
cui identità è esplicita da uno specchio posto alle spalle della barista. Ma i
caratteri comuni sono svariati: a partire dalla natura morta, la trasperanza dei
cristalli, il vino in champagne, e così via. Ma il Barocco va visto come
superamento dei confini. Il voler misurarsi a grandi come Michelanzio, Raffaello e
altri delle epoche precedenti.

Il Barocco nasce a Roma, con Annibale Caracci e Caravaggio, che rompono con la
tradizione maniersta e inaugurano una nuova era figurativa, poi portata nel resto
d’Italia e in Europa dai propri seguaci. Il Seicento coincide con la separazione
definitiva delle scienze umane da quelle scientifiche. Ed ecco che c’è lo
smarrimento. Chi nell’entusiamo, accoglie questo nuovo porsi al mondo, chi nella
confusione, si ancora a ciò che fino a quel momento aveva rappresentato le
proprie certezze. Napoli è la città più popolosa della penisola, alla pari di Londra o
Parigi, sebbene i centri culturali maggiori siano Venezia, Roma, Firenze. È un
secolo tumultuoso per la controriforma, ma soprattutto animato dalle guerre :
vedi la guerra dei 30 anni.

LE INTUIZIONI DEI BELLORI

Lo sguardo più lucido relativamente al ’600 è quello delle Vite dei pittori, scultori,
architetti di Pietro Bellori, che, sullo sfondo autobiografico principale dell’opera,
analizza i maggiori protagonisti di questa nuova stagione culturale. Bellori vede in
Caravaggio e in Carracci i due artisti di maggiore discontinuità rispetto all’arte
manierista del ‘500; e i confini entro i quali operano questi due artisti è Roma(dal
1595 al 1670), e queste novità poi si diffonderanno nel resto d’ Italia e in Europa.

UNA PITTURA DI VIVA CARNE : LA RIFORMA DEI


CARRACCI
Quando Caravaggio (Michelangelo Merisi) e Carracci scesero a Roma, le loro
prospettive erano molto diverse : Caravaggio era una giovane promessa, in cerca
di fortuna, mentre Caracci, già affermato, era stato invitato a lavorare da un
potente cardinale. Quest’ultimo infatti, in seguito a numerosi soggiorni tra cui
Parma, Piacenza, Venezia, aveva fondato assieme al fratello Agostino e al cugino
Ludovico un’accademia che proponeva il recupero della pittura del primo ’500.
L’impianto era quello universitario più che di una bottega e gli studi erano
particolarmente dinamici (la ricerca era continua = gli accademici si chiamavano
incamminati).

LA PITTURA DI REALTÀ DI CARAVAGGIO

Nel frattempo In Lombardia era emerso il filone di una pittura semplice, diretta,
che faceva leva sul mondo degli umili piuttosto che al fasto dell’aristocrazia
spagnola o veneziana. Una pittura che sembra rammentare la quotidianità d’un
tempo, il paesaggio puro delle campagne prima dell’assalto delle industrie e del
mercato. Le capitali di questo linguaggio furono Brescia e Bergamo, dove la luce il
colore di Tiziano divennero strumenti di introspezione della realtà medesima,cosi
come si presentava.

IL CUORE DELLA RIVOLUZIONE DI CARAVAGGIO

Dopo essersi formato a Milano nell’ambito della pittura di realtà, Michelangelo


Merisi, detto Caravaggio, cominciò a mettersi in luce attraverso quadri da stanza
per collezionisti, nei quali imtravediamo mezze figure in abiti contemporanei
sullo sfondo di concerti, scene di strada e così via.

IL BACCO

Prendiamo in esempio il Bacco, donato a Ferdinando de Medici intorno al 1595. Il


dio del vino siede a tavola, coricato su un triclinio e coronato da questa uva
matura, e si nota subito lo sguardo diritto, incalzante nei confronti
dell’interlocutore, che sembra quasi trascinato in un colloquio divino con Bacco
stesso. È interessante il giudizio di Giustiniani, che parla di “un quadro buono di
fiori, come di figura”, riportando a suo dire le parole stesse di Caravaggio, nell’idea
di sottolineare una nuova visione di arte, una visione di arte per arte, senza altro
scopo che se stessa.

LA CANESTRA DI FRUTTA E LA MADDALENA PENTITA

Nella canestra di frutta risalta il modo solenne con il quale le figure delineano gli
spazi, la luce assoluta, nel rappresentare solo ed esclusivamente frutta : ma frutta
rappresentata con la stessa dignità e attenzione riservata ai santi e alle divinità.
La Maddalena pentita invece rappresenta questa fanciulla a sedere su una
seggiola (Bellori) con le mani in seno, dove la sedia, il pavimento la luce sono
quelli dell’umile studio tipico in Caravaggio, che egli non nasconde, anzi risalta
quasi fosse il protagonista vero e proprio dell’opera in sé.

CARAVAGGIO SUGLI ALTARI

VOCAZIONE DI MATTEO

Nel 1599 Francesco del Monte commissiona a Caravaggio tre tele per la Cappella
Contarelli in San Luigi dei Farnesi, i cui soggetti erano stati fissati molto prima,
nella prima metà del secolo, cioè le storie di San Matteo. Lo schema compositivo
desiderato dall’amministratore di Gregorio XIII(Cointrel) voleva un quadro nel
quale fosse dipinto San Matteo in un magazzino o ver salone nell’atto dei
riscossione dei tributi (forte il legame denaro - Cointrel). Caravaggio risolse
anzitutto il banco dei gabellieri in una tavolata di giocatori, intorno questa branca
di persone, solo buio, sotto il tavolo, sopra le teste, quasi a rappresentare un
desolato scantinato che timandasse allo Sudio dell’artista (come nella
Maddalena). La porta aperta in cima alle scale fornisce qualche spiffero di luce,
che al compagna l’ingresso dei due personaggi : un San Pietro che quasi nasconde
il Cristo, che alza la mano in un silenzio eterno, che si coniuga allo sfondo cupo,
buio dell’opera medesima

IL MARTIRIO DI CARAVAGGIO

Nel Martirio Caravaggio sembra ritrarsi nella zona dei codardi che non fanno
nulla contro il sicario inviato ad uccidere il santo e ancora un secondo San Matteo,
che sull’altare parla con un’angelo impertinente, mentre è in bilico su uno
sgabello. Zucchari vede in Caravaggio una continuità con Giorgione, non solo
perché egli si rifà all’arte del primo 500,ma anche nel rapporto libero nel trattare i
soggetti religiosi.

CARAVAGGIO E CARRACCI IN SANTA MARIA DEL POPOLO

ASSUNZIONE DI MARIA

La pala fu affidata a Carracci, che fece quasi rievocare unassunta pirotecnica,


simile alla di Tiziano di Venezia. La stessa energia vitale, lo stesso dominio del
colore, le ombre. Ma in Carraggio è inoltre presente una costruzione dei corpi
straordinaria che manca in Tiziano, così come i gesti degli apostoli. Questo si
rifaceva a Raffaello. Ne in Raffaello ne in Tiziano si poteva trovare quel senso di
moto.

CROCIFISSIONE DI PIETRO E CONVERSIONE DI SAULO


Se in Annibale abbiamo visto moto e luce, in Caravaggio torna il buio e
l’immobilità. Sia in crocifissione di Pietro che conversione di Saulo, Caravaggio
volle esaltare lo spazio e annullare il tempo. Non scendono angeli, né di aprono i
cieli: solo il silenzio di un esecuzione, in luogo dimenticato e fine a se stesso. La
stessa immobilità colpisce Saulo, in una visione che Caravaggio non riesce ad
esprimere, perché non proveniente dalla natura.

MORTE DELLA VERGINE, CARAVAGGIO

Il dipinto fu commissionato nel 1601 dal giurista Laerzio Cherubini per la propria
cappella in Santa Maria della Scala, la chiesa più importante dell’ordine dei
Carmelitani Scalzi a Roma. La scena è inserita in un ambiente umile con al centro
il corpo morto della Vergine, in primo piano la Maddalena, seduta su una
semplice sedia, che piange con la testa tra le mani, e tutt’intorno gli Apostoli
addolorati; l’intonazione cromatica molto scura è illuminata dal rosso della veste
della morta e della tenda, elemento di una scenografia povera. Inoltre, la
composizione degli apostoli, allineati davanti al feretro, forma, in linea col corpo e
col braccio di Maria, una croce perfetta.

Una interpretazione del dipinto in chiave di adesione pauperistica e borromaica è


fornita da Maurizio Calvesi[5] secondo il quale il pittore era vicino a movimenti
religiosi come gli Oratoriani e al Cardinale Federico Borromeo, il quale predicava
l’assoluta povertà del clero, e viveva egli stesso in una casa molto misera, avente
appena una Bibbia e le mobilia necessarie, e a cui rassomiglia molto
l’ambientazione del quadro. Nettamente contrario è invece Ferdinando Bologna[6]
che sostiene come l’opera fosse di committenza privata, non dovuta alla volontà
dei religiosi di Santa Maria della Scala e contesta il rapporto che il pittore avrebbe
avuto tanto con il Borromeo che con gli Oratoriani.

CARAVAGGIO ESTREMO - SETTE OPERE DI MISERICORDIA

Nel 1606 Caravaggio è costretto a fuggire da Roma perché è stato coinvolto in una
rissa che ha portato alla morte di un avversario. Ed ecco che quindi, sullo sfondo
di questo clima di particolari tensione per l’artista, Caravaggio giunge a Napoli, in
Sicilia, a Malta dando inizio a una nuova stagione culturale. Ed ecco che già al
primo soggiorno napoletano, Caravaggio è impegnato nella pala delle Sette Opere
di Misericordia, dipinta per il Pio Monte. È opera dove si fondono diverse
dimensioni, a partire dal mito, e dalla Bibbia fino ad arrivare all’agiografia che
vede un cadavere portato fuori dal carcere e illuminato da una torcia condotto alla
sepoltura. Due pellegrini che si rivolgono ad un oste e un claudicante che chiede
l’elemosina. È una rappresentazione forte nella misura in cui è soggetto di una
pala d’altare la vita di strada, e c’è poi la Madonna, che plana ogni cosa e due
angeli che le stendono un drappo che si confonde con i panni stesi ad asciugare.

LA DECOLLAZIONE DI SAN GIOVANNI BATTISTA-


CARAVAGGIO A MALTA
Quando Caravaggio raggiunge Malta, la sua pittura destabilizza il Gran Maestro, il
sovrano dell’isola, tanto che non solo viene ammesso nell’ordine dei Cavalieri di
Malta ma è anche in grado di firmare il suo capolavoro maltese che è la
decollazione di San Giovanni Battista, per l’altare dell’oratorio dei Cavalieri, nella
Cattedrale della Valletta. Caravaggio immagine un luogo vuoto, che è il cortile
dove è stato rinchiuso Battista per volere di Erode. Qui si consuma l’esecuzione,
senza veli rappresentativi, perché l’obiettivo dell’autore è quello di sottolineare la
banalità del male rivolta a Battista, e l’indifferenza di Salomé e l’esecutore stesso.
E ancora, il fatto che il boia non riesca a decapitare il condannato con un colpo
solo e deve ripetere l’azione, non solo contruibuisce alla forte espressività
dell’opera, ma fa scalpora una scena macabra senza mezze misure da parte
dell’autore, occupi una pala d’altare, in un luogo di preghiera.

–> fantasie carcerarie del Caravaggio

CARAVAGGIO IN SICILIA E LA RESURREZIONE DI LAZZARO

Anzitutto Caravaggio viene imprigionato ancora una volta, riesce ad evadere e


fugge in Sicilia. QUI Realizza tutta una serie di TELE, tra le quali spicca quella
della Resurrezione di Lazzaro, commissionata dalla famiglia Lazzari per una
cappella della chiesa di buona morte a Messina. È un’opera di spicco perché il
miracolo non è rappresentato dal punto di vista di Cristo, ma da quello di Lazzaro,
cioè dei morti. C’è appunto il Signore che stende la mano quasi a tirare dei fili che
traggono il corpo immobile dell’uomo, quasi fosse una marionetta, che sembra
quasi opporsi al fatto, perché consapevole di una Resurrezione che lo porterà di
nuovo alla morte. Una visione del Caravaggio particolarmente dura, razionale,
dove non sono accettati miracoli.

CARAVAGGIO DI NUOVO A NAPOLI - DAVID CON LA TESTA


DI GOLIA

Nel 1610 Caravaggio si accinge a tornare a Roma, dopo aver ottenuto la grazia
papale, tuttavia per circostanze non note finisce sulle spiagge del Monte
Argentario vi si ammala e muore a Porto Ercole nel 1610.

Il David con la testa di Golia è un ritratto: dove David non è trionfante, anzi appare
quasi riluttante di ciò che ha compiuto, uccidendo Golia. E Caravaggio da la
propria testa a Golia, pagando la pena capitale inflittagli.

CARAVAGGESCHI ITALIANI ED EUROPEI

Quando Caravaggio muore, sebbene non avesse lasciato allievi, né una scuola,
nulla, come nota Bellori, la sua rivoluzionaria pittura ha una diffusione talmente
straordinaria da non avere eguali nella storia occidentale. E la fenomenologia di
questa diffusione fu particolarmente variegata : interessò generazioni diverse, da
quelle contemporanee all’artista, a quelle successive. Furono apprezzate le scene
di genere e crudeltà, la pittura di luci e tenebre, il mezzo Busto e così via. Quando
parliamo di Caravaggismo intendiamo quindi diversi autori : da Gentileschi a
Manfredi, fino ad arrivare a Valazquez, dei Bombaccianti e dei fiamminghi
Vermeer e Rembrandt.

GENTILESCHI

Tra Gentileschi e Caravaggio le analogie sono evidenti nella Giuditta, dove il


protopito è seguito con estreme affinità seppur si perda la drammaticità della
scena, quasi a far diventare l’orrore decorativo.

NAPOLI : GIOVAN BATTISTA CARACCIOLO DETTO


BATTISTELLO

A Napoli la stagione artistica del Caravaggio fu particolarmente apprezzata già dal


1607,quando BATTISTELLO realizza l’Immacolata Concezione, una composizione
sembra rievocare le Sette Opere di Misericordia e la Madonna del Rosario del
Merisi stesso. Ma è una composizione molto sobria, essenziale, scarna.

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