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ÁTOPOn

Rivista di Psicoantropologia Simbolica


e tradizioni religiose

Giuseppe Lampis

una religione
dell’atto cruento
I misteri di mithra

mythos edizioni
ÁTOPOn
R
! ivista di Psicoantropologia Simbolica
e tradizioni religiose
ISSN 1126–8530

Direzione:
Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele
Redazione:
Giuseppe Lampis, Maria Pia Rosati,
Claudio Rugafiori, Marina Plasmati,
Lorenzo Scaramella
Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries

2
Edizione Mythos 2001
Edizione elettronica riveduta e corretta 2018

© « átopon »
(Rivista di Psicoantropologia Simbolica)
‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale
Via Guareschi 153 – Roma 00143
www.atopon.it – atoponrivista@atopon.it
INDICE

Prefazione Maria Pia Rosati 5

Introduzione 12

1. Un mistero romano con maschere 22


2. Gradi iniziatici e astrologia 51
3. Mithra solare 86
4. Il sacrificio del toro 108
5. Mithra e Ahriman 136
6. Mithra ermetico 162

Bibliografia delle citazioni 180


A Jean Servier

Chi è sapiente in queste cose


è un uomo del dèmone

Platone Simposio 203 A


PREFAZIONE

Maria Pia Rosati

La religione di Mithra è misterica,


poco incline per questo motivo a fornire
una documentazione diretta della propria
dottrina esoterica, inoltre fu oggetto di una
repressione e di una damnatio memoriae
particolarmente radicali. Da ciò derivano i
molteplici problemi che hanno affaticato gli
ultimi studiosi.
Alcuni, esaminando il rapporto tra il
suo nucleo originale e l’aspetto astrologico
con cui si presenta fra i romani, stimano
che la cornice filosofica astrologica sia
coessenziale con il messaggio autentico
del dio. Altri propendono a vedere
nell'astrologia una sovrapposizione
sincretistica e ritengono che il mitraismo,
che nella sua fase matura apparirebbe
catturato e dialettizzato dal platonismo,
fosse da questo snaturato e svirilizzato.
Il saggio di Giuseppe Lampis offre
un interessante orientamento. Per l’autore,
la religione mitriaca propone un itinerario
di liberazione dal destino basato sulla
capacità di sacrificio di sé.
I gradi dell’iniziazione mitriaca
rappresenterebbero simbolicamente le
tappe di un viaggio interiore che fornisce
una chiave per affrontare e risolvere
l’ordine dei pianeti e, mediante successive
integrazioni, abilita al dominio delle
potenze esterne.
I pianeti, grazie alla credenza in uno
stretto rapporto analogico tra macrocosmo
(l’universo) e microcosmo (l'uomo), non
sono vissuti come realtà esclusivamente
esterne e oggettive; decifrati in esperienze
interne, ad essi corrispondono suoni,
colori, emozioni, passioni, immagini.
Un discorso affine, in estrema sintesi,
tornerà con l’astrologia esoterica islamica
di Albumasar e con la magia di Giordano
Bruno.
Per l’astrologo islamico la passività
del rapporto con i pianeti può essere
rovesciata. Il saggio può fare gli astri
oggetto di interrogationes, può interrogarli
e costringerli a rispondere; egli deve
conoscere i loro programmi per poter
modificare e orientare diversamente il loro
influsso.
Bruno pensa che un severo e
complesso esercizio di controllo della
mente metta l’uomo in grado di controllare
il mondo in cui vive. In particolare egli si
dedicò all’esercizio evocativo della
memoria.
Le immagini che vivono nell’uomo
non sarebbero eventi puramente interiori
bensì proiezioni del cosmo, e colui che le
sa governare può anche governare il
cosmo e rendersi libero.
Il presente saggio ipotizza una
corrispondenza tra l’astrologia del
mitraismo e l’alchimia ermetica. Colui che
abbia raggiunto il controllo di sé per
mezzo del sacrificio e della trasformazione
acquista il potere di governare il destino e
raggiunge la liberazione e la salvezza dal
male.
Il punto cruciale è rappresentato dal
sacrificio, costituito da un atto di sangue,
un atto di morte.
Al centro del mitraismo sta il tema
formidabile del sacrificio del toro,
cavalcato, sfiancato e infine iugulato
senza tracotanza dal dio sereno e forte.
Nel sacrificio, la morte non si presenta
volgare decadenza subìta, ma atto di
creazione e di intensa padronanza della
vita.
Chi poteva essere l’eroe
protagonista d’una simile impresa?
La figura di Mithra si apre sullo
sfondo dell’universo religioso, culturale,
psicologico dei cacciatori per i quali
l’uccisione stabilisce nel tempo stesso la
propria identità, istituisce la comunità,
garantisce la vita.
Al confine orientale dell’Impero
romano, nell’avamposto fortificato di
Dura–Europos, sull’Eufrate siriano di
fronte ai Parti, due affreschi del mitreo
mostrano uno splendido dio cacciatore in
costume persiano accompagnato da un
serpente e da un leone mentre dal cavallo
in corsa colpisce con le frecce dei cervidi
in fuga.
Il tema è l’incontro con la morte, e
arcaicamente ogni morte è un’uccisione.
La morte, la morte data, è l’atto
eminentemente sacro e creativo, che
investe l’essere realissimo. Su questo
scenario si è sviluppata l’immensa
problematica del sacrificio.
Per Walter Burkert (I Greci 1977, tr.
it. 97) nel sacrificio greco l’animale è
associato particolarmente all’uomo; un
animale viene ucciso « al posto » di un
uomo; le interiora (splànchna) portano
immancabilmente gli stessi nomi nell’uomo
e nell’animale; le vittime del rito sono
quelle a sangue caldo. Tutto ciò è
peculiare delle comunità dei cacciatori
arcaici.
Il sacrificio è un’uccisione ritualizzata
che si conclude con un banchetto.
Eppure l’intercambiabilità uomo–
animale per la vittima del sacrificio non è
soltanto greca, anzi proprio su questa
base si possono studiare le radici non
« greche » della grecità. Già nel Veda
l’uomo è la vittima per eccellenza e la
filosofia indiana nasce con la riflessione
sul sacrificio delle Upanishad.
Walter F. Otto arrivò a dire che
presso i greci « il dramma atroce
dell’animale che muore dissanguato è
espressione di uno stato d’animo la cui
grandezza trova confronto solo nelle opere
dell’arte più eccelsa » (Dionysos 1933, tr.
it. 26).
Questa emozione aveva per il
mondo antico una carica dirompente che
oggi ignoriamo in quanto l’industria
alimentare con i suoi procedimenti tecnici
e asettici ha sottratto il tremendum
dell’esperienza diretta del sacrificio.
Lo studio di Lampis prende in esame
una religione che contempla il sacrificio
per suo simbolo principale.
L’uccisione del toro o del Grande
vivente rappresenta, in essa, l’inizio e
insieme la conclusione. Dal sangue che
sgorga prende inizio una nuova umanità
salva; et nos seruasti aeternali sanguine
fuso, si leggeva nel mitreo di Santa Prisca
a Roma. Ma nessuno si salva se non sa
percorrere il duro itinerario iniziatico, se
non riesce ad avviare la trasformazione e
il sacrificio di sé.
L’uccisione per eccellenza vede
l’uomo al centro, vittima e sacrificatore,
animale e cacciatore, morto e vivo.
Le forze elementari che spingono
alla caccia e ad aggredire la vittima in fuga
sono le stesse che spingono a nutrirsi e a
stringere il patto fra solidali che
condividono il destino. Sussiste un circolo
inscindibile tra istinto di vita e istinto di
morte, tra creazione della morte e
creazione della vita.
Il mitraismo ha lasciato un
importante messaggio. I misteri di Mithra
ci pongono in contatto con la presenza
radicale e archetipica di forze terribili che,
se ignorate e negate, immancabilmente ci
travolgono; dobbiamo, invece, conoscere
e apprendere la loro costituzione e
divenire pronti e capaci di cavalcarle e
domarle, fino al punto in cui la mano ferma
sappia trarne la vita.
L’associazione di Jean Servier
« anima–animale » ci sembra giustamente
esplicativa, la storia dello spirito ha una
base pre–spirituale.
I Misteri introducevano a quel
sapere e a quell’arte. Si trattava,
beninteso, di un sapere arduo e di un’arte
severa che aspiravano ad aprire una
strada di speranza in un periodo di
angoscia.
Tuttavia le religioni, anche dopo il
loro tramonto, lasciano un insegnamento
valido per ogni analogo tempo di
smarrimento e di inquietudine. Sta a noi
ascoltarlo e adattarlo alla nuova forma dei
problemi.
Introduzione

Nella Roma inquieta del primo


secolo si affacciò una religione che
proveniva di lontano da una delle società
più tradizionali e severe, l’Iran. Le armate
romane non erano riuscite nell’impresa più
volte tentata di abbattere e annettere
quell’antichissimo nemico agli estremi
confini orientali.
I persiani con cui Roma si scontrò
erano gli eredi d’una delle più importanti
civiltà indoeuropee.
Se vogliamo misurare l’altezza della
cultura e della religione dell’Iran, può
bastare un esempio clamoroso per gli
occidentali più sussiegosi. Martin L. West
ha sostenuto che la speculazione dei primi
filosofi greci, che notoriamente si accende
all’improvviso nelle città ioniche dell’Asia
minore, dopo la conquista persiana di
Ciro, fu innescata da un’irrespingibile
superiore influenza culturale delle classi
sacerdotali, i Magoi, dei dinamici
conquistatori. Non c’è bisogno di accettare
in toto le singole tesi del grecista
oxoniense, di recente riprese da Walter
Burkert, per affacciarci su uno scenario
completamente rovesciato rispetto ai
permalosi e acquietanti giudizi della
grecità che la sognano sbalzata adulta e
armata dalla sutura sagittale del genitore
signore dell’Olimpo.
Giusto per un esempio rivelatore,
nella riflessione ermetica di Eraclito sulla
metafisica del fuoco è evidente un nesso
con la sua sacralità nella religione iranica.
Inoltre, uno dei re dell’Iran antico
porta il nome di Artaserse, appellativo
composto di due parti: accanto a Serse
che risponde al sanscrito kshatriya e che
significa re–guerriero, si coglie un arta a
cui si ricollega la parola greca alétheia,
gravida di destino in occidente (a partire
da Parmenide). Ne viene che il nome di
Artaserse significa « potenza della parola
vera », e designa il re–guerriero che
combatte la menzogna e la tenebra dalla
parte del Signore della luce e della
saggezza, Ahura Mazda.
Mithra si riannoda all’essenza di
questa tradizione; egli è il dio che
combatte contro la non–verità, contro la
tenebra; è il dio del patto fra amici solidali
che combattono dalla parte giusta.

Dopo duemila anni di cristianesimo,


la religione d’un dio guerriero sanguigno
può apparire crudele e barbarica. Forse
contro nessun’altra religione la
persecuzione dei cristiani vittoriosi con
Costantino fu spietata e radicale nella
misura usata contro il mitraismo. I cento
mitrei di Roma, questo è il numero
ipotizzabile nel periodo della massima
diffusione, sono stati spazzati via. Di
alcune unità, seppellite sotto chiese
cristiane, gli scarni elementi non
metabolizzati hanno rilasciato deboli
risposte agli studiosi del secolo scorso.
Queste risposte, seppure esigue,
configurano, insieme con i documenti
iconografici pazientemente raccolti, un
disegno robusto che spiega l’antinomia
inconciliabile dei cristiani imperiali.
Perfino le scarne notizie che
traspaiono in filigrana dalla propaganda di
disinformazione repressiva confermano
che il paganesimo dei mitraisti non era
una sciagurata grossolanità.
Anzi, l’inesorabile ostilità si spiega
con il fatto che le due religioni
condividevano credenze comuni su vari
aspetti: Mithra nasce in una grotta il giorno
del solstizio d’inverno; si presenta nella
veste del Salvatore nell’imminente fine dei
tempi; al momento del giudizio finale
dividerà i reprobi dai giusti; il rito si svolge
attorno a un banchetto comune con pane
in forma di croce e vino.

Il dio Mithra non funge da vittima


sacrificale per riscattare una colpa. Nel
mitraismo non c’è ombra del sentimento
della colpa. Soprattutto, l’eroe divino non è
un dio che muore. La salvezza che da lui
promana verso gli uomini non dipende
dalla sua morte, al contrario dipende dal
fatto che egli dà la morte – qui in radice la
contraddizione con il cristianesimo.
Al centro della vicenda di Mithra
campeggia l’icona del dio giovane, forte,
bello, equilibrato, che uccide per dare vita.
Egli è colui che compie il gesto cruento
paradigmatico; l’uccisione originale che
scatena le potenze della morte sacrificale.
Pertanto, la vittima che da lui viene
uccisa è, per rigorosa consequenzialità, la
vittima esemplare, quella dalla cui morte
può scaturire la vita e la salute.
Nel mio lavoro esaminerò l’identità di
questa vittima, per decifrare in che senso
dalla sua morte cruenta può nascere la
vita. Posso anticipare che il mitraismo
riprende e rinnova la riflessione sul pathos
del sacrificio eroico. Uno dei riti centrali
della liturgia romana, egualmente a quella
greca, indiana, iranica, si svolge attorno al
gesto sacro dello spargimento del sangue.

Il mitraismo trova un’affascinante


soluzione del problema della non–morte.
L’immortalità mitriaca consiste in
un’inversione del tempo che ne realizza il
dominio. Dominio del tempo non è un
prolungarsi indeterminato non qualitativo.
La risurrezione non concerne un evento
post mortem, equivale invece a una
trasformazione di questa vita.
La liturgia mitriaca, deducibile dalla
scala dei gradi iniziatici, è un percorso di
progressiva rottura delle forze che
comprimono l’uomo e lo spingono a subire
il destino, lungo una successione di
potenziamenti finalizzati alla perfetta
padronanza di sé.
Il culmine dell’itinerario sta nella
contemplazione e nella riattualizzazione
dell’uccisione esemplare del toro.
Per i mitriaci, in breve, si instaura un
circuito in cui l’uomo capace di compiere il
gesto sacrificale si trasforma e libera, e
reciprocamente è capace di compiere il
gesto supremo solo chi si trasforma e
libera. In ultima analisi, si libera solo chi è
disposto a essere sacrificato.
Un’ideologia severa, da reggitori e
da soldati: il supremo atto di dare la morte
– atto per eccellenza sacro – presuppone
un’ascesi rigorosa per raggiungere la
riappropriazione e la reintegrazione di sé.
Le doti di equilibrio, dominio di sé,
coraggio, attenzione non disincarnata e
lunare per il mondo della laboriosa prassi,
erano e sono le doti dei reggitori, tipiche di
coloro che sono consapevoli che
l’autentica arte del governo comporta un
combattimento tra bene e male.
E’ perfettamente comprensibile che
una religione severa della trasformazione
sacrificale di sé dovesse attrarre i militari e
le cerchie legate al culto della sacralità
dell’ordine imperiale.

Ci siamo interrogati sui motivi per i


quali i romani abbiano potuto accogliere
un dio persiano, a cui non fu cambiato
nemmeno il nome. I cristiani, dal canto
loro, non intitolarono la loro fede con il
nome di Gesù.
Pur risultando il Mithra romano
ampiamente ripensato e riformulato
rispetto alla lontana figura originale,
seguendo itinerari che sono oggetto di
studio da parte degli storici delle religioni,
un nucleo essenziale della struttura antica
del dio si è conservato ed è andato a
incontrarsi con perfetta congenialità con
un'intima disposizione dell’animo romano.
Intendo riferirmi alla squisitamente
romana temperantia.
La temperantia latina traduce la
greca sophrosyne. E, similmente a ogni
traduzione, il latino un po' toglie e un po'
aggiunge. Nel greco troviamo l’unione del
phren (l’organo fisiologico delle decisioni)
con il sos (l’essere sano, in buona salute).
Nel latino entra il fattore tempo, la sua arte
e il suo lavorio.
Un eco della fisicità del concetto
latino – e stoico – si è prolungato
nell'italiano temperare, che va dal
mescolare al correggere, ragione per cui
possiamo trovare temperato un clima
dolce, un suono armonioso, una forte lega
di metalli, un riuscito taglio di vini; e infine
ogni persona ha un temperamento.
Un altro caso, questo, in cui la civiltà
morale di Roma pagana va disciolta dalle
sovrapposizioni cristiane che l’hanno
inquadrata in una prospettiva rovesciata
rispetto a quella stoica. Il dominio di sé e
l’attitudine alla sobrietà non ha niente a
che vedere con il sentimento della colpa
del vivere e con la mortificazione, al
contrario essi celebrano un gusto pieno
della libertà nel mondo per il mondo e
certo non dal mondo. Il Marco Aurelio che
elogia la temperanza non è un moralista e
un intimista, è un uomo di stato.
La temperantia è la severità, la
sobrietà, l’operosità efficace e equilibrata
di colui che tempera.
Dalla parola, dicevo, veniamo portati
al tempus, il tempo. La temperanza si
riferisce al lavorìo del tempo; essa è l’arte
del tempo, la sua capacità di cuocere,
rifondere, ridistribuire, preparare nel suo
vaso.
Il tempo si basa sul ritmo e
sull’ordine. E’ temperante colui che ha il
sentimento del tempo. Nessuna lentezza,
nessuna fretta, nessuna eccitazione;
piuttosto l’azione pacata e ferma che
scaturisce dal dominio degli impulsi interni
e degli impulsi esterni, dall’educazione a
non cedere alle emozioni e alle passioni.
E non deve nemmeno riferirsi a un
tempo estraneo e oggettivo, al giro degli
astri di fronte al quale si sta passivi e che
si subisce; il tempo deve essere governato
e riavviato con creatività e originalità.
Una simile forza non si guadagna
con un atto istantaneo, essa esige un
complesso e doloroso itinerario iniziatico
di scioglimento.
Il mitraismo, ultima propaggine d’una
religione eroica basata su società segrete
di uomini, forse era condannato fin dal
principio a soccombere nell’epoca che si
andava aprendo alle nuove nationes. Chi
doveva decidere non credette che la
conservazione dell’Impero nella sua
dilagante dimensione popolare potesse
reggersi su una religione esoterica e
aristocratica, però riuscì soltanto a
prolungarne l’agonia.
Non solo la nascita delle religioni
costituisce un problema inquietante, lo è
anche la loro morte.
1
Un mistero romano con maschere

Per quale ragione il mitraismo


raccolse ampi consensi fra i romani,
penetrando nei semplici militari e nelle
classi dirigenti della cerchia imperiale,
pure essendo la religione d’un dio degli
irriducibili nemici persiani? E’ chiaro che
esso doveva recare un messaggio
compatibile e congeniale con la difesa e il
rinnovamento dell’Impero.
Oltre la programmatica distruzione e
distorsione da parte dei cristiani vincenti,
restano i contorni d’una severa religione
esoterica basata su società segrete
orientate al combattimento finale mediante
una rigorosa iniziazione e trasformazione
degli aderenti.

Il nome del dio Mithra (il sanscrito


mithros significa amico) richiama l’alleanza
e i patti. Il Mithra iranico, dio celeste che
tutto vede, associato alla luce e alla verità
e contrario alle tenebre, è il garante
dell’amicizia sincera basata sulla lealtà.
Un dio Mitra compare nei Veda
associato a Varuna, con il quale condivide
l’esercizio della più alta funzione sacrale,
la sovranità magico–religiosa. Georges
Dumézil (Les dieux souverains des Indo–
Européens, Paris 1977) ha studiato i
rapporti e la distribuzione reciproca dei
compiti interni di quella funzione primaria:
mentre Varuna assume su di sé il compito
notturno di guerriero punitivo e dell’incanto
magico, Mitra esplica quello solare e
radioso di garante della pace. Egli incarna
la funzione regale sotto il profilo della
benevolenza magnifica. Eppure è
combattivo e all’occorrenza violento e
feroce.
Nel quadro della riforma monoteista
promossa da Zarathustra (o Zoroastro,
nella tradizione classica), allorché Ahura
diventa il dio supremo e unico, Mithra
associa a sé le funzioni precedentemente
esplicite in Ahura, quali la magia e il
combattimento. Successivamente, liberato
dai tratti guerreschi, si accentua la sua
funzione di giudice delle anime al servizio
del Signore Sapiente (Ahura Mazda).
La sua identificazione con la luce, e
con quella del Sole in particolare, è
rimasta costante.
Questo si connette con il suo
lontano carattere originale di legatore di
nodi e di garante dei contratti. La ragione
per la quale una simile funzione possa
appartenere alla struttura d’un dio solare
sta nell’idea che luce e verità, stabilità dei
patti e sincerità, formino un tutt’uno. In Iran
la parola vera ha un rilievo di autentico
potere cosmico ed è una proiezione del
sommo Signore Sapiente nella battaglia
ingaggiata contro lo spirito della tenebra.
In occidente, l’ultima volta che la suddetta
associazione immediatamente scultorea si
è presentata ricorre nel poema di
Parmenide, venerando e terribile.

La religione di Mithra viene


segnalata entro i confini dello stato
romano nel I secolo.
La prima menzione conosciuta risale
al poeta Stazio, mentre le iscrizioni più
antiche sono di poco anteriori all’epoca di
Traiano; si riferisce inoltre che l’arsacide
Tiridate, devotissimo di Mithra, venuto a
Roma a ricevere da Nerone l’investitura
del regno di Armenia, avesse iniziato
l’imperatore al sacro banchetto del rito
mitriaco.
Ciò configurerebbe solo gli elementi
d’un « preludio sporadico » (Raffaele
Pettazzoni I Misteri. Saggio d’una teoria
storico–religiosa, Bologna 1924, n.va ed.
Cosenza 1997, 169 n. 35).
Mentre per Robert Turcan (Mithra et
le mithriacisme, Paris 1981, 19932, 33 e
127) la collocazione emblematica del
nome del nuovo dio nel poema di Stazio è
indizio d’un forte radicamento di Mithra
nella corte imperiale dell’ultimo quarto del
primo secolo.
Il mitraismo comincia a essere
archeologicamente documentato solo dal
II secolo – età degli Antonini – ma è
oggetto di discussione se quello emerso in
questa fase sia lo stesso di quello apparso
nel primo secolo a. C. in Asia minore. Gli
studiosi hanno giudicato di trovarsi
dinnanzi a una religione formatasi a più
strati e hanno concentrato la ricerca sul
genere degli apporti che via via si sono
aggiunti al primitivo dio iranico e che
hanno permesso al mitraismo di doppiare
il limite critico della penetrazione nel
mondo romano. In altre parole, si discute
sulla storia e sulla qualità della
reinterpretatio.
La massima diffusione (dal Vallo
adriano all’Indo) fu raggiunta in
concomitanza con il verificarsi di particolari
condizioni ideali e politiche verso la metà
del III secolo (Aureliano) e agli inizi del IV
(Diocleziano). Sul finire di quest’ultimo
secolo, assunto il cristianesimo a religione
di stato, e dopo una breve ripresa sotto
Giuliano (ai suoi tempi il mitraismo era in
gran parte rifluito e in molte regioni aveva
subito i guasti delle invasioni barbariche), i
mitrei vengono distrutti (persecuzioni di
Graziano e Teodosio).
La consistenza delle comunità
mitriache, dedotta dalla modestia degli
spazi interni dei suoi santuari (sono
rarissimi i casi in cui potevano accogliere
un cinquanta adepti, mentre nella
maggiore parte si arrivava a una ventina),
era numericamente inferiore a quella dei
cristiani. Il mitraismo, che non era mai
divenuto religione ufficiale e non fu
moltiplicato artificialmente dal favore del
principe, si identificò con quella religione
del divino Sol inuictus (Franz Altheim Der
unbesiegte Gott, Hamburg 1957; tr. it. Il
dio invitto, Milano 1960) nella quale nel
secondo Impero fu concentrata la
devozione alla sacralità dell’autorità.
In un periodo storico in cui si andava
intensificando il culto del genius del
sovrano, il mitraismo fornì una sorta di
legittimazione alla divinizzazione del
potere personale del principe; pure esso
rimase circoscritto in ambito privato
sebbene gli aristocratici si vantassero
pubblicamente dei titoli mitriaci dei quali
erano insigniti.
Il problema delle linee seguite dalla
diffusione del mitraismo fa tutt’uno con il
problema della sua interpretazione.
Alcuni hanno sostenuto che lo snodo
critico è individuabile in una formazione
orientale più recente del Mithra originale,
prodottasi in Cappadocia e nella
Commagene: dopo l’incorporazione di
queste province anatoliche essa sarebbe
passata a Roma con le milizie che se ne
traevano. In alternativa altri hanno puntato
a una formazione romana particolare.
Questa tesi, netta da parte di Stig
Wikander, non deve essere considerata
stravagante. Riflettiamo sulla stessa
affermazione del cristianesimo a Roma
alla quale non fu estraneo il robusto
contributo di politici, intellettuali e circoli
religiosi interni.
La tesi della formazione romana del
mitraismo ha acquistato un certo diritto di
cittadinanza dopo mezzo secolo di
dominio delle tesi iranizzanti di Franz
Cumont. L’opera di contrasto nei riguardi
della linea di Cumont non si è limitata al
carattere agrario da lui attribuito al culto
mitriaco e si è andata a collocare in un più
vasto fronte avverso all’assegnazione
della matrice iranica da parte della
Religionsgeschichtlicheschule agli inizi del
secolo allo gnosticismo, al cristianesimo,
al mitraismo. (Sull’indirizzo della scuola C.
Colpe Die Religiongeschichtlicheschule,
Göttingen 1961. I maggiori rappresentanti
furono Richard Reitzenstein e Wilhelm–G.
Hugo Bousset).
Per un esempio dei risultati di
questa corrente e dei problemi che
sollevarono, ricordo che in una certa fase
si ritenne che mitraismo e cristianesimo
potevano entrambi in origine essere stati
un’unica corrente, successivamente
divaricatasi in due direzioni, l’una
aristocratica e l’altra democratica.

Il pendolo non si è ancora


stabilmente fermato. A ogni conto, è
apparso strano che le élites romane
abbiano adottato una religione dei
persiani; addirittura uno dei gradi più alti
della gerarchia misterica, vedremo meglio
in seguito, porta il nome di « Persiano »;
né va trascurato che il dio mantenne
irriducibilmente il nome originale, proprio
quello usato dai nemici – John R. Hinnells
Introduction: the questions asked and to
be asked, in Hinnells (ed.) “Studies in
Mithraism” (XVI Congress of the IAHR,
Roma 1990), Roma 1994, 15.
Non è chiaro se al riguardo è
sufficiente controdedurre che il mitraismo
si presentò in veste ellenizzata (pur non
riuscendo a penetrare in Grecia). Inoltre la
ricerca ha mostrato che l'innalzamento di
Mithra a dio di salvezza appartenne a una
riscossa tradizionalista della civiltà iranica.
Perciò, delle due l’una: o la società
romana imperiale era permeabile da ogni
soteriologia esotica per incapacità d’una
risposta creativa o la religione di Mithra
era compatibile con la difesa più gelosa
della romanità.
In relazione al dilemma, gli studiosi
hanno assegnato una certa importanza
alla stratificazione ideologica della
religione mitriaca, alla composizione
sociale degli adepti, all’articolazione
geografica delle comunità.
Come che sia, nel mitraismo fu
percepito un orientamento che coglieva la
sacralità dell’Imperium. I romani sentivano
nemiche, e infette del germe della
dissoluzione della lex e dell’autorità, solo
le ideologie antitetiche alla devozione alla
virtù unificatrice del reggimento della storia
e del mondo. Niente di tutto ciò riguarda il
mitraismo.
Le notizie sul mitraismo sono
pervenute nella maggior parte da
appartenenti alla religione vincitrice – di
solito accade con le religioni represse dal
potere dominante. Gli scrittori pagani
danno notizie molto frammentarie e
deformate dalla loro prospettiva filosofica,
il che porta a giudicare, a esempio, di
Porfirio assai contraddittoriamente: o un
inattendibile deformatore o un teorico
vicino al nucleo maturo della dottrina
mitriaca.
Le cose, infine, sono rese più
complicate dall'esoterismo del mitraismo.
Dovrebbe essere questo il motivo per il
quale mancano testi provenienti
dall’interno (salvo forse un’eccezione che
vedremo nel capitolo IV), e sulla liturgia e
sulla dottrina.
Disponiamo nondimeno d’un
ingente materiale archeologico. Data la
forte penetrazione presso l’esercito
romano, l’estensione del culto segue in
pratica la geografia della dislocazione
strategica delle legioni, a Roma, nei porti
principali e lungo gli assi del limes.
Nei trovamenti è compresa una
robusta massa di iscrizioni.
Il tutto fu raccolto e commentato da
un eminente studioso, il professor Maarten
J. Vermaseren (Corpus inscriptionum et
monumentorum religionis mithriacae, voll.
2, Den Haag 1956). L’opera, iniziata da
Cumont a cavallo dei due secoli, a
sessant’anni dalla pubblicazione andrebbe
aggiornata e integrata. Le testimonianze –
mai dirette, ripeto – purtroppo spesso non
concordano con i documenti archeologici e
epigrafici rendendo assai ardua la
conoscenza della dottrina.
Non è facile ricostruire con sicurezza
la dottrina dei misteri di Mithra dai
documenti archeologici e dalla scarsa
letteratura indiretta. La conoscenza del
contesto religioso e culturale dell’epoca è
di notevole importanza, e impegna a
discriminare con precisione fra i vari
misteri dell’epoca.
L’impresa è possibile a patto di
individuare con attenzione i caratteri
essenziali del dio e delle sue azioni
esemplari.
Mithra nasce da una roccia–
montagna (saxigenus). Mithra e il Sole
combattono insieme da compagni di Ahura
Mazda nella battaglia tra luce e tenebre.
La prima creatura di Ahura Mazda fu il toro
selvaggio, Mithra lo cavalca sfiancandolo
poi se lo carica in spalla e lo riporta nella
caverna. Il toro era fuggito e il Sole aveva
mandato il corvo sulle sue tracce. Mithra lo
cercò con i suoi cani e trovatolo lo afferrò
per le zampe posteriori e lo trascinò
all’indietro alla caverna dove gli torse la
testa stringendogli le narici con la mano
sinistra e con la mano destra gli piantò un
pugnale in gola. Dal sangue del toro
germogliarono il grano e altre piante.
Ahriman, spirito delle tenebre, inviò i suoi
servi, lo scorpione, la formica, il serpente,
per leccare il sangue apportatore di vita,
invano perché il sangue si diffuse su tutta
la terra. Il Sole riconobbe la supremazia di
Mithra, si inginocchiò davanti a lui, Mithra
lo incoronò e i due strinsero un patto
solenne.
Per altre versioni, Ahriman cerca di
sommergere il mondo con un diluvio e
Mithra salva l’umanità. Oppure Ahriman
invia una tremenda siccità e Mithra
colpisce una roccia con una freccia e ne fa
scaturire una sorgente inesauribile.
Comunque sia andata, Mithra – salvatore
e fondatore dell’umanità – prende infine
congedo dal Sole, suo alleato, con un
banchetto sacro, che viene commemorato
con il pasto rituale dei devoti.

I devoti erano organizzati in una


gerarchia di sette gradi (rilevo l’analogia
con il sette dei sacramenti dell’ortodossia
cristiano–cattolica): Corvo, Sposo,
Soldato, Leone, Persiano, Corriere del
sole, Padre.
I mosaici del mitreo di Felicissimus a
Ostia informano sulle corrispondenze dei
gradi con i pianeti e sulle insegne che loro
rispettivamente competono; gli affreschi di
quello di Santa Prisca informano su
costumi e funzioni – differenziandosi in
parte dal mitreo ostiense sull’attribuzione
di alcune tutelae planetarie –.
Turcan, che ritiene posticcio lo strato
dottrinale astrologico, considera il
settenario dei gradi iniziatici una
formazione tarda, istituzionalizzata solo
nella seconda metà del II secolo, per far
quadrare la serie degli astri con la scala
dei gradi; a suo avviso i titoli sicuramente
primitivi sono Corvo e Leone (cit. 82–83),
gli unici peraltro a portare le maschere dei
rispettivi animali.
Il primo grado contiene un
riferimento al corvo che aveva trasmesso
a Mithra l’ordine d’immolare il toro, esso
viene associato al dio dei messaggi
Mercurio e si fregia del caduceo. Ai Corvi
spettava di servire la carne e la bevanda
nei banchetti sacri.
Segue il nymphus; però è sembrato
che il nome da leggere sulle iscrizioni sia
cryphius, che in greco significa occulto – e
che, per Turcan, vuole dire « iniziato della
cripta » (cit. 75). Porta un diadema e una
lampada, al momento della consacrazione
gli toglievano il velo e gli rivolgevano
l’appellativo di « luce nuova ». Mostrare gli
occulti è una formula che si legge nelle
iscrizioni e che probabilmente richiama
questo rito.
Circa il grado di nymphus
(inequivocabilmente connesso con il
pianeta Venere) è opportuno tenere conto
che nei riti iniziatici maschili la nuova
nascita mistica dell’adepto comporta una
preliminare ricomposizione androginica.
Eppure, per l’ambivalenza dei simboli,
quella stessa androginia che equivale a un
regresso allo stato potenziale e indistinto
si rovescia in uno stato d’integrazione e
autosufficienza che richiama la perfezione
del primo uomo.
Sarebbe da considerare che nel
viaggio del proemio di Parmenide (I, 24) la
dea accoglie il novizio appellandolo
« giovane sposo (συναορος) d’immortali
aurighi »: l’integrazione con i poteri delle
Figlie del sole, alla guida del carro della
sua ascesa, consente al viaggiatore
parmenideo il distacco dalla via del falso
sapere e il superamento della soglia oltre
la quale si spalanca la visione della verità.

Il miles, riferisce Tertulliano, veniva


prima battezzato, poi segnato in fronte (De
praescriptione haereticorum 40, 4;
possiamo supporre che venisse tatuato
con il fuoco), infine tentato col famoso rito
dell’offerta della corona: « Gli viene
presentata una corona, collocando tra
questa e il candidato una spada; gliela si
aggiusta sul capo e egli è avvertito che
deve farla cadere magari sulla spalla,
dicendo che Mithra è la sua corona » (De
corona 15, 4). La cerimonia comportava
un’aggressione e molto probabilmente
delle ferite e si racconta che fu in una
simile circostanza che Commodo uccise
uno che odiava, per quanto la
testimonianza può dipendere da un
equivoco dato che fra le prove tipiche
dell’accoglimento nelle società segrete
ricorre l’esperienza d’una morte fittizia.
Da Porfirio apprendiamo che nelle
mani dei Leoni versavano del miele e che
ancora con il miele lavavano la loro lingua
purificandola da ogni peccato. Tali atti
richiamavano l’importanza del rispetto
della verità e dei patti per i combattenti
nell’esercito della luce e del fuoco. Sono i
Leoni che recano a Mithra le offerte
sacrificali e bruciano incensi; la funzione di
accostarsi al fuoco fa sì che il loro attributo
sia la pala per il fuoco.
Anche le mani del Persiano
venivano purificate col miele. Egli portava
l’appellativo di « custode dei frutti » e ciò
lo poneva sotto la protezione della luna,
l’astro cui era attribuita una produzione di
miele. Dal miele si traeva una delle
bevande fermentate inebrianti primordiali,
anteriormente alla scoperta del vino; i
liquori divini della vita immortale, quali
soma o haoma, sono collegati con la luna,
principio immortale della vita mobile
rinascente, e chi ne beve assume il potere
sacro della vegetazione e dell’acqua
concentrato sulla luna (Mircea Eliade
Traité d’histoire des religions, Paris 1948;
tr. it. Trattato di storia delle religioni, Torino
1976, 167–168).
Annotiamo che sussiste uno stretto
collegamento simbolico tra toro e luna.
Nella luna era riconosciuta la causa della
crescita dei vegetali e in particolare dei
cereali. Il Persiano porta la falce da
mietitore, e la falce rappresenta la luna.
Il Corriere del sole ha per insegne
torcia, frusta e corona. Un simile Corriere
compare in una pittura di Santa Prisca
vestito di rosso con una cintura gialla, con
un’aureola raggiata caratteristica del
pianeta al quale è dedicato, il sole, e con
in mano una sfera azzurro scuro che pare
designi il cosmo notturno. L’attributo della
torcia riporta i Corrieri del sole alle figure
di Cautes e Cautopates (v. più sotto) e
permette di ricostruire che nelle cerimonie
svolgevano il ruolo di portatori di torce.
Il grado più alto e finale, il capo della
comunità, è quello di Padre; abbiamo
altresì notizia d’un Padre dei leoni. Suoi
attributi sono bacchetta, anello e la mitra
frigia a fanoni, un copricapo con il nome
del dio; noto di sfuggita che quello dei
vescovi cristiani ha stesso nome e stessa
foggia – (sul simbolismo del pesce René
Guénon Symboles fondamentaux de la
Science sacrée, Paris 1962; tr. it. Simboli
della Scienza sacra, Milano 1975, 19902,
in particolare 138).
E’ lui che accetta i novizi e li
consacra, dopo averli addestrati nella fase
preparatoria. Un Padre dei Padri, che ha
la sua sede in Roma, è il sommo pontefice
dell’intera ecclesia mitriaca, o almeno di
quella dell’Urbe.
Le persone insignite dei gradi del
sacerdozio svolgevano attività militari e
civili nella vita comune e va notato che è
tipico dello spirito romano il fatto che non
costituissero un clero separato.
Le donne non erano ammesse alla
liturgia e non ne conosciamo con certezza
alcun nome fra i mitraisti, comunque gli
adepti potevano sposarsi (il Padre dei
Padri lo poteva fare solo una volta).

I templi mitriaci in origine erano antri


(la nicchia dell’abside con la statua del dio
viene sistemata da sembrare una grotta
naturale) e continueranno a denominarsi
antri pure quando saranno costruiti all’aria
aperta dove la conformazione del terreno
non offre cavità o non consente scavi
artificiali (accadde a Ostia, dove sono stati
trovati poco meno d’una ventina di templi).
Per il loro simbolismo dobbiamo fare
riferimento alla caverna iniziatica,
autentico cuore della montagna cosmica
(sulla simbologia della caverna Guénon
cit. 175).
La montagna cosmica, ripresa nelle
ziqqurat mesopotamiche, è disposta su
sette livelli o piani corrispondenti ai sette
pianeti.
« All’interno, la disposizione dei
mitrei non varia quasi mai: un corridoio
centrale conduceva alla statua – a volte
racchiusa in una nicchia – di Mithra
tauroctono, tra due file di banchi parallele.
Questa nave era spesso preceduta da un
pronaos, che fungeva da sagrestia per
sistemare gli abiti sacerdotali e gli oggetti
del culto. Dal lato dell’ingresso c’era una
vasca o cratere analogo alle nostre
acquasantiere (i mitrei sono di massima
collocati in prossimità d’una fonte o d’un
corso d’acqua). All’altra estremità della
cripta ardevano di fronte alla nicchia uno o
due altari; illuminavano la nave delle
lampade sospese alla volta con catene o
poggiate sul bordo delle panchine. La
volta, immagine del cielo, è di frequente
decorata con stelle o personificazioni
sideree. Cautes e Cautopates, geni del
Sole levante e del Sole al tramonto,
accoglievano i fedeli accanto alle panchine
laterali, lungo le quali essi si disponevano
per prendere parte ai pasti sacramentali.
Altre statue, in ispecie quella del Tempo
divinizzato, si ergevano o all’entrata o
dietro quella di Mithra tauroctono. Certe
grotte erano adorne di ricche pitture (a
esempio, quella di Santa Prisca,
sull’Aventino, o quella di Dura–Europos in
Siria sull’Eufrate) o di mosaici (Ostia).
Oltre il limite dell’area sacra si scavavano
fosse per interrarvi le carcasse delle
vittime sacrificate » (Turcan cit. 74).
Gli iniziati sedevano, si
inginocchiavano o stavano distesi su sedili
di pietra a uso di triclini scolpiti
longitudinalmente lungo le pareti laterali
della cappella–caverna, con i vestiti del
loro grado. In Porfirio, i primi tre gradi, i più
bassi, sono denominati Servitori, gli altri
quattro, i più alti, Partecipanti. (Per Turcan
cit. 86, il solo fatto che gli affreschi di
Santa Prisca mostrano chiaramente che
anche i Leoni servono, dimostra la
superficialità e l’inattendibilità di Porfirio o
delle sue fonti). Che i due gruppi fossero
scanditi in siffatto modo induce a pensare
che la dottrina riservata contemplasse due
cicli e due punti di partenza, uno da
Mercurio e un altro in apparenza da Giove,
– spiegheremo che tutto dipende dalla
forma effettiva del percorso.
Taluni passaggi di grado
comportavano prove di resistenza al
dolore, in particolare alla fame e al freddo.
Abbiamo visto che il grado di Leone
prevedeva la purificazione della lingua e
delle mani con il miele. Oltre quest’ultima
purificazione – più sopra ho detto dello
svelamento dello Sposo, e del battesimo e
della segnatura del Soldato – non ne
conosciamo altre sebbene solitamente
nelle società segrete l’accesso ai vari
gradi preveda vari livelli di purificazione
mediante forme di sofferenza.
Il miele è l’ingrediente per una
bevanda inebriante arcaica; Crono è stato
inebriato con il miele da Zeus quando lo
trasportò detronizzato ai confini del
mondo; i greci continueranno ancora a
mischiare il miele con il vino e non certo
soltanto per addolcirlo. Non possiamo
escludere che gli altri gradi prevedessero
l’assunzione, se non di droghe, almeno di
alimenti o bevande dal potere mistico.
È abbastanza sicuro che i convenuti
cantassero inni. Fra i riti risalta un
banchetto comune in memoria del
banchetto di commiato tra Mithra e il Sole,
un’agape con il vino e focacce a forma di
croce, e un patto solenne con la famosa
stretta della mano destra (dexiosis).
Un’iscrizione del mitreo di Santa
Prisca reca: « et nos seruasti (a)eternali
sanguine fuso », e tu ci hai salvato con lo
spargimento del sangue eterno. Il verso,
leggibile nell’essenziale, è ricostruito in
parte da un’eccellente congettura.
Il mito del sacrificio del toro occupa il
centro della dottrina mitriaca, vuole dire
ciò che nei mitrei sgozzassero tori? Il
posto occupato dal taurobolion – la cui
pratica è però solo per Cibele, culto
spesso ospitato nei mitrei – è controverso
dato che la maggior parte dei mitrei non
contiene un posto ad hoc (salvo forse
quelli di Treviri e delle Terme di
Caracalla). Invece ricorre costante una
lustratio battesimale con acqua, il che
richiama, senza che sia scontato, analogie
della specie dei culti apocalittici mandei e
dei cristiani.

E’ credenza comune generale dei


misteri che l’iniziato, nel rinnovare sé
stesso, rinnovi il mondo e la comunità.
Entro questa cornice si muovono le
religioni dell’epoca, cristianesimo e
mitraismo compresi. L’idea è presente nel
pensiero vedico e iranico, nonché presso
latini, egizi, cinesi; eppure credere che la
rinascita degli individui – in particolare la
rinascita della classe dei maschi adulti, dei
governanti e dei guerrieri, ovvero soltanto
del sovrano in cui si riassume la società
intera – si ripercuota in una rinascita
generale appartiene a un bacino ancora
più arcaico, del quale è stato riconosciuto
tributario lo stesso pensiero indoiranico. In
ambito etnologico è proprio quello che
trova espressione nei riti introduttivi alla
nascita dei veri uomini di cui sono
depositarie le confraternite maschili, le
società segrete delle maschere, i
Männerbünde.
Nella cultura persiana le società
segrete di guerrieri godono di alta stima ed
è noto che presso di esse è coltivato in
sommo grado il peso della lealtà
reciproca, del mantenimento della parola
data, della fedeltà al giuramento agli dèi.
Altrettanto nota è l’importanza nella cultura
indoiranica della mano destra, sede
dell’energia della persona e di essa
rappresentante impegnativa.
Nella Commagene, regione nella
quale sembra potersi rintracciare l’anello
intermedio tra il Mithra originale iranico e il
greco–romano, uno dei simboli principali
del culto del re era la stretta della mano
destra (dexiosis) tra lui e Mithra, la stessa
che ritroviamo al centro del rito e
dell’immaginario mitriaco greco–romano,
autentico sacramento dell’alleanza con gli
dèi, essenziale parimenti alla romana pax
deorum.
Per il mitraismo, l’umanità non è
metafisicamente separata dalla divinità e
esclusa da un destino divino; al contrario
una sua parte può partecipare alla vicenda
cosmica in stretta alleanza con divinità
amiche – con Mithra – in contrasto con
altri uomini e divinità nemiche. In tale
scenario, oltre a divinità alleate nella lotta
per il pieno sviluppo delle profondità
dell’uomo e per il suo ritorno alla perfetta
espressione delle sue doti, possono
esserci divinità avverse. La fase cosmica
in atto è segnata da un drammatico
conflitto; l’uomo, che rischia di rimanere
inchiodato nell’irrigidimento e precipitato
nell’oscurità, deve alzarsi e combattere. Il
mondo attuale è l’arena della lotta.
Richiamando i poteri suggellati nelle
maschere, l’uomo può farcela; può farcela
acquistando nature vie più ricche. Del
resto, una volta accertata la presenza
qualificante delle maschere nel nucleo
primitivo del mitraismo, se ne deve
dedurre che ciò rechi con sé la retrostante
ideologia (Giuseppe Lampis Maschera e
daimon, “Átopon” IV, Roma 1996, 17–32;
e Maschere e dèmoni voll. 2, Roma 1999).

I misteri di Mithra riesprimono gli


elementi essenziali di un’antica dottrina:
l’uomo attuale deve affrontare l’ardua
prova della traversata di questo mondo e
salvarsi rinnovando e integrando la sua
vera natura. Natura consustanziale con il
sole e con il fuoco.

Qui giungiamo escludendo dalla


dottrina lo scenario astrologico. Se invece
lo assumiamo per essenziale dell’ideologia
mitriaca, il combattimento acquista ulteriori
connotazioni.
Per liberarsi l’uomo deve
ripercorrere a ritroso le tappe del suo
avvitamento nella distretta attuale e
dissuggellare uno dopo l’altro i legami con
cui è stato annodato. La distretta non
dipende dall’incarnazione bensì dalla
passività nei suoi riguardi, non si deve
fuggire dal mondo ma rovesciarne il verso
e governarlo.
Questo processo eroico esige
un’aristocratica attitudine ad affrontare il
dolore e il rischio. I passaggi critici
dell’inversione e del ritorno sono molteplici
e tremendi, gli ostacoli sono interni e
esterni, le forze che hanno spinto verso il
basso non hanno lasciato intatto il cuore
dell’uomo, sono penetrate in lui
infettandolo e appesantendolo. La risalita
e la rinascita esigono una lotta su più
piani, contro i guardiani delle porte di
accesso alle regioni in cui via via l’eroe si
propone di entrare e contro i dèmoni
psichici che corrodono la sua volontà. La
saldatura tra oppositori interni e esterni è
tanto stretta che presupposto necessario
affinché lo scontro possa riuscire vittorioso
è che l’iniziando prenda coscienza della
loro corrispondenza e identità. Le forze di
cui vado dicendo, a mano a mano che il
risveglio procede, da ostacolo vengono
convertite in alleate potenti e, con la
stessa energia con cui provocavano la
discesa, moltiplicano la spinta a risalire.
L'acceso combattimento nel quale
consiste il viaggio eroico assume la forma
d’una rivoluzione etica, la quale può
essere descritta nella forma d’un conflitto
metafisico per la coincidenza di
microcosmo e macrocosmo.
L'intero processo può essere
guardato nell’ottica d’una procedura di
successive integrazioni in stati di
esistenza abbandonati o caduti in latenza.
Da quanto sappiamo del mitraismo,
il conseguimento dei gradi era vissuto nel
rito quale trasmutazione in forme speciali
e assunzione correlativa di maschere
demoniche, al fine di acquistarne i poteri
specifici.
Si configura, insomma, un
complesso religioso relativamente recente
in cui la metafisica della maschera si
presenta ancora in primo piano e con un
ruolo centrale.
2
Gradi iniziatici e astrologia

La gerarchia dei gradi iniziatici


mitriaci corrisponde a una procedura
astrologica esoterica. Il potenziamento
progressivo degli affiliati dipende
dall’integrazione con i poteri concentrati
nei vari pianeti. La comprensione dei
passaggi è difficile ma è possibile
affermare che la scala misterica contiene
l’itinerario d’un rovesciamento dell’ordine
condizionante del destino, basato sul
sistema planetario oggettivo. Il
rovesciamento si incentra sull'esaltazione
del potere liberatorio del Sole.

Ho accennato all’opera di revisione


della tesi di Cumont, risalente nel suo
disegno sostanziale agli ultimi anni del XIX
secolo. Importanti novità critiche furono
introdotte negli anni settanta del 1900 da
Richard L. Gordon e da una corrente che
si riferì all’astronomia ellenistica per
spiegare l’immaginario del mitraismo.
Non tutti hanno seguito questa
strada. Turcan a esempio, applicandosi in
un quadro neocumontiano, non stima che
la tauroctonia, archetipo centrale del mito,
si sia formato a partire da un’esigenza
astrologica. Egli nega che la filosofia
neoplatonica, la cui simbologia astrologica
è una componente indisgiungibile e
significativa, appartenga coerentemente
all’essenza del mitraismo. In particolare
Turcan non vede nel mitraismo nessun
atteggiamento anticosmico e nessuna
traccia della caduta dell’anima e della
negatività dell’incarnazione, e piuttosto
ricava – prevalentemente dai dati
archeologici, iconografici e epigrafici – i
contorni d’un sincretismo tra elementi orfici
(la nascita del mondo da Aiôn) e stoici (il
fuoco eterno circolare).
Sennonché l’apporto stoico solleva
problemi: non sono chiari i motivi generali
o le correnti determinate che entrerebbero
in causa o all’epoca della sua formazione
in Asia minore o quando ormai uscito dalla
« crisalide iranica » (cit. 29) appare
nell’orbita romana.
Turcan ritiene, dal canto suo, che
l’autore da cui provengono gli elementi
stoici aggiunti alla figura originale di Mithra
sia Posidonio, influente amico di eminenti
romani (Pompeo, Cicerone), e tra l’altro
forse maestro di Plutarco. Posidonio, da
quanto se ne ricava dalle fonti,
testimonierebbe d’uno sbocco della scuola
stoica nel platonismo. La sua vocazione
escatologica e il pensiero d’un calore
proveniente dalle stelle che trapassa tutto
il cosmo ne fa un fondatore del
neoplatonismo.
Per contro, si deve notare che in
ambito neoplatonico vanno prendendo
corpo robuste propensioni teurgiche
(culminanti in Giamblico, III secolo) e un
accentuato apprezzamento delle
proiezioni cosmiche dell’atto eroico.

Passo a leggere direttamente Franz


Cumont (Astrology and religion among
Greeks and Romans, New York–London
1912; tr. it. Astrologia e religione presso i
Greci e i Romani, Milano 1990, 150–151):
« ... quando il paganesimo rinunciò
all’idea che il Sole fosse il sovrano del
mondo, la Causa Prima, l’Essere Supremo
oltre i limiti del mondo sensibile, situandolo
al di sopra delle sfere planetarie e al
vertice dei cieli, la dimora dei beati fu
naturalmente trasferita nella sede di tale
divinità; e una teoria, più complicata di
quella dell’immortalità solare, ma senza
dubbio derivante da essa, prevalse verso
la fine dell’Impero Romano.
Questa sorta di psicologia, che deve
il suo trionfo ai culti astrologici dell’Asia,
stabilì una divisione dell’anima in sette
parti, a cui faceva corrispondere sette
creazioni. Essa insegnava che la nostra
anima discende dal vertice del cielo a
questo mondo sublunare, passando
attraverso le porte delle sfere planetarie,
cosicché alla nascita l’anima acquista le
disposizioni e le qualità peculiari di ognuno
di quegli astri. Dopo la morte, essa
riguadagna la propria dimora celeste
passando per la stessa strada. Nel viaggio
a ritroso, mentre l’anima riattraversa gli
strati del cielo, disposti uno sull’altro, si
spoglia delle passioni e delle facoltà che
aveva acquistato durante la sua discesa
sulla terra, come dei vestiti [chitones –
Proclo Elementa theologiae 209]. Alla
Luna, essa riconsegna la sua energia
vitale e alimentare, a Mercurio la sua
cupidigia, a Venere i suoi amorosi
desideri, al Sole le capacità intellettuali, a
Marte il suo ardore guerriero, a Giove i
suoi sogni ambiziosi, a Saturno, le sue
tendenze infingarde. E’ nuda, sgravata da
ogni sensibilità, quando raggiunge l’ottavo
cielo, luogo della gioia, per godervi
un’essenza sublime, nella luce eterna
dove vivono gli dèi, una felicità infinita.
Tutte queste dottrine, sia pure con
differenze nei dettagli, insegnavano che le
anime, discendendo dalla luce di lassù, si
innalzavano poi di nuovo alla regione degli
astri, dove dimoravano in eterno con le
raggianti divinità. Questa escatologia, di
origine caldea, sostituì gradualmente le
altre nell’Impero. I Campi Elisi, che non
solo gli antichi Greci ma anche i fedeli di
Iside e Serapide collocavano ancora nelle
profondità della terra, furono trasferiti
nell’etere che bagna gli astri, e il mondo
sotterraneo per l’avvenire divenne la
tenebrosa dimora degli spiriti maligni.
Questa concezione, una novità per
l’Europa, era stata a lungo propria del
dualismo persiano, che i Misteri di Mithra
portarono in occidente. Quest’ultima teoria
pone in sistematico contrasto le tenebre
infernali con le luminose dimore degli dèi e
degli eletti. »

In questo quadro, il passaggio


dell’anima negli elementi, serve ad
alleggerirla dagli strati di pesantezza che
la raffrenano, affinché conquisti quello
stato di rarefatta materialità, non impedita
e libera, che le permette di dimorare nei
luoghi della luce.

« C’è un’opinione molto antica,


secondo la quale l’anima è un soffio e, nel
momento in cui essa fugge attraverso la
bocca d’un moribondo, viene portata via
dai venti. Così, l’atmosfera fu riempita di
anime erranti, che divennero dèmoni col
potere di soccorrere o nuocere ai mortali.
L’origine di queste credenze deriva dal più
primitivo animismo. Ma i Misteri vi
introducono l’idea della purificazione. Le
anime gettate nei vortici del vento sono
liberate dai legami contratti in vita, proprio
come il lino sospeso nell’aria è
candeggiato e perde ogni odore. Quando,
dopo essere state in tal modo
schiaffeggiate e portate via dai venti, le
anime sono purificate d’una parte dei loro
peccati, esse ascendono alla zona delle
nubi, dove si impregnano di pioggia e si
immergono nell’abisso delle acque
superiori. Così, purificate delle macchie
che le insudiciavano, esse raggiungono
infine i fuochi del cielo, il cui calore le
brucia. Soltanto dopo essere state
sottoposte a questo triplice processo,
durante il quale esse passano
innumerevoli anni di crudeli espiazioni, le
anime trovano così la pace nella serenità
dell’etere » (Cumont cit. 147).
Nella teologia dei misteri l’anima si
purifica con la restituzione di sé ai tre
elementi dai quali è composta, aria acqua
fuoco – la terra riguarda solo il corpo –,
con una gradualità che la prepara a
entrare nel più alto e divino, l’etere–luce,
con la parte di sé congenere con esso.
L’anima era entrata nel mondo delle
incarnazioni dalla porta solstiziale del
Cancro e usciva dal ciclo della pesantezza
e della colpa dalla porta solstiziale del
Capricorno, se era stata capace di
liberarsi dalle passioni incatenatrici indotte
dalle potenze planetarie: pigrizia–Saturno,
ira–Marte, lussuria–Venere, avarizia–
Mercurio, ambizione–Giove.
Sulla simbologia delle due porte, le
vediche Porta dei padri e Porta degli dèi,
valgono gli studi sul simbolismo zodiacale
di Guénon cit. §§. 29–38.
A proposito della direzione del
percorso, si osservi ancora una volta che
la porta dell’uscita, simbolicamente in alto,
appare allocata fisicamente in basso.
Fin dal soggiorno terrestre l’anima
ha l’opportunità di operare per liberarsi;
alla morte, angeli e dèmoni lottano per
prendersela mentre Mithra fa da arbitro e
giudice. Se vincono gli angeli, essa esce
dal Capricorno ripercorrendo al contrario i
sette pianeti, perdendo a ogni passaggio
le scorie di cui ciascuno di questi la gravò.
A ogni porta deve convincere i doganieri,
con formule magiche e preghiere da
ricordare accuratamente, a farla passare.
Analogamente, per i cristiani c’è un
doganiere del cielo con le relative chiavi,
San Pietro, delegato del Cristo che ha
disserrato l’umanità dalla precedente
condizione di prigionia irreversibile nella
terra.

La teoria che attribuiva la risalita


dell’anima e il salto finale a un’attrazione
da parte del Sole ebbe maggiore successo
filosofico. Si riteneva che il dio agisse
irraggiando su tutto l’universo penetrando
negli strati più bassi e profondi e che il suo
influsso eccitasse il risveglio della latente
natura solare dell’anima promuovendone il
ritorno alla sua antica sorgente.
Il neoplatonico Plutarco (De facie in
orbe lunae 26) immagina che, con la
morte del soma, il complesso psyche–
nous si sciolga e che, mentre la psyche
resta a purificarsi nella sfera della luna, il
nous ritorna al suo principio solare.
« Questa concezione sopravvisse
sotto l’Impero, nella teologia dei Misteri. Le
anime discendevano fino alla terra e
riascendevano dopo la morte in direzione
del cielo, grazie ai raggi del sole, che
fungevano da mezzi di trasporto. Nei
bassorilievi mitriaci, uno dei sette raggi
che sormontano il capo del Sol inuictus è
raffigurato in modo sproporzionatamente
prolungato verso il toro morente per
risvegliare la nuova vita che si sta
sprigionando dalla morte dell’animale
mitologico. Ma questa antica credenza
venne posta in relazione con una teoria
più generale sostenuta dai Caldei. ... agli
occhi degli astrologi l’anima umana era
un’essenza ignea, della stessa natura dei
fuochi celesti. Il Sole raggiante rilasciava
continuamente particelle del suo
risplendente orbe, che discendevano nei
corpi che egli chiamava alla vita. Di
converso, quando la morte dissolveva gli
elementi di cui l’essere umano è composto
e l’anima abbandonava il rivestimento di
carne nella quale era stata imprigionata, il
Sole la traeva nuovamente a sé. Allo
stesso modo che il suo capo ardente
spinge tutte le sostanze materiali a levarsi
dalla terra, il Sole conduce a sé anche
l’essenza invisibile che dimora in noi »
(Cumont cit. 145–146).
Nel mosaico del mitreo ostiense di
Felicissimus a cui mi sono riferito, il
settenario dei gradi viene messo nella
seguente corrispondenza con i pianeti:
corax Mercurio, nymphus Venere, miles
Marte, leo Giove, Persa Luna,
heliodromus Sole, pater Saturno.
A Santa Prisca, invece, Mercurio
protegge i Persiani e la Luna i Corvi.
Ai misti veniva mostrata una scala a
sette porte con in cima un’ottava, da cui si
accedeva al cielo delle stelle fisse ovvero
a una dimensione trascendente il cosmo
temporale del movimento planetario.
Ognuna delle sette porte era fatta d’un
metallo o d’una lega particolare in rapporto
a ciascuno dei sette pianeti (mitreo delle
Sette Porte a Ostia).
I sette gradini, in Celso (Origene
Contra Celsum VI, 22 = Alethes logos III,
72), seguono quest’ordine: Saturno,
Venere, Giove, Mercurio, Marte, Luna,
Sole.
L’ordine ha l’apparenza d’una
settimana a ritroso, « l’ordre de
l’hebdomade temporelle inversée »
(Turcan cit. 82, 110, 147 – e Mithras
platonicus: Recherches sur l’hellénisation
philosophique de Mithra, Leiden 1975).
Questo ci fa pensare che la settimana
comprende giorni fasti e giorni nefasti e
che la religione mitriaca la volle
culminante con il fasto della luce solare.

Riporto integralmente il passo di


Celso che ha acceso una serrata
discussione:
« Platone ha insegnato che per
discendere dal cielo in terra o per salire
dalla terra al cielo, le anime passano per i
pianeti. I persiani rappresentavano la
medesima idea nei loro misteri di Mithra.
Hanno una figura che rappresenta i due
movimenti che si compiono nel cielo,
quello delle stelle fisse e quello degli astri
erranti, e un’altra figura analoga per
simboleggiare il viaggio dell’anima
attraverso i corpi celesti. Questa è un’alta
scala composta di sette porte, con
un’ottava al di sopra delle altre. La prima
porta è di piombo, la seconda di stagno, la
terza di rame, la quarta di ferro, la quinta
d’una lega di metalli, la sesta d’argento, la
settima d’oro. Attribuiscono la prima a
Crono, simboleggiando col piombo la
lentezza di questo astro; la seconda ad
Afrodite, che richiama lo stato e la
morbidezza dello stagno; la terza che,
fatta di rame, non può essere se non
ferma e solida, a Zeus; la quarta a Ermes,
che fra gli uomini ha fama di sopportare la
fatica e di realizzare molti lavori utili, quale
la lavorazione del ferro; la quinta che,
composta di metalli diversi, è irregolare e
varia, ad Ares; la sesta alla Luna, che ha
la bianchezza dell’argento; la settima al
sole, i cui raggi ricordano il colore dell’oro.
Questa disposizione degli astri non è
opera del caso, ma obbedisce a rapporti
musicali. »

Per intendere questa testimonianza


cominciamo con il tenere presente che: 1)
l’ordine normale della settimana in vigore
dipende da un’idea caldea, 2) l’ordine di
Celso è l’inverso della settimana caldea,
3) l’ordine delle tutelae non corrisponde a
niente di noto e tanto meno alla scala di
Celso.
A puro titolo di nota utile, riporto gli
ordini
– geocentrico: Luna, Mercurio,
Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno;
– eliocentrico: Sole, Mercurio,
Venere, Terra (con Luna intorno), Marte,
Giove, Saturno. (Urano, Nettuno, Plutone,
non ancora visibili nell’età antica, saranno
scoperti con le tecniche moderne, dal
cannocchiale galileiano in qua).
L’ordine geocentrico è precisamente
l’ordine caldeo, o ciceroniano, o tolemaico,
attribuito anche ad Archimede e preferito
da Ipparco da Nicea e in ultimo da Proclo.
Per esso, i pianeti tra la terra e il cielo
delle stelle fisse si distribuiscono in
ragione della velocità della loro
rivoluzione, ovverosia del tempo impiegato
a ritornare nella stessa posizione
equinoziale sullo Zodiaco.
Infatti Luna, Mercurio, Venere, Sole
e Marte ripassano rispettivamente dopo
giorni 29 e mezzo, 88, 225, 365, 687;
Giove in 12 anni circa e Saturno dopo 30.
Ioan P. Culianu, osservata la non
corrispondenza dell’ordine delle tutelae ad
alcun ordine noto dei pianeti nell’universo,
concorda con Turcan e afferma che i
« misteri di Mitra non celebravano alcuna
ascensione attraverso le sfere e Celso con
diexodos (viaggio dell’anima) intendeva
altra cosa » (Expériences de l’extase,
Paris 1984; tr. it. Esperienze dell’estasi
dall’ellenismo al medioevo, Bari 1986,
19892, 85).
A suo avviso, mentre per Turcan il
platonismo ha falsato l’essenza del
mitraismo, qui emergerebbe la concezione
filosofica platonica d’un « tempo
arrovesciato » (cit. 89).
Platone dice nel Timeo (39 D 2–7)
che, quando gli astri si allineano nella
posizione occupata all’inizio del cosmo,
tornano le stesse cose nel mondo; e
soprattutto nel Politico (272 D–E) traccia la
teoria dell’inversione periodica del corso
del mondo, con un movimento simile alle
oscillazioni del pendolo.
In breve, Mithra è per Culianu il dio
che governa il centro in cui avviene
l’eterno ritorno dell’eguale, luogo
altamente critico, dove la fine si converte
nell’inizio.

Roger Beck (In the place of the Lion:


Mithra in the tauroctony, in Hinnells (ed.)
cit. 29; e specialmente Planetary Gods
and Planetary Orders in the Misteries of
Mithras, Leiden 1988) perviene a un
risultato paradossalmente simile,
intravedendo nella simbologia dei Misteri
di Mithra l’indicazione d’una terza porta
lateral (aperta lungo una strada senza
profondità o altezza, cit. 30) diversa dalle
porte solstiziali, oltre le quali l’anima può
compiere il viaggio trasformativo già in
questa vita.
Oltre al viaggio fra i pianeti, il
famoso passo di Origene–Celso riferisce
d’un percorso fra le stelle fisse.
Per Beck riguarda lo Zodiaco: una
religione per la quale il dio principale è il
Sole e i poteri principali sono la Luna e gli
altri pianeti non può non pensare che la
strada privilegiata sia proprio quella che
essi percorrono (cit. 41). Esaminando
l’iconografia sulla base della simbologia di
Porfirio (De antro nympharum 29), lo
studioso ritiene di avere trovato la via delle
stelle fisse nell’icona della tauroctonia, la
quale gli si dimostra per una star map (cit.
42) con Mithra nella posizione del Leone e
la Luna in quella del Toro.
Le anime scendono nella genesi e
risalgono nell’apogenesi lungo l’asse dei
solstizi ma, per Beck, la strada privilegiata
si impone essere l’eclittica–Zodiaco,
essendo quella che viene percorsa dal
Sole, dalla Luna e dagli altri pianeti. La
mappa stellare della tauroctonia
rappresenterebbe l’incontro di Sole e Luna
nel Cancro. Ora, la culminazione di
Cancro e Leone è il centro decisivo
dell’apokatastasis ovvero del « ritorno di
tutti i pianeti a un solo grado di longitudine
dalla fine d’un ciclo cosmico »,
un’autentica terza porta per la salita delle
anime.
« Collocando il solare Mithra nel
Leone e il Toro lunare nel Cancro, la
tauroctonia allude alla creazione del
mondo, e insieme all’apokatastasis della
sua fine » (cit. 47).
Anche i mitraisti, anticipati dagli
stoici, credevano che la fine avvenisse
nella conflagrazione del fuoco. In
definitiva, la tauroctonia costituirebbe un
oroscopo escatologico di forte significato
salvifico.
La congiunzione (una syzigya o
un’eclisse) Sole–Luna apre una via alle
anime prima della morte. Plutarco descrive
(De genio Socratis 591) le anime che
vanno e vengono lungo il fiume di ombra
gettato sulla Luna dalla Terra in occasione
di un’eclisse, riconoscendovi il mitico
oltremondano Stige.

Queste prime anticipazioni di Beck


lasciano aperte varie questioni.
La terza via da lui rintracciata, lungi
dall’essere una nuova via d’uscita, sembra
rivelarsi semplicemente per la porta
solstiziale dell'entrata nel ciclo della
generazione, ovvero la porta del Cancro,
dalla quale il Sole inizia il suo mezzo anno
calante. Il polo (il nord) al contrario è
rappresentato dalla porta opposta, il
Capricorno, l’istante del solstizio d’inverno
dal quale il Sole comincia a salire ovvero
nasce. A morire nel Cancro, in breve,
sarebbe il Sole e non il Toro–Luna.
La porta che si apre sul cielo delle
stelle fisse viene esplicitamente definita da
Origene–Celso un’ottava porta e per
Porfirio conduce oltre il mondo sensibile in
quello intelligibile (De antro nympharum
29). E’ giusto pertanto non concepirla della
specie degli altri gradini e ritenerla aperta
su una dimensione eterogenea; per la
stessa ragione è egualmente giusto dire
che dovrebbe trovarsi al culmine d’un
percorso, purché si intenda correttamente
il concetto della culminazione.
Tra l’altro, il viaggio liberatorio si
svolge lungo una verticale simbolica e non
lungo una linea orizzontale.
Con l’orizzontale si rappresenta il
ciclo più mondano e materiale; l’asse
verticale nord–sud è, invece, la proiezione
dell’axis mundi. La simbolica dell’asse
est–ovest mantiene intatta la sua
apparenza sensibile immediata, mentre
l’asse nord–sud si distacca dall’apparenza
fisica: nell’axis mundi il basso fisico (il
Capricorno, il sud cosmico, il solstizio
basso scuro invernale) cela in sé l’alto
simbolico e mistico (il Sole nasce lì).
Interviene, dunque, una maggiore e
più radicale difficoltà a rendere poco
convincente l’uso soprariferito della star
map. I percorsi orizzontali non sono
liberatori, rappresentano semmai la trama
d’una felice permanenza nel ciclo
mondano. Se è vero che lungo la linea
orizzontale si trova una porta, questa si
apre però sull’incrocio con l’asse nord–
sud, l’asse della risalita. La risalita
dell’asse cosmico non è fisica,
estrinsecamente interplanetaria, quasi con
un veicolo spaziale (ha perfettamente
ragione Culianu). L’anima che si libera non
sale nello spazio, ma abbandona la
spazialità e la trascende; la risalita è
piuttosto una conversione verso il centro,
oltre l’incrocio dei quattro punti cardinali
che costituiscono pur sempre la
mondanità.
I neoplatonici hanno assai
allegorizzato e sviato, ciò nonostante non
c’è dubbio che Mithra uccide il Toro al
centro e non in alto.
In conclusione, la stessa verticalità
va decifrata correttamente; l’ascensione
deve essere letta per un’uscita dalla porta
giusta dalla condizione attuale al fine di
tornare in una diversa e antica condizione.
Il fatto si è che il mitraista, riassorbiti
gli astri–dèi nell’ascesa lungo la sequenza
misterica, raggiunge una diversità
qualitativa perché egli stesso si è
trasformato radicalmente. Ciò viene
soltanto adombrato da Beck quando
chiama lateral la porta.

Il passo di Celso citato da Origene


riporta una scala che corrisponde alla
settimana caldea rovesciata. Il motivo del
rovesciamento costituisce un primo
problema.
Per memoria, richiamo nuovamente
la scala di Celso che rovescia la settimana
in vigore (caldea): Saturno, Venere, Giove,
Mercurio, Marte, Luna, Sole.

La settimana caldea (affermatasi nel


II sec.) non è l’ordine caldeo, il
geocentrico; è una sua interpretazione
astrologica costruita denominando ciascun
giorno con il pianeta che ne regge la prima
ora, a partire dalla Luna, il primo pianeta.
Con tale scelta viene individuato
all’interno del sistema geocentrico un
ordine mistico di particolare importanza: in
esso i giorni si susseguono l’uno all’altro
secondo il pianeta che ne segna la prima
ora. Sicché il loro settenario configura una
sorta di alba primordiale. L’allineamento
non è opera del caso – direbbe Celso,
dato che non lo è il suo inverso –; i Caldei
vi hanno scorto il ritmo del tempo degli
uomini; per i mitraisti era la sequenza
dell’irrigidimento e della soggiacenza al
destino da cui liberarsi procedendo a
rovescio.
I rapporti musicali che governano la
congiunzione degli astri nella settimana
compongono una melodia che nel sentire
dei mitraisti deve essere variata per
inversione. In loro, evidentemente, l’alba
del vero inizio si schiude nella direzione
opposta. E questa rappresenta il percorso
vittorioso del Sole levante a partire dal
sonno saturnino per entro le altre luci. La
scala di Celso indica l’uscita irresistibile
del Sole dalla caverna cosmica (dal cuore
del cosmo o della montagna cosmica) e
traccia il modello del viaggio liberatorio
dell’anima.
Ciascun pianeta, avendo una
doppia polarità, offre opportunità opposte
in relazione alla direzione dalla quale lo si
incontra. L’uomo si trova in uno stato dal
quale si lega o scioglie con opera
appropriata su ciascuno di quei centri.
Nell’astrologia mitriaca l’anima deve
conseguire la liberazione raggiungendo e
superando sette sfere guardate ciascuna
da un dio.
I pianeti sono decodificati in gradi di
colore e luce; generi di metalli e materia –
risulta da uno dei mitrei di Ostia oltre che
dal passo di Celso –; centri di forza
insieme umana e non umana; potenze
demoniche divine, o arcontiche; stati
passionali e psichici. Date queste valenze
esoteriche, è evidente che l’ordine del
percorso, che risale in essi a uno a uno
per la trasformazione e la rinascita,
assume la massima importanza.
Molti indizi sollecitano a pensare
che nel mistero mitriaco la salvezza verrà
quando tutti i pianeti potranno essere
decifrati e interpretati come gradi e
epifanie d’una sola luce, con la quale
l’uomo eroico scoprirà di essere
congenere.
Solidarietà e analogia tra stati
dell’essere e stati della coscienza, fanno sì
che il processo di autointegrazione di
uomo e creazione si equivalgano.
Cosmogonia e iniziazione si rivelano l’una
il corrispettivo dell’altra. L’uomo mitriaco si
colloca al centro dell’incrocio delle forze
cosmiche e si appropria delle loro energie
obbligando gli dèi a seguirlo. Egli vive il
risveglio e lo scatenamento di sette forme
trascendentali della coscienza bloccate dal
sonno saturnino.
L’iniziazione nei vari gradi, nella sua
forma matura, sembra configurarsi nel
passaggio da un settenario inferiore – la
soggiacenza al destino – a un settenario
superiore. L’intero processo della
trasformazione mitriaca appare finalizzato
all’acquisto delle capacità indispensabili a
superare gli sbarramenti e i loro guardiani.
Per liberarsi l’uomo deve
ripercorrere a ritroso le tappe del suo
avvitamento nella distretta attuale e
sciogliere in successione i legami con cui
è stato annodato. La distretta non dipende
dall’incarnazione bensì dalla passività nei
suoi riguardi: non si deve fuggire dal
mondo ma rovesciarne il verso e
governarlo.

Un ulteriore problema che sorge a


proposito dell’astrologia mitriaca concerne
il significato riposto della serie dei pianeti
collegati con i livelli dell’iniziazione (mitrei
di Ostia e di Santa Prisca). L’associazione
delle tutelae planetarie ai vari gradi forma
una scala senza alcuna apparente
corrispondenza con quella riferita da
Celso. Orbene, se la scala di Celso indica
il percorso liberatorio, per quale motivo la
gerarchia delle tutelae non la ricalca?
Jean Flamant ha notato che la
settimana rovesciata e i gradi diventano
sovrapponibili solo procedendo a un paio
di trasposizioni (Luna e Sole spostati dopo
Giove e prima di Saturno).
I dubbi devono tuttavia essere
ancora sciolti con piena persuasività.
Lo status quaestionis si trova
riassunto egregiamente in Culianu.
In particolare egli riferisce (1984 cit.
VII, 140) della spiegazione di Jean
Flamant (Macrobe et le néo–platonisme à
la fin du IV siècle, Leiden 1977) semplice
e risolutiva, con la quale sotto un certo
aspetto si mette « ordine nelle sfere »
regolate in modi molto diversi dalle
tradizioni astronomiche nel corso della
storia.
Flamant ha osservato che la pluralità
degli ordini planetari sostanzialmente
dipende dalla collocazione di Mercurio e
Venere rispetto al Sole. Mercurio e Venere
vengono registrati almeno in quattro
posizioni diverse, due sopra e due sotto il
Sole – anche nel sistema geocentrico,
girano attorno al Sole e non attorno alla
Terra e perciò possono presentarsi sopra
o sotto di esso.
Nell’ordine caldeo stanno sotto il
Sole (Luna, Mercurio, Venere, Sole,
Marte, Giove, Saturno) e nell’ordine egizio,
così denominato pur essendo dovuto a
Platone, stanno sopra il Sole (Luna, Sole,
Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno).
Due ulteriori varianti, invertendo i
due pianeti inferiori rispettivamente nei
due ordini citati, rispondono a altri ordini
più rari, noti nell’antichità.
Ioan P. Culianu è tornato
sull’argomento nel 1994 (The Mithraic
ladder revisited, in Hinnells (ed.) cit. 75–
91) per sottolineare che fu l’astronomo
Eudosso di Cnido, contemporaneo di
Platone, a dare « profondità fisica » al
cielo. In precedenza, i Babilonesi avevano
concepito il cielo a più strati (di solito tre),
con i pianeti a scorrere su uno solo degli
strati (movimento complanare), e bisognò
attendere Eudosso perché la profondità
dello spazio celeste fosse collegata con il
movimento dei sette pianeti.
L’ordine caldeo, il geocentrico,
rappresenta una delle soluzioni date al
problema del rapporto tra profondità
(distanza dalla Terra) e natura (velocità)
dei pianeti.
La chiarificazione relativa alla
posizione della coppia Mercurio–Venere
torna assai utile per orientarsi fra le
speculazioni astrologiche, perché le
deduzioni riguardo alla vita degli uomini
devono partire da una base oggettiva,
rappresentativa della realtà, accertata e
fissata nell’ordine dei pianeti. Se ci
attendiamo dal Sole la soluzione decisiva
del problema principale, risulterà
essenziale conoscere la posizione
oggettiva dalla quale inizia la sua azione,
dal momento che è questa posizione a
costituire il problema su cui si appunta per
svilupparlo e risolverlo.
La scala di Celso segna il percorso
liberatorio e trionfale del Sole, con cui si
apre la possibilità di rovesciare il ritmo
ordinario della condizione umana. Ritmo
rappresentato dalla settimana, la quale
esplicita una conseguenza astrologica
dell’ordine planetario oggettivo – il
geocentrico, con il Sole insediato al centro
del cosmo.
Il significato dello schieramento delle
tutelae dei gradi dei mitraisti rispetto a
questa possibilità di rovesciamento
dovrebbe dipendere dalle proprietà e dal
genere d’influenza che nei misteri di
Mithra venivano assegnati esotericamente
ai vari pianeti. Nell’astrologia dei mitraisti
emerge il nesso di solidarietà che stringe
la visione eliocentrica e l’etica dell’uomo
che lotta per la liberazione.
Non sarebbe contraddittorio
ipotizzare la pratica di riti teurgici;
sfortunatamente, le tracce sono troppo
generiche e sbiadite; in fondo, poi, l’atto
teurgico paradigmatico è compiuto da
Mithra e i suoi devoti seguaci possono
essersi limitati a riceverne le benefiche e
salvifiche ripercussioni.

In attesa che i filologi sbroglino la


matassa aggrovigliata dalla testimonianza
di Celso e colmino le lacune, formulo
un’ipotesi.
A me pare che la settimana a
rovescio (la scala di Celso) potrebbe
indicare la sequenza d’un percorso
d’uscita del Sole dalla caverna, a partire
dalla sua posizione centrale fra gli altri
pianeti nel sistema geocentrico caldeo,
assunta per effettiva e pertanto tipica del
destino concreto attuale. E’ chiaro tuttavia
che, a tal fine, occorre preliminarmente
ammettere che la posizione centrale del
Sole fra tre pianeti superiori e tre inferiori
simboleggi il suo insediamento nella
caverna, nel cuore del cosmo o della
montagna cosmica.
Vediamo la via lungo cui si dovrebbe
svolgere il percorso d’uscita.
Esso procederebbe nella figura
d’una spirale (labirintica) e inciderebbe
sull’allineamento oggettivo geocentrico
che, con il Sole incastrato al centro,
rappresenta la sua notte, la notte
saturnina dalla quale bisogna uscire, e
non l’alba del mondo.
Nella mia ipotesi, il Sole comincia
con il lasciare la sua posizione centrale
iniziale e scende a toccare la Luna (a
diventare la Luna), primo pianeta;
potenziato da ciò, risale d’un gradino
rispetto alla posizione centrale labirintica
in cui si trovava e prende Marte, poi cala a
riprendere quello che – tolta la Luna – è
diventato il più basso, Mercurio; infine,
risalendo e calando a turno d’un gradino,
tocca e prende Giove, Venere e
conclusivamente Saturno.
Saturno, rivitalizzato, coincide con il
Sole al culmine del suo percorso di
riassorbimento e suscitamento delle altre
potenze planetarie.
Riassumendo, il percorso mitriaco
liberatorio risulta, a partire dal Sole, dal
centro, proiettando ortogonalmente le
tappe della spirale su una retta: Sole,
Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere,
Saturno.

La settimana in Celso si presenta a


rovescio poiché trascrive l’ordine
rovesciato in cui si svela il vero percorso
misterico, il quale procede dall’inversione
e dalla trasformazione di Saturno in Sole.
Le suddette speculazioni attorno alla
posizione e alle virtù del Sole possono
trovare conferma se si mettono a
confronto il sistema geocentrico (più
esatto dire geoeliocentrico o eliosatellitare)
e il sistema eliocentrico, intendendo nel
primo l’incorporazione passiva e nel
secondo lo sprigionamento delle energie
solari insite nella corporeità cosmica.
La spinta della scienza del
Rinascimento verso l’eliocentrismo nasce
pour cause in seno al platonismo. Dietro la
scelta tra geocentrismo o eliocentrismo
non c’è una mera divergenza astronomica,
c’è una radicale contrapposizione nel
concepire il destino e l’etica. Lo stesso
Eudosso pare si muova nel quadro della
matematica pitagorica, il che permette di
intravedere nella costruzione degli scenari
astronomici greci un antico movente
orfico.
Nell’ordine geocentrico il Sole è
prigioniero al centro della caverna o
labirinto cosmico; nell’ordine eliocentrico
governa dalla prima posizione e il centro è
occupato dalla Terra (rinnovata): e qui il
Sole sostituisce la Luna, la luce bianca e
passiva, con la sorgente vera e autentica
della luce, quella del fuoco rosso.
Infatti, se prendiamo l’ordine caldeo
(Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,
Giove, Saturno e non, si badi, la
settimana) e lo trasformiamo in una spirale
d’uscita dal labirinto; se assumiamo il Sole
a vera base centrale di partenza e lo
seguiamo in un percorso liberatorio di
trapassamento alternativamente in basso
(Luna ecc.) e in alto (Marte ecc.) dei
pianeti, avremo

MARTE↓ GIOVE↓ SATURNO


SOLE↓
LUNA↑ MERCURIO↑ VENERE↑

Ecco in chiaro la scala geocentrica


decodificata nella proiezione ortogonale su
una retta delle posizioni dei pianeti lungo
una spirale e pertanto trasformata con il
Sole esplicitamente collocato in posizione
egemone. In essa si mostra che il vero
centro (il Sole) non è chiuso quale pianeta
fra i pianeti ma ne governa l’inizio (figura
1).
Ma la decodificazione dell’ordine
caldeo dà la settimana caldea!
In sintesi, possiamo affermare che la
settimana caldea (la prima ora) contiene
una duplicità e descrive una discesa o una
risalita secondo il rispetto dal quale la
consideriamo; presso i Babilonesi indica
una congiunzione positiva mentre nella
speculazione filosofica ellenistica sul
destino ha un senso problematico (che si
fa decisamente negativo solo presso gli
gnostici) e indica un impedimento da
risolvere.
Il mitraismo ellenizzato e
neoplatonizzante, intriso delle riflessioni
sul ruolo etico–liberatorio del Sole,
presenterebbe una riforma in senso solare
di quella congiunzione, tale da rovesciarne
il senso corrente.

Un’ultima questione riguarda il


perché Luna e Sole, che nell’ordine caldeo
occupano la prima e quarta posizione, poi
nella scala liberatoria delle tutelae
mitriache compaiano spostati tra Giove e
Saturno (= Mercurio, Venere, Marte,
Giove, Luna, Sole, Saturno). Ne tratterò
nel capitolo finale.
Figura 1

SOLE↓
LUNA↑ MARTE↓
MERCURIO↑ GIOVE↓
VENERE↑ SATURNO

il Sole,

dal centro, scende e risale


il suo movimento a spirale visto su un piano
la sequenza proiettata su una retta spezzata
3
Mithra solare

L’inversione del destino, mediante il


potere liberatorio del Sole, culmina con
l’uccisione del toro da parte dell’eroe. Ma
l’uscita dalla caverna del mondo non è una
linea retta e segue uno schema labirintico
a spirale.
Circa la forma e il significato del
viaggio iniziatico uno dei problemi
principali riguarda Saturno–Kronos. In che
rapporto si trova Mithra, dio solare, con il
plumbeo e notturno Saturno?

La scala dei gradi iniziatici


rappresentata nel mosaico ostiense, che
non corrisponde né alla scala planetaria di
Celso né ad altra sequenza conosciuta dei
pianeti, costituisce un ulteriore problema
da decifrare. D’altronde, la stessa varietà
nell’ordine delle gerarchie planetarie,
testimoniando una diversità delle vie
seguite, indica una diversità delle forze
assegnate a ciascuna di esse e dipende in
ultima analisi dallo specifico orientamento
del mistero in questione.
Ciascun pianeta si presenta con una
faccia della sua doppia polarità in
relazione alla provenienza da cui lo si
incontra. L’uomo si trova in uno stato dal
quale può legarsi o sciogliersi
interpretando con opera appropriata
ciascuno di quei centri.
L’astrologia mitriaca pone che
l’anima deve conquistare la liberazione
raggiungendo e superando sette sfere
guardate ciascuna da un dio. A ogni porta
corrisponde uno dei sette livelli della
procedura dell’iniziazione. L’iniziazione
configura una successione di salti di
esistenza e d’integrazione con i poteri
rappresentati dai pianeti. Al culmine del
processo si colloca il mistero dell’uccisione
del toro da parte del dio. I sette passaggi
appaiono altrettanti accostamenti al
mistero della morte–uccisione da cui
prorompe la vita universale.
Non bisogna trascurare, peraltro,
che nell’esoterismo tradizionale i pianeti
sono intesi a volta a volta per gradi di
colore e di luce. Di solito: Saturno – nero,
Giove – giallo, Marte – rosso, Sole –
porpora, Venere – bianco, Mercurio –
azzurro, Luna – verde. Il mitraismo di cui
in Celso stabilisce altre associazioni e si
riferisce a una tradizione diversa.
E, ancora, per generi di metalli e
materia – da uno dei mitrei di Ostia e dal
passo di Celso –; per livelli di conoscenza
e memoria; per centri di forza insieme
umana e non umana; per potenze
demoniche divine o arcontiche; per stati
passionali e psichici.
Date queste proprietà, è evidente
che l’ordine del percorso, con il quale si
devono risalire a uno a uno per ottenere la
trasformazione e rinascita, assume la
massima importanza.
In ognuno dei principî planetari sono
compresi gli altri, prospetticamente
impliciti sotto la dominante esplicita.
Ognuno dei pianeti non costituisce
un’entità indipendente e separata e si lega
agli altri in un insieme coordinato e
omogeneo; ne consegue che l'intero
attraversamento riuscirà a patto di seguire
la loro unitaria riposta logica interna.
Dice Jakob Böhme: « I sette non
sono separati, come si vede per le stelle
del cielo: ma sono tutti gli uni negli altri
come un solo spirito » (Morgenröte X, 40).
Molti indizi ci inducono a pensare
che per il mistero mitriaco la salvezza
verrà nel preciso momento in cui i vari
pianeti potranno essere decifrati e
compresi come gradi e epifanie d’una sola
luce. In definitiva, quando i pianeti si
ritroveranno allineati, il tempo sarà finito e
sospeso (Platone Timeo 39 D) e l'umanità
avrà raggiunto la purificazione (Timeo 22
D).

Il percorso mistico della liberazione


mitriaca potrebbe non seguire una linea
retta. La scala dei gradi, nel corrispondere
a un corridoio occulto di uscita dalla
caverna, potrebbe seguire una spirale
labirintica. Lo schema del labirinto è la
curva della greca, forma cretese e poi
ellenica dello swastika vedico; lo swastika
rappresenta la corsa in ginocchio del Sole,
e trascrive in uno schema geometrico–
matematico l’aprirsi del cosmo da un
centro che simultaneamente lo regge. Il
labirinto è la rappresentazione solare del
simbolo, lo swastika quella polare: ne
vedremo successivamente le reciproche
implicazioni.
La spirale andrebbe immaginata con
sette volute che si sciolgono a partire da
un centro occupato dal pianeta
culminante, in forza del fatto che nel
centro del labirinto insistono sia l’entrata
sia l’uscita e che pertanto in esso deve
trovarsi la base di partenza nonché di
arrivo. Ciò convince a immaginare gli altri
sei pianeti disposti tre sopra e tre sotto di
esso (fig. 1). Essi formerebbero tre coppie
dalle polarità complementari dimodoché,
per ognuna delle coppie, al pianeta
collocato in alto corrisponderebbe un altro
pianeta simmetricamente collocato in
basso.
La spirale configurerebbe un
processo nel quale ogni ascesa sia
obbligata a passare per una
corrispondente discesa.
Sia notato per inciso che, nella
suddetta organizzazione, i livelli esterni al
sole da sette si riducono a tre – si
risolverebbe così la vexata quaestio dei tre
livelli della tradizione iranica e dei sette
della babilonese.
Ciascuno dei tre livelli è bipolare e si
affaccia rispettivamente verso l’alto e
verso il basso. Dispone dei due versanti
yin e yang. La bipolarità cosmica sta alla
base della metafisica della maschera che
suggella e stringe in sé alto e basso,
invisibile e visibile.
Per adesso debbo limitarmi a un
mero annuncio generale, perché al fine di
spiegare l’ipotesi finale (all’ultimo capitolo)
è necessario allargare l’analisi dei dati, in
assenza di esplicite informazioni circa il
senso della sequenza.
Il primo e il quarto grado, corax e
leo, Corvo e Leone, indossavano le
maschere degli animali corrispondenti
(bassorilievo di Konjic, presso Sarajevo in
Bosnia) e, gracchiando e ruggendo, ne
imitavano il verso. Anche i Traci si
mascheravano in occasione del sacrificio
del toro (Pettazzoni cit. 159–160).
Indossare una maschera è della massima
importanza nell’ambito dei riti principali
delle società segrete iniziatiche.
Il corvo è un messaggero del sole, il
cui tentativo di trovare il toro fuggito
fallisce. Il leone è un simbolo solare e,
assodato che nei simboli abita una duplice
tensione, potrebbe anche rappresentare
un dèmone negativo e contrario.
L’arcangelo Michael e l’evangelista Marco
hanno la testa di leone, similmente
all’arconte malvagio Ialdabaoth.
Un eminente eroe liberatore – dal
profilo strutturale arcaicissimo –, Herakles,
indossa abitualmente uno strano elmo
composto dalla testa a fauci aperte d’un
leone. Nello strato più remoto del mito che
lo riguarda affiorano i profili d’un Signore
degli animali (Walter Burkert Structure and
History in Greek Mithology and Ritual,
University of California 1979; tr. it. Mito e
rituale in Grecia: Struttura e storia, Bari
1987, 19962, IV, 125–156).
Ovvero d’una primordiale divinità
con la forza di trarre gli animali dal mondo
dell’invisibile.
Dal Paleolitico gli animali, parimenti
a ogni ente che nasce alla vita e
l’alimenta, spuntano dal regno dell’oscuro,
dalle viscere del mondo, dalle caverne.
Hermes, il trickster, ruba i buoi del fratello
Apollon trascinandoli a ritroso, nel verso in
cui conviene agire liberando le ricchezze
di cui l’aldilà – il rovescio dell’aldiqua –
abbonda. La procedura contiene tuttavia
un’aura di ambiguità; il cammino
all’indietro potrebbe indicare che l’armento
sta tornando nel luogo suo proprio e da ciò
emergerebbe l’ambiguità di Apollon–
Helios il quale, riuscendo a vedere quanto
è stato ricondotto nell’aldilà, mostrerebbe
di estendere il suo dominio sia sul
luminoso sia sul tenebroso.
Anche per il grado di heliodromos è
stata avanzata l’ipotesi che sia stato usato
il nome d’un animale (Richard L. Gordon
Mystery, metaphor and doctrine in the
Mystery of Mithras, in Hinnells (ed.) cit.
111). Un uccello indiano che imita
fedelmente il sole perché dalla nascita si
alza da oriente e scende a occidente in
una vita che dura esattamente un anno. Il
suo comportamento racchiuderebbe e la
corsa diurna e la corsa annuale del sole.
Gordon trae la notizia da un’esotica
enciclopedia di magia ermetica, il
Kyranides. In proposito, vorrei sottolineare
che l’utilizzo dell’ermetismo pare risulti
particolarmente proficuo se applicato al
mondo metaforico dei misteri di Mithra, per
il loro carattere di misteri operativi, e mi
riservo di presentarne le possibilità
ermeneutiche nella parte conclusiva.
Che i Misteri prevedessero la
presenza di animali, almeno per i gradi
che occupavano i sedili, risulta a Gordon
dall’uso del termine praesepia (Ostia,
Aldobrandini): in esso lo studioso
preferisce leggere (cit. 115), invece
dell’omonimo gruppo stellare posto nella
costellazione del Cancro, mangers,
greppie, o stalls or byres, ricoveri per
bestie.

Quanto sopra rinvia però a una


nozione più generale. Una volta preso atto
che la nuova e fresca metafora locale del
gruppo di Ostia rinvia a un pre–existing
complex of established Mithraic metaphors
wich speak of human beings in terms of
animals, bisognerà decifrare il codice con
il quale sono stati organizzati e trasvalutati
specificatamente uomini in animali e
animali in dèi e in stelle.
Beck (cit. 29), riconoscendo che la
linea astrologica immette in un campo
altamente simbolico, attribuisce particolare
importanza ai testi del neoplatonico
Porfirio (De antro nympharum e De
abstinentia), rappresentante d’una filosofia
spiccatamente esoterica. Per la stessa
ragione Porfirio viene considerato
inattendibile da Turcan, che lo prende per
uno che filosofeggia piuttosto generico e
deforma i misteri invece che per un
testimone ravvicinato del mitraismo.
Gli studiosi propensi per la tesi
astrologica debbono fare i conti con le
testimonianze neoplatoniche. Gordon
taglia corto: Plutarco e Porfirio portano al
caos (cit. 117) perché non distinguono più
tra esegesi e mito, mentre Origene
(Contra Celsum 1, 12) almeno si lascia
sfuggire che « fra i persiani (= i mitraisti) ci
sono riti d’iniziazione che vengono spiegati
logikôs dagli eruditi ma messi direttamente
in atto da gente di livello popolare. »
Per Gordon, neanche Origene era
più in grado di distinguere λογικϖς (=
filosoficamente, nella sua traduzione) tra il
mito e la speculazione sacerdotale non
greca che di solito interessa i filosofi (cit.
115).
Tuttavia, paradossalmente, è proprio
l’impossibilità di distinguere tra misteri veri
e filosofia neoplatonica (cit. 121) che
impedisce di prescindere dalle allegorie
neoplatoniche. Esse (e il loro complex)
costituiscono a suo avviso un passaggio
obbligato per ogni tentativo di raggiungere
un nucleo del mistero più genuino e meno
sofisticato eventualmente sottostante alle
rielaborazioni romane.
Tocca a noi, insomma, di fare quello
che i contemporanei del mitraismo non
hanno fatto: discriminare nell’universo
delle allegorie.
La tesi origeniana, che lo strato più
colto dava una spiegazione colta dei
misteri mentre i più semplici li applicavano
direttamente (enacted directly), suggerisce
a Gordon d’individuare le metafore non
istituzionalizzate (established) presso i
lessici locali.
In breve, si affaccia un criterio volto
a spiegare la stratificazione delle metafore
del mitraismo mediante l’articolazione dei
livelli sociali degli adepti, articolazione che
si proietterebbe in una sorta di dualismo
nel culto e nella dottrina, una religione
passiva per il popolino (common, rather
shallow, people) o la truppa e una
filosoficamente sofisticata per le classi
colte.
Non è chiaro se Gordon
spingerebbe la sua esegesi del passo di
Origene fino ad affermare che una traccia
intatta del mistero originale potrebbe
essersi conservata presso i mitraisti più
naïves, a causa della loro passività;
mentre il culto affermatosi a Roma
sarebbe ben altro, ripensato da ambienti
culturalmente dinamici impegnati a
celebrare, adeguare, assimilare una
divinità esotica, o le divinità esotiche in
genere.

Circa la forma e il significato del


viaggio iniziatico, uno dei principali
problemi concerne la posizione di Saturno,
il quale figura nel grado supremo
dell'elevazione in flagrante contraddizione
con il plumbeo e l’oscuro della sua sfera.
Saturno rappresenta, nell’ermetismo
egizio, un oro nascosto da scoprire, oro
che soltanto alla fine del percorso viene
riconosciuto nella vera intima virtù dentro
la materialità della terra attuale. Anche
Giove e Saturno portano il nome solare
(Platone Epinomide 987 C), all’uso
dell’oriente, e saranno successivamente
considerati phaeton, nome che in origine
competeva solo alla stella di Afrodite
(Károly Kerényi Die Mythologie der
Griechen, Zürich 1951; tr. it. Gli dèi della
Grecia, Milano 1963, 164).
Che il Saturno della tradizione
ermetica sia insieme ambiguamente oro e
piombo, arrivo e partenza, rivela che il
paradiso si trova qui e adesso, hic et nunc,
nella concretezza di questa terra e che
l’uomo rigenerato e rinato può riuscire a
riconoscerlo e raggiungerlo sotto i suoi
piedi.
« I mitriaci adoravano un dio panteo
dalla testa di leone, con quattro ali, stretto
da un serpente e con in mano delle chiavi,
talvolta uno scettro. Un rilievo lo mostra
mentre sputa del fuoco. E’ il fuoco eterno,
l’Aiôn o il Tempo che tutto divora,
identificato con Kronos. Poiché certe
statue avevano una cavità, vi si poteva far
ardere effettivamente un fuoco, le cui
fiamme sprizzavano fuori dalla bocca o
dagli occhi del mostro » (Robert Turcan
Les religions orientales dans l’Empire
romain, in Henri–Charles Puech (ed.)
Histoire des religions, Paris 1970; tr. it. Le
religioni orientali nell’Impero romano, in
Puech (a c. di) Storia delle religioni IV,
Bari 1977, 78–79).
« Il tempo leontocefalo dei mitraisti è
un dio del fuoco e del cielo, signore dei
pianeti, dello Zodiaco, delle stagioni. ...
Come per gli Stoici, il mondo viene dal
fuoco celeste e si scioglierà in esso: lo
stesso Aiôn sta all’inizio e alla fine del
ciclo ... eterno ritorno » (Turcan Mithras et
le mithriacisme cit. 99–100). In verità,
Chronos era immaginato dagli Orfici in
figura di serpente avvolto attorno alla
terra.
Lo stesso grande dèmone gnostico
Ialdabaoth, identificato con Saturno, è
leontocefalo: esso è il primo dei sette
arconti che stringono inesorabilmente la
creazione nel destino di morte, anzi lui
stesso coincide con l’avvento della Morte.
A ogni modo, gli gnostici accentuano le
proprietà malvagie dei pianeti e si
dispongono pertanto da una prospettiva
antiastrologica.
Le chiavi alludono al potere di
chiudere e aprire, così in Giano; esse
solitamente sono d’argento e d’oro, in
corrispondenza dei due misteri, i piccoli e i
grandi. Gli iniziati ai misteri di Mithra si
articolano in due gruppi, l’inferiore con i
primi tre gradi detto dei serventi e il
superiore con gli altri quattro detto dei
partecipanti, υπηρετουντες e µετεχοντες
(Porfirio De abstinentia 4, 16). Turcan,
notando negli affreschi di Santa Prisca che
anche i leones servono – in particolare, gli
incensi – ritiene questo sufficiente a far
emergere la non attendibilità di Porfirio o
almeno delle sue fonti. Ammetto che la
testimonianza, nello specifico, si presta a
qualche dubbio; d’altronde Porfirio
potrebbe avere frainteso la circostanza
che il candidato, prima di acquisire a pieno
titolo un grado, passava un periodo di
prova, e che pertanto per ogni grado c’era
una sorta di grado inferiore e preparatorio,
sebbene ciò non escluda in assoluto
l’esistenza dell’articolazione suddetta.
Il possessore delle due chiavi è il
signore delle due direzioni del tempo, il
signore delle epoche; nel quadro della
metafisica di cui sto dando il disegno
schematico egli è la sorgente della luce
sempiterna. In tempi lontani, l’arcaizzante
esoterico Eraclito aveva definito il cosmo
un fuoco « semprevivente » che « fu
sempre ed è e sarà » (B 30).
In Saturno si impersona un’entità
cruciale. Chi è, che valore ha?
Il sanscrito sat traduce essere,
esistenza assoluta. Appare chiaro nei latini
satur (pieno) e satis (abbastanza), nonché
in satus (seminato): dalla radice
indoeuropea *sat si presenta la pienezza
compatta, la densità indiscriminata, la
gravidanza portatrice di ogni seme. Nella
semantica della parola sanscrita, la
pienezza fisica attira lo stato concreto e
reale della verità nella sua immediatezza.
Nella stessa voce, essere e
pensare, fatto e concetto, si mostrano
saldati nell’esistenza assoluta, compatti
nel sat. Ancora una volta, ripensiamo
all’essere di Parmenide. Per queste
ragioni, alle domande avanzate potremo
rispondere che Saturno è l’età dell’oro, lo
stato di ricca pienezza delle origini, il
satya–yuga, l’era dell’inizio, il grande
sonno – o sogno – (Plutarco De facie in
orbe lunae 26, 941 F).
Cominciamo a intravedere un’altra
sua identità: egli, dio dell’immediata verità,
richiama quell’altro dio della fede ai patti e
della parola vera che è Mithra.
L’etimologia plotiniana che scioglie il
nome latino del dio in satur–nus, intelletto
gravido dei semi delle cose, fantastica sul
modello delle etimologie del Cratilo,
nondimeno coglie il valore filosofico di
Saturno.

Mithra sacrifica il toro tenendo il


capo voltato « come a guardare dietro di
sé, e sovente con una singolare
espressione di tristezza; di solito un corvo,
sulla sinistra, si volge dalla sua parte;
spesso nell’angolo di sinistra si trova la
figura del Sole, a destra quella della Luna;
in basso è rappresentato un cane, oppure
un serpente, in atto di gettarsi sul sangue
che sgorga dalla ferita; uno scorpione
pizzica i testicoli dell’animale morente e la
punta della sua coda; talvolta partecipa al
banchetto anche una formica. Al di sopra
del toro si possono trovare raffigurati
invece un cratere e un leone che sembra
volerlo custodire, oppure abbeverarvisi,
mentre dall’altra parte, il serpente ha l’aria
di fare altrettanto ... la coda del toro,
sollevata, termina con un ciuffo di spighe:
in alcuni monumenti, invece del sangue, si
vedono spighe che scaturiscono dalla
ferita del toro » (riassumendo Franz
Cumont Les mystères de Mithra, Bruxelles
1913).
Le spighe hanno fatto pensare a un
motivo agrario, e del resto in un altro
importante mistero, l’eleusino, compaiono
spighe in collegamento con Demetra. Gli
studi hanno comunque smentito che il rito
eleusino e il mito di Demetra–Kore siano
in relazione con l’anno agrario e per di più
la teoria dominante agli inizi del secolo (da
Mannhardt a Frazer, e allo stesso
Cumont) circa l'inquadramento agrario
delle religioni della salvezza (lo spirito del
grano che rinasce, ecc.) ha perso
prestigio. Anche negli studi mitriaci, ci si è
scagliati contro le tesi iranizzanti e si è
combattuto contro quelle agrarie (che
vedono nel sacrificio del toro il rito tipico
d’una religione agraria) a favore piuttosto
d’una soluzione cosmologico–astrologica.
Mithra non è un dio connesso con il
ciclo vegetale e agrario, in particolare
perché non è un dio che muore e rinasce.
Non lo hanno sostenuto neanche gli
agrari, che semmai lo vedevano associato
– da dio inequivocabilmente celeste –
all’esaltazione d’un sacrificio agrario (il
toro lunare è associato al ciclo vegetale).
Seppure questo dio si celebri con un
banchetto comune a base di pane e di
vino, ciò non deve indurci a dimenticare
che i temi agrari diventano autenticamente
tali in dipendenza della loro collocazione in
uno specifico scenario e che non bisogna
attribuire l’ethos culturale dell’agricoltura a
ogni tema agrario.
Il pane di vita e il vino di vita si
condividono nel banchetto: si spartiscono
con il dio e non sono i suoi sostituti
transustanziati dell’eucaristia cristiana.
L’iniziato a Mithra non diventa Mithra e il
banchetto non serve all’identificazione con
lui; il dio resta un mediatore che
accompagna l’anima nell’ascesa, in quel
transitus fra i mondi che rimane
certamente la sua impresa maggiore – e
ne permetterà l’identificazione con
Mercurio, un dio quasi medius currens per
l’etimologia varroniana.
Il problema dei rapporti con il
cristianesimo non si esaurisce in una pura
e semplice distinzione e contrapposizione,
e andrebbe ulteriormente studiato senza
pregiudizi; soprattutto meritano di essere
presi in considerazione gli elementi in
definitiva comuni ancorché diversamente
significanti.
I teorici della comune origine iranica
del cristianesimo e del mitraismo, insieme
con i sostenitori delle comuni origini
agrarie dei misteri, si erano spinti a vedere
nelle due correnti religiose due sviluppi
divergenti da un medesimo tronco. La
questione è molto complessa e non si può
riassumere in poche battute. A noi, per
adesso, basterà pensare che i bisogni
religiosi della Tarda Antichità si sono
espressi in un'intuizione egualitaria
democratica e in un'intuizione aristocratica
iniziatica e che i motivi delle due non sono
rimasti distinti di netto in sfere esclusive.
Nello stesso cristianesimo permangono
tracce importanti di elementi esoterici e,
dopo la sua elevazione a religione
imperiale, abbiamo avuto un’accentuata
solarizzazione della figura del Cristo.
Cumont fa propria la definizione del
poeta Nonno (Dionisiache 21, 250–251):
« Mithra, un Fetonte assiro in Persia,
Μιθρης Ασσυριος Φαεθων ενι Περσιδι ».
La sua tesi è che i Magoi persiani abbiano
adattato l’astrologia caldea a un nucleo
dottrinale esoterico concernente
l’immortalità dell’uomo e il suo rapporto
con gli dèi. Facendo perno sul lato
astrologico, il tutto sarebbe stato inserito in
un’ottica stoica perché potesse accadere
che un culto iranico con integrazioni
babilonesi fosse adottato, nella veste
ellenizzata, dalle classi militari romane
divenendo la religione delle élites legate al
culto solare dell’imperatore.
Mithra, presso i romani, viene
accostato al Sol inuictus. Nel rilievo di
Virunum, Mithra sale sul carro del Sole,
novello Fetonte. E, essendo i pianeti del
settenario altrettanti soli, cominciamo a
comprendere che l’iniziazione consisteva
in una progressiva integrazione con il Sole
e con i gradi della luce. La procedura
ricalca persino lo schema delle prove post
mortem del remoto lamaismo tibetano e il
più vicino viaggio egizio di Osiride morto, e
soprattutto descrive lo scenario misterico
dell’orfismo pitagorico (e del platonismo da
esso proveniente) per il quale già questa
vita costituisce un percorso infero da
volgere alla luce.
Nel mitraismo l’accento cade,
invece, fortissimo su questa vita: il viaggio
mitriaco non è un viaggio post mortem,
perché lo stato di morte coincide con
questa vita.
4
Il sacrificio del toro

La liberazione dal destino culmina


con l’uccisione del toro da parte dell’eroe
divino. Perché mai questo gesto
esemplare è capace di rinnovare e salvare
l'umanità? Per rispondere occorre
spiegare l’identificazione di Mithra con il
potere ambivalente del Sole.

Il sacrificio del toro è l’episodio


culminante del mito di Mithra. In vero, il
rito del taurobolion è centrale nella
religione della Magna Mater Cibele, però
nel rito mitriaco celebrano un sacrificio del
dio e non al dio.
Dai primordi il toro è stato
simbolicamente connesso con il cielo nel
suo aspetto uranico, sia da cielo notturno
stellato sia da figura determinata dello
Zodiaco. I greci vedevano giacere sulla
groppa del toro celeste le Pleiadi, la
costellazione delle colombe cacciate da
Orione–Scorpione. Un’identificazione di
Mithra con Orione nel quadro degli studi
che hanno preferito la decifrazione
astrologica della principale scena del culto
mitriaco è stata riproposta da Michaël P.
Speidel (Mithras–Orion: Greek Hero and
Roman Army–God, Leiden 1980).
La figura del toro si specializza in
rappresentazione del lato notturno del sole
e arriva a essere associato con l’astro
lunare dalle corna falcate del quale segue
le vicende patetiche. La luna è l’astro
vagante per eccellenza e viene
considerata sede delle acque e dei semi
della vita. Nei rilievi mitriaci del tipo
danubiano ricorre un particolare
caratteristico: il toro seduto nella navicella
lunare a forma di falce, scapha lunaris.
L’uccisione del toro rientra, ancorché
con segni rispettivamente diversi, negli
scenari ideali sia dell’agricoltura sia dei
cacciatori. Il toro vittima del sacrificio
agrario incarna il maschile fecondo, o
paredro della Grande Madre o figlio che
per rinascere deve morire e che viene
offerto alla morte in ultima analisi dalla sua
stessa genitrice. Immortalare uccidendo è
mitica procedura iniziatica.
Al contrario, il sacrificio delle culture
non agrarie non s’incentra affatto sul
trionfo della femminilità, anzi le donne
sono rigorosamente escluse dai riti
principali delle società di maschere.
Presso i cacciatori, fra i preliminari per il
successo della caccia, vitale per l’intera
comunità, ricorre il tabù del contatto con la
donna. Questo casto allontanamento dal
mondo femminile, che per taluni casi può
addirittura spingersi alla castrazione
rituale, corrisponde d’altronde ai fini del
processo d’iniziazione maschile. In esso il
giovane recide definitivamente il rapporto
confusionale con l’universo delle madri – il
non iniziato viene considerato alla stregua
d’un aborto o d’un essere indeciso – e si
libera del sangue femminile che gli circola
in corpo e ne acquista uno nuovo,
nascendo nella vera nascita. Presso i
Dogon il taglio del prepuzio è assunto
come la liberazione dalla vagina che
avvolge il sesso maschile.
Tutto dipende dall’intuizione della
femminilità, o Grande Madre in trono o
forza vitale cieca e indistinta da evocare e
governare.
La prova principale a cui deve
sottoporsi l’eroe cacciatore e guerriero
consiste nel dimostrare la sua capacità di
dominio dell’animalità elementare intesa
femminile. Non mi riferisco solo alla Shakti
dormiente che Shiva eccita dai propri
centri interni (secondo le varie scuole
yogiche, i cakra possono essere tre,
cinque, sette, nove) e che, una volta
scatenata, egli cavalca per conquistare il
dominio della gamma completa delle
proprie forze oscure.
Tematica sofisticata ricollegabile con
il quadro dell’alchimia mistica, e penso
anche ai remotissimi affreschi rituali delle
grotte paleolitiche dove maestosi bovidi
rappresentano doviziose entità femminili in
dialettica con altre entità maschili – André
Leroi–Gourhan Les religions de la
préhistoire, Paris 1964, 19904, IV, 79; e,
più ampiamente, Le geste et la parole, I
Technique et langage, Paris 1964, II La
mémoire et le rythmes, Paris 1965; tr. it. Il
gesto e la parola, Torino 1977, di cui in
particolare XIV, 421.
Nel mito greco, Teseo uccidendo il
Minotauro cretese (considerato Asterion re
delle stelle) aveva aperto il cosmo stellato
e impresso il movimento. Nello scenario
greco ricorre un altro dio–toro ucciso da
esseri primordiali uranici e stellari: Dioniso
sacrificato dai Titani. Prima di
soccombere, Dioniso lotta assumendo
nell'ordine le forme di leone, serpente e
toro. L’uccisione del torello dionisiaco ha
un'efficacia cosmogonica, e i Titani
rappresentano un’umanità eroica fatta di
fuoco. Prima di Teseo, a Babilonia, il
viaggiatore Gilgamesh aveva già ucciso il
toro celeste.
L’uccisione del toro, in sostanza, ha
i lineamenti dell’atto eroico esemplare.
Riguardo a Mithra, da una parte non
bisogna perdere i contatti con le strade
reali percorse dal suo mito di origine non
greca e dall’altra bisogna tenerci stretti ai
documenti.

Mithra, nel compiere il suo atto


supremo, quando affonda il pugnale tra la
spalla e il collo del toro, non guarda la
vittima a cui pure torce il muso volgendolo
a sé. L’espressione che viene fissata sul
viso del giovane dio non è del trionfo, che
sarebbe normale in chi avesse prevalso su
una forza indomita. Cumont la considera
di tristezza, quasi l’atto venisse compiuto
malvolentieri, e attribuisce l’archetipo
iconografico a uno scultore della scuola di
Pergamo, tipica per il patetico e il
drammatico, scultore che si sarebbe rifatto
al modello della Nike bouthutousa (la
Vittoria che sacrifica il toro) del tempio di
Athena sull’Acropoli.
Turcan ritiene invece che il viso del
tauroctono sia solo « teso e ispirato » (cit.
49); del resto egli vede la vittima bardata
conformemente alle regole del sacrificio
romano (con la tipica dorsuale ricamata
che lo ricinge, cit. 139) e giudica che
l'immolazione si compia all’interno d’un rito
pacato. Cumont distingueva, in luogo della
citata dorsuale, la cintura dei tori da
combattimento e, in effetti, il toro sembra
opporre una selvaggia resistenza e essere
stato preso di slancio (indignata sequi
torquentem cornua – canta Stazio Tebaide
720).
La discussione sull'icona archetipica
è del massimo interesse perché in essa
non può non essere conservata la chiave
per decifrare la struttura del dio.
Comunque vada intesa la maschera
di Mithra, un tratto permanente è che egli
non guarda il toro mentre lo uccide e che
si gira dall’altra parte; il tema del
rovesciamento nel rapporto con il toro è
ricorrenza caratteristica sia nell’episodio
culminante (in cui sono rovesciati la testa
del toro e il volto dell’eroe) sia in quello
anteriore e altrettanto peculiare della
cattura, per il verso a ritroso con cui il toro
viene trascinato nell’antro.
In verità, nell’immaginario classico
c’è un eroe, splendidamente solare, che
affronta la vittima con la testa girata,
senza guardarla direttamente per non
restarne attratto e impietrito. Egli è
Perseo, il mitico fondatore della nazione
persiana, pur non essendo il suo stile
prova sufficiente per un’identificazione con
Mithra.
La coincidenza di Mithra con Perseo
è stata sostenuta, sulla base di argomenti
astronomici, da David Ulansey (The
Origins of the Mithraic Mysteries:
Cosmology and salvation in the Ancient
World, New York–Oxford 1989), il quale
ha attribuito la formazione della nuova
religione al turbamento provocato dalla
scoperta della variabilità degli equinozi e
cioè del corso stesso degli astri, la zona
più divina del cosmo.
Gli astronomi si erano accorti da
tempo della precessione degli equinozi,
negata per ragioni di principio dai
sostenitori della fissità del ciclo cosmico, e
una corrente attenta allo studio delle
proprietà religiose dei segni degli astri ne
avrebbe fatto il suo tema principale.
Per l’oscillazione conica dell’asse
terrestre che provoca la precessione degli
equinozi, la primavera veniva a cadere
sotto l’Ariete (aprile) e non più sotto il Toro
(maggio). Orbene, era inaudito e
sconcertante che l’inizio dell’anno fosse
anticipato da una variazione dell’axis
mundi, in cui si prolungava, nel sistema
geocentrico, l’asse terrestre.
Le costellazioni corrispondenti agli
animali dell’icona archetipica (cane,
serpente, corvo) comparivano sopra
l’equatore, mentre si vedeva il Toro
soccombere sotto la costellazione di
Perseo, alla quale sarebbe stato attribuito
il nome di Mithra in onore di re Mitridate VI
Eupatore che rivendicava di avere Perseo
per antenato.
C’è da aggiungere che l’attribuzione
risultava coerente con la credenza che
Mithra, dio del Sole levante, reggesse
emblematicamente l’equinozio primaverile.

Turcan obbietta che la suddetta


precessione non avrebbe affatto sconvolto
le menti (cit. 107), e incalza osservando
che la teoria di Ulansey « ne rend pas
compte de toute l’imagerie mithriaque, en
particulier des épisodes qui suivent ou
précèdent la mise à mort du taureau. Pour
être crédible une exégèse doit être totale »
(cit. 108, un’esegesi plausibile deve
spiegare l’intero svolgersi delle
raffigurazioni concernenti il sacrificio del
toro).
Turcan ha sostenuto che sulle steli a
figure multiple del tipo retico–renano si
trova il racconto d’una vera e propria storia
del mondo. In particolare, prendendo a
base la scultura di Osterburken (museo di
Karlsruhe) e integrandola con iconografie
d'altra provenienza, egli così riassume la
storia (cit. 95):
– nascita del Tempo (Kronos–
Chronos) dal caos, « qui, en créant
l’histoire, dévore et détruit – comme le feu
des stoïciens »; esso è Aiôn leontocefalo,
Saturno;
– da lui nascono Cielo e Terra e da
questi le tre Parche, il destino;
– Kronos consegna la folgore a suo
figlio Zeus–Oromasdes; egli se ne serve
per atterrare mostri incarnazione del Male,
principio antagonista, anguipedi;
– ma l’ordine di Zeus–Giove non è
definitivamente acquisito e allora
interviene Mithra; questi non proviene
dalla coppia originale, Cielo e Terra, e
sorge completamente armato dalla roccia,
in testa porta il berretto frigio, nelle mani
una torcia accesa e il pugnale famoso;
alcuni pastori assistono alla nascita e
talora tirano su il dio per le braccia;
– successivamente si trova Mithra
mentre miete il grano, vicino a un albero o
dentro di esso, da guardiano dei frutti e in
genere della vita;
– Mithra scaglia una freccia contro
una roccia provocando lo sgorgare d’una
copiosa sorgente; un pastore simile a
quelli che lo hanno assistito alla nascita si
abbevera; se ne deduce (prosegue
Turcan) che i principî del male hanno
minacciato di annientare i viventi
disseccando il mondo, come fece Fetonte
(che lo studioso ritiene contrapposto a
Mithra nel rovescio della stele di Dieburg);
– inseguimento del toro che figura in
una navicella a forma di luna croissante
(scapha lunaris);
– in un primo momento il toro ripara
in una capanna dal tetto a doppio
rampante ma due pastori vestiti da Cautes
e Cautopates danno fuoco al rifugio;
– Mithra riesce a cavalcare il toro
tenendolo per le corna;
– lo afferra per le zampe posteriori e
lo trasporta in spalla a testa in giù o lo
trascina a ritroso nella grotta dove il corvo,
messaggero del Sole, gli ordina di
ucciderlo;
– accorrono un serpente e un cane a
suggere il sangue della ferita, uno
scorpione, talvolta un granchio stringe i
testicoli della vittima; un leone è presente,
vicino a un cratere; spighe di grano
nascono dalla ferita o dalla coda; la scena
può talvolta svolgersi fra due alberi invece
che nella grotta;
– dopo la tauroctonia sembra
essersi verificato un dissidio tra il Sole e
Mithra, lo deduciamo dal fatto che si vede
il Sole, con la corona a raggi giacente
ormai a terra, in ginocchio davanti a lui
che brandisce un sacco da soldato; il Sole
riconosce la preminenza di Mithra e si fa
iniziare al grado di miles;
– i due si stringono la destra sopra
l’altare, su cui il corvo porge della carne, e
siedono a banchettare sulle spoglie del
toro;
– Mithra sale sul carro del Sole;
– la sequenza finisce con un dio
barbuto cinto da un serpente, identificabile
con Kronos–Aiôn; il ciclo che si era aperto
con Saturno si chiude con il suo ritorno.
Dal nastro delle scene suddette,
Turcan ricava nietzscheanamente che
quella del mitraismo è la religione
dell’eterno ritorno.
Osservo al riguardo che, non
essendo Mithra un dio del destino ma un
dio dell’intervento attivo modificatore, il
concetto di eterno ritorno andrebbe
approfondito adeguatamente, in un
confronto inevitabile con le speculazioni
neoplatoniche (v. sopra, capitolo 2) e con
l’astrologia. Ciò per la necessità di
esaltare l’inversione e il riscatto introdotti
dalla rottura dovuta al gesto esemplare del
dio eroico.
E infatti, dal canto suo, Ulansey ha
ulteriormente precisato (Mithras and the
hypercosmic sun, in Hinnells (ed.) cit.
257–264) che nel dio del mitraismo
andrebbe riconosciuto il sole iperuranio
dei platonici, forza che non può essere
contenuta nella caverna cosmica e che ne
erompe e la governa, un dio eroico con il
potere di sovrastare e d’invertire il corso
degli astri.
In proposito, giova rilevare che
quello stesso Posidonio, da cui Turcan
ritiene che provengano gli elementi stoici
aggiunti al Mithra originale, viene
considerato un pensatore di sintesi tra
stoicismo e platonismo.

Se dietro il toro si celasse Saturno–


Aiôn, la tauroctonia corrisponderebbe alla
mitica mutilazione con la quale irrompe
l’ordine attuale, separando le stagioni e
scandendo i ritmi di cose uomini e dèi.
Essa si imporrebbe con il merito del gesto
instauratore della suprema giustizia
attuale, il taglio che ha deciso il mondo
sacrificando Saturno, l’immobile eternità
passiva e pesante.
Alcuni studiosi hanno ritenuto che
Mithra entra in contrasto non con Crono–
Saturno bensì solo con Ahriman, dio di
questo mondo, e nella figura con la testa
di leone circondata da segni zodiacali
hanno preferito vedere quest’ultimo. Una
simile lettura comporta che l’uccisore del
toro (saturnino) sia Ahriman.
La questione è assai complicata e
va esaminata con cura.
« L’immolazione del toro avviene
nella caverna, alla presenza del Sole e
della Luna; la struttura cosmica del
sacrificio è indicata dai dodici segni dello
Zodiaco o dai sette pianeti, e dai simboli
dei venti e delle quattro stagioni. Due
personaggi, Cautes e Cautopates, vestiti
come Mithra, ognuno con una fiaccola
accesa in mano, osservano con attenzione
l’impresa del dio; essi rappresentano altre
due epifanie di Mithra in quanto dio solare.
Lo Pseudo Dionigi parla di triplice Mithra
(Epist. 7) » (Mircea Eliade Histoire des
croyances et des idées religieuses II, Paris
1978; tr. it. Storia delle credenze e delle
idee religiose II, Firenze 1980, 324).
Ai lati dell’immagine del sacrificio del
toro, Cautes tiene una torcia accesa
sollevata verso l’alto e Cautopates tiene la
torcia rivolta verso il basso; associati il
primo al segno zodiacale del Toro e il
secondo al segno dello Scorpione,
simboleggiano rispettivamente la metà
ascendente del percorso del sole, alba e
primavera, e la metà calante, tramonto e
autunno. Il quadro è quello della lotta tra
luce e tenebre. Aggiungo che la triformità
d’un dio indica che il suo dominio e il suo
raggio d’azione si estende su più mondi
oltre il nostro terreno.
Mithra, in effetti, viene giudicato un
mediatore (Plutarco De Iside et Osiride
46).
Collocato tra il sole superiore e il
sole inferiore (Cautes e Cautopates),
celebra il trionfo della faccia diurna e vitale
del sole su quella mortifera e notturna.
Nato nel solstizio d’inverno
(saturnino), si afferma nell’equinozio di
primavera, sede privilegiata della
mondanità trionfante. La sua non è la
vittoria d’un dio lontano; al contrario, egli è
nel mondo e lo governa, lo regge, lo salva.
È il dio esemplare della vita attiva, non
muore e non deve risuscitare;
semplicemente è, da giovane in eterno, un
combattente vittorioso.
Rispetto alle altre religioni della
salvezza, agli altri misteri contemporanei,
il mitraismo si presenta con un’identità
inconfondibile nella quale sta la sua
fortuna e la sua sfortuna. In esso riaffiora
un ultimo lascito (ormai inattuale) d’una
religione eroica e del demiurgo eroe.
Il centro essenziale del mitraismo si
mostra nel simbolo più ricorrente e
programmatico: esso è una religione della
creatività del gesto cruento, dell’uccisione
capace di dare la vita, del sacrificio. Tanto
esso proclama in un’epoca nella quale
l’azione andava svalutandosi a favore
dell’interiorità inattiva e dello scetticismo.

Non disponiamo di notizie complete


e argomentate sul mito di Mithra, tanto
meno dall’interno della confraternita dei
mitraisti, salvo da Tertulliano che pare
fosse stato iniziato ai misteri mitriaci in
Roma prima che, sul finire del II secolo, si
convertisse al cristianesimo. Le notizie più
estese che quest’autore ci rimanda sono
circoscritte al rituale di consacrazione dei
gradi di miles e di leo. In ogni caso, la sua
attendibilità è oggetto di riflessione
preoccupata, nel passo in predicato (De
praescriptione haereticorum 40) compare
l’inquietante affermazione che il diavolo
offriva agli iniziati un’immagine della
risurrezione (« imaginem resurrectionis
inducit »). Accogliamo tuttavia la notizia, a
ogni buon conto proveniente dall’interno,
che i mitraisti si concentravano su
un’icona della risurrezione.
Il concetto di risurrezione va preso
con la massima cautela e però è
interessante trovarlo in relazione con
l’uccisione compiuta dall’eroe, padrone –
diremmo – della vita essendo padrone di
quell’atto di morte.
Tra gli elementi d’un mito che
doveva avere una sua complessità,
spiccano la nascita dalla roccia; l’aver
provocato con un colpo di freccia sulla
roccia lo sgorgare d’una copiosa sorgente
vitale per gli uomini; un’impresa ardua –
definita transitus dei – che comprende la
cavalcata del toro, il trascinamento
(tauroforia) e il trasporto in spalla dentro
l’antro; l’episodio culminante ampiamente
documentato della tauroctonia (non è
sicuro che l’usato sinonimo taurobolion
corrisponda alla stessa azione).
Il dono delle acque, dissuggellate
dalla montagna con la forza magica delle
proprie armi, potrebbe riferirsi allo strato
più antico della figura di Mithra, a quel
ruolo di mediatore psicopompo che abita
la vetta del mitico monte Hara (vertice
della terra per gli iranici), sulla quale
scende l’arcobaleno che fa da ponte tra la
terra e il cielo. Le acque benefiche che si
rendono disponibili in terra (Gange, Nilo e
gli altri principali fiumi) provengono da
ampi bacini celesti lungo misteriosi canali
dall’alto, principalmente l’arcobaleno o la
strada aperta da grandi dee (Ishtar) o dèi
dalla loro sede urania, localizzata spesso
sulla luna. Il Mithra antico iranico abita
l'altezza da cui prende slancio questo
trasferimento di vita e il colpo della freccia
miracolosa – che somiglia molto da vicino
a un atto da sciamanico mago della
pioggia – garantisce il collegamento con il
cielo. Mithra è infatti il giudice delle anime
per delega del Signore Sapiente e
constatiamo che, perfino nel quadro
monoteistico imposto da Zarathustra, non
gli si è potuta sottrarre l’essenziale
funzione.
Se è vero che l’arma più nota di
Mithra sembra essere il pugnale a lama
larga affondato nella gola del toro, questo
non deve impedirci di dare il dovuto peso
alla freccia, la quale sotto un certo aspetto
tende a restare nell’ombra d’un episodio
secondario mentre invece illustra
significativamente la figura del dio eroico.
La freccia va lontano e colpisce oltre
le distanze. Nello stesso termine di
taurobolion (alla lettera, uccisione del toro
mediante un colpo lanciato da lontano,
Burkert cit. 191) si allude a un rituale
diverso dallo sgozzamento, più da recinto
sacro e più circoscritto. Un rituale dell'uso
più arcaico dei cacciatori paleolitici
proiettati nelle aperte praterie a inseguire
circondare sfiancare i tori selvaggi, in una
delle cacce più difficili e selettive.
Burkert considera (cit. 191) la pittura
parietale del santuario di Çatal Hüyük in
Turchia (fine VII millennio a.C.) una
« conferma » del rituale arcaico, peraltro
collegato con personaggi mascherati. La
considerazione non depone a favore della
tesi di Turcan che la tauroctonia sia un
sacrificio ordinario.
Il trascinamento a ritroso di animali
da armento sembra a prima vista un
comportamento furbesco di abigeatari che
vogliano ingannare il legittimo proprietario.
Hermes, nell’inno omerico a lui dedicato,
trafuga con siffatto artificio la mandria del
fratello. Similmente si comporta il gigante
Cacus sottraendo a Herakles sette capi di
bestiame e trascinandoli per la coda nella
grotta dell’Aventino.
Il paragone di Mithra con Cacus è
noto al poeta latino cristiano Commodiano,
del III secolo (Turcan cit. 97). Mithra viene
peraltro denominato ladro di buoi
(sprezzantemente: bouklopos, in Firmico
Materno).
Il collegamento con lo scenario dei
cacciatori e razziatori arcaici illustra un
tratto della figura primitiva di Mithra; in
quella ideologia, gli animali selvaggi sono
proprietà delle potenze invisibili dell’aldilà
e solo un eroe che abbia ottenuto il
soccorso di dèi potenti può andarseli a
prendere vincendo i guardiani. Herakles
costringe il Sole ad aiutarlo, in ispecie nel
percorso oltremondano, e sulla coppa del
Sole trasborda nell’aldiqua i buoi del
triplice Gerione infero. Il Sole, dicevo, è
ambiguo e ha due facce. Anche Mithra
fruisce dell’aiuto del Sole – o lo costringe?
Il percorso dell’impresa faticosa del
dio, capace di catturare il toro, sfiancarlo,
trascinarlo per le zampe posteriori,
trasportarlo in ispalla nel suo antro, e
infine farne un’offerta esemplare, va
studiato con attenzione.
Infatti, non quadra completamente. Il
suo sacrificio non è eseguito all’aria
aperta, egli agisce nella caverna, come se
la vittima fosse stata riportata lì indietro,
dopo una fuga indebita, nella sede
consueta dal vero proprietario. Quando
(raramente) il sacrificio è raffigurato fra
due alberi, questi possono rappresentare il
giardino mitico dei primordi, che è pur
sempre un aldilà.
Il toro viene fatto rientrare nella
caverna, sede appropriata alle mandrie
infere. E il rovesciamento forzato della
direzione di marcia indica un ritorno.
Inoltre, il dio sta di casa (mito della
nascita) nella caverna, configurando nel
tempo stesso un Signore degli animali e
un Signore del labirinto. Il toro appartiene
alla sua giurisdizione, e solo lui dimostra di
poterne trarre le potenze intrinseche.
Il mito primitivo contempla che il toro
era fuggito e che il benefattore lo aveva
ripreso per sé in qualità di legittimo
proprietario. Del resto, nell’ideologia dei
paleocacciatori, una caccia è fortunata a
condizione che la preda sia riconsegnata
(anche simbolicamente, pars pro toto) al
terribile proprietario Signore o Signora
degli animali, gli unici a disporre della
preda selvaggia.
Il fatto si è che nella mente arcaica il
legittimo proprietario d’un bene desiderato
è chi riesce a prenderselo, in ispecie se
entra in gioco del bestiame.
Ancora nel secolo XIX era lecito ai
facchini della tonnara dell’isola di San
Pietro di appropriarsi del carico purché
non venissero scoperti prima dell’arrivo
alla loro baracca – Valery (pseudonimo di
Antoine–Claude Pasquin) Voyages en
Corse, à l’île d’Elbe, et en Sardeigne II,
Paris 1837; tr. it. Viaggio in Sardegna,
Nuoro 1996, 188.
Il furto (o la rapina), lungi dall’essere
un delitto, è la forma più diretta di
procacciamento della ricchezza, la quale
non è di alcun altro che non sia il dio del
vasto e capace aldilà. Herakles in una
delle varianti del mito tira a sé a rovescio i
buoi di Gerione, del pari a Hermes e a
Cacus. Se dovesse risultare che tutti
coloro che rubano o catturano mandrie
selvagge debbono tenere un analogo
comportamento, ne verrebbe che le
mandrie selvagge possono diventare
proprietà legittima di chiunque sappia
portarle agli inferi di nuovo.
Nessuno che sia incapace di porsi
come dio della caverna può appropriarsi
della forza ivi custodita.

Ecco, Mithra pare specialmente


congiunto con l’ambivalenza del Sole. Egli
è anche il Sole che abita nella caverna,
ovvero l’altra faccia del Sole. Versato sulle
due regioni che costituiscono l’una il
rovescio inscindibile dell’altra, di esse
mediatore, il duplice Mithra, mortale e
vitale, uccisore e creatore, si colloca sul
confine di passaggio e d’inversione tra
visibile e invisibile.
Mithra è giustamente accostato al
leone, maschera della bipolarità del Sole.
Sottolineo di sfuggita che la figura del dio
che assalta il toro ricalca fedelmente
l’iconografia esemplare del leone che
caccia il toro, si avventa sulla sua groppa
e lo azzanna al collo per atterrarlo. Sulle
teorie del nesso astrologico tra le due
omonime costellazioni ho riferito.
Non è secondario e estrinseco che il
culto mitriaco comprenda l’uso delle
maschere da parte d’una società segreta
maschile di guerrieri. Al centro di una
religione misterica sta la preparazione ad
affrontare il terribile e sconvolgente
incontro con le potenze dell’invisibile, per
appropriarsene a integrazione di sé.
Il Mithra abitatore del centro della
montagna, che ne conosce e garantisce
l’uscita, che domina le forze da essa
custodite non è un dio agrario, bensì un
cacciatore coerentemente inscritto in uno
scenario astronomico. Nell’ideologia dei
nomadi cacciatori, che si stende alle spalle
dell’intero quadro indoeuropeo, gli animali
sono stelle e gli antenati degli uomini sono
stelle.
E’ evidente che a un’entrata
rovesciata rispetto alle apparenze e alle
regole del mondo sensibile dovrà
corrispondere un’uscita simmetricamente
inversa; del resto, è assodato che quanti
entrano o rientrano nella caverna sono
poteri di varia specie e densità – antenati
animali stelle – e che il percorso del
bestiame non è qualitativamente diverso
da quello degli uomini.
Così, il toro deve entrare a rovescio
nella caverna come le anime liberandosi
risalgono i poteri planetari lungo la scala di
Celso e cioè a rovescio di quel rovescio.
Esse, infatti, per liberarsi debbono
sciogliere i nodi nell’ordine inverso a
quello con cui sono stati stretti dai poteri
che dominano il mondo.

Su un sarcofago (Louvre, Parigi)


Mithra e il Sole appaiono distesi a
banchettare sulla pelle del toro sacrificato
che forma una specie di caverna. Il toro
qui si presenta nella forma del Grande
Vivente, cosmo, mondo dell’incarnazione
e delle nascite, il contenuto molteplice
innumerevole sotto il cielo stellato.
L’esigenza d’una rigenerazione
integrale del mondo e del ciclo temporale
è alla base del sacrificio cosmogonico.
Questo è il fine del rito vedico del
sacrificio del cavallo, lo ashvamedha, che
esige una procedura iniziatica (Rigveda
VIII, 48, 3: « siamo diventati immortali,
abbiamo visto la luce, abbiamo trovato gli
dèi »).
Chi la conosce e si appropria del
suo mistero diventa simile agli dèi
immortali.
« Questa coincidenza fra la
conquista dell’immortalità e la ripetizione
dell’atto della creazione è importante; il
sacrificante supera la condizione umana e
diventa immortale mediante un rituale
cosmogonico. Ritroveremo la stessa
coincidenza fra iniziazione e cosmogonia
nei misteri di Mithra. ... Il cosmo non è
creato ex nihilo dalla divinità suprema,
riceve la sua esistenza dal sacrificio (o
l’autosacrificio) d’un dio (Prajâpati), d’un
mostro primordiale (Tiamat, Ymir), d’un
macrantropo (Purusha), o d’un animale
primordiale (il toro Ekadath degli Iranici).
All’origine di questi miti si trova,
reale o allegorico, il sacrificio umano ...
che sempre si compie in relazione con le
cerimonie d’iniziazione e con le società
segrete. ... il sacrificio indiano del cavallo
ha sostituito il sacrificio più antico del toro
(il toro era sacrificato nell’Iran, e il mito
cosmogonico parla d’un toro primordiale;
... “Prajâpati è, infatti, il grande toro” – n.2:
Shatapatha–Brâhmana IV, 4, 1, 14 – »
(Eliade Traité, 108–109; sottolineature
mie).
L’istituzione del primo sacrificio, che
precipita nell’elargizione del pane e del
vino agli uomini, sta a rappresentare
l'instaurazione della nuova comunità
umana e non dell'inaugurazione del ciclo
agrario. L’umanità eroica deve nascere da
un sacrificio eroico.
5
Mithra e Ahriman

Mithra, il mediatore, il combattente,


deve incrociarsi con il nemico e accettare
di entrare in contatto con il male. Egli è il
re salvatore che non si stacca dal mondo
ma vi s’immerge fattivamente.
La metafisica del conflitto coinvolge
il tema del potere salvifico del gesto
cruento: questione eminentemente tipica
delle classi di governo e militari.

Lo Scorpione, l’avida bestia di


Ahriman che attacca i genitali del toro
sacrificato – per sterilizzarne l’effusione
benefica del seme? – nella simbologia
esoterica astrologica raffigura la coda
della Bilancia, dalla quale è stato separato
solo in tempi successivi dopo avere
anticamente composto con essa un’unica
costellazione.
La Bilancia, sotto il cui dominio il
Sole si colloca nell’equinozio di autunno
(inizio della metà oscura dell’anno), è il
segno di Saturno: l’eterno, l’indifferenziato,
l’indefinito, lo stato primordiale di equilibrio
e d’immobile indistinzione di notte e dì.
Questo stato di pienezza atemporale ne
ha fatto il re dell’età dell’oro e del paradiso
perduto. Per ciò stesso egli è un prius
metafisico, lo scuro, il fondo ultimo
ontologico e psicologico, oltre cui non si
può scendere e da cui è giocoforza
ripartire per ogni trasformazione che si
voglia creare; l'ineliminabile e perdurante
residuo (il resto), il piombo.
Vedremo più avanti la straordinaria
importanza di questa qualità all’interno
della Grande Opera (Opus magnum) che
ha Mithra per protagonista.
Però la Bilancia è altresì la sanscrita
Tulâ, collegata con il polo (Guénon Le Roi
du Monde, Paris 1958; tr. it. Il Re del
Mondo, Milano 1977, 96–97).
Tulâ nella tradizione iperborea è
l’Orsa maggiore e nella tradizione
atlantidea, cui si rifà il mito greco delle
sette sorelle figlie di Atlante, è le Pleiadi.
Fra le figure che Efesto scolpisce
sullo scudo di Achille (Iliade XVIII 487)
spicca l’Orsa con le colombe – pleiades,
Pleiadi – che Orione cacciatore voleva
abbattere.
Le Pleiadi–colombe portano la
bevanda dell’immortalità, l’ambrosia, al
banchetto degli dèi sfuggendo allo
sbarramento degli scogli cozzanti (le
Symplegadi) con un balzo di fulmine. Nel
polo, termine alto dell’axis mundi, si trova
il passaggio per l’atemporale.
L’astrologia greca, in breve, conosce
bene il nesso polare che connette Orsa (=
Pleiadi), Bilancia, Scorpione. Nel mito
greco lo Scorpione celeste riflette la
trasformazione in stella, katesteria, del
selvaggio cacciatore.
Un’identificazione di Mithra con
Orione nel quadro degli studi orientati a
preferire la spiegazione astrologica della
principale scena del culto mitriaco è stata
proposta, lo ripeto, da Speidel (Mithras–
Orion).

Orione è un Titano e i primordiali


Titani sono uranici e stellari. Egli è sorto
dalla terra inseminata da tre dèi potenti
mediante un toro; aggredisce la propria
madre e si rende colpevole d’un peccato
che comporta la cecità, poi guarisce da
questa pena perché, guidato dai fabbri
divini, incontra il sole. Infine è colpito da
Artemide, o dalla sua freccia o dal suo
scorpione, e torna fra le stelle a quello che
era in origine.
Per i Dogon lo scorpione è la
clitoride escissa, la parte aggressiva della
femmina ancora nello stato androginico.
La base del mito contiene il
riferimento a un sacrificio propiziatorio
arcaico, di cui è traccia l’accecamento
rituale del cacciatore, alla Signora degli
animali.

Sulla Bilancia va ulteriormente


annotato che l’equilibrio equinoziale dei
suoi piatti in orizzontale è retto nel mezzo
dall’ago in verticale, ago o spada, asse
polare.
In conclusione, il simbolismo della
Bilancia si duplica nella facies orizzontale
e in quella verticale e si articola nelle
corrispondenti valenze solare e polare.
Le due valenze non sono
metafisicamente separate (d’altronde tutte
le direzioni cardinali si implicano e
fondano a vicenda), ciò nonostante
comportano differenze di prospettiva assai
importanti.
Il polo ruota sul medesimo e il sole
sulla differenza (parafrasando Timeo 36
C).
Il polo sta a nord sull’inizio solstiziale
dell’inverno, il livello più basso e nascosto
raggiunto dal sole, il luogo d’un principio
fra i meno visibili, presumibilmente il più
prossimo all’invisibile. Dal canto suo, a est
sull’equinozio di primavera sta l’inizio
luminoso della vita appariscente e più
visibile del sole.
La funzione solare, patrimonio del re
(il sole levante dal vertice del monte Hara,
a oriente), focalizza l’inizio della
manifestazione, l’entrata nel molteplice e il
suo governo: è il carisma che prevale nella
figura di Mithra. La funzione polare,
patrimonio del sacerdote (il sole che abita
nella caverna, a nord), focalizza l’unità del
molteplice ancora raccolta e compatta
nell’invisibile: è Saturno dormiente e
saggio.
In sintesi, nel simbolismo della
Bilancia si esprime la tensione della
compresenza di due modi di concepire
l’inizio, il principio. Inizio giacimento in
attesa e inizio rottura creativa. Inizio pre–
umano non–umano indifferente all’uomo e
inizio atto dell’uomo.
In ciò ritroviamo l’oscillazione interna
al complesso Saturno–Sole, che va a
incarnarsi nella figura di Mithra – del
triplice Mithra – e nella sua tensione
interna di mediatore.
In valori neoplatonici, che presso
circoli magici teurgici possono complicarsi
in sofisticate riflessioni sulle procedure
dell’Opus Magnum, egli svolge il ruolo
dell’anima mundi, mediana tra il nous
saturnino e la sfera del sensibile.
Quindi Saturno è Mithra e viceversa.
Di sfuggita, rammento che i cristiani
neoplatonici vollero vedere nel Cristo il
Verbo e non l’Anima; la vittima da
sacrificare (a opera del Padre?) e non il
sacrificatore. La contrapposizione fra le
due religioni investiva questioni più radicali
della democrazia dei suoi gradi.

Risulta del massimo interesse avere


colto che Saturno coincide con il Polo,
ossia con l’Orsa maggiore. E c’è dell’altro.
La bilancia è un attributo del re e
degli kshatriya e ne designa la funzione
amministrativa di governo; insieme con
l’altro attributo, la spada, ne rappresenta la
funzione militare.
Ora, Mithra è sia un pesatore di
anime sul ponte Shinvat sia un sovrano
guerriero. In tale veste compie l’atto
creativo perfetto, atto cruento. Il suo
mistero contempla la creazione nascente
da un’uccisione e da un versamento di
sangue primordiale.

L’escatologia iranica ci è pervenuta


da testi redatti in epoca relativamente
tarda dai riformatori zoroastriani, tuttavia
non sono da sottovalutare quelli ancora
più recenti dei controriformatori i quali,
reagendo alle innovazioni spiritualiste di
Zarathustra, con ogni probabilità hanno
ripresentato idee più primitive tratte dalla
tradizione. I riformatori hanno spesso cura
di avvolgere le loro accelerazioni in
arcaismi altrettanto autentici – vale per gli
Orfici, vale per i vangeli cristiani – al fine di
potersi presentare da realizzatori della
vera tradizione.
Nella religione dell’Iran antico sono
stati proposti due salvatori, uno è
Zarathustra (Saoshyant, alla fine dei
tempi, nasce dal seme di Zarathustra
conservato in un lago dove si bagnerà una
vergine che ne resterà fecondata), l’altro è
Mithra.
Un'accentuata glorificazione di
Mithra è, dunque, congeniale con una
riscossa reazionaria tradizionale (nello
zoroastrismo ortodosso egli è soltanto un
dèmone positivo aiutante di Ohrmazd) e,
se l’iniziativa di Zarathustra rientra
nell'ondata di svalutazione del rito a favore
della maggiore potenza dell’interiorità,
Mithra è di nuovo il mitico signore
dell’azione, il modello dell’azione sacra,
colui che recupera il peso insopprimibile
del rito. Mentre per Zarathustra il rito
prolunga l’efficacia delle forze cosmiche
dominanti nel mondo e va pertanto
ridimensionato, Mithra insiste in particolare
sulle possibilità di salvazione scaturenti
dall’incontro–scontro con le forze infere.
Sembra che, alla fin fine, meriti
credito la notizia di Plutarco (De Iside et
Osiride 46) che la religione persiana
prevede il culto di due divinità avversarie,
alle quali si tributano due generi di sacrifici
– su prescrizione del mago Zoroastro.
L'attribuzione è stata giudicata erronea,
eppure dietro il nome famoso potrebbe
celarsi una casta e una funzione collettiva
e non soltanto il profeta riformatore, e non
ci sarebbe errore.
Dal momento che Mithra si colloca
tra i due principî confliggenti del bene e
del male in qualità di mediatore, questo
suo ruolo dovrebbe esercitarsi nel rito.
Resterebbe da capire per quale via il
sacrificio eseguito da Mithra contenga un
incontro mediatore con il dio del male. La
questione investirebbe direttamente il
nucleo essenziale del mistero.
Nel Bundahishn, libro della
cosmogonia in 36 capitoli, redatto in lingua
sacerdotale pahlavi nel IX–X secolo
durante il dominio abasside dopo la
conquista araba dell’Iran, troviamo una
rielaborazione letteraria della dottrina
zoroastriana.
Un passo afferma che il sacrificio del
toro fu compiuto all’inizio da Ahriman. In
altro luogo, il testo avestico prevede che il
Salvatore (il Saoshyant, cioè Mithra) alla
fine ucciderà anche egli un toro per
comporre la bevanda d’immortalità
« mescolandone il grasso con lo haoma ».
Nell’iscrizione di Santa Prisca
leggiamo che il sacrificio è già avvenuto
(seruasti è un perfetto) e forse dobbiamo
intendere che per i mitraisti è entrata
l’epoca della fine dei tempi; del resto, è
peculiare delle escatologie di ripetere gli
atti dell’inizio al fine di revocarne e
mutarne le conseguenze.
La tardività della redazione pahlavi
non è sufficiente per ritenere non
appartenente alla tradizione iranica la
dottrina che il sacrificio cosmogonico sia
stato compiuto da Ahriman. In attesa che i
filologi decidano inequivocabilmente sulla
questione, possiamo ammettere che la
struttura del dio Mithra non sarebbe
modificata dal fatto che in illo tempore il
toro sia stato ucciso dallo spirito
antagonista.
E’ evidente che la presenza delle
due varianti circa l'uccisore del toro
appare intollerabile solo a partire da un
presupposto monoteista. Anzi, le apparenti
oscillazioni possono costituire segnali
rivelatori d’una tensione antimonoteista
(nelle dottrine più arcaiche il creatore
primario viene contrastato da un
avversario). Zarathustra, autore epocale di
un’energica intensificazione monoteista,
proibì il sacrificio cruento, eppure non
riuscì a eliminare quello dello haoma la cui
preparazione prevede l’uso del grasso (o
del sangue?) del toro e pertanto comporta
che un toro venga ucciso.
La svalutazione dei sacrifici rientra in
un disegno di spiritualizzazione del
conflitto con il male. Zarathustra, negato al
male lo statuto ontologico di forza
indipendente e oggettiva, lo riduce a
un’opzione dell’interna dialettica dell’unico
vero Signore dell’universo. Il male diventa
una proiezione del dio unico e non è più
un altro dio a lui irriducibile e
contrapposto. Per questa ragione il
combattimento si svolge sul piano
spirituale e non può venire deciso con i
sacrifici, i quali incrociano sul piano fisico.
Inoltre il riformatore, per lo stesso
coerente disegno, proibì l’antica usanza di
sacrificare al dio del male. Però, per
Turcan (cit. 105), il rimprovero di
Zarathustra ai sacrificatori di buoi di volere
allontanare da sé la morte con il loro gesto
(Gatha Y 32) rivela che un sacrificio
positivo non legato ad Ahriman era attivo
nella ritualità più antica.

Anche il sacrificio mitriaco rientra nel


quadro innovativo dovuto alla crisi del
sacrificio tradizionale. La sua celebrazione
è simbolica (va così presso neopitagorici e
neoplatonici) e non concreta. Sul concetto
bisogna tuttavia intendersi, simbolico non
equivale a fittizio; perfino il sacrificio della
messa cristiana è simbolico e nondimeno
viene considerato reale dai suoi praticanti.
Incontriamo un aspetto basilare: il
luogo in cui per i mitraisti si realizza
l’efficacia dell’atto esemplare cessa di
essere esteriore e si fa interiore. Sarà per
questa ragione che nel mitraismo entrano
in gioco, contrariamente all’opinione di
Turcan, le filosofie della potenza
dell’interiorità, le filosofie che assegnano
all’anima una capacità di proiezione
esterna.
I mitrei non sono templi del dio ma di
uomini che lo commemorano, e non tanto
con il compiere essi stessi un’immolazione
quanto con il ricordo di quella esemplare
compiuta da lui. Turcan sostiene che il
sacrificio mitriaco è fortemente innovativo
rispetto alla consuetudine greco–romana
per il fatto che l’altare sta dentro l’antro, al
chiuso, e non fuori del tempio all’aria
aperta (sub diuo). Eppure quell’interno è
una imago mundi; di frequente sul suo
soffitto è raffigurato il firmamento e nella
volta del mitreo di San Clemente sette fori
rappresentano i pianeti. Non c’è differenza
sostanziale tra i luoghi della nascita di
Mithra e del suo atto supremo di libertà.
Bisogna infine considerare che nella
tradizione liturgica classica esiste un
sacrificio notturno agli eroi, cosicché non
escluderemmo che il rituale mitriaco si
innesti su una rilettura di quell’arcaica
consuetudine.

A dispetto dell’autenticità della


tradizione che fa uccidere il toro da
Ahriman, rimane assolutamente indubbio
che anche Mithra uccida il toro e, ove non
bastassero le notizie sulla dottrina,
soccorrerebbero numerosissimi documenti
archeologici.
Mithra riassume forse su di sé
Ahriman per mutarlo di segno? Eppure
egli non era e non è un dio privilegiato dal
monoteismo con il compito di eliminare il
dualismo (o il diteismo) assorbendolo in
sé, come appartiene alla figura
zoroastriana rielaborata del Signore
Sapiente.
Forse Mithra e Ahriman hanno
elementi essenziali in comune? Le due
varianti del testo avestico possono essere
entrambe autentiche salvo prova contraria;
a ogni modo, difficilmente possiamo
immaginare che il mitraismo a Roma fosse
un culto nero, ancorché apotropaico.
Plutarco (De Iside et Osiride 46) sostiene
che il mago Zoroastro insegnò che si
dovessero « celebrare riti lugubri e
apotropaici » a Arimanios, dio dell’oscurità
e dell’ignoranza.
Il Mithra introdotto a Roma soddisfa
un’esigenza romana diffusa e, se un
qualche elemento di base della sua storia
lo accomunasse al dio del male, perfino
questo dovrebbe soddisfare la stessa
esigenza. Sgombriamo in via preliminare il
campo dal sospetto che un’eventuale
componente rituale dei misteri di Mithra
rivolta alle tenebre e al male (il versante
nero di Saturno?) possa venire confusa
con una grossolana superstizione. La
componente, se ci fosse, andrebbe
individuata nella struttura stessa del dio
salvatore.
Mithra risulta innanzitutto essere un
mediatore, a partire dalla funzione di
stringitore di contratti. E, nel quadro in cui
agisce, il principale problema della
mediazione concerne la principale
divaricazione dualistica in atto, tra il
Signore Sapiente, Ormazd, e il suo
avversario cosmico, Ahriman.
Bisogna afferrare in tutti gli aspetti e
in tutte le relazioni interne il complesso
religioso mitriaco riflettendo sull'intimo del
« Mithra iranico, il µεσιτης, il mediatore –
Plutarco De Iside et Osiride 46 –, colui che
osserva e promuove il trattato regolante il
conflitto tra Ormazd e il suo nemico, e che
è nello stesso tempo e per la medesima
motivazione giudice e combattente contro
il male e il maligno » (Ugo Bianchi Il
dualismo religioso, Roma 1966, 19912,
168).
Per Turcan (Mithras platonicus cit.)
la definizione di Plutarco rappresenta una
tappa dell’influsso della dottrina platonica
della mediazione che spinge la figura di
Mithra fuori dall’originale iranico
facendone un demiurgo. Il mediatore
platonico per antonomasia è Hermes–
logos, e da tempo Varrone aveva letto nel
nome Mercurio (con cui fu identificato lo
Hermes greco) un dio medius currens.
Turcan prende le mosse dalla tesi di
Wikander che aveva decifrato e sciolto
l’attributo di Mesoromasdes, con il quale il
Gran Re persiano invocava il sole a
mediatore tra il mondo della luce e il
mondo delle tenebre, in Mithra–Ohrmazd.
Il documento essenziale dell’avvenuta
affermazione d’un Mithra mediatore si
ritroverebbe nell’equazione Apollon–
Mithra–Helios–Hermes con la quale viene
designata (I secolo a. C.) una statua del
tempio di Nemrud Dagh, nella
Commagene, sede d’un culto a forte
caratterizzazione astrologica del re
defunto divinizzato.

Stabilire legami con il male non


conduce alla sottomissione; il male, anzi,
si può combattere efficacemente solo
incrociandolo in un contatto stretto e
costringendolo entro delle regole. Non va
dimenticato che, per Zoroastro, Ohrmazd
ha creato il mondo per attirarvi Ahriman in
combattimento votandolo segretamente
alla catastrofe, onde il semplice rispetto
delle regole che trattiene Ahriman in quel
campo di battaglia contiene un esito per lui
negativo.
Il grande demiurgo si impone
soprattutto in veste di supremo detentore
della potestà regale e della connessa ars
regia, l’arte privilegio della funzione
sovrana e magica (Dumézil cit.) di
manipolare vittoriosamente il male.
Guardando, sotto la superficie, il
profilo filosofico esoterico (quello forse che
attira di più i romani), Mithra e Ahriman
hanno un quid in comune che giustifica e
spiega il patto.
La creazione, l’uccisione del toro,
può essere imputata sia all’uno sia
all’altro, perché la creazione è insieme
rottura e ricomposizione. Il sacrificio del
toro delle origini assume una duplice
proiezione cosmica: inizio e fine, all’inizio
opera del male, alla fine opera del bene.
E’ rottura perché il mondo del
molteplice manifestato si rende esplicito e
esce alla luce rompendo l’unità del
principio; però la molteplicità non può
distendersi fuori del principio perché il
principio è tutto e fuori del tutto non può
esserci niente. L'avvenimento della
differenziazione del molteplice (in vari
gradi, dal nous all’essere, dall’anima alla
physis) avviene rigorosamente all’interno
dell’Uno. Tale è l'argomento della filosofia
di Plotino e dei neoplatonici, per i quali la
rottura del principio coincide con la sua
ricomposizione. Nel loro sistema, la
suprema legge è la coincidentia
oppositorum, per cui l’allontanamento è
insieme un avvicinamento, la discesa una
salita, l’andata un ritorno.
Il mistero mitriaco, coerente con la
filosofia neoplatonica, lascia intravedere di
essere imperniato specialmente sul
governo delle contraddizioni. Affermerei
addirittura che una delle principali basi del
suo successo consisteva nell’acutezza
della sua risposta all’ambiguità del bene e
del male. Un elemento distintivo introdotto
dal neoplatonismo dell’epoca consiste
nell’esaltazione della teurgia; con esso si
perviene a una certa eroizzazione
dell’etica, cosa più congeniale con
l’esaltazione del genio personale del
principe a confronto della severità dei
moralisti stoici dell’età imperiale.
Nella metafisica neoplatonica, l’inizio
del male (la rottura) costituisce insieme la
fonte da cui si sviluppa il trionfo della
salvezza (la ricomposizione). Sicché chi si
colloca dove si compie l’atto cardinale può
essere spirito di rottura o spirito di
salvezza. La differenza fra i due non è
data dal mero compimento di atti diversi,
perché l’atto rimane il medesimo,
l’uccisione del toro cosmico; la differenza
è data dal senso impresso al medesimo
atto. Se sull’oggettività del rito prevale la
soggettività con il quale lo si celebra,
allora la sua efficacia salvifica è decisa
dalla qualità di chi lo compie e dal suo
orientamento spirituale.
L’esigenza di andarsi a collocare in
quel nodo cruciale non è d'uno spirito volto
alla contemplazione, o sacerdotale, spetta
invece a uno spirito squisitamente
attivistico e regale. Il centro, dal quale il
mondo può disperdersi e può salvarsi,
viene occupato da un dio dell’azione e non
da un dio otiosus e inoperoso. Non può
riguardare un sovrano refrattario agli affari
complessi e attuali del governo, è pregio di
un re che sappia affrontare le penose
fatiche dell’azione e le terribili inevitabili
battaglie. Il dio che sta dietro la funzione
regale, dietro la funzione che si immerge
fattivamente nelle vicende del mondo degli
uomini, dietro la mediazione, è un dio della
morte. Esso può essere Ahriman, ma può
essere Mithra il Saoshyant.
Il sangue può alimentare gli animali
immondi e può accendere le stelle.
Nel mitraismo si presenta un
ennesimo tardivo episodio d’un antico
tema, la riflessione sul sacrificio, sull’atto
perfetto. Questa riflessione, profonda e
complessa e con esiti diversi nel mondo
vedico e iranico, appartenne ancora alla
Roma imperiale, soprattutto alle classi
angosciate dal rischio della catastrofe
imminente. Tutte le religioni che accorrono
a Roma sono richiamate dal sentimento
dell’incombere della fine e che sui colli
fatali sia giunto il momento in cui bisogna
« o negare tutto o affermare tutto » (Albert
Camus La peste, 1947; tr. it. 1948, 143).
E’ vitale trovare la strada per
riaccendere il fuoco che sta per spegnersi
nella catastrofe periodica. Questo è il
compito essenziale del sovrano, il quale –
depositario della forza accrescitiva o
augurium – deve essere capace di
rigenerare l’ordine imperiale, e rimettere in
moto il mondo salvandolo. Antico compito
il suo, ben noto in oriente dalla Cina
all’Egitto, e in occidente a cominciare dai
Latini arcaici (il re d’Alba).
Mithra è in stretta relazione con
questa valorizzazione escatologica e
cosmogonica del sovrano imperiale
(Robert Turcan La royauté de Mithra, in G.
Sfameni Gasparro (a c. di) Studi storico–
religiosi in onore di Ugo Bianchi, Roma
1994, 361–372).
Il salvatore Mithra è il vero alimento
dell'energia del sovrano e di quanti
combattono per la salvezza dello stato. Il
salvatore, per il mitraismo, è il vero
sovrano. Il suo Messia sarà un re
sanguigno e politicamente attivo, non un
sacerdote contemplativo sostanzialmente
distaccato dal mondo.
Il problema del destino era diventato
acutissimo. Nei primi secoli della nostra
era si verifica un’intensa circolazione di
testi e credenze che annunciano un
salvatore solare, un nuovo mondo di luce,
dai Libri Sibillini agli oracoli del Vasaio e di
Histaspe redatti dai magi iranici hellénisés,
alla IV egloga di Virgilio.
Nell’incendio finale (ekpyrosis) che
affonderà il mondo, il Giudice Mithra farà
risorgere gli uomini e li dividerà in
definitivamente mortali e immortali, resi tali
dalla bevanda d’immortalità, la più regale
delle bevande, il vino, acqua di vita,
simbolo del sangue del toro sacrificato.

L’ideologia mitriaca riguarda il


conflitto paradigmatico e attiene alla scelta
della parte dalla quale combattere.
Nelle tradizioni arcaiche, la
simbologia dei combattenti si colloca in
uno schema ideologico che investe un
complesso molto articolato di piani, dalla
fisiologia del corpo e dei gesti alle armi di
cui occorre dotarsi, dalla natura dei nemici
che si incontrano alla conoscenza delle
modalità di mobilitazione delle potenze
alleate. Una metafisica del conflitto tocca,
poi, il problema nodale del valore
dell’uccisione e del gesto cruento
correttamente orientato.
Le filosofie degli kshatriya, depositari
della funzione solare (mentre la classe dei
sacerdoti è legata a quella polare),
ruotano sul significato della morte.
E’ necessario chiarire bene la
specificità dell’atto con il quale culmina il
mito mitriaco e lo faccio con due
connessioni di cui siamo in possesso.
Sappiamo che dietro la Bilancia–
Tula si dispone il settimo pianeta, Saturno,
e che dietro la stessa Bilancia–Tula si
dispone la funzione regale–guerriera,
ossia Mithra.
Ciò mette allo scoperto il peso della
connessione mistica di Mithra con Aiôn–
Saturno, cioè che l’axis polare dell’Orsa–
Bilancia–Mithra va a incidere in ultima
analisi su sé stesso.
Mithra re della Bilancia uccide Aiôn–
Saturno introducendo il tempo, eppure
Saturno è lui stesso perché Saturno è la
Bilancia.
Il mito mitriaco sottintende che
Saturno, quando viene ucciso e costretto a
trasformarsi nel ritmo rotatorio ordinato del
tempo, si rivela essere il Toro sacrificale,
la costellazione sulla quale va appunto a
incidere direttamente l’atto cruento della
spada dell’axis polare dell’Orsa–Bilancia–
Mithra.
Tradotto metafisicamente, diremmo
che il Principio per farsi creazione e
mondo, squadernandosi nella molteplicità
della manifestazione, deve sdoppiarsi in
Mithra e in Toro.
L’identità di Mithra e del toro è stata
sostenuta da Alfred Loisy, d'altro canto
essa non coincide con l’identità di uccisore
e vittima degli altri misteri, di Dioniso, Attis,
Cybele. E insieme potremmo dire che la
creazione e il mondo, per ricongiungersi
con il Principio, devono passare per
l’azione di Mithra.
Questa intuizione sapienziale viene
tradotta nel mitraismo in un rito che
prepara l’uomo d’azione e di governo a
svolgere un intenso e imprescindibile ruolo
al centro della vicenda mondana e
creativa.
L’uomo ha il dovere di entrare nella
sua vera parte di combattente. Un compito
immane che comporta una sofferenza e
uno scontro con le forze che resistono allo
sviluppo e che, per di più, esige che si
purifichi e trasformi divinizzandosi.
Nel mitraismo si presenta una
religione filosofica dell’autosacrificio, del
sacrificio di sé – atto creativo perfetto
senza residui, essendo l’unico nel quale
sacrificatore e vittima sono una stessa
persona.
6
Mithra ermetico

L’azione di dominio delle forze


planetarie del destino condotta a termine
da Mithra è un autentico Opus Magnum
alchemico: le forze scatenate, cavalcate e
domate non sono estrinseche e oggettive,
sono presenti nell’uomo. Per questa
ragione colui che sarà disponibile al
sacrificio e alla trasformazione di sé potrà
vincere il male e liberarsi. Una disponibilità
eroica e rara.
Il mitraismo fu un estremo tentativo
aristocratico per rinnovare i singoli e la
città, ma s’era fatto tardi e il secolo aveva
preparato altri sbocchi.

Per avvicinarci finalmente più


dappresso al significato dei gradi iniziatici
nelle sue analogie planetarie, dobbiamo
prendere le mosse dal fatto che per i
mitraisti la sequenza misterica dei loro
gradi corrisponde evidentemente a un
percorso liberatorio e risolutivo.
Se la gerarchia normale dei poteri
dell’heimarmene (destino) equivale alla
figura della distretta dalla quale è
necessario uscire, non sarà sufficiente il
suo semplice rovesciamento in linea retta
apparente, occorrerà procedere allo
scioglimento dei nodi nel verso con cui
sono stati annodati, seguendo il percorso
segretamente riconosciuto nei misteri.
Teniamo fermo che la sequenza
apparente non indica mai l’ordine
autenticamente liberatorio; l'allineamento
di giorni e pianeti in fasti o nefasti è
relativo alla combinazione in cui sono
inseriti e che solo l’iniziato al grado
supremo conosce; la vera direzione da
prendere in ognuno di quei giorni è nota
solo a lui. Vale, in sostanza, anche per il
mitraismo la tradizione che vuole che per
ogni tempo ricorra l’azione adatta e, se
sarà consigliabile e opportuno procedere a
una determinata impresa (sposarsi a
primavera, cominciare la guerra in
estate...) in certe congiunzioni, nelle
stesse non sarà né opportuno né
consigliabile intraprenderne un’altra.
La scala raffigurata nei mosaici del
mitreo di Felicissimus in ultima analisi
potrebbe indicare che la settimana va
riletta richiamando per ognuno dei suoi
giorni un altro pianeta mediante un
determinato agire teurgico.
Così, al posto della Luna va
chiamato Mercurio, eccetera. Siamo di
fronte a un’opera d’inversione delle
potenze, manipolate e convertite l’una con
l’altra per raggiungere il culmine della
liberazione.
La scala di Celso (la discesa delle
anime) è controbilanciata dalla scala
iniziatica. La prima rappresenta il destino
(heimarmene), la seconda la liberazione
dal destino.
I romani non erano estranei allo
studio degli oroscopi e alla devozione ai
segni celesti. Appartiene all’autentica
tradizione romana, tributaria della religione
etrusca per quest’aspetto, un acuto
interesse per i fitti vincoli che legano la
città e le sue classi all’ordine cosmico. I
mutamenti che intervengono nella scienza,
e cioè nella conoscenza dei tratti principali
dell’ordine astronomico, si ripercuotono
sull’etica e sulla religione.
Da questa premessa tento una
spiegazione della trasposizione della
quale aveva fatto cenno Flamant.
La scala iniziatica, rappresentativa
del percorso liberatorio immortalante dei
misteri, va messa a confronto con la scala
oggettiva del destino; ossia con l’ordine
del sistema geocentrico caldeo e non con
la settimana caldea che dal canto suo
rappresenta un diverso tentativo di
liberazione.
In breve, la settimana e la scala dei
gradi sarebbero complementari, l’una il
problema, l’altra la soluzione. La settimana
indicherebbe la situazione dalla quale
occorre uscire: essa allinea i pianeti sulla
base dell’entrata del Sole nella caverna,
svelando il percorso del Sole mistico fra i
(e nei) pianeti oggettivamente visibili. Il
percorso iniziatico, invece, indicherebbe
l’uscita dell’eroe solare che si potenzia via
via con le luci dei pianeti.
Stante che la scala di Celso
rappresenta un rovesciamento e che il
percorso deve riuscire a tanto, tocca
chiarire con quale passo la gerarchia sia in
grado di avviarlo. Al riguardo, il percorso
va confrontato con la scala geocentrica e
non con la scala settimanale che è una
reinterpretatio – ripeto – della scala
geocentrica.
Per il confronto, comincio dalla
doppia trasposizione notata da Flamant.
Il primo pianeta–potere della triade
iniziale Luna–Mercurio–Venere e il primo
pianeta–potere del successivo quaternario
Sole–Marte–Giove–Saturno vengono tolti
(avverto ancora che stiamo prendendo a
base l’ordine oggettivo geocentrico) e
collocati dopo Giove e prima di Saturno.
Evidentemente l’iniziazione mitriaca
contiene l’idea che i poteri di Luna e Sole,
disincagliati dal settenario oggettivo vanno
a raddoppiare l’azione di Giove su
Saturno. Quale fosse questa azione ben lo
sappiamo: è l’evirazione–detronizzazione–
trasformazione.
Il cospicuo significato di questa
trasformazione sarà apprezzabile a
cominciare da ciò che Saturno–Krono
rappresenta e che ho illustrato a proposito
della Bilancia.
Dagli studi più recenti sulla religione
iranica, emerge che esso simboleggia il
cielo nello stadio primevo in cui è una
pietra che trattiene, schiaccia e impedisce
il libero sviluppo della creazione alla luce.
Philiph G. Kreyenboeck (Mithra and
Ahreman in Iranian Cosmogonies, in
Hinnells (ed.) cit. 173–182), ritiene Mithra
autore del sacrificio positivo con il quale si
apre la creazione in un mito indoiranico
prezoroastriano che avrebbe conservato la
tradizione originale della cosmogonia:
Yasht 13 « contiene tracce d’un mito
cosmologico che si distacca nel fondo dai
racconti molto zoroastrianizzati del
Bundahishn e si accorda con l’evidenza
vedica per la quale l’attuale stadio del
mondo (il secondo) è emerso per un atto
di liberazione, e per la quale il primo stadio
è inferiore a questo » (cit. 177).
Durante il primo stadio, il cielo
schiacciava la terra e i prototipi della
creazione stavano immobili in uno spazio
stretto.
Per la stessa religione zoroastriana,
all’inizio, prima del secondo atto creativo
(quello dell’attacco di Ahriman, a causa
del quale il mondo cade nella mescolanza
con le tenebre), il cosmo è immobile. La
differenza con lo zoroastrismo consiste nel
fatto che, mentre nel suo quadro il
secondo atto creativo apre una fase di
caduta – ed è opera del principio del Male,
di Ahriman che fra l’altro uccide il Toro,
nella tradizione più antica il secondo atto
inaugura il regno della luce – ed è opera di
Mithra.
Nel Veda (dove Indra finirà per
assorbire le funzioni creative originali di
Mitra), in principio il Sole e le Vacche
erano chiuse nella pietra – ashman; allora
il cielo era considerato di pietra e
l’affermazione del RigVeda 7. 88. 2
riguarda un cielo di pietra che serrava il
Sole e le Vacche, sotto una specie di
caverna (cit. 178–9 e nn. 21 e 22).
Il ruolo di Mithra signore delle vaste
praterie (del cielo) di esemplare apritore
del regno della luce, in definitiva di Sole
levante, è ampiamente confermato dagli
studi (Jean Kellens La fonction aurorale de
Mithra e la daênâ, in Hinnells (ed.) cit.
165–171).
Il Saturno in cui culminano i gradi
mitriaci deve essere il Saturno trasformato
e rinato, girato da piombo in oro, il sole
rosso e non più il pianeta nero. Il Saturno
plumbeo e pesante, segno della terra e
della corporeità vincolante, è il problema
che si risolve percorrendo la scala.
Agendo su di esso con crescenti distacchi
si perviene, con il passaggio delle varie
età, a quella immortale.
La bipolarità della scala dei gradi
mitriaci è facilmente riscontrabile
mettendola in relazione con il suo rovescio
analogico implicito.
Dato il carattere simbolico delle
posizioni, uno dei modi per esplicitare il
loro essenziale bipolarismo può essere lo
schema seguente:
a sinistra dal basso in alto la scala
delle tutelae mitriache,
a destra dall’alto in basso l’ordine
geocentrico caldeo variato dallo
spostamento di Luna e Sole fra Giove e
Saturno

Mercurio Saturno
Venere Sole
Marte Luna
Giove
Luna Marte
Sole Venere
Saturno Mercurio
Dallo schema, da intendersi
dinamicamente, vediamo bene i
controbilanciamenti dei poteri.
Giove, il detronizzatore, l’eviratore,
tiene da tauroctono il centro dell’azione
conclusiva. E all’inizio Mercurio interagisce
con Saturno, nella più nota delle
operazioni alchemiche, con la quale
prende avvio la trasformazione, la nigredo.
La sequenza dinamica dei gradi dei
misteri mitriaci corrisponde a un esempio
di opera ermetica alchemica, con l'innesco
acceso da Hermes–Mercurio.
L’azione di Hermes–Mercurio in
alchimia è quella scatenante. Il distacco di
Hermes–Mercurio dalla pesante corporeità
terrestre libera e slaccia le forze vitali, che
riattraversano violentemente gli elementi
(o i pianeti). Con tale slacciamento inizia la
corsa del toro, la dissoluzione–liberazione
delle forze vitali che devono essere
cavalcate per l’acquisto d’una nuova
individuazione.
Le tappe principali sono costituite da
tre opere rispettivamente al nero, al
bianco, al rosso. Esse sono introdotte da
azioni preparatorie sulle quali in questa
sede non mi soffermo in dettaglio.
Lo scatenamento è l’ermetica opera
al nero, o nigredo.
Dopo si entra nella fase superiore,
nell’opera al bianco, o albedo. Con essa,
avendo Giove detronizzato il vecchio
Saturno, lo spirito liberato si manifesta in
una nuova luce (la Luna).
Tuttavia, giunti qui, ci troviamo nel
percorso preliminare dei piccoli misteri,
all’interno del circuito mediante il quale si
accede a un’immortalità non di qualità
superiore perché chiusa nell’unilaterale
orizzonte della vita manifestata.
L’autentica immortalità è acquistata
soltanto nella terza fase, l’opera al rosso,
o rubedo. È lo stadio in cui il fuoco supera
la luce e si impone origine della luce
visibile. In esso si guadagna l’uscita dal
dominio del cosmo e ci si appropria del
principio metafisico, di quel centro che
prepara e origina ogni manifestazione.
I grandi misteri concludono la
reintegrazione dell’antico regno dell’oro e
Saturno–piombo viene esplicitato in oro–
Sole.
In astrologia i pianeti sono simbolo
di precise operazioni ermetico–
alchemiche. Astrologia e alchimia si
richiamano strettamente in forza
dell’analogia tra micro e macrocosmo.
I riti alchemico–teurgici aprono
all’uomo la possibilità di passare
nell’esperienza d’un dio dopo l’altro e di
acquistarne i poteri introducendosi nei
misteri dei vari livelli della creazione
cosmica; ogni dio è un metallo, un cielo,
un corpo più o meno denso o sottile, un
mondo.
L’anima si unisce alle potenze che
determinano gli avvenimenti e domina il
punto in cui si forma la storicità fino a
liberarsene. L’io inverte il processo a
causa del quale si è individuato per
destino passivo e si riappropria delle
chiavi della creazione di sé.
La solidarietà e l’analogia che
intercorrono tra stati dell’essere e stati
della coscienza, fanno equivalere il
processo dell’autointegrazione dell’uomo e
quello della creazione. Cosmogonia e
iniziazione sono l’una il corrispettivo
dell’altra. L’uomo mitriaco si colloca al
centro dell’incrocio delle forze cosmiche e
si riappropria delle proprie energie
dormienti obbligando gli dèi a seguirlo.
Egli vive il risveglio e lo scatenamento di
sette trascendentali forme della coscienza
bloccate dal sonno saturnino.
L’intero processo mitriaco va a
rompere i suggelli che bloccano il
passaggio dal settenario inferiore al
settenario superiore in un complesso
rituale di autosacrificio, creazione e
uccisione di sé, trasformazione e
integrazione.

Un’astrologia filosofica concorre a


costruire l’impalcatura del mitraismo. In
questo la sua forza e insieme la sua
debolezza. Il presupposto dell’impasto era
venuto meno, erano venuti meno l’ethos e
la disposizione dell'animo che innalzano i
candidati all’altezza della posta. Ricordo il
nodo cruciale: che può innalzarsi ad attore
del rinnovamento soltanto colui che in
definitiva sia disposto al sacrificio di sé.
Era questo il nucleo primitivo
essenziale, severo e ferino, del mitraismo.
Questa l’ispirazione che sostiene
l’approdo, nella sua maturità, a
un’elaborata riflessione liturgica e
mitologica sulla forza liberatoria dell’atto di
morte. Colui che aspira a salvarsi ha il
dovere di farsi combattente e di allearsi
con il dio del combattimento; l’assunzione
di questo dovere comporta le sofferenze
dello scontro con le forze nemiche e
soprattutto esige che egli sia disposto al
sacrificio e alla trasformazione di sé
stesso.

Il mitraismo dimostrò di essere un


estremo tentativo di fermare un processo
storico inarrestabile. Si era aperta
un’epoca in cui la filosofia dominante, il
neoplatonismo, era approdata a un ideale
teurgico eroico.
Molti storici descrivono le vesti e le
formulazioni orientali dell'idea e tuttavia,
inconsapevolmente ancora suggestionati
dalla sentenza di Orazio (« Graecia capta
ferum victorem coepit et artes intulit
agresti Latio », Epistulae II, 1, 156 – la
Grecia vinta vinse il barbaro vincitore e
portò le arti nel rozzo Lazio), si lasciano
sfuggire che anche l’occidente e il mondo
latino conservava sotto l’ellenismo delle
classi alte un eco dei suoi moventi
originali. L’ellenizzazione offriva, con una
filosofia e una sapienza prestigiosa, una
riformulazione all’antico e mai tramontato
anelito romano alla pace con gli dèi (pax
deorum).
E’ vero inoltre – Culianu The
Mithraic ladder revisited, in Hinnells (ed.)
cit. 77 – che lo sviluppo della speculazione
sull’ecstasi, ovvero sulla risalita dell’anima
caduta nel destino, acquistò in sede
ellenistica un andamento spiccatamente
scientifico.
Sulla portata di questo concetto
presso stoici e neoplatonici, bisogna
intendersi bene; ciò che essi ritengono è
che alla liberazione dell’anima sia
essenziale il deciframento della struttura
riposta del mondo in cui ci troviamo, o
numero o logos armonico. Senza lo
sviluppo delle valenze mistiche, musicali,
politiche, astronomiche, magiche del
numero, nessun liberatore potrebbe
incidere sulla realtà. La casta degli
kshatriya si dedica allo studio delle
scienze, per ragioni intuitive. L’artefice
rigoroso, il signore del gesto perfetto, colui
che pratica l’arte della vita e della morte,
innanzitutto ha da cogliere la concreta
configurazione del problema.
Le aristocrazie militari romane erano
ossessionate, fra le classi dirigenti più
consapevoli e colte, dall’incertezza della
fine. Tale la tonalità religiosa con cui era
sorto l’Impero e che si era riaffacciata
senza requie dopo la lunga stagione della
stabilizzazione augustea. Un notevole
sforzo intellettuale religioso e politico era
stato indirizzato a indovinare nella crisi
l’imminenza d’una rinascita e l'avvento
d’un nuovo ciclo. Ogni segno veniva
scrutato e oroscopi considerati di alta
capacità rivelativa occupavano il centro
dell’attenzione.
A uno stato universale competevano
indicazioni universali contenute nel cielo e
nelle stelle. A Roma viveva una religione
squisitamente politica; circa il senso
autentico dell’orientamento, possiamo
vedere che lo stesso cristianesimo
imperiale fu una religione della città. Non
possiamo avvicinarci all’essenza del
cristianesimo, di quello affermatosi
largamente nella storia universale, senza
riconoscere fra le sue basi l’idea della
sacralità della Città.
D’altro canto, nelle culture
tradizionali la città dev’essere una
proiezione del cielo in terra, mappa delle
stelle, imago mundi, con i quartieri in
corrispondenza delle quattro zone definite
dall’incrocio dei punti cardinali dello
Zodiaco – tra l’asse solstiziale–polare
nord–sud e l’asse equinoziale–solare est–
ovest (a Roma il cardo e il decumanus) –
e cioè dei colori, dei poteri, degli astri,
degli animali divini che occupano le più
alte zone celesti.
Molti tentarono, in un’epoca di
teurgia, di collocarsi nella posizione giusta
per rimettere in moto il processo.
L’astrologia filosofica offriva una via per
rendere l’azione umana creativa e efficace
a rinnovare l’energia che si consumava.
Dal salvatore attendevano che
respingesse l’assalto degli animali maligni
accaniti a sottrarre la nuova vita che
spiccia dal suo gesto.
Et nos seruasti (a)eternali sanguine
fuso, si auguravano i devoti.
Pensavano a un prodigio provocato,
invocato, atteso, anticipato nei loro antri
che salvasse i singoli, la città, l’epoca. Ma
l’irreparabile era accaduto, il secolo era
andato troppo avanti e i dèmoni antichi
interrogati cessarono di rispondere.
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