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DiPastena La Forma Della Memoria
DiPastena La Forma Della Memoria
L’impegno civile
nel teatro spagnolo contemporaneo
Edizioni dell’Orso
Alessandria
© 2012
Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l.
15121 Alessandria, via Rattazzi 47
Tel. 0131.252349 – Fax 0131.257567
E‐mail: info@ediorso.it
http: //www.ediorso.it
ISBN 978‐88‐6274‐379‐2
La forma della memoria
La Shoah nel teatro di Juan Mayorga
Enrico Di Pastena
Università di Pisa
Juan Mayorga ha consacrato più di un’opera alla Shoah e non pare inesatto
affermare che, nel corpus dell’autore, segnato da diversi picchi di qualità, pos‐
sono essere ascritti a questo tema i suoi due testi sinora di maggior consi‐
stenza, ovvero Himmelweg e El cartógrafo. Varsovia, 1: 400.000.1 Tra le pièces
brevi, la Shoah appare in Job (basato su testi di vari autori), JK, Wstawac (su
testi di Primo Levi) e alcuni richiami ad essa si ravvisano in Tres anillos; nelle
opere estese, affiorano riferimenti al nazismo ne El traductor de Blumemberg
(2003b) e ne La tortuga de Darwin (2008a), e in quest’ultima si menziona in
modo esplicito l’arrivo dei convogli nei campi di sterminio. In verità, una
1
Per Himmelweg mi baso su quella che Mayorga ritiene la versione definitiva, edita a
cura di M. Aznar Soler (2011a). In precedenza era stata pubblicata in una prima versione
nel 2002, e ancora nel 2004 e nel 2007, secondo un processo di permanente riscrittura
che il drammaturgo riconosce come una delle proprie caratteristiche: «Nunca doy una
obra por acabada» (in Aznar 2011a: 125); la première di Himmelweg ha avuto luogo il 17
ottobre 2003 nel Teatro Alameda di Malaga. El cartógrafo è stata pubblicata in Sucasas‐
Zamora (2010a: 349‐390) e verrà allestita per la prima volta al Teatro Polski di Varsavia
nel 2013, anno del settantesimo anniversario della sollevazione del ghetto della capitale
polacca; in questo lavoro la cito, tuttavia, servendomi di una versione inviatami in forma‐
to elettronico nella primavera del 2012 da Juan Mayorga e che presenta alcune modifiche,
soprattutto di ordine stilistico, rispetto alla versione a stampa. In ciò seguo la esplicita
volontà dell’autore. Nelle citazioni de El cartógrafo il numero che segue l’indicazione del‐
l’anno individua la sequenza corrispondente; inoltre, fornisco di seguito il numero della
sequenza nell’edizione del 2010a, per facilitarne l’eventuale localizzazione da parte del
lettore.
24 Enrico Di Pastena
separazione tra lavori incentrati sulla Shoah e quelli più attenti alla storia
spagnola e a vicende contemporanee risulta utile a fini operativi, ma si rivela
più comoda che cogente. Si colgono, infatti, affinità sostanziali, sotterranee e
non, tra i testi richiamati e altri che si sono occupati, solo per proporre qual‐
che esempio, delle lacerazioni della Guerra Civile (Siete hombres buenos
1990, El jardín quemado 2001) o delle implicazioni etiche che assume la lotta
al terrorismo in Occidente (La paz perpetua 2009d). D’altro canto, la tratta‐
zione delle vessazioni subìte dal popolo ebreo non può obliterare la Spagna –
qualche allusione contenuta in Himmelweg e ne El cartógrafo lo lascia intuire
– e si colloca al centro dell’alveo principale entro cui scorre il teatro mayor‐
ghiano: la dimensione storica.
Mayorga si è detto convinto che, tra le possibili forme di rappresentazione
del passato, per la sua natura pubblica e comunitaria, per il suo manifestarsi
in presentia, il teatro costituisce il luogo privilegiato di una trattazione parti‐
colarmente vivida di quelle che egli ha definito, rigorosamente in plurale, le
«memorie collettive», a cui dovrebbero concorrere soprattutto le vittime
della Storia (Mayorga 2011b: 175). Un autentico teatro storico non dovrebbe
aspirare a essere – per riprendere alcuni aggettivi adottati dallo stesso dram‐
maturgo – consolatorio, nostalgico, sbalorditivo, narcisista, ingenuo né
museistico (Mayorga 2011b: 181‐182); non ridursi al piano documentale né
mirare alla mera ricostruzione storicistica né adagiarsi sulla difesa di tesi
preconcette o di interpretazioni comodamente prodotte a posteriori. Alla sua
base, l’orientamento morale di chi è attento alle ragioni dei vinti senza pre‐
tendere di usurparne la parola. Nel suo farsi, una imprescindibile tecné, che
valorizzi quel che di enciclopedia potenziale lo spettatore porta in platea.
Un teatro così caratterizzato è in sé profondamente politico – lo ha già sot‐
tolineato più di un interprete della scrittura mayorghiana –,2 e si innesta a
pieno diritto, a mio avviso, in quel «retorno del compromiso» delle scene spa‐
gnole di cui scriveva qualche anno addietro Fernando Doménech Rico
(2006). Si tratta di un teatro che tende a proporsi come stimolo alla riflessio‐
ne, acuendo le inquietudini dei suoi fruitori perché, destabilizzate le loro
aspettative sul passato, essi possano aspirare a intervenire sul presente. In
questa concezione, è la nozione stessa di memoria a svolgere un ruolo politi‐
co, restituendo uno spazio alle generazioni sommerse dalle vicende storiche,
come, anche sulla scorta di Walter Benjamin, a più riprese ha sostenuto
2
Brizuela (2008) e, in precedenza, Matteini (1999: 49). E si ricordino le parole del‐
l’autore: «El teatro histórico es siempre un teatro político» (2011b: 180‐181). Si veda
anche Mayorga (2011c: 198‐199).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 25
3
Mate (1991: 209 ss.; 2003a: in particolare 241‐259); sul concetto di memoria in rela‐
zione con la storia, si veda Mate (2008: 149‐176) e, sul rapporto tra memoria e giustizia,
Mate (2011: in particolare 165 ss.). Si ricordi che questo studioso dirige, presso l’Istituto
di Filosofia del Consejo Superior de Investigaciones Científicas, i gruppi di ricerca «El
Judaísmo. Una tradición olvidada de Europa» e «La Filosofía después del Holocausto», ai
quali collabora lo stesso Mayorga.
4
Sull’idea di memoria nel teatro mayorghiano, si vedano Barrera Benítez (2001: 74‐
83), Puchades (2004) e Sirera (2005).
5
Si vedano anche le lucide pagine di Mate (2003a: 162‐166; 2003b: 51‐75).
6
Qui ricordo solo quelle di tre autori: Claude Lanzmann nel suo film‐documentario
Shoah (1985) ha manifestato la volontà di legarsi a un registro meramente testimoniale
(ma si vedano al riguardo le riflessioni di Mate 2003b: 101‐109); Primo Levi (1991: 64)
ha riconosciuto la condizione di potenziali testimoni integrali solo ai sommersi, ai musul-
mani, ovvero coloro che nei campi erano stati annientati ben prima della morte fisica;
26 Enrico Di Pastena
dagli eventi, il mondo dell’arte si è fatto carico della loro raffigurazione. Forse
la questione risiede non tanto nella dialettica tra liceità e non liceità della
rappresentazione, quanto, soprattutto, nell’individuare una modalità di evo‐
cazione che, attraversando il prisma dell’elaborazione artistica, non scada
nella trivializzazione, nel sentimentalismo o nel facile effettismo. Di limiti da
evitare e rischi in cui si può incorrere ha mostrato di avere contezza Mayorga
(2011d: 195‐196) nel suo lucido saggio La representación teatral del Holo-
causto, al quale, per amor di brevità, rimando, non senza segnalare, per inci‐
so, l’osmosi esistente tra la riflessione teorica e la produzione del dramma‐
turgo. Dal canto suo, Pier Vincenzo Mengaldo (2007: 54 ss.) in un capitolo del
suo imprescindibile La vendetta è il racconto ha segnalato la concordanza tra
i referti della deportazione e l’alta letteratura. A ogni modo, con il venir meno
dei testimoni diretti della Seconda Guerra Mondiale, e pur con i materiali fis‐
sati dalla «Survivors of the Shoah Visual History Foundation» o quelli raccolti
dalla «Fondation pour la Mémoire de la Shoah», un accorto approccio figura‐
to a questo tema non potrà che essere investito di una nuova rilevanza. La
funzione di tale approccio dovrà travalicare quella meramente informativa e
denotativa, poiché limitarsi a essa sarebbe attestarsi su un terreno da cui la
testimonianza diretta e il dato storico criticamente interpretato non possono
essere scalzati. Non si tratta di competere con i testimoni ma di produrre le
condizioni, attraverso gli strumenti propri del linguaggio artistico, per cui un
destinatario possa, in qualche misura, avvertire empaticamente la situazione
delle vittime, perché sia meno facile il riprodursi delle circostanze che perpe‐
tuano la vessazione di determinati individui o gruppi su altri. Una calibrata
conformazione estetica dovrebbe essere la congrua conseguenza di queste
premesse, dal momento che l’etica nella letteratura non può che passare dal‐
l’estetica e che in un’opera letteraria più dei soggetti importa il modo in cui
essi vengono organizzati. Con tali premesse, la Shoah può divenire una
potente metafora della cancellazione del dissenso, una incarnazione del deli‐
rio di potere, un emblema della manipolazione della verità e dei linguaggi.
Come sia, il tema dello sterminio ebraico si pone come prova nodale di un
teatro storico che volesse cimentarsi nella sfida di evocare l’esperienza della
perdita. Un teatro che, parafrasando un autore caro a Mayorga, Enzo Cor‐
mann, potremmo definire poelitico, cioè in grado di riunire la dimensione
poetica e politica, poiché da una parte innesca con la propria lingua «l’espe‐
rienza di un essere‐insieme meditativo e interrogativo», di una sorta di
7
In merito alla visione del teatro dell’autore francese, si possono leggere gli articoli,
interventi e conferenze raccolti in Cormann (2003).
8
I punti di contatto tra i due autori meritano di essere approfonditi, in particolare
dacché, nell’estate del 2004, hanno preso parte a un laboratorio teatrale di respiro euro‐
peo («Prima del teatro») che annualmente si tiene presso San Miniato (Toscana). Dal
canto suo, in «Enzo Cormann, utopista del teatro» Mayorga si è dichiarato «deudor del
sentido moral y político con que Cormann imagina el teatro» (Mayorga 2010b; cito dall’o‐
riginale fornitomi dall’autore).
9
García Barrientos (2011) ha di recente studiato gli altri testi di Mayorga più o meno
direttamente collegati alla Shoah (con l’eccezione de El traductor de Blumemberg, che rie‐
cheggia situazioni legate all’ideologia nazista e che l’autore ritiene abbia una relazione
indiretta con il tema dello sterminio); rimando alla sua analisi.
10
Ne rievoca ora le circostanze lo stesso Mayorga in «Teatro y cartografía» (2011f).
28 Enrico Di Pastena
1. Rappresentare
La creazione del ghetto di Varsavia nel 1940 e la rivolta di alcuni dei suoi
residenti, dal 19 aprile al 16 maggio 1943, hanno rappresentato una delle
pagine al contempo più dolorose e più dignitose della storia del popolo ebrai‐
co nella cornice dello sterminio. Gli eventi storici sono noti e si è cercato di
ricostruirli in più di una occasione,12 anche attraverso contributi audiovisi‐
vi.13 L’approccio mayorghiano è di tipo evocativo‐allusivo e piuttosto lontano
11
Si ricordino al riguardo I passages di Parigi (Benjamin 2010: in particolare I, 465‐
509). Sul concetto di flâneur, già presente in Baudelaire, si veda Nuvolati (2006).
12
Si veda ora Beltrame (2007); di sicuro interesse è anche la memorialistica sulla vita
nel ghetto e sulla sollevazione: tra i contributi, ricordo quelli di Czerniakow (1989), Berg
(1991) e Białoszewski (2011); si può consultare inoltre lo straordinario documento rap‐
presentato dagli archivi di Ringelblum (1965).
13
Si veda in particolare Dylewska (1993) e, in precedenza, una delle sezioni (‘Secondo
periodo, seconda parte’) di Shoah.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 29
14
La fonte di cui si era servito Mayorga per la sequenza III del suo Job è invece una
rielaborazione letteraria, il testo di Zvi Kolitz (1998, con nuova traduzione e diverso tito‐
lo nel 2011), che narra la vicenda di un combattente del ghetto di Varsavia.
15
Condivido in pieno la notazione conclusiva di José Monleón per cui Mayorga conci‐
lierebbe la «sensibilidad histórica […] con una de las grandes virtudes de la poesía dra‐
mática: sacar de las sombras el vivir y el dolor escondidos, llenar de plenitud la fugacidad,
situar el tiempo en la pulsación más íntima de los personajes, dejar al espectador/lector
en el mayor y más humano desamparo» (2004: 27).
16
«Esta casa, mira el mapa. ¿Te das cuenta de que nuestra casa está dentro del
gueto?» (Mayorga 2012: 1; 2010a: 1).
30 Enrico Di Pastena
Seguiranno i lunghi giorni dell’attesa […]. Poi poco a poco ti calmi, riprendi
sicurezza… È quando questa tensione e questa gioia ti avranno ormai abban‐
donato – allora, soltanto allora, ti rendi conto di questa proporzione: uno su
quattrocentomila.
1:400.000.
Semplicemente ridicolo.
Ma ogni vita rappresenta per ciascuno l’intero cento per cento, allora forse un
senso comunque c’è (Krall 2010: 136).
17
E, al contempo, di una precisa notazione di Mayorga: «El teatro del Holocausto […]
buscará un modo de representación que se haga cargo de la imposibilidad última de la
representación» (2011d: 196‐197).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 31
sino mapas» (2011b: 185).18 L’autore, lo segnala lui stesso, si serviva nell’oc‐
casione della dicotomia utilizzata da Gilles Deleuze e Félix Guattari, i quali in
uno studio sui nessi profondi tra schizofrenia e capitalismo ponevano in
alternativa uno di fronte all’altro i principi di decalcomania e di cartografia,
richiamandosi a quest’ultima per illustrare i vantaggi del concetto di rizoma
(già usato da Jung riguardo alla natura invisibile della vita), un tipo di indagi‐
ne filosofica che procede senza gerarchie interne e si oppone a una concezio‐
ne arborescente del sapere, tipica della filosofia tradizionale, la quale si
dispiega gerarchicamente e linearmente, seguendo categorie binarie. Un
modo di procedere che non mi pare così dissimile dal flâneur di Benjamin,
che con i suoi spostamenti tesse relazioni inattese e aperte. Affermano
Deleuze e Guattari: «La carta si oppone al calco, è interamente rivolta verso
una sperimentazione in presa sul reale. La carta non riproduce un inconscio
chiuso su se stesso, lo costruisce. […] Fa a sua volta parte del rizoma. La carta
è aperta, è connettibile in tutte le sue dimensioni, smontabile, reversibile,
suscettibile di ricevere costantemente modificazioni. Può essere strappata,
rovesciata, adattarsi a montaggi di ogni natura, essere messa in cantiere da
un individuo, un gruppo, una formazione sociale. La si può disegnare sopra
un muro, concepirla come un’opera d’arte, costruirla come un’azione politica
o come una meditazione. Forse uno dei caratteri più importanti del rizoma
consiste nell’essere sempre a molteplici entrate» (1997: 28‐29). Alla luce di
queste considerazioni, delle parole di Mayorga e, soprattutto, dell’eco che
trovano ne El cartógrafo, si capisce come la carta assurga all’interno dell’ope‐
ra a metafora principale del teatro e divenga per il drammaturgo una cifra,
forse solo momentanea, della propria arte. Oggetto razionalmente organizza‐
to, una carta ha specifiche finalità – non tutte nobili, ovviamente, perché «hay
mapas que matan y mapas que salvan» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37) – e
dunque non è mai uno strumento asettico, come non lo sono i confini o i dati
che è destinata a evocare e, di conseguenza, il teatro che a essa viene assimi‐
18
È significativo che, illustrando le peculiarità del teatro di Cormann, Mayorga si
serva della stessa immagine: «Lo que el teatro debería entregar a la ciudad es una expe‐
riencia poética que ponga a la ciudad ante su propia forma – o ante alguna de sus formas,
reales o posibles –. Un teatro que devuelva a la ciudad no un calco, sino un mapa»
(Mayorga 2010b; cito dall’originale fornitomi dall’autore).
19
Stimolanti riflessioni sul carattere di manipolazione deliberata che hanno le carte
geografiche, sulla valenza dei loro silenzi epistemologici, fondati sulla selezione di deter‐
minati dati e sulla omissione di altri, si trovano in Harley (2005). Non dimentichiamo che,
in ambito critico, Dubatti (2008) ha preso a prestito elementi cartografici per condurre
un’analisi del teatro latinoamericano secondo un’angolazione comparativa.
32 Enrico Di Pastena
20
«La escritura mayorguiana es profundamente elíptica y elegante. Pienso que los
directores deben trabajar en esa línea, nunca del subrayado, sino de la analogía, tanto de
las imágenes a proponer como de la manera de construir los personajes» (Heras 2007;
cito dall’originale spagnolo fornitomi da Mayorga).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 33
zas de enlace entre los cristales. Qué hace que una capa sea más fuerte o más
débil. Si entendemos eso, entenderemos las avalanchas y podremos preverlas.
La idea es aplicar el modelo a otros campos. A la economía. A la sociología. A la
psicología. En las capas débiles, los cristales están muy sueltos, como bolas de
billar en una caja. La nieve es como una tarta con muchas capas, unas de
metros de espesor, otras delgadas como papel. En la superficie, los cristales
son afectados por el sol, el viento… Mientras eso ocurre fuera, ¿qué está
pasando dentro? ¿Y qué sucede si sobre una superficie nevada una tormenta
deja caer otra capa más densa? El escenario más probable de avalancha es
cuando una capa débil es cubierta por otra más fuerte. Una pequeña presión
puede fracturar la capa débil y provocar un enorme desplazamiento. Pero,
contra lo que se suele creer, el sonido no causa avalanchas (Mayorga 2012: 13;
2010a: 13).
21
Mayorga, lo si ricorderà, ha composto il testo breve Una carta de Sarajevo (2009b) e
una pièce, Los yugoslavos, che ho già citato e che forse non ha ancora trovato la sua forma
definitiva.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 35
fechas. Sonidos. Lugares. Madrid. Varsovia. Londres. Cosas que estaban sepa‐
radas, aparecen juntas. Cosas olvidadas vuelven», Mayorga 2012: 33; 2010a,
36). Il gesto, apparentemente incongruo, consente anzitutto l’affioramento di
una privazione che è personale e familiare (la scomparsa della figlia di Blanca
e Raúl, la fatica di verbalizzare la sofferenza della perdita). Favorisce poi la
constatazione che le manifestazioni della sofferenza sono vasi sotterranea‐
mente comunicanti. E rende conto della pervicacia di Blanca nella ricerca di
una carta che le permetta di orientarsi nel dolore, anche se si tratta di quello
altrui, dal momento che questo può essere avvicinato da un’affine esperienza
del lutto.
La sagoma è la forma vuota dell’assenza. Ma anche quella di un avvenuto
delitto: il profilo di una figura, a terra, è infatti la testimonianza residua di un
crimine, il tracciato materiale di un trauma anche spirituale. Opportuna‐
mente, in un lavoro recentissimo, Robert March e Miguel Ángel Martínez
(2012) hanno collegato El cartógrafo, e in generale la produzione di Mayorga,
al concetto di trauma, la cui memoria condivisa può contribuire a una rifor‐
mulazione della base etica e politica su cui poggia la collettività. In tal senso
la provocatoria proposta di Blanca di individuare la superficie dell’antico
ghetto con una macchia, bianca come il suo nome, nella carta dell’attuale
Varsavia non è che un modo di mettere in relazione tragedia individuale e
storia collettiva, il suo corpo svuotato e amputato dalla perdita della figlia
Alba e quello di una città a cui è stata strappata una parte di sé. Con una nota,
ora, di più profonda compartecipazione rispetto ad altri drammi di Mayorga:
anche Raúl, riluttante dinanzi alle manifestazioni di dolore della compagna e
alla sua ostinata ricerca di informazione sul passato di Varsavia, decide infine
di tracciare il profilo del suo corpo sul pavimento. La geografia della sofferen‐
za conosce qui quantomeno il sollievo di una condivisione, secondo un proce‐
dimento, il parallelismo, che mi pare decisivo nell’economia di senso dell’in‐
tera opera.
La carta a suo tempo tracciata viene inoltre collegata idealmente a un
luogo di silenzio, di impossibile comunicazione. Nel tentativo di confondere
le idee a chi la ritrovasse accidentalmente e potrebbe farne un uso improprio,
essa è stata ribattezzata «Hurbineka» dal suo anziano artefice, sulla scorta
del nome di un piccolo amico della nipote, ammutolito alla vista delle atrocità
del ghetto.22 In questo modo Mayorga si ricollega a Primo Levi e soprattutto
22
Mayorga (2012: finale della sequenza 12; numero invariato nell’ed. 2010a): «AN‐
CIANO. Ese amigo tuyo, el que ha dejado de hablar. ¿Cómo se llama? NIÑA. Hurbinek. AN‐
CIANO. Hurbineka. La llamaremos Hurbineka».
36 Enrico Di Pastena
suggerisce che una carta del ghetto è una geografia del silenzio: Hurbinek ne
La tregua (1989: 166‐167) era «un nulla, un figlio della morte, un figlio di
Auschwitz», una «piccola sfinge» muta, «il senza‐nome», il cui balbettio disar‐
ticolato rimane incomprensibile (Agamben 1998: 35).23 Chiamare «Hurbine‐
ka» la carta è tornare ad affacciarsi sulla soglia del non dicibile.
Una cartografia dell’assenza vale come una mappa del silenzio. Dei corpi
mancano, ne resta il profilo tracciato a terra dalla ostinatezza di chi rivive un
dolore. In maniera analoga, in Himmelweg mancava la diretta verbalizzazione
del proprio stato d’animo da parte delle vittime. Tra i personaggi adulti più
rilevanti di quel dramma – il delegato della Croce Rossa, il Comandante nazi‐
sta, il responsabile della comunità ebrea – uno solo non ha modo di esprimer‐
si attraverso un esteso monologo, ed è l’ebreo Gershom Gottfried, ribattezza‐
to con un teutonico Gerhard Gottfried e costretto a collaborare con i carnefi‐
ci. Si ricorderà che una rappresentazione teatrale pretendeva di installarsi al
centro di Himmelweg. La genesi del testo è nota: una conferenza ascoltata dal
drammaturgo e relativa a Un vivo che passa, una intervista registrata da
Claude Lanzmann e non utilizzata in un primo momento nella sua imponente
ricostruzione visiva dello sterminio ebraico.24 L’intervistato era Maurice
Rossel, un emissario del Comitato Internazionale della Croce Rossa che nel
giugno del 1944 visitò, su invito delle autorità naziste, il campo di interna‐
mento civile di Terezin – Theresienstadt per i tedeschi –, a circa sessanta chi‐
lometri a nord di Praga, dove la popolazione ebrea venne obbligata a simula‐
re condizioni di vita di cui non godeva, per ingannare la comunità internazio‐
nale in merito al trattamento assicurato agli internati nei campi. Alla fine
della guerra, dei 144.000 ebrei passati da Terezin, un quarto (33.000) vi
trovò la morte principalmente a causa degli stenti e delle malattie; circa
88.000 vennero deportati ad Auschwitz e in altri campi. Maurice Rossell
scrisse un rapporto favorevole sulle condizioni in cui versava la popolazione
ebrea in quel luogo. Di una idillica versione della vita a Terezin restano circa
20’ di un film propagandistico che, di nuovo sotto minaccia, girò Kurt Gerron.
Da tali fatti trae liberamente ispirazione Mayorga.
A un destinatario minimamente informato, la corrispondenza tra l’inse‐
diamento evocato in Himmelweg e la cittadina di Terezin non può sfuggire.
Eppure collegare meccanicamente gli spazi richiamati dalla pièce a Terezin
sarebbe riduttivo. Mayorga si preoccupa di cambiare le coordinate spaziali
23
Allo stesso piccolo prigioniero, Hurbinek, Mayorga consacra la sequenza 11 di
Wstawac.
24
Il film Un vivant qui passe è del 1997. Lanzmann lo ha prodotto e diretto.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 37
2. Costruzione
25
Cfr. il commento dello stesso Mayorga in Aznar (2011b: 272).
26
Cito dall’edizione italiana. Si ricordi che Mayorga (2003a) ha consacrato al pensiero
di Benjamin la propria tesi dottorale, pubblicata con il titolo di Revolución conservadora y
conservación revolucionaria. Si vedano anche Mate (2006) e, in precedenza, Mate e
Mayorga (2002: 86‐94).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 39
27
Mayorga (2003a: 55); le considerazioni di Benjamin si riferivano al suo apprezza‐
mento per Brecht e alla capacità di questi di trasformare ogni spettatore in critico.
28
Come non hanno mancato di osservare i curatori italiani dell’opera, Bonola e
Ranchetti, nella loro «Introduzione» a Benjamin (1997: XI).
40 Enrico Di Pastena
29
La presenza sporadica del termine «monade» nei materiali preparatori delle tesi Sul
concetto di storia è stata spiegata ipotizzando che in verità solo in una fase finale di elabo‐
razione del suo lavoro, Benjamin abbia sostituito con questo termine l’espressione
«immagine dialettica», più frequentemente attestata dai suddetti materiali (cfr. la sezione
«Lemmi», in Benjamin 1997: 188).
30
«Una referencia filosófica que podría ayudar a explicar lo que intento lograr en mi
teatro con esta aproximación a la realidad podría ser la idea de mónada de Leibnitz. De
acuerdo con Leibnitz, una mónada era un punto que reunía a todos los demás. Es decir, si
uno está observando algo muy concreto con mucha precisión y atendiendo a ello con
mucha seriedad, puede ver el universo» (in Gabriele 2000: 10). Come noto, Leibniz si
sforzò di conciliare la dottrina degli atomisti con la teoria scolastica della materia e della
forma, evitando il meccanicismo cartesiano e il monismo spinoziano. Per Leibniz, la
«monade» è una sorta di atomo eterno, non scomponibile, individuale, che segue leggi
proprie e riflette l’intero universo in un’armonia prestabilita (Mathieu 1976: 71‐75;
Cariati 2001: 5‐16 e 194).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 41
3. Figure
Quanto ai personaggi dei drammi, non pare casuale che sia una figura infanti‐
le e di genere femminile a trasmettere le informazioni ne El cartógrafo. La
bambina le registra con meticoloso puntiglio e, superando le crescenti remo‐
re del nonno, prosegue la missione che le è stata affidata.
Non tutti gli adulti, invece, paiono all’altezza della propria infanzia né dei
loro figli. Un assunto che l’autore ha esplorato particolarmente in Hamelin,
opera qui richiamata attraverso l’evocazione di una serie di fiabe in un passo
che fa trasparire l’apprezzamento mayorghiano per la narrazione orale come
ponte tra le generazioni. La stessa Deborah menziona il pifferaio magico
come colui che trascina via con sé i bambini, secondo un rimando a Hitler a
cui forse non è estranea una lettura politica, non unanimemente condivisa, di
una poesia satirica di Brecht (1967: 802), dal titolo «Die wahre Geschichte
vom Rattenfänger von Hameln».31 Ne El cartógrafo il padre della bambina è
un collaborazionista, suprema esemplificazione di quella zona grigia in cui
Levi collocò le vittime trasformate in carnefici nel mondo concentraziona‐
rio.32 E hanno appunto questo colore le linee che sulla carta indicano gli spo‐
stamenti dell’uomo.
31
«Qué cuento más cruel el del flautista, ¡se lleva a los niños! Ésta es la Europa que me
enseñaron en la escuela» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37).
32
Si veda il cap. II de I sommersi e i salvati (Levi 1991: 24‐52).
42 Enrico Di Pastena
33
Opera in cui i carnefici nazisti vengono evocati eufemisticamente come guide dalla
memoria traumatizzata della protagonista (Pinter 1997: 15 e 17; l’originale è dell’anno
precedente).
34
Davide Carnevali ha sottolineato che a differenza della maggior parte delle figure
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 43
llego ante la puerta del hangar. La abro y aquí están, sonriendo, esperándome, Gottfried y
todos los demás» (Mayorga 2011a: 139).
36
Mi riferisco in particolare alla messa in scena presso il Royal Court di Londra (la
recensisce Heras 2005).
37
«No me gusta hablar de ello. Pero lo hago cuando hablar de ello sirve» (Mayorga
2012: 35; 2010a: 37).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 45
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
FILMOGRAFIA