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Scene di vita

L’impegno civile
nel teatro spagnolo contemporaneo

A cura di Silvia Monti e Paola Bellomi

Edizioni dell’Orso
Alessandria
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ISBN 978‐88‐6274‐379‐2
La forma della memoria
La Shoah nel teatro di Juan Mayorga

Enrico Di Pastena
Università di Pisa

Amo le mappe perché […]


mi dispiegano sul tavolo un mondo
non di questo mondo.
Wislawa Szymborska

Juan Mayorga ha consacrato più di un’opera alla Shoah e non pare inesatto
affermare che, nel corpus dell’autore, segnato da diversi picchi di qualità, pos‐
sono essere ascritti a questo tema i suoi due testi sinora di maggior consi‐
stenza, ovvero Himmelweg e El cartógrafo. Varsovia, 1: 400.000.1 Tra le pièces
brevi, la Shoah appare in Job (basato su testi di vari autori), JK, Wstawac (su
testi di Primo Levi) e alcuni richiami ad essa si ravvisano in Tres anillos; nelle
opere estese, affiorano riferimenti al nazismo ne El traductor de Blumemberg
(2003b) e ne La tortuga de Darwin (2008a), e in quest’ultima si menziona in
modo esplicito l’arrivo dei convogli nei campi di sterminio. In verità, una

1
Per Himmelweg mi baso su quella che Mayorga ritiene la versione definitiva, edita a
cura di M. Aznar Soler (2011a). In precedenza era stata pubblicata in una prima versione
nel 2002, e ancora nel 2004 e nel 2007, secondo un processo di permanente riscrittura
che il drammaturgo riconosce come una delle proprie caratteristiche: «Nunca doy una
obra por acabada» (in Aznar 2011a: 125); la première di Himmelweg ha avuto luogo il 17
ottobre 2003 nel Teatro Alameda di Malaga. El cartógrafo è stata pubblicata in Sucasas‐
Zamora (2010a: 349‐390) e verrà allestita per la prima volta al Teatro Polski di Varsavia
nel 2013, anno del settantesimo anniversario della sollevazione del ghetto della capitale
polacca; in questo lavoro la cito, tuttavia, servendomi di una versione inviatami in forma‐
to elettronico nella primavera del 2012 da Juan Mayorga e che presenta alcune modifiche,
soprattutto di ordine stilistico, rispetto alla versione a stampa. In ciò seguo la esplicita
volontà dell’autore. Nelle citazioni de El cartógrafo il numero che segue l’indicazione del‐
l’anno individua la sequenza corrispondente; inoltre, fornisco di seguito il numero della
sequenza nell’edizione del 2010a, per facilitarne l’eventuale localizzazione da parte del
lettore.
24 Enrico Di Pastena

separazione tra lavori incentrati sulla Shoah e quelli più attenti alla storia
spagnola e a vicende contemporanee risulta utile a fini operativi, ma si rivela
più comoda che cogente. Si colgono, infatti, affinità sostanziali, sotterranee e
non, tra i testi richiamati e altri che si sono occupati, solo per proporre qual‐
che esempio, delle lacerazioni della Guerra Civile (Siete hombres buenos
1990, El jardín quemado 2001) o delle implicazioni etiche che assume la lotta
al terrorismo in Occidente (La paz perpetua 2009d). D’altro canto, la tratta‐
zione delle vessazioni subìte dal popolo ebreo non può obliterare la Spagna –
qualche allusione contenuta in Himmelweg e ne El cartógrafo lo lascia intuire
– e si colloca al centro dell’alveo principale entro cui scorre il teatro mayor‐
ghiano: la dimensione storica.
Mayorga si è detto convinto che, tra le possibili forme di rappresentazione
del passato, per la sua natura pubblica e comunitaria, per il suo manifestarsi
in presentia, il teatro costituisce il luogo privilegiato di una trattazione parti‐
colarmente vivida di quelle che egli ha definito, rigorosamente in plurale, le
«memorie collettive», a cui dovrebbero concorrere soprattutto le vittime
della Storia (Mayorga 2011b: 175). Un autentico teatro storico non dovrebbe
aspirare a essere – per riprendere alcuni aggettivi adottati dallo stesso dram‐
maturgo – consolatorio, nostalgico, sbalorditivo, narcisista, ingenuo né
museistico (Mayorga 2011b: 181‐182); non ridursi al piano documentale né
mirare alla mera ricostruzione storicistica né adagiarsi sulla difesa di tesi
preconcette o di interpretazioni comodamente prodotte a posteriori. Alla sua
base, l’orientamento morale di chi è attento alle ragioni dei vinti senza pre‐
tendere di usurparne la parola. Nel suo farsi, una imprescindibile tecné, che
valorizzi quel che di enciclopedia potenziale lo spettatore porta in platea.
Un teatro così caratterizzato è in sé profondamente politico – lo ha già sot‐
tolineato più di un interprete della scrittura mayorghiana –,2 e si innesta a
pieno diritto, a mio avviso, in quel «retorno del compromiso» delle scene spa‐
gnole di cui scriveva qualche anno addietro Fernando Doménech Rico
(2006). Si tratta di un teatro che tende a proporsi come stimolo alla riflessio‐
ne, acuendo le inquietudini dei suoi fruitori perché, destabilizzate le loro
aspettative sul passato, essi possano aspirare a intervenire sul presente. In
questa concezione, è la nozione stessa di memoria a svolgere un ruolo politi‐
co, restituendo uno spazio alle generazioni sommerse dalle vicende storiche,
come, anche sulla scorta di Walter Benjamin, a più riprese ha sostenuto

2
Brizuela (2008) e, in precedenza, Matteini (1999: 49). E si ricordino le parole del‐
l’autore: «El teatro histórico es siempre un teatro político» (2011b: 180‐181). Si veda
anche Mayorga (2011c: 198‐199).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 25

Reyes Mate, intellettuale che non poco ha influenzato le posizioni di Mayorga


sugli esclusi.3 Viene a confermare questa centralità della memoria una delle
sue più potenti incarnazioni nell’opera mayorghiana, ovvero la scomoda tar‐
taruga Harriet, che ha attraversato i secoli da testimone «desde abajo. A ras
de tierra» (Mayorga 2008a: 19) e può incrinare le certezze di chi della storia
si fa mediatore e interprete dalla distanza. L’antropomorfizzazione dell’ani‐
male, artificio recuperato a più riprese da Mayorga e dal teatro spagnolo
coevo, ne La tortuga de Darwin è al servizio del questionamento dell’idea
evoluzionistica della storia umana e di una riflessione sul travagliato rappor‐
to tra evento e sua articolazione concettuale, in un dialogo ideale con una sot‐
tesa attenzione all’intrastoria che ritroviamo in alcuni lavori di Brecht,
Beckett, Pinter e Sanchis, e che ovviamente non è dimentico della lezione
unamuniana.4
Le opere di Mayorga sulla Shoah raccordano il teatro storico e le sue
implicazioni civili e politiche intorno a eventi nevralgici del Novecento.
Eventi che hanno messo in discussione sperimentate categorie della morale e
dell’etica, ad alcuni apparse fallimentari quando hanno dovuto misurarsi con
i campi di concentramento. Con il Primo Levi (1991: 11‐12) de I sommersi e i
salvati, possiamo riconoscere che il sistema concentrazionario nazista rima‐
ne un unicum, in quanto a mole (in rapporto con il tempo) e qualità,5 ma non
per questo – in ciò concordo con Agamben (1998: 30) – merita il prestigio
della mistica o l’appellativo di indicibile. Sarebbe comunque ingenua la prete‐
sa di affrontare qui la dialettica tra genocidio e liceità della sua rappresenta‐
zione, oppure voler stabilire in modo definitivo l’eventuale primato, o meno,
della memorialistica sull’evocazione artistica. È noto che le posizioni al
riguardo sono state profondamente diverse,6 dacché, a distanza di alcuni anni

3
Mate (1991: 209 ss.; 2003a: in particolare 241‐259); sul concetto di memoria in rela‐
zione con la storia, si veda Mate (2008: 149‐176) e, sul rapporto tra memoria e giustizia,
Mate (2011: in particolare 165 ss.). Si ricordi che questo studioso dirige, presso l’Istituto
di Filosofia del Consejo Superior de Investigaciones Científicas, i gruppi di ricerca «El
Judaísmo. Una tradición olvidada de Europa» e «La Filosofía después del Holocausto», ai
quali collabora lo stesso Mayorga.
4
Sull’idea di memoria nel teatro mayorghiano, si vedano Barrera Benítez (2001: 74‐
83), Puchades (2004) e Sirera (2005).
5
Si vedano anche le lucide pagine di Mate (2003a: 162‐166; 2003b: 51‐75).
6
Qui ricordo solo quelle di tre autori: Claude Lanzmann nel suo film‐documentario
Shoah (1985) ha manifestato la volontà di legarsi a un registro meramente testimoniale
(ma si vedano al riguardo le riflessioni di Mate 2003b: 101‐109); Primo Levi (1991: 64)
ha riconosciuto la condizione di potenziali testimoni integrali solo ai sommersi, ai musul-
mani, ovvero coloro che nei campi erano stati annientati ben prima della morte fisica;
26 Enrico Di Pastena

dagli eventi, il mondo dell’arte si è fatto carico della loro raffigurazione. Forse
la questione risiede non tanto nella dialettica tra liceità e non liceità della
rappresentazione, quanto, soprattutto, nell’individuare una modalità di evo‐
cazione che, attraversando il prisma dell’elaborazione artistica, non scada
nella trivializzazione, nel sentimentalismo o nel facile effettismo. Di limiti da
evitare e rischi in cui si può incorrere ha mostrato di avere contezza Mayorga
(2011d: 195‐196) nel suo lucido saggio La representación teatral del Holo-
causto, al quale, per amor di brevità, rimando, non senza segnalare, per inci‐
so, l’osmosi esistente tra la riflessione teorica e la produzione del dramma‐
turgo. Dal canto suo, Pier Vincenzo Mengaldo (2007: 54 ss.) in un capitolo del
suo imprescindibile La vendetta è il racconto ha segnalato la concordanza tra
i referti della deportazione e l’alta letteratura. A ogni modo, con il venir meno
dei testimoni diretti della Seconda Guerra Mondiale, e pur con i materiali fis‐
sati dalla «Survivors of the Shoah Visual History Foundation» o quelli raccolti
dalla «Fondation pour la Mémoire de la Shoah», un accorto approccio figura‐
to a questo tema non potrà che essere investito di una nuova rilevanza. La
funzione di tale approccio dovrà travalicare quella meramente informativa e
denotativa, poiché limitarsi a essa sarebbe attestarsi su un terreno da cui la
testimonianza diretta e il dato storico criticamente interpretato non possono
essere scalzati. Non si tratta di competere con i testimoni ma di produrre le
condizioni, attraverso gli strumenti propri del linguaggio artistico, per cui un
destinatario possa, in qualche misura, avvertire empaticamente la situazione
delle vittime, perché sia meno facile il riprodursi delle circostanze che perpe‐
tuano la vessazione di determinati individui o gruppi su altri. Una calibrata
conformazione estetica dovrebbe essere la congrua conseguenza di queste
premesse, dal momento che l’etica nella letteratura non può che passare dal‐
l’estetica e che in un’opera letteraria più dei soggetti importa il modo in cui
essi vengono organizzati. Con tali premesse, la Shoah può divenire una
potente metafora della cancellazione del dissenso, una incarnazione del deli‐
rio di potere, un emblema della manipolazione della verità e dei linguaggi.
Come sia, il tema dello sterminio ebraico si pone come prova nodale di un
teatro storico che volesse cimentarsi nella sfida di evocare l’esperienza della
perdita. Un teatro che, parafrasando un autore caro a Mayorga, Enzo Cor‐
mann, potremmo definire poelitico, cioè in grado di riunire la dimensione
poetica e politica, poiché da una parte innesca con la propria lingua «l’espe‐
rienza di un essere‐insieme meditativo e interrogativo», di una sorta di

Jorge Semprún (1995: 25‐26), ex prigioniero a Buchenwald, ne La escritura o la vida ha


sostenuto non solo che l’arte è legittimata a dire, ma che essa potrebbe essere la sola
modalità comunicativa in grado di ricomporre una esperienza profonda degli eventi.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 27

«assemblea pensante», e dall’altra traccia una mobile «architettura dei rap‐


porti», misura le distanze tra gli individui, proponendo «uno sguardo colletti‐
vo sui rapporti privati» (Cormann 2007: 255 e 247).7 Scrive ancora l’autore
francese: «Il progetto poelitico consiste nell’interrogare nello spazio civico
del teatro ‘ciò che l’uomo fa all’uomo’ e ciò che ‘noi facciamo che ci fa uomini’.
L’arte del poeta drammatico non è di estetizzare le tenebre individuali ma di
portarle alla luce del politico» (2007: 266). Mayorga e Cormann condividono
la densità della loro meditazione sul teatro e il recupero dell’evento teatrale
come forma di assemblea cittadina (in un richiamo ideale al teatro greco clas‐
sico e in particolare all’Eschilo de I persiani, ma anche con una passione
comune per il Karl Krauss de Gli ultimi giorni dell’umanità). Sia l’autore spa‐
gnolo che quello francese richiedono al discorso teatrale una vibrante capa‐
cità di interrogazione sulla società.8
Entro la cornice di una esperienza poelitica, dunque, le mie osservazioni
tenderanno a privilegiare l’ultima creazione del teatro della Shoah in
Mayorga, El cartógrafo, e saranno arricchite dal rilievo di costanti e variabili
in essa riscontrabili rispetto a Himmelweg; rinuncio quasi del tutto in questa
sede a richiami ad altre pièces dell’autore, che non saranno se non episodici,
per ragioni di spazio.9 Mi attengo inoltre a un’analisi eminentemente testuale,
dal momento che le opere che qui si analizzano sono nate prescindendo dal
dialogo che in altri casi Mayorga ha attivato con determinati centri di produ‐
zione teatrale o compagnie che hanno allestito alcuni suoi lavori.
El cartógrafo prende le mosse dalla profonda rielaborazione di una diretta
esperienza dell’assenza da parte di Mayorga: nel gennaio del 2008, dopo aver
visitato una mostra fotografica sul ghetto ebraico a Varsavia, l’autore traccia
su una cartina i punti corrispondenti ai luoghi tratti dalle didascalie delle foto
e, ripercorrendoli durante una passeggiata, tocca con mano la difficoltà di
riconoscerli.10 Questa esperienza viene vista, nell’opera che ne è derivata,

7
In merito alla visione del teatro dell’autore francese, si possono leggere gli articoli,
interventi e conferenze raccolti in Cormann (2003).
8
I punti di contatto tra i due autori meritano di essere approfonditi, in particolare
dacché, nell’estate del 2004, hanno preso parte a un laboratorio teatrale di respiro euro‐
peo («Prima del teatro») che annualmente si tiene presso San Miniato (Toscana). Dal
canto suo, in «Enzo Cormann, utopista del teatro» Mayorga si è dichiarato «deudor del
sentido moral y político con que Cormann imagina el teatro» (Mayorga 2010b; cito dall’o‐
riginale fornitomi dall’autore).
9
García Barrientos (2011) ha di recente studiato gli altri testi di Mayorga più o meno
direttamente collegati alla Shoah (con l’eccezione de El traductor de Blumemberg, che rie‐
cheggia situazioni legate all’ideologia nazista e che l’autore ritiene abbia una relazione
indiretta con il tema dello sterminio); rimando alla sua analisi.
10
Ne rievoca ora le circostanze lo stesso Mayorga in «Teatro y cartografía» (2011f).
28 Enrico Di Pastena

attraverso il caleidoscopio di un personaggio femminile, Blanca, e del suo


girovagare nel solco del flâneur benjaminiano,11 in un tempo che è il nostro
presente. E con ciò ricordiamo la sinossi dell’opera (banalizzante ma utile a
chi non abbia letto il testo): una coppia di stranieri, Blanca e Raúl, risiede da
poco a Varsavia. La donna mostra un acuto interesse per il passato ebraico
della città e in particolare per una narrazione che trasmette oralmente le
vicende relative all’esistenza di una mappa del ghetto ebraico. Tale carta
sarebbe stata confezionata durante l’occupazione nazista grazie ai saperi di
un anziano cartografo invalido servitosi della capacità di osservazione della
sua nipotina. La pièce intreccia tre trame: la ricerca della carta e della sua co‐
autrice da parte di Blanca; il farsi di questa stessa carta, tracciata nel costante
pericolo di essere interrotta; diversi momenti dell’esistenza di Deborah,
(probabilmente) colei che la rese possibile e che vediamo adulta e poi anzia‐
na. La cartografa negherà l’esistenza della carta del ghetto e di esserne l’au‐
trice, al cospetto di Blanca che molto ha cercato l’una e l’altra. La sequenza
conclusiva, se la si volesse leggere in chiave realista, porterebbe tuttavia a
credere che la carta, a lungo ritenuta frutto di una mera leggenda, esiste ed è
stata occultata in modo insospettabile (di tale sequenza valuterò più avanti il
possibile significato). Per efficacia espositiva organizzo le mie considerazioni
in tre blocchi: il modo in cui viene evocata la Shoah ne El cartógrafo e in
Himmelweg, l’architettura delle opere, gli aspetti salienti di alcune delle figu‐
re che vi appaiono.

1. Rappresentare

La creazione del ghetto di Varsavia nel 1940 e la rivolta di alcuni dei suoi
residenti, dal 19 aprile al 16 maggio 1943, hanno rappresentato una delle
pagine al contempo più dolorose e più dignitose della storia del popolo ebrai‐
co nella cornice dello sterminio. Gli eventi storici sono noti e si è cercato di
ricostruirli in più di una occasione,12 anche attraverso contributi audiovisi‐
vi.13 L’approccio mayorghiano è di tipo evocativo‐allusivo e piuttosto lontano

11
Si ricordino al riguardo I passages di Parigi (Benjamin 2010: in particolare I, 465‐
509). Sul concetto di flâneur, già presente in Baudelaire, si veda Nuvolati (2006).
12
Si veda ora Beltrame (2007); di sicuro interesse è anche la memorialistica sulla vita
nel ghetto e sulla sollevazione: tra i contributi, ricordo quelli di Czerniakow (1989), Berg
(1991) e Białoszewski (2011); si può consultare inoltre lo straordinario documento rap‐
presentato dagli archivi di Ringelblum (1965).
13
Si veda in particolare Dylewska (1993) e, in precedenza, una delle sezioni (‘Secondo
periodo, seconda parte’) di Shoah.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 29

dalla pratica del teatro‐documento. Cionondimeno, nelle informazioni che la


bambina va fornendo all’anziano si coglie il progressivo e irreversibile dete‐
rioramento di uno spazio, quello del ghetto, sottoposto a una inaudita pres‐
sione demografica e lasciato in condizioni di approvigionamento volutamen‐
te disumane. La toponomastica e l’onomastica, gli accadimenti puntuali e le
cifre vanno ricostruendo un quadro veridico dell’inabissarsi di una umanità
calpestata nei propri bisogni più immediati. Una umanità che quando non è
falcidiata dagli stenti e dalle privazioni, quando non è piegata dal colpevole
oblio dei cittadini non ebrei di Varsavia o dal collaborazionismo di figure che
cercano di ricavarsi una nicchia privilegiata nella rovina, ingrossa le fila dei
convogli periodicamente approntati per Auschwitz dalla Umschlagplatz.
Mayorga si è avvalso per le informazioni che punteggiano i resoconti della
bambina in particolare di Voces del gueto de Varsovia, testo curato da Michał
Grynberg (2004), studioso dell’Istituto di Storia Ebrea di Varsavia.14 Il lavoro
raccoglie poco meno di trenta testimonianze – selezionate per temi e ordina‐
te cronologicamente – di ebrei che vissero nella capitale della Polonia duran‐
te la Seconda Guerra Mondiale; solo una parte di essi scampò alla morte.
Dopo una prima versione de El cartógrafo, qualche aggiustamento in merito a
nomi e toponimi è stato inoltre reso possibile dai suggerimenti di Marta
Jordan, traduttrice in lingua polacca dell’opera. Mayorga fa in modo che i dati
storici alimentino l’invenzione di un processo cartografico condotto, per così
dire, a quattro mani, da un anziano e da sua nipote, e alterna quei dati con l’e‐
vocazione di un dolore più circoscritto e domestico, quello di una coppia,
Blanca e Raúl, che ha perso la propria figlia (il cui nome, Alba – che pure si
collega semanticamente a quello della madre – e il cui destino tragico sono
forse un obliquo omaggio al teatro di García Lorca) e li combina poi con il
riflesso di altri momenti tra la Seconda Guerra Mondiale e il presente. In que‐
sto modo l’opera oscilla tra dimensione pubblica e privata,15 e si intende che
l’osservazione di Blanca secondo la quale la casa dove abita con Raúl si trova
all’interno del ghetto acquisisce anche un valore simbolico.16

14
La fonte di cui si era servito Mayorga per la sequenza III del suo Job è invece una
rielaborazione letteraria, il testo di Zvi Kolitz (1998, con nuova traduzione e diverso tito‐
lo nel 2011), che narra la vicenda di un combattente del ghetto di Varsavia.
15
Condivido in pieno la notazione conclusiva di José Monleón per cui Mayorga conci‐
lierebbe la «sensibilidad histórica […] con una de las grandes virtudes de la poesía dra‐
mática: sacar de las sombras el vivir y el dolor escondidos, llenar de plenitud la fugacidad,
situar el tiempo en la pulsación más íntima de los personajes, dejar al espectador/lector
en el mayor y más humano desamparo» (2004: 27).
16
«Esta casa, mira el mapa. ¿Te das cuenta de que nuestra casa está dentro del
gueto?» (Mayorga 2012: 1; 2010a: 1).
30 Enrico Di Pastena

El cartógrafo si propone anzitutto come una riflessione sulle potenzialità e


i limiti della rappresentazione, e dunque, nella fattispecie, del fatto teatrale,
in ciò facendosi eco di un topos delle opere sulla Shoah.17 La pièce si sostiene
su una metafora centrale: la possibilità della carta geografica, una rappresen‐
tazione simbolica del mondo, di preservare il ricordo di un brandello di città
e di vita destinato all’annientamento. Il sottotitolo Varsovia, 1: 400.000, sotto
la forma della scala di riduzione, nella sua parte conclusiva, evoca in modo
approssimato il numero delle vittime di quello che fu il ghetto più grande
d’Europa, che arrivò ad avere una popolazione stimata di oltre mezzo milione
di persone, stipate in un’area di circa 400 ettari, ma fa pensare, nel primo
numero, anche a un solo, ideale e sognato individuo che assume la missione
di consegnare alla memoria il ricordo di una perdita immane, e si prova a
dare un senso a quella carneficina con la propria salvezza. La proporzione
numerica trae alla memoria la chiusa di Arrivare prima del Signore Iddio,
della scrittice polacca Hannah Krall, un lungo colloquio con Marek Edelman –
vicecomandante dell’insurrezione ebraica del ghetto e unico sopravvissuto
tra i resistenti – che Mayorga ha letto dopo aver composto una prima versio‐
ne de El cartógrafo. In quel finale Edelman, con la mediazione dell’autrice del
libro, impasta l’esperienza di combattente durante il conflitto mondiale con
quella di cardiologo negli anni successivi, e rievoca il tempo che segue al
trauma, sia che con questo si intenda la distruzione che una operazione a
cuore aperto:

Seguiranno i lunghi giorni dell’attesa […]. Poi poco a poco ti calmi, riprendi
sicurezza… È quando questa tensione e questa gioia ti avranno ormai abban‐
donato – allora, soltanto allora, ti rendi conto di questa proporzione: uno su
quattrocentomila.
1:400.000.
Semplicemente ridicolo.
Ma ogni vita rappresenta per ciascuno l’intero cento per cento, allora forse un
senso comunque c’è (Krall 2010: 136).

Così si conclude la lunga, talvolta disordinata, certo antieroica intervista


rilasciata da Edelman.
In un suo saggio di qualche anno fa Mayorga ha scritto: «El pasado se me
aparece como un espacio imprevisible del que quisiera hacer […] no calcos

17
E, al contempo, di una precisa notazione di Mayorga: «El teatro del Holocausto […]
buscará un modo de representación que se haga cargo de la imposibilidad última de la
representación» (2011d: 196‐197).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 31

sino mapas» (2011b: 185).18 L’autore, lo segnala lui stesso, si serviva nell’oc‐
casione della dicotomia utilizzata da Gilles Deleuze e Félix Guattari, i quali in
uno studio sui nessi profondi tra schizofrenia e capitalismo ponevano in
alternativa uno di fronte all’altro i principi di decalcomania e di cartografia,
richiamandosi a quest’ultima per illustrare i vantaggi del concetto di rizoma
(già usato da Jung riguardo alla natura invisibile della vita), un tipo di indagi‐
ne filosofica che procede senza gerarchie interne e si oppone a una concezio‐
ne arborescente del sapere, tipica della filosofia tradizionale, la quale si
dispiega gerarchicamente e linearmente, seguendo categorie binarie. Un
modo di procedere che non mi pare così dissimile dal flâneur di Benjamin,
che con i suoi spostamenti tesse relazioni inattese e aperte. Affermano
Deleuze e Guattari: «La carta si oppone al calco, è interamente rivolta verso
una sperimentazione in presa sul reale. La carta non riproduce un inconscio
chiuso su se stesso, lo costruisce. […] Fa a sua volta parte del rizoma. La carta
è aperta, è connettibile in tutte le sue dimensioni, smontabile, reversibile,
suscettibile di ricevere costantemente modificazioni. Può essere strappata,
rovesciata, adattarsi a montaggi di ogni natura, essere messa in cantiere da
un individuo, un gruppo, una formazione sociale. La si può disegnare sopra
un muro, concepirla come un’opera d’arte, costruirla come un’azione politica
o come una meditazione. Forse uno dei caratteri più importanti del rizoma
consiste nell’essere sempre a molteplici entrate» (1997: 28‐29). Alla luce di
queste considerazioni, delle parole di Mayorga e, soprattutto, dell’eco che
trovano ne El cartógrafo, si capisce come la carta assurga all’interno dell’ope‐
ra a metafora principale del teatro e divenga per il drammaturgo una cifra,
forse solo momentanea, della propria arte. Oggetto razionalmente organizza‐
to, una carta ha specifiche finalità – non tutte nobili, ovviamente, perché «hay
mapas que matan y mapas que salvan» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37) – e
dunque non è mai uno strumento asettico, come non lo sono i confini o i dati
che è destinata a evocare e, di conseguenza, il teatro che a essa viene assimi‐

18
È significativo che, illustrando le peculiarità del teatro di Cormann, Mayorga si
serva della stessa immagine: «Lo que el teatro debería entregar a la ciudad es una expe‐
riencia poética que ponga a la ciudad ante su propia forma – o ante alguna de sus formas,
reales o posibles –. Un teatro que devuelva a la ciudad no un calco, sino un mapa»
(Mayorga 2010b; cito dall’originale fornitomi dall’autore).
19
Stimolanti riflessioni sul carattere di manipolazione deliberata che hanno le carte
geografiche, sulla valenza dei loro silenzi epistemologici, fondati sulla selezione di deter‐
minati dati e sulla omissione di altri, si trovano in Harley (2005). Non dimentichiamo che,
in ambito critico, Dubatti (2008) ha preso a prestito elementi cartografici per condurre
un’analisi del teatro latinoamericano secondo un’angolazione comparativa.
32 Enrico Di Pastena

lato.19 Introdurre alterazioni nelle carte geografiche conosciute equivale a


realizzare una revisione del mondo, come sottolinea in un suo recente contri‐
buto Estrella de Diego (2008), memore di alcuni spunti benjaminiani e pren‐
dendo le mosse da una insolita mappa del mondo apparsa a Bruxelles negli
anni del surrealismo, per l’esattezza nel 1929, sulla rivista Variétés; nella
mappa si palesavano alcune provocatorie dislocazioni delle frontiere cono‐
sciute che annunciavano il combattivo questionamento delle pratiche narra‐
tive codificate da parte degli artisti a venire. Ne El cartógrafo si suggerisce
che una carta sia ora indice dell’esistenza di un ordine e ora segno di appar‐
tenenza, causa ed effetto di una guerra, meccanismo di controllo e mezzo di
predizione, inganno per un nemico e presa di possesso di un territorio, indi‐
catore di una capitolazione e in sé una forma di resistenza. In una pièce
breve, scritta nello stesso periodo de El cartógrafo e intitolata 581 mapas,
Mayorga ha esplorato, su commissione del Royal Court, i limiti che possono
essere imposti alla libertà di espressione individuale. In un’altra opera inedi‐
ta, Los yugoslavos, le carte divengono lo strumento mediante il quale due
donne, una adulta e una giovane, hanno modo di scambiarsi le loro esistenze.
Il rifarsi a una carta assume, in definitiva, la valenza di una dichiarazione
di poetica da parte dell’autore: il teatro deve rispondere a specifiche doman‐
de (verosimilmente, soprattutto di ordine morale e civile) e avvalersi di una
quadratura razionale; i suoi elementi devono aspirare a un massimo di perti‐
nenza in rapporto a quelle domande e a una piena efficacia comunicativa. Il
processo selettivo delle componenti ha da essere rigorosamente funzionale,
secondo una visione a cui non è estranea la formazione matematica del
drammaturgo e che impregna anche l’asciutta materialità della sua scrittura,
sulle cui ellittiche potenzialità bene ha fatto Guillermo Heras a richiamare
l’attenzione qualche anno fa.20 Del resto, una corretta rispondenza alla realtà
da parte dei modelli matematici nella scala di riduzione è decisiva e questi
stessi modelli riappaiono obliquamente all’interno del dramma negli schemi
di predizione delle valanghe, di cui, come traduttrice, si occupa un personag‐
gio secondario. La neve, porosa e stratificata quanto il mondo sociale, il pro‐
cesso storico o la sua memoria, è facile a diluirsi e a svanire:

Está en permanente metamorfosis, es difícil estudiar algo que se transforma


permanentemente. El objetivo es entender qué factores determinan las fuer‐

20
«La escritura mayorguiana es profundamente elíptica y elegante. Pienso que los
directores deben trabajar en esa línea, nunca del subrayado, sino de la analogía, tanto de
las imágenes a proponer como de la manera de construir los personajes» (Heras 2007;
cito dall’originale spagnolo fornitomi da Mayorga).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 33

zas de enlace entre los cristales. Qué hace que una capa sea más fuerte o más
débil. Si entendemos eso, entenderemos las avalanchas y podremos preverlas.
La idea es aplicar el modelo a otros campos. A la economía. A la sociología. A la
psicología. En las capas débiles, los cristales están muy sueltos, como bolas de
billar en una caja. La nieve es como una tarta con muchas capas, unas de
metros de espesor, otras delgadas como papel. En la superficie, los cristales
son afectados por el sol, el viento… Mientras eso ocurre fuera, ¿qué está
pasando dentro? ¿Y qué sucede si sobre una superficie nevada una tormenta
deja caer otra capa más densa? El escenario más probable de avalancha es
cuando una capa débil es cubierta por otra más fuerte. Una pequeña presión
puede fracturar la capa débil y provocar un enorme desplazamiento. Pero,
contra lo que se suele creer, el sonido no causa avalanchas (Mayorga 2012: 13;
2010a: 13).

La neve, dunque, potrebbe essere assunta come ulteriore metafora della


storia e di quanto risulti complesso appropriarsene. Di contro a questo inter‐
secarsi di strati, a questo sfaldamento sempre in atto, la sfida nell’opera è
proporre una cartografia della memoria, organizzare il discorso simbolico e
razionale della rappresentazione per lasciare testimonianza di un mondo che
si sgretola prima di essere inghiottito dalla violenza. Alla cartografia nella
pièce si rimette l’incombenza di preservare quel che si perde, come al teatro
si chiede di conferire una possibile forma alla memoria, il compito di rendere
visibile e presente anche quel che non lo è più (il primo effetto della memoria
in quanto attività ermeneutica, come sottolinea Reyes Mate 2008: 167).
Dinanzi allo scarto tra ciò che si vede e ciò che è andato perduto, torna alla
mente, mutatis mutandis, lo spirito che animava la denuncia filmica del
Resnais di Notte e nebbia (1955), impostata sulla dialettica tra l’uso del bian‐
co e nero e quello del colore, tra l’orrore reso manifesto dai documenti visivi
originari e la sua cancellazione nelle immagini di un presente costituito da
paesaggi anonimi e privi delle tracce lasciate dal passaggio della storia. Di
fatto, una versione cinematografica della leggenda della carta del ghetto
viene evocata ne El cartógrafo dall’anziana Deborah («El mapa no debería
aparecer, siempre resultaría decepcionante. La película debería ser el mapa.
No creo que lleguen a hacerla», Mayorga 2012: 35; 2010a: 37), salvo essere
poi accantonata a vantaggio di una sua trascrizione in chiave teatrale: «Sería
mejor una obra de teatro. Las películas están llenas de respuestas a pregun‐
tas que nadie hace. En el teatro todo responde a una pregunta que alguien se
ha hecho. Como los mapas» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37). Insomma, l’ope‐
ra di teatro, la finzione, è la vera carta per penetrare nell’orrore. Un modo di
salvare, con la forma, la memoria. Perché in grado di riaccostarci con la sua
corporeità e la sua dimensione poetica a una esperienza del dolore.
L’assimilazione del teatro alla carta può apparire forse costrittiva, se non
riduttiva. Ma alla metafora conferisce un’apertura potenziale la presenza di
34 Enrico Di Pastena

un fruitore. A lui si chiede di ridestare il senso della trascrizione, decifrando‐


ne i simboli e restituendo alla vita della ragione (e delle emozioni) ciò che in
potenza è tradizionalmente bidimensionale, secondo la convinta adesione
mayorghiana alla teoria della ricezione. Ogni carta contiene in sé anche un’i‐
dea di come sarà colui che è chiamato a decifrarla.
Inoltre, la cartografia dell’assenza non si limita a ciò che è accaduto oltre
mezzo secolo fa e si volge anche a ciò che si è verificato un pugno di anni
orsono e che ancora potrebbe riproporsi. La lunga ombra sovietica sulla
Polonia e la lacerante vicenda jugoslava vengono introdotte ne El cartógrafo
attraverso l’esperienza biografica di Deborah,21 che viene incarcerata dal
regime polacco filorusso e vorrebbe fornire carte di utilità pratica agli asse‐
diati abitanti di Sarajevo (Mayorga 2012: 29, 31; 2010a: 30, 34). E non sarà
fuori luogo ricordare che nel 1993, a cinquant’anni dalla rivolta del ghetto,
Marek Edelman, ormai anziano, accompagnò un convoglio umanitario dentro
una Sarajevo bombardata. Il richiamo al recente conflitto balcanico rende
patente quanto in questo teatro le vicende storiche acquistino un senso pieno
grazie alla loro connessione con il presente. Mayorga ha richiamato in un suo
saggio le parole del Testimone 3 de L’istruttoria di Peter Weiss, laddove il
personaggio ricorda la necessità di cancellare le basi culturali della Shoah per
evitare il suo riproporsi (2011d: 193). La volontà di far affiorare nella storia
attuale i pericoli impliciti in ogni politica nazionalista, etnocentrica, teocrati‐
ca e genocida si coglieva già in Himmelweg, ove, come vedremo a breve, il
peculiare trattamento del tempo contribuiva non poco al coinvolgimento
emotivo e alla responsabilizzazione etica del destinatario. Ne El cartógrafo
ritengo, tuttavia, più esplicito l’orientamento di attualizzare la problematica
della responsabilità individuale: giunta in età senile, Deborah ha al suo attivo
un libro dal titolo rivelatore quale Cartografía de la ausencia che può com‐
prendere una mappatura dell’esilio repubblicano spagnolo, della pulizia etni‐
ca in Jugoslavia e via dicendo (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37).
Lo specifico del fatto teatrale, la corporeità fatta carne nel presente dell’at‐
tore, viene messa a frutto da Mayorga evocando la missione di un teatro che,
una volta resa manifesta la difficoltà del suo cristallizzare in parola definitiva,
vorrebbe essere in primis denuncia di un’assenza. Ecco dunque l’assenza farsi
forma mediante il gesto di Blanca che traccia il contorno del suo corpo a
terra, in una sorta di rudimentale mappa dei confini della propria fisicità
(«Miras tu cuerpo y aparecen cosas. Personas, animales, palabras. Colores,

21
Mayorga, lo si ricorderà, ha composto il testo breve Una carta de Sarajevo (2009b) e
una pièce, Los yugoslavos, che ho già citato e che forse non ha ancora trovato la sua forma
definitiva.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 35

fechas. Sonidos. Lugares. Madrid. Varsovia. Londres. Cosas que estaban sepa‐
radas, aparecen juntas. Cosas olvidadas vuelven», Mayorga 2012: 33; 2010a,
36). Il gesto, apparentemente incongruo, consente anzitutto l’affioramento di
una privazione che è personale e familiare (la scomparsa della figlia di Blanca
e Raúl, la fatica di verbalizzare la sofferenza della perdita). Favorisce poi la
constatazione che le manifestazioni della sofferenza sono vasi sotterranea‐
mente comunicanti. E rende conto della pervicacia di Blanca nella ricerca di
una carta che le permetta di orientarsi nel dolore, anche se si tratta di quello
altrui, dal momento che questo può essere avvicinato da un’affine esperienza
del lutto.
La sagoma è la forma vuota dell’assenza. Ma anche quella di un avvenuto
delitto: il profilo di una figura, a terra, è infatti la testimonianza residua di un
crimine, il tracciato materiale di un trauma anche spirituale. Opportuna‐
mente, in un lavoro recentissimo, Robert March e Miguel Ángel Martínez
(2012) hanno collegato El cartógrafo, e in generale la produzione di Mayorga,
al concetto di trauma, la cui memoria condivisa può contribuire a una rifor‐
mulazione della base etica e politica su cui poggia la collettività. In tal senso
la provocatoria proposta di Blanca di individuare la superficie dell’antico
ghetto con una macchia, bianca come il suo nome, nella carta dell’attuale
Varsavia non è che un modo di mettere in relazione tragedia individuale e
storia collettiva, il suo corpo svuotato e amputato dalla perdita della figlia
Alba e quello di una città a cui è stata strappata una parte di sé. Con una nota,
ora, di più profonda compartecipazione rispetto ad altri drammi di Mayorga:
anche Raúl, riluttante dinanzi alle manifestazioni di dolore della compagna e
alla sua ostinata ricerca di informazione sul passato di Varsavia, decide infine
di tracciare il profilo del suo corpo sul pavimento. La geografia della sofferen‐
za conosce qui quantomeno il sollievo di una condivisione, secondo un proce‐
dimento, il parallelismo, che mi pare decisivo nell’economia di senso dell’in‐
tera opera.
La carta a suo tempo tracciata viene inoltre collegata idealmente a un
luogo di silenzio, di impossibile comunicazione. Nel tentativo di confondere
le idee a chi la ritrovasse accidentalmente e potrebbe farne un uso improprio,
essa è stata ribattezzata «Hurbineka» dal suo anziano artefice, sulla scorta
del nome di un piccolo amico della nipote, ammutolito alla vista delle atrocità
del ghetto.22 In questo modo Mayorga si ricollega a Primo Levi e soprattutto

22
Mayorga (2012: finale della sequenza 12; numero invariato nell’ed. 2010a): «AN‐
CIANO. Ese amigo tuyo, el que ha dejado de hablar. ¿Cómo se llama? NIÑA. Hurbinek. AN‐
CIANO. Hurbineka. La llamaremos Hurbineka».
36 Enrico Di Pastena

suggerisce che una carta del ghetto è una geografia del silenzio: Hurbinek ne
La tregua (1989: 166‐167) era «un nulla, un figlio della morte, un figlio di
Auschwitz», una «piccola sfinge» muta, «il senza‐nome», il cui balbettio disar‐
ticolato rimane incomprensibile (Agamben 1998: 35).23 Chiamare «Hurbine‐
ka» la carta è tornare ad affacciarsi sulla soglia del non dicibile.
Una cartografia dell’assenza vale come una mappa del silenzio. Dei corpi
mancano, ne resta il profilo tracciato a terra dalla ostinatezza di chi rivive un
dolore. In maniera analoga, in Himmelweg mancava la diretta verbalizzazione
del proprio stato d’animo da parte delle vittime. Tra i personaggi adulti più
rilevanti di quel dramma – il delegato della Croce Rossa, il Comandante nazi‐
sta, il responsabile della comunità ebrea – uno solo non ha modo di esprimer‐
si attraverso un esteso monologo, ed è l’ebreo Gershom Gottfried, ribattezza‐
to con un teutonico Gerhard Gottfried e costretto a collaborare con i carnefi‐
ci. Si ricorderà che una rappresentazione teatrale pretendeva di installarsi al
centro di Himmelweg. La genesi del testo è nota: una conferenza ascoltata dal
drammaturgo e relativa a Un vivo che passa, una intervista registrata da
Claude Lanzmann e non utilizzata in un primo momento nella sua imponente
ricostruzione visiva dello sterminio ebraico.24 L’intervistato era Maurice
Rossel, un emissario del Comitato Internazionale della Croce Rossa che nel
giugno del 1944 visitò, su invito delle autorità naziste, il campo di interna‐
mento civile di Terezin – Theresienstadt per i tedeschi –, a circa sessanta chi‐
lometri a nord di Praga, dove la popolazione ebrea venne obbligata a simula‐
re condizioni di vita di cui non godeva, per ingannare la comunità internazio‐
nale in merito al trattamento assicurato agli internati nei campi. Alla fine
della guerra, dei 144.000 ebrei passati da Terezin, un quarto (33.000) vi
trovò la morte principalmente a causa degli stenti e delle malattie; circa
88.000 vennero deportati ad Auschwitz e in altri campi. Maurice Rossell
scrisse un rapporto favorevole sulle condizioni in cui versava la popolazione
ebrea in quel luogo. Di una idillica versione della vita a Terezin restano circa
20’ di un film propagandistico che, di nuovo sotto minaccia, girò Kurt Gerron.
Da tali fatti trae liberamente ispirazione Mayorga.
A un destinatario minimamente informato, la corrispondenza tra l’inse‐
diamento evocato in Himmelweg e la cittadina di Terezin non può sfuggire.
Eppure collegare meccanicamente gli spazi richiamati dalla pièce a Terezin
sarebbe riduttivo. Mayorga si preoccupa di cambiare le coordinate spaziali

23
Allo stesso piccolo prigioniero, Hurbinek, Mayorga consacra la sequenza 11 di
Wstawac.
24
Il film Un vivant qui passe è del 1997. Lanzmann lo ha prodotto e diretto.
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 37

dell’ambientazione, situando il campo a pochi chilometri da Berlino, con un


intendimento che ha una duplice ricaduta: Terezin – toponimo, del resto, mai
impiegato nel testo, così come il suo corrispettivo tedesco – aleggia sull’opera
ma non è il campo della cui vita vediamo in scena alcune addomesticatissime
situazioni; quel campo è idealmente «nel cuore dell’Europa», titolo di una
delle cinque sequenze che compongono il dramma, e la sua stazione ospita
un antico e prezioso orologio, ormai fermo sull’ora dell’ignominia, al cui
interno è un bilanciere che dobbiamo credere costruito a Toledo nel 1492,
anno affatto innocente nei rapporti tra la corona castigliano‐aragonese e gli
ebrei, e determinante per le relazioni tra quella stessa corona e ciò che verrà
battezzato Nuovo Mondo. Riconoscere una dimensione sovranazionale alle
correnti antisemite è un invito alla vigilanza che viene rivolto al destinatario,
al fine di sensibilizzarlo dinanzi a risorgenti forme di repressione etnico‐cul‐
turale, ed è al contempo una denuncia di quanto siano diffuse le responsabi‐
lità riguardo a tale questione.
La vicenda di Terezin contiene in sé un simbolismo dirompente. Propone
una rappresentazione in luogo della realtà, la spaccia con la consapevole
intenzione di ingannare. In Himmelweg, tuttavia, confliggono a mio avviso
due diversi modelli teatrali: uno, interessato e asservito a uno scopo, presun‐
tamente mimetico, per quanto non manchi di manifestare la propria sfasatu‐
ra tra ciò che esiste e ciò che intende rappresentare; l’altro, che comincia nel
momento in cui viene meno il primo, con gli interventi estranei al copione
della farsa da parte di un paio di personaggi e con il palesamento del dietro le
quinte approntate dall’autorità nazista. Il primo è un teatro che maschera
invece di svelare e che, parafrasando Mayorga (in Aznar 2011b: 275), non si
colloca dinanzi alla vita, ma al suo posto, laddove, secondo l’autore (2011c:
188), il vero teatro «es la continuación de la filosofía por otros medios», per‐
ché, come la filosofia, l’arte può rendere visibile il reale nella sua ampiezza e
profondità. Di contro, in varie sequenze di Himmelweg osserviamo la riduzio‐
ne della politica a simulacro, secondo una condotta, a suo tempo segnalata da
Benjamin (2000: 46), in cui eccelse il nazionalsocialismo ma che è di rigorosa
attualità, e che investe anche il linguaggio. Lo stesso titolo dell’opera, il cui
significato italiano è «la via del cielo», diviene riverbero polemico dell’eufe‐
mismo nazista per indicare la rampa di accesso ai convogli della morte, come
lo sono stati «soluzione finale», «trattamento speciale», «unità di pronto im‐
piego» (Levi 1991: 20), nonché l’idioletto burocratico che affiora nelle parole
del Comandante nella parte III. La confutazione di un teatro di cartapesta –
per concezione, scenografia e dialoghi – viene realizzata dunque parallela‐
mente alla denuncia della manipolazione della parola da parte del potere,
della fascinazione che esso esercita, della svantaggiata condizione dell’indivi‐
duo chiamato a fronteggiarla e della sempre lacunosa costruzione della me‐
moria.
38 Enrico Di Pastena

2. Costruzione

Ha scritto Mayorga in Teatro y verdad: «La verdad no es natural; la verdad es


una construcción. Es necesario un artificio que muestre lo que el ojo no ve»
(2011c: 188). Se è così, la costruzione risulta decisiva perché l’opera d’arte
trasmetta quantomeno una esperienza della verità. Ciò contribuisce a spiega‐
re la peculiare architettura delle opere che ci interessano, segnate dalla fram‐
mentarietà, dalla discontinuità e dalla mancata linearità temporale, talvolta
inclini al cortocircuito logico. Ad esempio, il Comandante nazista di Himmel-
weg in una sequenza, la III, sembrerebbe parlarci dal nostro presente; in
un’altra, la IV, agisce nella sua epoca storica, la Seconda Guerra Mondiale, e
da essa discorre.25 Basandosi su qualche elemento lessicale, John P. Gabriele
(2010) ha percepito in «Así será el silencio de la paz» il sovrapporsi della
voce di una guida a quella del Comandante, che si rivolgerebbe, a un certo
punto, anche ad antichi prigionieri del campo che a quel luogo fanno ritorno
in visita. Quest’ultima deduzione è forse innecessaria; personalmente ritengo
rilevante nel passo la critica ai rischi, sempre in agguato, di degradare i luo‐
ghi della memoria a tappe di un circuito turistico‐commerciale, e alla poten‐
ziale superficialità di un pubblico che confonde realtà e rievocazione. Ma il
momentaneo tono da imbonitore del Comandante di Himmelweg ha una fina‐
lità ancora più significativa: far sentire ciascuno spettatore come un visitato‐
re del campo e nei panni del Delegato della Croce Rossa, e spingerlo a riscri‐
vere il proprio personale rapporto sugli eventi e su altri affini mascheramenti
nel proprio presente. Un margine di ambiguità nel definire emittente e desti‐
natari nella sequenza è dunque volutamente perseguito dal drammaturgo.
Questo esercizio di prospettiva «nos transforma en testigos de una farsa
siniestra», come ha scritto Arnoldo Liberman (2008: 16) riferendosi all’opera
nel suo insieme.
Il teatro contemporaneo adotta a più riprese il dissolvimento della perso‐
nalità e l’erosione di coordinate temporali definite. Tuttavia, nel teatro stori‐
co di Mayorga tali modalità, in particolare la seconda, si tingono di una speci‐
fica coloritura filosofica, l’influenza benjaminiana delle «tesi» da noi cono‐
sciute con il titolo Sul concetto di storia (1997),26 ove emerge il tema della
memoria delle vittime e del loro valore per il presente. Ci si poteva attendere

25
Cfr. il commento dello stesso Mayorga in Aznar (2011b: 272).
26
Cito dall’edizione italiana. Si ricordi che Mayorga (2003a) ha consacrato al pensiero
di Benjamin la propria tesi dottorale, pubblicata con il titolo di Revolución conservadora y
conservación revolucionaria. Si vedano anche Mate (2006) e, in precedenza, Mate e
Mayorga (2002: 86‐94).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 39

un riscontro in merito ai contenuti, evidente in considerazioni come quelle


che seguono, dove si insiste su quanto risulti instabile e malleabile il passato:
«La storia è l’oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal
tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’adesso» (Benjamin
1997: 45‐47); «La vera immagine del passato guizza via. È solo come immagi‐
ne che balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della sua conoscibi‐
lità che il passato è da trattenere» (Benjamin 1997: 25‐27); «Articolare stori‐
camente il passato non significa conoscerlo ‘proprio come è stato davvero’.
Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di peri‐
colo» (1997: 27). Riferendosi all’immedesimazione emotiva con cui un inter‐
prete dello storicismo pretendeva di rivivere un’epoca del passato, Benjamin
si chiede con chi questi s’identificasse. E si risponde: «Con il vincitore. Quelli
che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno
vinto sempre. L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a van‐
taggio dei dominatori di turno» (Benjamin 1997: 31). Forse l’esperienza dei
campi di concentramento ha rappresentato la divaricazione massima tra la
pretesa storicistica di ricomporre un quadro fenomenologico conchiuso di un
evento e l’impossibilità di sistemazione concettuale del suo significato
profondo. Non a caso è stato detto che «l’aporia di Auschwitz è […] la stessa
aporia della conoscenza storica: la non‐coincidenza tra fatti e verità, fra
costatazione e comprensione» (Agamben 1998: 8). In effetti, nella linea di
Benjamin, e anche sulla scorta del commento che ne fa Reyes Mate (2006),
Mayorga ritiene di dover interrogare le lacune della storia, di illuminarne le
fratture, vincolando la ricerca della verità meno al discorso che alla sua inter‐
ruzione.27
A ben guardare, tuttavia – e ciò mi pare di particolare interesse –, l’in‐
fluenza di Benjamin si può percepire anche nella costruzione spezzata delle
pièces di Mayorga sulla Shoah (e persino nella mirata lapidarietà della scrit‐
tura). Le «tesi» sono una serie di brani aforistici concatenati, con rimandi
interni e argomentazioni riprese,28 secondo una frammentazione che non
credo si debba ricondurre esclusivamente alla loro sofferta genesi e al loro
carattere incompiuto (il testo venne pubblicato per la prima volta nel 1942,
quindi postumo). Qualcosa di analogo si coglie ne El cartógrafo e in Himmel-
weg: nella prima il ritmo interno con cui si succedono le scene è irregolare e
franto, e vi si alternano dialoghi fulminanti, sequenze che si esauriscono in un

27
Mayorga (2003a: 55); le considerazioni di Benjamin si riferivano al suo apprezza‐
mento per Brecht e alla capacità di questi di trasformare ogni spettatore in critico.
28
Come non hanno mancato di osservare i curatori italiani dell’opera, Bonola e
Ranchetti, nella loro «Introduzione» a Benjamin (1997: XI).
40 Enrico Di Pastena

solo fermo‐immagine e conversazioni dal respiro più ampio; nella seconda,


due estesi monologhi (insolitamente privi di indicazione del personaggio)
sono separati da segmenti di teatro nel teatro e precedono dialoghi solo fitti‐
zi: in uno l’ebreo Gottfried ha da fronteggiare i malumori del Comandante
tedesco, nell’altro deve manifestare alla sua gente una fiducia che forse non
nutre più su quanto sia utile che la rappresentazione si svolga in modo soddi‐
sfacente. Complessivamente si è potuto parlare, a ragione, di una ibridazione
di forme e tradizioni teatrali (Fobbio 2011: 105‐106), tra cui l’indubbia remi‐
niscenza costruttiva della tragedia greca e di concetti aristotelici (Brignone
2011: 76‐80), mentre Jorge Lavelli, allestitore di Himmelweg in Francia nel
2007, si è riferito all’insieme delle cinque sezioni come a una costruzione
dotata di un senso musicale interno: «Una partitura en la que la organización
de las palabras y de las frases crea una resonancia, unos armónicos que
viajan y trabajan libremente» (in Sadowska 1997: 46). Non disdegnerei, tut‐
tavia, l’impronta benjaminiana sullo sviluppo di un’azione nota sin dal primo
movimento e comunque indecifrabile.
Tornando al rapporto formale tra Benjamin e la costruzione de El cartó-
grafo, è di particolare interesse la tesi XVII del suo saggio Sul concetto di sto-
ria, ove l’autore tedesco (1997: 51) si rifà alla nozione di monade, in quanto
ciò consente di precisare ulteriormente il rapporto che intercorre tra questo
specifico concetto filosofico e l’architettura della pièce: «Proprio del pensiero
non è solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto. Quando il pensie‐
ro si arresta d’improvviso in una costellazione satura di tensioni, le provoca
un urto in forza del quale essa si cristallizza come monade».29 Anche sulla
scorta di parole che Mayorga riferisce alla propria approssimazione al reale
dalla prospettiva del teatro,30 è possibile dunque richiamare il concetto leib‐

29
La presenza sporadica del termine «monade» nei materiali preparatori delle tesi Sul
concetto di storia è stata spiegata ipotizzando che in verità solo in una fase finale di elabo‐
razione del suo lavoro, Benjamin abbia sostituito con questo termine l’espressione
«immagine dialettica», più frequentemente attestata dai suddetti materiali (cfr. la sezione
«Lemmi», in Benjamin 1997: 188).
30
«Una referencia filosófica que podría ayudar a explicar lo que intento lograr en mi
teatro con esta aproximación a la realidad podría ser la idea de mónada de Leibnitz. De
acuerdo con Leibnitz, una mónada era un punto que reunía a todos los demás. Es decir, si
uno está observando algo muy concreto con mucha precisión y atendiendo a ello con
mucha seriedad, puede ver el universo» (in Gabriele 2000: 10). Come noto, Leibniz si
sforzò di conciliare la dottrina degli atomisti con la teoria scolastica della materia e della
forma, evitando il meccanicismo cartesiano e il monismo spinoziano. Per Leibniz, la
«monade» è una sorta di atomo eterno, non scomponibile, individuale, che segue leggi
proprie e riflette l’intero universo in un’armonia prestabilita (Mathieu 1976: 71‐75;
Cariati 2001: 5‐16 e 194).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 41

niziano di monade per spiegare la modalità di rappresentazione prescelta e il


ruolo che, in modo più specifico, ne El cartógrafo giocano le brevi sequenze
congelate che rimandano alle foto in cui si è imbattuta Blanca e che ne hanno
motivato la ricerca di verità (qui le foto giocano dunque un ruolo diverso
rispetto a quelle scattate dal Delegato della Croce Rossa di Himmelweg, false
quanto ciò che riprendono). Come ha ben messo in luce Mabel Brizuela, tali
«escenas congeladas y/o pantomímicas […], como mónadas, reúnen en una
visión reveladora, en una señal, los significados de todo el conjunto» (2011:
21). Rimando alla sagace ricostruzione sintagmatica delle tre linee d’azione
dell’opera (la vicenda del ghetto, il passato più recente di Deborah, il presen‐
te di Blanca), combinate con le brevi sequenze silenziose e fotografiche, che
nel suo contributo realizza Brizuela (2011); opportunamente la studiosa sot‐
tolinea il ruolo chiave, sorta di monade che consente di vedere il tutto, della
sequenza 37 (nell’edizione 2010a; nell’ultima versione corrisponde alla 35).
Una volta di più, al suo spettatore ideale Mayorga richiede un assemblaggio
delle parti che è il solo a poter dotare di senso pieno l’insieme.

3. Figure

Quanto ai personaggi dei drammi, non pare casuale che sia una figura infanti‐
le e di genere femminile a trasmettere le informazioni ne El cartógrafo. La
bambina le registra con meticoloso puntiglio e, superando le crescenti remo‐
re del nonno, prosegue la missione che le è stata affidata.
Non tutti gli adulti, invece, paiono all’altezza della propria infanzia né dei
loro figli. Un assunto che l’autore ha esplorato particolarmente in Hamelin,
opera qui richiamata attraverso l’evocazione di una serie di fiabe in un passo
che fa trasparire l’apprezzamento mayorghiano per la narrazione orale come
ponte tra le generazioni. La stessa Deborah menziona il pifferaio magico
come colui che trascina via con sé i bambini, secondo un rimando a Hitler a
cui forse non è estranea una lettura politica, non unanimemente condivisa, di
una poesia satirica di Brecht (1967: 802), dal titolo «Die wahre Geschichte
vom Rattenfänger von Hameln».31 Ne El cartógrafo il padre della bambina è
un collaborazionista, suprema esemplificazione di quella zona grigia in cui
Levi collocò le vittime trasformate in carnefici nel mondo concentraziona‐
rio.32 E hanno appunto questo colore le linee che sulla carta indicano gli spo‐
stamenti dell’uomo.

31
«Qué cuento más cruel el del flautista, ¡se lleva a los niños! Ésta es la Europa que me
enseñaron en la escuela» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37).
32
Si veda il cap. II de I sommersi e i salvati (Levi 1991: 24‐52).
42 Enrico Di Pastena

Diverso è lo statuto dei personaggi femminili. La particolare indomabilità


di queste figure, che nel teatro di Mayorga sovente si ritagliano uno spazio di
libertà interiore e di pensiero, è stata più volte osservata, ha giustamente
meritato uno studio specifico di Eduardo Pérez‐Rasilla (2010) e forse può
essere proficuamente innestata nella rivisitazione che degli stereotipi del
«femminile» stanno realizzando le ultime generazioni di autori teatrali in
Spagna.
Al cospetto della niña de El cartógrafo, la memoria torna a Rebeca, la bam‐
bina di Himmelweg, colei che porta il nome della protagonista di Ashes to
Ashes di Pinter33 e la sola, tra i molteplici attori della rappresentazione impo‐
sta ai prigionieri ebrei dalle autorità tedesche, a improvvisare gesti e parole
di aperta disubbidienza. Quella bambina intona un canto che negli allesti‐
menti dell’opera ha conosciuto diverse soluzioni melodiche e che, a conclu‐
sione del dramma, colma di accenti genuini un contenitore preteso dal
Comandante. Nella canzone è dato cogliere anche una fragile ma irriducibile
riaffermazione identitaria, che coinvolge un nucleo familiare e un’intera
comunità, opponendosi, come ho sottolineato in un altro lavoro (Di Pastena
2010), al simbolo dell’automatizzata attività distruttiva cifrata nell’orologio
che campeggia nella stazione ferroviaria della cittadina.
Mayorga ha riconosciuto di aver preferito questo finale, per ragioni morali
prima che estetiche, alla proposta di chi gli suggeriva di terminare l’opera
con le parole del Comandante nazista sulla malinconia che s’impadronisce
dell’attore una volta che la rappresentazione si è conclusa, considerazioni
rielaborate a partire da un saggio di Benjamin su Kafka e poste a suggello
della IV sezione di Himmelweg (Benjamin 1995: 302). Con quella che la pre‐
cede, tale parte consente una ricostruzione del personaggio del Comandante,
figura piuttosto complessa, come ha profusamente manifestato Manuel Aznar
(2011a: 66‐97), al quale rimando per ulteriori dettagli. Qui mi limito a qual‐
che appunto sulla caratterizzazione dell’ufficiale, che è autore e direttore di
una rappresentazione cui prende parte egli stesso, prima recependo degli
ordini e poi facendo proprio uno specifico ruolo. Il favore mayorghiano per
un’appropriazione critica della storia si intravede in modo privilegiato in
questo personaggio dalla raffinata cultura teatrale, che si dice europeo piut‐
tosto che tedesco, ripropone idee di Jünger – del quale conserva un certo ari‐
stocratico distacco – e cita strumentalmente Spinoza, Pascal e Shakespeare.34

33
Opera in cui i carnefici nazisti vengono evocati eufemisticamente come guide dalla
memoria traumatizzata della protagonista (Pinter 1997: 15 e 17; l’originale è dell’anno
precedente).
34
Davide Carnevali ha sottolineato che a differenza della maggior parte delle figure
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 43

Non stupisce la sua ossessione di controllo scenico – «[Usted, Gottfried]


busca la vida en las palabras, pero la vida no está en las palabras, sino en los
gestos con que las decimos» (Mayorga 2011a: 159) –, né la sua strategia insi‐
nuante – «Ellos no son como nosotros, como ustedes y yo», dice degli ebrei
(2011a: 149) –, né il suo delirio di onnipotenza appena velato da un’ombra di
nichilismo. Se qualcosa lo contraddistingue è l’affermazione per cui tutto sia
possibile – «Todo es posible» (2011a: 151) –, la stessa che ne La tortuga de
Darwin Harriet attribuisce a Hitler (Mayorga 2008a: 39 e 42‐43). L’insi‐
nuarsi, solo momentaneo, del sospetto che il suo stesso monologo, o parte di
esso, sia un ulteriore tassello della recita di cui vediamo varie prove non
toglie che questo lemma supponga il pericoloso abbattimento di ogni argine
morale, in nome della condizione aurorale di una nuova epoca, preannuncia‐
ta da Nietzsche e riecheggiata da Heidegger e Jünger. A turbare nella figura
del militare è dunque la condizione di centauro, l’impasto di sensibilità arti‐
stica, coscienza intellettuale, freddezza emotiva e amoralità. Rappresentante
di un nazismo non tratteggiato comodamente come mera inciviltà, risulta
una inquietante dimostrazione dell’idea per la quale un sapere svincolato
dall’etica può confinare con la barbarie. Ha dichiarato Mayorga: «Si el espec‐
tador protesta o decide salirse del teatro para no escuchar al nazi, ese gesto
es parte de la representación» (in Aznar 2011b: 272), evidenziando come il
destinatario abbia il diritto di non tollerare il manifestarsi delle idee di un
individuo che si è posto al di là di ogni preoccupazione morale. Con le dovute
proporzioni, l’autore si cimenta in un’affine prova prospettica quando in JK
presenta la narrazione, in sordina, degli ultimi giorni di Benjamin culminati
nel suicidio a Port Bou, per bocca di uno dei suoi persecutori.
E veniamo alla figura del Delegato della Croce Rossa di Himmelweg, uomo
volenteroso che si dice mosso da uno spirito filantropico. Il suo monologo, in
apertura, comunica le coordinate della vicenda e ne trasmette da subito gli
eventi principali, giocandosi su un doppio versante: l’ora e l’allora, il campo
del presente e l’evocazione di come apparve. Si potrebbe quasi affermare che
l’intero monologo si propone come una sorta di correzione del rapporto,
erroneo, stilato dall’uomo durante la guerra. Un secondo rapporto, tardivo e
inservibile. Pur non dimenticando che nel dramma di Mayorga quel che sap‐
piamo dell’emissario ci viene comunicato attraverso le parole del diretto
interessato, è facile cogliere, nei sogni ossessivi che gli si presentano, il tor‐
mento che lo lacera.35 Un paio di implicazioni vorrei sottolineare tra quelle

precedentemente apparse nelle opere di Mayorga, e in analogia con il filosofo tedesco de


El traductor de Blumemberg, «non ci troviamo più di fronte a un intellettuale che lotta
contro il potere, ma a favore del potere» (2010: 217).
35
«Hago este camino cada noche. Cada noche sueño que camino por esta rampa y
44 Enrico Di Pastena

insinuate nel testo: in primo luogo, il Delegato ha in comune, almeno in modo


approssimato, un tratto (l’età) con il Comandante nazista. Se le differenze
(più umile estrazione sociale e livello culturale inferiore) contribuiscono a
spiegare che ne venga, in certa misura, soggiogato (o raggirato) – sebbene
non bisognerebbe dimenticare il diverso rapporto di forza esistente tra un
Comandante delle SS e un emissario della Croce Rossa –, quella similarità
favorisce, a mio avviso, un abbozzo di comparazione tra il carnefice e il suo
involontario complice. Questo non significa che non esistano evidenti diffe‐
renze di grado nelle responsabilità di ciascuno, anche se si volesse ricordare
la fugace incrinatura che fa dire al Comandante (il suo interlocutore è
Gottfried): «Por un momento, pensé que intentaríais algo, que os pondríais a
gritar o algo así. ¿Me creerás si te digo que, por un momento, deseé que lo
hicieseis? Yo mismo tuve ganas de gritar» (Mayorga 2011a: 168).
D’altro canto, e in seconda istanza, il fatto che il Delegato venga caratteriz‐
zato come un uomo ordinario, affatto perverso e persino animato da buone
intenzioni, in certo modo rende più percorribile la scomoda identificazione
da parte del destinatario dell’opera con l’emissario della Croce Rossa. Non è
innocente che, in taluni allestimenti di Himmelweg, il Delegato entri in scena
muovendo dalla platea e dunque erodendo il confine che corre tra interpreti
e pubblico.36
Alle molte parole iniziali del Delegato di Himmelweg possiamo opporre la
reticenza conclusiva di Deborah – e con ciò mi avvio io stesso alla conclusio‐
ne –. Mi riferisco all’affermazione per la quale l’anziana nega di essere l’autri‐
ce della carta del ghetto. La dolente Blanca desidera che lo sia, in qualche
misura ha bisogno di crederlo, per coronare la propria ricerca. Ritrovare la
carta o la sua autrice equivale per lei a riscattare l’una o l’altra dall’oblio e
conferire significato al dolore che ha portato a tracciarla.
Diversi indizi porterebbero a credere che l’anziana Deborah e la nipote del
cartografo siano la stessa persona: la donna ha risieduto nel ghetto, è soprav‐
vissuta all’esperienza, aveva un nonno cartografo, è divenuta una cartografa
ella stessa e soprattutto dice che, in una sorta di gioco, «trasformava» in car‐
tine le fiabe raccontatele dall’anziano, cosa che in effetti abbiamo visto fare a
suo tempo alla bambina. Perché nega dunque? Forse perché non vede alcuna
utilità nell’ammettere la sua identità;37 o, a un livello più profondo, perché la

llego ante la puerta del hangar. La abro y aquí están, sonriendo, esperándome, Gottfried y
todos los demás» (Mayorga 2011a: 139).
36
Mi riferisco in particolare alla messa in scena presso il Royal Court di Londra (la
recensisce Heras 2005).
37
«No me gusta hablar de ello. Pero lo hago cuando hablar de ello sirve» (Mayorga
2012: 35; 2010a: 37).
La forma della memoria. La Shoah nel teatro di Juan Mayorga 45

sua condizione di sopravvissuta rimane indecifrabile per lei stessa, il suo


dolore impenetrabile e la sua esperienza, di nuovo, al di là della dicibilità. Di
traduzione, del resto, si parla in quest’opera come in Himmelweg; nella diffi‐
coltà della resa traduttiva sta pure una mise en abîme della impervia condi‐
zione di ogni parola sulla Shoah. Nella fantasmagorica El traductor de
Blumemberg si ricorderà quanto il dilemma di trasmettere o meno il verbo di
un pensatore nazionalsocialista tormenti chi avrebbe dovuto trasportarlo in
un’altra lingua. Che Deborah si sottragga alla ricerca di Blanca è un modo di
affermare la difficoltà a conferire un senso all’accaduto, riecheggia la fatica di
più di un sopravvissuto a richiamare gli eventi. Questo anche se, a ben guar‐
dare, lo status che sfiora l’ineffabilità ha infine meno a che vedere con la
Shoah che con la condizione umana, ora che la stessa Deborah è al crepuscolo
della sua tormentata esistenza: «Todo va a borrarse, la cabeza es como un
mapa rodeado de agua, un papel que quiere deshacerse. Lo último que se
borrará es lo que nadie podría dibujar» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37).
L’altra possibilità, decisamente più remota ma per certi versi quasi più
suggestiva, è che effettivamente Deborah non sia la bambina che sfidò le
avversità e la verosimiglianza e riuscì a completare la carta di un mondo che
stava per essere cancellato. Nella prima parte di una delle battute più estese
che il personaggio proferisce all’interno dell’opera, Deborah dice: «¿Qué
importa si la niña existió o no? Pudo existir» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37).
Si tratta di una trasparente eco della Poetica aristotelica, nella sezione, la IX,
in cui il filosofo assegnava al poeta il compito della ricerca dell’universale e di
ciò che avrebbe potuto essere, decretando la supremazia della poesia sulla
storia (Aristotele 1974: 31). Ebbene, in quella frase – «poté essere» – si può
ancora cifrare la poetica intera di un teatro storico, e anche la sua ambizione
di colmare alcuni dei vuoti che la storia ci consegna.
Di contro alla parola che non dice, in un teatro che è della parola, ritrovia‐
mo l’affermazione polisemica del gesto, come accade in altri finali firmati da
Mayorga: la bambina riappare al di qua delle nebbie del tempo e solleva una
mattonella e un’altra e un’altra, fino a rivelare l’esistenza di un disegno, di
una mappa. È scoperto il suggerimento: per arrivare a una qualche forma di
verità occorre travalicare la superficie, sollevare un velo, forse scavare.
L’anziana Deborah aveva detto: «No basta mirar, hay que hacer memoria, lo
más difícil de ver es el tiempo» (Mayorga 2012: 35; 2010a: 37). Il delegato
della Croce Rossa avrebbe sostenuto che la cosa più difficile da vedere è la
verità, e la sua accecante evidenza. Qualcosa è stato celato sotto un pavimen‐
to, per preservarlo da una furia distruttrice. Ma quella velatura evoca qualco‐
s’altro: le macerie di una civiltà sono appena sotto la pavimentazione di
un’altra. La base di una convivenza autenticamente rinnovata è possibile gra‐
zie all’affioramento di quelle macerie, che forse aiuteranno a costruire edifici
nuovi. Si tratta pur sempre d’un finale che contiene una venatura consolato‐
46 Enrico Di Pastena

ria, un’ombra di speranza, l’illusione – e anche l’orgogliosa affermazione –


che il teatro possa riscattare per il presente un disegno che la storia a suo
tempo ha negato, e divenire esso stesso quella carta a lungo sospirata e forse,
in realtà, mai tracciata.

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